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Specie di Spazi (dialoghi sulla soglia del dubbio)

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Un programma di Teatro India – Teatro di Roma

 

 

 

Specie di spazi” è un programma radiofonico, ideato da Fabio Condemi all’interno di Radio India e ispirato all’omonimo libro di George Perec. Invece che ospitare un resoconto debilitato, ho voluto raccogliere in questa pagina un prolungamento delle concatenazioni; un getto di voci, ulteriormente montate, portate oltre il luogo delle contingenze.

Se esiste una forza concreta della pandemia -da innestare nel teatro-,  essa dovrà trovarsi proprio nel moto pandemico delle idee, ovvero in quella peste citata in uno degli interventi qui sotto. ”Specie di spazi” sfugge ad ogni puntata il pericolo dell’arenamento; non è un riempitivo per il tempo dell’attesa, ma semmai un anticipo su quel tempo verso cui ogni attesa potrebbe tendere: tempo pieno proprio perchè bucato; tempo che scarta ogni direzione di tempo; tempo in cui, oscillando tra labirinto e labirintite, si producono sfasamenti in grado di far toccare cose lontane, e sciogliere così le distanze irrimediabili.

 

Giorgiomaria Cornelio

 

 

ANTICIPO

 

«labirinto, strumento immune da stagioni e da ragioni, e senza sonno,

senza prima e senza dopo, senza uscita né entrata,

senza parola plebea e senza silenzio-limite, senza incendio né fama, senza opera,

senza opacità nel drenaggio di rivelazione pietrificata».

 

(Emilio Villa)

 

 

FABIO CONDEMI

 

A volte riascolto le puntate di “Specie di spazi” e cerco, sul computer o sui libri, immagini evocate durante i vari episodi: opere d’arte, foto di luoghi, immagini di artisti, mappe, architetture, film etc… e  penso che sia un peccato che la radio non offra l’opportunità di vederle mentre se ne parla. Altre volte, improvvisamente, mentre leggo o passeggio, mi viene in mente un argomento, un testo o un luogo che non è presente nelle puntate. Insomma, mi rendo conto che in “Specie di spazi” c’è sempre qualche cosa che manca. Poi penso a Perec,  al tassello mancante del puzzle di cui parla in “La vita istruzioni per l’uso” e mi rendo conto che, in fondo, è quello il pezzo più importante, e che questi vuoti, queste linee scure tra una puntata e l’altra, tra un intervento e l’altro sono i veri spazi del programma, sono dei salti che consentono ad ogni ascoltatore di tracciare linee e percorsi in libertà e continuamente e di attraversare in modi diversi queste 10 ore di materiali.  E allora mi sento più sereno e penso che io, Alessandra Cimino (che ha curato il montaggio di tutte le puntate), Gabriele Portoghese (che ha partecipato al  programma come lettore e consulente musicale)  e tutti gli ospiti e le voci di “Specie di spazi” abbiamo tracciato legami invisibili fatti di richiami e di esercizi utili a stare attenti perché come scrive Perec, ‘lo spazio è un dubbio’.

 

[Fabio Condemi, regista teatrale e ideatore di “Specie di spazi”]

 

Uno schizzo preparatorio di Aldo Rossi

 

 

CHIARA FAGONE

 

Quando nel gennaio del 2018 pubblicavo “Geografia di un interno – luoghi dell’abitare e ricerca artistica tra memoria e sperimentazione”, un lungo lavoro di ricerca sulle stanze e sull’abitare, non avrei mai immaginato che questo tema della stanza, questa geografia intima del  quotidiano, diventasse davvero il limite di un nostro personale universo. Un confine con l’esterno obbligatoriamente vissuto come un nuovo perimetro esistenziale, in un mondo divenuto inaspettatamente distopico.

Così quando è arrivata la richiesta di Fabio Condemi di collaborare al progetto “Specie di spazi” per Radio India, mi sono trovata a ripensare alcune angolazioni della questione, a partire dalla traccia di Georges Perec. Ho subito pensato come il sottotitolo del celebre saggio: “vivere è passare da uno spazio all’altro senza farsi troppo male”, appaia oggi quasi come una profetica verità.

Perec ha sempre attribuito all’architettura, allo spazio domestico e agli oggetti che ne fanno parte, un ruolo essenziale per la comprensione dell’esistenza umana; riflessioni sull’abitare tramite di una chiave interpretativa del mondo.

Credo che il merito di Perec, al di là delle sue straordinarie sperimentazioni linguistiche, sia stato proprio quello di avere spostato la pratica dell’abitare in un contesto ‘altro’; in una serie di piani insieme inediti e immediati. Una dimensione differente da quella del pensiero urbanistico, sociologico o progettuale dell’architettura. Una dimensione riguardante la vita.

La  sequenza che ha inizio dal perimetro della pagina in “Specie di spazi”, per definire poi una vera progressione di luoghi, attraverso il letto, la stanza, l’appartamento, fino ad arrivare alla scala del mondo e insieme l’idea di creare una sovrapposizione tra racconto e architettura, come nel romanzo “Le cose”, e soprattutto nel “La vita istruzioni per l’uso”, indicano una prospettiva ancora estremamente coinvolgente.

Se in “Specie di spazi” a strutturare il volume è un movimento in progressione dimensionale che coincide con un’apertura verso l’esterno, nel romanzo “La vita istruzioni per l’uso”  il disegno è quello di un intricato ‘puzzle’, rigorosamente progettato tramite regole; nel testo l’architettura  si fa romanzo, la sua impalcatura è proprio quella articolata e strutturata come un edificio, per piani, per appartamenti, per ambienti. A ricostruire storie che sovrapponendosi assumono una fisionomia sociale, una memoria collettiva, come in una sorta di scacchiera. Così è stato anche in questo progetto che grazie a Fabio Condemi  ha preso vita.

Dai letti di Jasper Johns, Sophie Calle,Tracey Emin e Félix González-Torres, agli interni di Gregory Crewdson o In Sook Kim o ancora nelle visionarie stanze di Sandy Skoglund e Lori Nix, e attraverso le installazioni di Ragnar Kjartansson, ho scelto di  raccontare le sperimentazioni degli artisti contemporanei seguendo il ‘tracciato’ di Perec. E poi, superato il confine della casa, la narrazione ha riguardato  la street art newyorkese di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, la città e l’immaginario della metropoli da Verne a Wrigth, per concludere la mia personale partecipazione con una nota sulla comunità vegetabilista del “Monte Verità”.

“Specie di spazi” ha dato voce a una pluralità di contributi e letture, analisi e suggestioni, con prospettive e ritmi differenti, in una bellezza di sonorità che riempivano spazi e distanze.  Un’esperienza che rimane e che sicuramente non dimenticheremo.

 

[Chiara Fagone, architetto,  titolare delle cattedre di Storia dell’arte moderna e Fenomenologia dell’arte contemporanea presso la Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano]

 

 

ALESSANDRO MAGINI

 

Già il fatto di concepire una trasmissione modulata su “Espèces d’espaces” di Perec mi è parso un bel modo di costruire una riflessione polifonica intorno alla realtà del nostro vivere. E non mi meraviglia che questa idea sia venuta proprio a Fabio Condemi, del quale apprezzo l’ampiezza degli orizzonti culturali ed una rara sensibilità artistica. Quando Fabio mi ha proposto di intervenire nella trasmissione sono andato ad ascoltare le puntate fino ad allora registrate e sono rimasto colpito dalla coerente naturalezza con la quale tanti argomenti venivano affrontati e tenuti insieme. Ho pensato che l’équipe che stava costruendo questo progetto offriva una bella testimonianza della vitalità con la quale un gruppo di giovani sapeva reagire a situazioni complesse, mettendo in campo idee e competenze non scontate. Nel generale panorama di una comunicazione troppo spesso piatta e banale, questa nuova “coralità radiofonica” mi è parsa una ventata di aria fresca che dà vitalità e senso alla divulgazione, ponendo stimolanti inviti alla riflessione su come guardare e ascoltare diversamente la realtà del vivere quotidiano. Seguendo i capitoli del libro di Perec, la trasmissione conduce gli ascoltatori dalla dimensione privata dell’abitazione a quella condivisa degli spazi aperti. I miei due interventi si collocano nelle puntate dedicate al quartiere e alla campagna. Con Fabio ho concordato allora di proporre una lettura dell’architettura e dalla natura attraverso l’esperienza musicale; in pratica un invito ad “ascoltare” strutture architettoniche e paesaggi attraverso testi e partiture che offrono particolari prospettive di osservazione e inusuali modi di interpretare e di vivere gli spazi del nostro esistere. E’ stato un vero piacere collaborare con Specie di spazi e spero sinceramente che trasmissioni del genere, così come il contesto di Radio India che le ospita, possano ulteriormente svilupparsi per dare voce soprattutto alle tante giovani “intelligenze” che fortunatamente continuano ad esistere.’

 

[Alessandro Magini, compositore, musicologo, insegnante presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica]

 

 

MAURO SANTINI

 

L’invito di Fabio Condemi a partecipare a “Specie di spazi” su Radio India mi ha portato, guardando a ritroso, a scoprire quanto Georges Perec sia da sempre presente nei miei film, dagli inizi fino alla quinta passeggiata, girata proprio nei luoghi della sua infanzia. Non avevo mai fatto radio finora e raccontare senza immagini ha rappresentato una sorta di terapia: mi ha infatti liberato dalla afasia nella quale mi sono beatamente segregato per vent’anni circa. Il ritorno alla parola (ancor più, alla parola detta e non solo scritta) mi ha come svegliato da questo lungo torpore, spingendomi ad utilizzarla anche in un nuovo progetto filmico che sto realizzando. E poi è stato bello recuperare suoni da trasmissioni radiofoniche o da vecchi documentari, confonderli con sequenze di miei film, leggere estratti da perec, mescolare ed organizzare il tutto coi tempi ed i modi del radiodramma: una vera avventura, che già mi manca…

[Mauro Santini, filmmaker. Realizza i suoi film documentando il quotidiano in una forma diaristica, caratterizzata da un racconto visivo in prima persona]

 

 

 

 

LUCAMATTEO ROSSI

 

 

È stato sufficiente abitare uno spazio e divenirne abitati per comprendere che è necessario farla finita con il teatro, che non è sufficiente fare spettacoli e riprodurli in rete. Forse l’intelligenza di Radio India e del programma “Specie di Spazi” di Fabio Condemi consiste proprio nel dimostrare che il teatro può accadere anche fuori dal teatro e al di là delle contingenze, attraverso una visione molteplice che tiene conto di diverse forme d’arte (tra queste la letteratura, il cinema, la musica) per rintracciare e creare nuove connessioni tra materiali e tra persone. Quello di “Specie di Spazi” è per me il teatro della voce, prova flagrante di come parlare della camera, dell’appartamento, del palazzo o della città -per fare soltanto alcuni degli esempi, tutti suggeriti da Perec, ed esplorati nel corso delle dieci puntate- significhi lasciare una traccia in chi ascolta attraverso la voce. Non mi pare sia abitudine fare e studiare teatro disinteressandosene. Il Teatro India ha avuto con Radio India il coraggio di esplorarenuove possibilità durante una pandemia e senza conforti; non ha proposto spettacoli per intrattenere il tempo, ma ha avuto l’audacia di continuare a mettere insieme persone e di praticare un cambiamento. La peste, che Antonin Artaud indentificava proprio con il teatro, è il momento in cui si attualizza un cambiamento nella persona e nella società tutta. L’esperimento di “Specie di Spazi” e Radio India è un “Decameron” che -come l’opera di Boccaccio- è per me un riferimento per chi si (dis)occupa di teatro.

 

[Lucamatteo Rossi, cineasta e teatrante. Studia al Trinity College di Dublino]

 

 

FRANCESCO FIORENTINO

 

Ogni spazio nasce in fondo da un atto poetico, di creazione. E ogni spazio può fare filosofia, oppure letteratura, oppure arte, oppure musica. Nel senso che può far nascere un nuovo modo di pensare, di scrivere, di dipingere, di cantare.

 

[Francesco Fiorentino, professore ordinario di Letteratura tedesca all’Università Roma Tre]

 

 

FABIO CHERSTICH

 

”Specie di spazi è stato per me come un lento movimento di macchina, un film sperimentale sapientemente diretto da Fabio Condemi. Una carrellata all’indietro che a partire da uno schermo bianco – la pagina bianca del libro di Perec protagonista della prima puntata – rivela una serie di luoghi che dall’essere privati e chiusi si fanno pubblici, finalmente vasti, come gli spazi presentati nell’avanzare delle puntate.Questo movimento di macchina che si allontana da uno schermo bianco rivela un letto sfatto, poi una stanza. La telecamera esce da una finestra e rivela un palazzo, continua la sua marcia a ritroso alzandosi in volo. Ecco apparire la pianta di un quartiere e infine la città, la campagna, il cielo lo spazio. E’ un movimento che racconta in una forma semplice e poetica anche il nostro essere stati a casa per poter poi finalmente riappropriarci con cautela degli spazi esterni, comuni.Io stesso ho scritto i miei interventi e seguito le puntate prima chiuso nella mia stanza, alla scrivania, poi a letto, in soggiorno, al parco, in treno, finalmente in viaggio, in questo momento sto scrivendo dalle montagne del Friuli, lontano da quella camera nel centro di Milano dove sono rimasto chiuso per settimane fortunatamente in compagnia di spazi reali e mentali.”

[Fabio Cherstich, regista, scenografo e curatore]

SPECIE DI SPAZI
“Specie di spazi”, un programma a cura di Fabio Condemi; montaggio puntate di Alessandra Cimino; letture e consulenza musicale di Gabriele Portoghese
Con: Giorgiomaria Cornelio, Lucamatteo Rossi, Domenico Ingenito, Chiara Fagone, Fabio Cherstich, Francesco Fiorentino, Industria Indipendente, Daria Deflorian, Valeria Almerighi, Nicola Ingenito, Mauro Santini, Rocco Lo Russo, Alessandro Magini, Elena Rivoltini, Andrea Acerbi, Giacomo Bisordi, Davide Pascasrella.

 

Contributo di Mauro Santini

S.P.Q.R.S.T.U.V.Z.

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Sono Proprio Questi i Romani?

(a proposito della loro storia speciale)

di

Gigi Spina

 

Non so, e non ho voglia di informarmi, se mai sia stata resa con una formula interrogativa la famosa sigla SPQR sulla quale si sono e ci siamo sbizzarriti sin dai banchi di scuola, in genere in forma assertiva e perentoria, una volta scelta la voce verbale Sono (terza plurale, non cartesiana) come nascosta sotto la S. La P ha autorizzato aggettivi i più vari e fantastici, in genere connotanti in forma ironica e sfottente, se non affettuosamente dispregiativa. E poi Questi Romani, con la forza del deittico, ne ha testimoniato la permanenza ostinata, forse lo stesso non poterne fare a meno.

La domanda sorgerebbe spontanea, ma con una sostanziale risposta affermativa (magari anche Questi), una volta terminata la lettura del vivacissimo libro di Giusto Traina, La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani, Laterza, Bari-Roma 2020.

In realtà, dopo la fortunata stagione dei libri sulle lingue e le culture classiche che si sono affollati dal 2016, contribuendo anche al dibattito sul liceo classico e sulla prova di traduzione, sembrava che ci fosse un momento di pausa. Li elenca in gran numero e ne parla Silvia Stucchi, nell’introduzione (Studiare latino: un incubo o un’opportunità) al suo volume Come il latino ci salva la vita, Ares, Milano 2020, uscito contemporaneamente a quello di Traina, a segnare forse una ripresa anche se unidirezionale (latino e Roma) di quella riflessione. Salvare la vita potrebbe significare non poterne fare a meno. Se alla vita si è attaccati, naturalmente. Ma si tratta di due libri diversi. Quello della Stucchi, legato a un’esperienza di ricerca e didattica universitaria e anche di didattica scolastica, affronta con metodo e competenza i vari aspetti della cultura latina, letti e approfonditi con il filtro delle domande moderne, dei possibili intrecci fra somiglianze e profonde diversità: quella che potremmo definire la vita quotidiana delle culture antiche. Una panoramica ampia e ricca anche di dettagli, che sicuramente servirà di supporto a molti percorsi e incursioni nel mondo degli antichi romani.

Il volume di Traina si presenta, innanzitutto graficamente, al primo impatto visivo con la copertina, come allusivo a uno dei successi indubitabili (per numero di copie vendute, per diffusione internazionale e forse anche per inevitabili polemiche) della stagione prima descritta: il volume di Andrea Marcolongo La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, stesso editore, 2016. D’altra parte, nella prima delle Adnotationes (p. 175 s.), Traina spiega il possibile rapporto ‘genetico’ fra la Lingua geniale e La storia speciale – ricordo che proprio Andrea Marcolongo ha scritto una delle prime recensioni, molto numerose e positive, del volume di Traina, su tuttolibri della Stampa.

D’altra parte, basta cominciare a leggere, anche solo sfogliando l’indice dei nomi e l’indice generale, per capire che ci si trova di fronte a uno di quei libri e autori che, indipendentemente dall’argomento, scelgono di non nascondersi e di presentarsi con tutti i riferimenti espliciti alla propria presenza nella cultura moderna. Allora torno con la memoria a una recensione che scrissi al volume di Maurizio Bettini I classici nell’età dell’indiscrezione. Parliamo del 1995 (Einaudi, Torino); la recensione uscì sui Quaderni di Storia (43, 1996, pp. 325-329). Annotai questo particolare:

In una recensione filologicamente rigorosa non dovrebbe mancare una critica al fatto che il volume è privo di un indice dei nomi. Ma mi sembra di capire che si tratta di una scelta e non di una dimenticanza. Si racconta, infatti, che in un recente convegno sull’intertestualità greca e latina sia stato pronunziato, durante un intervento, il nome di Francesco Guccini. Sembra anche che un austero filologo sia stato visto sobbalzare sensibilmente. Ora, nel volume di Maurizio Bettini, filologo, antropologo e ‘curioso’ a tutto campo, si possono leggere, non raccolti in indice, i nomi di Maurizio Costanzo, Fabiolo, Marcello Mastroianni, Walt Disney, Aldo Biscardi, Antonio Di Pietro, Renzo, uno degli ultimi barbieri (figura tipicamente plutarchea e ateniese) chitarristi d’Italia ecc. ecc. C’è anche un nome inventato (per confessione dello stesso Bettini, p. 9 n. 3), Eleanor Sherving, che non è, dunque, la protagonista del film Fabiola.

Ecco, mentre confesso, ma non è la prima volta, che fui io a pronunziare il nome di Guccini in quel convegno, devo constatare che qualcosa è cambiato, e credo positivamente, negli ultimi 25 anni, se è vero che nell’indice dei nomi Traina può tranquillamente annoverare Astérix, guerriero gallico; Berlinguer, Luigi; Berlusconi, Silvio; Blasetti, Alessandro; Cattivik (uaz! uaz!); Di Canio, Paolo; Di Maio, Luigi; Johnson, Boris; Lombroso, Cesare (mai troppo lodato); Massenzio, imperatore (o usurpatore a seconda dei punti di vista); Obélix; Taylor, Johnnie; Zingaretti, Nicola ecc. ecc.

Dunque un volume sicuramente spigliato e divertente, dedicato, fra gli altri, alla signora Giuliana Longari, anzi Toro in Longari, eroina di Rischiatutto.

Potrei definirlo un volume meritoriamente divulgativo, se non sapessi che la pratica della divulgazione necessita ancora di un aggettivo, alta, per poter essere ammessa nel sempre più ristretto empireo dell’accademia giudicante (non mancano esempi recenti nelle valutazioni per la docenza universitaria). La divulgazione senza aggettivi, invece, se è tale, è l’unico debito che la ricerca può pagare alla comunità che la sostiene, offrendo continuamente i risultati delle proprie acquisizioni in una forma e un linguaggio alla portata del maggior numero di lettori e lettrici. Soprattutto in un momento in cui la divulgazione che fanno giornali, reti televisive e social è spesso (spesso, non dico sempre) rovinata dalla fretta, dalle esigenze di audience, dalla sciatteria, dalla incompetenza di cattivi comunicatori. Col rischio, dunque, che alcuni utili risultati di ricerche, in tutti i campi, siano schiacciati fra circolazione elitaria e sofisticata e circolazione vasta e inefficace.

Giusto Traina affronta invece di petto il problema. Innanzitutto nella ripartizione dei capitoli, con titoli tutti affidati a frasi celebri e diffuse della cultura romana, di quelle che troviamo spesso nel linguaggio dei giornali e delle personalità in vista, non solo politiche. Sono in tutto XVII (numerazione rigorosamente romana), cioè diciassette capitoli con le Adnotationes finali, che forniscono al lettore, senza un sistema di note definito e numerato ad hoc, verrebbe da dire, cioè né a piè di pagina né in fondo al volume, i riferimenti bibliografici, gli autori delle citazioni criptiche, insomma quell’insieme di detti e fatti da spiegare meglio su cui ci si sarà interrogati durante la lettura. Un sistema, questo, che ha preso molto piede nei libri, appunto divulgativi, perché evita che il flusso di scrittura/lettura venga continuamente interrotto dal rinvio alla nota (a una lettura, cioè parallela e anche scomoda se piazzata in fondo al volume) e in qualche modo costringe lo scrittore a contenersi, a essere sempre chiaro, esauriente, mai ammiccante o allusivo. Quando si arriverà a limitare la nota al solo, spesso necessario, breve e puntuale rinvio bibliografico (anche per evitare di essere accusati di plagio) e si riuscirà a trasformare in scrittura organica interna al testo la riflessione minuta della nota, forse si sarà fatto un passo in avanti nel rapporto fra chi scrive e chi legge. Osservo, intanto, positivamente che, nella situazione di isolamento durante la pandemia, il volume di Giusto Traina ha visto anche una utile diffusione on line di interviste, presentazioni, dibattiti, suggerendo un modo sicuramente proficuo da riadattare anche in condizioni di normalità.

Ma torniamo ai capitoli: al terzo posto troviamo il nostro S.P.Q.R. Trovo opportuno, però, citarli tutti, anche perché, attraverso queste pillole sentenziose si compone il quadro del percorso indicato da Giusto Traina nella storia speciale. I passaggi da un capitolo all’altro sono spesso televisivi (inutile spiegare) o fàtici, cioè capaci di riferirsi al rapporto con chi sta leggendo in quel momento. Del tipo: c’est plus facile; non cambiate canale; se voltate pagina; lo vedremo nel prossimo capitolo. O forse no; Difficile da dire, diamo comunque un’occhiata; Peccato che non ci sia più spazio per raccontare anche questa storia, ma perché non darne almeno un piccolo assaggio?; Ma le pagine scorrono, ed è giunto il momento di congedarsi; E finisce qui. Exeunt omnes.

Che è la fine del capitolo XVII, intitolato, qualcuno/a l’avrà indovinato: Exeunt omnes.

Torniamo ancora una volta all’inizio. De te fabula narratur, giustamente incipitario, perché il te siamo noi, noi moderni, almeno noi europei, ma non solo; perché quando si dice Romani non è lo stesso di quando si dice Greci: i Greci delle varie città sono ciascuno straniero all’altro, i Romani tendenzialmente no. E quindi se è di noi che si parla e si racconta, Giusto (lo conosco, posso permettermelo) ci tiene a stabilire parentele, affinità e anche idiosincrasie: gli ellenisti sono cuginastri; cugini, invece gli antropologi, che però non lo convincono del tutto. II. Historia magistra vitae, che naturalmente vale una volta che si sappia cos’è la storia, come la si possa raccontare da contemporanei e, soprattutto quando, come Giusto, non si è proprio ciceroniani. Mi viene da riflettere: a noi ci ha rovinato Zemeckis, con Ritorno al futuro. Perché aver immaginato di poter vagabondare avanti e indietro nel tempo dà poteri impensabili, capacità censorie ingolosenti (per dirla con i cronisti di tennis), impunità protette. Giusto si sottrae a questi pericoli, pur sapendo viaggiare bene nel tempo, perché si basa su un’ottima lettura delle fonti e su un non malcelato orgoglio del mestiere di storico. IV. Civis Romanus sum, che serve a non fare confusione sul ius soli e a non abusare della storia antica. V. Aut Caesar aut nihil, motto tre-quattrocentesco, che forse in questi giorni di iconoclastia serve a tenere i piedi bene per terra, pensando a come è cambiato nel tempo lo stesso concetto di rivoluzione. VI. Roma caput mundi, ovviamente fra elogio e vituperio. Ecco, a voler essere pignolo, nella adnotatio a questo capitolo avrei aggiunto ai riferimenti felliniani R. De Berti, E. Gagetti, F. Slavazzi, Fellini-Satyricon. L’immaginario dell’antico, Cisalpino, Milano 2009. VII. Si vis pacem, para bellum, capitolo affascinante per i continui vai e vieni tra passato e futuro (dei Romani) e soprattutto per la facile constatazione che essere contro la guerra non impedirà mai di essere polemici (in senso questa volta greco). VIII. Homo sum: humani nil a me alienum puto, che messo in connessione col capitolo precedente sembra stridere, ma solo per chi non abbia letto anche il bel volume Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, del cugino Maurizio Bettini (più che cugino, perché latinista oltre che antropologo). IX. Graecia capta ferum victorem cepit, famoso verso oraziano che, adattato all’autore che, come si sa, insegna alla Sorbona e vive in Gallia, potrebbe essere riletto come: la Gallia, una volta sottomessa, ora può assicurare il magistero al vincitore di allora, pur essendo nel tempo stato sconfitto (mi riferisco alle guerre mondiali, naturalmente). Al di là della battuta su possibili e residui sciovinismi nazionalistici, è il capitolo che serve meglio a orientarsi e a dare strumenti critici anche nelle odierne contese fra culture, fra antichi e moderni, fra colonizzatori e colonizzati, fra abitanti al di qua e al di là degli oceani, e quindi ecco subito: X. Mare nostrum. Che si collega a XI. Imperium sine fine e alle alterne vicende di un impero in espansione ma non immune da sconfitte e disastri, come quello indicato nel XII. Vare, Vare, redde mihi legiones! Impero che presentava come altro lato della medaglia (o del sesterzio, se vogliamo essere più precisi) il bisogno di un’identità ristretta e forse sicura: XIII. Ubi bene, ibi patria. Ci avviamo alla conclusione, segnalando monumentali esperienze e competenze concrete: XIV. Fabricando fit faber, con la ripresa delle discussione sulla “idea pessimistica di una stagnazione tecnica e scientifica dei Romani”, cui Giusto è particolarmente attento avendo curato importanti repertori di letteratura scientifica e tecnica greca e romana. Anche per XV. Pro aris et focis possono valere studi recenti che hanno indagato sul politeismo antico, sulla accoglienza delle divinità altrui e sul reale peso della religione con tutti i sui riti e le sue pratiche nella vita sociale. Senza fare a meno di ricordare che “a un certo punto l’impero romano divenne cristiano e moltissime cose (ma non tutte) cambiarono”. E fu proprio un “dottissimo autore cristiano di origine balcanica”, Girolamo, santo protettore dei traduttori, a chiedersi XVI. Quid salvum est, si Roma perit? “Rise and Fall” è la formula più spesso usata per segnalare la caduta di qualcosa che è stata in auge, come un Impero. Anche se oggi, spesso, varrebbe come formula di resilienza, parola cara a Giusto, quella inversa: “Fall and Rise”. Ma è giunto il momento già annunziato del XVII. Exeunt omnes e, quasi con una composizione ad anello, si esce perché è ancora di noi che si torna a raccontare, come nel primo capitolo.

La lingua dei Romani sembrava ad alcuni di loro povera rispetto alla greca, a un altro, invece (ma non lo nomino, perché non proprio simpatico a Giusto), perfettamente capace di rendere il pensiero di un’altra cultura. Aveva certo, rispetto alla famosa lingua geniale, alcune carenze: mancava il duale, eppure avevano escogitato i due consoli. E mancavano gli articoli, il che mi ha consentito di ipotizzarne uno e di inserirlo nella formula del titolo. Perché Quintiliano, il famoso maestro di retorica, ispanico di Calahorra, usava una bellissima metafora per sottolineare l’assenza degli articoli nel confronto col greco: noster sermo articulos non desiderat ideoque in alias partes orationis sparguntur – la nostra lingua non ha bisogno degli articoli: li ritroviamo diffusi in altre parti del discorso. La loro funzione si espande e si rivela altrove. Quindi i Romani ne potevano fare a meno. Anche se noi, secondo Giusto, non possiamo fare a meno dei Romani.

Forse l’ultimo passo laico da compiere consisterebbe nel rendere questa affermazione meno perentoria. Potremmo anche farne a meno, ma se proprio non possiamo, che almeno ce li raccontino bene, senza sovrapposizioni, senza attualizzazioni, complicati come erano.

Anche perché la prima persona a cui ho pensato leggendo il titolo del volume di Giusto Traina non è stata Totò, del cui latinorum pure sono appassionato e studioso. Oltretutto, leggendo di quell’Apuleio “mezzo numida, mezzo getulo” come non ricordare parte-nopeo, parte napoletano? No, ho pensato a Massimo Troisi. Che certamente avrebbe commentato: E sì, allora ne possiamo fare a più!

Montanelli, noi, la storia

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di Fabio Ciancone

Il dibattito sulla vicenda che ha coinvolto la statua e, di conseguenza, la figura di Indro Montanelli suscita molte domande e apre a molte possibilità di riflessione. Il mio scopo è quello di contribuire a questa riflessione, provando a mettere in luce alcuni elementi chiave e alcune fallacie, a mio parere, del dibattito in corso.

Ci si è molto interrogati e scontrati sul valore della storia e della memoria all’interno di una società, su cosa voglia dire ricordare e commemorare una figura celebre del passato di una nazione, se la memoria possa influire sul nostro agire quotidiano. Sembra dunque necessario partire da un’analisi (necessariamente parziale) del rapporto tra storia e collettività. Non spetta a me ricordare che non è possibile stabilire una versione definitiva del nostro passato: la storia è prima di tutto una narrazione e come ogni narrazione necessita di un narratore che, come ogni narratore, deve adottare per scrivere un punto di vista. Alla luce di questo bisognerebbe forse prendere coscienza del fatto che oggi narrazioni collettive univoche e universalmente accettate nel loro contesto di produzione, quindi anche la Storia come è spesso intesa, sono ormai pressoché impossibili. Stanno emergendo in maniera sempre più decisiva le voci di chi prima non aveva un ruolo attivo nella scrittura della storia: donne, minoranze etniche e religiose all’interno degli stati nazionali, intere aree del mondo. Lo stesso evento non sarà mai raccontato nella medesima versione da due parti contrapposte e sarebbe d’altronde irrealistico immaginare la possibilità di una pacificazione globale e di una perfetta sintesi dei fatti.

Mi sembra dunque di aver avvertito l’enorme difficoltà, da parte di chi si appella alla Storia per scongiurare la rimozione della statua, a prendere coscienza di questo policentrismo. Non sarà forse necessario ripensare i nostri modelli educativi?

Storicizzare, poi, è certamente un atto necessario a “prendere le distanze” da un evento: a pensarlo, ad analizzarlo, a modellarlo sui nostri schemi individuali e collettivi. È per questo che, da un lato, mettere questo momento di fervente lotta politica in relazione diretta con la storia è complesso e azzardato: si rischia di asservire la storia al dibattito, operazione del tutto antiscientifica e inutile da un punto di vista prettamente educativo. Dall’altro, nessun evento, neanche il più remoto, potrà mai essere neutro agli occhi di chi lo osserva e di chi lo studia: è per questo che si studia. Proprio in virtù di ciò ripensare il passato e la critica non è soltanto naturale, ma anche necessario.

Venendo a questioni meno generiche, è necessario porsi criticamente di fronte al personaggio Montanelli e al suo monumento. Senza l’intenzione di processare l’uomo, bisogna però riflettere sul senso politico di un monumento in suo onore. Come è stato detto da più parti, la statua intesa come oggetto fisico non è parlante, è solo, semmai, rappresentazione. Ogni oggetto dialoga con lo spazio che gli sta attorno e assume senso e valore anche in relazione a quello. Lo spazio pubblico è per definizione di tutti, e il “tutto” nella dimensione presente non è “critico”, una società nel suo complesso non può auto-commentarsi e staccarsi da sé: è semmai il conflitto tra le parti a generare il progresso. Attribuire dunque alla statua inserita in un luogo pubblico una funzione di analisi del passato è semplicemente impossibile. Diverso, invece, sarebbe collocarla in un contesto espositivo, in cui ciò è possibile. Mettere Montanelli in un museo e toglierlo dalla strada sarebbe, a mio parere, l’unico modo per contestualizzare la sua figura e renderla “storica”. Si potrebbe ribattere dicendo che anche lo spazio pubblico può essere pensato come espositivo, ma assumerebbe allora in automatico una funzione critica, che comunque non può prescindere dalla primaria dimensione collettiva.

Non ritengo corretto definire la rabbia dei manifestanti come furia iconoclasta o deriva autoritaria: la percepisco, piuttosto, come tentativo di appropriazione di qualcosa che spetta loro, cioè uno spazio. Non farà certamente piacere a un afroamericano passare tutte le mattine sotto la statua di un colonizzatore e sentirà inevitabilmente quel luogo meno proprio. Rimane certo un forte dubbio sulla possibilità di immaginare l’esistenza di uno spazio neutro o quella di neutralizzarlo. Ma è il conflitto, non la neutralità, ad essere alla base dell’evoluzione, e tutto ciò per cui combattiamo e che oggi ci sembra giusto e necessario sarà prima o poi superato.

È naturale inoltre che determinate figure storiche provochino reazioni differenti agli occhi di ciascuna persona: nessuno, nel XXI secolo, si sentirebbe minacciato nel proprio essere cittadino di Roma dalla statua di Augusto o cittadino francese da quella di Luigi XIV. La differenza è banale e sembra quasi superfluo ricordarlo: siamo toccati soltanto da chi, con le sue azioni o con le sue idee, appartiene ancora in maniera più o meno diretta al presente. Se esisteranno in futuro questioni complesse che hanno connessioni con il passato anche molto remoto, sarà dunque necessario sempre di più risalire fino alle più lontane origini del problema, immaginando un presente “a maglie larghe”, che con il passato dialoga fino al punto di svolta che sentiamo di dover combattere.

Mi preme chiudere, provocatoriamente, ponendo un quesito: non potrebbero forse queste manifestazioni rappresentare in futuro un evento storico di grandi dimensioni e, al loro pari, le azioni contro le statue? Riportare tutto allo status quo non sarebbe, oltre a un grave atto politico, anche un gesto che rischierebbe di cancellare la storia?

Impossessioni primitive secondo movimento,

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di Amandine André

traduzione di Fabiana Bartuccelli

(seguito da: In una stanza al buio tutti parlano)

 

Prima del neolitico piante animali e acqua darmi del tu e prima del neolitico aria sole e insetti permettermi in questo mondo passaggio e esistenza

Mi chiamo tesoro

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di Andreea Simionel

Maria bussa alla porta del bagno. Chi è?, chiede. Prova ad aprire, è chiusa a chiave. La signora delle pulizie è seduta sul cesso. Chi sono?, pensa. Maria non sa il suo nome. Per pulire, il nome non è necessario. Maria la chiama tesoro. Vuoi un caffè, tesoro? L’aspirapolvere è nell’armadio, tesoro. La signora delle pulizie, la testa fra le mani e i gomiti sulle cosce, apre la bocca per parlare: sono il tesoro e sono sul cesso e ho la diarrea, deve dire. Ma è troppo complicato e non risponde.

Stava pulendo la stanza da letto. Come sei gialla, tesoro, sei sicura di star bene? Sì sì, aveva risposto. Poi era corsa a chiudersi in bagno. Ha sempre odiato il modo in cui le sue viscere si rimescolano e il male arriva e si instaura e diventa più intenso ogni giorno, e odia quelle che dicono è naturale, non c’è niente di naturale, mica l’ha detto il medico, di stare così male.

Maria bussa più forte. Chi è?, chiede. La signora delle pulizie non sa se ha il permesso di cagare in casa sua e di avere le mestruazioni in casa sua e di essere gialla in casa sua e non risponde. Immagina Maria in piedi dietro la porta: è bassa e ha i capelli corti e grigi; va sempre dalla parrucchiera e gioca a Candy Crush. Per il resto non fa un cazzo, è in pensione. Il marito è morto da trent’anni e lei non si è più sposata, era amore vero. E non sta mai a casa sua, è troppo vuota, ma quando ci viene chiama tesoro per mandare via un po’ di polvere. Quest’anno ha deciso che non andrà in vacanza e con i soldi si comprerà un nuovo cellulare di ultima generazione per giocare a Candy Crush. Le poche volte in cui parla lo fa senza distogliere lo sguardo dallo schermo. La scala sta in balcone, tesoro, mi raccomando con quella cornice, tesoro.

L’odore nel bagno è orrendo. La signora delle pulizie chiude gli occhi. Sa che tra poco Maria tirerà su la testa dal cellulare e andrà a chiamare un vicino e insieme butteranno giù la porta e le cose si faranno più difficili e gialle di quanto già non siano e lei dovrà uscire. Ma non si muove, non risponde. Sono immortale, pensa. Gli attimi sono immobili e la porta disegna il confine tra il presente e il futuro, e lei, chiusa in bagno, è in grado di ritardare il futuro.

Non le è mai successo di voler fermare il tempo. Al mattino presto, quando si alza per andare al lavoro, immagina di stare in piedi in cima a una scala e di guardare davanti a sé la distesa del tempo che deve ancora svolgersi. Percorre uno scalino alla volta: solleva i soprammobili e spolvera sotto e li rimette al loro posto e pensa: due su tredici, fatto; cammina per strada da un posto all’altro e pensa: casa di Maria, una su tre, fatta. Non vede l’ora che la giornata finisca. E quando il tempo è più infinito del solito si consola: non è mai successo che un lunedì o un martedì o un mercoledì o un giovedì o un venerdì o un sabato non finissero, pensa, sono sempre finiti tutti, no? Allora anche questo. E le giornate si succedono e arrecano il male minore, anche se questo lavoro è il suo male più grande; non si tratta tanto della sveglia alle quattro e mezzo del mattino, o della melatonina che deve ricordarsi di prendere la sera e che le dà gli incubi, o della stanchezza che le appanna le giornate e le solca gli occhi, o del timer che scatta alle otto di sera per dirle che è tempo di andare a dormire, o delle urla e dei pianti quando il corpo non ha più filtri, o delle persone intorno che si fanno piccole (come stai?, come è andata oggi?) mentre la sua rabbia si fa immensa e le sovrasta (che cazzo ne so io, di come sto, levati dalle palle). Niente di tutto questo. Il male peggiore sono i giri dentro la testa. Lo spazio compreso tra le pareti della sua scatola cranica, che la contiene e la risucchia, e dentro cui cammina avanti e indietro per otto ore al giorno.

La signora delle pulizie non ricorda come sia finita a fare la signora delle pulizie. Prima del lavoro c’era la scuola e dopo la scuola c’era il lavoro. Del liceo le resta poco: qualche formula, niente si crea niente si distrugge tutto si trasforma, per due punti passa una e una sola retta; la camicia a quadretti azzurra dell’esaminatore che le chiede di prendere il libro con la poesia sul pozzo e la carrucola, e il dorso della sua mano alzata a fermarlo per dire no, non è necessario, me la ricordo; l’insegnante di italiano che fa su e giù per la classe tra la porta e la finestra con i Promessi Sposi aperti sui palmi e dice: Renzo è una persona intelligente, Renzo ha paura. Sulla strada per Milano, spiega, in mezzo alla rivolta del pane, al buio di notte nei boschi, mentre cerca il sentiero per attraversare il fiume, Renzo ha paura e non capisce, eppure parla a se stesso. Parlare da soli è un segno di intelligenza.

Anche la signora delle pulizie parla da sola al lavoro, mentre spazza o spolvera o sale gradini o scende gradini o lava vetri o pulisce l’ascensore, ma non le è mai successo di sentirsi intelligente. Si sente pericolosa. Delle volte si è interrotta e ha colto sul suo viso i resti di una smorfia o di un sorriso o le labbra aperte a pronunciare una parola senza suono, una volta anche una lacrima. Che stai facendo?, ha pensato. Ha portato la mano sulla bocca e sulla faccia e ha cancellato i segni sulla lavagna. La cosa più spaventosa non è ridere o piangere da sola, quanto essere in grado di farsi ridere o farsi piangere da sola. E più di una volta si è sentita osservata con la coda dell’occhio, si è vista rivolgere sorrisi anomali. Sei diventata pazza?, le ha chiesto un giorno una collega, mentre con i palmi sfregava il bastone, e in basso i piedi abili sfilavano un mocio o infilavano una scopa. La signora delle pulizie ha staccato le labbra secche, incollate per le ore di silenzio. Non ha saputo cosa rispondere. Dico per scherzo, eh, non te la prendere.

Ma più di una volta si è fatta piccola e ci ha provato: ti posso chiedere una cosa? Eh, dimmi. Ma tu che cosa pensi? In che senso? Voglio dire, a cosa pensi mentre lavori? Di nuovo il sorriso anomalo, lo sguardo da carnefice. A cosa penso mentre lavoro? Ma a niente!, ha riso la collega. Ha spalancato le braccia, il bastone in una mano e il secchio nell’altra. È il lavoro più bello del mondo! Non pen-so a nien-te.

Dietro la porta Maria alza e abbassa la maniglia. Chi c’è dentro?, chiede, c’è qualcuno sì o no?

La signora delle pulizie apre gli occhi. Ringrazia il mal di pancia e le mestruazioni, perché sul cesso non deve pensare. Allunga un dito sul muro e segue il percorso di calce tra una piastrella bianca e l’altra. Non conosce le strade che l’hanno portata dove la porteranno. Non sa se essere il sintomo o la malattia. Non sa il suo nome, mi chiamo tesoro. Allora le viene in mente: è uno sbaglio. La sveglia i soprammobili il mocio la melatonina il secchio blu con strizzatore blu il secchio rosso con strizzatore rosso le scale il tempo Candy Crush. È tutto sbagliato e se ne deve andare.

Si alza, tira lo sciacquone, si sistema. Apre la porta. Maria è in piedi con il cellulare in mano. Sul volto della signora delle pulizie i resti di un sorriso.

 

Sub-réel

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 di Sharon Vanoli

 

Realtà – le orche 

L’incubo è che esistono due mondi.
L’incubo è che esiste un solo mondo,
questo.
Susan Sontag – La coscienza imbrigliata al corpo.

 

Stamattina ho fatto un disegno ad acquerello. Mi interessava sperimentare l’acqua, allora ho dipinto una palude. Sul punto di finire, ho fermato la mano per controllare l’effetto. Il verde-azzurro della superficie era così placido, nella rarefazione, che non ho resistito al piacere di sbiadirlo ancora un po’. L’ho annacquato a lungo, con il pennello più grande che avevo, fino a quando il foglio si è ondulato e aveva un altro peso, a sollevarlo. L’ho lasciato seccare sopra al calorifero per tutto il giorno. Ora scricchiola; ma una pozza di colore è rimasta viva, al centro della palude, come una cavità evanescente. 
Ho sognato di entrarci dentro.
 
Nel sogno, mi sveglio di notte e faccio per scendere dal letto. Al posto delle piastrelle fredde, incontro con la punta delle dita un fondo cedevole. Sprofondo una gamba e poi l’altra, lentamente, nella melma. L’acqua mi arriva alle cosce, adesso; percepisco sulle piante dei piedi il tessuto vegetale sopra una roccia. È soffice, questo muschio, come velluto. Provo a camminare, ma scivolo e cado lungo la parete verticale della pietra, trovo il vuoto: sono in mezzo all’oceano. Il blu che mi circonda è assoluto, lo osservo e nuoto, accanto alle correnti dei pesci. C’è un grande movimento nero, in lontananza, che si agita e non riesco a decifrare: mi spingo in quella direzione.
In fila una accanto all’altra, decine di orche si tuffano in sincronia, sott’acqua – non si slanciano oltre la superficie. Poi tornano al punto di partenza, e ripetono.
“Noi danziamo”, pronunciano in coro.
“Non vi interessa mostrarvi al cielo?”, chiedo.
“Noi danziamo.”
“Ma vedete bene che c’è un altro mondo, là sopra.”
“Noi danziamo.”
Le lascio. Sto per procedere oltre, ma un frastuono mi trattiene. Un’orca, isolata vicino al fondo, si sta gettando con violenza contro la sabbia, come per conficcarsi all’interno. Ha il muso livido, gli occhi tumefatti. Mi avvicino per sfiorarle il dorso.
“Lasciala stare”, dice qualcuno alle mie spalle.
 
Visione – le tartarughe
 

La duplicazione dell’io nei sogni.
La duplicazione dell’io nell’arte.
Sontag.

 

Mi volto in cerca della voce. Di fronte a me, lunghe file di tartarughe sono schierate in forma quadra, sul fondale oceanico. Perfettamente equidistanti, tengono gli occhi socchiusi, come per concentrare la vista. Una soltanto, davanti a tutte, ha il muso ritratto nel carapace, solcato e più scuro degli altri.
“Lui è il saggio”, sento dire.
Riconosco la voce di prima: proviene dalle ultime file. Le vado incontro. Ha gli occhi già rivolti nella mia direzione quando la raggiungo. Con le palpebre curve, mi scruta senza sorpresa. Io sono impaziente:
“Che cosa faceva l’orca?”, chiedo.
La tartaruga guarda di fronte a sé.
“Fuggiva”, risponde piano.
“Da cosa?”
“Da se stessa.”
Io esito per qualche secondo, prima di rispondere:
“Credevo fossero felici di danzare per ammirarsi.”
“Non ammirano se stesse: non vedono niente.”
La tartaruga ruota il collo rigido di lato e torna a scrutarmi.
“L’orca che hai visto impazzire – prosegue – si è tuffata fuori dall’acqua.”
“Ha scoperto la realtà e ne ha avuto paura”, commento pronta.
Vedo i suoi occhi a fessura farsi ancora più stretti.
“Ha scoperto se stessa. – mi corregge – Alla fine del tuffo, prima di ricadere nell’oceano, si è vista riflessa sulla superficie. Siamo noi, la realtà.”
“E voi, voi che cosa fate qui in schiera?”
“Osserviamo.”
“E il vostro saggio, là davanti, perché si nasconde nel guscio? Forse soffre?”
“Lui non ha bisogno di osservare la realtà, per capire: vede ogni cosa dentro di sé.”
Ora avverto come un canto, un suono gutturale, che si solleva basso dalle loro gole. Chiudono gli occhi in segno di preghiera. Io supero la schiera geometrica dei carapaci e procedo oltre. Nuoto affondando le mani tra i filamenti molli delle alghe. Intravedo due piccole tartarughe, sulla sabbia, ormai lontane dal gruppo; camminano a fatica, sbilenche, scontrandosi l’una contro l’altra. Nuoto più svelta per portarmi al loro fianco. Piego il collo di lato per rimirarle: sussulto. Non hanno occhi, ma grumi neri e torbidi – occhi bruciati, da cui stilla un fluido denso e scuro. 
 
Creazione – il pescegatto
 

L’estetica: vivere simultaneamente in molti luoghi + in molti tempi.
Sontag.

 

Resto in sospensione in mezzo all’acqua, palpitante. Intanto le tartarughe proseguono con passo trascinato. Aspetto di calmarmi, poi riprendo a seguirle, tenendomi distante. C’è un luccichio vermiglio, in fondo al cammino che percorriamo: me ne arrivano i riflessi fluorescenti tra la densità del blu. Avanziamo, io e le tartarughe, in silenzio. Ora nuoto sopra ai loro corpi, sfioro con la pancia i loro gusci opachi. Avanziamo tutt’uno verso la luce rossa.
La fluorescenza appartiene ai coralli. Disposti uno accanto all’altro, su due file, decorano il sentiero che conduce alla dimora del pescegatto: è una boccia in vetro, depositata sul fondale; alghe e licheni si intrecciano sulle sue pareti e la ricoprono. Dall’ingresso semibuio viene a intermittenza un bagliore grigio-giallo. Lui ci aspetta dentro. Irrequieto, scivola da un lato all’altro della boccia, senza mai sostare. Ci sono altri coralli, all’interno, che accendono l’ambiente; anche il profilo del pescegatto – le pinne dorate, il corpo argentato – scaglia pezzi di luce sulle pareti. Nuota, nuota. Ma lo sguardo è sereno: mi aspettava. Osserva me, poi le tartarughe. Contrite e in disparte, piangono il loro liquido nero, che una volta in acqua è come vapore, pervade lo spazio. A contatto con la mia pelle si fa di nuovo fluido. Torno a palpitare, cerco lo sguardo del pescegatto.
“Le ho assistite fino a qui, conoscevano la strada. Che cosa puoi fare per loro?”
“Forse è troppo tardi.”
“Che cosa è successo ai loro occhi?”
“Il vecchio saggio le ha punite.”
“Perché?”
Il pescegatto non mi dà ascolto, cambia linea di movimento. Ora fluttua dall’interno all’esterno della boccia, senza tregua. Lo seguo a fatica, mi confondo.
“Perché lo fai?”, gli chiedo.
Lui sospende la sua corsa e mi fissa, ma è un istante e subito riprende.
“Il piacere sta sul confine”, risponde meditando.
“Sul confine?”
“Io non sono qui: sono sempre dentro e fuori.”
“Cosa vuoi dire?”
“Io non sono adesso: sono sempre prima e dopo.”
Arriva un lamento, dalle tartarughe. Le guardo: piangono e gemono. Di nuovo palpito.
“Perché il saggio le ha punite?”
“Perché non osservavano.”
“E cosa facevano?”
“Immaginavano, sognavano. Sono state impazienti.”
“Impazienti?”
“Di capire. Hanno tradito la verità per la visione: sono state brave. Ma sognare non è ancora creare.”
Io lo seguo con gli occhi, non rispondo. La mia pelle è sempre più nera, e sento freddo.
Il pescegatto sembra riflettere. Solleva lo sguardo verso i licheni sopra la boccia, poi aggiunge:
“Forse qualcosa è ancora possibile. Insegnerò loro a poetare. Non c’è bisogno di occhi per questo.”
“A poetare?”
“È ciò che desiderano: vivere di sogno.”
“Io non capisco.”
“Sognare non è ancora creare”, dice di nuovo.
“E tu, pescegatto, che cosa crei?”
“Creo me stesso.”
“Sento freddo, pescegatto.”
“Ti stai svegliando.”
Ho l’impressione che la sua coda stia cambiando colore: non è più d’oro, è rossa. Rosso pallido, sempre più pallido. Ora mi sembra che tutto il suo corpo stia sbiadendo, e perda consistenza. Intravedo i coralli sul fondo della boccia, attraverso le sue squame. Sto per dirglielo, ma i gemiti delle tartarughe mi richiamano. Le guardo, guardo me: il nero scorre lungo la mia pelle e lascia macchie, come d’inchiostro.
“Sento molto freddo, pescegatto.”
“Sognare non è ancora creare.”
Lo dice con voce debole. Improvvisamente si calma, pare stanco. È sempre più diafano. Lo vedo ondeggiare fino ai coralli rossi, afflosciarsi di fronte a loro. Da terra mi osserva per l’ultima volta, sorride. Poi chiude gli occhi e riposa. Faccio in tempo a vederlo scomparire, farsi corallo tra i coralli, prima di perdere la vista.
Tra il sonno e la veglia precipito a testa in giù dall’oceano alla palude. Gli occhi chiusi, le mani sopra gli occhi – versano scie di liquido nero.
Poi esco dall’acqua fangosa e li apro.

“Soleil grigri” (2/4): da “Cardine Kinski”

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di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil griri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla seconda sezione del libro, Cardine Kinski. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Quarto vuoto, La primavera torna indietro e Salut, voilà].

 

LIGURIA MON AMOUR

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di Dario Voltolini (illustrazioni di Marco D’Aponte e adattamento di Andrea B. Nardi; da un romanzo di Marino Magliani)

È con profonda commozione che scrivo questa nota a margine dell’ottima prova congiunta di due squisiti narratori, Marino Magliani alla tastiera e Marco D’Aponte alle matite, innanzitutto per la storia che viene narrata, ma anche per altro.
La storia che viene narrata la conosco da anni e ora me la trovo qui davanti agli occhi visualizzata con raffinata perizia da chi sa come dare corpo alle parole. Da anni non la rileggevo e rivederla così, attraverso immagini sulla pagina che vanno a mescolarsi a immagini che tenevo ancora da qualche parte nella mente, è un’esperienza piena di senso. Facile sintetizzare: tavole magnifiche per una storia potente.
Ma devo ancora una volta ricordare che la “potenza” di una storia ligure è tutta dentro la cartuccia inserita nella doppietta, ma prima della detonazione.

È una potenza che sempre sta per manifestarsi. Questa caratteristica è della terra e dei suoi migliori narratori e poeti. E io amo quella terra, con i suoi narratori e poeti. Secco, compatto, lo spirito di quella regione preme per uscire e ogni volta, anziché esplodere, vibra. Vibra in modo tale da risuonare a distanza, è un suono riconoscibile, simile ad altri (per esempio qui le Ande entrano in grandissima risonanza con i muretti a secco liguri, con la loro anima) ma in fondo unico e imparagonabile.


Ho conosciuto Marino Magliani proprio attraverso il testo qui riproposto, esemplarmente sceneggiato da Andrea B. Nardi, nelle tavole di D’Aponte. Me ne innamorai subito e la gioia per me fu grandissima quando lo vidi pubblicato. Per una volta le cose erano andate per il verso gusto e la grande qualità di uno scrittore veniva colta dall’editoria, veniva accolta e fatta vivere sulla pagina. Be’ questo è un ricordo, ed è molto dolce. Così Marino e io siamo diventati amici, come si può esserlo stando uno in Italia e uno in Olanda. Ma la qualità di un’amicizia che nasce da un testo è un qualità molto particolare. È un’amicizia in qualche modo segnata da quel testo, un’amicizia che profuma di quel testo. La chiamerei, in questo caso, un’amicizia ligure, ma non cercherò certo di spiegare cosa significa “ligure” in questo contesto. “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma. Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.

 
Marino negli anni ha scritto tante storie, tutte molto belle, solide, tanto pietrose quanto ventilate, e ogni volta è una festa (senza strepiti, eh!) leggerle. Ma per me questa è “la” storia, perché è quella tramite la quale ho conosciuto Marino. Riassumerla? Non ha senso. Solo che è struggente, questo sì che lo posso dire, fatta di uno struggimento particolare che in queste tavole, per un ulteriore gioco del destino di un incontro, risuona perfetta e risuona nelle lontananze.

NdR: il testo riportato è la prefazione di Dario Voltolini al romanzo a fumetti “Quattro giorni”, con illustrazioni di Marco D’Aponte e testo/adattamento di Andrea B. Nardi, tratto dal romanzo “Quattro giorni per non morire” (Sironi Editore, 2006), di Marino Magliani, pubblicato ora da Miraggi Edizioni, nella collana MiraggInk

Sinéad Morrissey: “Perdona questo rimediare”

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di Viviana Fiorentino

 

 

Nella raccolta The state of the prisons (Lo stato delle prigioni) (Carcanet Press, 2005; vincitrice al Michael Hartnett Poetry Prize in 2005) la poeta irlandese Sinéad Morrissey declina il tema della prigionia in tutte le sue varianti di stato e di luogo: le celle di Newgate, la voce silenziata di una donna filo monarchica costretta da una mordacchia nell’Inghilterra di Cromwell, le gabbie e le limitazioni di un viaggiatore che si ritrova in una nuova cultura. Le prigioni del nostro corpo. I limiti che le percezioni pongono sulle esperienze individuali. Gli interni intimi, e claustrofobici, delle relazioni umane.

Sinéad Morrissey nasce nel 1972 a Portadown, nella contea di Armagh, Irlanda del Nord, e cresce a Belfast. Consegue la laurea e il dottorato presso il Trinity College di Dublino e, dopo anni di viaggi e insegnamento all’estero, ritorna a vivere a Belfast. Alle sue raccolte vengono assegnati molti premi, come il Patrick Kavanagh Poetry Award, il National Poetry Competition, il Forward Poetry Prize for Best Collection e il T.S. Eliot Prize. Le poesie della Morrissey racchiudono un forte senso della sua identità nord irlandese – dalla violenza di un’infanzia durante i Troubles a una Belfast vivace città moderna – ma al contempo raccontano delle lontane località internazionali, dove la poeta ha vissuto.

The state of the prisons viaggia fino alla Cina e le regioni dell’Est. Un viaggio in treno di 6.000 miglia che si trasforma in un funerale per un fratello perduto e per certi ricordi d’infanzia, mentre la scrittrice punta la “macchina fotografica / di proposito su una vasta, deserta / distesa, quindi controlla sulla schermo / se c’è qualcosa / nella sua piccola rete a occhi spalancati”. “Per un secondo non sento il bollitore bollire / e mi chiedo: se l’Iraq ha estratto il sale anziché il petrolio?”. Le illuminazioni arrivano dai mondi dell’anatomia della vita, dalla biosfera e persino dalla politica del sale. “Sono uno straniero e un pellegrino qui”, i confini si offuscano con il viaggio; e ciò non è solo una nuova prospettiva esistenziale, è anche occasione per innovazioni formali, tematiche, immaginarie e linguistiche. I paesaggi domestici entrano in dialogo con nuovi spazi e con altre culture. La casa diventa una molteplicità spaziale, un dialogo tra partenza e ritorno immaginati dalle prigionie che ci vengono imposte o che noi stessi creiamo. Forma e contenuto, nonché personale e politico, si fondono in questa collezione attraverso un’immaginazione sempre pronta a sorprendere: la raccolta si conclude con un lungo poema in prima persona sulla missione umanitaria del riformatore del XVII secolo John Howard, che si occupò di risanare le carceri inglesi.

“… Insegna loro a chiedere perdono

Possono così emergere dalla solitudine come farfalle da una crisalide.

Conducili al muro della scoperta del sé

Su cui sanguineranno, prima di vedere il loro stesso volto…”

Una sorta di tenerezza percorre i versi della raccolta, come ha descritto Paul Batchelor sul The Guardian, “l’intimità dei segreti sussurrati” e allo stesso tempo la bizzarria delle immagini e della forma; come la stessa Morrissey scrive, vi è una certa liberazione che si ottiene dall’esplorazione della “forma e articolazione della forma”.

Dice di sé: “È semplicemente come scrivo. (…) Scrivere una poesia sull’invasione della Prussia orientale da parte dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, seguita da un’altra poesia sull’osservazione di una pioggia di meteoriti con mio figlio, non mi sembra particolarmente incongrua. La poesia può essere intellettualmente complessa e difficile, ma può essere portata con maggiore forza al pubblico attraverso il suono, i sentimenti e la comprensione dei contesti.”

E poi ancora, “Concordo pienamente sul fatto che creiamo i nostri precursori: abbiamo un disperato bisogno di quella conversazione. L’idea di influenza è troppo passiva. (…) Adoro Mayakovsky per la sua esuberanza tagliente, la sua audace rottura, per avermi mostrato il tipo di cose che lo spazio bianco può consentire in una poesia.”

Una delle prigioni della raccolta è quella dell’uomo rispetto alla natura. “Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait / sul Belfast Lough …” una risonanza cinematica capace di attraversare le mura delle prigioni e riconnettere longitudini opposte. La relazione tra uomo e natura non umana, nella poesia “Pilote”, viene raccontata attraverso l’arrivo di un gruppo di balene pilota nel Lough di Belfast. Il loro pericolo, la spettacolarizzazione del loro comportamento e poi l’incapacità umana di comprendere il messaggio che gli animali stanno tentando di trasmettere. Cinquanta balene pilota – Globicephala melaena, specifica la poeta – si sono spinte nel Lough, un’insenatura marittima intercotidale che termina nel porto di Belfast. Le narrazioni si sovrappongono per cercare di spiegare l’inaspettato arrivo: lo sfruttamento economico delle balene, la vulnerabilità dei corpi animali, l’estinzione delle specie, l’incapacità dell’uomo nel cogliere la dimensione del problema ambientale. L’avidità umana incapace di alcuna sensibilità di fronte alla vulnerabilità animale.

Il corpo come prigione. Quello animale e quello umano. E quello genetico, come nella poesia Genetics. Uno spazio liminale nel quale si incontrano universi diversi e concomitanti, uno spazio di  contraddizioni insanabili. Il corpo è il luogo privilegiato d’incontro che definisce e allo stesso tempo smantella le costruzioni sociali di ciò che è umano, di ciò che è naturale, di ciò che è culturale.

Lo stato delle carceri delinea, infatti, una natura umana che è manifestazione nel corpo; come nelle poesie “The Yellow Emperor’s Classic”, “The Second Lesson of Anatomists” e “Migraine”. La raccolta ci ricorda anche che i piaceri che riceviamo in qualsiasi forma d’arte, o anche nell’indagine scientifica, non provengono tanto da ciò che viene creato e da cosa significa, piuttosto da quanto bene qualcosa è fatto, o come fatto e poi disfatto, armeggiato, plasmato, giocato. Del resto, sensualità e giocosità linguistica, economia, serietà, classicismo sono i segni della Morrissey e di tutta una generazione di poeti nordirlandesi a lei contemporanei. Tuttavia, questo fare della scrittura proviene da una manipolazione corporea. È, infatti, a partire dall’esperienza fisica, corporea, dei Troubles per esempio, che Sinéad Morrissey, come anche Ciaran Carson, affronta le varie nozioni di alterità: divisione e frammentazione del territorio, estraneità e stranezze nell’ambiente della casa e della famiglia, esilio, tensione tra il qui e l’altrove, silenzio e violenza del e contro il corpo.

 

Pilots

 

It was black as the slick-stunned coast of Kuwait
over Belfast Lough when the whales came up
(bar the eyelights of aeroplanes, angling in into the airport
out of the east, like Venus on a kitestring being reeled
to earth). All night they surfaced and swam
among the detritus of Sellafield and the panic
of godwits and redshanks.

By morning
we’d counted fifty (species Globicephala melaena)
and Radio Ulster was construing a history. They’d left a sister rotting
on a Cornish beach, and then come here, to this dim
smoke-throated cistern, where the emptying tide leaves a scum
of musselshell and the smell of landfill and drains.
To mourn? Or to warn? Day drummed its thumbs
on their globular foreheads.

Neither due,
nor quarry, nor necessary, nor asked for, nor understood
upon arrival – what did we reckon to dress them in?
Nothing would fit. Not the man in oilskin working in the warehouse
of a whale, from the film of Sir Shackleton’s blasted Endeavour,
as though a hill had opened onto fairytale measures
of blubber and baleen, and this was the money-
god’s recompense;

Not the huge Blue
seen from the sky, its own floating eco-system, furred
at the edges with surf; nor the unbridgeable flick
of its three-storey tail, bidding goodbye to this angular world
before barrelling under. We remembered a kind of singing,
or rather our take on it: some dismal chorus of want and
wistfulness
resounding around the planet, alarmed and prophetic,
with all the foresight we lack –

though not one of us
heard it from where we stood on the beaches and car-parks
and cycle-tracks skirting the water. What had they come for?
From Carrickfergus to Helen’s Bay, birdwatchers with binoculars
held sway while the city sat empty. The whales grew frenzied.
Children sighed when they dived, then clapped as they rose
again, Christ-like and shining, from the sea, though they could
have been
dying out there,

smack bang
in the middle of the ferries’ trajectory, for all we knew.
Or attempting to die. These were Newfoundland whales,
radically adrift from their feeding grounds, but we took them
as a gift: as if our own lost magnificent ship
had re-entered the Lough, transformed and triumphant,
to visit us. As if those runaway fires on the spines of the hills
had been somehow extinguished….

For now,
they were here. And there was nothing whatsoever to be said.
New islands in the water between Eden and Holywood.

 

 

 

Pilote

 

Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait

su Belfast Lough quando arrivarono le balene

(vietati gli occhi luminosi degli aeroplani, che si inclinano verso l’aeroporto

da est, come Venere sul filo di un aquilone richiamato

a terra). Per tutta la notte emersero e nuotarono

tra i detriti di Sellafield e il panico

di pittime e pettegole.

 

Al mattino

ne avevamo contate cinquanta (specie Globicephala melaena)

e Radio Ulster stava ipotizzando una storia. Avevano lasciato una sorella marcire

su una spiaggia della Cornovaglia, e poi venute qua, in questa cisterna gola di fumi

nebbiosi, dove la marea in ritirata lascia cozze a ristagnare e odore di discarica e scoli.

Compiangere? O avvertire? Il giorno batté i suoi pollici

sulle loro fronti globose.

 

Né dovuto,

né cercato, né necessario, né richiesto, né compreso

all’arrivo – Con che cosa abbiamo pensato di vestirle?

Niente si adatterebbe. Non l’uomo in tela cerata che lavora nel magazzino

di una balena, dal film sull’Endeavour schiaffata di Sir Shackleton,

come se una collina si fosse aperta su misure fiabesche

di grasso e fanone, e questo fosse il guadagno –

ricompensa di Dio;

 

Non l’enorme Blu

visto dal cielo, il suo ecosistema galleggiante, incrostato

ai bordi dalla schiuma; né il guizzo incolmabile

della sua coda a tre strati, che dice addio a questo mondo squadrato

prima di fiondarsi sotto. Ricordammo una specie di canto,

o meglio il nostro incarico su di esso: un lugubre coro di mancanza e

malinconia

risonante in tutto il pianeta, allarmato e profetico,

con tutta la lungimiranza che ci manca –

 

anche se nessuno di noi

lo sentì da dove ci trovavamo dalle spiagge e dai parcheggi

e dalle piste ciclabili che costeggiano l’acqua. Per cosa erano venute?

Da Carrickfergus a Helen’s Bay, i birdwatcher dominavano

con i binocoli mentre la città sedeva vuota. Le balene divennero frenetiche.

I bambini sospirarono quando si rituffarono, poi applaudirono non appena riemersero

ancora, come Cristo e splendenti, dal mare, sebbene avrebbero potuto

morire là giù,

 

proprio

nel mezzo della traiettoria dei traghetti, per quanto ne sapevamo.

O un tentativo di morire. Erano le balene di Terranova,

Del tutto alla deriva dai loro luoghi di alimentazione, ma le accogliemmo

come un regalo: come se la nostra magnifica nave perduta

fosse rientrata nel Lough, trasformata e trionfante,

per farci visita. Come se quei fuochi sfuggiti sui dorsi delle colline

fossero stati in qualche modo spenti…

 

Per il momento,

erano qui. E non c’era proprio niente da dire.

Nuove isole nell’acqua tra Eden e Holywood.

 

 

 

Genetics

 

My father’s in my fingers, but my mother’s in my palms.
I lift them up and look at them with pleasure –
I know my parents made me by my hands.

They may have been repelled to separate lands,
to separate hemispheres, may sleep with other lovers,
but in me they touch where fingers link to palms.

With nothing left of their togetherness but friends
who quarry for their image by a river,
at least I know their marriage by my hands.

I shape a chapel where a steeple stands.
And when I turn it over,
my father’s by my fingers, my mother’s by my palms

demure before a priest reciting psalms.
My body is their marriage register.
I re-enact their wedding with my hands.

So take me with you, take up the skin’s demands
for mirroring in bodies of the future.
I’ll bequeath my fingers, if you bequeath your palms.
We know our parents make us by our hands.

 

 

 

Genetica

 

Mio padre è nelle mie dita, ma mia madre è nei miei palmi.

Li alzo e li guardo con soddisfazione –

che i miei genitori mi hanno fatto lo so dalle mie mani.

 

Potrebbero essere stati scacciati in terre disunite,

disuniti emisferi, dormire potrebbero con altri amanti,

ma in me si toccano dove le dita si uniscono ai palmi.

 

Nulla della loro unione rimane se non amici

che scavano alla ricerca di una loro immagine vicino a un fiume,

almeno lo apprendo il loro matrimonio dalle mie mani.

 

Formo una cappella e lì si erge una guglia.

E quando la giro,

mio padre è tra le mie dita, mia madre tra i miei palmi

 

umile davanti a un prete che recita i salmi.

Il registro del loro matrimonio è il mio corpo.

Ricreo le loro nozze con le mie mani.

 

Dunque portami con te, accogli le richieste della pelle

per rispecchiarsi nei corpi del futuro.

Lascerò le mie dita in eredità, se tu lascerai i tuoi palmi.

Sappiamo che i nostri genitori ci fanno dalle nostre mani.

 

 

 

Migraine

And it’s happening yet again:
vandals set loose in the tapestry room
with pin-sharp knives. Such lovely scenes
as this day’s scrubbed-white clouds
and shock of scarlet blooms
across the wasteground

looking abruptly damaged —
stabbed-through from the back
so that a dozen shining pin-sized
holes appear at random. Then widen.
Soon even the grass has been unpicked,
the gorse hacked open.

I can no longer see your face.
Posed in unravelling sleeves
and disappearing lace,
I have given up all hope for what was whole —
the monkey under the orange tree,
the tatterdemalion nightingale.

 

 

 

Emicrania

 

E accade ancora di nuovo:

vandali lasciati liberi nella sala degli arazzi

con coltelli affilati. Quale scena adorabile

come le nuvole di oggi bianco sfregate

e le masse di fioriture scarlatte

sui terreni incolti

 

all’improvviso danneggiate —

accoltellate alle spalle

tanto da far apparire a caso una dozzina di fori luccicanti

della dimensione di uno spillo. Poi si allargano.

Poco tempo e persino l’erba rimane non colta,

la ginestra spinosa a pezzi aperta.

 

Più non riesco a vedere il tuo viso.

In posa con le maniche srotolate

e un merletto che scompare,

Ho rinunciato a qualsiasi speranza d’interezza —

scimmia sotto l’albero d’arancio,

usignolo cencioso.

 

 

 

Polar

after Brecht

 

My darling, lest you vanish back

to the vast frontier you fled from

once its darkness

failed to break –

baying for bathwater, bedlinen, me –

without a further word,

allow these gifts:

 

six pairs of pearl-stitch knitted socks,

an Aran with a fingered ridge, a scarf

to trap a boulder in.

for even though you’re lean

and craven, I’d rather have you

round and down and rollable.

I want to hap you up

 

so that you stagger off, surrounded

by my warmth, on your journey

North. I want to wrap

your delectable backside

(which I chew on so immoderately

when I’m out of my right mind)

in all the wool of Scotland.

 

Forgive me this redress. Forgive

the need to staunch my loneliness

on your enormous absence.

Even the furniture sags without you.

I invent a war to send you

off to, but it’s only a war

with nature. They say it’s winter

 

when you’re up there

nine months of the year

(the solstice dragging its feet

with the weight of the planet);

that the sky is merely on fire

with its own futility; and the snow geese –

inconsequential company.

 

 

 

Polo

dopo Brecht

 

Mio caro, affinché tu non svanisca di nuovo

Verso la frontiera immensa da cui sei fuggito

Quella volta che la sua oscurità

Non riuscì a terminare –

Strillando per l’acqua del bagno, la biancheria da letto, me –

Senza aggiungere altro,

consentimi questi doni:

 

sei paia di calze lavorate a punto selcio,

un Aran con una costa come mani, una sciarpa

per intrappolare un macigno dentro.

Perché anche se sei magro

e vigliacco, preferirei averti

tondo e in fondo e rotolabile.

Voglio tirarti su così

 

Così che te ne barcolli via, circondato

dal mio calore, nel tuo viaggio

verso Nord. Voglio avvolgere

il tuo delizioso didietro

(quanto smoderata lo mordicchio

quando vado fuori di testa)

in tutta la lana della Scozia.

 

Perdona questo rimediare. Perdona

la necessità di tamponare la mia solitudine

sulla tua enorme assenza.

Sprofondano persino i mobili senza di te.

Invento una guerra per mandarti

via, ma è solo una guerra

con la natura. Dicono che è inverno

 

quando sei lassù

nove mesi dell’anno

(mentre il solstizio trascina i suoi piedi

con il peso del pianeta);

con il cielo che è semplicemente in fiamme

con tutta la sua futilità; e le oche delle nevi –

irrilevante compagnia.

 

 

 

On Omitting the Word ‘Just’ from my Vocabulary

 

And here I am in a room I don’t recognise, being
angular and contemporary, with its own
unabashed light source and the table clear.

I must be somewhere Scandinavian.
Where weather is decisively one way
or the other, and summer,

or winter, will not brook contradiction.
Even the ornaments (such as they are)
are purposeful: a stone dog stares into the fireplace

as though pitting itself against fire
for the next quarter-century.
(How you cannot say ‘just’ and ‘pregnancy’.)

There is a fissure in store for me here.
There are no wall hangings. Or rugs.
The door is locked against me.

My own audacity in coming here
astounds me. Yet I step purposefully.
I swell uncontrollably.

Beyond in the hallway
the tongue of a bell is banging against its shell.
It sounds like a coffin lid,

or as definitive.
It is marking the hours until I break into two
and loose/gain everything.

 

 

 

Su l’omettere la parola “soltanto” dal mio vocabolario

 

Ed eccomi qui in una stanza che non riconosco, perché

squadrata e contemporanea, con le sue

spudorate sorgenti di luce e il tavolo vuoto.

 

Sarà che sono in qualche parte scandinava.

Dove il tempo è solo in un modo

o in un altro, l’estate,

 

o l’inverno, non tollererà alcuna contraddizione.

Persino gli ornamenti (per come sono)

sono intenzionali: un cane di pietra fissa il camino

 

come se contrapposto al fuoco

per il prossimo quarto di secolo.

(Come non saper dire “soltanto” e “gravidanza”.)

 

C’è una fessura in serbo qui per me.

Non ci sono arazzi. O tappeti.

La porta è contro di me chiusa.

 

Il mio stesso sprezzo del pericolo nel venire qui

mi sorprende. Eppure entro di proposito.

Ingrandisco senza alcun controllo.

 

Oltre nel corridoio

il martello della campana batte contro il suo guscio.

Come il coperchio di una bara,

 

o come definitivo. Segna le ore finché in due io rompo e lascio/ottengo ogni cosa.

 

 

 

 

 

“Nella sofferenza che io trovi l’essenza”. Su Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio di Lorenzo del Pero

2

di Francesca Matteoni

C’è chi per comprendere la natura di un sentiero deve perdersi, accettando di non riconoscere un volto, perfino il suo. È un sentiero di straniamento come di grazia, che resta sempre un po’ oltre, mentre ci teniamo al buio senza cedere e senza pelle. Ci sono artisti che giungono così alle loro opere, avendo fame e trovandosi a mordersi le ossa, ciò che ci sostiene. Nonostante una certa mitologia non c’è niente di romantico in tutto questo. Si è soli. Si può non tornare. Occorre fidarsi dei primi istinti corporali: nutrirsi, dormire come si può, respirare, resistere, anche se è il corpo che sembra tradirci. Eppure qualcuno torna, se non nel quotidiano, nell’arte, nella piccola salvezza ostinata della musica e della parola.

Mi sono ricordata di queste cose ascoltando a lungo l’ultimo disco di Lorenzo Del Pero, Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio (VREC / Audioglobe 2019). È già stato detto varie volte che l’universo autoriale di Lorenzo spazia da Bob Dylan a De André  da Chris Cornell a Jeff Buckley e molti altri studiati e sofferti in anni di esperienza – ma il gioco dei rimandi si esaurisce presto e spesso serve solo a non fare i conti con la materia poetica del disco.   Come suggerisce il titolo dall’amore animale, non meditato, innocente quanto inconsapevole si va verso l’amore dell’uomo, che non ha nulla di vittorioso, ma è un umile svelarsi delle cicatrici, e infine si cerca il confronto aspro e non pacificato dalla fede con il Dio (un Dio, fra i tanti possibili) della tradizione cristiana, costringendolo nella dimensione viva della sconfitta. Sono le tre fasi del sentiero, tre intermezzi che percorrono e ricuciono il disco in un dialogo fra l’uomo che non sente più niente/solo anche in mezzo alla gente e le figure a cui si rivolge per chiedere perdono e presenza o per donare a se stesso un riscatto raccontandole.

“Romina” e “A Silvia” sono canzoni struggenti, dove emergono ritratti di donne e di amori ostinati come gli errori, ma capaci di recuperare la dignità. Il singolo “Verrà la pioggia” è un urlo lucido contro i signori della terra, dove alle lacrime dei primi versi  che puliscono i miei occhi dalla polvere/ed il cuore dalle vostre menzogne, fa eco il pianto del mondo nella pioggia che lava le colpe di tutti, purifica e porta giù il cielo. E forse si porta via anche l’illusione del potere. “Dell’amore animale” ha l’amarezza di una verità personale: Troppo tempo è passato/prendo ciò che rimane/di una mente confusa/aggrappata a un sorriso/ quanta gente delusa/quanti calci nel viso, mentre “Misera cosa” riconduce la passione alla sua vanità, un sudario di astuta bellezza; e  “Sposa per denaro”, ben oltre il titolo, canta di chi getta via il sogno per una via facile solo in apparenza. Ma le tre vette dell’album sono, nell’ordine, “Sorella solitudine”, “Ave Maria” e “Preghiera blasfema”. La prima canta meravigliosamente una condizione esistenziale, dove si è liberi o deprivati delle aspettative riposte nell’altro, chiunque esso sia. Costante e senza volto, è la solitudine. Non può ferire con la memoria.  “Ave Maria”, è forse la canzone dal maggiore impatto emotivo, quella dove l’amore tanto annunciato, tradito e smarrito si rivela puro e terreno, la presenza gentile della madre, colei pronta a battersi fino alla fine perché Vale più l’uomo vivo/di un Dio quasi morto. Il Cristo è la fragilità di ogni figlio spezzato, sanato nella grazia materna, che sia quella di una madre reale, con un nome e un’età o madre-vita ovunque si manifesti. E così “Preghiera blasfema” è un’accusa, una richiesta e un atto di riconciliazione con il padre, per essere infine visti come si è: deboli invece che forti; impauriti e immersi in un santo delirio al cospetto di una volontà incomprensibile che non ci riconosce. Nella sofferenza che io trovi l’essenza, scrive Lorenzo. Quel nocciolo duro che è la vita e il desiderio di esserci, anche con una tristezza resistente che a volte si piega alla preghiera e alla gioia.

Non è un ascolto indenne, questo. Se ne esce cambiati, come indossando la parte di noi che ci fa più male e che pure è la nostra compagna fedele. Il talento può dare fastidio, può provocare una smorfia d’imbarazzo quando si mostra nudo. Il talento di Lorenzo è la sua voce, che è poi la sua anima. A volte l’anima non ce la fa nel mondo ordinario o in quello che crede sia tale. Si nasconde, aggredisce, urla e cade. Ma si rialza nel canto.

SE LA MEGLIO GIOVENTÙ CAMBIERÀ LA POLITICA ITALIANA SARÀ ATTRAVERSO LE COMPETENZE

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di Franz Di Maggio

Oggi venerdi 19 giugno alle 15,30 a Milano, in via Medici 4, presso la sala conferenze di “Ostello Bello” verrà presentato il primo progetto politico nato durante il periodo di lockdown: “Oltre – #unpassoavanti”. Il popolo di Oltre – a partire dai nove fondatori – è composto da giovani professionisti di tutta Italia, studenti, professori universitari, architetti, chef e imprenditori della green economy. Alcuni erano portavoce e coordinatori delle Sardine , ma molti di loro non hanno una storia politica alle spalle. Hanno ereditato da Liliana Segre l’amore per la Costituzione e l’antifascismo e quella “farfalla gialla che vola oltre i fili spinati”, simbolo di quello che vuol essere un “incubatore di buone pratiche politiche”; si ispirano alla visione indipendente, pragmatica e critica di Massimo Cacciari, cogliendo l’esigenza di far “emergere una generazione di giovani che facendo il loro mestiere, svolgendo la loro professione, si interessano davvero anche di politica e vogliono partecipare a un dibattito politico fondato su programmi, strategie, idee e non su slogan, promesse e chiacchiere”.

Franz ci ha concesso di pubblicare in anteprima (quasi contemporanea) la sua relazione d’apertura:

La verità dei primati

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di Mariasole Ariot

 
 

A volte mi affaccio nei boschi della nuca, vorrei fosse un passaggio, un passato che passa, aprire le finestre e affacciarsi alle viscere, le viscere del mondo, di quest’epoca malsana – le mie, sempre troppo esposte: quando si scorgono le mie lacerazioni e si entra per lacerarle un po’ di più.
I sonni e i sogni sono ricominciati, pullulano di grandi ambienti marini, grandi musei d’acqua, una buca nel soffitto di un vecchio marinaio da cui soffia, in una Venezia mancata, il vento del Sahara.
Piccoli accadimenti che aprono una feritoia tra grata e grata, mi accovacciano la notte. 

Dopo il turismo

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© JONAS BENDIKSEN | MAGNUM PHOTOS
© JONAS BENDIKSEN | MAGNUM PHOTOS

[E’ uscito per Nottetempo l’ebook Dopo il turismo di Lucia Tozzi, scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore. Ne pubblico a mo’ di anticipazione il paragrafo dal titolo La globalizzazione e il turismo, ringraziando l’editore e l’autrice. ot]

di Lucia Tozzi

La critica no global di inizio millennio, che univa lotte anticapitaliste e ambientaliste, fu archiviata in parte a causa del suo spirito comunitarista che non si adattava molto alle reti ultraflessibili dei movimenti urbani, e in parte perché il pensiero sulle migrazioni, reso nel frattempo sempre piú urgente dall’espansione del fenomeno e delle sue conseguenze tragiche, ha messo in primo piano il diritto alla libertà di movimento delle persone, spostando il focus della lotta dalla difesa dei territori all’abbattimento delle frontiere. La resistenza dei contadini indiani contro la Monsanto è apparsa tutto a un tratto meno cruciale del loro diritto di fuga dal paese martoriato dagli effetti della globalizzazione.

La crisi del 2008 ha spostato poi l’attenzione sulla critica alla finanziarizzazione dell’economia, alla liberalizzazione della circolazione di merci e capitali contrapposta al controllo selettivo del movimento di persone: libertà per i cittadini di paesi ricchi, vessazione nei confronti dei cittadini di paesi poveri. Si è consolidata da allora l’idea che esiste una globalizzazione buona, che facilita lo spostamento di popoli e individui, lo scambio culturale, l’internazionalismo politico, e una cattiva, quella di matrice neoliberista. Un’idea che si è cristallizzata fino a diventare un dogma incontestabile quando hanno cominciato a diffondersi con sempre maggior successo i “populismi” di destra. Da lí in poi ogni critica rivolta alla crescita esponenziale della mobilità viene liquidata nel migliore dei casi come una manifestazione del frusto pensiero della decrescita felice, nel peggiore come sovranismo.

E cosí, grazie all’accumulazione di scarti e tabú, è stato finora quasi impossibile avanzare un dubbio sulla legittimità politica e la sostenibilità sociale e ambientale di questa nostra isteria cinetica senza passare per reazionari e fustigatori di piaceri altrui. In una recente intervista Noam Chomsky spiega che “non c’è niente di sbagliato nella globalizzazione in sé. È bello, per esempio, fare un viaggio in Spagna”7. Identificando tout court la globalizzazione con un positivo processo di democratizzazione dell’accesso al turismo, un piacere legittimo e incontestabile, Chomsky passa poi a scaricare, come da manuale, ogni responsabilità delle storture del mondo sull’altra globalizzazione, quella cattiva, plasmata dalle forze economiche del capitalismo estrattivo.

Il problema è che questa dicotomia è del tutto astratta: il turismo è la piú feroce delle industrie neo­liberiste, equivale secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (unwto) al 10% del pil globale e occupa il 10% dei lavoratori mondiali. E non solo: nel calcolo dei volumi d’affari del turismo globale non rientrano solo gli spostamenti legati al tempo libero, ma tutti gli spostamenti. Viaggi di lavoro, di studio, di svago, per ragioni di salute, pellegrinaggi, visite ai parenti, persino migrazioni. Tutto conta, ogni arrivo nazionale e internazionale, ogni notte in albergo o in b&b, ogni ingresso al museo va inteso materialisticamente come turismo.

Turistificazione e globalizzazione non sono due processi paralleli, sono quasi interamente sovrapponibili: ideologia e industria del movimento. Il manager che fa avanti e indietro da Wuhan e il ventenne che gira per festival techno, da questo punto di vista, hanno la stessa funzione. Le città possono competere per cose apparentemente diverse come diventare sede di un’agenzia governativa o aggiudicarsi un grande evento, ma gli obiettivi appartengono alla stessa costellazione: generare mobilità, attrarre persone e fondi pubblici e privati.

Ciao, Giulio

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Giulio Giorello a un congresso nel 2014

di Antonio Sparzani
(l’altroieri 15 giugno è morto Giulio Giorello, filosofo nel senso più largo del termine, oltre che amico e compagno di percorsi culturali)

Giulio Giorello a un congresso nel 2014

non ho voglia di scriverti un necrologio, che già la parola mi fa orrore, ho voglia piuttosto di ripensare e magari raccontare a chi legge qualche episodio della nostra amicizia, amicizia che viene davvero da lontano: ti conobbi quando venisti, col tuo capo di allora, nientemeno che Ludovico Geymonat, a partecipare a un’assemblea studentesca all’Istituto di Fisica in via Celoria negli ultimi ruggenti anni ’60 del secolo scorso. Eravamo entrambi nella nostra terza decina d’anni, assetati di nuovo e, si può anche dire, di rivoluzionario. Ricordo con grande orgoglio che io intervenni nell’assemblea e che Geymonat in persona si complimentò con me, roba da camminare a un metro d’altezza per tutta la giornata.
Un po’ alla volta ci conoscemmo, caro Giulio, e mi pare che iniziammo ad apprezzarci a vicenda, io fisico quasi imberbe, giunto da poco da Pavia, tu filosofo e in più con laurea in matematica conseguita proprio a Pavia, con un grande prof che entrambi in anni diversi avemmo, Enrico Magenes (1923-2010).
Non fummo mai amici intimi, di quelli che si raccontano tutti i loro segreti, ma in qualche modo sapevamo di poter contare l’uno sull’altro. Io vivevo a città studi con la mia moglie di allora e tu stavi, nella stessa zona, coi tuoi genitori; ma, da bravo tombeur de femmes che eri, avevi affittato un appartamentino in via Inama, sempre lì in zona, che fungeva, diciamo, da garçonnière e fosti così gentile da prestarmela quando mi separai da mia moglie, gennaio 1982, e mi lasciasti stare lì finché non trovai un appartamento in cui andare a stare da single.
Venivo a trovarti qualche volta nel tuo studio al secondo piano in uno dei cortili di via Festa del Perdono e ci scambiavamo notizie e opinioni per noi assai interessanti: quando a me serviva qualche ragguaglio un po’ serio di filosofia, tu eri sempre prodigo di ottime informazioni, così come quando tu avevi bisogno per i tuoi studi di qualche dettaglio in più di fisica, ricorrevi al mio aiuto, per quel che riuscivo a darti.
Quello che mi piaceva di te era la varietà di interessi che avevi e che sei andato sempre più ampliando, da Aristotele a Topolino, come oggi dice qualche giornale, e soprattutto l’ironia che mettevi anche nelle tue più serie elaborazioni. Tu mi facesti conoscere Feyerabend e il suo straordinario Contro il Metodo, che a suo tempo mi studiai con grande interesse. Ti dicevi un po’ eretico, ma eretico da ché, poi? Dalla religione della scienza certamente, così come del resto dalla religione tout-court. Sì, ma il tuo ateismo non era di quelli assatanati dello sbattezzo, tanto che volentieri dialogasti con il cardinal Martini e collaborasti con la cosiddetta Cattedra dei non Credenti.
Fosti così gentile da chiedermi di fare qualche lezione del tuo corso bellissimo di filosofia della scienza, sempre sotto la tua supervisione, e per me fu un grande piacere e onore avere davanti una folta platea di studenti veramente interessati alle tante problematiche cui tu li avevi avvezzati. Collaborammo anche in altri scritti e sempre mi piaceva la tua onestà intellettuale, non così frequente neppure tra gli accademici d’oggidì. Amavi l’Irlanda, dove fosti più volte, amavi la birra irlandese e avevi letto e riletto l’Ulisse con raro puntiglio e accuratezza. E soprattutto, quando parlavi, anche se tenevi una conferenza, non avevi quel tono solenne e autoritario che spesso, sempre nell’accademia, si riscontra, ma un tono più pacato, semmai talvolta, quando era il caso, polemico, sembrava quasi che parlassi a te stesso, ancorché citando spesso con precisione le fonti da cui riportavi giudizi e affermazioni. Insomma, non eri noioso da ascoltare, mai.
Non so, perché era un po’ che non ci sentivamo, come mai tu ti sia preso il malefico covid, spero tu non abbia fatto imprudenze, ma so che avevi avuto pochi anni fa problemi cardiaci piuttosto pesanti e questo è stato evidentemente fatale. Mi dispiace molto non poter più usare quel numero di cellulare un po’ speciale a cui mi avevi detto ti potevo chiamare con una certa sicurezza. Se, contrariamente alle tue convinzioni, sei per caso andato da qualche parte che noi qui ignoriamo, confido che tu stia bene e che tu abbia una bella nuova esperienza, che certamente ti piacerà, come sempre ti piacevano tutte le cose nuove e belle.

Jack Spicer: “una poesia non è mai soltanto sé stessa”

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«Più che d’opera aperta (e in effetti non v’è opera più chiusa di questa) viene ideato dal poeta un lettore aperto, un organismo da attraversare per generare, nel reale, una realtà poetica» scrive Andrea Franzoni nella sua introduzione a Un rosario di bugie. Il volume, stampato da Argolibri per la collana Talee, riunisce tre raccolte – Ammonimenti, Un libro di musica, Quindici false proposizioni contro dio – composte da Jack Spicer nell’anno 1958.

Ospitare qui una combinazione di poesie tratte dal libro significa allargare in qualche maniera il movimento che le ha fatte dapprima cozzare; significa dissotterrare dal libro altri combaciamenti, sgravare sovrapposizioni, teorie del saluto repentino; essere richiamati nel sonoro colloquio del testo. Per il lettore aperto, la lettura opera il senso, tradisce la scrittura stessa.

«Le poesie dovrebbero echeggiare e riecheggiare una contro l’altra, creare risonanze. Non possono vivere da sole, non più di quanto lo possiamo noi» avvisa Spicer in una lettera contenuta in Ammonimenti. Ecco allora che con questo breve frammento ci vengono consegnati -allo stesso tempo-  l’orizzonte del libro da ricomporre, e la materia del rosario da sgranare.

 

 

da Ammonimenti (1958)

 

Caro Robin,

troverai qui la prima pubblicazione della White Rabbit Press. La seconda sarà certamente più bella. Hai ragione a dire che non ho più bisogno delle tue critiche sulle singole poesie. Ma io le voglio ancora. Credo sia una vecchia abitudine – un’abitudine fin troppo vecchia. A metà di After Lorca ho capito infatti che stavo scrivendo un libro e non più una serie di poesie, e tutte le singole critiche, di chiunque fossero, sono improvvisamente divenute meno importanti. E questo vale anche per i miei Ammonimenti, che ti invierò non appena saranno finiti (ne ho già otto e credo saranno quattordici in tutto, inclusa, ovviamente, questa lettera).

Il trucco è semplicemente quello che Duncan ha scoperto anni fa e ha provato a insegnarci – di non cercare la poesia perfetta ma lasciare che la scrittura del momento vada libera per la propria strada, esplori e poi ritorni indietro, ma senza essere mai pienamente realizzata (confinata) entro i margini di una sola poesia. Su questo aveva ragione lui e noi ci sbagliavamo, anche se poi ci ha complicato le cose dicendo che non esiste la buona o la cattiva poesia. Esiste, ma non in relazione alle singole poesie. Non esistono, in verità, singole poesie.

È per questo che tutto ciò che ho scritto finora (eccetto le Elegie e il Troilus) mi sembra marcio. Le poesie non hanno appartenenza. Sono avventure di una notte, piene d’emozioni (per le migliori di loro), ma senza alcun obiettivo, insignificanti tanto quanto il sesso in un bagno turco. Non erano la mia rabbia o la mia frustrazione a ostacolare la mia poesia, ma il mio considerare ogni episodio di rabbia o di frustrazione come qualcosa di unico – qualcosa da convertire in poesia, come si fa con una valuta straniera. È quello che ho imparato al Dipartimento di Inglese (e al Dipartimento d’Inglese dell’anima – questo grande pantano che si annida sul fondo di ognuno di noi) e ha rovinato dieci anni della mia poesia. Guardale quelle poesie. Ammirale se vuoi. Sono belle, sì, ma sono mute.

Le poesie dovrebbero echeggiare e riecheggiare una contro l’altra. Creare risonanze. Non possono vivere da sole, non più di quanto lo possiamo noi.

Perciò non inviare il pacco con le vecchie poesie a Don Allen. Brucialo, oppure aprilo con Don e piangi su ogni possibile libro che ci ho seppellito dentro – le Canzoni contro Apollo, la Galleria degli dèi magnifici, le Canzoni da bere – tutti incompleti, tutti abortiti – tutti incompleti, tutti abortiti perché, come ogni persona che abortisce, pensavo che ciò che non è perfetto non merita davvero di esistere.

Le cose combaciano. Lo sapevamo – è il principio della magia. Due cose inconseguenti possono formare, se combinate assieme, una conseguenza. E questo vale anche per la poesia. Una poesia non deve mai essere giudicata solo per sé stessa. Una poesia non è mai soltanto sé stessa.

Questa è la lettera più importante che tu abbia mai ricevuto.

Con affetto, Jack.

 

 

da Un libro di musica

(con le parole di Jack Spicer)

 

 

Cantata

 

Ridicolo

Come lo spazio tra tre violini

Possa minacciare tutta la nostra poesia.

Facciamo gruppo come degli

Scout a un picnic. Un urlo acuto.

Minaccia pioggia. Quell’istante di terrore.

Curioso come tutto ciò in cui crediamo

Scompaia.

 

 

 

da Quindici False Proposizioni Contro Dio (1958)

 

 

VII

Gli alberi in gioventù sembrano più giovani

Di quasi tutto

Voglio dire

Che in primavera

Quando mettono le foglie verdi e provano

A sembrare dei veri alberi

Giuro su Dio mi si stringe il cuore

Quando li vedo provare.

Viene Agosto e brilla il sole e la nebbia e solo il legno

cresce

E loro lì con le loro foglie ruvide stupiti

Che non sia più estate.

S’insinua la nebbia fredda e a Novembre

Non sembrano più le stesse (le foglie intendo) le foglie cadono

Un motivo così duro da cercare.

Una tale trave

Del cuore.

 

 

X

 

«Alberi. Quelle cose confuse?» domandò il nonno di Williams

o forse era sua nonna sulla strada per l’ospedale. Un viaggio

Che tutti dovremo fare.

Non ricordo bene la poesia ma so che la bellezza

Sempre diventerà confusa

E l’amore sarà confuso

E il fatto stesso di morire sarà confuso

Come un grande albero.

Allora, lasciate ch’io abbatta una ad una

Qualunque cosa blocchi la mia vista

Gente, alberi, i miei stessi peduncoli oculari.

Lasciate ch’io smembri

Con queste nude mani

Questa foresta confusa.

 

 

XV

 

Caro Signore:

ho provato in queste poesie a trovare il Dio a Tre Teste in cui a

tratti ho creduto parlando con voi e vivendo con voi.

L’abissale negozio di giocattoli

S’intromette.

(È un inferno dove nessuno

Ipotizza l’altro. È dopo

Ogni cosa.)

Nessun pensiero coerente o sensazione. Sono le cinque

               del mattino.

Se non cinguetta il bel fringuello

Mamma ti comprerà un anello

Questo è l’ultimo mistero della gioia.

La fine di tutte le ipotesi.

 

 

 

 

Notizie bio-bibliografiche

Nato a Los Angeles, Jack Spicer (1925-1965) si trasferisce in seguito a Berkeley, per raggiungere l’Università della California, dove insegna linguistica e stringe rapporti di amicizia con Ro- bin Blaser e Robert Duncan, oltre a numerosi artisti e studiosi che presero parte alla cosiddetta «San Francisco Renaissance». Morì nel 1965, a causa del suo alcolismo, dopo aver pubblicato alcuni libri in piccole edizioni fatiscenti. Contro il mercato del libro (chiamava il libro «il cimitero»), operò per una diffusione soprattutto orale della poesia, concentrando tutta la sua facoltà poetica nell’espressione di un rapporto continuo tra il poeta e le voci circolanti nella vita del poeta, reali o irreali che fossero. La sua personalità irriverente, congiunte a una palese erudizione e genialità, hanno contribuito a creare intorno a lui un interesse sempre maggiore nella comunità poetica.

 

Zeus! è donna

1

Estratti da Zeus! rivista mutante n°86 – Edizione quarantena *

Compromesso
Ho un compromesso da risolvere: quello della vagina. Io odio le donne: sono più consapevoli, sono bisbetiche. Bisogna rassegnarsi. Non le conosco le donne. Le odio, quella che odiavo di più si chiamava Loredana. Mia mamma la amavo, aveva una cipria, la metteva sulla faccia. Io non posso perché sono un uomo. Non posso la gonna, non posso il rossetto: sono un uomo, l’ha deciso il Padreterno.
(Enrico)

I generi, vari e assortiti
In genere ho un buon carattere, in genere vado al bar di sabato. Avevo dei genitori e poi sono morti. Io di genere sono una donna, Tullio è un uomo o anche un ragazzo, può essere chiamato nell’uno o nell’altro modo e non cambia il sesso. Una persona degenere, degenerata, degenerante, di un’altra generazione o della nostra generazione, una persona generosa di un’altra epoca come la Belle Epoque, che era un periodo bellissimo con il Can-can e quei vestiti larghi, molto voluminosi e “sberluccicosi”. Il generale è molto importante in guerra perché deve combattere e vincere, e se non vince non gli danno il premio. A me piacciono i Duran Duran, il loro genere è il pop, a me piace anche il rap. I generi alimentari sono i prodotti che si mangiano e si vendono nei negozi alimentari: io sono golosa e li mangio tutta presa e attratta dal cibo. Il genero è un parente, che non sempre fa piacere vedere ma finché lo vedi vuol dire che è ancora vivo.
(Michela)

L’unghie
Unghie: sto mangiando. Metto smalto in estate, in inverno non metto. Mi piace rosso, sui piedi rosso e sulle mani blu. Non vado da estetista, che dici!? Unghie corte, pulite, ordinate e dopo mangio ancora, gusto formaggio.
(Monica)

Se fossi donna
Se fossi donna amerei fare un’altra vita. L’ho sempre immaginato, però una cosa che vorrei è che se fossi donna almeno non disabile. Essere una donna lavoratrice anche solo un part-time in modo da avere una mezza giornata libera. Una volta tornata a casa mi cambierei mettendomi comodi vestiti: leggendo qualche libro o mettendomi al computer. Per i vestiti indosserei jeans, camicette a fiori e sopra la giacchetta, mi sa che non indosserei mai la gonna. Come donna mi immagino magra e alta con capelli lunghi, se fossi donna mi vedrei single.
(Franco)

Le mestruazioni di Michela: terminate e io ne sono soddisfatta anche se a volte ho un po’ di mal di pancia
Non mi sono più venute le mestruazioni: sono in menopausa da poco. Anche la Paola, lo dice da tempo , sarà vero? Non sono più la stessa Michela di prima, ho cambiato. Una vera donna che si sente viva e si sente contenta è una donna con le mestruazioni, è più serena. Ogni donna deve averle, se non le hai sei una persona fottuta. Non ne faccio un dramma però, accetto senza problemi questa condizione di persona giovane con speranze reali e irreali ma senza mestruazioni nella quale sono stata catapultata improvvisamente. Dicono che si vive una volta sola e mi sa che è vero, quindi potrei morire da un momento all’altro. Ogni tanto sento dei dolori che partono dalla pancia e salgono fino al seno, dovrei parlarne coi dottori, sarebbe ora! Dovrei fare anche una dieta un po’ più specifica, sono un po’ ingrassata … Non saprei di preciso a chi chiedere consiglio però, di sicuro non chiederei all’Alessandra che pensa sempre e solo a mangiare, forse chiederei ad uno psicologo, sono sicura che può consigliarmi cosa mangiare e cosa non mangiare. Io sono una tipa ottimista comunque e vedo dell’ottimismo anche nel pessimismo e mi rassegno alla vita che viene giorno per giorno.
(Michela)

Pro e contro dell’erezione
La Paola è troppo giovane, secondo me dovrebbe andare in menopausa quando hanno perso lo stimolo sessuale, che cambia da persona a persona, a seconda se l’ha usata tanto o poco, almeno per l’uomo è così. Di menopausa ne avevo già sentito parlare, soprattutto delle scalmane, che provocano alcuni momenti di calore. Secondo me noi uomini abbiamo come un caricatore che dopo un certo numero di colpi si esaurisce. Dipende da come viene presa dall’individuo: c’è chi si è impiccato, come un siciliano che abitava nel palazzo dietro il mio, l’ha fatto davvero, si è impiccato in cantina o così si dice visto che non si sa ancora oggi se è stato davvero un suicidio. Personalmente penso che quando arriverà il mio momento non me la prenderò più di tanto, anche se un po’ dispiaciuto me ne farò una ragione.
(Gianfranco)

La donna incinta
Donna gravida, donna incinta: va in un ristorante, tipo a New York, a mangiare una pizza con porcini e grana. E’ gravida, vuole qualcosa: vuole le coccole, vuole mangiare i dolci. Non può fare il lavoro, non può fare le pulizie, non può cadere. Se si arrampica con la pancia rischia di perdere il bambino, è meglio che non salga. Può studiare, disegnare e anche andare in giro con qualcuno. Non può fumare, può bere un pirlo, solo uno però. Quando nasce il bambino lo cullerà e lo chiamerà Andrea.
(Alessandra)

Giulio
Io uomo: macaco. Nome: Giulio, lavoro: Gare con la moto.
Biondo, basso, grasso, sposato con Giulia Mottinelli con bambino piccolino. Battesimo Papa Francesco.
(Giulia)


* Zeus! é la rivista bimestrale della cooperativa “Il Cardo”. (…) L’obiettivo principale di questa rivista è quello di mettere su carta le parole degli utenti della cooperativa, per far sì che esse rimangano, che siano una traccia oggettiva dell’esistenza di queste persone. Una volta pubblicata, la rivista crea un ponte comunicativo e diventa fruibile dal mondo esterno. (…) Il taglio generale della rivista è principalmente ironico (e auto-ironico): a Zeus! interessa raccontare, far riflettere, far ridere attraverso canoni spesso non propriamente convenzionali e che non siano mediati e indirizzati dagli usuali stereotipi che il mondo esterno ha e utilizza per relazionarsi con l’handicap. (Tratto dal sito della cooperativa Il Cardo)

[L’abbonamento alla rivista ha la durata di un anno (6 uscite bimestrali) e costa 20 euro. Invii in Italia eall’estero, il costo della spedizione è compreso nel prezzo dell’abbonamento. Qui i dettagli]

Questo numero avrebbe dovuto uscire uscire in marzo, di qui il tema scelto; le illustrazioni di copertina di Zeus! rivista mutante n°86 sono di Elena Tognoli

(Nazione Indiana in passato ha ripreso testi e disegni da un altro numero di Zeus!)

La postura

5

di Paolo Morelli

La formula della cosiddetta decrescita felice sembra passata di moda, se mai lo è stata. Si presenta ogni volta e si arena immediatamente sulla spiaggia delle buone intenzioni, calmierante, da ricchi. Si capisce subito che si basa sugli stessi presupposti che hanno creato la deriva in atto, un ulteriore affinamento del sapere tecnologico ad esempio che presuppone ulteriori sfruttamenti di uomini e cose, messo al servizio di una maggiore ‘facilità’, benessere, comodità o supposta semplificazione della vita. Per ogni sogno che si avvera per il mondo di qua, tipo l’auspicabile mobilità elettrica, si apre un nuovo incubo nel mondo di là, fatto di miniere, terre devastate, altre sofferenze, carestie, malattie, sfruttamento, migrazioni etc. etc. Sofferenze che poi ritornano. È la assai ragionevole ultima spiaggia di un pensiero esausto. Dopo c’è il nulla, finalmente ci si può rilassare, affidandosi all’ineluttabile.
Tuttavia una certa sostenibilità, o sopportabilità sia ambientale che mentale dovrà pur esserci, perfino dando per scontato l’ineluttabile. Una forma di resistenza diciamo cosí, giacché l’ineluttabile prende qui la parvenza di qualcosa sì di nuovo, ma con una forte somiglianza di famiglia col fascismo, e in piú con una caratteristica assai stimolante: ha tendenza globale. E noi ben sappiamo che la riuscita di ogni avvenimento che abbia una forte somiglianza col fascismo abbisogna per svilupparsi di un terreno di miseria, non povertà che può essere dignitosa, può essere perfino un buon affare, ma proprio una miseria senza riscatto. In primo luogo certo quella dei mezzi di sussistenza, esiste però anche la prospettiva concreta di un detrimento dell’intelligenza con una forte somiglianza di famiglia con la miseria piú nera.
E, naturalmente o quasi, qualsiasi catastrofe o emergenza di quelle che sembrano attenderci nel futuro non potrà che peggiorare le cose, ogni volta di un grado o più.
Il dato di fatto da cui partire è che il mutamento in atto è di quelli epocali nel senso pieno della parola, il cui esito può essere esiziale appunto, oppure una occasione per tutto quello che abbiamo fin qui chiamato umanità. Una di quelle fasi eccezionali nella storia dell’uomo in cui la scelta fin troppo radicale potrebbe formularsi come bestializzazione/mutazione, tenendo ben fermo il fatto che oggi ogni conflitto pare si sia interiorizzato.
In un presente che ci appare sempre più insensato, senza tempo né progetto, policentrico e soprattutto, checché se ne dica, senza un vero controllo da parte di alcuno, in un campo di azione in cui il vero non possiede piú alcun privilegio sul falso ed è quindi destinato a soccombere, a sparire dalla faccia della terra ed essere sostituito dalla legge spuria del basso istinto, la critica, è ovvio, non dovrebbe provare ad essere altro che radicale; la direzione, come ultima ratio certo, non può essere altra che verso le basi, all’essenziale, liberandosi in prima istanza da un intralcio che a fatica definiamo umanista, vale a dire una fiducia mal messa sulla capacità umana di controllare i cambiamenti non solo antropologici ma addirittura biologici offerti dalle tecnologie da essa stessa create. Non è mai stato vero, dalla ruota in poi, basti pensare alla perdita delle capacità mnemoniche seguito all’invenzione della scrittura ad esempio, giacché ogni strumento inventato o utilizzato, lo affermano i paleoneurobiologi, non può che finire per alterare la nostra organizzazione cerebrale. “È curioso che l’uomo occidentale non abbia mai considerato una nuova invenzione come una minaccia al suo sistema di vita”, avvertiva il visionario McLuhan già nel 1964, e già ritenendo quanto l’attributo di occidentale sarebbe divenuto superfluo. Eppure lo sentiamo dire ogni giorno che tutto dipende da come le si usa, e vale per le armi come per le tecnologie. In questo nostro caso odierno poi è la potenza invasiva del sistema nervoso centrale cui sono abilitate le nuove strumentazioni, con una velocità di esecuzione e uno schiacciamento temporale mai visto nei millenni ad aver creato le condizioni, alle prese con un atteggiamento della mente che le usa, che crede di usarle, palesemente inadeguato.
Molto ma molto piú insomma di un semplice cambiamento di prospettiva come ce ne sono stati miliardi da quando c’è aria, quasi un terremoto, un ribaltamento per le nostre modalità cognitive.
Una volta liberati da tale presunzione lesiva del nostro buon nome di esseri pensanti non potremo più dubitare di quale sia la fonte del mancato privilegio di un vero qualunque nei riguardi del falso, la causa almeno principale per cui nessun vero si distingue ormai dal falso: un modo di ragionare che non funziona più, al cospetto dei mutamenti in atto.
Stiamo entrando infatti, non proprio a passo danza, nella pazzia all’epoca della sua riproducibilità tecnica. Se il vero ha sempre avuto difficoltà a farsi credere, la menzogna e la pazzia, o ancor peggio forse la mera stupidità si sa quanto siano incontrollabili e moltiplicabili con facilità. Oggi approfittano di possibilità immense. Non si vede perché non dovrebbero riprodursi a dismisura come gli altri nostri messaggi, ma con maggiore efficacia penetrativa. Non si vede perché assieme ai forum e agli appelli per la pace la base di diffusione pressoché illimitata non debba favorire pure il proselitismo dei tagliagole o la brutalità da salotto dei frustrati di cui è pieno il mondo. O che la condivisione social non possa essere viatico per emulazione dell’idiozia stragista, giacché la violenza come gioco narcisistico non soltanto è pericolosa ma inarrestabile. O che, infine, lo stato turpe di “solidarietà negativa” (Hannah Arendt) non possa essere amplificato dalla comunicazione digitale. Non è solo il rovescio della medaglia, è la medaglia tutta che è falsa. Ecco che il vero sta diventando delinquenziale, o almeno quello che è stato selezionato per vero dalla società che ci ospita. Ecco che siamo in grado di apprezzare solo il finto, l’edulcorato, l’artificioso, il complicato e ci danno fastidio non solo le cose autentiche e le più semplici ma anche quelle ricche di complessità. Non abbiamo altra chance che prenderne coscienza.
Eccoci quindi all’ultima ratio che si trasforma in buona occasione: mai come ora può apparire chiaro come la totale esperienza del mondo dipenda dall’orientamento della mente. Ad esempio, l’ambiente mentale e umano mutato dall’invasività delle tecnologie, le condizioni percettive e cognitive del tutto nuove, rendono improvvisamente inattuale e inadatta la concezione finora dominante, quella che tende a contrapporre il tempo autentico, il tempo interiore della coscienza al tempo esteriore del mondo. E se il tempo interiore ha consentito la costituzione del concetto di coscienza individuale come luogo di emancipazione, ha anche determinato la riduzione dell’esperienza al momento della coscienza, rimuovendo gli elementi dell’inconscio come il nostro ‘essere nel mondo’ corporeo.
Dalla smaterializzazione delle esperienze e dell’esistente, con susseguente estetizzazione (l’allontanamento delle cose ritenute sgradevoli è corroborato in prima istanza dall’instaurazione del linguaggio corretto: non-vedente per cieco, ‘interrogatorio intensificato’ al posto di tortura…; viatico poi per un ulteriore passo dell’addio al buon senso: che so, il cambio del finale alla Carmen di Bizet per femminicidio com’è successo tempo fa al Maggio Musicale Fiorentino, o magari preparando il terreno con notizie che non si può sapere quanto siano false, tipo quella del blocco alla Sorbona de Le Supplici di Eschilo per razzismo), all’esilio del dalle attività della conoscenza, all’esilio dalla vita in definitiva. Altro esempio, facciamo i conti con un progressivo restringimento della nostra prospettiva dovuto a molte ragioni, e una è certamente l’ansia forzosa da presentificazione come un effetto collaterale dell’irriducibilità del nostro tempo psichico con quello informatico che tende, anzi pretende, la simultaneità di azione e reazione.
Ora che all’intelligenza per millenni considerata la più evoluta, quella ‘sequenziale’, si sostituisce quella ‘simultanea’ caratterizzata dalla capacità di trattare allo stesso tempo più informazioni senza però essere in grado di stabilire una successione o gerarchia o ordine, ecco come si impoverisce il pensiero.

 

Sarebbe un insulto ai saggi definirlo un saggio. Comunque sia, tratta (prova a trattare) della necessità, per me urgente anzi imprescindibile di un addestramento, per riacquistare lo spirito critico che ognuno crede fortemente di avere e invece perde a fronte dei mutamenti percettivi e cognitivi, per lo più senza accorgersene.
Sto cercando di spiegarlo in poche (64) parole, ma è più sghembo di così.
Poi però ci sono i disegni originali di Carlo Bordone, allora le parole diventano settantanove.

P.M.

 

NdR: il testo di Paolo Morelli fa farte della raccolta “La postura del guerriero”, pubblicato recentemente da Sossella, che ha gentilmente concesso il permesso di riportarlo qui

 

“Soleil grigri” (1/4): da “Quarto vuoto”

1

di Gilles Weinzaepflen

traduzione di Alessandra Cava

 

[Soleil grigri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla prima sezione del libro, Quarto vuoto. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Cardine Kinski, La primavera torna indietro e Salut, voilà].

 

Scuola di ballo

0

di Paolo Codazzi

Mostratemi qualcuno sano di mente e lo curerò per voi…
Carl Gustav Jung

Non avrei mai immaginato che all’estrema periferia della città, dove fino a pochi anni fa la piana s’imputridiva in maleodoranti acquitrini infestati da varie specie di insetti, involontari portantini di organismi patogeni, e dove l’uomo si guardava bene dall’avventurarsi, salvo alcuni pescatori di anguille e cacciatori di volatici endemici a quell’ecosistema (definizione di recente attribuzione, prima il luogo veniva genericamente denominato pantanaio), e dove ora si addensano numerosi alveari umani in un reticolato cicatrizzato di erba ingiallita, non avrei mai immaginato, appunto, che in quel luogo ci fosse una bella villa seicentesca: residenza per secoli di un casato nobiliare discendente da un ramo inferiore dei Medici, al centro di un esteso e suggestivo parco qualificato dalla presenza di esemplari secolari di monumentali alberi sui lati di stagni punteggiati di ninfee, dove il fervore dei naturalisti ha raccomandato la restituzione della palude che un tempo infettava tutta la piana, allora guardata con ostilità anche per le malattie di cui era incubatrice, oggi con il rimpianto di un ambiente ormai del tutto estinto escluso quei tre laghetti sulle cui sponde cartelli didattici indicano le specie di flora e fauna che ancora sopravvivono in quell’estensione piuttosto ampia di alberi, campi infiorati, laghetti sui quali è pure possibile noleggiare una barchetta per romantiche crociere.
In uno dei grandi prati che interrompono la vegetazione e l’area riproducente il nostalgico acquitrino e dove il sole cominciava a distendersi giocando sui riflessi dell’erba ancora umida della brina notturna, vi erano due tende di quelle da campeggiatori, separate da un tavolo su cui era appoggiato un potente amplificatore per la diffusione della musica: simile a quelli che a volte si notano sulle spalle di giovani schiamazzanti negli stretti e rimbombanti borghi cittadini e che infastidiscono le stanche pietre superstiti alla furia degli uomini. Un emiciclo di sedie, non tutte occupate dai pochi spettatori, si raccoglievano attorno ad un improvvisato palcoscenico formato dalle tende e dal tavolo e, sedute in ordine sparso, alcune coppie abbigliate in modo stravagante con abiti di un recente passato: immobili, variopinte porcellane di Capodimonte, attendendo il via del maestro, presumibilmente di ballo, che appoggiato al tavolino, prima suggeriva alcune indicazioni sulle figure da eseguire (e ciò esemplificando con ampie e rotatorie evoluzioni delle braccia), poi detonava l’impianto e la musica irrorava il luogo facendo scattare le coppie in volteggi armonici di ballo classico in un delirio di colori simile ad un caleidoscopio animato sullo sfondo del verde risvegliato dal sole.
Quasi subito il maestro interrompeva la musica e urlando, ma sorridendo, suggeriva movimenti mimandoli con il suo aggraziato corpo, correggendo quelli che difettavano della necessaria perfezione secondo canoni codificati di ogni particolare ballo classico. Era più il tempo dell’attesa che non quello in cui lo spettatore poteva dilettare lo sguardo e l’udito con la grazia e l’armonia della musica e del ballo, ma nonostante questo gli spettatori assistevano immobili ed attenti rapiti dallo spettacolo cui erano partecipi, senza nascondere nei malcelati brevi commenti, improvvise esclamazioni, un desiderio latente del quale non avevano mai avvertito la necessità.
Mi soffermai a osservare una grande acacia di fianco ad un cipresso calvo e lessi attentamente le schede didascaliche che diligentemente dettagliavano la morfologia della pianta, l’epoca di origine e le zone della terra nelle quali attecchiva spontaneamente. Poco oltre questo gruppo di alberi secolari, quasi quattro secoli fin dalla costruzione della villa che il marchese volle in quel luogo come tributo alla passione per la caccia ai volatili, ma che pretese circondata da un’oasi verde emulando le grandi dimore che nel periodo venivano costruite per le varie e intrecciate nobiltà europee, notai alcuni uccelli acquatici giocherellanti tra loro con grandi e improvvisi balzi nell’acqua stagnante del laghetto vivacizzata dagli spruzzi dei loro svolazzi: ignari di una grande biscia che in agguato attorcigliata ad un sasso nei pressi della riva opposta del laghetto attendeva che una preda fosse alla portata della sua aggressività. Era il segnale, seppure in una progettata cattività, di una irreversibile primordialità di lotta per la sopravvivenza come del resto siamo usi vedere nei molti documentari sulle savane africane che la televisione trasmette in continuazione, quasi ad emendare le colpe dell’uomo di fronte al grande merito dell’umanità nell’aver abbandonato simili meccanismi di sopravvivenza: o comunque di averli depurati della cruda evidenza.
La musica crepitò di nuovo chiassosa, con note di un celebre tango che il maestro ballò da solo per mostrare agli allievi movimenti e ritmi adeguati alla grazia della musica: sembrava che volasse tanto le gambe si levavano da terra e vi ritornavano con la leggerezza sicura di un volatile: non certo quelli che avevo notato nel laghetto che al deflagrare delle prime note schiamazzarono dall’acqua in uno volo sguaiato e chiassoso che peraltro li salvò dalla biscia in agguato.
Una giovane e graziosa ragazza si alzò dalla sedia e raggiunse il maestro al centro dell’improvvisata pista da ballo e, unendosi a lui nel tango con la medesima leggerezza, insieme completarono tutta l’aria musicale tra gli applausi degli altri e del sottoscritto che in quell’applauso concentrava la delusione, mai risolta, di non saper ballare, pur avendolo sempre desiderato. Infatti non ero mai riuscito a trovare l’accordo con la danza e le codificate movenze di ogni particolare ballo classico, il ballo era sempre stato un meschino espediente per appoggiare il corpo a quello di una donna preoccupandomi soltanto delle sensazioni suscitate dal contatto e disinteressandomi dell’armonia gestuale e di come questa dovesse conciliarsi alle musica. Non avevo mai imparato a ballare, nel senso tecnico del termine, così come non sapevo cantare, così come non sapevo fischiare: un vuoto esistenziale, un buco nero nella personalità che ancorché non grave, e che per molti altri non avrebbe davvero costituito preoccupazione, mi opprimeva da sempre con un senso di incompiutezza, di inabilità alla vita: forse alla stessa maniera con cui l’uomo manca il volo possibile a tante altre specie animali.
Quasi che avesse improvvisamente colto le mie riflessioni, un uomo si alzò dalla sedia iniziando a cantare con una voce bellissima e un’intonazione coerente con la musica, incoraggiato dal maestro che sorridendogli e incentivando la velocità delle evoluzioni quasi l’obbligò a continuare nel melodioso canto che zittì il sorpreso brusio degli spettatori. Un’altra giovane e graziosa ragazza si alzò e guardando oltre la mia testa, verso gli alberi più alti, cominciò a fischiare facendo da controcanto al felice canto dell’uomo: La musica, il canto, il fischio in controcanto, si fusero in raffinata melodia che difficilmente si può avere l’opportunità di udire e che consentiva al maestro visibilmente soddisfatto e all’allieva sorridente di felicità, di scivolare, svolazzare sull’erba umida appena mossa da una leggera brezza nel frattempo fusasi all’insieme.
Tutto questo continuò per circa un’ora tra l’evidente soddisfazione di tutti, rendendomi gioioso per l’opportunità del luogo che non conoscevo, per la sorpresa della musica e del ballo che in vita mia non avevo mai visto eseguire in maniera tanto perfetta e, soprattutto, senza cagionarmi rimpianti di alcun genere per non saper ballare, cantare e fischiare; vivevo una felicità oggettiva che s’inseriva nel mio umore ed era come se anch’io in quel momento sapessi cantare, ballare e fischiare… Infatti, mentre un autobus infranse l’armonia del luogo con la rumorosa manovra d’accosto al marciapiede fuori del parco, e lo intravidi da una smagliatura tra le piante, corsi a passo di danza sul prato seguito da un’altra giovane e attraente ragazza che si alzò correndo verso di me e abbracciandomi nella guida di un tango che figurai in modo straordinario non avendo mai sospettato di poterci riuscire; istintivamente cominciai a cantare il motivo della canzone con un’intonazione sorprendente, ma la sorpresa maggiore fu socchiudere le labbra in un armonioso fischio che si unì al controcanto dell’altra ragazza: tutti applaudirono il maestro, le ragazze, il cantante e il sottoscritto per la grande rappresentazione di musicalità e armonia che offrivamo al pubblico nel frattempo gonfiatosi di altri spettatori. E anche numerosi bambini gioiosi applaudirono nella soddisfazione delle madri, tentando di imitare le figure di quel memorabile ballo sull’erba di un prato ancora bagnato per la brina della notte.
Alla fine del motivo il maestro si staccò dalla ragazza baciandola affettuosamente sulle guance, cosa che anch’io feci staccandomi dalla compagna di ballo, e richiamò tutto il gruppo indicando l’orologio al polso verso un qualche ritardo.
Si raggrupparono raccogliendo le proprie cose e salutando i presenti, con gesti plateali delle braccia, si diressero verso l’uscita del parco dove un capannello di anziani leggeva e commentava ad alta voce le apocalittiche notizie dei quotidiani. L’autobus era per loro, vi salirono ordinatamente sempre nel brusio di una grande felicità, e il rumoroso automezzo ripartì sfiammando una nuvola di fumo e offrendosi per un attimo in tutta la sua interezza tra il diradarsi degli alberi lungo il perimetro del parco: Centro Riabilitazione Psichiatrica e Medicina della Mente, era scritto in caratteri cubitali sulla fiancata al di sotto dei finestrini dai quali salutavano i membri della Scuola di Ballo.

NdR: l’immagine: Flores Balbuena, senza titolo, Collezione Museo del Barro, Assunción

Vesti la Giuba

4

 

di

Francesco Forlani

La ganga dei poeti si premia e incensa sui giornali manifestamente di sinistra. Che poi tutti sanno che la poesia non è una cosa di sinistra, come la musica e la pittura del resto. Al massimo si potrà dire di tali opere che sono sinistre anche se premiate e incensate sui giornali manifestamente di sinistra. La poesia o è nuda o non è. Altrimenti è atteggiata, tronfia, saccente, insomma inutilmente addobbata. Compito del lettore dovrebbe essere, quando gli capita il miracolo di trovarsi di fronte a una vera poesia, non quello di spogliarla dei sensi e significati, ma di rivestirla timidamente come si farebbe con un amico o un’amica ai margini della vita. La poesia è mendicante, e i veri poeti dei miserabili, altrimenti, diciamolo pure, ci si trova di fronte allo stile senza verità, allo sforzo titanico della montagna che partorisce strane minuscole creature portate a credersi per strani giochi di specchi, giganti o ciclopi accecati dalle proprie frenesie. Poiché parliamo di poesia, ecco un’opera nuda, Ritratto di famiglia, Oèdipus Edizioni, di Anna Giuba, poesia che vale la pena vestire con la propria attenzione e pochi cenci.

NT (nessun tempo)

0

di Alessandra Greco