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Trittico ornitologico

3

di Benny Nonasky

Partiamo dal presupposto che una qualsiasi cosa debba essere utile. Successivamente, quella qualsiasi cosa, deve anche essere fatta bene. Penso che sia sufficiente. Perché io mi interrogo sulla composizione, sulla bellezza, sull’esito positivo delle cose. Ma non tutte vengono bene. E non tutte hanno un’utilità positiva. Almeno le cose antropiche. In natura tutto è collegamento e rete. Se una cosa funziona, anche il resto ne giova e il mondo va avanti. Per fare un esempio quotidiano: se non avessimo disboscato mezzo mondo, se avessimo tenuto una determinata distanza dal mondo animale, il Covid-19 sarebbe rimasto lontano dai nostri organi e pensieri. Questa composizione è un contributo personale verso tre splendidi uccelli che ho avuto modo di vedere e studiare. Racconto il nostro primo incontro. Ed essendo principalmente un poeta, lo faccio con la poesia. Niente di più semplice e difficile. Spero di tornare presto in natura personalmente, ma intanto posso rappresentarla per iscritto e spero che anche voi riusciate ad entrarci, a stupirvi (come successo a me), a divertirvi e a pensare al dopo non come ad una riscossa, ma con attenzione e lentezza. Non credo che tutto sia ormai perduto. Non penso che la gente voglia vivere sempre chiusa dentro casa, impaurita dalla Terra e dai suoi malanni accelerati e sconvolgenti, in atto per mano umana. Come mi capita di pensare in questi giorni di quarantena, quando esco per fare la spesa, la cosa più triste è non vedere bambini per le strade. È tremendo. Solo vecchiette che si lamentano di qualcuno che passa avanti per gli affari suoi anche se non deve fare la spesa. I bambini sono quello che ci resta per andare avanti. Io non voglio un mondo di vecchiette sclerate e uomini crudeli. Penso nessuno di voi. Una buona lettura.

 

.Il Martin Pescatore1.

Stare appostato da mattina a sera
sul molo dismesso d’un ritaglio del Po
e non vederlo.

Saperlo frusciare sulla corrente
così fulmine e lampo da figurarlo
anch’esso luccichio e acqua.

Scavare con gli occhi il circostante
per osservarlo rigido su un ramo
ad attendere la preda

che comunque passerà di là
perché è il destino della preda
e non per la superficialità della materia:

nell’omicidio preciso –
per fame, orgoglio, potere e fame –
va così il mondo.

Allora anche l’amore:
un piccolo pesce come il primo bacio2,
l’esempio che per unire qualcosa si spezza;

e l’omicidio così passabile,
necessario alla sopravvivenza
e alla riproduzione.

Perché è il destino della preda –
o ciò che l’uomo ha deciso
per le sue innumerevoli prede:

addobbo per i capelli delle signore,
un cuore per i bambini epilettici,
barometro secco appeso in cucina3.

Ciò che l’uomo ha deciso
(dietro al gesto non c’è amore)
è l’omicidio così passabile,

non necessario alla sopravvivenza
e alla riproduzione:
solo per affermare che noi

possiamo tutto contro tutti
fino a una qualunque misera fine.
Va così il mondo.

Io per giorni ho trascorso ore zen
d’osservazione senza mai incontrarlo.

Avrei potuto stanarlo bruciando l’intera
boscaglia dispersa tra le sponde del Po.

Dire di averlo visto – cometa che folgora
la troposfera; niente di più profondo e blu –

e dire, sì, di averlo visto;
compreso il piromane che per un attimo

non sono riuscito a fermare.
<<Va così il mondo>>, avresti detto.

Invece ho lasciato perdere.
Invece ritornavo ogni giorno là,

il tempo di accendere/spegnere una sigaretta.
Una vita dopotutto.

Ma così si concludono le grandi storie.
Qualche settimana dopo,

l’occhio percepisce un movimento,
dita che scivolano su un do diesis minore,

ed eccolo: delicato, signore del fiume,
un Alcione4 adulto, i suoi colori come

stesi su una tavolozza ancora freschi
di Marc Chagall o Rembrandt.

Era in posa su un lampione smunto.
Io ho cancellato i minuti e le ore.

Forse mi sarei dovuto inchinare
ma uno, forse miliardi di secondi,

e già un fulmine e lampo
ormai un luccichio e acqua.

Spettava a lui fare la prima mossa.
Mostrarsi, specificare le distanze,

la mia incapacità d’osservazione.
E proteggere il territorio dalle bestie cattive,

che avrei potuto disboscare l’intera area
o diventare un tutt’uno con gli alberi,

sbandierare al vento il pollice opponibile,
tanto comunque

spettava a lui definirmi il destino:
semplicemente una preda.

 

NOTE

Questa poesia parla del Martin Pescatore (Alcedo atthis), piccolo e fantastico uccello della famiglia degli Alcedinidi. Inconfondibile per il suo lucido colore azzurro-verde, con riflessi metallizzati, e il becco lungo e nero. La poesia racconta dell’incontro avvenuto tra me e il Martin Pescatore dopo diverse settimane (in giorni sparsi) d’appostamento.

2 Il Martin Pescatore è un uccello molto territoriale, scaccia con voli rapidi e precisi tutti gli intrusi, tranne le femmine che “invita” donandogli un piccolo pesce. Se il dono viene accettato, scavano nella terra il loro nido.

3 Nel Settecento e nell’Ottocento era consuetudine per le dame indossare copricapi che brandivano corpi imbalsamati di piccoli uccelli, compreso il Martin Pescatore.

Altro uso inutile, già dal basso medioevo, era quello di uccidere il Martino e utilizzare il suo piccolo cuore come amuleto, allo scopo di guarire i bambini colpiti da epilessia.

In Italia, e soprattutto nella Romagna, forse fino agli anni cinquanta del secolo scorso, girava una strana tradizione: usare il corpo del Martino come barometro. Veniva appeso solitamente in cucina con una corda di violino e quando volgeva il petto verso Nord, in base al periodo dell’anno, poteva esserci bel tempo o neve; quando lo volgeva a Sud, arrivava invece la pioggia.

4 Il suo nome viene dal greco halkion (colui che genera sul mare). Gli Dei amavano molto questi uccelli da calmare le acque quando nidificavano. Nella mitologia greca, Alcione, una delle Pleiadi, andò in sposa a Ceice figlio di Espero, la stella della sera; quando Ceice morì in un naufragio essa pure per disperazione si gettò in mare, tanto che i numi impietositi dalla loro sorte li trasformarono in Martin pescatori.

**

.Miuuu1.

Sole allo zenit e in quota salendo,
ali tese su ascensionali correnti,
il grido d’armi e tormento per il resto:
cala il silenzio dentro il firmamento2.

Così, dalla montagna ferita dal fuoco
dove Rea3 cade per denaro e sorge
comunque tra le macerie umane,
la Poiana scende incontro al mare.

Così è scesa pure la mia gente
a sostituire l’ulivo al cemento4.
Divorare il mare per poi inveire5.
Quello che avevano. Quel che sono.

Cani abbandonati. Pali elettrici. Resilienza6.
Quando la Poiana lascia la montagna
c’è un certo eccitamento nell’aria.
Una regina attraversa la miseria terrena

e le rondini sono silenzio sui tetti
e ancora una volta invidio quel grido –
che è dolore e rivoluzione,

tra lo scudo e la spada,
le macerie e la misericordia umana –
percepire che il mondo ti sta a sentire.

 

NOTE

1 La poesia parla della Poiana comune (Buteo Buteo), splendido rapace della famiglia dell’Accipitridi. Animale molto comune in Italia, lo si può trovare sia in aree boschive che antropizzate, ha una piumaggio bruno-marrore sulla parte superiore, più chiaro e macchiato su quella inferiore. Il titolo è l’interpretazione del suo richiamo, come un fischio miagolante; imitato molto bene anche dalla Ghiandaia. La poesia racconta di una Poiana che ogni estate, verso l’ora di pranzo, arriva dalla montagna (una parte dell’Aspromonte) e si spinge per qualche ora verso il mare, passando sopra la mia casa. Succede qualche giorno dopo il mio rientro, a fine luglio. È come se mi venisse a salutare. <<Bentornato>>.

2 Ho notato che quando la Poiana è in volo (come descrivo in poesia: plana, sfruttando le correnti calde ascensionali), nel cielo si espande un gran silenzio. Se prima le rondini tagliavano l’aria come motovedette con le ali, improvvisamente il vuoto. E giustamente direi: più che una grande vista, le Poiane hanno un ottimo olfatto (oltre che cacciatori, sono saprofagi) e non disdegnano altri uccelli come prede.

3 Rea, nella mitologia greca, è la figlia di Urano (Dio del Cielo) e Gea (Dea della terra) e sposa di suo fratello Crono (Dio del tempo), dalla quale avrà sei figli. Cinque verranno divorati dal padre. Si salverà solo Zeus: la madre fa mangiare a Crono un sasso avvolto in una tela. Rea è, come sua madre, Dea della terra. Inoltre, secondo i mitografi greci, si reincarna in Cibele, “la Grande Madre”. Il suo potere comprende l’intera natura, di cui ella personifica la potenza della vegetazione.

4 Come in tutt’Italia, negli anni cinquanta e sessanta, anche Caulonia (mio paese natio) è stato soggetto a quel fenomeno urbano detto gemmazione; cioè l’espansione del paese collinare o montano verso le zone limitrofe al mare. In alcuni contesti si sono creati nuovi comuni, come un’entità territoriale autonoma o solo come estensione urbanistica, spesso con la sola aggiunta del toponimo “Jonica” o “Marina” dopo quello del vecchio comune d’appartenenza (es. Gioiosa Jonica, Siderno Marina, eccetera). Altre volte sono stati abbandonati interi paesi (anche per fattori ambientali come terremoti o alluvioni) dove tutta la popolazione è stata costretta a spostarsi in una nuova sede a ridosso del mare. Caulonia è uno dei più grandi paesi, per estensione territoriale, della provincia di Reggio Calabria. Negli anni cinquanta comincia a spargere cemento sulla costa senza alcun piano regolatore (altro fattore tipico della gemmazione). Viene ridotta la battigia e distrutta buona parte della macchia mediterranea che lambiva la costa cauloniese (ma questo evento è valido per tutta la Locride). In un decennio Caulonia Marina diventa un centro abitato a tutti gli effetti. Con case non finite e un lungomare distrutto dalle continue mareggiate, dal costante innalzamento del mare e dall’evento naturale di subduzione.

5 La genialità la si può riscontrare dentro al mare. Oltre ottanta metri di blocchi di cemento, in linea verticale a partire dalla spiaggia, dispersi nell’acqua marina di Caulonia: fanno parte di un vecchio muro costruito per difendere le case dalle devastanti mareggiate invernali. Inutile. Come è inutile ogni difesa umana contro la natura. In poco tempo il muro è stato distrutto e trascinato in acqua. Ora non desidero dire che intelligentemente il muro è stato di nuovo costruito e di nuovo frantumato, che sono stati spesi milioni di euro per costruire un lungomare con le palme senza occuparsi del moto delle correnti, quindi delle mareggiate, installando dei massi frangiflutti sul lato est della spiaggia. Non voglio dire. Ma è simpatico sentire la gente del luogo, i paesani, inveire contro il porto costruito dal paese vicino, a cui viene addossata tutta la colpa delle sciagure del lungomare, o direttamente contro il mare, invece di pensare di aver totalmente costruito senza controllo proprio sopra quel maledetto mare.

6 Resilienza è un termine che viene utilizzato in diversi campi (dalla psicologia alla tecnologia). In questo contesto riguarda quello ecologico. Quindi la Resilienza è la capacità di un ecosistema di resistere ai colpi, di attutirne gli effetti devastanti, di ritornare al suo stato iniziale, dopo una perturbazione ambientale o antropica che l’ha allontanata da quello stato.

**

.Nella casa del Tyto alba1.

Leggevamo già Lovecraft ed Edgar Allan Poe
e le giornate le passavamo tra vampiri e D&D2.
Prendevamo decisioni con un lancio di dadi.
La vita procedeva carta dopo carta, Grandi Antichi3;
nel cuore Morella4, disperato amore all’E. A. Poe.

Forse psicosi, delirio perfetto o surrealtà
io quella sera rincasavo leggero,
di stelle e luna neppure uno sguardo,
e solo nei miei passi la rotazione del mondo;
la nostra convinzione di essere centro del mondo.

La storia inizia qui. Improvvisamente
come un richiamo, mi volto e la notte
catramosa tra sterpaglia e una casupola,
tegole insanguinate e finestra spezzata.
Mi fissa. Io allungo il passo.

Improvvisamente qualcosa si stacca,
ombra e luna, cuore alato5 che stride
nella notte catramosa – e io allungo il passo.
Volteggia, mi fissa e sintetico precipita
bombardiere tra sterpaglia e le stelle.

Mi lancio fuori dal riquadro ed è già giorno.
Rifletto. Racconto e decidiamo di seguire
il paradigma fondamentale della specie umana:
ignorare. Ma la vita ci vuole esploratori –
e poi non è che abbiamo tutto questo da fare.

Il Barbagianni prese ad appollaiarsi con noi6.
Il Barbagianni ci aveva scelto.
Il Barbagianni è il guardiano della notte catramosa
quando di stelle e luna neppure uno sguardo.
Il Barbagianni è una specie sinantropica7,

predatrice selettiva, volo e Spirito Santo8,
sofferente nel rombo esploso dal traditore,
nel cemento imperante per il rombo dei motori,
nel mais e il rombo degli habitat decaduti9.
Nel cuore Morella10, disperato amore all’E. A. Poe.

La storia inizia qui. Riflettemmo e decidemmo
di compiere una delle azioni più stupide dell’umanità:
concedersi all’orrore. Entrammo nella casupola.
La porta cigolò giustamente. Dentro:
fieno. Borra11. Il ronzio di mosche sopra

una volpe e il suo odore nero di morte.
Un baule. Dentro: vestiti, coperte e foto
bianco nere. Erano foto d’un funerale.
C’era tanta gente e la bara era aperta al cielo.
Un signora possente regnava

in quel pezzo di legno aperto al cielo.
Io scattai delle fotografie. Improvvisamente
come un richiamo, un avvertimento.
Il suo stridio alba nei territori del Sud.
Noi fuori dal riquadro ed è già giorno.

Alla luce del sole tornammo e il fuoco
aveva arso sterpaglia e una casupola.
Paura. Ora la casa del Tyto alba
era stata violata da uomini e fuoco.
Bruciate risultarono anche le foto scattate

e il cuore, che fa allungare il passo
a quest’uomo che rincasa troppo leggero,
in una vita programmata da dati e scadenze,
ignorando l’orrore – da quel momento io
di Barbagianni ne ho visti solo in tivù.

 

NOTE

1 Questa poesia parla del Barbagianni (Tyto alba), incredibile rapace notturno appartenente alla famiglia dei Titonidi. È presente in tutt’Europa, prediligendo ecosistemi agro-pastorali; spazi coltivati, aperti, boschetti o semplici filari d’alberi. Volto e petto bianco (più scuro nella sottospecie europea, Tyto alba guttata), occhi neri e un piumaggio principalmente rossiccio-marrone. La poesia racconta di un fatto veramente accadutomi nell’adolescenza.

2 Sono due giochi di ruolo e di carte (Vampire, The Masquerade; Dungeons & Dragons, abbreviato D&D) molto in voga tra noi ragazzi (nerd) tra gli anni ottanta e i primi duemila.

3 I Grandi Antichi sono creature semi divine sparse sulla Terra, extraterrestri di enormi dimensioni, creati dallo scrittore H. P. Lovecraft. Il più famoso è il potente Cthulhu, essenza blasfema che giace in uno stato di semiveglia, in attesa che la giusta congiunzione astrale lo possa risvegliare. Essa è adorata da popolazioni degenerate, selvaggi e folli, connessa ad incubi e il cui culto prevede atroci sacrifici umani.

4 “Morella” è un racconto (1835) dello scrittore e poeta E. A. Poe. Leggetelo. Capirete il significato di questo verso.

5 Il disco facciale del Barbagianni ha la forma di un cuore con la parte inferiore arrotondata.

6 Ciò che intendo in questo verso è verità e non ne comprendo ragione: dopo il primo incontro, il Barbagianni (perché era quel Barbagianni) cominciò ad appollaiarsi la sera sui nostri balconi. Io lo vidi due volte su quello della mia camera da letto.

7 Il termine sinantropico, in biologia, sta a specificare quelle specie animali e vegetali che si rinvengono in ambiti alterati da una persistente attività umana. Come già scritto in precedenza, il Barbagianni predilige gli ambienti agro-pastorali. Ma con la macchinazione del lavoro dei campi e i nuovi sistemi di raccolta e stoccaggio delle colture, quindi col progressivo abbandono dei fienili e dei silos agrari, lo si avvista anche in contesti più urbanizzati come campanili o case abbandonate.

8 La tecnica di caccia “Spirito santo” viene chiamata così per via della capacità di alcuni rapaci di rimanere fermi in aria, battendo velocemente le ali o sfruttando il vento (come il Barbagianni, la Poiana e il Martin Pescatore).

9 Questa nota si riferisce ai tre versi che trattano i fattori principali che minacciano la specie Tyto alba. Quando parlo di traditori, intendo i cacciatori che per divertimento e collezionismo uccidono senza ritegno, solo per scopi edonistici o per soldi. Un esempio lampante è la totale scomparsa in natura a Malta, negli anni cinquanta, del Barbagianni; anche se Malta è uno dei paesi con il più alto numero di Barbagianni in cattività al mondo. Il cemento invece riguarda la continua urbanizzazione di zone prima rustiche e rurali; case, centro commerciali, strade, viadotti e ampliamento delle ferrovie. L’ultimo rombo riguarda, come già descritto nella nota precedente, i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nell’agricoltura. Tutti questi fattori sono una minaccia per la sopravvivenza della specie. In Italia la comunità di Barbagianni è in forte calo, quasi scomparso in molte regioni del Nord e del centro. Rimane stabile al Sud.

10 Il Barbagianni è monogamo; ha una/o compagna/o per tutta la vita. Qui l’amore è inteso in tal senso.

11 La borra è il residuo delle prede non digerito (ossa, penne, pelo), di forma tonda o ovoidale. I Barbagianni, come gli altri Strigiformi, non hanno il gozzo e ingurgitano la preda viva direttamente nello stomaco. La selezione di ciò che mangiano avviene nello stomaco. L’espulsione invece con un rigurgito

Bei Dao e i poeti menglong

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di Lorenzo Pompeo

 

Alla loro apparizione, con la pubblicazione nel 1978-1980 della rivista indipendente Jintian (in it. “Oggi”), un gruppo di poeti contemporanei cinesi venne ribattezzato dalle autorità letterarie cinesi con un nome che intendeva essere denigratorio: menglong. Il termine, che di solito viene tradotto come “oscuro”, e che altro non era se non una accusa di “incomprensibilità”, veicola in realtà più sensi contigui, tra i quali prevale quello di una “semioscurità in cui si vela una luce”. Il termine menglong è, paradossalmente, rimasto, sia in Cina che fuori, il nome più comune per indicarli. Per analogia, i poeti più giovani apparsi verso la seconda metà degli anni Ottanta sono stati chiamati “post-menglong[1].

Scrive Gu Chen, uno dei maggiori poeti di questo gruppo: «La poesia contemporanea cinese si differenzia dalla poesia straniera contemporanea, come pure da qualunque altra poesia della storia cinese. Anzitutto in Cina c’è stata la Rivoluzione culturale: è stata un’epoca davvero vuota, isolata da tutto  come un vaso di ferro; ciascuno ne ha sofferto la pressione, senza poter ricevere alcun aiuto dalla cultura, dalla storia o dal mondo esterno. In questa situazione la gente voleva ancora esistere, e tra costoro un piccolo numero non ha potuto che dissetarsi con le proprie lacrime, con la propria voce o con i propri sogni; la poesia è diventata praticamente l’unica forma della loro esistenza. In questa solitudine alcuni sono morti, altri sono impazziti, altri ancora scrivono tuttora, sono conosciuti, sono diventati i poeti contemporanei. (..)

Ancora oggi non siamo in grado di stabilire se la Rivoluzione culturale sia stata una punizione del Cielo o solo una verifica involontaria, ma possiamo chiaramente vedere che la poesia nasce della vita in sé, nasce dagli anni intollerabili della vita»[2].

Per Yang Lian, che fu tra i redattori di «Jintian», la nuova poesia cinese nasce da una rottura con tutta la “lingua e la logica” della poesia cinese, che la fine fallimentare della Rivoluzione culturale ha portato a completa saturazione, esaurendone ogni possibile verità. Non si tratta però, egli sostiene, di una poesia “politica” , o di una “critica sociale”, benché la politica indichi una certa coloritura del “contesto esistenziale” nel quale essa è sorta. Le caratteristiche più profonde sono invece per lui “un severo senso dell’esistenza” (e soprattutto di una modalità d’esistenza “non socializzata”) e la capacità di trattare una difficoltà radicale: nulla, egli dice, garantisce che il “saputo” sia realmente “esistito”. «Fin dall’origine della poesia cinese contemporanea v’è l’abbandono di tutto il lessico, nonché della  logica, delle menzogne politiche in Cina. La politica è solo un certo colore del contesto esistenziale nel quale si genera questa poesia. Perciò i problemi socio-politici non sono mai diventati il tema della poesia cinese contemporanea (..). La modalità fondamentale con cui la poesia cinese esprime l’esistenza è individualizzata, non socializzata, è concreta, non astratta. Infatti la tonalità poetica fondamentale è permeata dalla sofferenza, dal dolore, dalla disperazione, dalla fluttuazione, dalla morte e dalla predestinazione»[3].

La Rivoluzione culturale resta ancora, agli occhi dei cinesi, un enigma soggettivo, ma è chiaro che ciò che essa interrompe definitivamente è il credito intellettuale di tutta la “cultura rivoluzionaria”. Dal punto di vista che qui ci interessa, ovvero per quel che riguarda le questioni poste da questi poeti, ciò che la Rivoluzione culturale porta irrimediabilmente a esaurimento è un determinato nodo fra “fedeltà artistica” e “fedeltà politica”.

La recente silloge di Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008)[4], ripropone i versi di  quello che è forse più celebre tra i poeti menglong, noto anche al di fuori della Cina (attualmente vive a Hong Kong dopo aver vissuto a lungo in Europa e negli Stati Uniti). Addentrandomi nel libro e nella biografia dell’autore, mi sono reso conto che, pur non avendo alcuna nozione sulla lingua cinese,  ero in possesso di alcune chiavi per entrare nella sua creazione poetica. Si tratta di un autore che è ha vissuto sulla propria pelle le più nefaste conseguenze delle scelte derivate da una intransigente interpretazione dell’ideologia comunista. Secondo quelli che erano i dettami della cosiddetta “Rivoluzione culturale”. Appena sedicenne, Bei Dao (al secolo Zhao Zhengkai, il suo pseudonimo si traduce come “Isola del nord”), che proviene da una famiglia di quadri del partito, abbandona la scuola e si unisce alle Guardie rosse, rispondendo agli appelli di Mao che chiama i giovani alla lotta per cancellare la vecchia cultura. Nel 1966, appena ventenne, viene mandato in una zona remota a trecento chilometri dalla sua Pechino, per svolgere lavoro manuale, vi rimarrà per quasi tredici anni, lavorando come operaio prima e poi come fabbro in un cantiere edile. In questi anni la censura mise al bando la quasi totalità dei libri che non fossero classici del marxismo e opere di Mao (tuttavia Bei Dao aveva avuto la possibilità di leggere alcuni libri “proibiti” come classici della letteratura dell’inizio del ‘900 che aveva trovato nella soffitta della sua casa).

Paradossalmente proprio questo “grado zero” dal quale l’autore è dovuto partire lo rende in qualche modo decifrabile anche per chi, come me, non ha alcuna familiarità con la tradizione letteraria cinese. Bei Dao tenta di discostarsi dalla poetica del realismo, unico indirizzo consentito e promosso dalle autorità, ma deve farlo in modo molto accorto. Non può nemmeno rifarsi a una tradizione culturale che è stata completamente cancellata. Fin dall’inizio i suoi versi venivano considerati incomprensibili, e quindi anche non molto pericolosi, da parte delle autorità preposte alla vigilanza in campo culturale. I messaggi lanciati nelle sue poesie sono per lo più cifrati (e anche l’uso degli pseudonimi è nato per eludere il controllo delle autorità). A volte si riesce a intuire facilmente il bersaglio della sua poesia, come ad esempio in Risposta, nella quale scrive: «Sono venuto in questo mondo, / portando solo carta, corda  e ombra, / per proclamare prima del giudizio, / la voce giudicata: // lascia che ti dica, mondo, / io – non credo! / se mille sono gli sfidanti sotto i tuoi piedi, / considerami allora il millesimo e uno.»[5].

Tuttavia non bisogna fare l’errore di inquadrare quella di Bei Dao come una semplice “poesia di protesta”. Lo stesso autore, in un’intervista citata nella Introduzione della curatrice del volume, Rosa Lombardi, in merito alla sua poesia dichiara: «Ho cominciato a scrivere poesia all’età di vent’anni (..) Ma quando ripenso a quel momento, cercando di individuarne le ragioni, provo sentimenti complessi e resto confuso: come iniziai a scrivere? Da dove venne l’impulso originario? È il cosiddetto destino che ci porta a scrivere, oppure è scrivere che determina il nostro destino? (..) questo mi ricorda i primi tempi da fabbro, quando ero frustrato dai primi oggetti che producevo. Mi accorgo che un poeta e un fabbro sono molto simili: entrambi inseguono un sogno di irrealizzabile perfezione»[6].

Scrive la curatrice della silloge di Bei Dao Speranza fredda Claudia Pozzana: «Quello di Bei Dao è innanzitutto un mondo di pensiero, come rivela la calibrata astrazione dei suoi versi. Ciò che egli condivide con gli altri autori della configurazione cinese contemporanea – di cui “Jintian” costituì l’evento fondativo – è principalmente la visione della poesia come singolare forma di razionalità: spazio d’intellettualità capace di proprie procedure di pensiero indipendenti»[7].

La tradizione poetica cinese è onerosa sulle spalle del poeta quanto “la montagna, che nei manuali di storia sale e scende”, come si legge nella lirica A proposito della tradizione. Nel confrontarsi con essa, la poesia, precaria “candela che sprofonda nel buio”, flebile luce nella notte, “cerca reperti tra gli scisti del sapere ( dalla lirica Stagione movimentata). Il pensiero della poesia non può esimersi dai saperi filologico-letterari, tuttavia cerca alimento nelle loro discontinuità – gli scisti – piuttosto che nella loro integralità, e in definitiva tende a istituire con i saperi un rapporto analogo a quello che stabilisce con la lingua, nella quale cerca di far brillare fessure ed interstizi.

 

D’altra parte la poesia non può fare a meno dei saperi letterari, problema che come s’è detto è cruciale per l’intera configurazione poetica contemporanea. La soluzione che propone Bei Dao è una riappropriazione diretta dei saperi letterari, saltando inevitabilmente, almeno per ora, la mediazione educativa. E tale soluzione è praticata da tutti gli altri autori menglong, i quali, pur essendo profondi conoscitori della loro tradizione letteraria, sono tutti degli autodidatti, e comunque hanno svolto la loro formazione poetica e letteraria al di fuori delle istituzioni educative.

In L’arte della poesia, Bei Dao tratta esplicitamente fin dal titolo di questa esigenza di reinventare lo spazio di una sapere della poesia a partire dall’odierna indigenza:

 

versione di Rosa Lombardi

 

Nella grande casa cui appartengo
resta solo un tavolo, intorno
è una palude sconfinata
da ogni parte la luna splende si di me
il fragile sogno di uno scheletro ancora in piedi
in lontananza, come un’impalcatura non smantellata

e impronte di fango sulla carta bianca
la volpe nutrita per tanti anni
con un colpo della sua coda fiammeggiante
mi lusinga, mi ferisce

naturalmente, ci sei anche tu, seduta qui davanti
i lampi a ciel sereno che brillano nelle tue mani
diventano legna da ardere, mutano in cenere”

 

Versione di Claudia Pozzana, in: Speranza fredda, p. 37

Arte poetica

 

 

Di quella enorme dimora di cui appartengo

resta solo il tavolo, intorno

sterminate paludi

il chiarore lunare mi illumina da angoli diversi

il sogno dalla fragile ossatura sta lì come sempre

in lontananza, come un’impalcatura non ancora smantellata

 

e ci sono impronte di fango sulla pagina bianca

quella volpe allevata per tanti anni

agitando la coda fiammeggiante

mi loda, mi ferisce

 

e poi, certo, ci sei tu, seduto di fronte a me

le scintille azzurro cielo che ostenti nel palmo

diventano legno secco, si trasformano in cenere

 

 

Non resta nulla di quell’enorme dimora a cui la soggettività poetica appartiene (letteralmente: “è subordinato”). In questa indigenza, nella condizione di degrado dello spazio culturale della poesia, per essere nuovamente poeta, anche se circondato dall’immensa palude, basta quel tavolo, e il “chiarore lunare”, che anche in, come in Domande al cielo, è la luce rarefatta di una tradizione poetica, capace ancora di illuminare “da angoli diversi”. La precarietà congenita dell’esistenza della poesia appare in questo reticolo di luci dall’ossatura fragile come un sogno, orizzonte di riferimenti lontani, ma persistenti “come un’impalcatura non ancora smantellata”. Come nota giustamente la curatrice dell’edizione Einaudi Claudia Pozzana: «La meditazione sulla lingua, ricorrente nei versi di Bei Dao, costituisce un ampio orizzonte problematico, peraltro intensamente esplorato anche dai migliori poeti cinesi contemporanei (..). Essi hanno messo a fuoco, fin dalla fine degli anni Sessanta, una “questione della lingua” in Cina, tuttora investita con prospettive teoriche originali e trattata, con un crescendo di riflessioni intrinsecamente poetiche, come “questione” propriamente politica, che riguarda infatti le difficoltà soggettive dell’essere-insieme cinese, a di là dei simulacri comunitaristici che dominano la scena pubblica del paese.»

È inevitabile che le tracce della sterminata palude riappaiano come macchie sul foglio, ma la posta in gioco è riuscire a ripulire la scrittura poetica da quel fango, o forse a trasformarlo in materia prima della poesia stessa.

Ma per quanto difficili siano le condizioni esterne c’è anche una difficoltà interna alla soggettività poetica: “quella volpe allevata per tanti anni” che è, in contesto cinese, oltre che figura dell’astuzia, anche figura della seduzione, come attestato dalle “donne-volpi” della favolistica, fantasmi del desiderio femminile. Qui la volpe appare nella prima accezione, come una qualità interiore, a lungo coltivata come positiva, e pur sempre seducente per l’immagine di sé, ma nel momento in cui sembra appagare un desiderio di riconoscimento (“agitando la coda fiammeggiante / mi loda, mi ferisce”), infligge l’angoscia del misconoscimento: le lodi feriscono. La “coda” che la volpe agita – che che essa non riesce mai a nascondere interamente – in cinese idiomaticamente equivale al “vero volto” che prima o poi si svela.

Nel “tu” del finale convergono due figure possibili. Potrebbe essere rivolto al “tu-lettore”: se tratterai questa poesia come occasione per esibire abbaglianti opinioni costituite, vedrai quelle “scintille” trasformarsi in cenere. Ma potrebbe anche essere la poesia stessa che rivolgendosi al “tu-poeta “, lo ammonisce sui rischi di nullità dell’esibizione di scintillanti virtuosismi.

 

[1]Si veda Claudia Pozzana, Alessandro Russo, Introduzione, in: Nuovi poeti cinesi, Einaudi, Torino 1996. p. VI-VII.

2 Ibidem p. 214

3Ibidem, p. 209.

4 Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008), a cura di Rosa Lombardi, Elliot (Lit-edizioni), Roma 2018

5Op. cit. p. 45

6Op. cit. pp. 33-34

7 Claudia Pozzana, La distanza della poesia. Introduzione a Bei Dao, in: Bei Dao, Speranza fredda, Einaudi, Torino 2003,  p. VIII.

 

 

 

 

 

 

Overbooking: Valentina Maini

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Dalla parte della bambina

di

Monica Battisti

Gorane e Jokin, protagonisti del romanzo La mischia, sono due gemelli di venticinque anni. Come tutti i gemelli letterari che si rispettino, hanno tra loro un rapporto viscerale, morboso, complementare, irrisolto. Presentano alcuni tratti caratteriali in comune – tratti che agli occhi della gente li fanno apparire impenetrabili, alternativi, borderline, sociopatici –, ma sono poi le differenze a portare almeno uno dei due (Gorane) a una decisiva quanto imprevista evoluzione. Tra i fattori che li accomunano, inevitabilmente, il milieu in cui sono cresciuti: a Bilbao i loro genitori, attivisti dell’ETA e protagonisti di numerosi attacchi terroristici ai danni del governo spagnolo, hanno infatti applicato un rigido protocollo educativo: non avere protocolli, se non quello di aderire, incondizionatamente, all’ideologia che loro stessi hanno abbracciato e che hanno portato avanti fino alla morte con ammirevole coerenza, o forse con bieca incoscienza. Un’educazione, quindi, non priva di contraddizioni: educazione ad una libertà senza limiti, alla violenza se necessario, alla sofferenza come forma di immunità. «La storia di ogni infanzia è quella di un bambino che fa rumore per essere trovato».

Più eventi traumatici inaugurano i tentativi di affrancamento dall’interiorizzazione del modello genitoriale: la morte dei genitori, dopo la quale Jokin decide di fuggire a Parigi (2007); la sparizione di Jokin, in seguito alla quale Gorane, spinta dalla lettura di un libro, si mette alla ricerca del fratello, trasferendosi a Parigi (2008); la scomparsa fisica, letteraria e simbolica di Jokin, dopo la quale Gorane inaugurerà una nuova vita (2008-2015). Ciascun evento è reso possibile grazie a entrambi i personaggi, che continuano a cercare, a mantenere una connessione nonostante non abbiano tra loro contatti di nessun tipo.

Nella seconda parte (“Primo movimento”, “Secondo movimento”, “Terzo movimento”), però, è Gorane a conquistare maggiore spazio narrativo: è lei la protagonista di una moderna quête, più che di un’enquête (quella sì, piuttosto fallimentare), incentrata sul suo doppio, e quindi su di sé: «io i piedi staccati dal suolo li ho dalla nascita e ciò che desidero più di ogni altra cosa è atterrare, mettere radici e sprofondare nella terra fino a non muovermi mai più». È una quête circolare, in cui il vero oggetto del desiderio si rivela essere, in ultima istanza, sé stessa: il vero esito è il ri-trovarsi, il re-inventarsi. È una quête, ancora, in qualche modo ratée – per usare un termine caro alla psicanalisi, altro elemento centrale nel romanzo –, dato che Gorane e Jokin non riusciranno più a incontrarsi, se non mediante un tertium, una nuova vita che “purifica” quelle precedenti. Il verbo d’altronde non è casuale: tutto il romanzo sfoggia un lessico afferente al campo della contaminazione e del contagio («virus», «malattia», «inquinamento», «infezione», «sporco esterno», «sporca», «immune»), in riferimento a tutto ciò che di esterno può penetrare ed essere iniettato all’interno.

Felice la scelta adottata da Maini per comporre il suo romanzo: una struttura polifonica, ben orchestrata, con strumenti narratologici diversi nella prima e nella seconda parte. La prima, suddivisa in tre sezioni, dà voce rispettivamente a Gorane, Jokin e i genitori dei due (che parlano post mortem come un’unità plurale), permettendo al lettore di accedere direttamente ai loro mondi, senza mediazioni o filtri; nella seconda, al punto di vista di Gorane si alternano con un preciso espediente degli inserti che hanno lo scopo di dar voce ai personaggi minori, incontrati via via nella prima parte. La struttura non poteva essere più azzeccata, a conferma dell’incompatibilità tra la rappresentazione che si ha di sé e quella che di sé hanno gli altri, e della necessità di rimodulare continuamente, come in una ricetta alchemica, le due componenti per trarne un’immagine plausibile; pone inoltre l’accento sull’ineludibilità del fattore sociale. Non vi è mai, quindi, una vera e propria focalizzazione esterna o zero, e i riferimenti alla realtà (come quella terroristica) sono citati quasi per sbaglio, afferrati di sguincio, filtrati dalla realtà dei personaggi a volte disorientante per il lettore: la realtà sembra scorrere ai loro lati e fare da sfondo a un mondo di allucinazioni, correlazioni, casualità, ossessioni, analogie poetiche – fino a quando piomba, con agghiacciante crudeltà e aderenza alla storia, nelle ultime tre magistrali pagine del romanzo.

La «mischia» è anche questo: un mescolarsi di piani narrativi e psicologici, nonché una promiscuità di corpi desiderata o rigettata (Jokin: «Sognavo di mischiarmi a lei, a mio padre, a mia sorella, in una specie di ritorno a un’origine sconosciuta»; Gorane: «Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla veglia, l’infanzia dall’adolescenza dall’età adulta e dalla vecchiaia, l’essere figlio dall’essere genitore, la giustizia dalla brutalità» etc). Nell’espressione figurata ‘buttarsi nella mischia’, infine, è anche prendere posizione, decidere di sporcarsi le mani – l’incubo di Gorane – per contendersi violentemente qualcosa: quello che non fa lo scrittore Dominique Luque, «che non vuole mischiarsi con la nostra roba, la nostra gente».

I caratteri si esprimono, di preferenza, mediante una scrittura ossimorica, di contrasto, di associazioni contraddittorie, entro blocchi di testo compatti e periodi brevi e schietti, marcati dall’uso insistito del punto fermo: «come se la carta fosse fatta di sassi, buche e montagne», per riprendere una similitudine impiegata nel romanzo. Due esempi scelti a caso: «Volevo di più. Non volevo niente»; «Ero senza personalità. Avevo troppa personalità».

Tra romanzo familiare e Bildungsroman (con una protagonista che è una bambina mai cresciuta, o cresciuta troppo in fretta), La mischia tratteggia quindi in modo efficace due personalità complesse, per certi versi marginali ed emarginate, sfruttando con grande abilità l’alternanza tra focalizzazioni e punti di vista, senza forzature retoriche; ma soprattutto, La mischia induce una riflessione profonda sul ruolo genitoriale, sulle conseguenze di un’educazione squilibrata e l’indottrinamento dei valori, sul rapporto tra patria e lingua madre, sull’arbitrarietà delle relazioni umane, sui limiti della libertà e sui pericoli dell’amore nelle sue numerose forme ed eccessi.

 

 

 

 

 

 

Dia Logue: stop making sense

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Rivista è cosa mai vista (effeffe)

Bruciare a Roma e a Lione.

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di Viviana Fiorentino

 

 

 

17 ottobre (1973-2019)

A Ingeborg Bachmann

 

Nell’appartamento di Roma ti fermi almeno un’altra settimana. Il tempo che lui, il tuo Ivan, torni dal viaggio. Poi andrai da tuo padre in Austria, non puoi rimandare. Perché, invece, vorresti restare con Ivan.

Sai che, adesso, si starà svegliando. Sentirà lo squillo del telefono poggiato accanto. I messaggi. Controllerà la posta ancora sdraiato a letto. Sei ore di fuso non sono tante, ma quanto basta per sembrarti ogni meridiano un’enormità. Te lo dico, sei incastrata nel tempo, come sempre del resto. Lui si sveglia ed è mattina. Tu, pomeriggio e ancora imbozzolata nel letto. Ivan che si alza per il caffè. Accende la radio. La voce nasale del cronista. Luce bianca dalla finestra. Cielo plumbeo. La moquette pure in cucina. I suoi piedi nudi davanti ai fornelli. Lo sportello accanto alla cappa lasciato aperto da ieri, che socchiude con un’aria di ribrezzo verso se stesso e un fastidio per la maglietta sudata. Digita cose sullo schermo.

Tu ti accendi una sigaretta. E guardi la moviola di lui distante sei ore di fuso a mezz’aria, tra il soffitto bianco e la parete grigia davanti a te. Le cose attorno le sai sfumare. Uno vuole uccidere quando il tradimento è insanabile. Quando il danno è troppo grande. Non si tratta di poligamia. Si tratta semmai di doppie personalità. Più esattamente di non adempiere le promesse. Violare i patti.  A questo segue il desiderio di distruzione. Ti girano le frasi attorno, come un sottotitolo della moviola. Lo stai uccidendo, mentre si fa il caffè, ti rendi conto? Il diavolo, o come lo chiami, il male, se non lo puoi scacciare da te e dal mondo, è motivo di suicidio. Uccidere. Il deserto insomma.

Fumi l’Hashish nel sebsi che ti ha regalato Kif… il marocchino, il dio dalla pelle colore ambra-hashish. Sono passati anni da allora, ma non importa, perché ti ricordi anche adesso che sei a Roma, comunque, ogni istante di quel giorno di tanta tempo fa, in Marocco. I ricordi non emergono mai per caso.

Kif era uscito a procurarsi la canapa ed era tornato a casa con un pezzetto minuscolo. Lo aveva sfracellato sul tuo comodino, davanti al naso. Tu lo guardavi dal basso. Appoggiata sul lato del letto, le gambe distese, i giornali e i fogli degli appunti di lato. Non metterci i piedi di sopra, li avevi scostati. Ma non serviva quell’attenzione, non se ne sarebbe mai fregato un tubo delle cose che scrivevi. L’amico, Abdu, aveva subito tirato via un pezzetto di Hashish e l’aveva mescolato al suo tabacco. Poi era uscito nell’atrio e si era addormentato lì. Vivevate tutti e tre insieme nell’appartamento. La notte asfittica di Marrakech. O adesso ti sembra tutto bello e tremendo? Non serviva stare nudi in casa. Sembrava anche peggio. Solo il tè caldo aiutava. Alla fine ti eri abituata al sapore di rame dell’acqua. Kif non aveva detto nulla. Si era disteso su di te. E avevate fatto l’amore, lì per terra, sui tappeti punzecchianti, perché tra le lenzuola faceva troppo caldo. Poi avevi ripreso a fumare e a bere, con quel suo odore di sudore ancora appiccicato alla pelle. Kif si alza e va alla finestra. Lo guardi da dietro e ti sembra di odiarlo. La muraglia delle spalle ti divide dalla Medina e dal mondo. E lui guarda fuori, immobile davanti alla notte di Marrakech. Si alza il fumo dalla sua bocca. Kif scosta la tenda; intravedi la luce arancia del lampione sull’altro lato della strada. Non c’è altro. Bene, l’Hashish comincia a fare effetto. Nella risalita dalle gambe fino al petto, aspetti che ti arrivi al cervello. Guardi l’ombra di lui: parla di spalle con quell’accento arabo francese. Ti piace questo, la solitudine in comune. Kif si scosta dalla finestra e viene verso di te. La sigaretta spenta tra le dita e la fronte contratta. Già pensa ai suoi affari di domani. Si gratta sotto la gola. E tu, Ne vuoi altra? Gli offri un pezzetto che ti eri conservata per dopo. Un frammento minuto che avevi riposto nel cassettino del comò.  Non è gentilezza, è amore. Anzi, è il desiderio di averlo. Tre sigarette e si dimentica di domani. Ma tanto, non puoi più neanche parlare. Intravedi l’ombra di Kif distendersi al fianco. Ti sposti nei tuoi polmoni, tra le gambe. Ti giri, la faccia di Kif assorta chissà a cosa. Hai paura, perché non ti riallacci a niente. Alla terza sigaretta, rinunci a tutto. Sei nel deserto. Quello dove lui ti ha portato in gita. Con gli europei si fa così. In cammello. Mentre tu piangevi per la corda che tirava il muso del povero quadrupede. E gli anelli che bucavano le larghe narici sanguinanti della bestia da soma. E lui che lo chiamava ora rumba, ora latino ora chachacha. Perché in un albergo di lusso aveva fatto l’animatore per turisti e aveva imparato i balli. Non ci torni più nel deserto, sotto quel sole asfissiante. La luce a rovesciarsi addosso, come vomito dal cielo. Lo temono tutti il deserto, lo temono tutti quanti. Ci vivono qui come se non fossero nel deserto, come se non fosse niente questa muta distesa di granelli. Lo scintillio di sabbia. Il catafalco delle promesse della tua vita. Lo temi. Niente, il deserto non è niente. Muri, case, cammelli. Poi, siete tornati a casa. Tu la turista, il corpo del suo amore. In Marocco, hai perso venti chili.

Le cinque del pomeriggio romane. Basta, ne hai abbastanza. Ti sei già alzata con il solito dolore alla schiena. La luce che entra da fuori non ti fa senso. Dunque, pensi di presentarti così all’appuntamento. Possibile, non saresti la prima. Ti trascini al bagno. Il solito lercio dappertutto. Non pulirai. Anzi, domattina. Il freddo delle piastrelle lo senti appena. Ti appoggi al lavandino, anche troppo, e la tua faccia bianca si appiccica allo specchio tra gli schizzi di dentifricio induriti. Lavarsi il viso con l’acqua fredda è ancora una gioia della vita. I capelli ti sono rimasti belli. Il disordine attorno di collane, le tue cianfrusaglie orientali, i vezzi del ventunesimo secolo. Per non parlare delle saponette profumate. I sassolini che un tempo ti eri curata di poggiare sul bordo della vasca. Acciuffi la vestaglia dal disordine di asciugamani e accappatoi accavallati sul retro della porta. Bisognerà attaccare un altro appendiabiti. Prima che questo crolli. Ti affanni ancora nelle metafore – perché tu parleresti così di te stessa – in questa idea dell’assassinio, nella pulizia dei rapporti – quali? Insomma, vai a prendere i vestiti dall’armadio prima che si faccia troppo tardi. I pantaloni di cotone, scuri; del resto è ancora settembre, fa addirittura caldo. Quindi metti una maglietta sopra. Bianca. E nient’altro. La cinta di pelle finta. Quella sì. La scorri attraverso i passanti dei pantaloni; i polpastrelli ti fanno male. Ti bei di sentire questa sensazione, ne senti poche. La pelle ingiallita dal fumo ti ha sempre fatto schifo. Dunque, lo incontri al bar. L’amato di Ivan; non pronunci neanche il nome. E cosa gli dirai? Tutte le storie sul tradimento. Lo sapevi che a Ivan piacessero gli uomini, però non te lo aspettavi. Sarebbe ridicolo spiattellargli questa storia. Annuisci e accartocci uno scontrino che avevi lasciato in tasca. Tiri su la cintola. Nullifichi quel pezzo di carta nel cestino di paglia accanto alla porta. Cammini su e giù sulla moquette. La moquette a Roma: solo una padrona di casa vissuta in Inghilterra poteva farsi venire in mente un’idiozia del genere. Parlerai, invece, del muto trionfo del sesso. Fai quasi un piccolo sobbalzo all’idea che ti è appena venuta. Guardi la gente scorrere in file sulla strada di fronte. Gli occhi ti luccicano. Un’intuizione geniale. E il verde vivo dei platani, le foglie larghe manomesse dal vento. Quindi, oggi si respira. È stata una buona idea l’appuntamento nel pomeriggio.

Allora esci di casa e trotterelli come un cagnolino. Percorri via Bocca di Leone e imbocchi via del Corso. È una bella camminata fino a Testaccio. Lo incontri lì, all’amato di Ivan, a un bar che conoscevi. Le auto ti scivolano attorno e il rumore della città ti sembra piuttosto ingannevole. Perché tu pregusti solo l’incontro. La tua vendetta. In fondo la vita, triste o allegra, è comunque degna di essere vissuta. Si capisce, certo, da questo via vai che ti sferraglia attorno. Una tabaccheria aperta è sempre possibile trovarla, anche al crepuscolo. Un pacchetto di Muratti di rinforzo aiuta. Decidi di deviare e tornare in via Arenula. Lì i gatti rasentano i muri e ti fanno sorridere con quelle code arricciate a chiedere cibo. La vita degna di essere vissuta. La scena perfetta per un assassinio. Ma tu non hai intenzione di uccidere. L’arma è sempre rivolta verso di te. Passi la Basilica, scendi lungo il Tevere e lì non ci pensi neanche. Lo sai già che bisogna camminare lungo il fiume. Non è un fiume bello, tutt’altro, specie dai ponti. Arbusti ed erba. Acqua verde argilla e bionda da qui giù. Anche lui è biondo. C’è stato il tempo dei tre corpi avvinghiati. Della soddisfazione del divergere e convergere. Tu e lui una cosa sola. Ivan il mondo divergente. Lui poi non ha saputo che fare di te. Un giorno, si è voltato nel  letto dall’altra parte. Loro due lì, chiusi in un guscio di schiene lisce. Accanto a te il portacenere e il puzzo delle sigarette spente.

Prosegui lungo Trastevere. Sei quasi arrivata a Testaccio. Quante volte dalla tua finestra hai guardato dal cimitero protestante fino al Testaccio. Ci sono tanti cocci al Testaccio, avevi letto, sotto la terra tra le tombe e i fossi. Una volta lui, l’amato, ti aveva detto che Ivan e tu sembravate felici. Lo direbbero tutti. L’ultima telefonata con Ivan era di qualche giorno fa. Il ricevitore gelido. La tua notte. Il suo tardo pomeriggio. Non aveva tempo. Non potresti spiegarti un po’ meglio? È la linea che non va. Ti scivola la cornetta sulla tempia. O ti abbandoni al gelo. Riattacchi, in ginocchio sul pavimento per cinque santi minuti. E poi basta. Ti trascini sulla sedia  e rimani sveglia fino all’alba color cielo ermellino.

L’appuntamento a un bar qualunque. A uno snack bar con i tavolini anonimi. Di solito ti fermi lì per un caffè al banco, quando sei da quelle parti. Stasera prendi un tè. Entri, sei in anticipo. Quindi esci. Ti appoggi al muro. C’è chiasso. Ma il deserto ha una grandezza che è niente. Ti pervade come Kif ti rimaneva dentro quando avevate finito il piacere. Kif e il suo corpo sudicio. Perciò grandezza è perenne eccitazione. Ogni giorno e ogni istante. Diventa niente, come le ombre che ti passano davanti.

Insomma rientri, si è fatto l’orario. Ti siedi a un tavolino di finto marmo. Ti rialzi, esci. Accendi una sigaretta. Ti riappoggi al muro, scansi un’erbaccia che sbuca tra i sampietrini. Succhi il filtro. Schiacci la cicca sul muro. Rientri. Ti siedi. Di nuovo il tavolo di finto marmo bianco. Le venature nere si aprono come fiumi che portano non si sa dove. Una mappa dei nervi, pressata su PVC. Guardi l’orologio. È chiaro, non verrà. Pronto, sì, sono io, avevamo un appuntamento, sì, perché non sei venuto, potevi avvisarmi, scusa, non è niente, lascia stare ti dico. Invece, non hai alcuna intenzione di chiamarlo, all’amato, perché l’arma è girata verso di te. Afferri il quotidiano poggiato sulla sedia accanto. Lo apri e lo distendi sul piano, togli tutte le pieghi e ripeti il gesto dieci volte. Signorina le serve niente? Guardi il cameriere con la testa incassata nelle spalle. Non vuoi niente. Il mondo è pieno di assassini del resto. Non hanno sulla coscienza alcun cadavere, solo uno stuolo di vivi che allegramente sgambetta per la città. No, grazie, nessun caffè. Sei stata fin troppo in pericolo di morte. Il biondo non lo aspetti più. E neanche Ivan. Lo sapevi da prima di entrare nel bar. Troppi anni. No, grazie, finisci qui. Del resto, non potresti più dormire accanto a un uomo. Troppo orribile, troppo pericoloso.

La notizia di stamattina ancora lì in prima pagina. È lo stesso quotidiano che avevi sfogliato a letto. Ecco, adesso che la guardi stirata sul pianale di nervi in PVC capisci la congiura. Il tranello. Quale idea ti ha mandato il deserto.

Lione, studente francese si dà fuoco e accusa Macron.

[LIONE  Uno studente francese di 22 anni versa in condizioni critiche dopo essersi dato fuoco davanti ad un affollato ristorante universitario a Lione. Poche ore prima del drammatico gesto il ragazzo ha scritto su Facebook delle sue difficoltà finanziarie incolpando espressamente il presidente Emmanuel Macron e i suoi predecessori Hollande e Sarkozy, ma anche la leader dell’ estrema destra Marine Le Pen, l’Unione europea e i media, di «averlo ucciso».]

A te sembra ovvio: collaboriamo alla società di domani. E ovvio è che lui e tu siete nello stesso deserto di promesse infrante. Il giornalista non ha capito. Dev’essere della stessa stazza del cameriere che ti è venuto a chiedere cosa desiderassi e ti ha mostrato il menù come un coltello. Ti alzi; lui non verrà all’appuntamento. Del resto non ti serve più.

A casa affondi nel letto. L’alcova che ti dà ombra come le mura aureliane attorno al cimitero. Hai ingurgitato i sonniferi. Parecchi.  Ormai ogni suono è ovattato e lontano. Hai scolato tutto quello che avevi in casa. E adesso fumi. Hai finito i pacchetti e ripreso la pipa stretta e lunga per l’hashish. Non c’è altro da dire per te. Andarsene e non sentire il male. Fumi ancora. Getti le cicche sul letto. Bruciare e non sentire dolore. Venga la morte, dalle lenzuola a larghe falde di fuoco. Corrodere la pelle in fumo nero. Fiamme sulla moquette, che si accende come nulla. Non punite più nessuno. Ardere fino alla grandezza. Essere amati da tutti.

La mattina ho chiamato Maria. È accorsa. Con la mia amica, è arrivata anche l’ambulanza. Mi hanno incoraggiata, trascinata tra le bende. L’aria fresca bruciava. La vita bruciava. Distesa sul lettino, fuori dal portone, il cielo trionfante di Roma mi lacerava di azzurro. Ho capito subito che me ne sarei andata via presto, io che sono con te, dentro di te e te stessa. Ce l’hai fatta, mi hai trascinata giù, nelle tue piaghe di fiamme e d’inferno. Mi sono opposta fino all’ultimo. Ho resistito. Ma anch’io, come te, conosco il mio assassino. Eri tu. È troppo tardi. Resterà altro.

Il riposo del dopo desinare

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Il brano che segue è tratto da L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia (Terrarossa Edizioni, 2020)

di Ezio Sinigaglia

Or non può dirsi che Nerino innocente effettualmente non fosse. Ma l’innocenza sua non poteva far di sottrarlo alle leggi di natura, la quale pei suoi imperscrutabili fini ha stabilito ch’in quell’età appunto in cui Nerino era anche i più innocenti fanciulli prendan di confusi ardori ardentemente nella carne a bruciare. E poiché ha fatto ancor nel suo perfetto equilibrio la natura ch’ad ogni morte una vita e ad ogni ombra una luce e ad ogni fuoco un’acqua corrisponda, agevolissima cosa è pei fanciulli il trovar l’acqua in sé medesimi ch’il fuoco donde sovente avvampano ha la virtù per alcun tempo d’estinguere. Talché, pur nella sua innocenza, aveva anche Nerino facilmente la fonte di quell’acqua trovata e con piacere grandissimo ad essa sovente s’abbeverava.

Chiudevan Mastro Landone e Nerino a mezzodì la bottega, e in una stanzuccia che la bottega stessa dall’officina separava sedevano insieme a desinare, dove Mastro Landone più assai di bellezza che di vivande si nutriva. Di poi tornava questi per alcun tempo a casa a riposare prima di correre alla reggia, mentre Nerino alla bottega restava. Ma, non dovendo riaprir l’uscio ch’alle due dopo il mezzodì, era solo in quell’ora e, com’è dei fanciulli, era l’esser solo al divampar di quel fuoco naturale alimento. Onde, già il primo giorno, uscito che fu Mastro Landone, pigliò tosto Nerino nella persona alquanto a riscaldarsi e, in pochi istanti, nelle fiamme stava. E, forse per aver mangiato assai più di quanto nella sua povertà solesse, più assai dell’usato la sua carne bruciava. Sì che, dal bisogno guidato, e nel silenzio strano dell’ignota officina addentrandosi, e nel progetto del suo peccato il cuore forte forte come giammai per l’innanzi battendogli, cercava da per tutto un cantuccio ch’alle sue membra ardenti potesse dare graziosa accoglienza. Ed in fondo all’officina un ripostiglio scoperto ove alcuni materassi stavan l’un sull’altro ammassati, dai suoi panni siccome un pulcino dall’uovo con tre soli gesti sgusciato, ignudo sull’avventurato giaciglio si gettò ed il mondo della sua tenera carne prese ansioso a esplorare. Trovò ch’il luogo maravigliosamente al suo diletto si confaceva, ed ogni giorno dopo desinare lietamente tornò a visitarlo. Facevano in effetto quei materassi eco ai suoi moti, sì che sopra l’onde pareva di galleggiar navigando. Credevasi Nerino veleggiar solitario verso una terra ignota, donde grandissima paura sentiva, ma d’essere il primo a scoprirla aveva egli ancor più grandissima e imperiosissima brama. Caldo e umido, il vento di mezzogiorno le vele del suo continuato soffio enfiava e sulla pelle umido e caldo passava. Sul mare una bruma sì fitta era d’intorno discesa che cieco al tutto il suo navigar n’era fatto. Gli occhi Nerino alla luce avidamente riapriva, nel suo smarrito terror la rotta cercando, e la sua pelle, nella penombra segreta, risplender com’un fulgente metallo vedeva. Gli occhi allora richiusi, si rifacevano il mare e la bruma, ma tosto di tra la bruma la terra foscamente affiorava, ed il piacer sopra i minuscoli sospiri suoi immenso s’ergeva. Così, in quell’ora che più d’ogn’altra alla voluttà inclina, mentre Mastro Landone vanamente cercava il riposo e vanamente anche a imaginar si poneva come potesse di Nerino coglier la soave bellezza senza cagionar d’amendue la rovina, Nerino nell’officina di Mastro Landone liberamente della propria soave bellezza prendeva diletto.

Accadde ora un dì che, all’ora usata, imbarcatosi già Nerino pel suo viaggio, Mastro Landone, la sua strada verso casa facendo, si sovvenne d’un tratto d’una macchina, ch’aveva lasciata a palazzo il dì innanzi incompiuta a cagion d’un certo arnese ch’all’officina era rimasto. Onde, sui proprii passi con contraria fronte venendo, alla bottega tornato, la chiave nella toppa pose e l’uscio con quella ad aprir prese che Nerino aveva com’ogni giorno col paletto dall’interior richiuso. E, nel far questo, quel certo rumor produsse ch’un paletto, nel far la sua corsa di foro in foro a ciascun giro della chiave, immancatamente saltando produce. Al qual rumore, la dolce navigazion di Nerino in naufragio subitamente fu volta e, se vi fossero veramente stati flutti d’intorno in fondo ai quali le sue membra ignude celar potesse, senz’in­dugio si sarebbe egli lasciato nei flutti annegare. Ma non abissi, né oscurità veruna essendovi, che di nasconder la vergogna sua complice s’offrisse, fu Nerino dalla terribil necessità in cui versava condotto a tal segno che, com’è sovente degli stati di necessità e di terrore talento, l’impossibile ad inverarsi persuase, e dentro i panni, donde in tre soli gesti com’un pulcino dall’uovo era uscito, in tre soli gesti com’una rondine nel nido ritornò. Sì che ad un padrone che l’amor tanto studioso delle sembianze del garzon suo non rendesse sarebbe in cotal portentosa maniera riuscito Nerino il suo segreto a mantener celato. Ma già veniva Mastro Landone in sui suoi passi laudi cantando all’obliato arnese che di veder Nerino una volta più dell’usato la potestà quel giorno gli offriva e, nel venire, già nel pensier si dipingeva il fanciullo ad alcuna cosa nell’ora del riposo intento: era forse nel sonno soavemente caduto, sì che potuto avrebbe Mastro Landone senza pudor sedersi a rimirarlo e di passar le dita sul fulgor della pelle, fra l’orecchio ed il collo, trovato avrebbe nell’ombra e nel silenzio virtù; o forse lieto in alcun fanciullesco trastullo stava allora Nerino, o forse nel tedio assiso e, chissà, all’apparir del padrone, d’allegrezza si sarebbe il suo volto nella sorpresa illuminato; o forse della madre lontana sentiva in quell’ora il gaio Nerino acerbamente l’assenza, e mesto languiva in un cantuccio dove, a confortarlo accorso, lo avrebbe Mastro Landone lungamente fra le lacrime cullato. E insomma, gli occhi coi quali a lui il suo padrone veniva erano occhi ch’avevan di Nerino e del suo fare e del suo dire tanta curiosità e vaghezza, ch’una macchia di pece ch’al desinar non vi fosse avrebber tosto sul suo grembiule notata.

Or, del grembiule suo, allor che Mastro Landone sulla soglia dell’officina si fece onde Nerino ritto presso il giaciglio in grandissima agitazion gli apparve, non v’era più traccia veruna, se non che, a guardar meglio, lo vide Mastro Landone sull’impiantito gettato in guisa sì confusa come si fa d’una veste che per alcuna cagion più lestamente assai dell’usato abbandonar si vuole. E la camicia, incompiutamente dalla cintura accolta, sopra i fianchi un involto di tal foggia faceva da suggerir ch’il fanciullo, nella dispensa a rubar sorpreso, avesse in gran premura una salsiccia fra i panni celata. E dei calzoni avevan malamente i bottoni l’occhielli loro trovati, onde un’obliqua piega s’era in quel punto fatta ove lo sguardo di Mastro Landone contro la volontà sua s’era posato. Sì che non men chiaro lesse in Nerino Mastro Landone che se su quei materassi l’avesse ignudo a navigar sorpreso. «Oh, Mastro Landone, – gridò Nerino con tremante voce – voi già qui di bel nuovo?» Ed era da per tutto la sua faccia sparsa di fiamme, ch’ancor più dell’usato lo splendor della pelle nella penombra corruscar facevano. A tanto ardor, ch’il suo raddoppiava, dovette Mastro Landone la vista sottrarre, e nel cassetto ove quel certo arnese cercar doveva tosto la nascose. E, senza punto guardar Nerino, il ritrovato arnese nella mano con disperato vigor stringendo, la voce buttò di fuori, la quale, per la commozion sua dissimulare, uscì fredda tanto che d’una di quelle macchine che d’intorno stavano uscir pareva: «Son dolente – disse – d’averti al sonno col mio venir sì improvvido strappato. Ma pur questo arnese m’era troppo di mestieri. Or ti lascio.» Parve a Nerino buona cosa che Mastro Landone al suo sonno così pianamente credesse, ma terribilissima cosa insieme quel­l’inaudita voce gli parve e, pensando ch’il suo padrone del suo dormir senza permesso adirato si fosse, ed il suo padrone adirato contro a lui non volendo, e parendogli anche ingiusta quell’ira, e desiderando all’usata dolcezza piegarlo, a parlar nel suo turbamento e nell’affanno del respiro si costrinse. «Ecco, sì, appunto. – balbettava Nerino – Come voi, signore, come, Mastro Landone, voi diceste. Col vostro permesso, Mastro Landone, io, invero, sopra a que’ materassi, se a voi non pare, disdicevol cosa, riposo un poco, dopo desinare.» E, con questi balbettamenti, a manifestar la dolcezza donde giammai separato s’era Nerino facilmente Mastro Landone piegò. Il quale, fattosi al suo garzone accanto, una carezza sulle fiamme del viso gli passò che tutta d’amor tremolava, ed alla voce usata tornando, sorridendo disse: «E che, Nerino, il mio permesso per dormir ti fa mestieri in quest’ora ch’al riposo è destinata appunto? Tu dovevi al contrario pel mio venir non levarti, ma a giacer come per l’innanzi seguitare, onde di poi il sonno più pianamente ritrovato avresti. Ed anzi, a codesto mi sono or or risoluto: ch’un dei dì prossimi faremo d’apprestar pel tuo riposo un più conveniente giaciglio.» E dal sorriso che l’infocato viso di Nerino a così dolci parole rischiarò, la rossa luce in bianca volgendo, si ebbe Mastro Landone al suo venir premio più grande assai di quel che nel venir sperato aveva.

 

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Cappotto
di Gianni Montieri

The National, Nobody else will be there –> play

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Ph. Diane Arbus – Teenage couple on Hudson Street, N.Y.C., 1963

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Da Ben Lerner, Topeka School, trad. Martina Testa, Sellerio, 2020

Comunque sia, il Metropolitan aveva un grande ruolo nel nostro folklore di coppia. C’era stato un giorno particolarmente memorabile in cui avevamo preso dei funghi o dell’acido e girando per il museo lui era andato fuori di testa, ma quella è un’altra storia. Adesso, ventidue anni dopo, mentre tenendoci sotto braccio passeggiavamo per le sale, anch’io stavo vivendo la mia esperienza di spersonalizzazione, ma senza droga – la sensazione schiacciante del venir meno di una serie di punti di riferimento, del passato che collassava sul presente e viceversa. Mi sentivo come una bambina che voleva che la madre o Sima la proteggessero dal padre e come una madre che non stava proteggendo il figlio, il quale rischiava di diventare uno degli Uomini (non stavo mantenendo le promesse fatte mentre eri privo di sensi; non stavo imparando a comportarmi come si deve); ero contemporaneamente in quella sala con nonna, con il marmo che la rassicurava («Per Jane non sarà la fine del mondo»), ed ero lì con papà pochi anni prima, mentre contribuivo a rovinargli la famiglia, e in quel momento, famosa guru delle relazioni che non sapeva più relazionarsi con le persone care. Con la coda dell’occhio continuavo a vedere dei Lassiter, continuavo a intravedere il dipinto rosa, a sentire sussurri dal passato. Alla fine trovammo il quadro di Duccio – credo che avessero cambiato la disposizione delle sale – e papà parlava a raffica e di colpo ho smesso di capirlo, ma non è esattamente così. Stava descrivendo un film che aveva girato o voleva girare e una vecchia fotografia di sua madre a cavallo e certe sculture di cavalli che avevano i suoi, e i cavalli coi paraocchi a Central Park e i cavalli del Cavallo in movimento di Muybridge e il rapporto fra le immagini ferme e in movimento e i testi TAT che faceva fare ai suoi ragazzi perduti («Adesso ti mostrerò una foto e vorrei che a partire da quella ti inventassi una storia. Una storia con un inizio, una parte centrale e una fine») e gli esperimenti sulla «visione cieca» che stava portando avanti un suo amico neurologo; tutti questi argomenti si incrociavano e si separavano come onde. Un custode annunciò che il museo stava chiudendo. Nel presente avevamo un tavolo prenotato a Downtown, in un ristorante italiano fastidiosamente costoso che aveva scelto papà. Al guardaroba mi ricordai che quella volta – tanti anni prima, quando papà si era fatto un brutto viaggio – eravamo scappati dal museo così in fretta che ci eravamo scordati i cappotti: eravamo quasi morti di freddo. Nel consegnare all’addetta il talloncino numerato, quasi immaginai che ci stesse per riportare i cappotti di quando eravamo all’università. Appena ce li saremmo messi addosso, ventidue anni si sarebbero cancellati.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Il canto del tempo, di W. Kevin Wren

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La poesia di Kevin Wren non è cronaca e non è diario, nulla di più lontano da lui del flusso psichico o viscerale che alimenta nei nostri tempi postumi tante scritture ininterrotte, replicanti, filamentose. Le sue basi, i suoi modelli, rigorosamente distanziati con dolore e con rimpianto, stanno nel grande simbolismo, nella costruzione immaginosa e visionaria del mondo, dei paesaggi naturali e interiori, che fu di Yeats e dei romantici inglesi. La fattura dei suoi versi è perciò riccamente elaborata, la sua lingua poetica è frutto di sapienti selezioni e intarsi, non privi di echi classici, mescolati e fusi in una sintassi complessa e sempre controllata. La versificazione inclina alla prosa, ma si inarca in riprese e in risonanze musicalmente modulate di topoi e di figurazioni, che da sole danno ad essa energia e spessore, senza bisogno di giochi fonosimbolici o di espedienti ritmici. Questa scelta di recentissimi poems, The Song of Time, evidenzia però una forte discontinuità, per l’improvviso, inatteso irrompere dei segni della storia, la tremenda storia del Novecento che oggi, proprio oggi sembra giungere a un suo tardivo, definitivo ingorgo. Si tratta di nomi, di luoghi e di persone, di eventi di violenza indicibile, come rigurgitati nel presente melmoso della post-istoria: nomi risuonanti come angosciosi memento, sino a farsi incubi, allegorie di un male quotidianamente esacerbato. Questi pezzi di storia che come incubi attraversano la notte, e minacciano la stessa vocazione della scrittura, sono allo stesso tempo allegorie di un destino comune implacato. Il poeta ne rintraccia le ferite dentro di sé, collega ad esse i frammenti mnestici del suo vissuto. L’effetto che ne deriva è quello di una protesta che è anche una estrema ammissione di colpa, e simula infine i modi di una laica inerme preghiera. (Mario Sechi)

 

Poesie tratte da The Song of Time / Il canto del tempo, di W. Kevin Wren (traduzione di Elena Palazzo)

 

Broodings on Salò / Rimuginazioni su Salò

 I

Salò
In a time of dissent, of stones thrown against the iron teeth of government,
Of the tenebrous lords of the doctrine of hate lurking in their hermetic dens,
What may I do but utter my dissent from the doctrine of hate in this enclave
Of peace beyond the flaming cities and their malcontents. The long republic
Has been built on shifting sands, on the sands of the citizenry’s intolerance
Of the old lords of iniquity in their parliaments of greed, lying, after hours,
Between whoredom’s sheets. I have been long sealed in the chamber of night,
Beset by the sin of decades, the sin of these decades I cannot nor will forget,
Foreign yet native to the republic’s night, to the new lords of the raised salute,
Disinterring the bloody, bloody epaulettes of Salò’s past, in a time of dissent,
Of stones cast against the iron teeth of government, of those tenebrous lords
Of the doctrine of hate lurking in their hermetic dens, my words cannot reach.

Salò
In un’epoca di dissenso, di pietre lanciate contro i denti di ferro del governo,
dei tenebrosi signori della dottrina dell’odio in agguato nei loro ermetici covi,
cosa posso fare se non pronunciare il mio dissenso dalla dottrina dell’odio in questa enclave
di pace oltre le città fiammeggianti e i loro malcontenti. La lunga repubblica
è stata costruita su sabbie mobili, sulle sabbie dell’intolleranza della cittadinanza
verso i vecchi signori dell’iniquità nei loro parlamenti di cupidigia, distesi, dopo i lavori,
tra lenzuola di prostituzione. Sono stato a lungo sigillato nella camera della notte,
assediato dal peccato di decenni, il peccato di questi decenni che non posso e né dimenticherò,
straniero ma nativo alla notte della repubblica, dei nuovi signori del saluto romano,
che riesumano le insanguinate, insanguinate spalline del passato di Salò, in un tempo di dissenso,
di pietre lanciate contro i denti di ferro del governo, di quei signori tenebrosi
della dottrina dell’odio in agguato nei loro covi ermetici, che le mie parole non sono in gradodi raggiungere.

II

The Night
To hear speak, speak of resurgence and Salò again instils a knowing
That defies all words of that which is uneclipsed despite the martyrdom
of heroes. In the provinces, the swastika festers in those millions dead
and to hear, hear brag again of a time of night descends in the darkness
like a closing eye. This not enough, nearly enough to gladden my days,
drag me out of sleep into the light in which children play games of war.
I would sleep in peace, and wake in peace, oblivious to it all, but sleep
Is my bloody Calvary towards the stigmata of the cross, to an invision
Which silences words. Deliver me from the night, from these stations
And the goring thorns of myself, lost in history with no, no, no return.

La notte
Sentir parlare, parlare nuovamente di risuscitare Salò instilla un sapere
indicibile di ciò che non si è eclissato nonostante il martirio
di eroi. Nelle province, la svastica suppura in quei milioni di morti
e sentire, sentire di nuovo vantarsi di un’età buia fa calare l’oscurità
come un occhio che si serra. Questo non è abbastanza, non basta lontanamente per rallegrare i miei giorni,
per trascinarmi fuori dal sonno nella luce in cui i bambini fanno giochi di guerra.
Vorrei dormire in pace e svegliarmi in pace, ignaro di tutto, ma dormire
è il mio sanguinoso Calvario verso le stimmate della croce, fino a un insight
che mette a tacere le parole. Liberami dalla notte, da queste stazioni
e le spine insanguinate di me stesso, perse nella storia senza ritorno, nessun, nessun ritorno.

III

The Ornate Jewels
The Spanish brigades, the Allies thundering down the parched roads of Salò,
And reborn evil once these are forgotten by children playing with a loaded rifle,
The electorate. The centuries must begin again from Salò, straining to remember
All that has been lost of the ornate jewels of time, all, all, of light once visioned
Shining across the ocean, oceanic luminescence, despite these sullen days, shaded
By the pall of remembrance. The Spanish brigades, the Allied tanks thundering
Down the roads of Salò, a broken cross whose gold embellishment catches the light
that still glimmers, incomprehensibly glimmers, the light that returns in the obscure
cavern of the mind, despite these sullen days, darkened by the pall of remembrance,
all that has been lost, the ornate jewels, light once visioned shining across the ocean,
oceanic luminescence, the Spanish brigades, the Allies burning down the roads of Salò.

I gioielli ornati
Le brigate spagnole, gli alleati tuonanti lungo le strade aride di Salò,
e il male risorto quando tutto ciò è dimenticato da bambini che giocano con un fucile carico,
l’elettorato. I secoli devono ricominciare da Salò, sforzandosi di ricordare
tutto ciò che è stato perso degli ornati gioielli del tempo, tutto, tutto, della luce una volta vista
risplendente attraverso l’oceano, luminescenza oceanica, nonostante questi giorni cupi, oscurata
dalla coltre della rimembranza. Le brigate spagnole, i carri armati alleati tuonanti
lungo le strade di Salò, una croce spezzata il cui abbellimento aureo cattura la luce
che ancora luccica, incomprensibilmente luccica, la luce che ritorna nell’oscura
caverna della mente, nonostante questi giorni cupi, oscurati dalla coltre della rimembranza,
tutto ciò che è andato perduto, i gioielli ornati, la luce che una volta veniva vista splendere attraverso l’oceano,
luminescenza oceanica, le brigate spagnole, gli alleati tuonanti lungo le strade di Salò.

IV

The Silence of Time
Auschwitz, Treblinka, Salò, storms still unleashed over the continent
Where we must live, remembering in the darkness what we have been,
Swastikas branded on our arms as we branded numbers in Hebrew flesh,
Goose stepped at Nuremberg beneath the mad, mad, high burning flame,
flame of history, enfiring Auschwitz, Treblinka, Salò with Hebrew flesh,
the flesh of what we have been. What light remains in the fading memory
Of this continent where men lick their ice cream as if nothing had been,
Raise their children unmemoried of it all, heirs of the void in the silence
Of time, as the new born millennium marches slowly on its mindless thighs
Towards Auschwitz, Treblinka, Salò, the return of the mad, high burning
Flame, the flame of what we have been, are to be, in the silence of time.

Il silenzio del tempo
Auschwitz, Treblinka, Salò, tempeste ancora scatenate sul continente
dove dobbiamo vivere, ricordando nell’oscurità ciò che siamo stati,
svastiche marchiate sulle nostre braccia mentre marchiavamo numeri su carne ebraica,
marciavamo a passo dell’oca a Norimberga sotto la folle, folle, alta fiamma ardente,
fiamma della storia, che ardeva a Auschwitz, Treblinka, Salò con carne ebraica,
la carne di ciò che siamo stati. Quale luce rimane nella memoria sbiadita
di questo continente dove gli uomini leccano il gelato come se nulla fosse stato,
allevano i loro figli immemori di tutto, eredi del vuoto nel silenzio
del tempo, mentreunneonato millennio marcia lentamente con cosce senza cervello
verso Auschwitz, Treblinka, Salò, il ritorno della folle, alta fiamma
ardente, la fiamma di ciò che siamo stati, che saremo, nel silenzio del tempo?

 

Immemorial Fashionings
Men kill themselves, having massacred their wives, thrown, mad,
Their children from the jaws of windows. Politicians commiserate.
This is the dark knowledge, the obscure news, news witnessed daily.
One can take no more of that which flickers, flickers on the night,
In the mind of maddened men, on the wealthy screens of Abaddon
Between the ads. High on the snow peaked mountains, a craftsman
Moulds his wood in immemorial fashionings, in the quiet of time.
I have forgotten whoever I am down in the valley of blood, these
The daily murders, the rivers of blood, the blood of Christ, blood
Shed on the Mount of Olives. High on the snow peaked mountains,
A craftsman moulds his wood, immemorial fashionings, in the quiet
of time, high on the snow peaked mountains, immemorial fashionings.

Immemori modellamenti
Gli uomini si uccidono, dopo aver massacrato le loro mogli, e lanciato, fuori di sé,
I loro figli dalle fauci delle finestre. I politici compatiscono.
Questa è la conoscenza tetra, queste le notizie oscure, le notizie quotidianamente testimoniate.
non si può sopportare più ciò che tremola, che tremola nella notte,
nella mente di uomini impazziti, sugli schermi facoltosi di Abaddon
tra gli spazi pubblicitari. Lassù sui picchi innevati dei monti, un artigiano
modella il suo legno in forgiature immemori, nella quiete del tempo.
Ho dimenticato chi io sia quaggiù nella valle di sangue, questi,
gli omicidi quotidiani, i fiumi di sangue, il sangue di Cristo, il sangue
versato sul Monte degli Ulivi. Lassù sui picchi innevati dei monti,
un artigiano modella il suo legno, forgiature immemori, nella quiete
del tempo, lassù sui picchi innevati dei monti, forgiature immemori.

 

The Clock at Hiroshima
Enola Gay brooding on the Japanese sky an instant before unloading it,
History teetering on the brink of death. We have become accustomed
Since then to films of the inconceivable cloud, which opened, then, as if
A malevolent eye, to the eyes of the living witnesses, old but condemned
To remembering, gathering before monuments of tortured steel, against
The backdrop of the skyscrapers, on the anniversary, to commemorate,
Or Oppenheimer, after it, quoting Donne, Now I am become death,
The destroyer, the rivers of blood, rivers of molten flesh, the torrents
Through Hiroshima and Nagasaki, sister cities of willed catastrophe,
Truman, dwelling on silence, like a spider in its web before striking,
Uttering the command, all, all to teach the Soviets a lesson. The cloud
Has burnt into our memory, become an icon, like Marilyn, coloured
By Andy Warhol, the clock at Hiroshima frozen at that long moment,
The fateful moment when it happened. What have we done since then,
How, how, how have we spent time, or raised kids, been happy, since?

L’orologio di Hiroshima
Enola Gay rimugina sul cielo giapponese un istante prima di scaricarla,
la storia vacilla sull’orlo della morte. Ci siamo abituati
da allora ai filmati dell’inconcepibile nuvola, che si apriva, allora, come
un occhio malevolo, agli occhi dei testimoni viventi, vecchi ma condannati
al ricordo, che si radunano davanti a monumenti di acciaio torturato, contro
lo sfondo dei grattacieli, in occasione dell’anniversario, per commemorare,
o Oppenheimer, dopo il disastro, citando Donne, “Ora sono diventato la morte,
il distruttore”, i fiumi di sangue, fiumi di carne fusa, i torrenti
attraverso Hiroshima e Nagasaki, città gemelle della volontaria catastrofe,
Truman, sospeso nel silenzio, come un ragno nella sua tela prima di sferrare il colpo,
pronto ad eseguire il comando, tutto, tutto pur di dare una lezione ai sovietici. La nuvola
è esplosa nella nostra memoria, è diventata un’icona, come Marilyn, colorata
da Andy Warhol, l’orologio di Hiroshima agghiacciato in quel lungo momento,
il fatidico momento in cui è successo. Cosa abbiamo fatto da allora,
come, come, come abbiamo trascorso il tempo, o allevato i bambini, o vissuto felicemente, da allora?

Kevin Wren, nato e cresciuto in Irlanda ma residente in Italia, è poeta, traduttore e accademico. Le sue poesie sono state pubblicate su The Irish Times, The Cannon’s Mouth, Capoverso, Athanor e su Romanticism, rassegna di poesie in lingua inglese pubblicata a Bologna. Le sue numerose traduzioni includono le poesie del poeta calabrese Lorenzo Calogero, che mezzo secolo dopo la sua morte stanno ottenendo meritato riconoscimento internazionale, e l’opera classica di Carlo Ferdinando Russo, Aristofane, autore di teatro per Routledge. Il suo lavoro accademico, principalmente sui romantici e in particolare su Keats, fa parte del corso triennale e del programma post-laurea nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari. Ha partecipato ad alcune importanti letture di poesie a Firenze (Gabinetto Vieusseux, 2016) e a Bari (2017). La sua raccolta di poesie The Long and The Short è uscita nel 1999.

Primo Maggio: Resistenza vs Liberazione

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Ci piace condividere, non dividere. Siamo homini et fimmine, artiste, attori, musicisti, compositori, allestitori, scenografe, ballerini, scrittori, uomini e donne di parola, e musica, di segno e corpo, tecnici del suono e della luce, magazzinieri e mascherine, comunicatori e organizzatori, programmatori di festival e animatori di progetti culturali. Facciamo eccezione ma siamo anche la regola di un mestiere che vale il più delle volte più di quanto non costi. Può perfino valere molto e non costare niente, in apparenza. Sono mestieri, in Italia, con arte ma senza parte. Eppure siamo partigiane e partigiani di una cultura che può solo essere libera, ma che per esserlo deve nutrirsi, alimentarsi, sostenere. Viviamo un momento davvero drammatico, a teatri chiusi e luci spente, ma senza rinunciare a quello che sappiamo fare meglio, incrociamo le braccia per un giorno, questo giorno. La nostra vita è da sempre Resistenza, nel mondo del lavoro, oggi vorremmo trasformare quella parola in Liberazione.

Estensori ed esecutori in ordine sparso: Massimiliano Sacchi (clarinetto), Francesco Forlani (recitativo), Davide Della Monica (pianoforte e voci) Marco di Palo (violoncello), Ernesto Nobili (chitarre elettriche e bouzouki), Cristiano Della Monica (piattini e una saz-a-laika), Roberto Vacca (fisarmonica), Francesco Banchini (chalumeau e voci), Francesco De Cristofaro (irish whistle),  . Video di Davide e Marianna Kyri. 

B7: UN ATTENTATO ATTENTO

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di Liliane Giraudon

traduzione di Silvia Marzocchi

[Presentiamo qui l’ultima sezione del libro di poesia Le travail de la viande di Liliane Giraudon uscito nel 2019 per P.O.L. Questo testo è dedicato alla scrittrice Hélène Bessette, di cui abbiamo proposto su NI delle traduzioni inedite sempre a cura di Silvia Marzocchi. In coda al pezzo, due miei testi critici sul lavoro poetico dell’amica Liliane, che è già apparsa nella rubrica dispatrio qui e qui grazie alle traduzioni di Andrea Raos. Ringraziamo infine l’autrice e l’editore. A. I.]

Taccuino di una quarantena (2)

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di Giuseppe Acconcia

 

8.

Pouvez-vous nous décrire la situation actuelle en Italie?

La situation est très triste en ce moment, nous enregistrons un triste record, celui du plus grand nombre de victimes du coronavirus dans le monde, on arrive même devant la Chine. Cela dit, aujourd’hui un relent d’espoir a gagné le peuple, puisque pour une fois depuis des semaines le nombre de personnes décédées à cause du Covid -19 a baissé. Cet élément est très important, puisque depuis la mise en place des mesures de restriction le 8 mars dernier, nous voyons enfin des résultats, même minimes. Nous avons espoir que les deux prochaines semaines le nombre de morts diminue considérablement. Même si le moral des Italiens est vraiment miné par la douleur, nous avons perdu beaucoup de concitoyens, d’ailleurs la joie de vivre qui a fait le tour de la Toile les premiers jours du confinement a été ébranlée par la mort fulgurante de plus de 6000 Italiens. Mais je reste optimiste, je fais confiance au moral des Italiens et leur capacité à se surpasser. Cela dit, ce qui m’inquiète en ce moment ce sont les déplacements de la population du Nord gravement touché par le Covid-19, vers le sud du pays plus ou moins épargné , à noter que les régions les plus touchées sont là Lombardie, Emilia-Romagna, Marche, Liguria et Veneto, juste après l’annonce des mesures de confinement, mais les critiques se font rare depuis que des gens se sont rendus compte de la gravité de la situation. Cela dit, un autre point inquiète beaucoup les Italiens, le «verrouillage des libertés». Toute infraction des mesures est lourdement punie. Allant de 3 mois de prison à 12 ans de prison avec pour chef d’inculpation : « Sortie sans raison, délit d’épidémie » pour toute personne qui se trouve dehors et pressentant des symptômes. Ajouter à cela la militarisation de la rue, comme vous le savez sans doute l’armée italienne a été appelé a la rescousse, mais j’espère que cela ne va pas trop durer. Nous sommes dans un pays qui a connu le fascisme, la dictature, et ce qui se passe aujourd’hui, c’est-à-dire, armée et police qui comblent les lacunes de la gestion politique est un pari risqué pour la démocratie.

Quelles sont les raisons d’un aussi lourd tribut de l’épidémie dans votre pays?

Si on pose cette question au ministre de la Santé, il dira que la population est très vieillissante, surtout dans le Nord, comme en Lombardie. On peut aussi nous dire que c’est le manque de kits de dépistage qui a causé cette catastrophe sanitaire, c’est-à-dire le fait que le dépistage ne s’est pas généralisé comme en Chine, ou encore en Corée du Sud. Mais pour moi c’est simplement les politiques sanitaires menées par les gouvernements de gauche et de droite qui se sont succédé à la tête du pays depuis des années. C’est-à-dire la réduction de dépenses publiques. Le nombre de lits pour la thérapie intensive, de médecins, de respirateurs… En temps normal le personnel et le matériel médical sont largement suffisants, mais pas pour une crise aussi minime soit elle. Celle que nous vivons en ce moment est sans précédent, et malheureusement de grande ampleur. Le système sanitaire ne tient plus le coup, beaucoup de gens meurent chez eux….. Pour faire simple on peut dire «on se croirait sans Etat». Et cela est la conséquence directe des politiques de Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giuseppe Conte ou d’autres gouvernements. Et même de la coalition qui est au pouvoir actuellement « gauche et mouvement populiste cinq étoiles ».

En ces temps de crise les relations entre l’Italie et l’Europe semblent être tendues, à votre avis comment va se conjuguer l’avenir entre ces deux acolytes?

Dans la précipitation je dirais «je ne sais pas», puisque entre l’Italie et l’UE, l’histoire d’amour est longue et un peu compliquée. Elle est passée par plusieurs étapes. La première «l’enthousiasme», la seconde le « désenchantement ». Depuis près de dix ans, les Italiens ont le sentiment d’avoir été lâché par l’Union européenne, a titre d’exemple la crise migratoire, notre pays doit faire face tout seul aux flux des migrations, sans la moindre aide sans la moindre politique générale, ce n’est pas un problème Italien c’est un problème européen. Par ailleurs, même du côté économique, les Italiens pensent que l’UE est un frein pour leur développement. D’ailleurs une des raisons de la réduction de la dépense publique est due aux restrictions imposées par l’UE. Cela dit, nous sommes loin du débat sur le Brexit, puisque la plupart des Italiens estiment que la libre circulation est un acquis conservé. Je dirais plus que les événements de ces derniers jours ont fait que notre «Euro-scepticisme» ait été exacerbé. D’ailleurs, la crise actuelle démontre les failles de l’UE, même au niveau politique, puisque les prises de décision et de gestion de crise se sont faites individuellement. Pays par pays. C’est-à-dire que l’UE n’est pas un bloc qui agit ensemble. Ce qui est une grande erreur à mon sens, ce n’est pas que sur les questions économiques qu’on doit agir ensemble, même concernant les crises communes. Dès que la pandémie a été virulente la première décision politique a été de fermer les frontières, d’autres, comme le Premier ministre britannique, Boris Johson, a tardé à prendre des mesures après il a voulu «préparer» le peuple anglais à la mort. Chacun s’est confiné finalement bien avant le confinement des populations, alors que prendre des mesures commune sur l’ensemble du territoire européen aurait été plus simple et plus efficace. D’ailleurs, la crise actuelle démontre les failles de l’UE, même au niveau politique, puisque les prises de décision et de gestion de crise se sont faite individuellement. Mais l’attitude de l’Allemagne de recevoir sur son territoire des malades italiens nous permet de garder la foi. Sans oublier le reste du monde nous savons que nous sommes soutenus. Les aides arrivent du reste du monde, de Chine par exemple avec de la «technologie respiratoire», Cuba et la Russie également avec des virologues et de la technologie sanitaire. Nous sommes en manque de tout, de gants, de bavettes, mais l’aide et la solidarité internationale compense vraiment cette faille de nôtres système de santé.

Sur le plan économique quelles seront les conséquences?

C’est très triste, mais même la quarantaine est un privilège en Italie : les plus fragiles, les clochards, les réfugiés par exemple, ne peuvent se confiner. Et encore, pendent des jours, il y a eu des manifestations dans les prisons pour la peur de la diffusion du Covid-19 et le blocage des visites. Il y’a eu un dernier décret gouvernemental qui a ordonne la fermeture des activités économiques, mais le syndicat des entrepreneurs «Confindustria», essaie de fuir cette mesure, il a envoyé une lettre ouverte dans laquelle il explique que la mise à l’arrêt de ces secteurs stratégiques ferait perdre beaucoup d’argent à l’Italie. Mais le syndicat des travailleurs du secteur métallurgique «Cgil-Fiom», qui est le plus grand syndicat en Italie, veut que l’activité cesse en urgence, en vu du risque sanitaire, d’ailleurs, des appels à la grève ont été lancée par ce dernier. En effet, les séquelles de cette crise sanitaire seront profondes. Elles sont déjà commencées, puisque beaucoup de personnes se sont retrouvées au chômage. Le gouvernement a sorti une enveloppe de 25 milliards d’euro (Cura Italia). Pour l’aide aux loyers, aux prêts bancaires, etc… L’opposition affirme déjà que cela ne sera pas suffisant, le Premier ministre déclare que «c’est la pire crise depuis la fin de la seconde Guerre mondiale ». Pour l’instant, on ne peut pas mesurer avec exactitude l’ampleur des dégâts à venir. Par exemple, des le début de la crise les plus hautes autorités européenne, avaient annoncé que face à cette crise l’Italie ne sera pas seule à l’instar de la présidente de la commission de l’UE, Ursula von derLeyen, qui a directement été suivie par une déclaration de Christine Lagarde, la présidente de la Banque centrale européenne qui avait affirmé quelle ne réduirai pas l’écart bancaire». Cette annonce a fait chuter l’économie. On est passé – 12% de la bourse italienne. Maintenant, le Pacte de stabilité a été suspendu, ce qui pourra aider l’économie à se maintenir.

 

9.

Mi manca stare a casa senza l’obbligo di stare a casa. Non riesco più a vedere aumentare il numero di morti e per me è uguale che siano in Spagna, in Italia o in Francia. Sono sicuro che tra di loro ci siano persone simpatiche e anche gli antipatici non meritavano di morire in questo modo. Non ho paura della morte. Scherzando un collega definiva così chi si teneva lontano dagli altri a causa del virus. Non mi importerebbe di morire. E anche l’ipocondria a poco a poco sta andando via.

Un’inchiesta giornalistica ha ricostruito i possibili contagi precedenti al febbraio 2020 rendendo plausibile che tanti abbiano già avuto il virus senza saperlo, come immaginavo. Alcuni medici lombardi hanno riferito di strane polmoniti inspiegabili e aggressive tra trentenni in forma grave ben prima dei primi focolai. E poi è chiaro che il sistema sanitario era impreparato a gestire una crisi del genere, tanti malati in terapia intensiva, dopo i gravi tagli degli ultimi anni, soprattutto nella Lombardia di Formigoni e Maroni.

Mi dedico a rilasciare interviste sulla grave situazione in Africa e Medio Oriente a causa del virus. Le Nazioni Unite hanno chiesto il cessate il fuoco per i paesi in guerra mentre l’Organizzazione mondiale della sanità ha riferito di temere che i sistemi sanitari africani non siano preparati ad affrontare l’aumento dei contagi. I collegamenti Skype con la tv mi hanno sempre imbarazzato perché non si possono mai controllare veramente imprevisti e questioni tecniche da casa. Molto meglio le radio e le interviste telefoniche per i giornali che mi hanno portato dall’Algeria alla California anche per raccontare la quarantena qui in Italia.

Le morti si accumulano di giorno in giorno. La nuova peste raggiunge picchi di oltre mille morti al giorno negli Stati Uniti, in Spagna e in Francia. E così i dati cinesi sembrano a tutti inventati mentre le immagini delle ceneri di centinaia di persone sembrano testimoniare ben altre perdite. Le carte telefoniche di ben 20 milioni di cinesi si sono spente senza mai riaccendersi negli ultimi tre mesi.

Per la prima volta un sussidio di 600 euro riguarda proprio tutti coloro che hanno perso o avuto meno lavoro negli ultimi mesi in Italia. È l’ora di un reddito di quarantena o di un reddito di base? Potrebbe essere una buona novità in un paese dove reddito di inclusione e di cittadinanza faticano ad avere qualsiasi efficacia.

Continuo con i miei film della notte tra Il profeta di Audriard sulle bande di corsi e arabi nelle carceri francesi e Below the sea level di Rosi su una comune di derelitti molto simpatici in California, dagli omicidi efferati di Suburbicon alla Terra dell’Abbastanza che avrei sempre voluto vedere ma non ho mai potuto. Ho rivisto Non fare il cattivo: bellissimo film di Caligari.

Ormai guardo il bollettino quotidiano solo di sfuggita per contare la diminuzione dei pazienti in terapia intensiva. Il dato mi rincuora perché potrebbe con il tempo far diminuire anche il numero dei morti che però continua a salire inesorabilmente ed è arrivato ora a superare 15mila: una vera peste.

I medici hanno finalmente trovato il modo tra clorochina, normalmente usata contro la malaria, e medicinali contro l’artrite, per evitare di intubare troppi malati colpiti dal virus. Evidentemente usare la clorochina all’inizio del trattamento permetterebbe di evitare che tanti colpiti dalla malattia peggiorino. Questo potrebbe essere il modo migliore per tenere sotto controllo la pandemia. Eppure molti dicono che tra muchi e sangue i danni ai polmoni anche di chi non ha molti sintomi sono comunque gravi, anche se non mi è chiaro se siano permanenti oppure no.

Tra Maurice e Old boy continuo a vedere film e a sentire i miei amici. La telefonata di Payam da Teheran è sempre la più gradita. Questo mio amico musicista mi racconta quanto gli iraniani prendano sotto gamba le misure di distanziamento sociale nonostante il numero di morti continui ad aumentare. Pare che tra Newrooz e Ramadan si possa fare un ponte infinito di tre mesi in Iran. Queste telefonate diventano chiacchierate esistenziali su come ormai noi trentenni non possiamo davvero ricominciare tutto d’accapo perché ormai i ragazzini ci guarderebbero sorridendo. Ma anche di consolazione: se per essere dei vincitori bisogna essere bugiardi, meglio perdere.

 

10.

Chi ha letto fin qui può scambiare queste pagine come il taccuino di un ipocondriaco. Eppure non è così. Questi giorni sono pieni di malattia e di morte. La morte può essere una liberazione e non è detto che sia un male. La morte degli altri certo che spaventa e rattrista. La propria forse di meno. Ma la malattia è orribile. Non parlo di inettitudine o di incapacità di adeguarsi alle regole del mondo ma di malattia: quella vera.

Pensare di essere continuamente malati può essere uguale alla malattia. Ma non è la stessa cosa. Perdere il respiro, essere attaccati a un respiratore, percepire il rumore degli altri e la mancanza d’aria nei polmoni, non riuscire a respirare e parlare: questa è la malattia. Se poi questa condizione è moltiplicata per migliaia di persone in tutto il mondo e per milioni che hanno sintomi, anche se lievi, rende il contesto completamente diverso dal solito. Certo malattia è anche l’incredibile disprezzo per l’ambiente e gli animali di cui tutti quotidianamente hanno esperienza. Ma questo virus fa un salto in più. È come se il degrado a cui siamo abituati con i cambiamenti climatici si impossessasse di noi e ci rendesse malati.

Ora anche nella malattia ci sono lati positivi: per esempio il pensiero e la riflessione che viene dall’isolamento, la calma del letto, la nostalgia della memoria, il coraggio di affrontare di petto una possibile guarigione, la voglia di cambiare e di riscattarsi attraverso la riacquisita salute, il tentativo di esorcizzare una malattia lieve aiutando chi sta peggio. Quindi non dispero e trovo conforto in questi pensieri e nei bei sogni che imparo a gustarmi nelle ore della mattina. Si dice che i sogni della mattina siano più realistici e così è. Stanotte ho sognato di passeggiare tra le vie di Mogadiscio di notte. Ero praticamente solo e se non ci fosse stato il virus non avrei mai potuto farlo con tanta libertà. Alla fine ho oltrepassato un foro in un muro tortuoso che mi ha portato fino alla spiaggia e ai ruderi di un magnifico castello. Mi sono sentito riconciliato con il mio passato, con una grande voglia di ricominciare.

Insomma in questa quarantena ho imparato a non svegliarmi nel cuore della notte, ad andare a dormire con un’immagine semplice ma rincuorante. Ho imparato a distribuire le vettovaglie per l’intera settimana, insomma ad avere un’ “auto-disciplina” che mi mancava davvero. Nonostante tutto, nonostante l’aria che trasuda morte e malattia.

Un mio amico ha dovuto fare un rocambolesco ritorno da Cuba dove uno dei turisti del suo gruppo è risultato positivo al virus. L’ho immaginato solo su una spiaggia cubana dove sarebbe forse stato curato meglio che in Italia. L’ho anche immaginato mentre solo aspettava il treno che dalla stazione di Milano lo ha riportato a casa, seduto nel suo scompartimento lontano da tutti gli altri passeggeri. Un altro amico ha dovuto fare ritorno in fretta e furia da Londra. Una volta a Roma è stato accompagnato da un trasporto con autista carissimo e ha immediatamente dovuto avviare, insieme a tutta la sua famiglia, un periodo di quarantena.

Anche il lavoro va avanti, con Zoom e Skype. Il primo ero abituato ad usarlo da tempo per interviste e riunioni, mentre qui in Italia sembra una grande scoperta per chi lo usa, nonostante poi tutti si lamentino delle violazioni della privacy che comporta. Seminari e riunioni si seguono con una buona qualità audio e video, tutti possono avere la parola, quindi ben vengano le video lezioni e il video lavoro in questo tempo. Anche le persone che intervengono, viste attraverso la lente di Zoom, sono quasi più vicine, si incarnano quasi in un avatar che fa un effetto non così dissimile dalla presenza. Eppure manca sempre qualcosa.

Ormai anche i paesi più restii a imporre le chiusure complete hanno cambiato idea, inclusi Stati Uniti e Gran Bretagna. Qui, proprio il Johnson che aveva sottovalutato la pandemia si è ammalato ed è entrato in terapia intensiva. In Italia, Spagna e Portogallo non poteva mancare poi l’odio anti-olandese e anti-tedesco. Sembra che questi paesi vogliano prendere in giro i paesi del Sud Europa e, in questo contesto, di disagio, malattia e solitudine, questo atteggiamento non sta passando inosservato. Forse per la prima volta il sentimento è di chiedere maggiore solidarietà tra Nord e Sud, quella solidarietà che gli inglesi hanno rifiutato con la loro Brexit, sembra proprio che l’Unione europea per come la conosciamo non abbia più senso. Ho scoperto poi di notte Petit Quinquin di Bruno Dumont: un vero capolavoro. I personaggi sono tutti spastici e rincorrono la ricostruzione di vari omicidi in stile pasoliniano alla Twin Peaks. E non mi sono perso il magnifico Joaquin Phoenix ne I padroni della notte né Chant d’hiver.

 

11.

La musica e il resto scompare. Passo il pomeriggio così, tra Elvis Costello, Brian Eno e qualche rapper. Di sicuro è il modo migliore per lasciare il resto fuori di qui nel senso più compiuto del termine, per non pensare a distanziamenti, terapie, contagi.

Un altro appuntamento è la telefonata di un mio amico greco che mi racconta come vuole ricominciare la sua vita dopo la quarantena. Per esempio, vorrebbe aprire un baretto sulla spiaggia o un ristorante etnico a Milano. Questa estate sarà dura per quasi chiunque andare in vacanza e forse il mar Tirreno o l’Adriatico saranno il massimo che potremo concederci. Eppure questo pensiero non mi preoccupa. Anzi, la sola idea di nuotare, anche partendo da una spiaggia abituale, mi riempie di forza. E poi sentire chi sta in paesi dove il virus si diffonde meno velocemente di qui mi fa arrabbiare. Molti non si rendono conto delle restrizioni assurde che qui tutti sono costretti a rispettare, dei pericoli di una deriva fascista che questo già comporta con proteste nei supermercati e pestaggi di chi non si ferma ai posti di blocco della polizia, dell’assurdità di stigmatizzare chi cammina da solo per strada mentre migliaia di persone vanno a lavorare come se niente fosse.

Di sicuro questa quarantena ha risvegliato in me la voglia di cucinare che avevo davvero perso negli ultimi anni. Piatti veloci e piccole bettole sono state la mia pratica quotidiana ultimamente. Invece in questi giorni ho ritrovato il gusto di prendere del tempo per pensare a piatti che prima cucinavo spesso. Preparo gli ingredienti, li cerco nel fugace tempo che dedico alla spesa distribuendo i pasti nei tanti giorni che passano tra un’uscita e un’altra, solo per gli acquisti settimanali nello spaccio sotto casa.

Mi dedico al soffritto, a sbucciare la verdura o condire piatti che da tempo non preparavo. I miei amici e familiari ormai si dedicano a gustosi piatti sofisticati, davvero notevoli. Io non arriverò mai a quei livelli ma posso rispolverare i segreti culinari di famiglia e amici di vecchia data, e non sono pochi.

Ha fatto ritorno poi al suo posto la giovane cassiera che credevo ormai morta. Sarà guarita? Al ritorno dall’Algeria erano seduti accanto a me in aereo due signori che tossivano e si soffiavano il naso lamentandosi di essere stati discriminati a Barcellona perché italiani raffreddati e quindi possibili divulgatori del virus. Hanno poi aggiunto che dicevano a tutti: “siamo guariti”. Non si sa quando il virus va davvero via e fin quando si è contagiosi. Questo è stato un elemento in più che per giorni ha tenuto impegnati i miei pensieri ma ora è scomparso.

La condizione della quarantena e di una clausura così lunga che durerà almeno altre tre settimane, fino al tre maggio, è molto particolare. Ho sempre sognato che il tempo si fermasse, che con uno schiocco di dita tutto rimanesse fermo mentre io avrei potuto camminare tra quei corpi bloccati conquistando magicamente più tempo per preparare e organizzare le cose quotidiane. Questo è il caso, tranne che il tempo è fermo per tutti. Il tempo della storia è davvero fermo all’8 marzo 2020 da quando per legge è impossibile muoversi, tranne chiacchiere fugaci per chiedere quale sia lo scompartimento del lievito ai cassieri.

Anche se il tempo dei discorsi va avanti in via telematica, così come la condivisione dei pensieri, delle speranze e delle paure. Ma non è la stessa cosa di sicuro. Eppure quella realtà parallela avrà degli effetti su di noi e li sta già avendo nella costruzione della quotidianità. Quindi il tempo non è davvero fermo, va avanti e così, ancora una volta, anche la quarantena è un’illusione, l’illusione che le cose non succedano per un momento. E invece succedono lo stesso, forse più velocemente del solito, come avviene in quei lunghi giorni di vacanze in cui tutti pretendono di essere in vacanza e invece si licenziano e si assumono persone, si decidono intere manovre finanziarie.

I morti qui continuano a moltiplicarsi mentre la propaganda tende a far credere che i disastri avvengano altrove: in Spagna, in Francia, ma non qui di certo. Né è possibile avanzare in questa fase critiche e dubbi sulla gestione da parte delle autorità o fare domande scomode alla protezione civile. Invece un disastro tra i disastri della sanità lombarda, fatta a pezzi da leghisti e berlusconiani, da Formigoni a Maroni fino a Fontana, è stata la decisione di trasferire tanti anziani colpiti dal virus in residenze per anziani nel momento del culmine dei contagi per fare spazio nelle terapie intensive strapiene ai malati più giovani. Questo ha diffuso il virus tra i tanti anziani che vivono negli ospizi lombardi che sono morti a decine e decine, soli, senza un funerale.

E così non mi resta che continuare a preoccuparmi perché in Iran hanno deciso di farla finita con la clausura nonostante le migliaia di morti, i sauditi hanno annunciato una tregua nella guerra in Yemen: decine di vecchi reali sauditi sono risultati positivi al virus. Mentre negli Stati Uniti, si contano più morti che in Italia e compaiono le prime fosse comuni per seppellire chi non può permetterselo. Sono riuscito a mettere le mani su una versione in arabo della nona e decima serie di Shameless che non avevo. E tra una riunione online e l’altra (una specie di scusa per lavorare di più per chi è già normalmente dipendente dal lavoro) ho rivisto la tragedia di Mistic River e scoperto Tesnota e i cabardi, regia di Kantemir Balagov.

 

12.

 

Turning points

 

Nella vita di ognuno può cambiare tutto all’improvviso

la partenza per un’Università lontana da ragazzi

la fuga verso un mondo diverso da quello quotidiano

il terrore di essere malati o della morte

la necessità di svelare la verità in un mondo di mafiosi

una pandemia che costringe tutti a rinchiudersi in quattro mura.

 

Nella vita di ognuno può cambiare tutto all’improvviso

la scoperta di una città e di persone nuove

l’amore per abitudini fuori dall’ordinario

il riscatto dopo la caduta

un ambiente meno incline a discreditare

il ritorno alla riflessione e alla scrittura.

 

Nella vita di ognuno può cambiare tutto all’improvviso,

sono i momenti nei quali non prendo decisioni

ma concretizzo scelte già maturate

anche inconsapevolmente

e guardo al futuro con più sincerità e meno illusione.

 

13.

In questa lunga quarantena non si sprecano i paragoni con la guerra. Eppure non mi sembra che sia un confronto pienamente azzeccato. È vero che gli studenti saranno tutti promossi e l’esame di maturità sarà semplificato, come fu in occasione della seconda guerra mondiale. Ma la guerra è un’altra cosa. Ho una sola esperienza di guerra vera che mi viene in mente. Sono stato nel Kurdistan siriano nel 2015, attraversando la frontiera turca, quando scrivevo per Il Manifesto. È stata una delle esperienze più incredibili della mia vita entrare nella città di Kobane, di notte, dopo aver superato il confine passando, da clandestini, il filo spinato e le minacce dell’esercito turco.

Kobane era una città fantasma, completamente vuota, tutti mostravano il terrore di uscire fuori dai possibili percorsi consentiti per evitare di incappare in una mina. I palazzi erano ridotti in macerie, non c’era acqua e l’elettricità arrivava in casa per poche ore al giorno grazie a un generatore. Continuavamo ogni giorno i pellegrinaggi al cimitero per seppellire i combattenti e le combattenti kurde morti in battaglia. Un solo ristorante era aperto in tutta la città e aveva carne e altre cose ma in quantità molto limitate. I volti delle persone erano segnati da una rassegnazione incredibile, dal terrore per lo Stato islamico, dall’odio sia per al-Assad sia per Erdogan. Iniziavano a comparire dovunque le immagini del leader del partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan. I corpi di tante persone a Kobane erano stati deturpati durante attentati o l’esplosione di mine. Fu davvero incredibile visitare l’ospedale di Kobane e poi andare fino alla linea del fronte ad Ain Issa e in seguito entrare nella città di Tel Abyad liberata da Isis.

Non credo che la nostra pur assurda situazione attuale possa essere paragonata a quella. Forse ci avviciniamo di più ai giorni successivi a un terremoto. Il più violento di cui ho avuto esperienza è stato in Turchia nel 1999. Ero in viaggio a Istanbul con i miei genitori, deve esserci ancora una cronaca che scrissi per il giornale del mio liceo. Camminai per la città deserta poco dopo la scossa che fece 40mila morti. Le strade erano deserte, capannelli di persone erano pronte a passare la notte nei parchi, mentre altri si affollavano alle portiere di alcune autovetture per ascoltare le notizie della radio.

Ma neppure questo paragone mi convince fino in fondo. La quarantena è la quarantena. Qui le linee del fronte sono le residenze per anziani dove muoiono centinaia di persone grandi ogni giorno e le fabbriche. Di fronte al virus non siamo tutti uguali perché chi ha più possibilità economiche di solito riesce a sapere immediatamente di esserne colpito e a curarsi di conseguenza oppure se anche dovesse arrivare in terapia intensiva, come nel caso del premier inglese Boris Johnson, ne esce sano e salvo camminando sulle due gambe. La spesa può arrivare direttamente a casa a chi è in isolamento. Alcune città sono già pronte a riaprire, come è il caso di Wuhan. Insomma, siamo lontani dalle privazioni di guerre e calamità naturali. Eppure il clima fuori casa ha qualcosa a che fare con entrambi i contesti.

 

14.

Ai tempi della peste del Seicento la quarantena durava sei mesi. Non capisco quale sia ora la fretta di ricominciare: sembra semplice presunzione. Sono morte 155mila persone in tutto il mondo fin qui, sarebbe tempo di rimanere fermi. In una poesia che ho pubblicato qualche anno fa, si chiama Apolidia, parlavo proprio di una peste che avrebbe purificato il mondo evitando di colpire le donne. Moriranno tutti gli uomini e resteranno al mondo solo donne? Mi sorprende di essermi avvicinato così tanto agli eventi di questi giorni.

Non ne potevo più. E così sono uscito per la prima volta dopo quaranta giorni per una breve passeggiata. Qui le misure sono state alleggerite, forse prematuramente, e si può uscire di casa per fare due passi pur rimanendo nei paraggi di casa. I leader populisti da Orban a Trump fino a Bolsonaro hanno chiesto pieni poteri per affrontare la pandemia: prodromi del fascismo. Vorrebbero senza contraddittorio ignorare le cautele avanzate dagli scienziati, licenziare tutti e tornare al business as usual. E così fanno i leghisti nostrani ignorando che proprio qui nel Nord Italia i morti sono molto più numerosi che in altre regioni. Sembra quasi che dal pericolo di una deriva fascista siamo tornati indietro fino alle divisioni tra Lombardo-Veneto e Regno delle due Sicilie. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca ha promesso di chiudere le frontiere del suo “feudo” campano se la Lombardia le avesse riaperte prematuramente. Temo che regrediremo ancora in uno stato di eccezione di lungo periodo che potrebbe riportarci all’età della pietra.

Devo dire però che camminare di nuovo per la prima volta è stato davvero molto piacevole. Non mi è sembrato di provare fatica e ho ammirato i bei palazzi, i ruscelli, gli uccelli, i ponti e le poche bancarelle aperte apprezzandoli più del solito. Il sole dell’inizio della primavera mi ha riscaldato.

È obbligatorio portare una mascherina: la chiamano “nuova normalità”. E nonostante le misure di distanziamento sociale molti continuano ad avvicinarsi più del dovuto, dal postino al ciclista, dal passante al netturbino. Le persone sono tornate a camminare per le strade nonostante i negozi siano chiusi e si debbano rispettare misure di distanziamento rigorose.

Purtroppo al rientro a casa i dubbi di aver esagerato con questa piccola passeggiata mi hanno assalito di nuovo. Per alcuni giorni ho temuto di aver preso il virus in seguito a un brutto herpes che mi è comparso sul labbro. Al telefono un amico mi ha assicurato di essere certo di averlo preso dopo essere uscito per la prima volta dopo 40 giorni solo per una piccola faccenda. Ma si vede che non è ancora giunto il nostro momento.

Pandemia e sacralità

4

 

 

Una conversazione con Adriano Ercolani

a cura di Francesco Bove

 

Trinità (Andrej Rublëv)

 

Adriano Ercolani è uno scrittore e un critico letterario finissimo e collabora attivamente, tra le varie riviste, con ilfattoquotidiano.it, Linus e Minima&moralia.

Recentemente è stato tra gli ospiti protagonisti degli eventi organizzati dal progetto Tlon, la Festa della Filosofia alla Triennale di Milano del 19 gennaio e la maratona online #prendiamolaconfilosofia che il 4 aprile è stata in diretta streaming sul sito di Repubblica. Parto da un’intervista a Roberto Calasso del 2017 sull’Homo Saecularis proprio su La Repubblica, fatta da Dario Olivero in occasione del lancio del libro L’innominabile attuale, per parlare dell’importanza del senso del sacro, soprattutto in un periodo di quarantena.

Calasso dice che: Homo saecularis è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere – religioso, politico, tradizionale – non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso.

Leggo questo frammento ad Adriano…

 

Che cosa ne pensi?

 

Sono temi abissali, è difficile parlarne in una maniera disinvolta. Chiaramente il discorso che fa Calasso è molto importante, sono temi di cui lui si occupa ad alto livello come autore ed editore. Partirei da alcune riflessioni: in Conversazioni su Kafka c’è una frase illuminante che Gustav Janouch attribuisce al grande scrittore boemo, ovvero che nell’era moderna “non esistono più i miracoli, ma solo le istruzioni per l’uso”. Con profondità affine, Pier Paolo Pasolini, in un’intervista con Jean Duflot , disse una frase che mi ha sempre colpito, soprattutto da parte di un marxista: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”.

E, come sappiamo, il rapporto di Pasolini col sacro era animato da una ricerca feroce e disperata, anche attraverso la dirompenza blasfema, ridestando quelle energie potenti anche attraverso la violenza. Senza scomodare il riferimento immediato di René Girard, il legame tra sacro e violenza era stato già esplorato da Roger Caillois ne L’uomo e il sacro.

Pochi anni prima, Artaud suggeriva (nel memorabile saggio-romanzo su Eliogabalo) di scuotere i “Principi originari” dal “fondo genesiaco delle cose”, vedeva nella follia lucida del vizioso imperatore quattordicenne un preciso rituale sacro, un’incarnazione dell’identità dei contrari. Non a caso Artaud stesso identificava col concetto stesso di Crudeltà il ritorno al valore sacro del teatro.

Tornando a Pasolini, è significativo che nella sua esplorazione spirituale sia partito dal Cristo fino ad arrivare all’apocalisse nera delle sue visioni di Salò, quindi al capovolgimento sadiano della prospettiva cristiana.

Dico questo perché siamo partiti da Calasso, un autore che nei suoi saggi, anche quando tratta di autori come Baudelaire, rintraccia, riconosce ed esplora questo doppio binario.

Baudelaire, ad esempio, arriva a simili approdi, con un percorso chiaramente diverso da quello di Pasolini, ma con una parabola non del tutto distante. Pasolini era figlio di un certo decadentismo, Carmelo Bene parlava a riguardo di un “dannunzianesimo inconfessabile”.

 

Anche se una volta a cena hanno litigato per questo, perché Pasolini non voleva accostamenti ideologici con D’annunzio.

 

Certo, perché, nonostante l’innegabile dono dello stile, D’Annunzio è uno che ha mescolato, banalizzando, Oscar Wilde e Nietzsche.

Ha ridotto un discorso filosofico complesso a una seducente posa estetica.

Ti racconto un aneddoto personale: io mi feci bocciare scientemente in primo liceo, non raggiungendo la cifra minima di presenze che allora automaticamente obbligava a ripetere l’anno, perché volevo andare nella sezione dove insegnava Giovanni Casoli, un teologo di cui avevo alta stima. Avevo ragione perché mi cambiò la vita.

Dopo il liceo, collaborai a una sua antologia letteraria, che divenne pure un testo universitario (Novecento letterario italiano e Europeo), assieme ad altri collaboratori tra cui Daniele Capuano, che ritengo uno dei più grandi intellettuali italiani. Casoli, quando parlava di Baudelaire, lo ritraeva come “un cristiano diviso”. Se rileggiamo I Fiori del Male, ciò è chiaro fin dall’inizio, pensiamo al celebre sonetto Corrispondenze, spesso scolasticamente ridotto a mero “manifesto del Simbolismo”: le prime due quartine sembrano un brano di sapienza yogica. Del resto, “simbolo” e “yoga” hanno una simile etimologia, legata al concetto di “tenere insieme”, “agganciare”, “unire”. Però, notava Casoli, la ricerca di questa connessione con la natura, con il Tutto, con il Divino in Baudelaire avviene sul piano della percezione terrena, estetica, sensuale, a differenza del simbolismo medievale che mostrava l’unità del cosmico, per visibilia ad invisibilia, e utilizzava le immagini della vita quotidiana come figure dell’Assoluto, per rappresentare l’invisibile. Ciò è spiegato magnificamente da Auerbach nei suoi saggi danteschi.

Il simbolismo medievale mostra l’Unità tra il Creatore e tutte le creature, a loro volta unite, affratellate dal fatto di essere appunto creature, figlie dello stesso Creatore. Pensiamo a La Divina Commedia, a Giotto oppure, successivamente, alla Trinità di Rublev.

 

Quanto è necessario, in questo innominabile attuale, un discorso sul senso del sacro?

È fondamentale, ma non deve essere, necessariamente, collegato a una confessione dogmatica. Appunto, pensatori nominalmente atei, addirittura blasfemi, come Leopardi, Baudelaire o Pasolini hanno testimoniato una profonda connessione con la dimensione del sacro.

Il fanatismo è semplicemente sciocco.

Nella disperazione i ricercatori che non trovano questa unità agognata, che non riescono a soddisfare la loro sete di verità, arrivano ad invocare Satana, come appunto accade nelle Litanie a Satana di Baudelaire. E non sto parlando della visione romantica ottocentesca di Satana, che deriva da una distorsione di Milton, in cui cadde persino il Carducci. Piuttosto, è un discorso gnostico di coincidentia oppositorum, che ci porterebbe a William Blake, “il più grande poeta gnostico d’Occidente”, come lo definisce Daniele Capuano.

C’è molta confusione.

Negli ultimi decenni trovo uno sguardo meditativo limpido in pochi artisti.

Mi viene in mente Andrej Tarkovskij.

 

 

 

Trovo sempre una grande analogia tra Bresson, Ozu e Tarkovskij. Un giansenista, un regista zen e Tarkovskij esprimono, quasi, lo stesso tipo di cinema pur lavorando su chiavi diverse. Tarkovskij, in Andrei Rublev, ragiona per modelli esemplari. Nella parte con Teofane il Greco dice che la preghiera è l’unico modo per lanciare uno sguardo diverso verso cose che l’occhio non vede. Quindi, al di là delle loro differenze culturali, il senso del sacro potrebbe essere un segno per interpretare un reale che non riusciamo più ad interpretare, che ci domina?

 

L’analogia che tu hai trovato è importante, forse questi registi hanno in comune quello che Tarkovskij definiva, nel titolo di un suo libro,  come “Scolpire il tempo”, un concetto molto vicino alla visione di Pavel Florenskij, proprio colui che definì la Trinità di Rublev come, sostanzialmente, la dimostrazione dell’esistenza di Dio.

L’atto di “scolpire il tempo” crea una dimensione sacra.

Pensiamo all’etimologia di tempio, “templum”: la parte di cielo o di terra dalla cui osservazione gli àuguri traevano presagi, appunto “con-templando”. Quindi, il sacro ispira l’idea di ritagliare, estrarre, consacrare, appunto, dei momenti del tempo e dei luoghi dello spazio in cui entriamo in uno stato di consapevolezza diverso.

Uno sguardo che in Tarkovskij non trovi solo in Andrej Rublev ma anche in altri film, perché, in lui qualsiasi immagine è sacra. Ricordo che rimasi davvero sconvolto quando, mi pare in un volume della peraltro bellissima serie di saggi cinematografici Il Castoro Cinema, non ricordo chi dette un’interpretazione freudiano-marxista del suo film Lo Specchio. Questo critico scrisse chiaramente che dal film emergeva una personalità schizoide, infantile, immatura. Io posso comprendere una critica in cui non si apprezza un’opera oppure non si condivide la visione filosofica, ma non comprendere in maniera così grossolana un film, non scavare criticamente le ragioni di scelte stilistiche, non studiare la Weltanschauung dell’autore, beh, mi sembra assurdo, oltreché ridicolo. Tarkovskij è, forse, l’unico artista degli ultimi decenni che riesce a esprimere in maniera convincente il senso del sacro in una prospettiva di redenzione.

Spesso, accade il contrario.

Per esempio, in Lars Von Trier freme una sensibilità nei confronti del sacro, ma in una prospettiva capovolta.

Ciò accade programmaticamente in David Lynch, la sua frequentazione con la filosofia orientale gli fornisce l’accesso a una forma di conoscenza che, in mano a un artista consapevole, può incendiare un’immaginazione già fertile.

Discorso che vale in maniera diversa anche per alcuni momenti in Polanski.

Nel cosiddetto Kali Yuga, l’era della confusione secondo i testi induisti, gli artisti entrano in contatto con il sacro spesso attraverso il rovesciamento blasfemo.

Guido Ceronetti, ad esempio, gnostico puro, elogiava e citava l’interpretazione dei Salmi fatta da Diamanda Galás, una delle artiste più violentemente blasfeme che esistano, ma che in quella furia riesce a far vibrare le corde del sacro. Lei è sicuramente un’artista”visitata”.

 

Una delle più grandi voci, per me.

Indubbiamente.

E non è un caso che abbia esordito proprio interpretando le citate Litanie di Satana di Baudelaire.

Tornando alla tua domanda precedente,  il momento paradossale che stiamo vivendo è nel regno dell’extra-ordinario, una dimensione che spazza via le convenzioni, i ritmi comuni. Nel rovesciamento dei riti quotidiani, possiamo ri-afferrare il senso più profondo dei rituali sacri, di cui i primi (i riti quotidiani) sono un parodistico surrogato. Se leggiamo la prima pagina dell’Ulisse di Joyce, testo novecentesco per antonomasia, inizia con Buck Mulligan che prima di farsi la barba dice: “Introibo ad altare Dei”, il verso dei Salmi che prima della riforma liturgica dava inizio alla messa. Il rito borghese di farsi la barba diventa la parodia del rito cattolico, svuotato di significato.

In un momento in cui è urgente recuperare il senso del sacro (tema cruciale dei grandi contemporanei di Joyce, quali T.S. Eliot, Pound, Chesterton, Tolkien, C.S. Lewis), gli automatismi quotidiani ne ripropongono la mera meccanica esteriore, come un insensato simulacro.

Ora che, in tempi di pandemia, i ritmi quotidiani sono saltati, possiamo riappropriarci di una visione sacra, di una scansione  rituale del tempo.

Nel momento in cui ci ritagliamo un momento dedicato all’introspezione, alla meditazione o altre forme di ritualità, questo stesso atto, prima dell’eventuale pratica, conferisce sacralità a quel momento e a quello spazio.

Capisco che ciò possa sembrare assurdo e superstizioso per un razionalista, ma il rifiuto a priori della dimensione sacra è un condizionamento culturale uguale e contrario a quello dei dogmi religiosi.

Penso si possa dire senza offendere nessuno che la Chiesa Cattolica è stata dominante in Occidente per 2000 anni e, paradossalmente, la diffusione universale del Cattolicesimo (destino presente nell’etimo del nome) ha progressivamente svuotato di senso iniziatico la sua liturgia.

Credo che le persone che vanno a messa consapevoli di tutti i passaggi rituali, di tutti i significati simbolici siano la minoranza. Elémire Zolla e Cristina Campo lo sapevano al punto da invocare il ritorno della messa in latino. Da un lato comprendo il loro anelito, è chiara la potenza mantrica delle formule antiche, l’incanto solenne di un’atmosfera rituale che si è smarrita, ma è un discorso che ha senso solo per chi ha profonda consapevolezza esegetica. Quando il tutto si riduce a una meccanica ripetizione di formule mandate a memoria si dà ragione Marx, si tratta di “oppio dei popoli”.

Il fatto che molte persone intelligenti abbiano un rifiuto in blocco del sacro e lo considerino un trucco e un inganno, è un’immensa perdita. Sto parlando, ovviamente, non di smontare le evidenti sovrastrutture ideologiche delle religioni storiche, ma di percepire, di connettersi a una dimensione più profonda e sottile dell’esistenza umana.

Baudelaire, nel sonetto citato, esordiva dicendo: “La Natura è un tempio”.

Questo tempio è da tempo abbandonato.

E come diceva Junger, “Gli altari in rovina sono abitati da demoni”.

Secondo la visione del tempo ciclico indù noi stiamo in una fase di finale transizione del Kali Yuga, l’età del ferro in senso esiodeo. Mi ha sempre fatto riflettere come Julius Evola, mente dal carisma incendiario quanto pericoloso, scagliasse strali contro il Kali Yuga ma, al contempo, ne sia stato uno dei più grandi agenti, avendo consegnato, in più conferenze, per sua stessa ammissione, chiavi di sapienza esoterica alle SS.

Uno dei tratti di quest’età della confusione è che chi lotta per una società più equa ignora o deride la dimensione spirituale, mentre chi la studia ed esplora spesso è vicino a ideologie prossime al razzismo e alla dittatura.

 

 

Le stesse Edizioni Mediterranee erano appannaggio dell’estrema destra.

Sì, se è vero che nel loro vastissimo catalogo hanno pubblicato testi pericolosi, va anche riconosciuto che hanno pubblicato anche molti libri fondamentali. L’ambito esoterico richiede un discernimento sottile e spietato.

La cultura di sinistra ha colpevolmente abbandonato il campo di questa conoscenza esoterica all’Estrema Destra.

Tratta bene il tema Erica Lagalisse in Anarcoccultismo, un libro molto interessante pubblicato da D edizioni. Anche le edizioni La Lepre in questo senso svolgono un ruolo importante. Del resto, come sai, collaboro con il progetto filosofico Tlon, che mostra la coerente convivenza tra il proporre riflessioni su temi di spiritualità ed esoterismo e il lottare culturalmente contro razzismo e sessismo.

La domanda resta: come mai gli artisti che evocano il sacro negli ultimi cento anni, da Artaud a Polanski, lo fanno all’interno della dimensione che Freud chiamava l’unheimlich, il perturbante? Tarkovskij, ripeto, è l’unico che testimonia epifanie luminose in maniera convincente. Anche Mallick ci prova ma i suoi film non hanno quella potenza illuminante. Talvolta si accosta Lars Von Trier a Tarkovskij, ma in realtà un film come Antichrist è l’opposto della Filocalia, di cui Tarkovskij era consapevole erede.

 

Sono chiaramente d’accordo con te, nonostante non apprezzi l’ultimo Von Trier. C’è una cosa che mi interessa a riguardo della follia divina, cioè il divino mutamento delle abitudini consuete. Oggi le nostre abitudini consuete stanno cambiando ma non in senso trascendente. C’è uno smarrimento insensato. Eppure un giorno i media fanno rimbalzare l’immagine del Papa che predica solitario in mezzo al colonnato del Bernini di Piazza San Pietro e, di colpo, gran parte degli italiani riscopre Dio. Quanto è stata forte quest’immagine per i cristiani? E quanto è stata potente nella mente di un uomo comune?

 

Lungi da me fare uno spot per la Chiesa Cattolica, ma non si può negare che sia stato un momento potentemente simbolico, una formidabile opera di comunicazione. Che poi sia merito di Bernini o di Michelangelo, è comunque un’immagine molto potente. Non sono cattolico, ma se lo fossi probabilmente avrei vissuto quel momento con forte riconoscimento, perché comunque è una spettacolare metafora della predica nel deserto spirituale contemporaneo. Poi, è chiaro che si può fare un’opera facile di decostruzione, non è che scopriamo ora le abili mosse comunicative della Chiesa Cattolica. Uno dei tratti del Kali Yuga è anche questo: essendo l’età della confusione, non esiste una netta distinzione tra “buoni” e “cattivi”. Questo manicheismo sterile, invece, è un limite dei pensatori laici, in cui spesso trovo molto fideismo e fanatismo, soprattutto a sinistra. Nel momento in cui si crede che la storia sia una costante dialettica di forze in conflitto, allora si dovrebbe accettare la dinamica dello scontro all’interno dei limiti umani, vale a dire: fai la guerra coi soldati che hai. Quindi, se in questo momento, la Chiesa Cattolica è uno dei pochi argini culturali alla deriva neofascista, ben venga, con tutto che la Chiesa Cattolica ideologicamente e filosoficamente può essere vista come un nemico storico. Sono fieramente anticlericale ma credo sia pacifico che Avvenire abbia fatto un’opposizione a Salvini più diretta ed efficace de La Repubblica.

La storia insegna: per sconfiggere Hitler, Churchill e Stalin si sono alleati.

Gandhi è venuto a Roma a parlare con Mussolini in chiave anti-inglese.

Fa riflettere che una tale sterile rigidità venga da esponenti di una parte politica teoricamente anti-dogmatica.

 

Qualche giorno fa ho intervistato un performer, Il ristretto, che mi ha detto una cosa su cui ho riflettuto molto. Secondo lui, in quarantena, una persona ritrova quel che ha coltivato nella vita, come se la casa fosse una dimensione purgatoriale. Quindi, a ben pensarci, ci sono tanti problemi privati che l’uomo, senza il senso del sacro, che non riesce a distaccarsi da una dimensione materiale, si trova durante il confronto con se stesso. Quindi, ti chiedo, quale può essere la via di fuga? L’arte può aiutarci?

Io vengo spesso considerato una persona piena di entusiasmo, ma in realtà di base sono pessimista, poiché semplicemente credo che un pessimista non possa mai essere deluso. Ciò non contraddice l’entusiasmo per le poche cose che ritengo degne.

“Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà” secondo la nota formula di Gramsci.

Chiaramente, questa pandemia ci ricorda uno scenario da tragedia greca, un contagio che blocca tutto, che cancella la normalità.

Abbiamo citato molto Tarkovskij, era lui a dire perfettamente: “L’arte esiste e si afferma là dove esiste quell’eterna e insaziabile nostalgia della spiritualità, dell’ideale, che raccoglie gli uomini attorno a essa”.

Siamo partiti dallo smarrimento del senso del sacro, che ha decapitato l’esistenza dell’accesso a una dimensione interiore. Abbiamo smarrito il contatto con dimensioni della coscienza connaturate all’esistenza umana.

Non bisogna essere fascisti per riconoscere l’importanza di una lettura archetipica del reale.

Non bisogna nemmeno essere credenti per riconoscere l’importanza del sacro.

Detto questo, l’arte per me è essenziale in tempi “normali”, figuriamoci in tempi di pandemia.

Non parlo soltanto di Caravaggio o Wagner, penso anche a serie tv o saghe cinematografiche popolari, che possono essere occasione di riflessione filosofica collettiva.

Pensiamo a Lost, ad esempio, una serie che, con tutti i suoi difetti e le sue furbate, ha cambiato la storia della tv, poiché ha tenuto incollati allo schermo decine di milioni di persone in tutto il mondo senza praticamente scene di sesso, i cui cosiddetti cliffhanger sono tutti incentrati su crocevie morali, su quesiti chiave della storia della filosofia,  riproposti sotto forma di conflitto tra i personaggi.

Dostoevskij e Camus per le masse.

In Italia, in passato, qualcosa di vagamente simile è successo con Il Segno del Comando che all’inizio degli anni ‘70 faceva 14 milioni di telespettatori, parlando di reincarnazione ed esoterismo, ispirandosi a Byron.

Punto di svolta storico, a livello internazionale, è stato ovviamente Twin Peaks, che si fonda sulla scoperta di una dimensione infernale dietro all’apparente tranquillità rassicurante e ha spalancato infinite possibilità di narrazione, prendendo lo schema classico del giallo e immergendolo in un’inquietante atmosfera occulta.

Guerre Stellari è dichiaratamente ispirato a il concetto di Viaggio dell’Eroe studiato da Joseph Campbell, ed è di fatto costruito su una cosmogonia taoista/eraclitea.

Tutte le grandi narrazioni popolari che dominano l’immaginario collettivo sono figlie di questa conoscenza archetipica.

Pensiamo a saghe come Il Signore degli Anelli, Narnia, ma anche Harry Potter, su ciascuna delle quali si potrebbe scrivere un lungo saggio di riferimenti e citazioni.

Basta leggere quali sono i film che hanno avuto più successo al botteghino di tutti i tempi, Avengers ed Avatar, molto diversi ma uniti da una palese struttura archetipica dei personaggi e della narrazione.

Non credo sia saggio lasciare il monopolio di questa conoscenza profonda della natura umana a chi incarna in questo momento storico le forze della barbarie.

Proprio quelle forze della barbarie che tutte queste narrazioni simboliche ci insegnano a riconoscere e debellare.

L’esperienza (architettonica) sovietica: un passato da reinterpretare?

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Intervista di Giuliano Vivaldi a Owen Hatherley

Owen Hatherley è autore di oltre dieci libri principalmente incentrati su architettura, urbanistica, politica e cultura. Ha esaminato l’architettura britannica degli ultimi anni in libri come A Guide to the New Ruins of Great Britain (2010), A New Kind of Bleak (2012) ma ha anche concentrato la sua attenzione sull’esperienza architettonica e urbanistica sovietica e post-sovietica, cui ha dedicato Landscapes of Communism (2015) e The Adventures of Owen Hatherley in the Post-Soviet Space (2018). Il suo Trans-Europe Express (Einaudi 2019) esplora varie città europee con un mix di diario di viaggio e indagine approfondita della città europea in confronto con la città britannica. Ha scritto per molte riviste e giornali su temi architettonici, culturali e politici ed è stato molto legato a intellettuali come Mark Fisher, Nina Power e altri che hanno collaborato con la casa editrice Zero Books e poi con Repeater Books. La nostra conversazione è stata principalmente un tentativo di discutere la storia sovietica, l’eredità sovietica e la realtà post-sovietica facendo riferimento ai suoi libri Landscapes of Communism e The Adventures of Owen Hatherley in the Post-Soviet Space.

 

Il tuo libro Landscapes of Communism rappresenta un efficace cambiamento rispetto alla solita maniera di rapportarsi all’esperienza sovietica da parte della sinistra britannica, e lo fa introducendo prima la storia dei tuoi nonni comunisti e immaginando come si sarebbero adattati alla realtà sovietica, guardando cioè l’esperienza vissuta dell’Unione Sovietica da un’altra prospettiva invece di analizzare se lo stato sovietico fosse uno “stato operaio degenerato” o una forma di “capitalismo di stato” ecc., com’era consueto nella sinistra inglese.

Non ho mai trovato queste etichette perspicaci. Non volevo fare il tipico gioco di un giornalista proveniente da una famiglia di tradizioni comuniste che denuncia i peccati dei suoi padri e nonni (un fenomeno abbastanza comune in Gran Bretagna, un esempio eclatante è David Aaronovitch): ciò significherebbe ignorare quello che il comunismo occidentale effettivamente è stato. In Gran Bretagna i comunisti avevano un rispetto religioso per la cultura. Lo scrittore Raphael Samuel descrive perfettamente questa comunità comunista britannica con le sue gite, l’alimentazione pesante, la passione per le cattedrali e il nord dell’Inghilterra, e la versione del socialismo alla William Morris. Volevano davvero rovesciare il capitalismo ed erano coscienti di far parte di un movimento globale. Certamente, il sistema che difendevano era molto diverso, così mi sono chiesto quali aspetti avrebbero approvato, e quali avrebbero considerato una aberrazione. Volevo prendere sul serio sia i loro sogni, sia, a confronto, la realtà che si stava producendo nel tentativo di costruire una società comunista. Non avevo alcuna intenzione di partecipare a quei dibattiti a sinistra che volevano dare una risposta alla domanda su come designare il sistema sovietico, dato che sono spesso dibattiti senza senso che cercano di costringere la realtà in definizioni troppo dogmatiche. Se era un capitalismo di stato, come si spiega il fatto che l’Unione Sovietica fosse a malapena inserita nel capitalismo mondiale fino agli anni ’70? A me interessa molto il libro di Lukasz Stanek che prende in seria considerazione l’idea di un sistema globale socialista alternativo dagli anni ’50 agli anni ’80: esso funzionava con il baratto, lo scambio delle materie prime, i doni, e seguendo questa logica di Stanek riesci a capire meglio come funzionava il sistema sovietico. Così, ho deciso di mettere assieme vari aspetti del comunismo sovietico e ricostruirne un modello, con l’esigenza di capire in che termini esso fosse differente dal capitalismo. In alcune cose era diverso, in altre no; per esempio, guardando il settore residenziale (housing sector) delle periferie di Parigi o di Vilnius negli anni ’60, si troverebbero realtà molto simili, mentre nel 1952 non era affatto così, anche se guardavi alle esperienze dei quartieri parigini amministrati dal partito comunista. Non ci deve stupire che le variazioni nel corso del periodo sovietico e le diversità geografiche fossero significative quasi quanto le diversità all’interno del sistema capitalista occidentale. Infatti la ‘storiografia borghese’ non si stupisce di fronte a questi fatti: se uno fosse andato in un dipartimento di slavistica e avesse definito la Polonia degli anni ’80 stalinista gli avrebbero riso in faccia, ma in qualsiasi incontro tra trotskisti nessuno batterebbe ciglio.

La distinzione fatta da Paperny fra Cultura I e Cultura II risulta un modello giusto per parlare di come si svilupparono le cose dagli anni ’20-’30 agli anni ’60?

Be’, la carriera di Paperny si condensa nello straordinario capovolgimento del discorso dominante nel suo primo libro, ma in seguito è riuscito ad aggiungere poco altro. Infatti, il suo libro non spiega quello che viene dopo. È un interessante esperimento mentale che fa un confronto fra il periodo 1917-1932 e il periodo 1932-1956 (e la sua teoria si potrebbe anche leggere alla rovescia nella storia russa), ma, mi domando, si tratta di Cultura I oppure di Cultura II dopo il ’56? Lui scriveva di una combinazione di Cultura I e Cultura II nell’epoca di Brèžnev, ma non puoi avere entrambe, sono totalmente in contraddizione l’una con l’altra. È una prospettiva erronea sull’architettura staliniana, quella di focalizzarsi totalmente su Mosca (ed anche fin ad un certo punto su Leningrado e Kiev). L’architettura staliniana in provincia era completamente riproducibile: è inesatto vedere ogni esempio di Cultura II come una nuova opera d’arte forgiata da un’immaginazione barocca. La teoria di Paperny è semplicemente un grandioso esperimento mentale: se prendi in considerazione architetti le cui carriere hanno attraversato diversi periodi della storia sovietica non ti verrebbe in mente che l’insieme delle loro opere sia stato progettato da uno stesso architetto. Gli architetti reagiscono a delle forze più ampie nel contesto culturale a cui sono costretti ad adattarsi. Non si tratta di un’epoca in cui gli architetti sono autonomi.

Si intravede la fine del Progetto sovietico dopo il ’68? Fino al ’68 tanti dissidenti sovietici guardavano ancora al 1917 come la loro ispirazione e a Praga esisteva lo slogan “Svegliati Lenin, Brèžnev è fuori di testa”, ma dopo Praga si capisce che le cose stanno cambiando.

Nel mio libro Landscapes of Communism scrivo di più a proposito del periodo stalinista che dura una ventina di anni nell’Unione Sovietica, ma solo otto anni nell’Europa dell’Est dove la situazione era molto più intensa perché lì si perseguitavano modernisti autentici, che fino allora progettavano dei meravigliosi edifici modernisti e poi hanno avuto ordine di fare dei Partenoni. Poi cerco di concentrarmi sugli anni dal 1966 al 1989-91 piuttosto che su quelli dal 1917 al 1932. La filosofa e scrittrice Keti Chukhrov si domanda perché i marxisti occidentali sono così fissati con gli anni della NEP in cui i rapporti capitalistici rimangono dominanti, mentre mostrano poco interesse per il periodo dal 1929 al 1991 quando, almeno in teoria, i rapporti capitalistici sono stati completamente aboliti. Certamente, il ’68 screditò il regime presso gli intellettuali. Era normale per un intellettuale polacco prendere il marxismo in seria considerazione ancora nel 1967. Per persone che vivevano fuori dall’URSS, il 1968 significava che non si poteva più immaginare che fosse possibile riformare il sistema, ma per la maggioranza che viveva all’interno del sistema valeva la convinzione che ‘questo è il meglio che ci si può aspettare’. Fuori dalla Polonia solo una minuscola minoranza si organizzò per opporsi. Nella Jugoslavia non c’è mai stata la normalizzazione e gli anni ’60 non sono stati la fine della sua storia. Anche nella Polonia le idee di Solidarnosc erano autenticamente anti-capitaliste, addirittura socialiste. Molte persone uscivano dal partito comunista per entrare in Solidarnosc, e altri ancora erano membri sia del partito comunista che di Solidarnosc. Ovviamente l’architettura è progettata dagli intellettuali ma è fatta dagli operai, ed essa è un modello interessante dato che effettivamente non esisteva un’architettura dissidente (tranne l’architettura su carta di Alexander Brodsky). L’architettura è sempre stata un’emanazione dello Stato, non segue la logica degli eventi del 1956, 1968, 1981, 1988 ecc. La Cecoslovacchia è un esempio perfetto: la sua architettura diventa molto strana nei primi anni ’60, e rimane tale (l’architettura post-68 è straordinaria e la repressione della primavera di Praga non cambia niente in questo). Gli architetti sono sempre vicini allo Stato; quella parte dell’intellighenzia non ha reagito alla caduta dell’Unione Sovietica nella stessa maniera di insegnanti, scrittori, filosofi e poeti. L’URSS era vista positivamente, e l’intellighenzia tecnica ancora credeva nel socialismo reale, nella rivoluzione scientifica e tecnologica, nell’esplorazione dello spazio, in una società più equa, mettendo anche un senso di nazionalismo nel mix. Il sistema che esisteva in realtà metteva insieme la costruzione di culture locali, la rivoluzione scientifica e tecnologica, la produzione di massa e le nazionalizzazioni della terra, e queste cose erano alla base di tutto. Puntare il dito, dicendo “ma a questo insieme di fenomeni si può applicare la legge del valore?”, non insegna niente su come questa società continuava a mantenersi in piedi. Per gli architetti il miglior periodo sono stati gli anni ’70 e ’80, perché avevano sempre più accesso a riviste occidentali e avevano carta bianca per i loro progetti, purché non lavorassero nel settore abitativo. Ricostruirono il paese su scala gigantesca. La maggior parte della gente nell’Unione Sovietica adesso vive negli alloggi costruiti in quell’epoca: mentre il sistema era in apparente declino, costruivano un continente.

Questo punto di vista sembra più vicino a quello di Yurchak.

Yurchak è più pertinente di Paperny. È stata un’epoca conformista e anche consumista –ovviamente dipende dal tipo di consumismo di cui parliamo. Se volevi calzemaglie, Tampax, o beni di consumo europei era un periodo terribile, ma se volevi una casa o una macchina era probabilmente meglio di qualsiasi periodo precedente, o anche successivo. Questa situazione si riflette in quelle commedie sovietiche degli anni ’70 dove la gente è annoiata ma mai povera (tipo le commedie di Eldar Ryazanov); l’angoscia arriva dopo. Non si tratta solo di censura ma di come la gente realmente viveva in quel periodo. Con l’arrivo della crisi petrolifera, la guerra in Afghanistan e le carenze intrinseche del sistema della pianificazione centrale, però la popolazione nuovamente faceva le file per il pane negli anni ’80. Si potrebbero delineare tre fasi del declino: una specie di periodo Kosygin dove c’è più repressione culturale rispetto al periodo di Krusciov, ma che comunque è caratterizzato da una qualche forma di avanzamento; poi c’è il periodo 1968-1982 dove non succede più nulla ma il tenore di vita migliora; e poi ci sono gli ultimi nove anni di collasso economico (Europa dell’Est, o Jugoslavia e Romania, nella loro totale diversità, hanno altre traiettorie). Nel mio libro Landscapes volevo costruire un modello e poi smontarlo pezzo per pezzo per vedere se rimanesse qualcosa.

Uno dei falsi artistici (hoaxes) più interessanti degli anni recenti è la storia della Comune Kollontai inventata dal collettivo ShTAB che, come descrivi in The Adventures of Owen Hatherley in Post-Soviet Space, molti desideravano fosse una cosa reale. Anche se leggendo il libro di Ilya Budraitskis Dissidenti Tra I Dissidenti si trovano degli esempi interessanti non molto diversi da questa storia…

Sì, c’erano queste esperienze. La Polonia, specialmente prima del ’68 abbondava di strani gruppi dissidenti communisti che comprendevano anche maoisti, così anche l’Ungheria. La storia della Comune Kollontai fu un tentativo di scrivere delle eredità del passato nel presente. È interessante come hanno assemblato testi immaginari con autentici disegni architettonici e immagini di Bishkek negli anni ’70 (quando era una città completamente modernista, in contrasto con altre capitali dell’Asia Centrale Sovietica con la loro ‘orientalizzazione fatta da sé’). Così ShTAB ha inventato una comune di sinistra immaginaria, ma ha preso in considerazione aspetti reali del Kyrgyzstan degli anni ’70, mettendo insieme tutto con una fusione di reale e immaginario. Un tentativo di prendere la storia sovietica facendone un passato utilizzabile. Michal Murawski ha detto una cosa molto importante quando, criticando Razem (il partito della nuova sinistra polacca): “perché non evidenziate il programma di edilizia popolare (housing programme), i limitati orari di lavoro, il Palazzo della Cultura e della Scienza, quando cercate di promuovere il socialismo in Polonia? La gente si ricorda ancora di questi vantaggi’’. Un argomento seduttivo: ShTAB vuole prendere frammenti della memoria viventi e farli diventare una parte del comunismo, ma sa anche che il comunismo era un’esperienza con immensi limiti, così sono stati costretti ad inventare qualcosa. Ovviamente quello che loro facevano non era storia, anche se era informato dalla realtà storica. Tornare al passato, e prendere in seria considerazione i suoi progressi è fantastico, ma si deve essere sinceri a proposito di quello che effettivamente esso era. L’URSS non era particolarmente progressista, ed è facile reagire in una maniera reazionaria, alla ‘Blue Labour’ (ala del partito laburista che vuole sposare la tesi di una politica nazionalista con rivendicazioni sociali circoscritte ad una classe operaia ‘tradizionale’, cioè bianca ed eterosessuale), dicendo che è stata una buona esperienza, che anche noi avremmo bisogno del socialismo in un paese solo, di creare nuove frontiere e alzare il ponte levatoio –  questa versione di socialismo mi è completamente aliena. Devi fare qualcos’altro col passato e dire che è stato positivo, ma che si potevano fare cose migliori. Per quanto contraddittorio possa sembrare, è così che vedo il contributo del falso artistico di ShTAB.

Cosa si può dire del passato sovietico nel periodo post-sovietico? È rimasto un qualche approccio di tipo sovietico allo spazio pubblico? Come giudichi, per esempio, l’approccio di Luzhkov e di Sobyanin a Mosca negli ultimi vent’anni?

Questo è un altro tema, riguarda le diverse scansioni temporali di architettura e altre forme artistiche. Francamente, da critico di architettura e da persona interessata alla pianificazione urbanistica (town planning), la Mosca di oggi mi pare chiaramente molto migliorata rispetto a cinque o dieci anni fa. Una cosa che noto nel mio libro The Adventures of Owen Hatherley in Post-Soviet Space è che quando la gente va a Kiev oppure Tbilisi dice “queste città hanno resistito alla terribile dittatura putiniana perché hanno le fabbriche di birra artigianale, le start-up, ed edifici all’europea progettati da architetti europei”. Ma se è quello che cerchi, guarda Mosca più che Tbilisi o Kiev, dove hanno un bilancio terribile. C’è più pianificazione europea a Mosca che in qualsiasi altra capitale post-sovietica fuori dai baltici. Quando dicono che il miglior modo di fare le cose è seguire l’esempio europeo, c’è in voga un mito dagli anni ’80 secondo cui tutto quello che è stato fatto in Europa è stato fatto con la mano invisibile del mercato. Ma la Parigi moderna è nata con Napoleone III che apriva boulevard spianando ogni cosa, facendo immensi affari con la corruzione, lui era un pianificatore armato dalla capacità di distruggere quello che voleva. Quel modello non funziona in città come Kiev o Tbilisi perché il loro capitalismo è estremamente caotico e laissez-faire (con mille interessi in competizione e uno stato enormemente indebolito), lì c’è un elemento di sregolatezza nel sistema pianificatorio. Se tu volessi che la tua città assomigliasse a Parigi o Berlino, faresti come ha fatto Mosca: procederesti con questi progetti alla Strelka sponsorizzati dallo Stato ed esproprieresti decine di migliaia di piccoli imprenditori, e creeresti così questa città fatta di bistrò, eliminando il capitalismo sregolato e informale degli anni ’90. Hanno eliminato tutto questo per creare una specie di combinazione della Mosca stalinista e della Berlino contemporanea. Se il tuo occhio è abituato a Parigi o Berlino, Mosca adesso appare più simile a esse che dieci, dodici anni fa. È interessante dal punto di vista della pianificazione e dell’architettura. Per citare Anna Shevchenko “questa è una buona cosa, ma loro rimangono dei bastardi”, che è un giudizio più ragionato che dire “non è una buona cosa perché è un tentativo di fermare le proteste della generazione Bolotnaya dandogli gelati e piazze pubbliche”. Questo è un esempio classico di come cercare di fare del centro storico, delle periferie e delle vecchie zone industriali aree più piacevoli per accumulare il capitale in un modo più efficace. La gente adopererà il trasporto pubblico, camminerà e vivrà in un settore abitativo ad alta-densità nelle città pubbliche. Il modello New York è stato importato non perché a Mosca ci sia della gente perbene che gestisce le cose, ma perché loro pensano che questo sia il futuro ed è semplicemente meglio in termini di pianificazione urbanistica e sostenibilità. Non possiamo avere illusioni riguardo agli interessi in nome dei quali si opera, ma poi non dobbiamo sempre criticare i cambiamenti dicendo che questo è stato fatto per avvantaggiare lo Stato. C’è anche qualcos’altro da dire. L’architettura e la pianificazione sono per necessità a più alta intensità di capitale e più strettamente legate allo Stato e al mondo degli affari, ma il fatto che ogni comunista sentimentale ami camminare per i boulevard del barone Haussmann ci dice che questi progetti hanno pure una seconda vita.

Per finire, volevo chiedere come è stata esplorata di recente l’architettura sovietica nella fotografia, nella storiografia…

Un effetto positivo del recente interesse è che, sebbene siano stati pubblicati tanti libri da tavolino un po’ dappertutto (stupidaggini tipo ‘maestose rovine sovietiche’), nelle librerie specializzate sull’architettura si trovano lavori molto interessanti. Una generazione più giovane di storici di quei paesi adesso possono far pubblicare le loro indagini perché è di moda. Ma, a dire il vero, trovo questo feticismo delle rovine particolarmente irritante. Vai in questi posti, a trovare queste ‘rovine di una civiltà morta’ e ci trovi un Kentucky Fried Chicken, così in effetti ti trovi in un posto che è effettivamente abitato e ampiamente utilizzato. Quindi, camminare indicando ‘queste rovine di una civiltà morta’ è offensivo. Ho intervistato la storica dell’architettura ucraina Ievgenia Gubkina recentemente. Accompagnava un gruppo di colleghi alla fabbrica dei trattori Sotsgorod a Kharkiv e qualcuno ha gridato dal balcone: ‘Questo non è uno zoo’. Questo è un grande rischio professionale quando ti occupi di storia dell’architettura del ventesimo secolo: e molti di questi libri non cercano di far realmente storia, ma hanno un atteggiamento molto esotizzante e coloniale.

La sgravità, il tutankamino e l’amore disorecchiato: «Il levitatore» di Adrian Bravi

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di Rosanna Morace

Le storie delle mie levitazioni sono iniziate quasi trent’anni fa, in un modo del tutto incidentale. Avevo compiuto da poco quattordici anni ed ero un ragazzo piuttosto gracile, sempre con il mal di testa e il raffreddore addosso. A casa, in particolar mondo mia nonna materna, mi aveva vietato di fare qualunque tipo di esercizio fisico, per via dello streptococco, di cui credo di non aver mai sofferto, salvo un paio di polmoniti e una lontana scarlattina che mi aveva lasciato il torace simile a una fragola. Lei se la prendeva con quei ragazzi della strada che tossivano o starnutivano senza mettersi la mano davanti alla bocca. Diceva che non poteva uscire niente di buono da quei denti pieni di batteri.

Difficile resistere alla tentazione di non iniziare con l’incipit di Il levitatore, l’ultimo romanzo di Adrian Bravi (Quodlibet, 2020). Non tanto per il facile parallelismo tra le paure della nonna per «quei ragazzi della strada che tossivano o starnutivano senza mettersi la mano davanti alla bocca» e l’emergenza Covid che stiamo vivendo (peraltro il libro è uscito appena due giorni dopo il primo caso registrato in Italia), quanto perché – se è vero che i buoni libri si riconoscono dall’incipit –  in questo primo paragrafo c’è già tutto il romanzo, anzi c’è tutto Bravi e il suo stile inconfondibile, con quel misto di leggerezza calviniana, ironia, microscosse ermeneutiche e situazioni kafkiane che sono gli ingredienti di tutti i suoi libri, e che passano attraverso sceltissimi bagliori lessicali o similitudini e metafore mai esibite, anzi decisamente sottotono: lo «streptococco», «il torace simile a una fragola», i «denti pieni di batteri»… e poi lo «sgravitarsi» e il «gravitarsi», lo «sguardo sagittabondo» della donna «disorecchiata», il «ricorrere», il nome «adespota» del protagonista Anteo (perché non c’è nessun Santo che si chiami Anteo e l’onomastico si festeggia nel giorno di Ognissanti).

Questa stravagante ironia lessicale, però, si impianta in situazioni sul crinale tra il normale e il surreale: come il trapezista di Primo dolore di Kafka, anche Anteo Aldobrandini quotidianamente si «sgravita», levita da terra, ma con modestia e parsimonia, perché «a volare sul palcoscenico alla David Copperfield […] sono tutti bravi. A farlo in silenzio e in solitudine, fuori dagli sguardi indiscreti, celando il proprio segreto, è un altro discorso».

Sgravitarsi è vedere le cose da lontano, è sottrarsi al peso di «questa terra maledetta» (i corsivi, disseminati nel romanzo, hanno un effetto comico non indifferente), è «trasognare con la mente», trovare una distanza grazie alla quale «si imparano ad accettare molte cose» e a «catalogare le microidee»; sono «momenti di felicità portatile» attraverso cui Anteo, paradossalmente, si vincola al mondo nel mentre ne fugge, librandosi quei 5 o 10 centimetri che gli servono per staccarsi da terra e dalle proprie ossessioni, o, per meglio dire, dai propri chiodi fissi. Come ha chiarito l’autore, infatti (che Del piantare i chiodi sugli alberi ha scritto un bellissimo racconto), tutti i suoi romanzi (Restituiscimi il cappotto; La pelusa; Il riporto; ma in fondo anche Sud 1982L’inondazione e L’idioma di Cailda Moreira) girano attorno a un chiodo fisso piantato «in punto della vita di un personaggio»:

sono deambulazioni intorno a dei chiodi fissi. Non succedono tante cose ma, come nei labirinti, in una breve porzione di spazio, ci sono molti giri intorno a un centro [….]. Bisogna aggiungere anche che ogni mania, vista da fuori, fa un po’ ridere, no? Ed è questo che mi piace, guardare queste piccole manie a una certa distanza.

Questa distanza fa sì che ogni cosa riveli sempre il suo rovescio, in modalità comico-umoristica. In Adrian Bravi è tutto ancipite, si è sempre sul filo di un equilibrio degli opposti in cui l’uno presuppone l’altro: così, la prima levitazione avviene nel momento in cui Anteo riesce a possedere un elemento fisico, pesante, tangibile del corpo padre, con il quale placa in parte il vuoto che percepisce attorno a sé, il suo sentirsi dimezzato, forse perché è sopravvissuto alla sorella gemella eterozigota, forse perché è sghembo e un po’ inadatto alla vita, come d’altronde tutti i protagonisti di questa storia: lo zio coi vuoti di memoria, che torna indietro nel tempo e confonde le persone; il compagno dell’ex della moglie con il «monociglio tutto cespuglioso sulla fronte»; la donna «disorecchiata» di cui si innamora, che porta ovunque con sé un «corteo» di pappagalli, bassotti, cani e un asino nano, su un furgoncino tutto fiori (e le pagine dedicate agli animali, e soprattutto al rapporto di Anteo con la sua cagnolina Plotina, sono di una delicatezza estrema, come se solo con lei Anteo riuscisse a trovarsi a suo agio e solo lei riuscisse a comprendere). E sghembo, anzi monco, rimane anche il padre, dopo che la motosega gli ha tranciato il dito.

Allora, visto che nessuno se lo calcolava perché erano tutti intorno a mio padre, preoccupati più per la mancanza del dito che per il dito stesso, lo avevo preso, l’avevo avvolto in un fazzoletto e me l’ero portato via. Con quale coraggio avrei potuto lasciarlo lì da solo?

Il dito finisce prima in formalina e poi impagliato da un tassideremista, per divenire un piccolo «tutankamino» che Anteo porta sempre con sé e che si posiziona davanti per sgravitarsi… fino a che qualcosa non lo àncora «alle calamità newtoniane discenditive» della vita, senza che egli riesca più a opporgli la sua consueta «forza salitiva»: è una busta verde, recapitata da un postino un po’ sui generis. Ma non è un avviso Equitalia. È ben peggio: è una busta che apre la questione Ginetta, con la quale la sua ex-moglie gli mette «il piombo ai piedi, come aveva fatto anni addietro il Conte D’Angiò nei confronti di Douceline. Che io, al posto del piombo, avevo il 612 bis e chissà quali altri bis o tris si sarebbero aggiunti a quel 612».

Si entra così in una sorta di Processo kafkiano, con la differenza che Anteo conosce i capi d’accusa ma sa di non averli mai commessi, anzi, sono quanto di più lontano dalla sua natura e dal suo temperamento si possa immaginare. Tuttavia, mentre in Kafka l’atmosfera è plumbea, asfissiante, qui è lieve, ariosa, comica, il surreale vira nel paradossale e svela con umorismo le contraddizioni entro le quali ci rotoliamo ogni giorno. La levità del protagonista è, insomma, il corrispettivo della scrittura e dell’ermeneutica di Bravi, che con una prosa piana, ariosa, ironica, divertente, rivela l’altra faccia della medaglia e nasconde nelle pieghe del testo profondità filosofica e temi profondamente seri: il labirinto della mente umana, gli estenuanti e inutili accartocciamenti giudiziari, la possibilità per l’essere umano di «sgravitarsi e staccarsi da quel pattume di incombenze, certe volte inutili, che ogni volta vogliono tirarti giù».

 

Pandemia: top ten

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Playlist della pandemia ovvero il peggio che ci possa capitare nell’universo della musica contemporanea in dieci semplici passi (non oltre, non di più…)

di

Claudio Loi

 In questi giorni pandemici si passa il tempo a fare cose che non servono a nulla. Almeno apparentemente se si ragiona con lo statuto dell’efficienza a tutti i costi. Perciò ben vengano le facezie, le sottili e inebrianti perdite di tempo, il nulla che si avvolge in sé stesso e ci rimanda a uno stato mentale carico di rimembranze e sorridenti incertezze. Il virus è umanità che si autoflagella, è amore che uccide, un bacio che regala torture. Ci porta a uno stato di irrequietezza e instabilità, riscrive i canoni del vivere, del comunicare, dell’amore. Torneremo a non essere noi stessi? Torneremo ai nostri fasti quotidiani così gravidi di consumo e aperitivi all’alba? Non si sa ancora. Intanto vi propongo una playlist virale tanto inutile quanto bisognosa di terapie intensive.

 

  1. Renato Zero. Contagio. 1982.

Questa canzone di Renato Zero si trova nell’album Via Tagliamento 1965/1970 pubblicato nel 1982 e dedicato al Piper storico locale romano che immagino Renato abbia frequentato. Il testo è perfetto per i nostri giorni e sembra scritto proprio per noi: “Pericolo di contagio, che nessuno esca dalla città, guai a chi s’azzarda a guardare laggiù oltre quel muro, oltre il futuro… L’epidemia che si spande, l’isolamento è un dovere oramai… Dare la mano è vietato, se mai soltanto un dito e l’errore”. Il paziente Zero (cit.) è tanto disinvolto quanto sincero e profondo. Musica non così tanto leggera e dai risvolti imprevedibili.

 

  1. The The. Infected. 1984

Matt Johnson (The The) negli anni Ottanta faceva sfracelli ed era una delle menti più instabili del calderone post punk. Pochi punti di riferimento, nessuna direzione preconcetta, tante influenze da consolidare e approfondire: dal rock più schietto al blues rurale malaticcio e fuori sincrono. Passione smodata per le percussioni e relativi rimandi ai beat dell’africa meno didascalica. Il brano in questione da il titolo al suo secondo album licenziato nel 1986 e l’infezione è relativa ad amori che non lasciano tregua. Una palude di sentimenti da cui non si viene fuori facilmente. Ma è proprio un bacio che ci ucciderà…

 

  1. Front Line Assembly. Virus. 1986

Siamo in Canada in compagnia di un duo che ha lavorato con tenacia sulle possibilità offerte dalla musica elettronica nelle sue varianti più dark (tipo Biohazard per capirci). Una sorta di techno futuribile e polverosa con pochi sprazzi di onesta felicità. Ritmi pesanti e suoni oscuri che lasciano diverse scorie nel nostro organismo. Musica che richiede anticorpi che forse ancora non abbiamo creato.

 

  1. Contaminant PCB. 1993

Industrial music che rispecchia tutte le caratteristiche del genere con evidenti riferimenti ai Clock DVA e ai primi DAF. Un suono metallico e pressante che ci fa pensare alle fabbriche ancora chiuse. Chi ha nostalgia di suoni forti, dai brividi prodotti dalle grandi carpenterie industriali troverà conforto in questi solchi. Musica che crea qualche dissapore, che infesta il nostro organismo, scava caverne nella carne e ci sfinisce. Da ascoltare con le dovute precauzioni e con un controllato distanziamento sociale.

 

  1. Bad Religion. Infected. 1994

Una delle band storiche dell’hardcore punk americano. Nel 1994 sono al massimo delle loro possibilità e la loro musica è sempre piena di pathos, di urgenza comunicativa, dalla voglia di esprimersi senza troppe precauzioni. Il brano in questione è tratto dall’ottavo disco della band americana (Stranger Than Fiction) e si trova anche in formato singolo con la copertina che ci fa capire da che parte andare: una mano con un guanto da chirurgo che tiene un cervello palesemente infetto. “You and me have a disease / You affect me, you infect me / I’m afflicted you’re addicted / You and me, you and me”. Che altro aggiungere?

 

  1. Iron Maiden. Virus. 1996

Lo stupro della mente è un disordine sociale. I cinici, l’indifferenza. dell’essere sempre i migliori”. Il virus secondo gli Iron Maiden degli anni Novanta è qualcosa che ha a che fare con i rapporti umani e con i sistemi sociali contemporanei, un sorta di malattia sociale che intacca e destruttura. Siamo lontani dal fulgore metallico dei primi Maiden ma non manca l’onestà di sempre e la voglia di comunicare disagio, insofferenza, tradimenti. Insomma le solite menate della vita pre Covid-19.

 

  1. Infected. 2001

Barthezz, è lo pseudonimo di Bart Claessen disc jockey e producer olandese di musica trance. Quando uscì questa traccia lei era molto giovane e piena di vita, di esplodere e conquistare il mondo. Poi ha ripreso il suo vero nome e oggi è una delle più stimate producer della scena dance internazionale. Mi piace questo brano per il suo approccio superficiale tanto da essere quasi didascalico. Poche parole, solo suoni digitali creati in vitro con il solo scopo di far muovere i nostri corpi con sonorità che non producono preoccupanti effetti collaterali. Rimane una stolida sensazione di kitsch industriale e di indolente distrazione. Ci può stare.

 

  1. Pandemia. 2007.

Rap di razza dalla penisola italica. Lui è Marco Fiorito meglio conosciuto come Kaos One nome storico della scena rap romana (Cfr. Colle del fomento, DJ Gruff, Neffa). Questa traccia la trovate all’interno dell’album Karma del 2007 e rappresenta il rap dei nostri anni. Rabbia, furore, parole che pesano. “Nel nome del padre del figlio e dello spirito aspetta un momento qua c’è un equivoco quanto di santo in questa croce che è in bilico? darci il veleno e ricattarci con l’antidoto”.

 

  1. Pandemia Sonora. 2016.

Spagnoli di cui so molto poco. Il territorio frequentato è quello dell’elettronica cheap e sfranta, tribal, hard techno, mental e cosette così e i beat incalzano minacciosi come microrganismi che cercano alloggio all’interno dei nostri corpi. Siamo negli anni Zero e avanza minacciosa un’idea di mondo da ristrutturare, da ridefinire. Basta poco e tutto si fermerà. Per quanto tempo non è dato sapere.

 

  1. Andrà tutto bene. 2020.

Qui siamo proprio sul pezzo. Elisa, nobile e delicata cantautoressa triestina, si lancia con apprezzabile tempestività in questi giorni strani, malati, indefinibili. La canzone scivola leggera come polline di primavera in compagnia di Tommaso Paradiso (The Giornalisti). La canzone è stata creata attraverso interazioni social alla giusta distanza: questo richiedono i nostri tempi. Elisa cerca di consolarci e di farci star bene. Per un po’ funziona poi ti affacci alla finestra e qualcosa non torna. Andra tutto bene?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piroclasti

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di Andrea Cassini

Essere con la testa a venticinque chilometri di altitudine, le guance sfregiate da bufere di anidride carbonica ghiacciata ma gli occhi aperti, a sfidare i cristalli di polvere marziana che si conficcano nella sclera e le particelle cosmiche piovute tra le maglie larghe della ionosfera. Avere il corpo inscritto nella circonferenza del vulcano, la caldera che si è stratificata intorno al petto usando il torace come camino, pietre giovani del periodo amazzoniano. Affondare con le gambe nella crosta che è una buccia di basalto, sentire sugli stinchi i moti convettivi che spingono la lava in superficie accanto a fiumi di silicio, e il vento raduna i grani di ossido di ferro in mulinelli color ruggine che, quando si posano, fanno assomigliare Marte a un cimitero di rottami. Poggiare i piedi sul mantello di silicati, distinguere sulla punta degli alluci i tetraedri di ortopirosseno e le serie isomorfe dei granati, avvertire residui di magnetismo che pure fanno vibrare la cartilagine delle caviglie e innescare la fiamma del vulcano. Nimrod è alto quanto mille torri, piantato nel pianeta con testa e braccia che sbocciano dal cratere come un manichino, in cima a un monte tanto alto che l’orizzonte curverebbe prima che l’occhio possa inquadrarne la vetta, ma il gigante ha occhi di statua che non battono mai le palpebre perché Nimrod è un cacciatore d’anime e aspetta dal suo pulpito nella stratosfera il giorno in cui il vento gli porterà notizie. C’è un pianeta morto e un pianeta da costruire.

 

La camera magmatica che avvolge i polpacci comincia a brontolare, il tambureggiare del fuoco riverbera tra pareti di ardesia erette nel periodo noachiano e fa oscillare i peroni e le tibie sulle frequenze di un do. Il suono non si ferma, quando sembra che stia per dissolversi e riecheggiare si assottiglia invece in un fischio e poi si coagula in un ronzio, come un bordone suonato da corde di azoto e carbonio. Il magma ribolle e in ogni bolla ne esplode un’altra e un’altra ancora, si innalzano creste concentriche che s’inseguono e interferiscono e Nimrod pensa allo scalpiccio di zoccoli di animali mai visti o ancora non creati.

In cima al monte, sul petto e le braccia e il volto scoperti, ci sono due venti che tagliano l’aria: uno soffia da est, l’altro da ovest, quando s’incontrano fanno un suono affilato come due lame ma non si toccano, lasciano un corridoio vuoto in cui Nimrod tende lo sguardo e aguzza l’orecchio, perché si spalanca uno spazio limpido che è un periscopio lungo quanto mille fiumi, ma dall’altro lato della lente non vede anime né corpi, né ode lingue che gli vogliano parlare. Se sul pianeta vivono altri esseri, stanno lontani dallo sguardo del gigante e non hanno legna per costruire altari né bestie da offrire in sacrificio. Intanto i due venti si respingono e per evitarsi entrano in un moto circolare che monta in un uragano. Sotto, la terra mugghia di protesta. Tra i piedi di Nimrod si aprono porte sotterranee e il mantello sfiata un respiro roco e incandescente. Dalle spelonche fuggono voci di fantasmi che abitavano un tempo la regione di Tharsis, sepolti sotto i laghi d’acqua acida del periodo esperiano, ma prima che Nimrod possa decifrarle l’uragano le zittisce e stringe le spire, il gigante è nell’occhio calmo del ciclone e sopra la sua testa c’è un fulmine che vola in cerchio come un immenso rapace pronto alla picchiata. Si sente pizzicare le gambe, è la polvere rossa laggiù sul suolo marziano che si alza e galleggia nell’elettricità statica, i banchi di ghiaccio sfrigolano. Nimrod stringe i denti, il fulmine stride e tuba e ronza, ma non si scarica. Si taglia una via di fuga tra le nuvole e si dilegua verso altre montagne; il fulmine ha ripulito il cielo, ora c’è un’aura dorata e netta, c’è il sole che sembra una palla di neve appoggiata sull’orizzonte piatto. Il ghiaccio si spezza con un boato; le porte sotterranee tornano a tacere, sepolte, e con esse si ammutoliscono i sibili antichi.

 

Nimrod ora pensa i propri pensieri. Si amalgamano viscosi nelle camere cavernose del teschio, poi fanno attrito mentre passano tra i ventricoli cerebrali e la scala vestibolare dell’orecchio, e la linfa che scorre nel labirinto membranoso comincia a vibrare sulle frequenze di un sol. Nimrod sente il corpo scuotersi secondo un ritmo pari, una stasi che si risolve nell’allargamento dal centro. I pensieri escono dalle orecchie producendo il suono di un regno che nasce, abbracciano grandiosi le montagne circostanti e ne sbriciolano i picchi in valanghe che rombano e ruggiscono in una sinfonia a cui il vento fa da sipario, vi si proiettano nuovi fulmini che sono sottili come capillari celesti, schizzano trionfanti dalla terra verso il cielo e il cielo, ferito, si apre.

Il vento ora srotola un tappeto scostando e levigando i sassi frantumati e Nimrod immagina di percorrerlo, quel tappeto, i talloni che scavano crateri a ogni passo tra squilli di trombe soffusi da un cuscino di nuvole, i venti le gonfiano come vele maestose, come cornice o corona intorno alla sua testa. Nimrod arriccia il naso; il vento soffia da regioni lontane, sotto gli strati ricchi del suono riconosce l’odore maturo delle valli di Ophir Chasma o dei calanchi aguzzi di Tithonium, e sotto gli umori grondanti di quel suono c’è una voce che canta di musica e di arte e di vita, e c’è una lingua che Nimrod un tempo conosceva e poi ha dimenticato. Non sono solo, pensa Nimrod. Non sono solo. Poi una frizione: il vento trattiene il respiro, la voce si spegne nel timore schivo di essere udita e con essa tace la natura e i pensieri del gigante smettono di risuonare. Resta un gorgoglio cieco di sottofondo, il rumore bianco della gola del vulcano.

 

Nimrod muove lo sguardo a meridione, come il fascio di luce di un faro. C’è un fronte di nuvole bianche che rotolano sopra una prateria sterile. Avanzano morbide e inesorabili. Poi si sfaldano, attraversate da un cilindro di vento che porta con sé una nota calante, uggiolante, che si piega al modo minore e sussurra tiepida di mille morti in un ciclo di mille nascite. A Nimrod ora tremano le spalle, e il vulcano è scosso dai singhiozzi sulle frequenze piane di un mi, è la nota del passato e del rimpianto, ma il passato è una lingua incomprensibile. Il gigante interroga i venti, ritto sul pinnacolo del pianeta, ma su Marte i venti non hanno nome e gli dei non hanno templi e non c’è nessun’anima che voglia parlare con lui. Nel silenzio Nimrod è solo, altissimo ma muto. Il gigante piange una singola lacrima di sale che scioglie un solco nel fianco del vulcano. La nuvola ora gli s’infrange contro, è bagnata e pesante di pioggia mai caduta, è viola, le guglie di roccia acuminate la sfilacciano e piange anch’essa bordate di nebbia gelata. Poi una spina di vento la puntella di lato e la porta via, Nimrod vi ha lasciato intagliata la sua impronta come in un blocco d’argilla. Il nuovo vento ha con sé un latrato ma nessuna voce. Devo dare un nome al vento, pensa Nimrod, per potervi leggere le voci. E se gli esseri organici non parleranno, sussurrerò alle rocce inerti il nome di dio perché possano costruirmi una torre.

 

Nimrod attende. Nella stratosfera la notte non è diversa dal giorno ma è buia e fredda, le due lune sono dischi pallidi, ugole di fantasmi. Il gigante chiude gli occhi e il vento si popola di ululati, di spiriti che soffiano nelle fessure tra i denti e si arrampicano sulla nuca con zampe di lucertola. La terra è un mantice che si gonfia e a ogni sospiro che esala lui si sente più grande e più alto, si issa a catturare i suoni più lontani e ritrova quel canto e quei colpi di tamburo, una tribù che scappa forse dal suo sguardo, chissà quali razze e quali animali, e percorre i terreni caotici di Oxia o addirittura, più in là, le creste ondulate di Abalon. Marte ha un nome per ogni lingua o labirinto o serpentina di sassi morti, pensa Nimrod, ma non per i venti o gli organismi vivi. Non mi serviranno animali vivi e parlanti, decide. Le voci sono indovinelli, il vento è un alito vecchio, mentre la terra intorno ai suoi piedi esplode ora di turgore giovanile: ogni geyser e ogni fumarola e ogni solfatara sprigionano vapore sulle frequenze ascendenti di un la e Nimrod è elevato. Questa terra di sangue e ruggine è così nuova e forte, pensa, che plasmerò creature di materiale piroclastico. Nelle scaglie dello scudo vulcanico si aprono squarci ardenti, saltano i tappi di magma, i lapilli guizzano nelle mille direzioni e il gigante legge i venti e li ammaestra con un bisbiglio assordante per forgiare esseri di pietra. L’animo di lava, solidificandosi, si farà spirito e così nasceranno vite inorganiche con le bocche chiuse e prive di lingua, ma che parleranno un unico idioma modellando i venti con mani e dita. Nimrod ammira la prole di carbonio mentre nel gheriglio di noce del cervello un sibilo lo avverte di un mutamento. La terra ora sfrigola battendo in tempi dispari, il vapore che lo spingeva dai piedi a perforare l’esosfera si è arrestato e c’è un calore che gli abbraccia le ginocchia, cupo e grasso, vuole ungerlo e inghiottirlo. Il magma sotto la pelle strilla, vorrebbe eruttare risalendo il camino e proiettandosi dal cratere, Nimrod ha gli occhi protrusi e la fronte pulsante, sono io il vulcano, pensa, sono io la torre, deglutirò questa colonna di fuoco. L’esofago si strappa e il la scende di ottava in ottava fino a un territorio dove le onde sonore vibrano a intervalli di millenni e la sua struttura molecolare muta a ogni tremito, e durante uno di quegli intervalli di silenzio, Nimrod osserva con occhi gonfi di gioia e di pianto le creature piroclastiche popolare la terra rossa di forme mai viste: hanno aperto le bocche di pietra per cantare le lodi di dio.

Le convivenze elementari

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di David Watkins

 

Opera grafica di Andrea Balietti

 

 

Sorvolano sulle faccende, lasciano fare, con quella specie di tatto e discrezione che li contraddistingue da sempre. Persino la lagnanza, in loro, si è come rischiarata via la pesantezza materica dei giorni. Le bollette, la pentola incrostata dentro il lavandino, la spazzatura ancora da buttare: mai sentito uno che aprisse bocca per così poco.

Hanno buone maniere. Non entrano nelle stanze, scivolano tra le cose. Fanno capolino dal quadernetto su cui prendi appunti, o sbucano nella voce di un passante, nel profumo delle strade. Li stani un po’ dappertutto, ti spostano il sorriso, mentre si iniettano in un clima. Ma poi se ne ritornano al fresco, in camera loro, si appoggiano lì da qualche parte, senza rumore, senza neppure chiudere la porta.

È che lasciano tutto aperto, sempre. Godono di un’integerrima distrazione. Tu parli parli, loro, finta di niente. Non ti resta che parlare come se tu non ci fossi. Alla lunga, finiscono per abituarti a un’altra forma d’ascolto con cui intendere le cose, a sentire come di traverso, senza star lì ad ascoltarsi troppo, quasi lasciando le parole, come una musica in lontananza, come qualcosa che si possa soltanto origliare.

Certo, sono molto più terra terra di quanto noi non si creda, ma agiscono teneramente, nella logica di un occhiolino. È come un cenno, come una volta che tenga assieme la prima e l’ultima, senza essere nessuna delle due. Ecco: la postura con cui tieni il bicchiere adesso, mentre te ne vai con le parole a vanvera tra le cose, quel modo di trattenere il gomito nell’aria, come in un vuoto di scena. Oppure queste gambe che si accavallano al momento giusto, sottolineando il loro stesso movimento, sì, ma senza dare troppo nell’occhio, senza fastidio.

Insomma qualcosa, nell’aria che ti circonda, mette in circolo una loro postura, una movenza qualunque. Ci si scambia di posto, il tempo appena di un’intesa, come in un’amicizia o in una piccola citazione.

Allora ti fa come ridere, questo modo che hanno di rimanerti addosso, li senti ancora ridere se ci pensi, i morti sono inquilini ideali.

Pandemia: Nicola Vacca

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Inventario da una casa in quarantena

di

Nicola Vacca

 

 

 

Radio Londra: Il mio nome è Gesuà sive Salvadori Moisé chiamato Marco

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La faccia nascosta della luna
di

Mirco Salvadori

racconto pubblicato sulla rivista Sud n°69

Giungevano dalla faccia nascosta della luna, non perché lì fossero nati ma più semplicemente perché il buio, l’indistinto, il non esser visti era la condizione fondamentale che permetteva loro di vivere.

Il sudore imperlava la fronte di quel padre forte come una roccia che spingeva sui pedali, mentre il figlio faticava a mantenersi in bilico sul ferro della vecchia bicicletta, prestata loro da un Santo che abitava sul confine tra la faccia nascosta e quella sempre illuminata della luna. Il tragitto era stato lungo e difficoltoso, Zenson di Piave – Venezia andata e ritorno con la bici caricata come fosse un musso, come dicevano da quelle parti. Mercato nero lo chiamavano ma, per chi era abituato a quel colore, chi da tempo aveva imparato a temerlo e, al tempo stesso a nascondersi tra le sue pieghe, il mercato nero era semplice scambio di merce clandestina in cambio della salvezza. In fin dei conti li avevano spinti a trasformarsi pure loro in clandestini nella propria terra in cambio della salvezza.

Senza nissùn Ulisse

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di Fabio Franzin

Vento, fòra, che fa sbàter i balconi.
L’urlo longo de ‘na ‘nbueànzha
che passa, col só cargo de doeór
– fàea ‘rivàr in tenpo, fa che ‘l se
salve – e mì che lèdhe Walcott
intant che el mondo intièro
l’é isoeà, serà in quarantena.

“something still fastens us forever to the poor”
(calcòssa ne liga ‘ncora e par senpre ai poréti)

intant che ‘a desperazhión la ‘é colma,
e scumìnzhia ‘i assalti ai supermercati.

Quant lo ‘véneo dita, come Cassandre
ciapàdhe par seme, che cussì, cussì
sgaìva no’a podhéa pì continuàr?

El vent de stamatina el ne ‘o ricorda.
Basta dise i balconi che sbate, basta
a quei che sbàtoea de un profito che
no’ tièn de conto l’òn, che no’iuta
tuti quei che resta indrìo, che sofre.

Oh Walcott, nostro Omero de isoe,
de pòpoi servi e coeònie sfrutàdhe,
che te ‘à cantà el sudór dei s.ciavi,
‘a miseria de quei desmentegàdhi,
‘e tó paròe bate, toc toc, insieme
a ‘sti balconi che bussa tel fondo
dee nostre àneme straviàdhe,
‘e zhiga insieme ae sirene che canta
l’apocaìsse che ne fa tuti conpagni,
naufraghi persi in mèdho aa borasca
senza nissùn Ulisse a bordo, senza
nissùn scudo ‘ndo ‘scónderse drio,
senza pì nissùn dio che ne ‘scolte.

 
Senza nessun Ulisse

Vento, fuori, che fa sbattere i balconi. / L’urlo lungo di un’ambulanza / che passa, col suo carico di dolore / – falla arrivare in tempo, fa che si / salvi – e io che leggo Walcott / mentre tutto il mondo / è isolato, chiuso in quarantena. // “something still fastens us forever to the poor” / (qualcosa ci lega ancora e per sempre ai poveri) // mentre la disperazione è colma, / e hanno inizio gli assalti ai supermercati. // Quanto lo abbiamo ribadito, come Cassandre / prese per sceme, che così, così / dispari non poteva continuare? // il vento di stamani ce lo rammenta. / Basta dicono le imposte che sbattono, basta / a quelli che cianciano di un profitto che / non tiene conto dell’uomo, che non aiuta / coloro che rimangono indietro, che soffrono. // Oh Walcott, Omero del nostro tempo, di isole, / popoli servi e colonie sfruttate, / che hai cantato il sudore degli schiavi, / la miseria di quelli dimenticati, / le tue parole battono, toc toc, insieme / a queste imposte che bussano nel fondo / delle nostre anime distratte, / urlano assieme alle sirene che cantano / l’apocalisse che ci rende tutti uguali, / naufraghi persi in mezzo alla burrasca, / senza nessun Ulisse a bordo, senza / alcuno scudo cui ripararsi, / senza più nessun dio che ci ascolti.

Rubina Giorgi: in una lontana vicinanza

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[Ospito qui un ritratto che l’artista  Prisco De Vivo ha dedicato alla poesia di Rubina Giorgi, introdotto da un estratto dall’ultimo libro di Giorgi: Vite desideranti.]

 

 

Dire “Modello Amore” è come optare per uno strutturalismo dell’Amore. Si direbbe lo abbia concepito proprio Jakob Böhme. […] Böhme ha pensato e fondato l’Amore come struttura, inserendolo nei movimenti di reciproca generazione innovante e continua delle forme o essenze della Natura. Strutturalismo che rimane compreso e nascosto nel disegno cosmico dell’insieme rotante che cela e svela la vita e le vite come vertigine. (Quando il senso comune esclama: “la vita è una ruota”, lenta-veloce, che ci trascina con sé, ha dunque un’ignara ragione.) Qualcuno potrebbe domandarmi perché non aver chiamato Amore “idea” in senso platonico anzi che “modello”. Risponderei: per non introdurre qualche maggiore complicazione o equivoco in un contesto che ha poco e vuole aver poco di platonico. Come modello, abbiamo appreso dalla duplice Hadewijch e da Böhme che Amore è ineguagliabile, del tutto dissimile da affetti e pensieri convenuti, quindi inattingibile a meno che non muti la disposizione di chi lo ricerca.

[…]

Amore è un dio dissimile. Non possiamo assimilarcelo, lo piegheremmo a noi in modo blasfemo, anche se solo apparente. Dobbiamo piuttosto noi dissimilarci da noi per ascendere a Lui o affondare in Lui (il che è lo stesso). E attingere per noi rassomiglianza alla sua Dissomiglianza – come doni o rapine di forza prodigiosa. Divenire duplici, dissomiglianti/rassomiglianti per semplificazione e spogliamento. Il Dissimile assoluto assume tra gli umani l’aspetto dell’inverosimile. Dovrebbe entrare, più che nelle religioni, nelle letterature mistiche. Si potrebbe dire che Hadewijch seconda perfezioni Hadewijch prima: fa un giro completo tra sé e il Nulla divino. Poi riprende la corsa vertiginosa “in una lontana vicinanza” (Mgd. 17). Nell’inverosimile non manca il raro vivente che cerca, fin da tempi primordiali del mondo, di farsi dissimile. Mosè per esempio. Salomone, pur cadendo. Davide invece, suo figlio, non ci riesce, pur amato dal Dissimile per eminenza. Poi certo Maria di Nazareth, il suo sposo Giuseppe (un dissimile tacente), e suo Figlio Gesù. Terribili, gli umani, tentano invece l’umanizzazione del Dissimile, il suo sacrificio. Il mistico, la mistica tentano la disumanizzazione degli umani restituendo la loro dissomiglianza ai Dissimili. Occorre, in ogni era del tempo, ricreare e riordinare rassomiglianze e dissomiglianze. È una straordinaria avventura, che corre al di sotto e all’ombra di quelle che gli umani amano chiamare “narrazioni” delle loro vite.

 

 

Rubina Giorgi: sacrificio per la parola

 

di Prisco de Vivo

 

L’Angelo Ermetico (omaggio a Rubina Giorgi)

 

Tocca il mio sordo udito, Signore,

abbaglialo

separalo

da me

forse lo fai già

lo stai facendo

mentre io non comprendo.

 

(Invocazioni, 37)

 

Rubina Giorgi è una poetessa che ha a che fare con il silenzio, con la preghiera, con la trasparenza dell’acqua o del vetro, con un senso francescano della parola. Vi sono alcuni versi di Majakovskij in Flauto di Vertebre che dicono:

 

         Guardate

         sulla carta sono crocifisso

         coi chiodi delle parole.

 

Mi hanno fatto pensare a Rubina in atto di attraversare in pieno questa condizione:  crocifissa sulla carta con le parole.

Ombra di luce e Invocazioni sono i due suoi libri che mi hanno spinto a meditare e a scrivere sulla sua poesia. Sono testi che vanno attraversati con la giusta lentezza, per coglierne il senso interrogativo più profondo, quel desiderio di essere altro, l’immateriale, una spuma di rugiada che si scioglie sulla terra o una polvere divina disseminata dal cielo.

È il desiderio dell’Invisibile, che è al tempo stesso desiderio di un canto d’amore che riecheggia la vita, ma che non si arrende dinanzi alla coscienza della sua finitudine, la quale è pur sempre un miracolo, che ondeggia tra luci, ombre e buio completo.

Lo sguardo di Rubina Giorgi è rivolto dunque alla grazia di quell’Invisibile che non si può possedere, e cerca di rapirne barlumi e scintille tra le cadute arrancate dell’animo umano.

Noi, avvolti nella scarsa luce o nelle tenebre della quotidianità,  ci domandiamo con Rubina:

Cosa diventa nell’Invisibile

La Luce?

E posso io divenire almeno

         Tenebra fortunosa, deviata, tenebra,

         tenebra che vede?

                                                               (Invocazioni)

Se penso a Ombra di luce, vi trovo umane assolute bellezze, che tuttavia preparano a un cammino di sacrificio.

 

         Insieme,

         in stretta comunione

ai tuoi molti errori,

         la tua verità, il tuo semidivino seme.

Invocazioni accoglie l’implorazione di un’umanità che cerca più che una salvezza individuale e collettiva un rinnovato contatto con la propria radice divina obliata (Ancora una volta / mi arrendo a Te, Signore).

Nella poesia di Rubina Giorgi ravviso una trasparenza della visione e una rinuncia monastica agli ornamenti non necessari; al contrario, la capacità di affrontare impedimenti e smarrimenti umani è bella ricca, rigogliosa.

Riguardo alla trasparenza, questa si può evincere dalla perfezione minimale del dettato poetico, che mi sembra riportare all’enigmatica e vertiginosa poesia di Emily Dickinson. Inoltre, le atmosfere estatiche delle sue visioni mi fanno pensare ai monocromi blu e rosa di Ives Klein, che come Rubina aspirava a materializzare l’invisibile.