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Il romanzo della pluralità

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di Monica Pezzella

Proprio di recente un’inchiesta di Vanni Santoni per L’Indiscreto ha affrontato un quesito che divide da anni i critici letterari: è possibile scrivere oggi un romanzo dei nostri tempi e del nostro Paese che, al pari del grande romanzo americano, potrebbe imporsi come “il grande romanzo italiano”?

Leggendo Leonardo Luccone e il suo La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie) mi sono detta che forse eccola qui, una possibile risposta, che si rivela però più enigmatica e trasversale di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Il grande romanzo italiano parrebbe essere in realtà un grande romanzo americano; un romanzo che rompe gli argini dell’italianità tradizionalmente intesa.

A dispetto di una cocciuta resistenza contro le americanate e il traduttorese – avversione ottusa perché non sta al passo coi tempi e non prende atto di una oggettiva contaminazione ostinandosi a scambiarla per copia – l’architettura di La casa mangia le parole si pone al di là e al di sopra della tipicità della letteratura italiana perché supera quello che ne è, più che una caratteristica, un limite – poiché caratteristica etichettabile.

Il romanzo italiano medio – lasciamo fuori i capolavori della letteratura, che in quanto tali godono di unicità – è quasi sempre orgogliosamente piccolo. Piccolo non per le dimensioni, ma per l’inquadratura, la portata della realtà in esso contenuta, per il focus ristretto e lineare, semplice e premuroso di non chiedere al lettore troppo sforzo e pertanto concentrato sul mondo singolare di uno o più personaggi. Una o più persone, ma un mondo singolare, un mondo soltanto.

La storia narrata è quasi sempre una miniatura semplificata delle realtà plurime e caotiche che riempiono di senso il singolo e in cui il singolo è inevitabilmente invischiato.

Prendiamo a esempio il caso più banale: la storia di un uomo. L’inquadratura segue un uomo in campo ristretto, tagliando fuori tutto ciò che non lo riguarda o lo riguarda solo marginalmente, mantenendo la sequenza di immagini il meno inquinata possibile, affinché lui – l’uomo – sia il più a fuoco possibile: non una sbavata sagoma di colori misti, ma un pantone ben definito, un figurino dai contorni ininterrotti di cui tutto ciò che sappiamo lo sappiamo per somministrazione diretta.

Eppure la realtà procede diversamente; o meglio, l’uomo procede diversamente nella realtà. Quell’inquadratura ristretta è un artificio, non esiste e non è autodefinita; essa esiste piuttosto unicamente in relazione e in contrasto con le altre realtà che interseca, e sono proprio queste a definirla nel momento in cui reagisce alla loro intromissione. La definizione di un personaggio o di una storia non è molto diversa da una relazione sentimentale: quest’ultima è tanto più forte e tanto più resiste al tempo quanto più in essa entrano in gioco elementi esterni che la identificano per contrasto e l’alimentano di novità contro la routine. Una relazione che non funziona è una relazione che si è chiusa tra quattro mura e due singolarità. Il romanzo italiano che non può aspirare a essere il grande romanzo italiano è un romanzo incanalato in una narrazione singola.

Luccone sposta, allarga e stringe l’inquadratura nella pluralità.

La farsa di una coppia che finge di stare ancora insieme; un’azienda che entra a pieno titolo tra i protagonisti del romanzo; gli appunti scritti da un italoamericano ambientalista; la pulsazione della città sotto il cielo cangiante e della terra sotto il cemento, che sia quello di Roma o quello di Boston; l’ardita carrellata di vite di ogni singolo membro della suddetta azienda; la riscoperta di un altro tempo mentre si guarda un albero; la dislessia vista dall’interno; la richiesta di un rapporto a tre confessata su un blog; la disanima di un odore del bosco. Non si tratta, no, di coraggiose digressioni. È semmai il coraggio di usare tutto lo sguardo di cui un uomo – in questo caso Leonardo Luccone – dispone per abbracciare e restituire l’idea del fermento del mondo. In una sequenza temporale frammentaria e una lingua che cambia di continuo e resta impeccabile.

Nessuno aveva mai avuto il coraggio di farlo: valicare apertamente, platealmente il confine dell’italianità formato famiglia; nessuno lo fa per timore, certo, di essere tacciato di aver scritto la temuta “americanata”.

Qualcuno lo ha già detto, di Luccone e de La casa mangia le parole: qualcuno lo ha già tacciato di prolissità, formalità, americanità. Ben vengano gli altri che verranno: quelli che non si sono ancora accorti che se un romanzo italiano oggi assomiglia a un romanzo americano è proprio perché – diamo credito alla realtà – l’Italia oggi assomiglia all’America.

Non c’è bisogno di aver visto letto ascoltato e scopiazzato film libri musica in traduzione. Non abbiamo più bisogno di copiare. L’originale da cui copiavamo – se mai abbiamo copiato, perché in arte raramente si copia, più verosimilmente si trae ispirazione – ci appartiene. Si chiama contaminazione.

Qualche anno fa lo stesso Luccone, che ha scritto un grande romanzo, non sarebbe stato d’accordo. Adesso chissà.

Sergio Rotino: si inizia a bruciare la memoria

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Anselm Kiefer 

I

che dire

la casa brucia deve bruciare perché piena di libri simile a un uovo piena fino a scoppiare la donna a seguire brucia dentro
la casa dentro la stanza con i suoi libri a riempire la stanza a riempire le stanze a fare che fare a fare
loro proprietà la stanza a intasarla intera di polvere di fibre del legno di stoffa di stracci diventati scartafacci rilegati di parole
carta incisa di nero pensiero per cui su di lui

Fotografie da Norimberga e dintorni

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Homes in Nurnburg, Germany, ca. 1857

 

di Marco Viscardi

Il cavaliere di Bamberga risale alla metà del Duecento, ma è così medievale che pare un falso ottocentesco. Se fosse un falso, sarebbe kitsch e basta, invece è un cavaliere nel senso più concreto e reale: un giovane uomo a cavallo, nessuna armatura, nessuna retorica di pennacchi e blasoni, ma il silenzio di una tunica che, secondo alcuni, è stata rosso imperiale al tempo in cui le statue erano colorate. In testa non ha elmo ma corona. Anonimo e misterioso, il giovane a cavallo non è un everyman, non rappresenta ognuno, ma la sua individualità si è costruita attraverso una storia smarrita col passare del tempo. Oggi nessuno è in grado di dargli davvero un nome. Grava con tutto il suo peso di pietra su una improbabile mensola nel Duomo di Bamberga. Consapevole della sua importanza, sicuro del suo ruolo, questo uomo a cavallo è entrato in chiesa da un mondo altro e guarda verso l’altare, alla ricerca del Cristo che l’ha folgorato.

Gli altari di queste chiese fanno pensare ai palchi dei cervi, agli alberi che crescono e diventano sempre più robusti, ramificandosi di continuo, geminando, digredendo, aprendosi a nuove possibilità. Il cavaliere, forse la prima scultura equestre in Europa dopo i Greci, non è stanco ma odora di bosco e di strada percorsa; sovverte tutte le distinzioni fra scultura classica e medievale. Ricordo la torsione del collo, la fatica di voltarsi e di restare così, dal Duecento, incurante dei crolli degli imperi e delle fedi, indifferente al passaggio delle generazioni che quotidianamente camminano sotto e lo guardano. Completamente preso dalla sua vocazione, dalla chiamata ricevuta, alla ricerca di un Dio che l’ha scelto e che lui continua a cercare.

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Qui ci vorrebbe un ponte logico, un nesso per dare l’idea di un passaggio che è oppositivo solo in apparenza, ma in realtà è perfettamente consequenziale. Una congiunzione che scardini il rischio di vanitoso spaventare i borghesi, ma che leghi tutto in un legame creaturale. Leghi in un legame. Creaturale. Perché quel cavaliere di pietra rimanda a Dürer, già malato e vecchio a cinquantatré anni, che si fa ricavare un gabinetto, inteso proprio come cesso, abusivo nella grande stanza della cucina – idea oggi discutibile, ma a Napoli ne ho viste di case abitate da fuorisede con lo stesso bagno in cucina, anche senza Dürer.

A Dürer, che aveva una delle più grandi case di Norimberga, veniva difficile salire le scale per liberarsi, alleggerirsi dai pesi del mondo, evacuare nel bagno ufficiale. E lo capisco, a Norimberga, fra birra e salsicce, il corpo ha spesso bisogno di ritrovarsi a suo agio. Nella casa di Dürer, dopo due guerre mondiali, la distruzione degli imperi, l’usura delle cose, di originale resta lo spazio abusivo del gabinetto. La sola cosa che resta com’era e che Dürer ha effettivamente visto, è il vano, letteralmente il vuoto, di questa latrina fuorilegge. E per poco non l’obbligavano a pagarci una tassa, ma poi la città l’ha graziato, per rispetto alla sua grandezza. Questo Dürer che meditava Lutero e non aveva la forza di trattenere gli umori, in balìa di forze, trascendenti e fisiche, maggiori di lui. Così il cavaliere è corpo e anima, visibile nella sua permanenza di pietra e anche Dürer è stato anima e corpo, ma ora è assente, resta il vuoto, una porta scura, di legno, che segna l’ingresso in uno spazio altro, allestito di nascosto, creato dove non dovrebbe essere.

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Altro ponte che non ho, ponte pericolante, in discesa malinconica. La miseria umana sta in relazione agli animali. Non so come i figli cambino la visione delle cose, mi rendo conto di come il mio cane Ulisse cambi il mio approccio verso gli animali e come in ogni bestia, io veda la mia bestia, la riconosca nei modi di muoversi, di guardare, nell’espressione che tutti hanno pur senza avere espressione. In quel loro sguardo che a noi sembra una continua richiesta. Gli animali esistono e basta, forse sono loro l’eternità. Gli animali non sono nel tempo. Due guerre mondiali, imperi caduti, angeli della storia spennati e tristi, per loro non esistono. La miseria umana: gli animali arsi in Australia, le scimmie morte in uno zoo tedesco che ha preso fuoco per i botti di Capodanno. La miseria umana del presepe all’aperto che vedo a Norimberga: con animali, ma senza Cristo, senza bambino. All’aperto, con l’invito a dare una mancia per fare una foto alle bestie da baraccone: capra, asino, lama. L’asino da solo è un piccolo mondo rabbioso, rassegnato e triste, ma c’è anche il cammello. L’essere vivente più imponente che abbia mai visto. (Avrò visto elefanti da piccolo?). I vecchi che ancora ricordano i motti e i modi del dire, ricordano che è definito «nave del deserto», e vederlo fa davvero pensare a una nave. Gigantesco e docile, seduto era una nave ormeggiata, rassegnata. Una nave pensosa, col collo gigantesco. Una nave con gli occhi. Esposto per una tip in cambio di un click.

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I giocattoli, le bambole, sono anche loro fuori dal tempo. La vecchia delle bambole è anche lei fuori dal tempo, imperi, guerre e tutte quelle cose lì, le conosce ma credo le interessino. Il suo tempo non è epico, non esiste un passato assoluto separato da un presente ingrato: per lei tutto è continuità e forse compresenza. Il suo negozio è in un palazzo che ha cinquecento anni, come la scala in legno che ci fa vedere, ricavata da un solo albero. Delle migliaia di pezzi che ha in negozio conosce le origini, le provenienze, le date, almeno il decennio di appartenenza. Non è detto che quello che dice sia vero dal punto di vista delle cronache e dei calendari, ma è vero in quello spazio. Poi io di questa vecchina dall’età indefinita (sessanta mal portati? Quasi cento ben tenuti?), mi fido, mi fido delle sue cronache e dei suoi almanacchi, è una memoria delle cose, delle cose che vanno e vengono e non si possono trattenere; niente si può trattenere.

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Nel tempo viveva il signore che emozionato mi ha fatto vedere una sua foto di cinquant’anni prima nella stessa panca, un po’ lubrica, dove eravamo seduti nella antica birreria del mercato dei maiali. Per la prima volta dopo cinquant’anni è tornato in quel posto e ricordava tutto. La foto era piccola, la lucidità del nero aveva invaso le cose. Si vedeva appena l’argento – forse il ferro – delle stoviglie sulla mensola. Il formato di quella foto era lo stesso di quelle di mio padre quando era soldato di leva. Ma lì i colori sono rimasti. Per cinquant’anni, una vita, famiglia, figli, in cui c’era anche il ricordo di quel posto che poi il secondo giorno del nuovo anno, del quasi nuovo decennio, ha finalmente rivisto. Nel tempo viveva la signora triste, col cane Holly ‘she is a old english Bulldog, she’s old but charming’ nel suo inglese metallico, nel suo inglese tedesco di signora un po’ sola, che beve tre bicchieri di bianco e un po’ oscilla per tornare a casa. Ma per fortuna ha Holly, an old but charming dog, che la protegge sul suo cammino.

 

Su “La solitudine del critico” di Giulio Ferroni

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di Massimiliano Manganelli

Quasi certamente non era nelle intenzioni di Giulio Ferroni scrivere e pubblicare un manifesto, cui peraltro La solitudine del critico (edito da Salerno) nemmeno lontanamente somiglia. Eppure, come in ogni manifesto che si rispetti, non mancano le parole d’ordine, anzi sarebbe meglio dire la parola d’ordine, per di più proclamata nel sottotitolo: resistere. E in copertina quel verbo è scritto in rosso, mentre le due parole che lo precedono – leggere e riflettere – sono scritte in nero. Ma resistere a cosa? Se si vuole estrarre da questo pamphlet un altro termine ricorrente, che stavolta non è una parola d’ordine, lo si può facilmente individuare in costipazione. Certo, il vocabolo richiama il lessico medico e in fondo è giusto, perché questo piccolo libro può essere letto soprattutto come una diagnosi.

Al merceto di Cermenate

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di Pino Tripodi

 il mercato è un merceto. a cermenate il merceto è un mercato scarsamente  italico. ci sono meno italioti che a marrakesh sia tra i mercenti ma anche tra i marcanti compratori di frutti e verdure spilli e mutande calze e giacconi a riparare il freddo da questo caldo incombente e novembrino. non fa ancora freddo né lo farà ma lo dovrebbe fare e allora i poveri si apprestano ad attenderlo anche se non arriverà più. i poveri non comprano quello che non hanno, comprano quello che possono. comprano con gli occhi tumefatti da quelle mercenzie che esondano in bel vedere dalle loro capienze. vorrebbero comprare 6 banane, ma ne comprano due, una per il marito che forse sta lavorando e l’altra per il figlio maschio che prima o poi speriamo molto prima andrà a lavorare. i poveri vedono tutto, hanno famelico sguardo, ma ritrosia nell’acquistare. gli occhi marciano avanti, le mani stazionano bloccate in retroguardia, frenano quegli occhi spavaldi e gonfi dal desiderio rappreso d’acquistare a volontà. è triste il volere senz’alcuna possibilità d’acquistare. il volere senza possibilità d’acquisto è l’unico potere che manca tanto ai diseredati.

i poveri aspettano il mercoledì per uscire dalle galere. i poveri che sciamano al merceto il mercoledì non si vedono il lunedì o il martedì o giovedì venerdì sabato e domenica. non si vedono mai negli altri giorni perché i poveri non sono maschi. i maschi hanno licenza di vedersi. i poveri del merceto cermenatesco sono donne. l’unico maschio che si vede con affanno gironzolare tra le bancarelle del merceto è povero anche lui, ma  non è della medesima povertà. è un vecchietto che fruga nella sua testa cercando di capire se in quel merceto sia ormai vietato agli italioti poveri e anziani come lui qualcosa comprare. non è vietato, no, ma è come se lo fosse perché non ci sono altri italioti vicino a lui. gli italioti mercantano altrove dove la puzza della fame si vede di meno. la puzza della fame si sa è più indigesta del lardo fritto nella sugna, ma se per miracolo non si vede diviene più digeribile del brodo di zucchine tenerine.

dice il vecchietto italiota qui ci sono solo donne di marrakesh che non sa bene dove si trova sa soltanto che sono donne arabe di qualche paese forse l’egitto il marocco la tunisia no l’eritrea che conosce meglio per vicende italiote d’altri tempi. sa soltanto che ci sono solo donne scappate su licenza maritale dalla prigione familiare che si accalcano presso le bancarelle. sono scappate su licenza per un’ora dice. un’ora d’aria alla settimana neanche al 41 bis trattano così i reclusi. loro sono recluse peggio che nel 41 bis. lo dice e lo dice forte con la raucedine che scoppia nella gola. sciamano per un’ora, tonde e grasse mostrando solo l’ovale del viso perché il resto è femmina e non si deve vedere. è peccato. è peccato mostrare i capelli. è peccato uscire per più di un’ora alla settimana per fare la spesa grossa. è peccato non sfasciarsi il corpo che pesa sulle gambe più di tutta quella mercenzia stipata sui furgoni dalle ruote sgonfie. il vecchio povero e italiota dice che quelle donne sono arabe, brutte e grasse. vestite con quei copertoni a deprimere ogni forma, capaci di ammosciare ogni anelito di desiderio nel maschio che non sia il marito. invece il marito è contento che la moglie sia così sfasciata e grassa e brutta e povera e carcerata. è l’unica assicurazione contro la malvagità del male che la porta a desiderare, che è capace di rendere meretrice anche la più fedele a muhammad. la gelosia atavica e ancestrale dice le rende così recluse e non c’è nessuna legge in grado di liberarle. ci vorrebbe qualcuno povero dice con una cesoia che si mette a tagliare quelle orrende vesti. e allora pensa che quel qualcuno potrebbe essere proprio lui. lo  pensa e diventa meno triste. non ce l’ha più con le arabe che rovinano la piazza dell’una volta suo merceto cermenatesco. adesso sa cosa fare. compra con i pochi spiccioli che trova nel taschino dei pantaloni di velluto liso un paio di lunghe forbici di metallo. compra e comincia a tagliare le vesti delle recluse che urlano, urlano, si dimenano ma non tentano di bloccarlo. ha trovato le energie per tagliare tutte le vesti che trova. gliele taglia e gliele strappa da dosso, poi si mette a tagliare quelle delle bancarelle che vendono quelle orribili vesti. gli arabi che vendono se la ridono. le arabe che comprano imprecano contro il tagliatore e inseguono la tagliatrice. la tagliatrice è una ragazza appena svelata apparsa all’affrontata all’improvviso accanto all’italiota. la tagliatrice agita con forza le forbici. io non vi taglio le vesti urla. vi sforbicio l’anima. sentitela la vostra anima tagliata dalle mie forbici. ssciack. ssciack. il vecchio maschio italiota vi  taglia le vesti. io vi taglio l’anima.

le arabe dall’anima sforbiciata del merceto cermenatesco sono adesso tutte svestite e smutandate. senza indumenti si sentono strappate da ogni verità,  nude in un mondo sconosciuto. rimangono vestite solo di velo a coprire i capelli. i capelli loro sì che si salvano dalla vergogna. il resto affonda nella melma liberatoria della civiltà italiota mentre la tagliatrice, araba anche lei, viene rinchiusa per mezzo di un tso in un ospedale da cui dopotutto potrà respirare più dell’ora d’aria consentita alle sue sorelle. il tagliatore dall’animo acquietato non si sente più solo, rinchiuso nell’ospedale psichiatrico accanto alla giovane sorella apparsa all’improvviso all’affrontata dopo tre giorni, tre secoli, tre mille anni in cui tutti la davano per morta per sempre.

 

 

 

circolare circolare

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di Antonio Iannone

gocitati dalla folla. chi avrà faticato abbastanza (perché c’è lavoro e lavoro) sopravvivrà nella tradizione: i pigri e i deboli diverranno la portata principale del banchetto di Chronos. ancora le ruote batteranno chilometri d’asfalto, deborderà il corpo oltre la cabina: un paio di brande, pochi metri quadri di frigo incastonato in una crepa all’ombra del cambio, il profilo di un passeggero, di fianco, a chiacchierare – bisognerebbe essere in due, sostare per scambiarsi di posto e mescolarsi nell’illusione del gioco, pur quando si dorme: mai il vento o la pioggia o il cielo sono stati così vicini. la parodia di un soffitto: che accade, sotto? sotto-sotto: sotto la terra, dove riposano i padri di tutti. il volante ripiegato in insegna di riposo, la marcia disinnescata: persino il passeggero sonnecchia dalla solita regione d’esistenza: minuta, certo: eppure qualcuno giurerebbe di aver sentito russare. il dialogo non viene che nell’accidente di una voce dall’abitacolo: strada chiusa, dice – oppure, tamponamento: nient’altro; solita compassione. preferisce il silenzio: soffia un gorgoglìo. persino il gusto della noia bisogna strappare, il disturbo di un grattacapo – faticare senza preoccupazioni: la strada, soltanto la strada. non che costringa, segnala-ostenta l’esistenza dritta, le curve della Legge, le scorciatoie persino: i più abili si affidano alla memoria, almeno: magari confondersi, condursi su una cattiva strada: memoria da leone, dice. non che del leone sia la virtù più evocata, ma tutto quanto è del leone (brutalità, astuzia, volizione, persino la criniera resa lucente dall’aurora) dev’essere eccellente – maschio, lui: ruggisce alle femmine, procaccia la selvaggina, difende il branco; starci, nella giungla: altro che la strada. a posta di tanto in tanto tirerebbe il volante a destra, insinuando il guardrail, tanto per saggiare la facoltà di sgrovigliarsi da un cumulo di lamiere: lo ammonisce una piccola calamita di fronte: la moglie che tiene in braccio il figlio, una preghiera: non correre, pensa a noi. per voi corro, pensa; e svolta.

metà per il cuore, metà per il fegato, un quarto contro il colesterolo (polistirolodice: ma scherza); un’intera razione in granuli per tutti gli altri mali (mal di testa, mal di schiena, etc.), ma a stomaco pieno, altrimenti una contro il reflusso; anche solo dieci anni prima… incombe ormai l’età adulta: non conosce altra stagione se non quella rigogliosa dell’adolescenza; era allora nient’altro che aneddoto, fugace rivelazione di un quotidiano senza prologo né epilogo, il sonno congedava il grumo di avvenimenti di cui il giorno era stato investito: le discussioni oziose sul bagagliaio dell’auto, una ragazza dalle gambe in bellavista, la mano ai fratelli per lo scarico merci, le coccole femminee e sororali; poi il sonno. a passeggio per i vicoli, le straducole, gli archi di mattoni, sempre a casa si tornava; pareva fatta apposta la città per radicarvisi; incidente, dice la voce, comprì, risponde reggendo col pollice l’illusione dell’alterità. dello scontro non scorge che il profilo di un coagulo, pare che un camion abbia insinuato l’abitacolo di un’auto: sul manto della strada, lievi chiaroscuri; l’ambulanza divora i corpi, esibisce la sirena, scompare: dal loggione con vetro lo spettatore sostituisce il proprio volto a quello di uno dei disgraziati; il telo lo acceca: non è vero che il buio somiglia al nulla, da vivo potrebbe sfiorare il rovescio delle palpebre: è morto, invece; che ne sarà della moglie, del figlio?

meglio a loro…

senso di dio è un flusso circolatorio: del sangue che si diffonde per il corpo permettendo l’esistenza biologica; del turbinio autostradale che trasporta le merci oltrefrontiera: frammenti del vitto, anzitutto; corredo della neo-imprenditoria globale. mai che si possa starsene da soli, senza costrizione della prigionia – facile saccheggiare, assassinare, frodare, soltanto per la quiete della cella, le cure dell’istituzione; c’è pure chi aspira alla follia, propria o dei cari, senza distribuzione del ciclo sonno-veglia (si propende per la seconda), senza le preci che ammoniscono: “non correre, pensa a noi”, il cagnolino in plastica che scuote il musetto al sobbalzare di un dosso, il ritratto del Cristo posato al fondo del palchetto: soltanto altre targhe, si scorgono: distese di targhe fin quando può l’occhio. poi sopraggiunge la miopia. di fianco, superfici di Autogrill nel solido abbaglio della civiltà: si tirano le tende, la marcia, il volante; si dorme.

bussano a notti alterne, ticchettano sulla portiera, con le dita a volte, per non disturbare troppo, in elemosina dell’argià: tendono la mano, si distinguono in chi si contenta di pochi centesimi lasciati cascare da una fenditura, chi invece desidera uno scambio legittimo, una prestazione. bruciano tutti, solleticano: lontano da casa?, dicono – si affacciano accenti sdentati, tu? lontano da casa?, tenendo annodati i muscoli, schiacciano il naso al piccolo vetro dal lato-passeggero (passeggeri: conducenti in attesa) e battono, lontano da casa? lontano da casa? – esibiscono la merce alludendo con la mano inoperosa, l’altra conserva l’equilibrio: schiudono le labbra nella forma del cerchio, stringono le dita e muovono il braccio insieme con la lingua, a formare nella bocca un gonfiore a tempo: pantomima e simulazione dell’osceno. dall’occhio aperto, poiché si vanta di tenerne uno in allerta persino quando dorme, scopre il volto appiccicato alla cabina: è appena un tratteggio, mantiene incastonata nel mezzo del collo la colpa della virilità. una donna l’avrebbe ignorata, un maschio è un affronto. quando raggiunge il suolo per affrontare l’attentato più nessuno disturba l’ordine della notte: una fantasia? un fantasma.

addio sonno.

tra la branda e il soffitto c’è meno di un braccio; gli pare si accorci ogni settimana di un paio di millimetri, quanto basterebbe a schiacciarlo prima di un anno; deve pisciare. si nasconde all’ombra della quinta ruota, licenzia le asole dai bottoni e brandisce il grumo di carne con entrambe le mani; l’urina fluisce tra l’autoarticolato e l’asfalto. lo sorvegliano? gli sembra che un volto erompa dalla notte; se lo scovasse adesso, il mendicante (preferisce assimilarlo alla classe dei mendicanti che a quella delle puttane), mentre l’arma gli si ritrae dalla superficie delle mani…

sovrastare dall’alto il sesso ormai turgido gli restituisce la memoria della giovinezza: quante volte ha scorto quella geometria? nessuna per cui gli riesca l’arte della reminiscenza. Seduto su una poltrona dell’abitacolo lascia colare sulle mani dell’acqua da una bottiglia. il sesso è imprigionato dalla stoffa dei boxer, eppure la sollecitazione affiora; gli pare che i colleghi (concorrenti, li chiamano dall’ufficio) dormano tutti. non una tenda socchiusa, qualcuno a spiare; ha serrato pure le sue. la biografia gli si restituisce nella forma dell’aneddoto: tutto sommato, un’opera lineare.

la figlia di … è distesa sul letto a cosce allargate, esibisce la natura senza imbarazzo, a dire: eccola; lui tiene in mano un pezzo di legno: la figlia di … è ninfomanegli pare. pronuncia il termine con un gusto particolare, un’inclinazione della voce fin troppo compiaciuta, a dire: è ammalata, che possiamo farci, noialtri? ce l’ha nel sangue. non è che un buco, poi. poiché la ricorda nella sola prospettiva dell’osservatore, il viso è sostituito da chissà quale altra reminiscenza: solo il grumo lacera di tanto in tanto la soglia del tempo. il grumo e l’impresa: l’ha raccontata tante di quelle volte, nell’ecolalia di chi ricordi non ne possiede abbastanza da dispensarne senza esserne rapinato, che risale ormai dalla narrazione all’immagine. istante per istante avvicina al buco il rametto sino a ricolmarlo: simulazione del pene, sonda: ci entra giusto-giusto. Lo insinua nel corpo governando il piacere con le mostruosità della Cosa; lo spaventa sostituirlo con il pene: preferisce reiterare la parodia. finché un grido più acuto non è preludio di un afflusso di sangue: allora strappa l’oggetto – è peggio. il boschetto è adesso non già occultamento, ma segnale.

dal mezzo-patria attraversa un paio di corridoi, una rampa; le targhette alle porte segnalano gli impieghi più singolari di un organismo enorme, capace di respiro: se un ufficio si arresta, tutti gli altri soccombono; BOLLE SCARICO MERCI, dice uno, BOLLE CARICO MERCI, un altro, seguono DIRETTORE, RECLAMI, COLLOQUI. la ragazza del secondo ufficio è bruna, di una straordinaria giovinezza, il solito rimpianto di non aver trent’anni di meno – non gli è bastato che l’adolescenza sembra non esserglisi mai esaurita, ma trent’anni di meno…, bellissima, sono l’autista di…, dice il cognome del padrone costringendo in esso l’intera genealogia imprenditoriale, stanno caricando in magazzino, ho portato il documento. l’esordio è pronunciato con la disperazione di chi prova a intervenire su una realtà cui non partecipa: se la ragazza non commetterà errori sarà per non tradire le aspettative dell’uomo che le ha detto: bellissima. sorride appena, batte sulla tastiera, osserva, stampa, domanda una firma, lo congeda.

vuoi campare o vuoi morire?,  il medico si serve di una brutalità sagace, come dire: la vita è tutto; se vuoi morire, continua, continua a fumarti quaranta sigarette al giorno, in un anno al massimo avrai raggiunto il proposito, si compiace dell’arguzia, se vuoi campare, devi smettere non oggi, conclude, ma ieri. due anni prima gli è morto un cugino di tumore allo stomaco, un pezzo d’uomo di un metro e novanta, neppure di fargli visita prima che si spegnesse del tutto se l’è sentita. prima o poi Si muore nell’indifferenza.

l’ultimo dei fratelli, il favorito della sorte: avevano già fatto tutto gli altri, gli fu concessa un’adolescenza tranquilla: il maggiore patisce l’intervento della sclerosi, un altro si dispera per una malattia di cuore; delle femmine conosce poco.

il vino lo abbruttisce; appena la testa gli si posa sul cuscino della branda comincia la ruminazione; la mente che prima gli era riuscito di concentrare sul solo orizzonte della strada sin quasi a lambirlo proietta sul soffitto (sempre più basso) ambizioni di pensiero: brani, nient’altro che brani: propositi, residui di memorie, lampi discorsivi. finché il sonno che viene è un sonno esausto, cattivo. non dirò dei sogni poiché non si può conoscerli, tuttavia qualcuno lo racconta. il padre il padre…, se di giorno lo opprime soltanto negli abiti a lutto con cui si obbliga a ricordarlo, nel sonno si personifica in coscienza: allora parla, valuta, interdice. fa il suo mestiere di padre.

la madre in vent’anni non l’ha mai sognata.

lo accoglie da sveglio lo stesso orizzonte, un accenno di crepuscolo, unica promessa nella fluttuazione: l’orizzonte, come la strada nelle line continue e tratteggiate, nelle strisce pedonali, nei pedoni inaccorti, è stabile; gli sembra a volte di partecipare a quella stabilità; basta che qualcuno gli si affianchi perché il gioco riprenda. la radio trasmette del progetto ONE+, da giorni non si discute d’altro; comunica un paio di incidenti: un’ambulanza ha tamponato un’auto; un autoarticolato, di che azienda? un rumeno ubriaco…, è scivolato fuori dalla strada: nessun morto. non correre, pensa a noi, e accelera. dovunque, musica leggera.

si crede di non raggiungere il traguardo dell’età adulta, poi si comincia a lavorare: prima i cocomeri venduti in cambio di patate, mele, lattuga, infine la strada: per il latte in polvere del figlio. quanto ne beve, l’ingordo; latte di farmacia perché cresca sano e forte, com’è cresciuto lui a carne di cavallo. non gli è più consentita possibilità d’errore, è un padre ormai, deve starsene per strada lucido e sano. con un ago intriso d’inchiostro si era bucherellato l’apice della spalla sinistra sino a raggiungere una forma di cuore tutta storta: senza ragione; diceva soltanto che se l’era fatto in carcere, non era vero.

la strada si dirama, sono stanco, pensa, stanco. sei anni prima il padrone gli aveva detto: scènditene, avrebbe potuto occuparsi delle relazioni con i nuovi assunti: certo nessuno straordinario lo avrebbe mai distinto da un impiegato d’ufficio; la strada gli restituiva nelle privazioni un’ombra di libertà. un lupo solitario, così dice. sta bene, sta bene dice alla moglie al cellulare, sto per fermarmi, adesso mangio qualcosa: sanno parlare solo di cibo, quegli altri. una cassiera gli sorride, avrà neppure vent’anni: trent’anni di meno

PROSEGUE QUI: IL RACCONTO COMPLETO (.PDF)

Sobre Mascarò

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di Marino Magliani

Buena Vista Social: all that jazz

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Questa nuova rubrica è dedicata  alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Il millennial jazz di Nate Chinen

di

Franco Bergoglio

Nate Chinen, La musica del cambiamento. Jazz per il nuovo millennio, prefazione di Ashley Kahn, traduzione di Seba Pezzani, il Saggiatore, Milano 2019.

Dal suo osservatorio privilegiato di New York e dal suo stabile lavoro per il più prestigioso giornale della metropoli, il New York Times, il giovane critico Nate Chinen ha la possibilità di cogliere i germogli del jazz allo stato nascente, “adesso”, analizzandoli con passione e discernimento, come spiega Ashley Kahn nella prefazione. Il suo libro, un testo che mancava nel panorama del jazz, si concentra su quanto è emerso sotto il sole del jazz nel nuovo millennio. Non sarà una visione definitiva, sarà anche solo l’inizio del dibattito, ma come si dice in gergo sportivo Chinen mette a terra la palla e dice la sua, chiudendo il libro con un elenco di 129 album essenziali, dal 2000 al 2018.

L’autore –conscio, come già diceva Thelonious Monk che il jazz “non va da nessuna parte”- disegna comunque delle mappe per interpretare il presente di questa musica, spiegando francamente cosa gli piace e motivando le scelte. Il primo capitolo entra subito nel vivo, proponendo come primo attore del “cambio della guardia” Kamasi Washington, colui che ha proposto per il jazz un immaginario nuovo,capace di riconnettersi, dopo anni, con la comunità afroamericana, proponendo una visione alternativa al jazz come “accademia”. Quando Washington parlava di «immagine scadente del jazz, in realtà stava descrivendo il contrario: una comprensione comune di quella musica come qualcosa di rarefatto e prezioso e persino leggermente noioso. Dai primi anni Ottanta, il jazz era diventato sinonimo di rispettabilità, confacendosi al titolo di «musica classica americana». Una conquista ottenuta grazie a una miscela di fattori con in prima linea il virtuosismo e la capacità manageriale di Wynton Marsalis e dei suoi accoliti, i young lions, pronti a ridefinire il jazz con una serie di schemi fissi, coadiuvati dal documentario di Ken Burns (a cristallizzare la storia ufficiale del genere) e da alcuni critici come Albert Murray e Stanley Crouch. Si tratta di un gruppo compatto di personaggi impegnati a difendere questa nuova ortodossia che in qualche modo hanno sequestrato l’immaginario del jazz per alcuni anni, tagliando le ali estreme, marginalizzando sia le avanguardie sia le ultime propaggini del jazz-rock e delle derive commerciali. Il capitolo Uptown Downtown racconta in termini geografici questa divisione tra neoclassicismo dogmatico e nuova avanguardia. Mentre Marsalis si muove in centro con i grandi finanziamenti del Jazz At Lincoln Center, John Zorn occupa autorevolmente la scena underground della Knitting Factory, un humus dove si formano tanti artisti oggi fondamentali da Dave Douglas a Tim Berne. Nel libro vi sono artisti che guadagnano uno spazio maggiore, con interi capitoli dedicati al loro lavoro: Brad Mehldau, Steve Coleman, Jason Moran, Vijay Iyer, Esperanza Spalding, Mary Halvorson, i Bad Plus e Snarky Puppy. Pochi invece i riferimenti al pantheon del jazz. Chinen parte dal presupposto che molti musicisti si sono formati sull’influenza di loro contemporanei (o quasi) e quindi praticamente il solo Herbie Hancock compare a più riprese, come ponte tra il jazz degli anni Sessanta/Settanta e la scena contemporanea.

Il libro è ricco di suggerimenti di ascolto e di dettagli di prima mano, frutto di molte interviste di Nate Chinen ai diretti interessati. Riporto un aneddoto, pescato nel capitolo dedicato al quartetto di Wayne Shorter, da subito considerato un supergruppo (con Danilo Pérez, John Patitucci, Brian Blade non potrebbe essere diversamente), ma improntato a una sperimentazione rigorosamente “senza rete”, soggetta a cambiare di sera in sera alternando grandiosi concerti a esibizioni fiacche, brani avventurosi e lunghe divagazioni che non riescono a quagliare.

Uno dei primi concerti del quartetto, al Festival di Spoleto, fu accolto da una smaccata penuria di applausi. Scosso da tale reazione Pérez andò a parlarne con Shorter dopo lo spettacolo. «Bé, capitava sempre con Miles» gli rispose il suo capo allegramente. Mi pare un buon segno».

Un altro merito del libro è quello di esplorare i contorni del jazz senza porsi troppe barriere. Impossibile raccontare l’estetica di un certo jazz contemporaneo senza riferirsi alla scena hip hop, con la figura di J Dilla, il trionfo planetario di Kendrick Lamar o quello di D’Angelo. Cambiando versante Chinen racconta successo il del quartetto di Donny McCaslin, “l’ultima band di Bowie”, con il ritorno del jazz rock a New York, propiziato, tra gli altri, da Dave Binney e dagli Undergrond di Chris Potter. Chinen volge anche lo sguardo al jazz “globale” raccontando dei concerti dell’International Jazz Day Unesco, della Thelonious Monk International Competition che mette in mostra talenti da ogni parte del mondo, dei tanti musicisti “freschi” che stanno arrivando dall’America Latina, dalle proposte del Jazz Re: freshed di Londra fino a spingersi verso la scena cinese. Non pervenuta l’Europa, in buona compagnia con l’Africa. Questa assenza è il limite di un autore la cui forza è quella di essere al centro della scena americana e di non poter quindi cogliere con eguale capacità i fermenti del Vecchio Continente o di altre parti del mondo. D’altro canto il riassestamento geopolitico in corso promette sconquassi di non facile lettura e il tutto si riverbera anche nella musica. Chinen ha coraggio nel portare avanti le sue tesi e nel proporre una valutazione rapida e giornalistica di questi venti anni, posando il primo mattone della storia del jazz che si dovrà scrivere nei prossimi anni.

via facebook

Nei giorni ultimi negli ultimi tempi. Matteo Meschiari: Finisterre

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Per la Nino Aragno Editore, nella collana I domani (curata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno), è uscito recentemente Finisterre, poema epico di Matteo Meschiari «composto oralmente e poi trascritto».

Annota Laura Pugno nell’introduzione al volume: «Ragionare, finché dura, sull’Antropocene è il compito che Meschiari si è prefisso in opera, e che pratica anche qui, un “pensare attraverso la terra”, con l’augurio “che il terreno sia complessità della mente”, e che davvero si possa “dire il non detto di ghiaccio”, dove il ghiaccio è rovescio del fuoco del clima, ustione mortale.» 

In Finisterre il poema diventa il lampeggio di terraferma già fratello alla valanga, la conca dove le parole inverdiscono al di fuori dell’uomo. Si scrive, suggerisce l’autore, in quell’ora cruciale che è l’avanzo di ogni esodo, l’ora dove si torce pure la fiaccola: ora del mondo.

 

 «Era il crepuscolo era l’ora del mondo / era l’ora più blu prima che scenda il buio.» 

 

Per gentile concessione dell’editore, ospito qui alcuni estratti dal libro (in anteprima).

 

 

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Nel livido spazio in formazione – tra nevi

nel viola secco dei rami le scarpate di nubi

in alto in basso svuotando le rocce calavano

salivano liberando l’inverno. Qualcosa di

interno

scioglieva a grumi il gelo in rivoli scomposti

dall’alto della montagna verso l’acqua del

fondo.

I sotterranei di foglie macere il gocciolio scarico

di pietre

erano il brivido di sotto di pochissima neve –

neve

forata dall’ineguale spinta vegetale. I contro-

fianchi

del granito e il terriccio in flusso d’alga-

corteccia

il latte sfagliato delle betulle e il seme rappreso

dei rami

tutto e poi tutto nel vapore della nube in

formazione

tra larice e mugo e muschio e felce instabile

intrisa

si sciolse in qualcosa una cosa d’inverno –

lievitando.

La luce insolita passava sulla pellicola del

bacino

bianco solo neve – o quasi. E intanto alla morte

carnale

di un corpo più o meno qualunque seguiva la

morte dell’occhio.

I soli innervati nella memoria le luci che lei sola

vide

vita sostituita dalla prole ma unica a vedere

qualcosa

di banale di irripetuto morivano.

Morivano con il corpo i soli della memoria –

sciupati
in un unico corpo ma accaduti con il corpo e

con la stessa energia

senza piste dei qui degli ora. Passava la luce del

pomeriggio

l’unica che io vedevo sulla pellicola bianca del

bacino

ed era un giorno di neve sui graniti viola in

lenta formazione.

 

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Ma questo veniva dopo. Ancora non morivo.

E nelle conche nelle valli più alte

la neve si accumulò grano dopo grano

e i grani si unirono in ghiaccio.

Un bianco un osso un metallo

incrostava i versanti e lingue tortuose

colavano spostate dal loro peso.

Non era la prima volta del ghiaccio

nello spazio tra i deserti – elitra per solo

granito.

Aveva fecondato la terra di un nuovo

movimento

un presente che avanza nelle valli e le cambia.

Scendeva giù nelle ere senza ossigeno

con nevi di ammoniaca – e scese

nell’età dell’ossigeno con acqua gelata.

Il suo essere da neve – strati impilati

era accedere senza angoscia alle cose.

Lassù non ero più la preda della vita

ma un largo acquietarmi nel bianco

riconoscere nella rete di azzurri

complessità nel cranio parallele di crepacci

movimenti radiali di idee.

E ancor più dello sguardo

era il desiderio di stare di incontrarlo

avanzare nell’incamminabile duro

troppo in là per qualunque biologia.

Deserto – ma anche ampiezza di oceano

per immagine – non a immagine

delle cose. Nemmeno una forma di sapere

un respirare cieco piuttosto

un dover essere evidenza in un mondo che non

chiede.

Né bellezza né cuore – puro essere per.

Era capire qualcosa su di me.

Perché l’indifferenza del ghiaccio

era la non indifferenza per ciò che è

un pensiero inorganico della vita.

Perché mi obbligavo al ghiaccio e trovavo

libertà

mi immergevo lontano dalla vita

ed emergeva l’altro – una specie di volto

partito preso per l’essere per poter essere a.

E poi guardare – ancora – guardare le masse

glaciali

e capire da lì che l’uomo deve ancora venire.

Così guardavo. Con tutte le membra

calmo – senza fuochi da rubare.

 

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Nei giorni ultimi negli ultimi tempi

nei mesi ultimi negli ultimi tempi

negli anni ultimi negli ultimi tempi

nei giorni ultimi quando non c’erano acque

negli ultimi tempi quando l’aria mancava

quando gli oceani erano arcipelaghi di resti

e i temporali rovesciavano tempeste

quando il mare asciugava la terra

e la terra fu allagata in deserto

e il nome dell’uomo si perse

nelle grandi biblioteche dell’aria

quando le guerre disciolsero la sabbia

e le parole si ridussero a dieci

quando il morbo sbiancò gli occhi ai viventi

e le masse si mangiarono tra loro

quando il drago della morte si distese sul

mondo

adagiato su rovine di tesori

su desolazioni di saperi e culture

allora s’incamminò verso l’alba

la solitaria camminatrice notturna

scelse il sentiero a oriente la piccola figlia dei

ricordi

la cercatrice di storie scelse la pista a est

verso le luci silenziose dell’oltretomba.

[…]

Il trattamento della marea – terzo movimento

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Vista dal treno che dal Principato di Monaco porta a Nizza, domenica 28.07

di Chiara De Caprio

[Qui il primo e il secondo movimento]

Movimento di uscita

III

 

 [Sonoro: Phebe Lou, She]

 

Nizza, parco-giochi dell’Esplanade Francis Giordan, mercoledì 24.7. A. e M. entrano ed escono da una figura metallica azzurra

 

(a). 5. [se sia poi un sorriso questo irriflesso incresparsi]

 

pure, qualcosa la trattiene. Riconnette la fonicità del suo nome ad una comprensibile sintassi. L’aria calda è smossa dal vento di un treno che attraversa la stazione lungo il suo binario; ma è solo un attimo: ora è già un punto in fondo al nero. Abbandona la panchina e il tabellone luminoso senza destinazione; richiude la porta e risale la scala

risale. Risale per gli sforzi di quella creatura che, dentro di lei, è in corsa lungo una traiettoria: come l’onda che colpisce e poi si ritrae; risale grazie a quell’altro sé stesso, piccolo e fisso, che si muove, ma pure resta lì: fermo e immobile come uno scoglio. Onda e scoglio, fissamente intenti a perimetrare la strada lungo cui ci si scioglie come sagome di cera: Prima della calma piatta, della bonaccia da cui non si ritorna, lungo quale rotta credi si debba attendere?

ripensa. Ripensa, ora, alla spooky action at distance. Se esistesse fra gli esseri umani, entrerebbe questo nell’azione a distanza: le sospensioni involontarie e gli arresti, gli strappi e le accelerazioni impreviste, il contorno dei toni e i benevoli naufragi nel riso, le fenditure. Qualcosa che non ha dizione, ma una sua propria paziente ricomposizione per tratti, contorni e gentile evocazione: come se una costellazione di materia tacita e densa si riaccendesse progressivamente, corpo stellare dopo corpo stellare, corpuscolo dopo corpuscolo 

si sposta. La trafittura è solo un serrarsi più deciso al manico della borsa, lo scatto con cui procede per raggiungere la carrozza, schivando il vuoto. Avanzare per calcolate approssimazioni e tentativi istintivi; è sempre un terreno che si perlustra, è sempre un guado, o un muro: che si salta spostandoli oltre e avanti, il tempo e il confine. Yes, then she caught a hole in the fence and she ran

and she ran (ma è sempre un terreno che si perlustra, si perlustra, un terreno che)

 

Vista dal treno che dal Principato di Monaco porta a Nizza, domenica 28.07

  

(b). 5 [fissamente intenti a perimetrare]

 

Entrano nel mio orizzonte visivo mentre procediamo lungo il tratto finale della Promenade du Paillon, quando la luce si tinge di rosa e viola. Sono in alto e immobili; sembrano fare della loro stasi un principio di forza e consistenza; è il colore, invece, a essere soggetto a cambiamento: tonalità di verde, rosa, blu, e viola si rincorrono ad intervalli regolari.

Li osservo, e mi domando in che modo possano suggerire una conversazione; e come si dia lo spazio flessuoso del dialogo in quell’immobilità delle posture, gli uni con le spalle e la nuca rivolte agli altri, le braccia lungo il busto o in avanti a stringere le ginocchia: come un raccogliersi e fare perno su un punto che salda il baricentro interno delle sagome al suolo. Saldi perché immobili, e silenziosi. Mi chiedo se, quasi invisibili, di tanto in tanto, scendano poi dai loro spazi aerei: e quali possano essere i modi del loro spostamento, l’articolazione possibile per i loro suoni. Immagino, per quelle luminescenti cortecce di materiali trasparenti, lievi i passi, flebili le parole.

Torno a fissarli, quasi in una diversa vicinanza. Sopraggiunge un pensiero: la stasi che io attribuisco loro è forse contradetta dal cambiamento di colore che li attraversa. Provo a modificare il mio stesso parametro di riferimento e a considerare più attentamente gli effetti del mutamento di colore. Verifico così che sono soggetti a modifiche intermittenti, ma progressive e inarrestabili. La postura fissa – ora concepisco questa ipotesi – coincide, allora, con la possibilità stessa del loro consistere: quasi l’argine di cui si dotano per sottrarre calore e luce alla minaccia della dispersione, per rendere visibile, pertinente e distintiva la successione del verde, del viola e del blu, del rosa.

Mi ricordo di quando, nell’allarmato silenzio di viaggi in auto, nel mio stretto sedile posteriore, opposto a quello di mio padre, mi figuravo che le prime stelle della sera mi stessero scortando, come astronavi in viaggio fra galassie: e che, infine, creature aliene si sarebbero sottratte, per un istante, alla loro regale invisibilità per donare la fiammella di un’inestinguibile luce grigio-verde a un’articolazione sensibile e ragionativa che sulla terra chiamano giovane vita umana. Immagino vi siano, sparsi nella città di Nizza, bambini che quegli stiliti colorati li hanno visti scendere dai loro sedili e, di tanto in tanto, vegliare sui loro sonni.

La sera è calata, e le luci artificiali si fanno troppo intense per i miei occhi chiari: come un lampo che mi riporta fra auto e pedoni, sgombra la mente dalle intermittenze delle creature aliene e dei bambini. Nell’allontanarmi da Place Massena, la danza dei colori mi appare come un inventario di suoni, pattern e significati che ancora non ho appreso. Mi volto verso una vettura e il suo finestrino: definisco sorriso questo irriflesso incresparsi delle mie labbra verso il basso.

 

Nizza, Place Masséna, martedì 23.07. Persone in procinto di attraversare la strada; alle loro spalle le sagome dell’installazione di Jaume Plensa dal titolo Conversation à Nice

 

b. 6. [presumerebbe di conoscere]

I musei di Nizza ci avvolgono con la loro densità silenziosa. Con A., M., e L.E., in un primo pomeriggio di allerta per il caldo, ci rifugiamo fra le braccia della storia naturale: un addetto gentile e dalle spiegazioni minuziose ci lascia il passo nell’unica sala di cui è composto il museo. Sentiamo lo scricchiolio dei nostri passi sul legno, e l’odore denso e umido della stanza. Questa restrizione relativa all’estensione dello spazio da percorrere lascia che la nostra attenzione si distenda in tutta la sua concentrata profondità: provo a memorizzare i nomi delle specie, leggo le proprietà delle rocce del suolo delle Alpi, mentre le bambine, assorte e pazienti, riempiono i loro taccuini di schizzi di animali e forme di specie vegetali.

“Sono finti o sono morti?” domanda L.E. “Sono stati vivi”, le risponde M.; e mi chiede a che cosa siano servite le ali lunghe ad alcuni, i denti aguzzi e le scaglie ad altri e altri ancora: il nesso intimo fra la forma e la sua funzione come residuo di bellezza, come nodo che oltrepassa lo sgomento. Giro per un’ultima volta nella sala, scribacchiando anche io nomi in latino e in francese. Nel riflesso che produco sull’ultima teca, non scorgo la denominazione della mia specie; mi domando se sia già estinta, e se io abbia usato le forme per le appropriate funzioni: se vi siano ali o code o altri organi che abbia dimenticato di possedere.

Desideriamo visitare i musei di Matisse e Chagall. Raggiungerli, nella calura delle ore della tarda mattinata, attraverso la città e le sue colline, ci cosparge di sudore e impazienza. Ma ci accolgono spazi vasti e luminosissimi, l’arido della terra e delle foglie accartocciate nei giardini esterni qui e lì intervallato da filari di olivi, o digradante in costruzioni di vetro e pietra bianca. Scendo le scale di Matisse, e poi ancora quelle di Chagall. Si raffreddano le gocce sulla pelle, il silenzio che le sale promanano ne attraversa i pori; con la sola alternanza di luce e ombre, porte e finestre suggeriscono una direzione: in questa quiete che due volte mi si para dinanzi, vorrei cogliere una promessa o il suo lembo estremo.

Nella sala che ospita il Cantico dei Cantici, mi soffermo dinanzi al secondo dipinto della serie. Forse, mi colpisce la dedica a Valentina Brodsky: quel dirla gioia e allegria. Nella tonalità cangiante dei rosa, la figura femminile è salda e fluida ad un tempo: come dotata di una stupefacente qualità della sua massa corporea che le permette di unire la stabile consistenza della sua forma e la massima libertà di distensione dei movimenti.

Si direbbe che dorma su una superficie che la accoglie senza sforzo e che le trasmette impulsi e vibrazioni: come se seguisse a occhi chiusi, istante dopo istante, una direzione che conosce internamente. Come se galleggiasse su acque che non la svegliano, o volasse secondo correnti d’aria che non disturbano: forse perché né troppo calde né troppe fredde, le prime, né troppo deboli né troppo violente, le seconde.

La guardo ancora, e seleziono i singoli dettagli che ne costituiscono la forma. Memorizzo le gambe morbidamente accavallate, con le ginocchia a fare da perno; gli occhi chiusi e le labbra arrese in un sorriso; le braccia disposte lungo due linee simmetriche ed opposte: quasi un abbraccio a sé stessa, che dal pube risale sino alla sommità della testa. Mi sembra di ricevere quella sua alata postura d’abbandono e presenza come un dono inaspettato: come un movimento che non ignora.

Nizza, Muséum d’histoire naturelle de Nice, venerdì 26.07. M. disegna animali, piante e minerali sul suo taccuino

(a). 6. [non ancora colonizzata, ma crudele e inospitale]

 

le operazioni d’imbarco sono terminate. Entra nel metallo dell’aereo come in uno spazio necessario. Il portellone si chiude, l’aeromobile si prepara al decollo sotto una linea lieve di pioggia; rinuncia alla gravità, bussa alla notte. Presto sarà alto sulla città e i dormienti: punto luminoso in movimento, a rischio di caduta

ha già voglia del caffè lungo, dell’ipnotica sequenza di gesti che la separano dalla sua meta. Prende la tazza; ne scruta il fondo e la linea di contatto con la sua mano. Con impazienza e timore, decide che per ora ha finito; muore al giorno: come se la strada fosse già percorsa, come se la pioggia che ora le fa da soglia calmasse l’occhio con la sua propria sorpresa

se uno di quei viaggiatori in volo voltasse lo sguardo nella sua direzione, direbbe prime manifestazioni del rilassamento i suoi movimenti: le gambe che si distendono e incrociano, le dita che scivolano fra le riviste e si muovono fra spazi già fitti di parole, un braccio che risale quasi a cingere la testa, l’altro poi abbandonato in basso. Sorride; perché non ha perso il volo nonostante la folla ai taxi e le file per l’imbarco, perché ha ottenuto il viaggio e l’impegno di scrittura

presumerebbe uno di quei viaggiatori, di conoscere il mistero di vivere nella sua pelle, di saper fronteggiare l’inondazione di giubilo e ispirata catastrofe che la solleva e sprofonda: e la consegna, infine, ad una galassia aliena e interdetta. Non ancora colonizzata, ma crudele e inospitale per altri esseri umani: e soprattutto per sé stessa

è forse tardi, lo sa. Mentre l’ascesa verticale dell’aereo la fende e oltrepassa, chiude gli occhi. Rinuncia alla gravità: come se la pioggia, con la sua propria sorpresa, accecasse lo sguardo; come se la linea che ora la trafigge aprisse ad un’altra dimensione grata e benevola per altri esseri umani (ma non per lei stessa). No, forse non saprebbe dire con certezza se si dà un altro spazio; ma pure riesce a tracciare mentalmente la direzione per un movimento: come di foglie che non ignorano ove si schiuda la porta

per altri esseri umani (ma non per lei stessa): come foglie che non ignorano, che non ignorano

Nizza, Musée National Marc Chagall, parete con il dipinto Cantico dei Cantici II, dedicato a Valentina “Vava” Brodsky Chagall («Vava, ma femme, ma joie, et mon allégresse»), della serie ispirata al Cantico dei Cantici, venerdì 26.07

 

Explicit

0.

Ritorno nel punto finale della Coulée verte, dove il verde cede al grigio della pietra resa lucida dal riflesso del sole sull’acqua. Prima dell’aria fresca e delle gocce che schizzano in molte direzioni, s’imprimono nella pelle i silenzi attoniti che precedono ogni nuovo scroscio, le voci che esplodono quando il getto si fa intenso e pieno; e poi la varietà delle carnagioni degradanti le une nelle altre, le diseguali lunghezze degli abiti, le gambe nude di alcune, il capo velato di altre, il gioco di fogge e colori dei costumi da bagno, ammessi per i soli bambini. Una molteplicità che abbaglia e stupisce, nello splendore caleidoscopico di quanto si offre ai sensi: come una coesistenza possibile.

Non provo a ricomporre immagini e suoni in una serie ordinata, a decrittare le vibrazioni che giungono al corpo; lascio sia solo un flusso ininterrotto che si offre al sensorio, l’esplosione di movimenti e gioia, di allégresse e stupore. Rinuncio a chiamarli indizi, a decodificare i possibili segnali latenti di crisi.

Sopraggiunge la domanda di due voci squillanti e imperiose: loro pure chiedono, quasi vogliono che io sappia. E io abbasso lo sguardo verso chi la pone, mi sposto in modo impercettibile e mi accingo a rispondere. La risposta che ancora non conosco, appare nell’atto stesso della sua dizione: resta questo soffio, questa joie che pure si dà.

 

[Sonoro: Soap&Skin, Wonder]

 

Nizza, giochi d’acqua della fontana della Promenade du Paillon, martedì 23.07. M., LE e A. giocano con i getti d’acqua

 

Dopo il crollo

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di Bruno Morchio

«Della scomparsa del passato ci si consola facilmente,
è dalla sparizione del futuro che non ci si riprende.»
Amin Maalouf

«Che vuoi capire?»
«Che cosa è diventata questa valle.»
«Non ti seguo.»
«Crolla un ponte, muoiono quarantatré persone, sotto ci sono case e strade dove la gente vive, tira la carretta, sogna, s’innamora e magari mette al mondo dei figli.»
«Cosa ha di speciale questa valle, a parte il fatto che si è vista crollare addosso il ponte dell’autostrada?»
«Per esempio il fatto che uno c’è nato, o ci ha trascorso la vita.»
«Questo vale per qualunque altro posto. E poi, tu mica sei nato qui.»
«No, ma per oltre un secolo questa valle è stata un distretto industriale di prim’ordine; le fabbriche si contavano a decine e decine e i suoi operai hanno costituito una spina dorsale dell’identità della città.»
«Il mondo cambia. Oggi la grande industria è quasi del tutto scomparsa, sopravvive una rete di piccole e medie aziende, ma i numeri di un tempo non esistono più. Anche la popolazione si è ridotta, e soprattutto è paurosamente invecchiata.»
«Proprio questo è il punto: qui non c’è stata alcuna gentrificazione, non sono arrivati gli architetti a rimodellare l’archeologia industriale per trasformarla in qualcos’altro: musei, biblioteche, teatri, cinema o spazi pubblici dove incontrarsi, conoscersi e riconoscersi. Solo qualche centro commerciale e alcuni grandi baracconi del consumo di massa. Il paesaggio è segnato da gusci fossili del passato privi di vita, carcasse abbandonate che continuano a occupare lo spazio solo per ricordarci quello che siamo stati, senza dirci niente di quello che potremmo diventare.»
«Non è successo lo stesso in tutte le periferie post-industriali dell’occidente?»
«È successo in quelle di cui nessuno s’è preso cura.»
«Prova a vedere il bicchiere mezzo pieno: salendo lungo la riva sinistra del Polcevera, da Certosa a Pontedecimo, si incontrano file di palazzi di pregio; abbiamo dimore gentilizie di grande valore, dal castello Folzer a villa Serra. Ci sei mai stato?»
«Certo che ci sono stato.»
«E dimmi: non sono una bellezza?»
«Certo che lo sono.»
«E che mi dici delle nostro colline e dei piccoli borghi come Murta e Begato?»
«Dei piccoli gioielli.»
«E anche l’edilizia popolare, non dappertutto è stata atroce come qui al Diamante.»
«Hai ragione, ma non ci si tira fuori da un disastro guardando indietro, mentre qui siamo immersi in un brodo di elegia e tutti hanno qualcosa da rimpiangere. Si accenna al ponte Morandi e comincia a esalare profumo di passato, neanche avessero reciso una rosa; ma ci si guarda bene dal menzionare le spine.»
«Quali spine?»
«Per esempio gli stabilimenti che hanno devastato l’ambiente e lasciato una lunga scia di morti.»
«È vero, negli anni è stata una strage.»
«Ed è anche vero che gli operai hanno fatto pochi figli, e questi ne hanno fatti ancora meno, e se non arrivavano gli stranieri si stava preparando uno sterminato ospizio, a cui sarebbe seguito un desolante, cimiteriale silenzio; tutti rimpiangono i negozi autoctoni, quelli d’una volta, che vendevano tessuti, vestiti e cibi di qualità, soppiantati dai venditori di kebab e paccottiglia made in China, ma senza questi ultimi, cosa sarebbero le strade se non dei deserti percorsi solo da automobili che fanno la spola tra lavoro, centro commerciale e abitazione?»
Giulia mi segue con attenzione, tra divertita e perplessa. «Dove vuoi arrivare? A sostenere che questo è il migliore dei mondi possibili?»
«Certo che no. Ma neanche quello lo era, basta guardare questo quartiere.»
«Eppure io sono affezionata a questo quartiere. Lo amo come si ama un figlio disabile, e faccio il possibile per renderlo migliore, almeno finché rimarrà in vita. Dopotutto abbiamo la farmacia, la casetta ambientale, il bosco e i forti di Begato e del Fratello Minore. E quando lo abbatteranno mi preoccuperò del destino di quelli che ci abitano. Ma cosa c’entra tutto questo con l’uomo che stai cercando?»
«Anche lui ama questa vallata. Ci è nato e cresciuto e ha voluto tornarci a vivere, anche quando aveva i mezzi per andare altrove. Proprio come te.»
«Tanto vale che parli con me, allora.»
«Tu spendi le tue energie per preservare un significato alla tua vita e a quella degli altri.»
«E lui invece?»
«È un distruttore, un saccheggiatore di destini. Eppure tutti ne sentono la mancanza. Deve esserci un nesso tra questa negatività e il suo carisma, qualcosa che lo rende attraente agli occhi delle sue vittime.»
«Non crederai alla favola dell’eterogenesi dei fini?»
«La teoria secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e dal letame nascono i fior? Ci credo eccome.»
«E a cosa sei interessato? Ai fiori nati dal letame o all’inferno generato dalle buone intenzioni?»
«Non lo so, però sono convinto che il mio uomo custodisce molte verità, incluso il segreto della propria autodistruzione. È imbevuto dei falsi miti del liberismo degli anni Ottanta, quelli instillati nella gente dalla televisione commerciale; proviene da una famiglia operaia e se ne vergogna, ma ha scelto di continuare a vivere qui, ha conservato gli stessi amici polceveraschi dell’adolescenza e perfino le amanti le ha selezionate tra le giovani di Teglia, Bolzaneto e Pontedecimo. Col suo lavoro ha provocato lutti e dolore, arricchendosi senza scrupoli e forse dilapidando la propria ricchezza. Si può impiegare il proprio talento per distruggere quello che si ama?»

 

NdR: questo brano è tratto dal capitolo 15 (“Dopo il crollo”) di “Le sigarette del manager. Bacci Pagano indaga in val Polcevera” (Garzanti, 2019) di Bruno Morchio

 

“Neuropa” reloaded

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[È da poco uscito, per la collana Reloaded di Laurana Editore, l’ebook di Gianluca Gigliozzi, Neuropa. Poema epicomico in prosa, la cui prima edizione a stampa risale al 2005 (per Luca Pensa Ed.). Rispetto alla versione originale il testo è corredato da 32 illustrazioni dell’autore. Qui la pagina Facebook dedicata all’opera. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione realizzata da Andrea Inglese per questa nuova edizione e un estratto del romanzo.]

Un pozzo in Lettonia

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di Valentina Parisi

Regīna Ezera, Il pozzo, Iperborea, 2019, pp. 352, euro 18,50, traduzione di Margherita Carbonaro.

 

“Perché siamo tutti infelici? Perché?” Molto probabilmente Regīna Ezera non se ne rendeva conto mentre cinquant’anni fa cedeva alla sua protagonista Laura il peso di queste parole, eppure quell’interrogativo, ovviamente lasciato senza risposta, infrangeva l’ottimismo obbligatorio della narrazione sovietica con una veemenza insospettabile in una frase così apparentemente apolitica. Con buona pace del paradiso socialista e della speranza nella costruzione di un “uomo nuovo” l’autrice lettone, all’epoca quarantenne, proclamava con inusitata chiarezza che l’esperimento, se mai tentato, non era comunque riuscito, e uomini e donne continuavano a essere irrimediabilmente “vecchi”, inchiodati all’orizzonte chiuso delle loro frustrazioni. Questa, almeno, era la conclusione che pareva trapelare dalla trama di Il pozzo, forse il più perfetto tra i tanti romanzi scritti dalla Ezera, e certamente il più famoso, visto che nel 1976 l’industria cinematografica sovietica ne trasse un film di enorme successo, La sonata del lago dai toni inequivocabilmente melodrammatici. Come se soltanto qui, ai confini dell’Impero, sullo sfondo degli immensi acquitrini baltici, fosse permesso innamorarsi.

Abusato ovunque ma non in Urss, il topos letterario dell’amore impossibile calza a pennello al rapporto che, pagina dopo pagina, si va delineando tra Rūdolfs e Laura – lui una rivisitazione della figura cechoviana del medico annoiato, riproposto qui in chiave più guascona, lei una maestra elementare introversa e sfuggente, gravata oltre che dalle responsabilità quotidiane e dalle preoccupazioni per i due figli, anche da una tragedia privata che, di colpo, ha cambiato la sua vita. Suo marito Ričs, un gigante fanciullesco con un debole per il bere, ha infatti commesso un delitto in stato di ubriachezza e ora, rinchiuso in carcere, si materializza tra le mura domestiche esclusivamente sotto forma di lunghe, nostalgiche missive. Inevitabile che la donna cominci a ricambiare le attenzioni dell’affascinante dottore di Riga che trascorre le sue vacanze estive ospite di anziani contadini sull’altra sponda del lago. Anche se, man mano che la narrazione volge al termine, si fa sempre più netta la certezza che, alla fine, sarà il senso del dovere, o un’ennesima tragedia, a spazzar via la possibilità seppur remota di un happy end.

Fin qui sembrerebbe la trama prevedibile di un melenso polpettone, e invece Regīna Ezera ne ricava un romanzo magnifico, complice la finezza psicologica con cui sa restituire i tratti dei suoi personaggi, nonché l’empatia tutta personale con cui guarda ai loro destini. Come spiega la traduttrice Margherita Carbonaro nella sua postfazione, in “fondo” al Pozzo e alle sue origini v’è infatti un irrisolto nodo autobiografico: l’amore non corrisposto per il drammaturgo Gunārs Priede, che abitava sulla riva opposta del fiume Daugava, non lontano dal villaggio sperduto di Brieži dove Ezera visse dal 1965 fino alla morte, avvenuta in solitudine nel 2002. È affascinante vedere come la sostanza magmatica prelevata dal vissuto dell’autrice si stemperi sulla pagina in una geometria acquatica dall’evidente simbolismo. Nel romanzo il fiume che separa i (non) amanti si trasforma in un lago senza nome, che equivale però allo pseudonimo scelto dalla scrittrice (Ezera è infatti la forma femminile derivata da ezers, che significa “lago”). La straziante emorragia di un amore impossibile che fluisce piano verso il mare diventa dunque uno specchio d’acqua chiuso, una superficie verbale riflettente dove recuperare la propria immagine.

A sua volta, la forma circolare del lago trova un corrispettivo in sedicesimo nella riserva d’acqua latente che si cela in fondo al pozzo, dove Laura torna più volte a calare il secchio. Quasi non assolvesse a un banale compito domestico, ma interrogasse piuttosto il proprio destino. Nel contempo, il soprannome con cui gli abitanti locali chiamano il lago – “la Biscia” – allude alla cangiante mutevolezza della sua superficie e all’inafferrabilità delle presenze che, di volta in volta, sembrano profilarsi sulle acque. In barca o a nuoto, l’inoltrarsi nella “Biscia” diventa per i protagonisti l’occasione per restare soli con se stessi e con i propri pensieri, tagliare i ponti con il quotidiano, sottrarsi alla forza di gravità.

Intriso di una sensibilità quasi panteista, Il pozzo trascende tuttavia la finitezza dello sguardo soggettivo per dilatarsi in una narrazione polifonica dove le suggestioni della mitologia baltica e le sopravvivenze di un vitalismo paganeggiante mai sopito coesistono in maniera bizzarra con i realia della campagna collettivizzata. Una dimensione che il lettore scopre innanzitutto attraverso lo sguardo distaccato e sornione di Rudolf, l’intellettuale di città attratto da quel mondo a parte, eppure consapevole che Laura, il lago e i suoi fantasmi di lì a breve non potranno che trasformarsi nel fondale scolorito di una villeggiatura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’abbecedario rimbaldiano di Philippe Forest

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di Ornella Tajani

Un destino di felicità (2019) è il titolo con il quale Rosenberg&Sellier danno alle stampe il saggio Une fatalité de bonheur (2016) di Philippe Forest, autore di diversi romanzi pubblicati in Italia, fra i quali Piena e Tutti i bambini tranne uno (Fandango, 2018). Il volume, tradotto da Gabriella Bosco, già voce di Forest per la sua produzione romanzesca, appare nella collana «Biblioteca di Studi Francesi».
Si tratta di un abbecedario rimbaldiano, un breviario fra autobiografia, psicanalisi e critica letteraria che prende come spunto la poesia di Rimbaud: una sorta di esquisse d’auto-analyse, per riprendere il titolo bourdieusiano, in cui l’autore, ispirandosi ora alle prose poetiche, ora ai versi, esplora il proprio spazio esistenziale. Più che un saggio su Rimbaud, questo breve libro è quindi un saggio attraverso di lui, par Rimbaud.
Del resto, Forest provvede subito a far sparire qualsiasi dubbio in merito a sue eventuali pretese esegetiche, scrivendo a proposito delle Illuminations:

Senza che nessuno abbia la spudoratezza di farlo osservare ai professori, i commenti da loro pronunciati ex cathedra assumono il valore di confessioni pubbliche da parte di chi li formula. Chiunque ritiene di svelare il mistero di quelle poesie, in realtà mette in mostra i propri appetiti, le proprie ripugnanze, i propri pregiudizi. Il ritratto che ne emerge di Rimbaud ha tutta l’aria di uno specchio in cui si riflette il volto del ritrattista.
Ovviamente la cosa vale anche per me.

Ciò che colpisce sin da subito nel tono del testo è la sincerità disarmante, così libera, con la quale l’autore si esprime (ritornerò sulla sua idea di libertà).
Alla lettera D, Forest propone il termine Deuil, lutto, che è solo il rovescio della medaglia del Désir (e chi, dall’abbecedario di Deleuze in poi, potrebbe mai proporre un termine diverso da “desiderio” per la quarta lettera dell’alfabeto?). Riprendendo una definizione di Aragon, Forest spiega che Deuil e Désir formano il suo “Sistema Dd”, il suo sistema Dada. Deuil è la parola che spezza la vita in due, stabilendo un prima e un dopo; ma è anche il vuoto, la mancanza strutturante che il desiderio cerca per tutta la vita di colmare – che tale lutto sia pregresso, «anteriore alla circostanza nella quale […] si manifesta», come sostengono alcuni, o che sia un lutto vero e proprio, come quello della sua unica figlia, già in passato più volte evocata: «è lei, la piccola morta, dietro i roseti», scriveva Rimbaud.
È proprio questo lutto dalla portata così devastante ad aver permesso all’autore di provare, almeno per una volta, «la libertà libera» di cui parla il poeta in una lettera al suo insegnante Georges Izambard.

Dopo la morte di mia figlia – scrive Forest -, l’universo si è svuotato improvvisamente di ogni senso, il tempo è uscito dai cardini, mi sono sentito libero da qualunque obbligo – nei confronti del mondo, come di me stesso -, a fluttuare in una sorta di nulla in cui più niente aveva presa su di me: spaventoso e patetico agli occhi degli altri, ma libero di una “libertà libera” che, ormai lo sapevo, rappresentava per me il solo valore della vita.

Questa peculiare forma di libertà richiede una sorta di addio al mondo. Forest la ricollega al lemma immediatamente successivo nel suo abbecedario, “Moderno”, evocando in apertura il celebre falso slogan «Bisogna essere assolutamente moderni», racchiuso nella Stagione in inferno, e accennando a quanto fosse poco probabile che Rimbaud volesse proporlo ai posteri come motto da seguire; ed è proprio così. In un saggio mai tradotto in italiano [1], Henri Meschonnic ha chiarito una volta per tutte che questa frase non vuol dire ciò che si è voluto credere: non si tratta, infatti, di una «phrase-drapeau», di un «Manifeste en raccourci du modernisme», giacché il valore del termine «moderne» è per il poeta perlopiù peggiorativo, e mai elogiativo. Laddove Rimbaud parla di ciò che noi oggi designiamo in poesia come “moderno”, spiega Meschonnic, egli adotta il termine “inconnu”, meta indiscussa del poète voyant.
«Il faut être absolument moderne», inoltre, è una frase impersonale che si oppone, all’interno del discorso, al je così insistentemente rivendicato dall’autore.

Les ll faut, dans Une saison en enfer, sont, comme la grammaire élémentaire le leur reconnaît, l’expression d’une obligation impersonnelle qui contraint le sujet, le subordonne à l’impératif en question. […[ Le il faut signale que l’action se mène à partir d’un en dehors du sujet. Ici, un dehors qui écrase le sujet. [Meschonnic]

In questo testo Forest, per sua stessa ammissione, si serve di Rimbaud come si fa con l’I Ching: seleziona ventisei parole chiave usate dal poeta o intorno a lui orbitanti, compone l’alfabeto e assiste alla profezia dell’oracolo; la poesia rimbaldiana emerge come mistica verità, insinuandosi fra le pieghe dell’esistenza dell’autore.

L’alfabeto ha un suo ordine specifico che determina quello del dizionario e non è quello della vita. Ci sono parole che arrivano troppo tardi. O persino mai. Ce ne sono altre che arrivano troppo presto. E senza che si sia ancora preparati a quello che significano.

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: Rimbaud aveva già proposto un suo personalissimo commento a cinque lettere dell’alfabeto, probabilmente associando loro i colori che le caratterizzavano sull’abbecedario che usava da bambino; ma, si chiede Forest, «perché fermarsi alle vocali?».
Un destino di felicità è il racconto della relazione che il suo autore ha con i grandi temi (l’amore, la morte, l’universale), attraverso una serie di figure, come verrebbe da chiamarle barthesianamente, forse non tutte ugualmente riuscite, che forniscono però un ritratto seducente di chi scrive e offrono al lettore più di uno stimolo interessante.

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[1] Si tratta del saggio dal titolo «Il faut être absolument moderne», un slogan en moins pour la modernité, in H. Meschonnic, Modernité modernité, Paris, Gallimard, «Folio», 2005 [prima edizione: Verdier, 1988].

La generosità del revisore

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di Silvia Pareschi

Quando compriamo un libro, di solito non pensiamo a tutto il lavoro che c’è dietro, a quante figure professionali hanno lavorato su quelle pagine dopo che l’autore ha scritto la parola Fine e ha spedito il manoscritto al suo agente. E perché dovremmo pensarci? Al cinema restiamo seduti davanti ai titoli di coda perché siamo cinefili o educati, ma nei libri i titoli di coda non ci sono (con la meritoria eccezione dei libri pubblicati da minimum fax), e questo un po’ ci esime dal riflettere su quanto lavoro abbia richiesto la confezione del libro che abbiamo fra le mani.

Si dice spesso che i traduttori sono invisibili. Qualcuno sostiene anche che questa invisibilità derivi sostanzialmente da un rifiuto inconscio, da parte del lettore, di ammettere che non stanno leggendo direttamente il loro autore preferito, bensì la voce di quell’autore passata attraverso il filtro di un’altra voce, quella del traduttore. È un’ipotesi suggestiva, e probabilmente veritiera. Ma tutto sommato oggi noi traduttori siamo un po’ meno invisibili che in passato. Ci sono molti corsi di formazione dedicati al nostro mestiere, articoli che parlano di noi, premi che ci vengono attribuiti. Sappiamo che ci sono tanti ragazzi che vorrebbero fare i traduttori, anche se non capiamo perché (o meglio, lo capiamo perché eravamo così anche noi, solo che oggi noi sappiamo tante cose che loro ancora non sanno, tipo che quello del traduttore non è proprio un mestiere lautamente retribuito, per usare un eufemismo).

Così, se a volte oggi il traduttore esce un po’ dall’ombra e riesce ad acquisire un po’ di visibilità, alle sue spalle rimangono nascoste le altre figure della filiera editoriale, quelle che lavorano sulla traduzione e la limano, la perfezionano, a volte decisamente la rimettono in piedi quando non riesce a camminare con le sue gambe.

È un lavoro preciso, delicato e intriso di umiltà. Come quello del traduttore, e anche di più, perché non viene riconosciuto. Io per esempio non sono brava a rivedere le traduzioni altrui. Perché sono possessiva con i testi e con gli autori, entro con loro in un rapporto che diventa subito duale, e se rivedo una traduzione finisco per volerla rifare. Ma non è così che funziona una revisione. Come il traduttore si mette al servizio del testo che sta traducendo, così il revisore deve mettersi al servizio della traduzione, saper intervenire con intelligenza ma anche con garbo, migliorando la traduzione senza stravolgerla (a parte certi casi in cui non si può fare altro, e allora è una fatica immane), aggiustandola con tocchi sapienti che smussano gli angoli e lustrano le opacità e restituiscono alla fine un testo pulito e levigato, oltre che rispettoso dell’originale.

Per quanto un traduttore possa essere bravo, il passaggio della revisione è sempre indispensabile. E i traduttori lo sanno. Sanno quanto sia prezioso l’aiuto di un bravo revisore, quanto possa essere fecondo di consigli, soluzioni e dialoghi costruttivi. Sanno che avere a che fare con un bravo revisore è una fortuna di cui occorre sempre essere grati. Perché dopo mesi passati sopra, anzi, dentro un testo, anche il più bravo dei traduttori a volte può perdere la lucidità, può smarrirsi, può prendere lucciole per lanterne, cedere a vezzi, a calchi, può leggere cose che in realtà non ci sono, e più rilegge e più si convince che sia così, e allora solo un occhio esterno può vedere le cose come stanno davvero, togliere le incrostazioni e restituire le parole a quello che era il loro vero significato.

Questa storia dell’imprescindibilità di un occhio esterno la racconto sempre ai corsi di traduzione, ma non c’è niente meglio di un esempio pratico per capire cosa vuol dire. Prendiamo il libro di Denis Johnson La generosità della sirena (Einaudi). A questo libro hanno lavorato insieme a me Grazia Giua in qualità di editor e Norman Gobetti (traduttore di Philip Roth e altri grandi scrittori) come revisore. A un certo punto in uno dei racconti compare un pun, cioè uno di quei giochi di parole che sono la bestia nera di ogni traduttore. Nel paragrafo si parla di mistero, e la scrittura di Johnson abbonda di misteri. Il gioco di parole si riferisce all’insegna di un negozio:

I wonder if you’re like me, if you collect and squirrel away in your soul certain odd moments when the Mystery winks at you, when you walk in your bathrobe and tasseled loafers, for instance, well out of your neighborhood and among a lot of closed shops, and you approach your very faint reflection in a window with words above it. The sign said “Sky and Celery.”

Closer, it read: “Ski and Cyclery.”
I headed home.

La traduzione finale è questa:

Mi domando se siete come me, se raccogliete e conservate nella vostra anima certi strani momenti in cui il Mistero vi fa l’occhiolino, in cui, per esempio, uscite in accappatoio e mocassini e camminate ben oltre il vostro quartiere, in mezzo a tanti negozi chiusi, e vi avvicinate al vostro vago riflesso in una vetrina con delle parole scritte sopra. L’insegna dice: «Carta e festa».

Guardando più da vicino, ho letto: «Caccia e pesca».
Sono tornato a casa.

Il lettore se la godrà senza conoscerne il retroscena, cioè proprio il fondamentale apporto del revisore. Infatti la traduttrice (cioè io), momentaneamente smarrita nel Mistero di Johnson, aveva in prima battuta preso fischi per fiaschi, o meglio sci per cieli, e aveva ostinatamente continuato a leggere le due frasi come “sky and celery” (“cielo e sedano”, la frase distorta dalla mente del protagonista) e “sky and cyclery” (“cielo e biciclette”, ossia un’altra frase distorta al posto della più normale “ski and cyclery” che voleva dire semplicemente “sci e biciclette”). La mia mente si era incagliata nel Mistero e leggeva tutto in quella luce, e così aveva partorito la seguente versione:

L’insegna dice: «Cielo e cinismo».
Guardando più da vicino, ho letto «Cielo e ciclismo»

Una resa niente male del gioco di parole, se effettivamente ci fosse stato scritto “sky and cyclery” anziché “ski and cyclery”, cioè sci e non cielo. Ma io, a ogni successiva rilettura del testo, quella i al posto della y mi ostinavo a non vederla. Non c’era niente da fare: un po’ come in quei disegni con le illusioni ottiche, se qualcuno non me l’avesse mostrata non l’avrei mai vista. E quel qualcuno è stata Grazia Giua, che si è subito accorta dell’errore e ha trovato la brillante soluzione che ora tutti possono leggere: “Carta e festa” come distorsione di “Caccia e pesca”.

E allora, quando chiudiamo un libro, proviamo a ricordare che se nei titoli di testa c’è solo il nome dell’autore (e volte anche quello del traduttore), i titoli di coda sono lunghi e articolati, e che se quello dello scrittore (e del traduttore) è un lavoro solitario, il libro finito può essere solo il prodotto di un sapiente lavoro di squadra.

Le femmine di Hilbig

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di Giorgio Mascitelli

L’uscita dei due racconti lunghi Le femmine- Vecchio scorticatoio di Wolfgang Hilbig ( Keller editore, euro 16,50, resi credibili in italiano con perizia da Riccardo Cravero e Roberta Gado ) costituisce una novità imperdibile per tutti gli appassionati di grande letteratura, segmento di mercato che, come è noto, vive soprattutto di ristampe. Sebbene questo libro non sia una prima assoluta nel nostro paese per lo scrittore tedesco, visto che negli anni novanta uscì un’antologia di racconti, La presenza dei gatti per i tipi de Il Saggiatore, qui ci troviamo  però di fronte a due delle opere maggiori.

Per introdurre al lettore che non lo conosce questo eccezionale autore, nato nel 1941 in Turingia, vissuto fino al 1985 nella Repubblica Democratica Tedesca ( DDR), che anche dopo il suo passaggio a ovest ha costituito l’habitat irrinunciabile della sua narrativa, e morto a Berlino nel 2007, si potrebbe ricorrere a una fitta aneddotica alimentata da una vita caratterizzata dall’abbondanza di pugni incassati, sia metaforici sia effettivi, dato che per un certo periodo praticò anche la boxe, ma qui basterà ricordarne uno assai più sobrio ovvero che tra le prime spese effettuate con gli incassi dei suoi libri vi fu l’edizione integrale dell’opera di E.T.A. Hoffmann. Dello scrittore romantico Hilbig ha i due momenti, quello stralunato, fantastico-esistenziale e quello ferocemente ironico contro il benpensantismo, certo però con ritmi e contenuti ipermoderni.

Non bisogna pensare, specialmente per questo libro, a un classico scrittore del dissenso, di denuncia degli stati caserma  del blocco sovietico, anche se alla fine la natura claustrofobica della DDR balza fuori in maniera prepotente e più netta che in tante opere sul tipo de Le vite degli altri: essa è, per così dire, la cornice senza la quale il quadro non potrebbe esistere, è lo sfondo che fa la storia.  L’io narrante protagonista di entrambi i testi, poco importa se autobiografico o meno, si presenta sempre come deviante rispetto ai valori ufficiali di stato e a quelli tradizionali condivisi dalla gente comune, ma la loro contestazione avviene quasi implicitamente nell’ambito di una ricerca di una collocazione esistenziale o, più banalmente e radicalmente, di una domanda di sopravvivenza.

Ne Le femmine ( titolo che proprio nella sua brutalità si lascia identificare come una drammatica richiesta di aiuto) un operaio affetto da una strana malattia, che ha tra i suoi sintomi quello di impedirgli di vedere le donne, si convince di vivere in una specie di paese di Hamelin dal quale esse sarebbero proprio scomparse. Resosi conto che si tratta solo di una sua percezione dovuta alla malattia, rivela di avere una tempra simile a quella di un Orfeo nella disponibilità di andare negli Inferi della propria interiorità a recuperare la capacità di vedere le donne.  In Vecchio scorticatoio un ragazzotto svogliato che promette di riuscire un fior di birbone, secondo i vaticini della comunità, vagabonda nei dintorni della cittadina in cui abita, essendo attratto in particolare da un vecchio stabilimento, Germania II, oggetto di una misteriosa e generalizzata riprovazione da parte della gente forse in ragione degli strani personaggi che vi lavorano. Ma la ricchezza reale dei testi è dettata in primo luogo dalle improvvise e umanissime illuminazioni nel mezzo di uno scenario squallido. Comune ai due racconti è una volontà disperata, persino feroce nell’annientare qualsiasi nascondiglio dettato dall’autocompiacimento, di confessione di sé e della propria miseria, che talvolta si coagula in un umorismo quasi glaciale talvolta in un’oggettività da referto autoptico. Questa spinta all’autoconfessione è però vitale, l’ansia di verità diventa ansia di vita e grazie a questo Hilbig trova sempre modo di un inserire una cifra speranzosa, magari minuscola come le iniziali del proprietario ricamate sulle camicie di una volta, nella durezza delle sue ambientazioni e delle sue storie.

E tuttavia sarà meglio cedere la parola allo stesso Hilbig per illustrare, a titolo d’esempio, almeno una delle vie possibili a cui conduce la sua operazione letteraria. Si legga questo brano da Le femmine:  “Di più, mi sembrava che perfino le parole femminili non fossero più in uso, di colpo mi parve di notare  che in città la gente si era messa a chiamare le pattumiere bidoni. Quando le vedevo da lontano, le pattumiere che quell’estate se ne stavano sistemate in lunghe file sul bordo dei marciapiedi […], in un primo istante credevo sempre che si trattasse di una serie di femmine informi che si trattenevano là, fiocamente iridate sotto l’azzurrina illuminazione stradale, e mi avvicinavo svelto. A quel punto mi rendevo conto che erano soltanto le pattumiere che vedevo tutte le notti, […..]. Ciò nonostante mi trattenevo a lungo e sovente nelle vicinanze di quelle pattumiere; in una città del genere, mi dicevo, è possibile che una donna spunti fuori da uno di quei recipienti e assurga alla luce come un’Afrodite nata dalle schiume del mare.” (pp.22-23).  Qui l’uso dell’assurdo è condotto in un modo che sorprende e tocca duro il lettore, quasi che l’ex pugile Hilbig si fosse ricordato di un colpo come il montante che partendo dal basso va a disarmare le difese dell’avversario aggirando da sotto la sua guardia: all’iniziale delirio che preannuncia la scomparsa in città del genere femminile perfino a livello grammaticale e all’allucinazione delle donne bidone, succede una percezione realistica che viene contraddetta dall’aspettativa nuovamente delirante, ma espressa come se si trattasse di una supposizione razionale nel monologo interiore, di una Venere emergente non già dagli stracci, ma dalla spazzatura. La folle miseria del protagonista evoca però quella del sistema in cui vive, in una sorta di radicale consonanza. Del resto non potrebbe essere altrimenti giacché la prima è un prodotto della seconda.

Questi racconti di Hilbig sono ambientati in una paese scartellato, poliziesco e ormai scomparso con un protagonista dagli evidenti tratti autobiografici: eppure l’impressione innegabile è che la favola narri anche di noi. Credo che sia questo che s’intendeva una volta con l’espressione ‘universalità della letteratura’.

 

 

 

Mots-clés__Abbraccio

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Marc Chagall, Le paysage bleu, 1949

Abbraccio
di Mariasole Ariot

Nick Cave, Into my arms –> play

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Marc Chagall, Le paysage bleu, 1949

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Da Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, trad. Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1979.
«Nell’amorosa quiete delle tue braccia», pp. 13-14.

 

ABBRACCIO   Per il soggetto, il gesto dell’abbraccio amoroso sembra realizzare, per un momento, il sogno di unione totale con l’essere amato.

1. Oltre all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario) vi è quest’altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge ad ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno della madre (Nell’amorosa quiete delle tue braccia, dice una poesia musicata di Duparc). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamene appagati.

2. Tuttavia, nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).

3. Momento dell’affermazione: per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono appagato (tutti i miei desideri aboliti atraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione – la contrazione – dei due abbracci.

DUPARC: Chanson triste, poesia di Jean Lahor. Si tratta di cattiva poesia? Ma la «cattiva poesia» coglie il soggetto amoroso nel registro espressivo che appartiene solo a lui: l’espressione.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Tu

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di Mehmed Uzun

Il protagonista del romanzo è in una cella d’isolamento, nel carcere di massima sicurezza di Diyarbakır, la principale città curda in Turchia. È stato arrestato e torturato perché trovato in possesso di poesie e libri in curdo. L’unico interlocutore a cui il protagonista può rivolgersi è un insetto, chiuso anch’esso nella cella d’isolamento. Qui, nel settimo capitolo, si lancia in una lunga descrizione della città di Diyarbakır e del suo valore simbolico per il popolo curdo. La vicenda ricalca la biografia dell’autore Mehmed Uzun, imprigionato negli anni ’70 per attività culturale in curdo. Morto nel 2007, Mehmed Uzun è ritenuto il più importante romanziere curdo contemporaneo, un pioniere del genere nella sua lingua. 

Insetto, spero che tu mi stia ascoltando, che almeno tu mi senta. Perdonami, non posso alzare troppo la voce, altrimenti le guardie mi sentiranno.
Tu lo sai dove ci troviamo insetto? Come puoi saperlo! Tu cerchi solo luoghi bui, neri e sporchi. A te basterebbe lo spazio di una spanna. Ne saresti soddisfatto. Nella tua storia infatti sguazzavi nel fango degli zoccoli di cavallo. Per te uno zoccolo di cavallo può diventare una dimora.  Chissà, questa cella buia e stretta quanto ti appaia ampia e grande.
Qui siamo a Diyarbekir, insetto mio. Diyarbekir! Siamo sotto la terra di Diyarbekir, nella prigione degli stranieri. Oh insetto, hai presente Diyarbekir? È la più bella del nostro paese, ed è il dolore dei nostri cuori. È la speranza della nostra vita ed è l’angoscia della nostra anima. È una città strana. Antica e ingegnosa. È voce, è colore, è luce ed è dolore, è bellezza. È una mescolanza, c’è dentro ogni cosa. E comprenderla non è facile. Ti dà la vita e ti uccide. Ama e odia. È sia devota e generosa che invidiosa e gretta.
Chissà se ora ha contezza di noi. Se sa che qui vengono uccisi ragazzi e ragazze per amore di lei, che vengono legati e incatenati.
Ah insetto… ah Diyarbekir… con le sue locande e i suoi macelli, le sue fumerie e le sue stanze di tortura, le sue sale da tè, i suoi bar e i suoi bordelli, è inchiodata nei nostri cuori. Ti fa star male e ti fa commuovere. Coi suoi vigneti, i suoi giardini e i suoi orti, le sue villette, i suoi parchi e le sue prigioni, è come una rosa rossa: il suo profumo inebria la gente, ma le sue spine provocano dolore.
È una città unica e illustre. Tutto è retto da una particolare armonia che mette insieme case, palazzi, strade, negozi e tutto il resto. Anche le persone sono in qualche modo parte della sua struttura. Anche tu insetto, anche tu sei una piccola parte della sua struttura. Anche la tua vita è una delle sue tante ricchezze. Da un lato ti rende felice mentre dall’altro ti fa essere triste, con lei si piange e con lei si ride. I guai e i dolori di Diyarbekir sono tanti. Lunga è la sua avventura. Le sono accadute cose strane ed incredibili. È ferita, è stanca, è afflitta e si lamenta; chissà a quanti re, principi e signori è stata residenza. Chissà quanti eserciti hanno messo piede sulla sua terra, quanti ancora di qui siano passati. E ancora il suo più grande problema è la libertà, l’indipendenza. Ma non le danno modo, gli stranieri non le danno modo di vivere indipendente e felice. Di fare ciò che vuole. Di vestirsi, di curarsi e di adornarsi come più le piaccia. Vedi insetto, gli stranieri se ne approfittano della sua ospitalità. Ogni volta lei apre la porta agli stranieri e li accoglie. Ma questi non sono venuti per essere ospiti, bensì per restare e derubare. Costoro rendono le sue ferite ancora più profonde e brucianti. Tanto che ormai lei stessa è diventata la misura del dolore e delle sofferenze.
È la nostra città più grande, insetto. La più importante, la capitale di un paese occupato e di un popolo sottomesso. Per questo motivo ha da tempo dimenticato gioie grandi ed importanti. Gli stranieri hanno imprigionato e negato queste sue grandi gioie. Le sue gioie, oggi, sono piccole, quotidiane. Bastano a farla contenta l’incontro fra due giovani amici, oppure due stelle che brillano in cielo, la nascita di un bambino, di un vitello o di un agnello, il cinguettio di un usignolo, il nitrito di un cavallo, o il canto di una quaglia, le gocce di sudore che cadono dalla fronte di un muratore che costruisce una casa, o lo schiudersi dei fiori a primavera. È infatti una città che ama le primavere. Sembra tornare di nuovo alla vita quando senti nei parchi le grida dei bambini che giocano, lo sferragliare di coltelli, spade e scudi giocattolo, le risate di giovani e acerbe ragazze. Fascia e cicatrizza le sue ferite, e sebbene per un tempo breve, dimentica i suoi guai e le sue afflizioni, fomenta speranze e allarga le sue ali ad abbracciare i giovani, ragazzi e ragazze.
Si soddisfa di piccole gioie e bellezze quotidiane. Le basta questo.
Ha quattro porte. Apre il suo abbraccio agli ospiti provenienti da est, da ovest, da sud e da nord. E dice: venite compagni dei giorni piovosi, c’è posto per voi, venite! E dice: venite anche voi, nemici dal volto tetro, c’è posto anche per voi, venite! Prendete la vostra bontà e la vostra cattiveria, la vostra purezza e la vostra nefandezza, la vostra amicizia e la vostra inimicizia, lealtà e ipocrisia, e prendete la vostra lingua e tradizione, credenza e cultura, i vostri carrarmati, le vostre bombe, il vostro oro e le vostre tasse e venite. Venite, o re! Venite ministri e segretari. Venite scalzi e senza cappello. Venite meschini e sobillatori, venite cagne rognose di sette città. Venite combattenti coraggiosi, venite oh savi.
Con lamenti e stridori si aprono le sue porte. Venendo da ovest, quando ci si è lasciati alle spalle le cime del Tauro e il vulcano dormiente del Karacadağ[1] e si è entrati in una pianura dorata, allora appaiono le mura, i torrioni e la porta occidentale di Diyarbekir. E sembra quasi che si sia rifugiata lì ai piedi delle montagne per proteggersi da stranieri invasori e nemici, da diavoli, sobillatori ed ipocriti.
Venendo da nord bisogna scavalcare le cime dei monti Dodan,[2] Golap-Cimat, Xezine, Erxenis e Erbat. Dopo il monte Zulkif la pianura si distende ormai come un piatto dorato. Ad est questa pianura raggiunge le montagne Reman, Xerzan, Kendalan e Resiyan. Sulla cima del monte Raman si nota una macchia color grigio scuro. Quella macchia apre una spaccatura nel cuore della montagna e diventa una valle. Scendendo per quella valle, dopo aver attraversato fiumi, laghi, ruscelli e torrenti si arriva alla porta orientale di Diyarbekir. Da sud invece, si arriva alla pianura dopo aver superato le cime di Stewr, Kercews, Hermis, Kerbend, e Germav.
Chissà se questi nomi, questi luoghi ti dicono qualcosa, insetto. Ci capisci qualcosa? No vero? Ma non fa niente. Tu ascolta e basta. Ascolta per il bene mio e quello di Diyarbekir. Diyarbekir, che corteggiamo da migliaia di anni, Diyarbekir l’avventura della nostra storia…

[1] Vulcano dormiente alto quasi duemila metri, situato pochi chilometri ad ovest di Diyarbakır.

[2] Nomi di cime della catena del Tauro che circonda la pianura al centro della quale si trova la città.

Estratto da Tu, a cura di Francesco MarilungoScienze e Lettere, in collaborazione con ISMEO e Istituto Internazionale di Cultura Kurda, 2019.

Querencia

0

di Lorenzo Mari

togliere la lalìa   all’eco: per sentirla
farla ancora sentire   e farlo davvero
non nella stanza ricavata   dentro ai video
non nella casa ricavata   dentro ai video
né in mezzo all’arena: farla   ancora sentire
farlo davvero   esiste una pietà anche al toro
anche al torero   nascosta, anche nel sentirla
e farla ancora sentire oppure   fermo immagine:
due pietà   il numero non importa, non il titolo
la classe importa, però   con il suo audio, sempre leso:
per ascoltare, infine   come si muove, in sé e per

quel che sarebbe potuto   correttamente essere

 

credimi

 

Querencia

 

I

 

Predica a lungo. Predica niente. Predica vuoto. Non predica toro. Pubblico silente, se soltanto ah se soltanto ci fosse di nuovo un moto, ma: pubblico silente. E non sente il tremore, non si accorge che è stato tutto preso – né del luogo che si poteva abitare – mentre impugna la banderilla, o bandierina, e predica ancora, suonate le campane; dice: nuovo spazio libero. Nuovo spazio, malgrado tutto, e sapessi quali riserve, contro lo spazio del resto. Dice: oh fosse sempre così. Ma: predica niente. Non predica toro. Predica un soggetto altrui, precedentemente schivato. Predica a lungo. Predica segno. Senza segno, predica lirica – poi confessa: peccato. Poteva essere un’altra forma, se soltanto ah se soltanto fosse stato un altro stile, un altro significato, ad esempio: lingua di toro, servita nel piatto al vegetariano – un salmì restato candente. Soggetto altrui, oppure niente: è così che non ha parlato. Il soggetto schivato nel frattempo è stato colpito, ma non si dice vittima, cui risponderebbe vittima il coro. Nessuno, nemmeno lui, o lei, dalla sua posizione, vede lo spazio restante come spazio cambiato: non è libero, e poi non è nuovo. È tutto, dalla prima all’ultima lettera

impredicato.

 

 

[…]

 

 

“Ma io ho sofferto tanto, rispettabile sheikh!”.
“Cosa credevi? Il dolore è la vita, la sofferenza
è inestricabilmente connessa alla nascita”.
“La sofferenza è inestricabilmente connessa alla nascita?”
“L’uomo nasce per soffrire e solo soffrendo torna a vivere
un’altra volta. Non si può rinascere senza provare dolore”.

Ibrahim al-Koni, La patria delle visioni celesti

 

tutto il deserto è nome e il nome da qui è tutto
deserto e poi ancora nome, una frazione

o il suo contrario nel senso che potrebbe forse
piovere se non fosse nome ma: wadi, o come

dicono loro miraggio della consistenza
di un fiore che era rosa è rosa ma dove, ma ora?

[tutto il deserto è nome piegato al suo vento
nella controra: non piove, ma l’orma è una è nera]

 

[…]

 

 

finalmente:

dici che nasce una lingua potente, ovvero
potente poiché debole potente poiché nulla
poiché ai tempi, al passo senza passo restando
chi lalla è di sconcerto e dici che chi lalla
non sposta niente invece interi muri intere
caverne si sono viste e lunghissime opere
di bisonti (senza le corna poi con le corna)
semplicemente lallando di un lallare diverso
e allora dici: lalla, lalla che poi si parla

:finalmente

 

 

*

 

“Desiderio dello spazio o spazio del desiderio che sia, querencia è un termine che vale per la vita animale umana quanto per la vita animale non umana. Nel primo caso, ha a che fare con il verbo querer (nella sua etimologia latina, dove quaerere significa ‘cercare’ o anche ‘chiedere per sapere’) e, per vari slittamenti semantici, con un percorso di ritorno ai luoghi amati che non è immediatamente sovrapponibile al dolore del nostos. Nel secondo caso, è un termine che ha avuto fortuna nel linguaggio della tauromachia, indicando l’area dove si posiziona il toro, durante la corrida, mettendosi temporaneamente al riparo da ogni contatto con le armi dell’uomo. In entrambe le situazioni, querencia designa un percorso che non trova completa e duratura soddisfazione, incontrando piuttosto, e cercando di nominare, una dopo l’altra, le proprie contraddizioni. Nei tanti spazi attraversati – dalla grotta di Chauvet, Paleolitico superiore, alle zone rosse che si moltiplicano nella geografia contemporanea, passando per l’arena, il campo da tenni o la chiesa di Luci d’inverno di Ingmar Bergman – querencia si offre come un viaggio senza compimento, ma proprio per questo inesausto.” (dalla bandella)

 

Lorenzo Mari, Querencia, Oedipus 2019 (collana Croma K, a cura di Ivan Schiavone)

 

Iosif Brodskij tra le rovine della città di K.

1

di Valentina Parisi

(Pubblichiamo un estratto da Valentina Parisi, Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte. Prefazione di Francesco M. Cataluccio, Edizioni Exòrma, 2019. Il libro racconta un viaggio verso due città che convivono in una. Entrambe fantasmatiche, vive e morte nello stesso tempo. La Königsberg di Immanuel Kant e la Kaliningrad dell’impero sovietico deflagrato da quasi trent’anni. Quello che più colpisce nella scrittura di Valentina Parisi è il suo spessore, dovuto alla sapienza dell’autrice, un dominio di più lingue e culture che le consente di creare connessioni che arricchiscono il testo di densità e strati. Ogni luogo sfiorato e raccontato accende collegamenti storici, letterari, autobiografici. Dunque per viaggiare bene bisogna prima sapere; eppure senza viaggiare non si sa nulla.)

È identica, pensò il poeta, rigirando distrattamente la bottiglia vuota tra le mani. Identica al faro che, fuori dalla finestra, ammiccava col suo unico occhio nell’oscurità.

Il faro – un’enorme bottiglia di vino da dessert, scintillando nel buio, indicava la via ai naviganti, soprattutto a quelli persi e solitari come lui.

Perché la somiglianza fosse perfetta, provò a farla girare come una trottola, tenendola per il collo. Il collo di lei.

Rivedeva la macchia di tempera verde acqua, sotto l’orecchio. Chissà come se l’era fatta. L’aveva presa per i capelli, torcendoli con forza, per costringerla a voltarsi e a distogliersi dal quadro che stava dipingendo. La risposta fu il solito sorriso, artificiale e sfrontato, e lo sguardo assente, sotto le palpebre pesanti.

“Parti?”

A Baltijsk, la città più a ovest di tutta l’Unione Sovietica, era giunto qualche giorno dopo, ovviamente non in veste di poeta, bensì di giornalista. La locale squadra giovanile di nuoto era stata defraudata di una medaglia durante la Spartachiade dei pionieri e la rivista Koster lo aveva mandato in missione per far luce sulla vicenda. Altrimenti non avrebbe mai potuto metter piede in quella base militare irraggiungibile per i comuni mortali privi di lasciapassare. Ma si sarebbe davvero perso molto se non fosse mai stato in quel porto sul Mar Baltico che non ghiacciava mai, neppure nel cuore dell’inverno? Cosa aveva di così particolare, a parte il fascino decadente dell’albergo d’anteguerra “L’Ancora d’oro”, quelle danze goffe e allusive tra marinai e l’alcol di contrabbando che vi scorreva a fiumi? Eppure quello era l’Occidente, rispetto a Leningrado…

Abbiamo vinto.
Abbiamo vinto noi.

Gliel’avevano ripetuto i responsabili della squadra di nuoto dei pionieri. E poi i pionieri stessi, adolescenti dalle spalle sproporzionatamente larghe e dagli occhi vacui. Come no, bastava vedere Kaliningrad per capirlo. Una città di vincitori, a soli cinquanta chilometri da Baltijsk. Una città ridotta a un cumulo di macerie, che sul mito della Vittoria sui nazifascisti aveva costruito tutta la sua precaria esistenza…

I capelli, avrei dovuto tirarglieli più forte. E la macchia sul collo, perché non l’ho leccata via con la lingua? Almeno mi sarebbe rimasto il suo sapore e non solo il volto…

Nascosto sotto le palpebre, come oppio,
Dai nostri stagni baltici, d’un soffio
Nella Prussia orientale entrando,
Il volto tuo introdussi, di contrabbando.

“Ah-ah-ah, un’altra poesiola!” avrebbe sicuramente esclamato beffarda al suo ritorno.

Il poeta non poteva saperlo, ma da lì a pochi mesi avrebbe scoperto con stupore di non essere affatto un poeta, bensì un perdigiorno, un parassita e un mangiaufo che viveva perfidamente alle spalle dello Stato sovietico. E questo malgrado le spedizioni al seguito dei geologi, gli articoletti, le traduzioni e gli innumerevoli tentativi di vendere ai giornali le sue foto scattate ai quattro angoli dell’Urss!

In tribunale, dinanzi a un’accigliata giudice, il ventiduenne dai capelli rossi, accusato di scarsa dedizione alla causa dell’edificazione del socialismo, avrebbe difeso il proprio diritto a definirsi poeta, pur non avendo mai frequentato alcuna apposita scuola. Alla domanda: “E allora, come si fa a diventare poeti?” risponderà con aria smarrita: “Credo che venga da Dio”.

“Iosif Brodskij ha sempre guardato al suo paese tenendosi un po’ in disparte, autoconfinandosi in uno spazio che appartiene soltanto alla storia e alla poesia. ‘Lascia che l’artista, parassita / a un altro paesaggio dia vita’. Non scriveva forse così?” sorride Tomas Venclova, poeta lituano e slavista, amico di Brodskij fin dalla seconda metà degli anni Sessanta. Secondo alcuni fu proprio lui a contagiarlo con la sua bizzarra passione per la città di K. “Per Iosif”, continua, “era importante vivere alla periferia dell’impero, dove le usanze, l’aria, malgrado tutto, sono un pochino diverse”.

Di margini e di periferie Venclova se ne intende. Non per nulla è nato nel 1937 a Klaipėda, là dove la terra lituana con le sue dune sabbiose digrada e scompare nel Mar Baltico. Gli anni dell’occupazione nazista li trascorse leggermente più a est, a Kaunas, la città che nel ventennio interbellico era stata la capitale della Lituania indipendente. In seguito, al termine del secondo conflitto mondiale, si trasferì con la sua famiglia ancora più a est, a Vilnius. Le autorità della neonata repubblica sovietica di Lituania avevano assegnato a suo padre Antanas, poeta ed esponente di spicco dell’intelligencija filocomunista, un bell’appartamento in una villa al numero 34 di via Pamėnkalnio, oggi trasformata in un museo a lui dedicato. L’occhiuto vicino della porta accanto, al soldo della polizia politica, ogni tanto faceva capolino sulla soglia, per sorvegliarlo. Vilnius era tornata da pochissimo alla Lituania – la Polonia se l’era annessa nel 1922 – e uno dei primi ricordi di Venclova è un pomeriggio trascorso a vagare per il centro città, allora completamente distrutto. Al ritorno da scuola si era perso in mezzo alle rovine del ghetto ebraico e dei pochi passanti incontrati per strada nessuno era in grado di fornirgli indicazioni, perché nessuno parlava lituano. Sballottato di qua e di là per tutta l’infanzia, Tomas aveva appena trovato una città che avrebbe potuto diventare sua – peccato fosse ridotta a un ammasso muto di macerie.

(…)

Ausiliaria dell’Armata Rossa

E Brodskij? Anche lui, come i suoi amici lituani, aveva la sensazione di andare comunque in Europa, partendo per Kaliningrad: “Anche se praticamente distrutta, era comunque l’unica grande città europea depositaria del ricordo della tradizione culturale occidentale che potessimo vedere coi nostri occhi”, spiega Venclova. Calcando le orme di Karamzin e recandosi non più in Prussia, bensì ai margini estremi dell’impero sovietico, Brodskij si ritrovò in un’Europa di macerie. Mentre a ovest le città tedesche erano state ricostruite con aggressiva alacrità in tempi record, l’ex Königsberg serbava intatto il vuoto spaventoso delle distruzioni belliche. In alcuni luoghi le lancette dell’orologio segnavano ancora un’ora qualsiasi della seconda metà del 1945, anzi: l’incuria sovietica, il famigerato immobilismo russo, forse anche una punta di cinico voyeurismo alimentato dalla vista dai resti materiali della disfatta inferta al nemico, avevano fatto sì che a Kaliningrad la polvere si depositasse sulla polvere delle macerie, che l’inesorabile azione del tempo erodesse quelle che, ormai, erano rovine di rovine.

Il castello dell’Ordine Teutonico si ergeva in mezzo alla città con la sua torre arsa e perforata dal tiro di artiglieria, simile a un enorme dente cariato. Tutt’intorno le facciate vuote delle poche case rimaste in piedi, puntellate da pali, sembravano archi di trionfo o ruderi di età romana, o ancora quinte teatrali di chissà quale opera fantastica. Il Duomo, privo di tetto, si levava in una fuga di archi tra cespugli e pozzanghere, e a un improbabile viaggiatore italiano di passaggio avrebbe certamente richiamato alla mente l’abbazia di S. Galgano. A differenza di quanto riferisce Alexander Kluge ne L’incursione aerea su Halberstadt, qui nessuna signora Schrader, nessuna impiegata di cinema, aveva imbracciato la pala della protezione antiaerea poche ore dopo il bombardamento, nella speranza di riuscire a sgomberare le macerie in tempo per lo spettacolo delle due del pomeriggio. Se per la Germania la precipitosa rimozione dei detriti e l’immediata ricostruzione sarebbero equivalse, dopo le devastazioni subite durante la guerra, “a una seconda liquidazione del suo passato” (W.G. Sebald), a Kaliningrad il passato in forma di rovina era ancora presente. I sovietici parevano averlo conservato come monito nel cuore stesso della città, perché fosse visibile. Certo non a tutti, data l’irraggiungibilità della zona – ma che almeno qualcuno vedesse. E Brodskij vide:

Se mi guardo alle spalle, posso ancora dire che siamo partiti da un luogo vuoto, no, meglio, da un luogo spaventosamente svuotato, e che intuitivamente ancor prima che consciamente, aspiravamo per l’appunto a ricreare l’effetto di una continuità della cultura, a ripristinare le sue forme e i suoi tropi, a colmare le sue poche parvenze superstiti, spesso totalmente compromesse, di contenuti nuovi, contemporanei, o che almeno ci sembravano tali.

Il Palazzo dei Soviet di Kaliningrad

Nel discorso di accettazione del premio Nobel che il poeta pronuncerà a Stoccolma nemmeno vent’anni più tardi riaffiora l’immagine lontana di Kaliningrad, “luogo svuotato” e perturbante per un’intera generazione. Per quanto inquietanti a vedersi, le rovine della città tedesca erano la testimonianza che, un tempo, era esistito anche altro rispetto all’ordine soffocante della società socialista. Rammentando la caducità di tutte le cose, esse costituivano paradossalmente uno spazio di libertà, poiché smentivano l’ottimismo forzato della narrazione utopista. E, al contempo, nell’immaginazione dell’intellettuale ribelle, prefiguravano il momento futuro – in realtà, neppure tanto distante – in cui anche della civiltà sovietica non sarebbero rimaste che rovine. D’altronde, l’aveva già detto Diderot: “posiamo lo sguardo sui ruderi di un arco di trionfo, di un portico, di una piramide, di un tempio e riveniamo su noi stessi. Anticipiamo le devastazioni del tempo e la nostra fantasia abbatte gli stessi edifici che abitiamo”.

Alla fine degli anni Cinquanta Venclova è di leva a Černogorsk, l’ex Insternburg. Presta servizio per un mese, poi scappa e s’imbosca a Kaliningrad tra le macerie.

Da lì nel 1968 Brodskij invia una Cartolina all’amico. In questi versi non esistono più né Königsberg né Kaliningrad: la città distrutta è ridotta alla sua sola iniziale e si staglia all’orizzonte, agitando le braccia di una lettera K:

Cartolina dalla città di K.

A Tomas Venclova

Rovine: trionfo dell’ossigeno
e del tempo. Un novissimo Archimede
potrebbe aggiungere all’antica legge
che un corpo, piantato nello spazio,
dallo spazio è soppiantato.

L’acqua
frantuma in uno specchio nuvoloso
i ruderi del Castello; ora quello dovrebbe
udire le profezie del fiume, meglio
che nei giorni arroganti
in cui il Maestro lo edificava.

Qualcuno
vaga tra le rovine, rivanga
il fogliame dell’anno scorso. Il vento,
figliol prodigo, è tornato alla casa paterna
e di colpo riceve tutte le lettere.

Con il riferimento inequivocabile al Castello – che, per di più, pochissimi mesi dopo verrà abbattuto per far posto al Palazzo dei Soviet – la Cartolina dedicata a Venclova inserisce K. (Königsberg + Kaliningrad) in una linea nobile della poesia europea: quella degli epitaffi a Roma. Elemento comune a tutti questi componimenti è la contrapposizione tra le vestigia del passato illustre di Roma e l’unico dato che permane intatto nel presente, sebbene a prima vista possa sembrare il più effimero e transeunte di tutti: le acque del Tevere.

Sostituendo a quest’ultimo il fiume Pregel, Brodskij fa della città di K. un simbolo universale e sovratemporale dell’inconsistenza delle ambizioni umane. Riflettendosi nelle onde del Pregel – ovvero nello specchio del tempo, poiché per Brodskij l’acqua è “forma condensata del Tempo” – i ruderi del Castello cessano di essere soltanto macerie e si trasformano in rovine. Non sono più la testimonianza di una distruzione recente – il segno tangibile della “follia della Storia”, come dirà Marc Augé – ma esperienza del tempo puro, estrapolato dagli eventi storici. Una forza che erode e consuma qualsiasi manufatto umano, rendendolo sempre più indistinguibile dalla Natura. Per cui chiedersi di che cosa le rovine di K. siano i resti è del tutto irrilevante: Brodskij non è più in grado di estrarle dallo stratificarsi di immagini e di riferimenti culturali che hanno evocato in lui. (…) Come per tutti i poeti, il reale in sé per lui non conta nulla. Proprio per questo la sua città di K. emerge dalla superficie cangiante dell’acqua con sembianze sempre nuove: ora le onde lasciano affiorare il volto della donna amata e, insieme, i contorni della città natale, Leningrado, anch’essa edificata in riva al Baltico; ora il Pregel riflette un paesaggio di rovine, richiamando alla mente nientemeno che la Città eterna.

Prima che in Cartolina, la sovrapposizione con Roma si era già delineata in Einem alten Architekten in Rom, una lunga poesia composta in esilio nel 1964 e ribattezzata dagli amici del poeta semplicemente Königsberg. Qui i contorni reali di Kaliningrad sfumano per lasciar spazio all’immagine puramente mentale di Roma caduta in mano ai barbari. Brodskij sogna di percorrere in carrozza le vie semidistrutte della città fino a raggiungere un luogo assai vago, ma identificabile con le rovine della cattedrale e la tomba di Kant. Quella che emerge però è una veduta da capriccio settecentesco, ideata accostando elementi reali ad altri fantastici, arcaici, schierati esclusivamente in virtù della loro eufonia:

Acanti, nimbi, colombi e colombe,
atlanti, ninfe, cupidi e leoni
pudichi celano dietro la schiena i moncherini.

A completare il quadro non manca neppure una capra, intenta a fissare la vegetazione che divora le macerie, mentre un “archeologo in erba” raccoglie cocci nel cappuccio della giubba – forse un riflesso dei tanti bambini reali che a Kaliningrad giocavano per strada con i vecchi mattoni tedeschi? I confini tra città e campagna si stemperano, la natura si appropria delle architetture cadute in rovina, e non è un caso che la presenza di Königsberg persista unicamente nel cinguettio degli uccelli o nel fruscio delle foglie, ovvero in quegli elementi naturali sempre uguali a sé stessi che trascendono le alterne vicende umane. A Kaliningrad solo gli alberi sussurrano qualcosa in tedesco:

Cik. Ich liebe dich.
Cik, cik, cirip. Cik-cik. Tu guarderai in alto,
e in forza della tristezza o, meglio, dell’abitudine,
in mezzo ai rami sottili vedrai Königsberg.

La percezione uditiva istiga la visione, la realtà si rivela allo sguardo solo dopo essersi manifestata come suono, sentire è indispensabile per vedere. Il mondo è una trama fittissima di assonanze e il compito del poeta consiste nell’udire giustamente, scriveva Marina Cvetaeva. Forse era a lei che pensava Brodskij, quando si chiedeva: “Perché un uccellino non dovrebbe chiamarsi Caucaso, Roma, Königsberg, eh? / Quando tutt’intorno ci sono solamente mattoni e ghiaia, /gli oggetti non esistono più, ma solo le parole. / Ma non ci sono labbra. E risuona il cinguettio”.

Malgrado la cacciata di coloro per cui il tedesco era la lingua madre, Brodskij vuole vedere a tutti i costi gli ex abitanti di Königsberg a Kaliningrad. E alla fine ci riesce, grazie al canto di un uccellino.

A sua volta Venclova risponderà all’amico, con un’altra Cartolina da K., inviata esattamente agli albori del nuovo millennio, nel 2000. Brodskij è morto da quattro anni e nella Kaliningrad post-sovietica ogni traccia del passato tedesco sembra essersi dileguata per sempre tra il gas di scappamento delle Toyota e il monossido di un quartiere biancastro, fitto di caseggiati tutti uguali. “I caratteri gotici / son rimasti solo nel fogliame”; più in basso soltanto il tracciato di alcune vie e le rotaie del tram parlano di Königsberg:

Nuova cartolina dalla città di K.

Tu dici: se gli uomini reclamano vendetta,
per le città assassinate diventa subito amaro,
si ripaga con stizza e alterchi melmosi.
Esse tutto perdonano. I tramvai tintinnano
nel corso dove soltanto rotaie e fondamenta
ricordano un cielo che piove a schegge.

Persino allorché il mondo si fa polvere,
non mutano le rotte dei vagoni né i dettagli
minuti della rete viaria. Ma dietro l’angolo
sbiancano lastre di cemento e il parco
s’arrende all’asfalto. Le volte della cattedrale
pregano Iddio per una morte lieve.

Uno stelo d’artemisia spunta dal cemento.
Muri graffiati occultano il giallo
soprabito dell’estraneo e qualche ruvida
folata incontra un ostacolo insignificante:
quel corpo mortale, cui capitò d’essere
in questo giorno piovoso in un paese straniero.

[…]

Non nasce la parola (forse sono solo brandelli).
Finché presso a parallelepipedi agglutinati
apparirà l’alba appiccicosa del continente,
il sogno, avvolti i corpi come il vento,
rotolerà per la città dove il tempo ha vinto
e perfino perdita più non v’è.

Notte fonda. Scheggia, era, costellazione
inarcano la latta. Nel feroce presente
sull’orlo di lande ormai senza nome
come in un nascondiglio attendiamo il mattino,
senza più vederci l’un l’altro,
senza intendere se siamo noi o altri.

***

Le traduzioni dal russo delle poesie di Iosif Brodskij sono dell’autrice, mentre quella dal lituano della poesia Naujas atvirukas iš K. miesto (Nuova cartolina dalla città di K.) di Tomas Venclova è di Pietro U. Dini. L’autrice ringrazia sentitamente Tomas Venclova per l’incontro a Vilnius e la conversazione su Iosif Brodskij.

Buena Vista Social : Eugenio Montale

4
Laura Papi, Eugenio Montale. Foto di Giorgio Cipriani

Con questa magnifica poesia al passo del giorno inauguro una nuova rubrica, Buena Vista Social. Vi saranno pubblicate le “cose belle” trovate sui Social a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Laura Papi, Eugenio Montale. Foto di Giorgio Cipriani

Poesia scritta da Eusebio (E. Montale) per mia zia Laura.

Dominique Papi via Facebook

Il primo gennaio

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.


So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.