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Brevi discorsi

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di Anne Carson

traduzione di Marilena Renda

 

Introduzione

Una mattina presto le parole vennero a mancare. Prima, le parole non erano. I fatti erano, le facce erano. In una buona storia, Aristotele ci dice che tutto ciò che accade è spinto da qualcos’altro. Tre vecchie sono chine nei campi. A che serve interrogarci? dissero. Ben presto fu chiaro che esse sapevano tutto ciò che c’era da sapere sui campi innevati, i germogli verdi e blu e la pianta chiamata “audacia”, che i poeti scambiano per viola. Cominciai a ricopiare tutto ciò che veniva detto. La punteggiatura costruisce gradualmente un istante di natura, senza la noia di una storia. Le do enfasi. Farò qualunque cosa per evitare la noia. È il compito di una vita. Non puoi mai sapere abbastanza, mai lavorare abbastanza, mai usare gli infiniti e i participi in modo abbastanza strano, mai ostacolare abbastanza duramente il movimento, mai lasciare la mente abbastanza velocemente.

 

Un pensare per campi. Divinazione e Sincronicità in Marie-Louise von Franz

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di Chiara Babuin

[con un estratto dal libro]

 

 

Marie-Louise von Franz è stata una delle più importanti e prolifiche figure della psicologia analitica. Fedele allieva e collaboratrice di Carl Gustav Jung, von Franz è conosciuta soprattutto per aver intrecciato i suoi studi di lingua e filologia classica alla psicologia, generando diverse opere sulla simbologia archetipica della fiaba, quest’ultima intesa junghianamente come l’espressione più pura dell’inconscio collettivo.

Di fatto, il tratto forse più caratteristico della psicanalista svizzera è il suo eclettismo, che nella sua vita le ha permesso di trattare moltissimi temi.
Proprio in questi giorni, grazie a Edizioni Tlon, è uscito uno dei testi più affascinanti della sua vasta ricerca psicanalitca e filosofica. Stiamo parlando di Divinazione e Sincronicità: psicologia delle coincidenze significative, che si presenta come una raccolta di lezioni, tenute dalla dottoressa von Franz, al C. G. Jung Institute di Zurigo, nel 1969.

La nuova traduzione di Nicola Bonimelli sin dal titolo rende giustizia al tema cardine del libro, cioè quelle “coincidenze significative”, tratto caratteristico dei sistemi di divinazione (come l’IChing e i Tarocchi), che fanno storcere il naso agli scettici e, spesso, ai matematici.

Ma andiamo con ordine. “…prima di procedere nei dettagli legati ai problemi della divinazione, dobbiamo ricordare ciò che Jung ha detto della sincronicità“, puntualizza la psicologa proprio all’inizio del libro. Che cos’è dunque la sincronicità? È una particolare concezione del tempo, introdotta nel mondo occidentale da Jung, mentre stava studiando l’I Ching. Il Libro dei Mutamenti, il testo oracolare cinese.

“Il pensiero sincronico, che in Cina è il modo classico di pensare, è un pensare per campi, per così dire.

Nella filosofia cinese questo pensiero si è sviluppato e articolato molto più che nelle altre civiltà; lì la domanda non è perché sia accaduto qualcosa, o quale fattore abbia causato un certo effetto, ma: quali eventi amano accadere insieme, in un modo significativo e nello stesso momento? I cinesi si chiedono sempre: “Cosa tende ad accadere insieme nello stesso tempo?”. Perciò il centro del loro concetto di campo è un istante temporale in cui sono stretti gli eventi a, b, c, d, e così via. […] il pensiero sincronico può essere considerato un campo di pensiero, il cui centro è il tempo.

Scrive von Franz, chiosando Jung, che nella sua celebre introduzione all’ I Ching del 1949, definì la sincronicità come “un concetto che formula un punto di vista diametralmente opposto a quello causale”.

Si hanno dunque due concezioni temporali: quella causale, in cui i fatti si manifestano nella realtà secondo il rapporto di causa-effetto, cioè in un prima e un dopo (pensiero occidentale); e la concezione sincronica in cui un evento si manifesta grazie alla contingenza acausale di fatti oggettivi, indipendenti tra loro. In poche parole: il pensiero occidentale si basa sul concetto di causalità, mentre quello cinese su quello casualità.

Da questi due pensieri, dice e dimostra von Franz in Divinazione e Sincronicità, si determinano anche due visioni del mondo diverse. Ed è in questa fase che la studiosa svizzera chiama in causa la scienza e i matematici del suo tempo argomentando come la loro disciplina non potrà mai cogliere la verità delle cose, poiché nell’approccio scientifico il caso, l’accidente è “una scocciatura” che tentano in tutti i modi di debellare e/o ignorare. La loro iper razionalizzazione del reale è una via fallimentare, perché se i loro sistemi matematici sono volti a eliminare costantemente la particella del caso, significa che questa costante è l’essenza stessa della realtà.

“È evidente che sono due approcci del tutto complementari, volendo utilizzare il linguaggio della scienza contemporanea. Gli esperimenti eliminano il caso, l’oracolo lo mette al centro; l’esperimento si basa sulla ripetizione, l’oracolo si basa su un unico atto. Il primo si basa sul calcolo delle probabilità, il secondo si serve del numero unico e individuale per ottenere informazioni.”, conclude costruttivamente la psicologa.

Oltre a dissertare sui limiti del metodo scientifico, von Franz in Divinazione e Sincronicità parla diffusamente di numeri naturali e di come la capacità dell’uomo di fare conoscenza del mondo tramite la misura (e quindi i numeri), abbia etimologicamente a che fare con la narrazione del mondo stesso “in tedesco la parola che significa «raccontare» è erzählen, che deriva da Zahl, numero. Erzählen è «enumerare» immagini archetipiche. In francese «raccontare» è raconter, affine a compter, contare enumerare; Nora Mindell mi ha segnalato che, in cinese, la parola «enumerare», Suan, vuol dire contare il chi, cioè l’origine, del lai, cioè contare l’origine di ciò che accadrà, di ciò che sta per accadere.”

E anche l’italiano si allinea a questo legame: la parola cunto in napoletano designa sia il racconto, che le scritture contabili di registrazione delle operazioni economiche.

E ancora, nel libro, la brillante allieva di Jung parla di fiabe, archetipi, oracoli africani e miti Maya che avevano a che fare con la sincronicità. Insomma, von Franz pare suggerire che “tutto ciò che noi chiamiamo tempo sia un’idea archetipica che non ha ancora raggiunto propriamente la coscienza in noi. Non sappiamo ancora che cosa sia il tempo e sembra che sia venuto il momento in cui l’archetipo del concetto di tempo si avvicina alla soglia della coscienza.”

Divinazione e Sincronicità – piscologia delle coincidenze significative è un saggio di notevole importanza per la comprensione di uno degli aspetti più complessi e illuminanti della ricerca junghiana. Il tempo ha a che fare con la nostra origine e il nostro posto nel mondo. Studiarlo e conoscerlo è parte integrante e necessaria di un possibile percorso di autoconoscenza

 

 

Estratto da

Lezione 5Unus mundus

 

“Mandala of Auspicious Beginnings,” in Chibetto “mandara” sh usei (Tibetan Mandalas: The Ngor Collection).

 

Nel suo scritto sulla sincronicità Jung sostiene che, poiché nell’evento sincronico il regno fisico e quello psichico coincidono, dev’esserci da qualche parte una realtà unitaria dei due mondi, alla quale egli diede il nome latino di unus mundus, uno o unico mondo, un concetto già presente nel pensiero di alcuni filosofi medioevali. Jung prosegue dicendo che non siamo in grado di visualizzare questo mondo e che trascende completamente la nostra capacità di cogliere la realtà in modo cosciente. Possiamo solo dedurre o supporre che vi sia da qualche parte una tale realtà, una realtà psicofisica, potremmo dire, che si rivela sporadicamente negli eventi sincronici. In seguito, nel Mysterium coniunctionis, egli affermò che il mandala è l’equivalente psichico interiore dell’unus mundus.

Ciò significa, come sapete, che il mandala rappresenta un’unità ultima di realtà interiore ed esteriore. Indica un contenuto psichico trascendentale, che possiamo afferrare solo i modo indiretto, simbolicamente. Le varie forme del mandala sembrano indicare una simile unità. Gli eventi sincronici sono l’equivalente parapsicologico dell’unus mundus e anch’essi indicano quella stessa unità dell’universo psichico e fisico. Perciò non sorprende di trovare nella storia combinazioni di questi due motivi, del mandala e degli antichi tentativi divinatori per afferrare la sincronicità: io chiamo questi mandala divinatori. Ci sono molte tecniche divinatorie che si servono di un mandala: le più note sono il tema natale e i transiti, in astrologia. Vi ho già parlato dei due ordini del mondo che i cinesi riportavano su due tavolette, che poi facevano ruotare in senso contrario a scopo divinatorio. Nell’antichità troviamo molti altri mandala del genere: per esempio, le cosiddette “sfere divinatorie” della medicina antica. Il medico prendeva in considerazione l’età del paziente, il giorno del mese e la posizione della luna al momento in cui si era ammalato e faceva ruotare tali informazioni su un mandala matematico fino a ottenere una prognosi. Se il risultato ricadeva sulla metà inferiore della sfera, il paziente era destinato a morire; se cadeva sulla metà superiore, la prognosi era positiva.

Tali cerchi o sfere vanivano usati anche per i fini divinatori più generali: per esempio, se uno schiavo era fuggito, si poteva interrogare quel tipo di oracolo per sapere se sarebbe tornato, se sarebbe stato ritrovato, oppure se era perduto per sempre. Il metodo era lo stesso: si prendeva l’età dello schiavo, il giorno in cui era fuggito e alcuni altri numeri, che venivano riportati sulle sfere e, a seconda del risultato, si riteneva di poter prevedere l’esito della circostanza.

A ogni modo, queste tecniche piuttosto assurde mostrano che nella mente di coloro che le inventarono era presente, sullo sfondo, l’idea che la possibile conoscenza sugli eventi fosse legata all’unus mundus; perciò la divinazione prendeva la forma di un mandala.

La cosa più notevole è che, quando si usava un man- dala a fini divinatori, si trattava spesso di strutture costituite da un doppio mandala: cioè, in generale, di due ruote sovrapposte, una, che era mantenuta fissa, per un aspetto della realtà, e un’altra, che veniva ruotata, per un aspetto ulteriore.

In Cina il doppio mandala era costituito, come ho già detto, dal Vecchio Ordine Celeste, una certa disposizione dei sessantaquattro esagrammi dell’I Ching, e dal Giovane Ordine Celeste, che conteneva una diversa disposizione degli stessi trigrammi ed esagrammi. Nel Vecchio Ordine Celeste non vi sono processi energetici temporali, bensì una sorta di dinamismo in equilibrio, mentre il Giovane Ordine Celeste è un processo energetico ciclico.

Jung, nel suo scritto sulla sincronicità, pervenne anche alla conclusione che gli eventi sincronici non sono solo sporadici accadimenti privi di ordine. Alla fine dell’opera egli suggerisce l’ipotesi che gli eventi sincronici siano fenomeni casuali di ciò che egli chiama «ordinamento acausale». In altre parole, possiamo supporre che nella realtà psichica, così come nella realtà fisica vi sia una specie di ordine atemporale costante e che gli eventi sincronici ricadano nell’ambito di quest’ordine, di cui sono singole attualizzazioni sporadiche.

Come esempio di ordine acausale nel mondo fisico, Jung cita il decadimento radioattivo degli atomi. Egli lo chiama acausale perché non è possibile spiegare in modo causale il motivo per cui esso debba avvenire in un certo ordine numerico piuttosto che in un altro. È, per così dire, una storia che è semplicemente così com’è. Come esempio di ordine acausale nel mondo psichico, Jung rimanda alle proprietà degli interi naturali. Per esempio, non possiamo spiegare in modo causale il fatto che alcuni interi siano numeri primi, né il fatto che formino precisamente la specifica sequenza che formano: anche questo è un dato che è semplicemente così com’è, irriducibile a una causa. Domande come “perché?” o “da dove proviene?” sono irrilevanti in simili contesti; possiamo solo dire che le cose stanno così.

La palude dei fuochi erranti

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di Edoardo Zambelli

Eraldo Baldini, La palude dei fuochi erranti, Rizzoli, 2019, 224 pagine

Però una cosa ve la dico: se ci sono ombre che vi perseguitano e vi intimoriscono non è perché siete sventurato, ma solo perché siete fragile, anche se cercate di dimostrare il contrario. Il lupo, sappiatelo, non attacca il cervo più grasso o pi ù sfortunato, ma quello più debole.”

Non c’è alcun lupo che mi minacci.”

Se non c’è, ci sarà presto. Non vi accorgete che vi sta già tenendo d’occhio e seguendo?”

Il nuovo libro di Eraldo Baldini, La palude dei fuochi erranti, si apre in un giorno di Novembre, con la scoperta di una grande fossa comune, poco distante da un’abbazia. L’anno è il 1630, il luogo è Lancimago, un immaginario paesino a nord di Ravenna, sperduto in un paesaggio di paludi e campi. Nel nord Italia si sta espandendo l’epidemia di peste, e per evitarne il dilagare anche in Romagna, monsignor Diotallevi viene inviato in quelle zone per allestire i cordoni sanitari. Da questa situazione iniziale il racconto si allarga, accogliendo dentro di sé un succedersi di eventi misteriosi e inquietanti: fuochi che appaiono e scompaiono nei campi, untori che si aggirano nella boscaglia, la cattura di una strega, animali che scompaiono, tutti sintomi (forse) di una maledizione che ha colpito l’abbazia e i territori circostanti.

Monsignor Diotallevi si troverà quindi a dover fare i conti con una doppia minaccia: una esterna, la peste, e una interna, che ha a che fare con gli accadimenti di Lancimago. Altri personaggi si muovono nel libro – lo scienziato Zecchini, il conte Cappelli, l’abate, frate Orso -, e ognuno pare portare con sé un segreto, qualcosa da nascondere. Molto di quello che accade potrebbe avere a che fare con qualcosa successo molti anni addietro, un passato che d’improvviso sembra essere stato disseppellito assieme ai corpi trovati nella fossa comune. O forse no? Ecco, il fascino del libro sta proprio nel continuo stare in bilico tra realtà e tentazione del meraviglioso. A questo proposito è interessante la scelta dell’autore di fornire un triplice sguardo sugli eventi, mettendo a confronto la visione scientifica di Francesco Zecchini, la superstizione del conte Cappelli (e assieme a lui del popolo e buona parte del monastero), e poi quella di monsignor Diotallevi – il vero protagonista della storia – che fa un po’ da mediatore, per così dire, tra le due posizioni, tra lo sguardo laico della scienza e quello timorato della superstizione.

Li avete presi?”

Sì.”

Cosa ne farete ora?”

Abbiamo già fatto quello che ci era stato ordinato”, rispose quello, additando un macchione d’alberi ai piedi dell’argine.

Zecchini avanzò in silenzio, vi si addentrò e li vide.

Un uomo di mezza età e un ragazzo pendevano, impiccati, dai rami di un pioppo.

La narrazione procede per accumulo di suggestioni, al mistero degli eventi si mischia l’incanto di un paesaggio che si popola di nebbie, nevi, presenze sfuggenti – una su tutte Maddalena, la ragazza che vive sui rami di una quercia. Eraldo Baldini si muove sempre in un territorio fuori dal tempo, o che il tempo scalfisce appena. Certe volte, come in Stirpe selvaggia o Terra di nessuno – tanto per citarne un paio, ma andrebbero bene un po’ tutti -, la Storia passa sì in quei mondi, ma lo fa quasi accarezzando i luoghi e le vite dei personaggi che li popolano. La Storia Baldini la guarda nei suoi momenti più dimessi, inquadra la realtà di piccoli borghi, di vite che a stento sanno di essere dentro il passare del tempo. Attinge spessissimo alla tradizione popolare della sua Romagna, costruisce intere trame attorno a usanze, leggende, dicerie di popolo, e crea così quell’ibrido tra fiaba e racconto nero che trova la sua declinazione più precisa ed evidente in Gotico rurale, la raccolta di racconti uscita prima per Frassinelli, nel 2000, e poi riedita da Einaudi nel 2012, ormai un vero e proprio classico della nostra narrativa (di genere e non).

La palude dei fuochi erranti è uno splendido romanzo del mistero – a chiamarlo semplicemente noir mi parrebbe di fargli un torto -, sostenuto da una prosa elegante e immaginifica e da un ritmo perfetto, senza inciampi. A fine narrazione, Baldini ci consegna una verità che, come spesso accade nei suoi libri, ha più a che vedere con l’operato e le trame degli uomini che non con la magia e il soprannaturale.

Ancora una volta Baldini sembra dirci che ci sono luoghi che sono mondi a se stanti, sopravvivono in continuità con un tempo trascorso e dimenticato. E per comprenderli, bisogna guardarli con gli occhi rivolti al passato, un passato in cui il meraviglioso era lo strumento privilegiato, quello più efficace, per spiegare le leggi del mondo. Ecco, questo, io credo, è anche il modo migliore per guardare i libri di Eraldo Baldini.

La versione di Alessio

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di Stefano Zangrando

 

C’è una forma del male che nasce nel linguaggio, ed è quando quest’ultimo abdica alla sua funzione più necessaria e labile: la condivisione della verità. Dell’uso distorto del concetto di fake news si parla già abbastanza nel dibattito pubblico, ma è nel privato che il “tutto è relativo” si presta all’edificazione dell’incubo.
 

Alessio, laureato quarantenne, separato e con un figlio, conosce Gaia, di poco più giovane, nubile e senza figli, in una chat per incontri, dove l’esposizione di sé come merce-immagine è al tempo stesso superficie di proiezione dei bisogni e desideri di ciascuno. Dopo il “match” è lei a farsi viva per prima. Chattano quanto basta a ritenere, l’uno riguardo all’altra, di non essere due infoiati alla mera ricerca di un coito. Si scambiano i numeri di telefono e proseguono fuori da lì. Emerge presto qualche problema di comunicazione, di comprensione reciproca, ma lo attribuiscono entrambi allo strumento: finché il linguaggio è solo scritto, i margini di fraintendimento restano troppo ampi. Occorre vedersi, muoversi, respirarsi. Concordano un primo incontro, lei propone casa propria. Alessio trova una ragazza sorridente ed estroversa, non avverte quanto sia agitata, ma nota fin da subito brevi, improvvisi, inspiegabili accessi di rabbia o di gelo. Ci passa sopra, trova che Gaia sia bella, glielo dice, le fa un’avance, lei dice: “Sì”. Finiscono a letto, dove subito lei, in lacrime, gli fa confidenze su di sé e sul suo passato – abusi, obesità, una laurea mancata, non può avere figli – che a lui paiono eccessive per un primo incontro. O Alessio è già così speciale ai suoi occhi da meritarsele? Per non parlare dei complimenti che lei gli rivolge dopo il sesso in un tono incantato. Alessio ne è lusingato.
 
La frequentazione prosegue, soprattutto in chat, e i problemi di comunicazione aumentano. Alessio e Gaia sembrano spesso non capirsi, o interpretarsi in modo diverso dall’intenzione di ognuno. Quando accade, lei diventa aggressiva e lo attira in scambi verbali via via più volgari e rabbiosi. Una volta, dopo un climax di attacchi reciproci, lo blocca in chat e sul telefono per una notte. Quando si risentono, Alessio cerca di mantenere la calma, prova a suggerirle che non è colpa di nessuno, ma non è facile. Tanto più che a lei quei momenti passano quasi subito – salvo poi ripetersi di lì a poco, con Alessio che, nello sforzo di trovare un linguaggio comune, torna a chiederle di affrontare insieme questa difficoltà. Meglio incontrarsi di persona, concordano. Si vedono una seconda volta, finiscono di nuovo a letto, ma stavolta ai complimenti subentra uno strano registro: Gaia suona sincera, schietta, ma pare non poter fare a meno di criticare Alessio, trovando insufficiente o ridicolo molto di quel che lui dice o fa. Lui ne è spiazzato, non sa come prenderla, anche perché lei alterna questa sorta di disprezzo a pur sporadici momenti di passione travolgente. Così Alessio soprassiede, dopotutto nessuno è perfetto, potrebbe essere un’occasione per cambiare, migliorarsi, e poi l’intensità in amore è impagabile – perché è amore quello che sta nascendo tra di loro, no? Solo quell’aggressività così frequente, e il modo che ha Gaia di scagionarsi e rispedire ogni colpa al mittente quando Alessio si dichiara ferito, lo inducono a una certa cautela. Che sia solo una questione d’incompatibilità?
 
Continuano a scriversi. Non si vedono molto, un po’ perché lei a volte gli propone un incontro, poi però disdice all’ultimo momento senza scuse né motivazioni che ad Alessio non appaiano poco plausibili; un po’ perché lui è spesso fuori regione, a volte con il figlio, e questo a lei non piace. Se ne lamenta, lo vorrebbe più presente, ma anche più disposto a comprendere la sua volubilità: lei è in un periodo difficile, ha problemi di lavoro, soffre d’ansia e mal di stomaco. Un giorno sembra proprio sull’orlo di un baratro interiore, e il modo in cui glielo spiega in un messaggio, stavolta vocale, fa sentire Alessio importante, proprio come lui vuol far sentire lei manifestando vicinanza, offrendole il supporto che può, proponendole una vacanza con lui e suo figlio. La voce non mente, si dice. Ma dura poco, un giorno o due e di nuovo la versione cambia: Gaia sta meglio, riappare l’aggressività, quel che lui dice o fa per lei non le basta mai o è sbagliato, e adesso pare preferisca respingerlo che accoglierlo. Poi gli dice: “Io tuo figlio non lo vorrò mai vedere”. Alessio ci rimane male, non capisce, tuttavia ci passa sopra e si mette seriamente in discussione: che abbia ragione lei? Sono davvero, come lei dice, così poco empatico, così incapace di capirla?
 
Poi si accorge di una cosa: a ogni critica o attacco di Gaia gli sembra di reagire in modo sempre più aggressivo, assumendo lo stesso registro di lei, diventando altrettanto instabile. Il suo linguaggio sta cambiando e lui con esso, gli sembra. Si sente attratto in una mutazione, in balia di un universo indecifrabile in cui non sa come muoversi. Diventa ansioso, si scopre geloso, perde autostima, dorme male. Una volta anche lui blocca lei, non ne può più delle sue stilettate. Poi però la sblocca quasi subito, gli pare un gesto autoritario, inutilmente violento e puerile. Ma allora perché l’ha fatto? Che stia diventando paranoico? Gaia sfugge implacabilmente alla sua fame di chiarezza come al suo bisogno di amare ed essere amato. L’inafferrabilità delle esternazioni di Gaia, pronte a rovesciarsi in breve tempo nel loro contrario, e dei suoi comportamenti, per i quali lei trova giustificazioni sempre diverse ma in sé coerenti, generano in lui un’insicurezza e una paura mai provate. Dov’è la verità? C’è qualcosa di autentico in quello che sta vivendo, o cos’è questa sensazione crescente e inquietante che sia tutto un sistema di segni adulterati? Matrix in confronto è un idillio, si dice.
 
Sempre più immerso in una costante vertigine interpretativa, Alessio percepisce in Gaia un grumo di dolore irredimibile, ne è attratto e spaventato al tempo stesso, teme le sue reazioni, la respinge e la cerca. Lo stesso sembra fare lei, incapace tanto di riavvicinarlo quanto di distaccarsene. Pare lei stessa vittima dell’instabilità che mina la sua comunicazione rendendola artificiosa, sempre pronta a rideclinarsi a seconda del suo stato emotivo, sempre sul punto di svelare un’assenza di fondamento. In che modo, inizia a chiedersi Alessio, la sofferenza può influire sul linguaggio, o sul modo di relazionarsi con gli altri? E che cos’è, se non è empatia, il processo che lo sta attirando nel diabolico ordigno semantico che è il linguaggio di Gaia? Non sospettava poi di poter diventare lui stesso tanto duro con una persona che credeva di amare: quanto c’entra Gaia e quanto invece c’è di suo, di remoto e rimosso, in questa degenerazione? Che si fa ancora più estrema quando Gaia pare finalmente allontanarsi, seguendo le preghiere di Alessio: dovrebbe esserne sollevato, invece piomba in qualcosa che somiglia molto ad una crisi d’astinenza – da una droga capace di portarti in paradiso per qualche minuto, ma che per il resto ti abbandona a una pena sempre più distruttiva.
 
Così le scrive ancora. Che il legame perduri come conflitto, purché non si spezzi del tutto: ogni messaggio di Gaia, per quanto incongruo, è una dose di calmante. Ma nel giro di poco la violenza è di nuovo troppa. Perché, si chiede allora Alessio in notti insonni e cupe, non riesco a lasciarla perdere? Non è solo l’astinenza, né solo la brama che ha lui di capire, di penetrare il segreto di Gaia. Il fatto è che neanche lei si distacca del tutto. Quando si risentono ha un tono pacificato, persino sereno, ad Alessio non par vero, sembrano finalmente riuscire a parlarsi e concordare una fine conciliante. Ma non dura. Quanto più lui esprime il desiderio di rivederla, tanto più il registro di lei si rifà sprezzante, sottilmente denigratorio. Così ora ad Alessio, quando è da solo, viene spesso da piangere, di un dolore che non hai mai conosciuto prima, mentre l’astinenza lo induce a cercarla di nuovo. Un giorno finalmente, dopo che Alessio ha manifestato non richiesto il suo malessere, Gaia gli lascia un messaggio vocale in cui, con voce alterata che a lui fa venire in mente Linda Blair posseduta ne L’esorcista, lo invita a “mettere in standby i suoi cazzo di sentimenti” e lasciarla in pace. Alessio sulle prime non si accorge che quello è il colpo di grazia, ma coglie finalmente un messaggio univoco, chiaro, e lo asseconda quasi senza fatica. Poco dopo cade in una prostrazione in cui si mescolano lutto e terrore. La sua vita quotidiana è compromessa.
 
Qualche tempo dopo, entrato in psicoterapia, Alessio si sentirà dire di essersi imbattuto in una donna con un disturbo della personalità. Di esserne stato, per le proprie caratteristiche, una preda ideale. Di aver accolto in sé, nel momento in cui Gaia si è presentata come vittima della propria storia, il ruolo di salvatore, secondo un triangolo interpretativo ben noto agli specialisti, salvo poi suscitare in lei con il proprio slancio, non meno disfunzionale di quello con cui Gaia si è nutrita di lui all’inizio, una reazione da carnefice che lo ha trasformato in vittima. Questo tipo di persone, si sentirà dire, boicottano presto ogni relazione, soprattutto d’amore, e lo fanno guidate dalle parti scisse del Sé che si avvicendano dentro di loro – e che prendono la parola separatamente l’una dall’altra. Alessio capirà così di essersi abbandonato, per via di carenze pregresse su cui quella persona ha fatto intuitivamente leva, a una costruzione fittizia: la costruzione cangiante e provvisoria che Gaia fa e rifà in continuazione della propria esistenza per colmare una voragine affettiva che ha origini traumatiche e lontane. Sono persone “in credito col mondo”, gli spiegherà la psicologa, e il loro linguaggio è interamente al servizio di questa loro impalcatura fragilissima. Non al servizio della verità né di una menzogna in malafede, ma di una manipolazione ininterrotta di sé e dell’altro per non precipitare nel vuoto. Lo stesso vuoto in cui attirano i loro partner.
 
Alessio se ne sta tirando fuori un po’ alla volta, ripensa ormai a Gaia con affetto rappezzato, e sa che d’ora in poi dovrà cercare altrove la soddisfazione dei propri desideri. E trovare anzitutto in se stesso la soluzione ai propri bisogni irrisolti. Ma la sua fiducia nel linguaggio non è più quella di prima. Per quel poco che ormai ne capisce, lui e la sua psicologa potrebbero anche sbagliarsi.

@fotografia di Mariasole Ariot

Difficoltà di una poesia politica, ossia di una poesia non consolatoria

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di Andrea Inglese

Questo articolo è apparso sul n° 22 della rivista digitale L’Ulisse, numero dedicato a lirica e società, e poesia e politica.

Partecipavo a una lettura collettiva all’Esc di Roma, organizzata se ben ricordo in occasione della presentazione dell’antologia Poeti degli anni Zero curata da Vincenzo Ostuni. Lessi qualche testo dal libro Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato. Dopo le letture ci furono anche degli interventi critici, e ne ricordo uno di Francesco Muzzioli, che reagiva a caldo e si felicitava, tra le altre cose, del “ritorno” di temi sociali, come quello della “disoccupazione”. Naturalmente in quel contesto era inevitabile rischiare questo tipo di malintesi.

La staticità dell’assenza

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di Mariasole Ariot

 

John Cage In a Landscape [1944-45]

 

La distanza che separa il voler essere dall’essere, questa sacca nera stomacale, quando la notte buca il ventre ed esce il buio dalla bocca: si affianca il nero al nero, gli oggetti ricoperti da pelli animali, l’animale che si muove ridendo rannicchiato alla finestra. E’ questo dolore immobile, la staticità dell’assenza, le presenze che gridano la stanza. 

 Una bocca
non è una parola

Si richiamano le certezze antiche, riemergono dal fondale e s’insinuano piano, il cercare estenuati la riproduzione, accoppiarsi col presente per far nascere il passato. E allora dire: basta, e poi ripetere: ancòra.
Tutto il mondo è messo a silenzio, l’urlo degli arti eretti si affianca alle ossa.

Chiedersi perché non finisce e ostinarsi per non farlo finire, mantenere questo occhio spalancato con la sbarra per non dire è un lutto, per non fare un lutto, per piegare il lutto sulle ombre, perché l’ombra che è l’ombra che hai visto e rivisto e ancora rivedi rassicura la tua specie. Allora riposizionare i passi, amputarsi le zampe per tagliare un cordone. Ma un parto non è una nascita.

Le maledizioni, l’usura dei rapporti umani, quando alla voce si risponde con il bianco muto e i denti scheggiati, e la muta non avviene, e cadono i corpi sulle strade affollate : i passanti si fermano a guardare, si dilata la pupilla e poi ricomincia a camminare, un rìvolo di sangue, il respiro di un suono senza suono, il morto lasciato morire.

La solitudine
non è un’assoluzione.

E bruciano soli sulla pelle, si anneriscono le superfici, una superstizione di pochi, quando dicono: la salute, il grembo pieno, un colorito.
Di nuovo tornare, curvare la biografia alla tua domanda, affogare la testa, tappare le buche dei timpani, smetterla di sentire, i granelli nella cornea, questo disabitare il sé reciso, lasciare la decisione a un dolore tra le gambe – e poi strapparsi, e poi tornare, e poi  chiedere: il permesso all’esistenza.

I poeti apartheid: Micol Bez

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Se l’ordine fosse un crimine?

In prigione geografi, genetisti

zoologi, doganieri, genealogisti

classificatori, omofobi, razzisti.

Fuori una danza senza origine.

 

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Come Gorata copriva

di inglese lo tswana, portava

da scuola appuntata

la frase coloniale al petto

«an island is a tract

of land surrounded by water

(and smaller than a continent)».

 

Come il suo orgoglio nato

al portare beato la scienza

ai parenti cui ora vorrebbe

invece dire, forse in tswana,

«I wonder what a lesbian

lobola would look like».

 

****

 

Se volessi, mia amata, prenderti

la mano per entrare all’apartheid

museum, stingerti le unghie

consegnarti il mio sudore e il pianto,

non potrei. Per varcare

 

i corridoi dell’apartheid

devono scioglierci

le dita, insegnare

al loro groviglio riluttante l’ordine

della solitudine.

 

Mi chiedo ora in quali corridoi

di casa lascerei la tua mano

per nascondere il disordine

del nostro desiderio identico

di seni.

Attacco

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di Federica Ruggiero

Un uomo, una donna. Un uomo e una donna? Mi chiedi, tu che mi sei di fronte, tu che mi stai ascoltando e forse non lo hai chiesto, oramai sei in campo, resti, per curiosità, o, chissà, per il gusto di potermi nel caso contraddire. Chissà! Chi sa? Altroché! Altro che cosa?

Un uomo e una donna? Rincalzi, magari alzando il sopracciglio, magari innalzando la curva di intonazione più di quanto non debba già inarcarsi perché io intuisca che mi stai rivolgendo una domanda, e proprio questo me ne fa dubitare – mi fa dubitare che lo sia. La noncurante insistenza con cui metti in dubbio quel che è già chiaro, l’ovvietà di ciò che ho detto e che non avrei bisogno di ripetere. La tua domanda è talmente conforme da destare sospetti, ha un’evidenza che sfiora il flagrante, tanto da far detonare un’esitazione a catena sulla forza illocutiva del tuo enunciato. Se solo levassi lo sguardo dalle macerie, forse vedrei i tuoi capelli a fungo che irradiano il cielo, la tua bocca ancora fumante, o addirittura il compiacimento di chi ha colto nel segno e l’aveva previsto, di chi vuol suscitare non una ricezione, ma una reazione.

Insidiosa, l’eco impregna le pieghe del mio tessuto nervoso, soffia sulle sue braci rendendolo pelle di elefante. Suona come una trappola, la tentazione è di lasciarla cadere, o di lasciarci, anche se sono io stessa ad averla tesa.

È comprensibile che tu lo chieda, se è questo che ti stai chiedendo. Quel che ho detto ha risvegliato in te miriadi di racconti che hai ascoltato o letto, così tanto numerosi e assorbiti che si confondono tra loro, se dovessi elencarne qualcuno in particolare non te ne verrebbero in mente.

La tua domanda. Adesso si tinge di legittima noia. Ma il colore non è questione di materia, ma di radiazioni, non ha nome prima che ci sia un occhio che lo osservi, e forse il mio è daltonico, e la luce che filtra è distorta da un nonsoché, e la sfumatura che si è insinuata potrebbe non aver nulla a che vedere col tuo tono.

C’è insicurezza nella mia voce, so che se ti rispondessi il tremore la tradirebbe, forse l’hai intuita, l’hai già intuita, chissà, lo so – e questo la accresce e mi stringe in un angolo.

Mi interrompo appena in tempo, appena prima della mediocrità, indugio nell’ansia di non aver ancora iniziato, in preamboli miopi per sfuggire al punto cieco che si intravede in lontananza. Co(i)ncatenazioni senza sosta, ricominciando dall’inizio, o forse da prima.

Un uomo e una donna? I tuoi capelli a fungo che irradiano il cielo, la tua bocca fumante, ogni volta che fai un tiro emetti il verso di uno che sta per strozzarsi. O magari un’intonazione esagerata per dar fiato a un flebile stupore. La chiassosa timidezza di chi vorrebbe ritrarsi dalla disputa. Un’espressione indecifrabile e provvisoria, per proscioglierti da accuse di ingenuità, proprio sull’orlo di una reazione, non sapendo se sarebbe conforme alle aspettative.

Continui a pormi una domanda, la domanda, sempre la stessa, tra i cui spazi vuoti se ne nascondono molte altre. O forse non mi parli, o se lo fai, non posso sentirti.

Un uomo e una donna. Con un solo fiato ti ho implicitamente suggerito che è a loro che dovrai prestare attenzione, anche se non sono soli nella scena che sto per descriverti. Ci sono molte più persone, distribuite equamente tra i due sessi senza che si possa rilevare un criterio. Ma non ti ho detto questo, ti sforzi di osservare quella scena come lo stavi facendo prima, ti dà sui nervi sapere che non sarà possibile.

La cosa più frustrante è che ti copro la visuale senza offrirti nulla di meglio. Non stai osservando assolutamente niente, e potrebbe non esserci niente da coprire. Avresti potuto – potresti, non puoi, ma potresti – prendere in molti modi la mia affermazione. Ora sei costretto ad amputare la tua immaginazione, perché non faccio che darti indicazioni, mentre mi affanno a negare le precedenti.

Questo tuo sguardo, da una parte all’altra, fisso sul nulla, mi spinge ad andare ancora oltre e a chiedermi se sia giusto che ti manipoli in questo modo. Rientrare in quei ranghi che avrei voluto scardinare, non essere mai sincera nemmeno quando lo sono.

Iniziare allora un’altra divagazione, o non iniziarla affatto, fermarmi nell’intervallo tra la percezione di un segnale e la trasmissione di un impulso per un’azione, una qualsiasi, dirti qualcosa che non ti ho detto o che forse ti ho detto ma inavvertitamente, o addirittura te lo sto dicendo nel passato, riscrivendo adesso quella scena con questo pensiero, in questo stesso momento in cui ora ti parlo.

Stramazzare sotto una scarica di proiezioni, e invece di costruire scavare. Forse trincee.

 

 

 

 

 

Nietzsche, Klossowski e la risata degli dèi

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di Adriano Ercolani

 

 

Il corpo a corpo di Pierre Klossowski con Friedrich Nietzsche inizia nel 1937, ai tempi gloriosi della rivista Acéphale e trova un decisivo compimento nel saggio del 1969 su Nietzsche e il circolo vizioso.

Come scrive il curatore Giuseppe Girimonti Greco, i due testi ora raccolti da Adelphi con il titolo Nietzsche, il politeismo e la parodia, sono “i primi saggi maturi che Klossowski dedica a un autore destinato a diventare un punto fermo della sua riflessione, ma soprattutto il principale modello ispiratore della sua poetica e dell’insieme della sua produzione, saggistica e letteraria.”.

Si tratta di due saggi di notevole interesse: il primo è Su alcuni temi fondamentali della <<Gaia Scienza>> di Nietzsche, ovvero l’introduzione all’edizione curata da Klossowski del classico nietzscheano nel ’56; il secondo, che dona il titolo alla pubblicazione, è il testo di una straordinaria conferenza tenuta al Collège de Philosophie a Parigi l’anno successivo.

È rivelatore come Klossowski, così prossimo ai risvolti più oscuramente misterici del pensiero nietzscheano, affronti il testo che fa da cerniera nel percorso del filosofo tedesco, ovvero, il libro che, dopo l’inizio della “campagna contro la morale” (come la definirà in Ecce Homo) segnata da Aurora, conduce dalla riflessione “illuminista” di Umano, troppo umano (addirittura dedicato a Voltaire), all’abisso oracolare (e in questo senso sommamente parodico, per restare in tema) di Così parlò Zarathustra.

Come nota Maurizio Ferraris nella sua riflessione su Il Manifesto (https://ilmanifesto.it/nietzsche-soggetto-di-una-ilarotragedia/): “Per ben due volte, nel primo dei due saggi, Klossowski scrive che la Gaia scienza esce vent’anni dopo l’Inattuale sulla storia. Poiché questa risale al 1876, allora la Gaia scienza sarebbe del 1896. Ma come sappiamo è del 1882. Non è un errore di traduzione perché c’è anche nell’originale. Non può essere una svista di Klossowski sia perché lo scrive nella introduzione alla sua traduzione della Gaia scienza, sia perché – fateci caso nella lettura – spende alcune pagine a spiegare come nella Gaia scienza si assista al riemergere carsico di temi antichi, il che per l’appunto ha senso per opere distanti venti, e non sei anni”.

Questo “riemergere carsico”, che forse guida incosciamente la svista citata, è ancora più evidente tra i primi scritti del “filologo” Nietzsche e gli ultimi, sospesi tra piena consapevolezza della propria grandezza e incipiente follia, del profeta dell’Oltreuomo.

Non a caso, Klossowski non può non citare, parlando dell’ultima Considerazione Inattuale del 1876 (“agli antipodi di ogni filosofia della storia derivante da Hegel”), Friedrich Hölderlin, affratellato a Nietzsche dalla “tenace nostalgia” (come dal comune approdo iniziatico alla follia) che è “vera ispiratrice della concezione antihegeliana”: un giorno dovremo dedicarci a una riflessione cruciale sul divergersi antitetico dei destini, sulla meravigliosa e straziante antinomia degli esiti, filosofici ed esistenziali, di cui sono stati protagonisti i due studenti universitari, Hegel ed Hölderlin, cantori innamorati di Eleusi nella loro stanzetta a Tubinga, 48 anni prima che a Röcken nascesse il futuro Dioniso Crocifisso (come egli alternativamente si firmava nei cosiddetti “biglietti della follia” spediti da Torino negli ultimi anni a diverse figure della cultura e della politica).

Non è nemmeno un caso che Klossowski all’inizio della sua introduzione, ponendosi il problema di come forse spetti agli eventi, “la verifica di un pensiero e della sua attualità”, esalti “il carattere illuminativo”e l’ “estatica serenità” de La gaia scienza, proprio nel momento in cui, paradossalmente, la definisce opera  “frutto della più grande solitudine che si possa immaginare”.

Nel testo della conferenza successiva, il “riemergere carsico” dei temi (come i leitmotiv nelle opere dell’amato/odiato Wagner) è mostrato da Klossowski in un crescendo argomentativo vertiginoso, che accompagna il lettore (originariamente l’uditore) a conclusioni ardite quanto convincenti: partendo dal presupposto che “Nietzsche ha sviluppato non una filosofia, bensì (…) delle variazioni su un tema personale”, “in balìa di una rivelazione inesplicabile dell’esistenza che non può esprimersi se non attraverso il canto e l’immagine”, Klossowski, pur non esplicitando, in un certo senso induce a pensare che l’intero percorso nietszcheano sia, da buon discepolo di Eraclito, la ricerca dell’equilibrio tra apollineo e dionisiaco, financo nella folle (siamo sicuri?) identificazione finale con Dioniso e il Crocifisso, se è vero che “i due nomi di Cristo e Dioniso con il loro antagonismo formano un equilibrio”.

Come scrive Antonio D’Alonzo (https://www.esonet.it/News-file-print-sid-780.html): “Per Klossowski la follia di Nietzsche è fondamentale nell’evoluzione storica del pensiero europeo, perché porta a compimento il principio di realtà e il suo referente esistenziale, il principio d’identità. Questa duplice dissoluzione operata da Nietzsche rende possibile l’inizio della parodia, la fine della tragedia e l’inizio della vita come gioco, dove la leggerezza ludica può completare l’oltrepassamento della metafisica.”.

Infatti, Klossowski dichiara apertamente, in un passo cruciale della sua conferenza: “<<Dio è morto>> non significa che la divinità perisce come spiegazione dell’esistenza, bensì che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile scompare dall’orizzonte della coscienza di Nietzsche, il quale a sua volta si confonde con questa scomparsa. Se il concetto di identità si volatilizza, alla coscienza non resta altro, sulle prime, che l’avvento del fortuito”.

Questo ci riconduce al primo, illuminante, appunto di Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire (non diario intimo, ma frammenti di opere destinate idealmente alla pubblicazione), ovvero: “Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io. Tutto è là.”.

Siamo davanti all’intuizione del concetto di “Volontà di Potenza”, in nuce, da parte di un genio prossimo all’agonia, che cerca nel dandysmo una forma radicale di ascesi gnostica (parliamo del 1864, anno dal quale ci perviene un ritratto di un ventenne Nietzsche, pingue e glabro, non ancora tramutato nella fisionomia celeberrima del grande “martellatore baffuto” come lo chiamava Costanzo Preve).

Le prime parole dell’introduzione klossowskiana sono proprio: “Il nome di Nietzsche sembra irrimediabilmente associato al concetto di volontà di potenza: e non tanto al concetto di volontà quanto alla pura e semplice potenza”, così inizia una intelligente e accorata difesa della “denazificazione” del pensatore, quale poi verrà portata a termine dal mirabile lavoro filologico di Colli e Montinari.

Verso il termine della conferenza, invece, Klossowski delinea sempre più nettamente la relazione tra politeismo e parodia, in brani di stupendo nitore: “L’esistenza in quanto eterno ritorno di tutte le cose si produce nelle fisionomie di tanti dèi quante sono le sue possibili esplicitazioni nell’anima degli uomini. Se la volontà aderisce a questo moto perpetuo dell’universo, è innanzitutto la ronda degli dèi che contempla” l’universo, il quale non è altro che, citando un celebre passo dello Zarathustra, “l’eterno sfuggirsi e ritrovarsi di molti dei, come beato contraddirsi, udirsi di nuovo, di nuovo appartenersi di molti dei”.

In questa irriferibile contemplazione del divenire divino, affiora la necessità di sfondare i limiti del linguaggio attraverso la parodia, a svelarne le risibili contraddizioni, a deridere i tentativi della ragione di definire il mistero, quasi a specchiare la risata immortale delle divinità:  “Il riso è qui come la suprema immagine, la suprema manifestazione del divino che riassorbe gli dèi pronunciati e pronuncia gli dèi con un nuovo scoppio di risate; giacché se gli dèi muoiono di questo riso, è da questo riso che prorompe dal fondo dell’intera verità che gli dèi rinascono”.

A questo punto appare centrata la riflessione di Maurice Blanchot che nel saggio, significativamente intitolato Il riso degli dei (in italiano si trova nell’edizione SugarCo de Le leggi dell’Ospitalità, in appendice al romanzo klossowkiano), quando vede nell’opera letteraria di Klossowski agire una forza umoristica non meramente parodica o di derisione, ma che trova nello scoppio della risata “l’obiettivo o il senso ultimo di una teologia”.

Dall’Inno a Demetra al Briccone Divino di Jung e Kerény (segnalo l’articolo di Annamaria Iacuele https://www.atopon.it/il-riso-dono-degli-dei/), tra Ermes e Dioniso, il pensiero torna al poema sacro induista Devi Mahatmyam, in cui la risata della Dea Durga squassa i tre mondi, prima che la vendetta divina compia il massacro dei demoni sopraffattori.

Le macchie indelebili di Philip Roth

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di Stefano Marino

1998, esplode il sexgate: una delle pagine più pruriginose della storia della politica Occidentale.

2000, esce La Macchia Umana, di Philip Roth. Ultimo romanzo di quella parte di produzione dello scrittore statunitense che prenderà il nome di Trilogia Americana.

2019, Camille Paglia, intellettuale, sociologa, lesbica, femminista, diventa oggetto di una petizione sottoscritta da alcuni studenti con l’intento di allontanarla dal ruolo di professoressa all’University of the Arts di Philadelphia, a causa di alcune dichiarazioni della stessa sul MeToo e sui transgender. La petizione chiede che la Paglia “venga sostituita da una persona queer di colore”. Il Preside della facoltà decide di non accogliere le richieste avanzate dagli studenti che hanno firmato la mozione.

Senza entrare nel merito delle opinioni espresse da Camille Paglia, la vicenda in cui è incappata consente di riflettere sulla contemporaneità che pochi e selezionatissimi capolavori della letteratura sanno esprimere in qualsiasi momento storico.

La Macchia Umana è un romanzo che si muove nell’ipocrisia, trasuda ipocrisia, non risparmia nessuno, risaltando le contraddizioni di ogni classe sociale. Fin dal principio, mette in luce tutto il perbenismo di cui era impregnato il sexgate. Il libro inizia nell’estate del 1998, “l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo (…) subentrò (…) il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata (…) ravvivarono la più antica passione collettiva americana (…): l’estasi dell’ipocrisa”. L’America era ghiotta di notizie su Clinton e la Lewinsky, e l’appetito di una nazione sembrava impossibile da saziare, così come la sua voglia di puntare il dito verso dinamiche che sembravano assolutamente estranee alla quotidianità di ogni cittadino: l’adulterio era diventato un qualcosa di alieno alla vita del popolo, le narrazioni di quel periodo lo collegavano a filo diretto con l’elite. In queste prime righe è già addensato ciò che La Macchia Umana sarà per 395 pagine e sono ben evidenti quali siano i nervi che Roth saprà colpire con maniacale precisione e durezza per tutto lo svolgersi narrativo: il sesso, la dabbenaggine, l’ipocrisia, il conformismo, i segreti, le accuse. E la cultura. La cultura che non nobilita, non rende liberi da nessun istinto volgare e basso nel giudicare i propri simili. “Tanta istruzione e non serve a nulla. Nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero”.

Coleman Silk, il protagonista del romanzo, è un accademico progressista, preside di facoltà e professore di letteratura. Dopo poche lezioni dall’inizio del semestre, durante un appello, definisce “spooks” – spettri – due studenti che erano sempre stati assenti nelle sue ore. “Spook”, però, in anni ben più bui di quelli che stava vivendo Silk, veniva anche usato come epiteto razzista nei confronti della comunità afroamericana. Quando emerge che i lassisti studenti sono in realtà di colore, lo scandalo esplode in tutta la sua vastità, lasciando dapprima Silk avvilito e inerme per l’ingiustizia subita, per poi in seguito prorompere in un moto di rivalsa e rabbia che si impadronirà del suo essere, fino a spingerlo a combattere una guerra personale contro tutto e tutti. Una guerra per cui Coleman Silk chiede l’aiuto della personalità locale, lo scrittore Nathan Zuckerman – alter ego di Roth –, una guerra che probabilmente si sarebbe potuta concludere in brevissimo tempo e scagionando l’incolpevole professore se solo non fosse stato lui stesso vittima di inenarrabili ipocrisie e segreti. Perché ne La Macchia Umana tutti sono vittime, ma nessuno è innocente.

Da qui si sviluppa il romanzo, con un turbine di personaggi memorabili e situazioni che sanno costantemente puntare il dito su un’attualità che vent’anni dopo stiamo vivendo. Con un senso di tremendo déjà-vu, si leggono le righe in cui Les Farley – un personaggio sconfitto, violento e con un disturbo da stress post traumatico a causa della guerra in Vietnam – accusa i “professoroni” e gli immigrati di avergli tolto un futuro che pretendeva gli spettasse per diritto di nascita. E ancora Coleman, con i dilemmi su ciò che si può dire e ciò che è meglio tenere per sé: un esercito di suoi colleghi, sicuri che nell’anziano professore non vi fosse il minimo afflato di razzismo, gli faranno capire, senza troppi giri di parole, la non convenienza nello schierarsi dalla sua parte; perché in una università non si può difendere una persona accusata di un crimine così grave, anche se innocente. Ci sono prima le apparenze da mantenere. E poi Delphine Roux, la giovane professoressa francese emigrata negli Stati Uniti e colma di un sentimento di rivalsa intellettuale talmente bruciante da renderla un’antagonista al pari del già citato Farley. Delphine che per invidia e vendetta non esiterà a scagliarsi contro Silk, dopo lo scandalo, nel tentativo di rincarare la dose nei confronti di un uomo che non la trattava con la deferenza che lei riteneva di meritare. Delphine Roux, tratteggiata magistralmente, e vittima di un’esistenza vissuta col freno a mano tirato per rispondere alle aspettative e salvaguardare le apparenza. Delphine Roux, convinta di essere un’intellettuale anticonformista, meritevole del meglio – sia in amore, sia lavorativamente – e che proprio per questo suo modo libero di pensare, crede di essere ostracizzata dall’ambiente accademico americano. Invece, nella vita di Delphine, di libero non v’è nulla. Solo l’apparenza ha importanza. Apparenza che non mancherà di mietere le sue vittime anche in ambito sentimentale, perché sullo sfondo di tutte queste ipocrisie e ingiustizie, i pochi lampi di pace Coleman li troverà tra le braccia di Faunia Farley, ex moglie di Les, e di quasi quarant’anni più giovane.

Sono due sconfitti, Silk e Faunia, per motivi diversi. Due sconfitti pronti a spalleggiarsi e a ritrovare una spinta vitale che sgorga da una relazione tenera e voluttuosa, non peraltro “voluptas” sarà il soprannome che il colto Coleman affibbierà alla giovane amante analfabeta.

Il loro amore produrrà nuova legna da ardere in onore del fuoco dell’apparenza: il professore razzista, non pago, sfrutta pure una povera e derelitta analfabeta, ex moglie di un violento, e che ha già dovuto subire la morte dei due figli; Coleman Silk diventa a tutti gli effetti il mostro che una comunità progressista si sente in dovere di combattere. A uno sviluppo del genere, non esiste altra soluzione che rinunciare al ruolo socialmente assegnato, per rivendicare la propria scelta personale. È questa la riflessione che fa Silk per ritrovare un po’ di pace e riassaporare la libertà che una parola travisata gli ha fatto perdere in un istante. Diventare altro; ciò che loro non si aspettano da un tipico settantenne in pensione e con un percorso accademico di tutto rispetto alle spalle: tornare libero. Che non vuol dire darsi alla dissolutezza e esprimere concetti che vadano contro ogni logica e etica. No, vuol dire semplicemente reclamare il proprio spazio intellettuale e sentimentale: un diritto che dovrebbe essere garantito a ogni essere umano.

In un certo senso, è la parola la vera protagonista del romanzo. “(…) ho detto spooks perché volevo dire “spettri”. Mio padre aveva un bar, ma insisteva perché il mio linguaggio fosse preciso, e io non l’ho tradito”, questo dice Coleman, quando, incredulo, deve difendersi dall’infamante accusa che lo colpisce dal nulla. Coleman Silk crede nel potere della parola e nella precisione del suo uso. Come tale, riconosce pure una stratificazione delle parole con le diverse accezioni che ogni persona dovrebbe quanto meno maneggiare. Coleman Silk non si capacita della semplificazione subita dal suo linguaggio, attuata senza remore dalle persone attorno a lui. Una semplificazione che al giorno d’oggi è radicata nella nostra quotidianità: dai messaggi “semplici” berciati tramite social da politici e utenti, per attecchire come un morbo, fino al livellamento verso il basso di alcune discussioni nate da indignazioni fini a sé stesse e schiave di una perbenismo che miete vittime, oltre che intelletti. Il linguaggio ha perso potenza e autorevolezza: “quando sarebbe cessata la dabbenaggine?” si chiede Coleman. Già, quando.

Overbooking: George Steiner

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Il pensiero della poesia

di

Alida Airaghi

 

George Steiner, critico letterario di fama mondiale, è nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa. Firma prestigiosa per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement, ha occupato diverse cattedre universitarie, a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Culturalmente la sua ricerca, radicata nella cultura classica, ha attraversato molti campi di indagine: dal teatro alla musica, dalla religione alla politica.

Nel volume La poesia del pensiero, pubblicato a New York nel 2011 e da Garzanti l’anno seguente,

l’attenzione dell’autore si focalizza sul rapporto tra linguaggio poetico e filosofia, a partire dalle origini del pensiero occidentale, in un’ottica però assolutamente eurocentrica, che esclude le culture orientali e le Americhe.

Qui Steiner si propone di indagare “le collisioni, le complicità, le compenetrazioni e le commistioni tra filosofia e letteratura, tra il poema e il trattato metafisico”, nella convinzione che “il pensiero nella poesia e il poetico del pensiero sono atti della grammatica, del linguaggio in movimento. I loro mezzi, i loro vincoli sono quelli dello stile”. Addirittura, tutta la filosofia è in primo luogo “stile”, inseparabile dai suoi contesti semantici.

Pertanto, in principio era la parola, e anche se poesia e filosofia sembrano avere finalità diverse – la prima aspira a re-inventare il linguaggio, la seconda si adopera per rendere il linguaggio rigorosamente trasparente, per liberarlo da ambiguità e confusione –, entrambe utilizzano lo stesso mezzo espressivo, contaminandosi a vicenda.

Già a partire dai primi frammenti dei presocratici, l’articolazione e la comunicazione di un concetto si è assoggettato alla dinamica e alle limitazioni del “soffocante recinto del linguaggio” e della sua sintassi. Il miracolo della nascita del pensiero astratto in Grecia tra VI e V secolo ha avuto come protagonisti figure eccezionali nell’anticipare teorie fisiche, cosmologiche, geometriche utilizzando la visionarietà del mito, la fantasmagoria della metafora. Steiner non lesina gli esempi: Eraclito, che con la sua oscura densità, la sua ambiguità semantica e le elisioni paratattiche fu amato da Nietzsche e Wittgenstein, filosofi “inclini al rapsodico e all’oracolare”. Parmenide, su cui Heidegger scrisse lezioni magistrali. Empedocle, ieratico e seduttivo, che con la musicalità delle sue Purificazioni affascinò i teorici del romanticismo. Zenone venne citato da Valéry nel Cimetière marin, mentre l’atomismo materialistico di Democrito rimase un faro luminoso nel pantheon marxiano.

L’ibridismo tra parola immaginativa e parola razionale ha segnato per più di duemila anni la produzione filosofica occidentale, e autorevolmente George Steiner ne indica come primo artefice Platone. I dialoghi e le lettere del filosofo ateniese “sono atti letterari performativi che restano insuperabili per ricchezza e complessità”: nell’Apologia, nel Fedone, nel Simposio la figura di Socrate assume la grandezza morale del Cristo evangelico, grazie alla resa teatrale e tragica, liricamente ispirata, di quella prosa. Se è vero che Platone condannò la poesia e i poeti come corruttori del costume pubblico e ingannevoli inventori di illusioni, è perché diffidava e temeva l’attrattiva del “sommo drammaturgo, creatore di miti e narratore di genio presenti nelle proprie potenzialità”.

Il dialogo come genere letterario, che lo ebbe come eminente iniziatore, mette in scena l’oralità, nel metodo di interrogazione, confutazione, correzione tra due o più protagonisti: ha avuto degni rappresentanti in Cicerone, Luciano, Agostino, Abelardo, Galileo (scienziato-filosofo-scrittore arguto anche nel postillare opere di Petrarca, Ariosto e Tasso), Berkeley, Hume, fino a Paul Valéry: tutti loro, nello scambio democratico delle opinioni espresse verbalmente, recuperavano un fecondo e stimolante clima antiautoritario e antisistematico.

Nel quinto capitolo del volume, Steiner ci offre alcuni ritratti di famosi filosofi che hanno fatto dello stile letterario un carattere distintivo della loro realizzazione teorica. A iniziare da Cartesio, “algebrista metafisico… virtuoso del congiuntivo e del trapassato”, appassionato di poesia e in particolare dei classici latini su cui modellò la sua prosa, vigorosa ed elegante: a lui il poeta tedesco Durs Grünbein ha dedicato un poemetto pubblicato da Einaudi nel 2005. Poi Hegel, sintatticamente tortuoso, lessicalmente plumbeo, intenzionalmente oscuro, poiché pretendeva dai lettori lo sforzo laborioso dell’interpretazione e della concettualizzazione. L’inacessibilità della sua scrittura, che aspirava “alla collisione con la materia inerte del luogo comune”, è diventata un tratto caratterizzante di molti letterati e filosofi moderni: da Pound a Joyce e Celan, da Adorno a Lacan e Derrida.

E ancora Marx, in cui “retorica analitica e profetica” e utilizzo pungente della satira rivelavano analogie con la pratica rabbinica e il dibattito talmudico; Nietzsche, che sapeva magistralmente fondere speculazione astratta, poesia e musica con un’incredibile virtuosità stilistica; Bergson, premio Nobel per la letteratura nel 1927, che influenzò tutta la produzione letteraria europea tra le due guerre; Freud, che aspirando al Nobel per la medicina ricevette invece il premio Goethe per la sua scrittura.

 

Lo stile aforistico, frantumato, oracolare di Wittgenstein affonda le sue radici nei frammenti eraclitei e nelle anafore di Blake e Rimbaud, più che in qualsiasi altra opera formalmente filosofica.

Ma è stato soprattutto Martin Heidegger che ha individuato nella simbiosi tra poesia e pensiero, tra espressione performativa e argomentazione teorica (“pensiero poetante, poesia pensante”) l’occasione di rinascita di un linguaggio in grado di recuperare l’autenticità dell’Essere. I suoi impareggiabili commenti a Sofocle, George, Mörike, Rilke, Trakl, Hölderlin, Char, Celan hanno arricchito vicendevolmente letteratura e filosofia, indicando nell’atto ermeneutico della lettura l’unica possibilità di penetrazione e appropriazione nel/del logos. La stessa prosa di Heidegger, così ermetica, ha avuto un impatto linguisticamente innovativo, con i suoi arditi neologismi e l’ostinata paratassi: Paul Celan ne seppe fare tesoro nelle sue criptiche composizioni.

Lungo tutto il XX secolo la compenetrazione tra poesia e filosofia è divenuta assoluta e inestricabile: dopo Bergson, ogni filosofo è stato anche scrittore, e viceversa. Ma a quale linguaggio si affida il pensiero novecentesco? Non più a quello lineare e intellegibile della classicità, bensì a codici operanti una frattura tra significante e significato, attigui spesso al silenzio e all’incomunicabilità, non più tesi alla verbalizzazione del reale, perché consapevoli della non-veridicità della parola, sempre opaca e illusoria.

La lingua infatti non può competere con l’universalità della musica o della matematica: la prima ha un’intrinseca capacità di simultaneità polisemantica, che può raggiungere ed emozionare chiunque, in ogni luogo e tempo; la seconda è precisa, affidabile, trasparente, autosufficiente. Il linguaggio è invece ambiguo, equivocabile, indeterminato: quello della poesia, poi, è per sua natura evocativo, misterioso, velato. Ma proprio in questa enigmaticità sta la sua originale ricchezza, cui George Steiner si appella contro l’impoverimento attuale della comunicazione, standardizzata, ridotta a gergo minimalista oppure a tecnicismi inerti. E, da umanista “arcaico” come si definisce, si augura che poesia e pensiero ritrovino i loro spazi di silenzio e intimità, che “da qualche parte un cantore ribelle, un filosofo ebbro di solitudine” sappia ancora regalare al mondo l’emozione del pensiero poetante di cui parlava Heidegger.

 

Una Babilonia Moderna. Corrado Costa: la moltiplicazione delle dita

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[Per liquidare l’impaccio della biografia d’artista basterebbe leggere quella che Corrado Costa inserì nella seconda edizione dello Pseudobaudelaire, pubblicato da Scheiwiller nel 1986: «Corrado Costa sono due fratelli. Portano entrambi lo stesso nome. Hanno la stessa da­ta di nascita, anche se il c.d. “fratello” è nato, per prontezza di riflessi, nove anni do­po, all’insaputa della madre Maria Viappiani e alla presenza del maestro Moser. Quin­ta B. Scuole elementari Filippo Re. Prima fila a sinistra. Primo banco. Il maestro cattu­ra una edizione in quadernetto a righe dell’inedito Rima in X e in Y. A voce alta e a beneficio di tutta la classe sviluppa il tema della perdita di tempo (leggi: poesia) e del­la scarsa applicazione (leggi: letteratura). A sua difesa, Corrado Costa replica: “Sono di mio fratello”. Nasce così, nella umiliazione e nella frottola, il fratello poeta a carico del fratello lau­reato in giurisprudenza».

Le opere di Costa sembrano finalmente trovare dei progetti editoriali decisi ad interromperne il confinamento, senza per questo dover ripiegare nella parafrasi, o peggio ancora nella didattica della poesia sperimentale. Oltre ai due volumi riproposti da Benway (La sadisfazione letteraria e Le nostre Posizioni), anche la casa editrice Argolibri ha deciso di consegnare alle librerie un formidabile volumetto dal titolo La moltiplicazione delle dita (con una lettera di Fortini e una Lettera Smarrita), che raccoglie «per la prima volta insieme tutti gli scritti e disegni di Corrado Costa apparsi su Il Caffè Letterario e Satirico». Ne pubblico qui -in anteprima- due estratti, ugualmente preziosi. Segnalo inoltre che la prima presentazione del libro- curato da Andrea Franzoni e Roberta Bisogno– è fissata per il 19 novembre a Roma alla Libreria TicVia Agostino Bertani 9, ore 19. «Chi dice che le manifestazioni d’avanguardia siano noiose?» ]

 

 

Lettera da Fiumalbo

“Il Caffè Satirico e Letterario”, anno XIV, n. 5, Ottobre 1967.

[Dall’8 al 18 agosto 1967, Corrado Costa, Adriano Spatola, Gian Pio Torricelli, Claudio Parmiggiani e Mario Molinari, il primo sindaco «delfiniano» e comunista di Fiumalbo, ideano e organizzano, Parole sui muri – Prima Esposizione Internazionale di Manifesti: la poesia visiva e gli esperimenti di poesia concreta intrecciano un dialogo con l’arte concettuale, verso l’informale, l’arte povera, e pratiche di azione performativa. Vi partecipano un centinaio di autori, da poeti a artisti grafici, dall’Italia e da altrove.

Simbolo di quelle giornate fu l’Albero della poesia o l’Albero poema, di Adriano Spatola. Corrado Costa partecipò con un «manifesto catena di S. Antonio», manifesti affissi che i partecipanti avrebbero seguito per evitare il contagio dalla peste. Il tema del contagio verrà ripreso nel 1974 in Note e osservazioni scientifiche sulla diffusione del colera, n. 10 del “Caffè” . La Lettera da Fiumalbo è stata composta secondo la tecnica del collage di rassegna stampa e dichiarazioni relative a quei giorni a Fiumalbo.]

FIUMALBO è «un paesotto di vaga natura alpestre infossato tra le magnifiche abetaie che preludono al passo dell’Abetone». (Gazzetta dell’Emilia 10 agosto 1967). Fiumalbo è un vecchio e raccolto nucleo urbano (Unità 13 agosto 1967). Un piccolo centro turistico dell’appennino modenese (Paese Sera 25 agosto 1967). È un paese messo a disposizione: non più la galleria d’arte non più un museo non più la pagina del libro ma lo spazio come ambiente poetico per eccellenza (Adriano Spatola).

È un esempio d’interazione tra esperienza grafico poetica e un ambiente urbano (Arrigo Lora Totino). Come direbbe Lombardi: dista da Modena 85 Km.

Aggiungo solo che è diventato «a detta di alcuni suoi cittadini un paese corrotto peccatore disgregatore del sacro vincolo, sperperatore del pubblico denaro». (Gazzetta dell’Emilia 18 agosto 1967). Questa la descrizione del luogo. Il sindaco delfiniano Mario Molinari. L’occasione dell’interessamento dei giornali la manifestazione d’arte d’avanguardia «Parole sui muri».

Spatola giunto di notte aviotrasportato come un ministro con un albero poema reinventato da capo e poi di nuovo abbandonato alle abitudini del pascolo. Kenelm Cox risalito il torrente in barca con una poesia mongolfiera lanciata in alto e trasmigrata in Toscana. Moltissimi (Houédard, Belloli, Bory, Blaine, Furnival, Vicinelli, Gappinair, Garnier, Chopin, Munari, Mari, Cremaschi, Della Casa). Pervenuti con pullman e corriere hanno appeso sui muri e per le strade i loro manifesti. Patrizia Vicinelli aveva un solo volantino. Oltre agli invitati si sono aggiunti alcuni entusiasti con materiale inedito. Esempio: cittadini di Fiumalbo, fratelli onde evitare che le nostre case e il nostro paese subiscano ulteriore profanazione, strappate, lacerate, rompete oggetti e teste se occorre. Da ultimo, di fianco al manifesto catena di S. Antonio (del tuo) che ti invierò a parte, è comparso la mattina del 30 Agosto il manifesto della sezione della D.C.

«Fiumalbo liberato. Finalmente Fiumalbo si è ripulita dall’invasione dei capelloni! Certi di interpretare i sentimenti della maggioranza della popolazione ci scusiamo presso i Fiumalbini e presso la Colonna dei Villeggianti per la pseudo «mostra artistica» voluta organizzare dal Sindaco con assoluta mancanza di buonsenso. Detta esposizione è degenerata in Cartelli, scritte e manifestazioni che hanno giustamente urtato il buon gusto e i sani sentimenti dei cittadini e che, grazie al tempestivo intervento delle Forze dell’Ordine, non ha assunto proporzioni peggiori. Assicuriamo i concittadini e i turisti che l’anno venturo faremo del nostro meglio del nostro meglio perché Fiumalbo ritorni un (sic) oasi di accogliente serenità di cui andiamo giustamente orgogliosi e non venga più infestata da elementi indesiderabili».

Chi dice che le manifestazioni d’avanguardia siano noiose? Stralcio rapidamente dei giornali:

1) Lettera 29-8-67 del Sig. Giovanni Serafini: «Se provocazione c’è stata la si è avuta da parte degli artisti e degli organizzatori. E ciò perché: I) Senza chiederne il permesso gli artisti hanno affisso o tentavano di affiggere manifesti o appendere quadri sui muri privati. II) L’8 mattina due artisti avevano steso sul marciapiede un cartello con su scritto: «non chiamatemi cattolico, prego» fregandosene bellamente del pensiero religioso della popolazione. III) Altri artisti a passeggio con un cane a guinzaglio appellavano la bestiola col poco appropriato nome di Paolo VI. IV) Su uno degli artistici manifesti figurava regolarmente stampata la frase «il mio bu… di… è arte».

2) Verso le due di mercoledì 9, giunse Sua Eccellenza l’Arcivescovo di Modena Mons. Giuseppe Amici, ma pare che la sua sia stata solo una gita di piacere (Gazzetta dell’Emilia del 18 agosto).

3) Alle 11,30 del sopradetto giorno un Commissario di Pubblica sicurezza rifiutava di farsi fotografare.

4) Alle ore 12 sempre del medesimo giorno veniva intervistato il Sindaco che si dichiarava soddisfatto e contento.

5) Il giorno successivo comparivano manifestini pieni di parole violente e sconce sulla porta della chiesa (sempre dalla sopracitata Gazzetta) e si apprendeva che si era costituito un comitato di Litterazione i cui membri automaticamente sono stati nominati Accademici degli Informi e subito espulsi.

6) Primo premio al titolo «Una Babilonia moderna» comparso sulla stampa locale.

Fuggiti gli artisti l’impavido Molinari continua la battaglia nei caffè e nell’androne del Municipio. Spatola ha raggiunto a nuoto l’Adriatico. Parmiggiani è muto.

CORRADO COSTA

 

Premesse per una Supplica

Il Caffè Letterario e Satirico”, anno XVI, n. 5-6 / 1969 (1970).

[Una Premessa per una supplica non ancora esplicitata, ma schematizzata e abbozzata in 7 punti, indirizzata alle «Spettabili […] le tutte quelle». Un testo ad evoluzione progressiva, scritto per «vietare nelle case civili la scivilizzazione ophidica» e «contrastare stare contro l’ esotismo, il sexotismo e la smania d’avere in mano l’iguana di proprietà privata, la lucertola sua». La lingua usata, come d’uso per l’autore, rifugge costantemente da una lineare comprensione, in favore di una circolare e totale partecipazione dei sensi alla cosa. Il «Rettile» – simbolo dai molteplici quanto mutanti significati – viene evocato lungo tutta la Premessa, fino alla sua minacciosa, domestica e imprevista apparizione finale.]

Premesse per una supplica

che il lettore per proprio conto può integrare con intestazione e mittente, e opportuna richiesta specifica e conclusiva

 

Le signore non uccise nel quarantacinque

sono ricomparse felici e spensierate

ANTONIO DELFINI

 

1che, Loro, Elle, le Spettabili, le Distinte, la ciurma tutta sorohoroptimales! sorohoror (pt) mestruales! sor (hop! hop!) timistas! lyonclubistas (oh!) las rotarîanas, le vicespose del viceSegretario, le Segretarie minchie e le maestre del minchionamento ammaestrate, nell’allenamento da casa da salotto: le tutte quelle: si doveva ordinare si doveva vietare si doveva fermare di restare con le manine a mollo. Subito dopo a tutte, borghesi e proletarie, si doveva ordinare si doveva obbligare si doveva fermare di tramandare in giro di stramerdare il rito mortifecale, il dito nella piaga e la piaga nel buco del colon del Giurassico, la bega della Lega del Rettile, le Furiose funeste figlie del Fascio e della Architettatura del mobile antiquario della mostra del rame e della sbattitura del ramazzo a Fiorenze: su giù co’ Carlottina pel Palazzo: le tutte quelle: s’andassero a stramazzare asciutte / in caldo / non umide neppure / arse / secche / precisamente inaridite / aride / con divieto del bagno, del rubinetto e d’ogni potabilità diversa o differente (calda o fredda).

2che, con la forza, si doveva avanzare occupare ogni sospetto ogni s.o.s. spettro di licenza, di superfluità edili- zia, avanzare occupare, almeno constatare in subordine la grandezza, il diametro de’ tubi, mettere il dito nella piaga e la piaga nel tubo del Giurassico – giù giù nel colon al fondo della trega della Lega del Rettile – vietare il buco nel fondello l’uso delle tubature e la tubatura in uso a favore di un sistema nervoso con nervatura a ramificazione complessa e se del caso imporre un tipo di lavabo con porcellana traspirante con traspirazione porosità infiltrazione o deglutizione delle acque tollerata a trattenuta stagna d’ogni polline ameba sperma e fecondazione di ova / un tipo nuovo di vater a contatore con controllo settimanale o bisettimanale e controllori accalappiatori muniti di specillo / un tipo di bidet a impermeabile robustissimo filtro, con divieto assoluto di novità che risultino, di ogni tipo di novità expansa troppo dilatata excitatamente sexctionalmente gradevole e distesa / e la vasca a livello del suolo o l’altra semiemergente sopremergente abnorme, proibitissime tutte: in ogni caso con apertura del deflusso control- lata a mano con volano vite a volante incastrazione della vite assicurata elittica da consentire l’uso e l’apertura dello svuoto e lo spurgo di scarico in presenza d’almeno tre maggiorenni e persone capaci, con operazione congiunta, enormemente complessa oppure tubo per tubo in tutta la diramazione delle nervature simile a un labirinto digerente, a un sistema di labirinti a digestione lenta, intervenire con schegge di metallo, spine in acciaio inossidabile, punte, spilla, lame a doppio taglio, a percussione, a scatto controllare ogni richiesta d’aria compressa in bombole o in diverso sistema, la disotturazione degli intasamenti de- mandando agli appositi uffici, con richiesta d’assistenza ai geni dell’Ingenio Civile o chi per essi, ufficialmente con proibizione di partecipare alla Protezione o alla Lega della Protezione del Giurassico, intervenire alla sbunitura, alla intasatura medesima, alla disotturazione – controllata la vendita, il commercio, la detenzione registrata in apposito incarto (detenuto presso l’Esecutivo) di gomma per intasature o aggeggi di sbunimento altrimenti possibili

3 che dunque? il tatuara? o addirittura l’archaepteryx intermedio – allungato di coda – debole di sterno, accalappiante al volo? la matamata del Sud la temmincki il coda-corta? o il Gila? il trenta piedi pitone, il venti piedi boa nella boazza del colon del Giurassico? Che dunque? si doveva impedire, non tollerare, vietare nelle case civili la scivilizzazione ophidica, fra l’altro in crisi, giustamente in regresso: soltanto quattro ordini su sedici di cento specie l’uno! contrastare stare contro l’esotismo, il sexotismo e la smania d’avere in mano l’iguana di proprietà privata, la lucertola sua, il varano in prestito e infine il coccodrillo nel bagno, nel servizio, nella vasca da bagno, nei vater, nei bidet, nei lavabo, dove con le manine a mollo li hanno nutriti tutte quelle: a zabajoni di banane e uova a carne guasta a goc- cioline di profumo (altri ingredienti consigliati da terroristi zooillogici: spremute di melarancia a mo’ di mestruo) come se non le conoscessimo! in attesa di fare guanti da passeggio, suole, tutta la tipologia delle borse delle cinture da notte di rettile palustre e slip squamosi retrattili areagenti al tatto.

Come se non le conoscessimo: chiuse dentro con l’impacco, il cerone, le sue cose, le mani nell’intruglio nella schiuma e comunque nell’acqua e distrattamente afferrare il gommino, la catenella, il tappo vecchio e logoro, con l’acqua che va via, con le care bestiole, con il glu glu dello sciacquone, giù per i tubi in fondo al colon, dentro al sistema del Giurassico, giù con l’aria compressa per i segmenti, i gomiti, per le radici dell’impianto fino all’apertura cloacale: piena, gremita di fermenti, d’aria viziata: a picco con tutto quell’umore d’impollinatura guasta e di smegma raffermo: la risciacquatura totale generale universale delle tube, della vagina, dell’opercolo rimescolata ai colori sintetici, alla distesa dei detergenti, alle sorgenti dei detersivi, sciolte nel deodorante sparso: che ribollono, che colano alluvionali espansi nella convessa cavità delle maree sommerse, a colpi di millenni di milioni di secoli sistemati alla meglio negli scomparti delle vecchie cisterne, dei cessi casalinghi: il mare del Giurassico su kelle terre di proprietà sommersa, di termini nascosti, di piani regolatori e sistemi urbanistici fatti di violazione in violazione di legge.

E ivi infra le felci le falci del diluvio i rami diffalcati sublimi nell’acquitrino della pineta immersa verde e rosa la razza si svincola dagli ordini spinge fuori la testa: i nati diventano aggressivi scoppiano d’amore: s’espandono s’espongono nella moltiplicazione delle membra delle code degli arti della protesuberanza dei crotali.

4che non si tratta di protesta per gli operai (fin’ora pochi casi) relativamente isolati, solitamente depressi, i quali nel lavoro alle fogne possono in capo a un anno risultare assenti: sparire per le fauci.

5che l’aggressività dei rettili non desta preoccupazione in quanto tale.

6che sussistono preoccupazioni per l’istinto segreto, sotterraneo, incomprensibile, che conduce a capo alla sua origine al punto di partenza indietro il nuovo nato a deporre le uova, a malapena trattenute nei ripieni sfinteri, su per il sistema tubifero, tubiespanso, vena per vena, in cerca di addivenire agli sbocchi, su per le condutture, su per il sistema digerente della nostra città, per la struttura defecale, con scabre squame: tasselli cornei: imprevedibili articolazioni e membri bene affilati.

7che al mattino al pomeriggio alla sera nessun cittadino può, preso il giornale o il libro o distrattamente con i suoi pensieri per la testa, sedersi con egoismo sui vater sui bidet, starsene in pace joyssianamente, in raccoglimento, senza studiare bene l’interno: il fondo il magma o l’acquetta pulita: in caccia della bestia appiattita eteroterma, della testa scattante con mandibola lunga affilata inseghettata, che s’avventa scatta morde d’improvviso i testicoli, li scuote, li taglia, come succede tutti i giorni per noncuranza per indolenza o per fastidio o per non dir peggio delle nostre autorità amministrative.

 

 

Franco Cordelli, il critico militante come recensore

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[Pubblico in una versione più estesa, un articolo apparso su “Alias” del 3/11/2019, con il titolo “Atletica della lettura, cioè ripensamento”]

di Andrea Inglese

 

Quando nel 1997 esce La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo scrittore, Franco Cordelli ha già alle spalle Partenze eroiche del 1980, altro libro di genere saggistico, che avrebbe però, a detta del suo stesso autore, il limite di essere una mera collezione di interventi critici, ognuno concluso in sé e autosufficiente.

Non solo launeddas

1

Quella sporca dozzina (+1)

ovvero un prezioso cofanetto di dischi sardi da consegnare agli alieni prima della capitolazione

di

Claudio Loi

La ley del cammino

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Questo discorso è stato tenuto al Congresso del Partito Socialista Ticinese nel 2018. Mi pare che valga ancora e ben oltre i suoi confini geografici. Ho chiesto all’autore di poterlo quindi riproporre su Nazione Indiana. L’originale si trova qui:  http://www.ps-ticino.ch/care-compagne-cari-compagni-discorso-fabio-pusterla/ (f.m.)

di Fabio Pusterla

Discorso per il congresso del Partito Socialista, Arbedo 18 novembre 2018

Care compagne, cari compagni,

ho pronunciato quattro parole, o meglio due, declinate al femminile e al maschile, e sono già costretto a fermarmi. Queste due parole sono state a lungo, per più di un secolo, una formula ovvia d’apertura, dietro la quale tutti potevano capire una realtà comune e almeno entro certi limiti chiara. Ma oggi è ancora così? Io ne dubito, e penso che questa formula nota a tutti oggi forse ponga qualche problema, e chieda di essere interrogata seriamente. Tutto il mio breve intervento sarà dunque basato sugli interrogativi sollevati da queste due parole così importanti e oggi così incerte.

Tanto per cominciare: ci siamo davvero ancora reciprocamente “cari”?  E cosa vorrebbe dire “cari”? “Aver caro qualcuno” vorrebbe dire, e questo è il significato che la parola porta con sé da secoli, e anzi da millenni, salendo a noi almeno dall’epoca latina, riconoscerne il valore, la preziosità, e provare una forma di affetto, di tenerezza, persino di amore. Da “caro” deriva del resto il concetto importante di “carità”. Allora: è questo che proviamo reciprocamente: un senso di preziosità, di affetto che ci unisce al di là delle differenze e delle divergenze? Una comune carità? Tutti noi sappiamo benissimo che la storia della sinistra è una complessa dialettica di unità e frantumazione; e che, entro certi limiti, proprio questa effervescenza ideologica ha a lungo costituito una grande ricchezza e un grande serbatoio di idee e di energie. Ma in certi momenti storici, di solito contrassegnati da una particolare difficoltà, come quello che stiamo affannosamente vivendo, le divergenze hanno preso il sopravvento; le rivalità oscurato la coscienza della comune carità; le ambizioni individuali o di parte annichilito la dimensione ideale. Il mondo in queste epoche è spazzato da un vento cupo e nero, lo stesso vento di cui ha parlato recentemente Igor Righini in uno suo articolo, e di cui oggi sentiamo la presenza quotidiana, nel piccolo della nostra realtà, ma anche allargando lo sguardo: dal Brasile di Bolsonaro all’Italia di Matteo Salvini, dall’America di Trump alla Turchia di Erdogan, quasi da ogni dove giungono le raffiche gelate di questo vento, e, come nella pagina iniziale del grande romanzo di Emile Zola, Germinale, la strada davanti a noi sembra aprirsi dritta come un molo nel buio accecante delle tenebre. Ma intanto che il vento infuria e le tenebre si infittiscono, cosa fa la sinistra? A volte, come dimentica di sé e di ciò che sta accadendo, litiga, si frantuma, si annulla. Perde di vista la “carità”. Colpa dei gruppuscoli più estremi, si dice allora di solito, che in nome della loro intransigenza  e presunzione di verità assoluta favoriscono la dispersione. Ma una simile spiegazione è insufficiente, e soprattutto ingiusta, perché non considera che la vera forza di un grande movimento di sinistra, di un grande partito di sinistra, sta nella capacità di contenere e accogliere in sé queste divergenze, di non lasciarle esplodere in maniera distruttiva; e questo è possibile solo quando, al di sotto delle contingenze e delle diversità, si mantiene viva e forte una idealità comune, vigorosa e riconoscibile, una forza progettuale che va ben al di là delle scadenze elettorali, delle tattiche e delle preoccupazioni spicciole.

Ma questo ci conduce alla seconda parola: “compagni”. Tutti ne conosciamo la splendida origine, che riconduce alla concreta realtà del “pane”, l’alimento primario della nostra cultura, e ai suoi significati simbolici. Colui con cui spezzo il mio pane è il mio compagno: e l’immagine è così bella e così forte, la parola così ricca di significato evidente, che tutti coloro che la avversano la invidiano anche, e per questo la irridono non appena possono: il disprezzo con cui le destre pronunciano come se fosse un insulto o una parola ridicola il termine “compagni” è l’altra faccia dell’invidia e del timore: perché si sente rimbombare, in questa semplice parola, qualcosa di grande. E tuttavia oggi le cose sono più complicate. L’8 luglio 1974 Pier Paolo Pasolini, che sarebbe stato trucidato nell’autunno dell’anno successivo, scriveva su «Paese sera» un articolo memorabile, in cui rispondeva a certe critiche che gli aveva mosso Italo Calvino. E diceva, Pasolini, che un’epoca della storia umana, lunghissima, che lui riassumeva nell’espressione età del pane era terminata, perché eravamo ormai entrati nell’età della merce. Nell’età del pane, osservava, «gli uomini erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita». Se, come credo, Pasolini aveva ragione, dobbiamo chiederci cosa possa significare la parola “compagno” nell’età della merce, che non è più quella del pane. Dobbiamo chiederci quale possa essere, oggi, il nuovo pane da spezzare tra di noi e con gli altri, perché solo in questo modo potremo continuare ad usare il termine “compagni” senza essere patetici.  Naturalmente non mi illudo di avere la risposta; ma suggerisco di considerare con attenzione l’idea che a dover essere condivisi, oggi, siano soprattutto i diritti. I diritti che già esistono, che sono il frutto di una faticosa conquista del progressismo otto e novecentesco, e che oggi vediamo costantemente minacciati da un vasto progetto di restaurazione volto a indebolire, e talvolta addirittura eliminare questi diritti umani e sociali, cosa che spinge da molto tempo le forze della sinistra su una posizione difensiva e logorante, che rischia di minarne lo slancio, l’inventiva, la creatività. Bisogna senz’altro difendere con forza i diritti esistenti dalla furia del neocapitalismo selvaggio e del suo talvolta inconsapevole braccio armato, il populismo dilagante; ma bisogna anche avere il coraggio di immaginare i diritti che ancora non esistono, quella fetta enorme di giustizia e di equità che ancora non è stata riconosciuta. Per fare questo, io penso che ci si debba spingere verso territori ancora sconosciuti; che si debba avere il coraggio di varcare i confini dei diritti attuali, delle leggi attuali, per esplorare e illuminare ciò che sta oltre. Perché i diritti non sono immobili nel tempo, ma mutano con il mutare delle condizioni, con l’emergere di nuovi soggetti storici, politici, economici. Oltre la soglia della legalità non abita soltanto l’illegalità, bensì anche il nuovo volto dei bisogni, la possibilità di una giustizia sociale che oggi non sa ancora essere pensata. Andare oltre la legalità, in questo senso, significa non accontentarsi di ciò che già esiste; non appiattirsi su posizioni difensive; non credere che l’attività politica sia definita semplicemente dal mantenimento delle posizioni e dalla gestione del potere. Il diritto di avere dei diritti, intitolava alcuni anni or sono Stefano Rodotà la sua ultima grande opera. Sono certo che, ascoltando queste parole, la mente di molti di voi sta pensando ai migranti, ai nuovi diseredati, alle terribili negazioni dei diritti che li concernono, tanto nei luoghi da cui cercano di fuggire tanto in quelli a cui provano ad approdare, con tutti gli ostacoli che conosciamo bene. Ma non si tratta soltanto di questa nuova realtà. Gli studenti che incontro nel mio lavoro a scuola: hanno il diritto di sperare? Di provare a essere felici? Di superare il disagio, il senso di catastrofe familiare ed esistenziale che spesso li accompagna? Di credere nel futuro? Gli anziani: oltre ai diritti già esistenti hanno anche quello di sentirsi utili e ascoltati, non emarginati e ghettizzati? E come concretizzarlo? Gli apostoli che spezzavano il pane con Cristo durante l’ultima cena era tutti uomini; le donne forse erano di là, a lavare i piatti. Che diritti hanno le donne? In uno scrittore svizzero di lingua tedesca che certo non simpatizzava per il socialismo, Meinrad Inglin, trovo un po’ a sorpresa questa domanda: «Ma noi, chi siamo noi alla fin fine? Siamo degni, siamo all’altezza di questo spazio nel quale abitiamo?». Inglin si riferiva al Canton Svitto, ma anche noi potremmo porci lo stesso interrogativo; siamo degni dello spazio, del territorio in cui abitiamo? Troveremo la forza di arginarne lo scempio e la rovina, o ci siamo già rassegnati ad accettarne la trasformazione in parcheggio e supermarket, in merce da consumare in fretta tra nuove passerelle sui laghi e rinnovata svendita delle acque? Solo mantenendo vive e brucianti queste domande inquietanti potremo sperare di sentirci ancora reciprocamente cari, ancora compagni di qualcosa e per qualcosa; partecipi di un’avventura che è infinitamente più importante di una votazione o di una percentuale. In una lettera del 30 novembre 1969 un poeta italiano, Giovanni Giudici, scriveva ad un altro poeta, Franco Fortini, comunista e traduttore di Brecht. Gli diceva: «Ai livelli del temporale, penso che la “compassione” sia ancora una delle virtù meno indegne di ciò che la nostra specie vorrebbe essere». Compassione: cioè il patire, il provare passione, insieme; compagni: cioè il condividere insieme il pane. Perché, come ho letto una volta in un romanzo di Cormac Mc Carthy, «el compartir es la ley del camino».

E allora, care compagni e cari compagni, adesso provo ad usarle di nuovo, queste due parole, con tutta la cautela e con tutta la speranza di cui posso disporre; per augurare buon lavoro a questo congresso, ma soprattutto per augurare a tutti di saper andare oltre, oltre i regolamenti, oltre le contrapposizioni inutili e persino oltre le preoccupazioni elettorali, per ritrovare lo slancio, l’idealità e la forza. La ley del camino.

Mots-clés__Alba

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Caspar David Friedrich, “Donna all’alba”

Alba
di Lisa Ginzburg

Raquel Tavares, Madrugadas serenas -> play

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Caspar David Friedrich, “Donna all’alba”

 

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Wallace Stevens, Mattino domenicale, xiv, (Einaudi 1954 e 1988, a cura di Renato Poggioli)

Prima un raggio, poi un altro raggio, e infine
Mille raggi s’effondono nel cielo.

È stella e globo; ed è tesoro
Della loro atmosfera la giornata.

Il mare appende a stracci le sue tinte.
Banchi di molle bruma son le rive.

Si dice: un candeliere di Germania –
Un cero basta a illuminare il mondo.

Chiaro lo rende. Anche a mezzogiorno
Luccica in essenziale oscurità.

Rischiara a notte il frutto, il vino, il pane,
Il volume e le cose come sono,

Dentro a quella penombra ove seduti
Si sta suonando la chitarra azzurra.

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First one beam, then another, then
Thousand are radiant in the sky.

Each is both star and orb; and day
Is the riches of their atmosphere.

The sea appends its battery hues.
The shores are banks of muffling mist.

One says a German chandelier-
A candle is enough to light the world.

It makes it clear. Even at noon
It glistens in essential dark.

At night, in lights the fruit and wine,
The book and bread, things as they are,

In a chiaroscuro where
One sits and plays the blue guitar.

 

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Da “I ferri corti”

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di Paolo Maccari

[Presentiamo quattro testi inediti in volume, inclusi nella raccolta antologica I ferri corti, in uscita per Lieto Colle, collana Gialla Oro, pordenonelegge.]

 

Viali

È sempre lotta tra asfalto e radici.

Dune sbrecciate

nei parcheggi obliqui

dei nostri viali.

E profferta di simbolo

anche ai poeti

che sanno appena

cinque o sei alberi.

Nomi bastanti

a lunghe metafore

d’oppressione e rivalsa:

Sollevazione delle radici,

ribellione se erompono come…

Ma il Comune riasfalta.

Sradica, se vuole, il Comune, e ripianta.

Anche questa metafora

occorre far fiorire: il Comune innaffia e cura

la rivolta futura,

la scruta, la concima,

poi stende il nastro scuro.

Poi stende il nastro scuro

con nostro sollievo

sopra l’incuria

del viale insicuro.

 

*

Fratelli

Marchino a dieci anni non sapeva parlare. Il fratello più grande di un anno lo portava per mano; bestemmiava quando doveva asciugargli col fazzoletto la bava. Marchino sbavava mentre rideva e anche quando masticava i suoni cercando di imitare i discorsi che sentiva. Amava straordinariamente abbracciare le persone. Dopo l’abbraccio, non avendone mai abbastanza, appoggiava il palmo della mano sulla testa di chi aveva appena abbracciato e ce lo lasciava finché l’abbracciato non glielo toglieva.

Quando era nervoso Marchino rimetteva la mano sulla testa che si era sottratta. Rideva se gli veniva tolta, e la rimetteva. Ma se era molto nervoso, dopo due o tre volte che gliela levavi la stessa mano l’usava per dare uno schiaffo. Dava schiaffi forti. Interveniva allora il fratello e lo picchiava. Mentre veniva picchiato Marchino rideva e il fratello picchiava più forte. Il fratello smetteva e bestemmiava prima che Marchino smettesse di ridere, ed era esasperato. Era l’unico il fratello a non intuire che la risata di Marchino mentre veniva picchiato era diversa, più infantile e salmodiante, da quella solita – anche meno bavosa-, perché era il suo modo di intercedere per se stesso col picchiatore e farlo smettere. Nessuno comunque lo faceva notare al fratello e lui non era disponibile a queste sottigliezze. Credo, incredibilmente, che non fosse disponibile per una forma di rispetto verso Marchino.

A noi piaceva abbracciare Marchino, ci faceva sentire buoni, oltre al fatto che abbracciare è quasi sempre bello, però raramente rimanevamo fermi mentre lui, con il passo dondolante e asimmetrico, si avvicinava per abbracciarci. La testa sulla mano, lo schiaffo, le botte del fratello a Marchino. Evitavamo. Tutti a parte Carlo. A Carlo piaceva veder picchiare Marchino. In verità, gli sarebbe piaciuto soprattutto picchiarlo lui. Una volta dopo aver preso lo schiaffo infatti gli tirò un cazzotto. Era un esperimento: se il fratello non avesse protestato avrebbe inaugurato un piacere. Dovemmo levarlo dalle mani del fratello, che continuava a colpire Carlo anche quando lui era svenuto. Il fratello di Marchino gli aveva tirato un pugno nello stomaco e uno in faccia mentre gli teneva l’altra mano stretta al collo. Carlo andò giù. Noi ci mettemmo in mezzo. Il fratello di Marchino prese Marchino per mano, e si avviò a testa bassa verso casa. Marchino rideva. Anche Carlo, in terra, rideva. Aveva fatto finta di svenire e anche se il fratello di Marchino gli dava le spalle camminando verso casa, Carlo non smetteva di fissarlo, e centellinava il rimorso di quelle spalle. Che tipo Carlo. E chissà di che tipo era il rimorso che sentiva, e che magone, il fratello di Marchino.

La sera spesso ripensavo a Marchino e a suo fratello. Ero troppo piccolo per domandarmi come mai i genitori affidassero sempre Marchino al fratello. Mi figuravo di essere Marchino, incapace di parlare (ma come pensava Marchino, come vedeva?), e a volte di essere suo fratello. L’adolescenza pontificante e piena di risposte mi distolse da queste fantasie, che erano domande.

Quei due bambini non so che fine abbiano fatto. Carlo invece, ancora oggi, ogni tanto ho voglia di picchiarlo, di cacciare a pugni il luccichio desiderante dai suoi occhi. Con tutto che a suo modo mi vuole bene e mi aiuta, e che rimane il mio fratello maggiore.

 

*

Le divise

Indosseremo ancora le divise,

felici delle giubbe d’un colore.

Saremo le colonne.

Ci faremo compagnia.

 

Sapranno conservare il malumore

soltanto i saggi,

scontenti dell’unisono dei passi,

feriti dai cantari

di cadaverica allegria.

 

Ancora più saggi e in meno,

marceranno con noi

alcuni che sapranno

questa o l’altra compagnia

o gli sfregi alla colonna

o i fanatici osanna

essere niente

di nuovo né drammatico.

 

Pochi, e inconsapevoli,

nelle nostre colonne e tra i nostri osanna

non rinunciando a farci compagnia,

altri ameranno senza dircelo.

Senza dirselo altri ameranno

con gli occhi

straordinariamente come i nostri.

 

E noi non capiremo,

li scambieremo per noi stessi:

ogni peccato

dentro questa incomprensione

sarà magnificato.

 

Quindi il corteo proseguirà

obbedendo alle svolte

che alla sera imporrà

fragorosa la sorte.

 

*

Janis Joplin

I.

Dovunque in Italia, lo sanno tutti, basta spostarsi di qualche chilometro e cambia il modo di parlare. Il mio paese ha una parlata quasi forbita, ma già a sei chilometri di distanza, in un paese vicino, dicono ‘icché tu voi?” e ‘vu credee’. Sono differenze che chi abita qui sente subito, e i miei compaesani se ne vantano, mentre gli abitanti del paese vicino giudicano il nostro modo di parlare poco espressivo, senza sapore, forse ipocrita.

L’amico che conobbi a dodici anni veniva da una frazione del paese vicino. Il suo modo di parlare un po’ mi urtava, ma non mancavo di avvertire il fascino di una naturalezza terragna, che suppliva all’imprecisione designando le cose con energica attinenza. Il suo carattere somigliava alla sua lingua, irruento e gioviale sebbene venato di indecisioni, di improvvise timidezze. Lo conobbi perché venne a giocare nella mia squadra come portiere. Era alto quanto me, che a quell’età ero tra i più alti della squadra; era in carne; si tuffava bene. Non cercava la rissa ma non ne aveva paura.

Io a quell’età ero litigioso e in campo spesso mi attaccavo con gli avversari. Durante una partita ricevetti un fallo intenzionale, poco prima di entrare nell’area avversaria: una pedata da dietro sul piede d’appoggio. Andai giù, mi rialzai veloce e detti una spinta all’avversario. L’arbitro era lontano e altri due avversari mi furono sotto. Io per la rabbia non sapevo frenarmi e spintonavo chiunque mi si avvicinasse. Quasi subito erano più le spinte che prendevo di quelle che riuscivo a rendere. Ingloriosamente, prima che arrivasse l’arbitro, fui di nuovo in terra. Da terra vedevo i miei compagni che mi difendevano, chi con più chi con meno vigore.

Tra le gambe assiepate intorno a me vidi a un tratto una corsa estranea, di uno che non aveva la maglia né del colore della mia squadra né di quella avversaria. Per una frazione di secondo non capii, poi riconobbi la maglia di portiere del mio amico, che dalla nostra porta stava arrivando, con la faccia determinata, a difendermi. Il coraggio che mi sentivo crescere a ogni passo di quella corsa mi rimise in piedi. Quando il mio amico arrivò, l’arbitro aveva già provveduto a mostrare il cartellino giallo a chi mi aveva sgambettato e quello rosso a me. Uscii dal campo tra le urla dell’allenatore che un po’ protestava contro l’arbitro un po’ mi brontolava. Fu la prima e ultima volta che giocai da capitano. Ma negli spogliatoi, quando la partita finì, tutti commentavano ammirati e allegri la corsa del mio amico. Lui non diceva niente. Ci guardavamo con gli occhi che ridevano e ci capimmo.

 

II.

All’età di quattordici o quindici anni parlavo al mio amico della musica che mi piaceva. Lo potevo fare perché lo stimavo. In prima superiore si era iscritto a una scuola nel mio paese, e spesso ci vedevamo anche sul bus, la mattina o all’ora di pranzo. Lui era diventato amico di una bella ragazza, di due o tre anni, insomma un’enormità, più grande di noi. A un’amica di quella ragazza io piacevo: me lo disse il mio amico, ridendo insieme alla bella ragazza. Non me l’hanno però mai presentata e quando chiedevo perché loro ridevano ancora di più. Deve essere brutta, pensavo, e non insistevo. Il mio amico, grazie alla bella ragazza, era stimato dai compagni di autobus, e lo ero anch’io, che stavo simpatico a tutti e due e spesso facevo il viaggio nell’ultima fila, dove stavano loro e i grandi in classe della bella ragazza.

In generale, eravamo due ragazzi che sapevano stare con le ragazze, che giocavano a pallone, che si facevano crescere i capelli, che avevano nemici con cui scambiavano occhiatacce: ci sentivamo, sul piano sociale, piuttosto a posto. Io mi sentivo simile al mio amico, e mi avrebbe fatto piacere se avesse apprezzato quello che a me pareva bello. Allora, davvero, la nostra sarebbe stata un’amicizia forte, e protesa verso una vera intimità. La passione per la stessa musica e i pensieri più segreti, infatti, mi sembravano stare su uno stesso piano d’intesa. La lettura, che in quel periodo occupava uno spazio sempre più grande tra le mie occupazioni, vicina a spazzare via tutte le altre per essere la prima, la concepivo ancora come qualcosa di simile a un vizio, una mollezza, assimilabile quasi all’immaturità che mi faceva guadare, di nascosto e con gusto, certi cartoni animati giapponesi.

Fui felice quando il mio amico mi chiese una cassetta di qualcuno dei cantanti di cui gli avevo parlato. I termini in cui me lo disse rivelavano un desiderio autentico di erudirsi in un campo che gli appariva allettante. Credo che anche la bella ragazza gli parlasse di una musica diversa da quella dozzinale che lui ascoltava. Il mio amico mi stava concedendo un’autorità che sentivo di poter sopportare e che mi lusingava. Una domenica mattina, al ritrovo dei giocatori nella piazza del mio paese, gli portai una cassetta di Janis Joplin. Giocavamo in trasferta e ci aspettava un’ora di macchina. Io sarei andato con il pulmino della squadra ma, siccome non ci entravamo tutti, il padre del mio amico avrebbe portato il figlio e altri tre giocatori con la sua macchina. Ero molto fiducioso. Avevo simpatia per il padre del mio amico, un uomo barbuto e silenzioso, con i capelli abbastanza lunghi e gli occhiali da sole, che durante le partite non urlava né commentava come altri padri; restava composto a seguire il gioco dietro gli occhiali da sole, e la sua presenza mi dava un senso di matura sicurezza. La sua BMW doveva avere una buona autoradio, pensavo. L’ascolto avrebbe dato buoni frutti. Quando arrivammo al campo scesi veloce dal pulmino e mi avvicinai al mio amico. Mi circondarono subito anche i tre che avevano fatto il viaggio con lui. Da solo, lui certamente avrebbe sfumato il giudizio, o forse se lo sarebbe tenuto per sé, ma di fronte alla rumorosa unanimità del terzetto non riuscì a negare che Janis Joplin fosse strana, strane le sue canzoni, il suo modo di cantare, il fatto che a volte cantasse quasi senza accompagnamento musicale, che altre la sua voce si trasformasse in un urlo indefinito, e insomma quella musica non si capiva e, tutto considerato, faceva cacare. Forse, terminò il mio amico con imbarazzo e parlando più piano per non farsi assalire dagli altri tre, il secondo lato della cassetta era meglio del primo, e qualche pezzo non era male.

Io ci rimasi malissimo, lì per lì, e iniziai dentro di me ad accusare di rozzezza il mio amico, e a dirmi disingannato, e che mi servisse di lezione. Invece di lezione mi fu il modo addolorato in cui lui cercò di farsi perdonare, con i propositi che goffamente avanzava di vederci quel pomeriggio al suo paese, con il modo che aveva di starmi accanto negli spogliatoi, quasi a non volermi lasciare solo con la mia delusione. Soprattutto, i suoi occhi buoni continuavano a studiarmi quando non lo guardavo, e io li sentivo come una carezza di calore. Quel giorno capii che la musica, e tutto il suo giro di mozioni e risonanze sentimentali, era – per i ragazzi come me – una sublime scorciatoia, che unisce un momento, per poi svaporare come i fumi dell’hashish dentro cui si fraternizza, e dopo l’estraneità torna a aggredirti. Ancora di più: è tollerabile ogni differenza se l’affetto non nega che è dolorosa, ma rilancia se stesso come altra via, più accidentata, faticosa, per ritrovarsi e cercare affinità diverse. A quindici anni, per un giovane arrogante e insicuro come ero, non è la banalità che sembra.

 

III.

Passò poco tempo e un’altra passione ci venne incontro e ci avvicinò ancora: le moto. A quattordici anni mi avevano comprato – ricordo sempre: per quattrocentomila lire – un motorino da cross, con il grosso difetto di non avere le marce (a me andava bene perché temevo di non saper cambiare), ma comunque piuttosto prestigioso tra i Ciao i Sì e i Bravo di quei tempi. Non ricordo quale cinquantino avesse il mio amico, ma doveva essere ancora più prestigioso e sicuramente più potente. Per i sedici anni ricevetti in dono l’Elephant 125 che era stato di mio cugino. Una moto vera, con sei marce, che andava a centotrenta. Ne ero fierissimo. Il mio amico scelse una moto da strada, che secondo me era meno bella, non ci poteva fare i salti né impennare bene come sapevo fare io, però raggiungeva una velocità impressionate.

Qualche volta abbiamo fatto una girata insieme: io preferivo le strade di campagna, dove potevamo levarci il casco e fermarci a fumare in qualche posto isolato. A lui piacevano le strade piene di curve, in cui piegava, con il ginocchio vicinissimo all’asfalto a emulazione dei campioni di motociclismo.

Proprio sui sedici anni, per la mutevolezza di quel tempo instabile, iniziammo a vederci meno. Io ero andato a giocare in un’altra squadra, e dopo poco litigai con l’allenatore e smisi di giocare. Anche lui, se non ricordo male, aveva smesso. Mi misi con una ragazza, in quel periodo, e stavo quasi sempre insieme a lei. A volte capitava comunque, nel paese vicino al mio, dove parlano male, che lo incontrassi per la via principale a fare le vasche. Io con il mio gruppo e lui con il suo, i cui rispettivi membri non si conoscevano se non di vista. Ci fermavamo a chiacchierare per poco, presto richiamati dagli altri, promettevamo di vederci, un giorno, e di fare qualcosa insieme.

Non è mai successo. Fu la ragazza con cui stavo, una mattina d’estate, a dirmi che era morto. Non ho mai capito, nonostante il gran parlare che se ne fece, quale fu con precisione la cosiddetta dinamica dell’incidente. So che era in moto, in una strada piena di curve dove si può piegare fin quasi a toccare il ginocchio sull’asfalto. Poi, so quello che sanno tutti. Che non invecchierà mai, come i cantanti che ascoltavo a quindici anni, ma resterà più giovane di loro, indeciso ancora su quale giovane uomo diventare tra poco. Che aveva una sorella più piccola. Che è successo più di venticinque anni fa.

Non andai al suo funerale. Me ne vergogno ancora. Compatisco chi si giustifica delle proprie inadempienze con frasi edificanti. Chi non va a trovare chi muore perché, dice, vuole ricordarlo com’era. Chi non va ai funerali perché ormai a cosa serve.

No. Glielo dovevo e sono mancato. Con tutte le arie che mi davo, ebbi paura del dolore e di non meritare di piangere con i suoi amici veri, quelli stretti, che parlavano come lui e ascoltavano godendosele le sue stesse canzoni. Da allora, e ancora oggi, continuo a rivederlo negli adolescenti che mi sfilano davanti, per strada o a scuola. Eccolo, un po’ in carne, che si mette il casco. Lo ha indossato, la visiera è aperta, capisco che mi sorride dalle rughe che gli si formano intorno agli occhi. Il casco gli copre la bocca, se parlasse non lo sentirei.

Al parco dove porto mio figlio, in uno spiazzo in cui l’erba non fa in tempo a crescere, si gioca tutti i pomeriggi a pallone. Sono ragazzi e non bambini. È quasi insostenibile quanto uno gli somiglia. Stamani ero a sedere, a vedere mio figlio arrampicarsi su una ragnatela di corda. Spesso mi giravo e seguivo la partitella. Il mio amico correva. Poi si è fermato. Il cross era preciso ed è stato facile per lui colpire di testa. Gol. Ha alzato le braccia, le mani ben aperte, ha sorriso. Quando io facevo gol correvo verso il centrocampo, e chi ha giocato sa quanto si può essere felici, per qualche secondo. Guardavo verso la nostra porta, quando si calmava l’esultanza. Il mio amico aveva le braccia alzate, le mani aperte; quando si accorgeva che lo guardavo, si stringevano a pugno e vibravano. Ci sorridevamo. Poi la partita riprendeva e avevamo gli occhi, tutti e due, solo per le traiettorie del pallone.

 

 

 

Il dolore degli altri

1

di Domitilla Di Thiene

 

-Chi sei?- mi chiedi brusco quando provo a girarti sul fianco.

-Stai attento, se ti muovi così si spostano i drenaggi- ti dico e mi dai uno sguardo fisso allora, di quelli che davi anche un tempo, la nebbia dello sguardo dissipata per un momento. Ti riappoggi docile sul cuscino, gli occhi socchiusi.

La camera è inondata dalla luce che viene dal giardino, apro le porte finestre per accostare le imposte e farti un po’ di scuro nella stanza.

Crollo sulla poltrona accanto al letto; mi sento esausto, chiudo gli occhi che bruciano; ho dormito poco insieme a te, queste prime notti di nuovo a casa, magari riuscissi a dormire, almeno un secondo.

Il campanello della porta, una sveglia di soprassalto. La stanza è immobile, il rumore del respiratore continuo, quanto ho dormito, non riesco a capirlo. Vado verso la porta, mi fanno male le gambe per la posizione costretta nella poltrona, forse non ho dormito poco. E’ Clara, che è venuta a trovarci. Porta una piantina di peperoncino che sa che ti piace tanto. Mi fa bene vedere Clara, è così bella, allegra, pulita. Ha un vestito verde brillante, fuori moda e bellissimo, che le lascia parte della schiena abbronzata scoperta. Mi sento un barbone davanti a lei, la tuta macchiata, la barba sfatta.

-Mi faccio una doccia ti dispiace?-

– Figurati, ma guarda che mica è un neonato, lo puoi lasciare qualche minuto da solo- dice lei ed ha ragione. Hai notato? Quando si parla del dolore degli altri, hanno sempre tutti ragione.

M’infilo sotto l’acqua calda e il beneficio è immediato, il getto violento mi avvolge e mi toglie il fiato. Il pensiero di Clara nella stanza con te, al mio posto, mi fa fare piu´in fretta.

Uscito dalla doccia mi cambio i pantaloni e infilo una camicia pulita. Non posso fare a meno di concentrarmi sul ronzio del respiratore che viene dalla tua stanza, per essere sicuro che vada tutto bene. Mi fido di Clara, ma non posso farne a meno. Il rumore è regolare, forse potevo farmi anche la barba, ma ormai il momento è passato.

Torno nella stanza e sei sveglio. Le imposte sono di nuovo aperte, la luce è meno forte e il tiglio in fondo al giardino è in fiore, arriva l’odore fin dentro la camera. Clara ti ha preso una mano, quella senza agocannule, e vi guardate. Siete in silenzio, non voglio disturbarvi ma mi chiedo se tu l’abbia riconosciuta. Tu socchiudi gli occhi, come i felini e fai un cenno con la testa verso di me. Non lo fai a me, il cenno, ma a lei indicando me.

-Sì, sì- sento che ti mormora- ora mi occupo di lui, non ti preoccupare-

-Ma Clara, rimanete pure, io non ho bisogno di nulla- dico, e il tono della voce è un po’ troppo alto rispetto ai vostri silenzi, non posso non vergognarmene.

Clara si volta verso di me e mi prende per un braccio per portarmi fuori dalla stanza. Tu hai di nuovo appoggiato la testa sulla spalla, gli occhi socchiusi.

-Il caregiver ha bisogno di più attenzioni, lo sa lui quanto lo sai tu- mi dice sorridendo.

-Hai fame?- prosegue- ci facciamo qualcosa da mangiare? Ho una fame terribile e tu hai l’aria di non mangiare da giorni

Effettivamente se si esclude il semolino che hai lasciato l’altra sera credo di non mangiare da settimane, forse mesi. Mi rendo conto in quello stesso momento che anche io ho una fame terribile, pazzesca, onnivora.

-Cosa possiamo preparare?- chiede aprendo il frigorifero. Ci sono le mele che ti grattugio e gli odori per fare la minestra. Null’altro di propriamente commestibile.

-Bene- dice Clara- credo proprio sia venuto il momento di spaghetti aglio olio e peperoncino. Che ne dici? Vino ne hai? Perché non apri una bottiglia mentre preparo?-

Ci sono a volte persone nella vita che sono così. Portano benessere, cose facili, spaghetti cotti al dente, peperoncino piccante ma non troppo, io accasciato sulla sedia che riprendo vita e colorito, ha messo anche la brocca per l’acqua, quella in vetro colorato che piaceva a te (sarà un caso che scegliete le stesse cose?). Anche di bere mi devo essere scordato in questi giorni, la pipì sotto la doccia aveva un colore più vicino al marrone che al giallo; bevo la brocca intera e lei la riempie di nuovo mentre parla di tutto e di niente, il primo bicchiere di rosso a stomaco vuoto mi stordisce, la pasta mi riempie,

-Ma quanta ne hai buttata?-

-Mezzo chilo-

-Mezzo chilo in due?-

-Sembravi affamato-

E’ la pasta più buona che abbia mai mangiato, glielo dico, anche la bottiglia di vino è finita e ora mi sento un po’ sbronzo,

-Perché non ti vai a stendere un po’? Posso stare ancora un paio d’ore e mi fa piacere se mi posso rendere utile-

Non riesco neanche a rispondere, mi allungo direttamente sul divano, la luce del tardo pomeriggio che taglia il pulviscolo nella stanza.

Di nuovo mi sveglio, di nuovo senza sapere che momento è della giornata. Mentre faccio pipì, in piedi, faccia alle mattonelle bianche sento una presenza dietro di me. Non ci può essere nessuno, in bagno con me. Mi volto di scatto, c’è il vestito di Clara, il vestito verde in crespo appeso sopra alla doccia. Rimango a fissarlo inebetito, non capisco subito, con cosa è uscita Clara penso per un poco, il suo corpo abbronzato, esco dal bagno velocemente, ed eccovi qui, Clara è nuda, adagiata sul tuo corpo, dormite sodo, c’è un’altra bottiglia di vino finita ai piedi del letto, tu sei coperto col lenzuolo. Mi siedo sulla poltrona e inizio a piangere come uno scemo e cerco di farlo anche piano, per non disturbarvi.

Poi penso che, se è mattina, la sacca del catetere sarà piena, vado a lavarmi le mani, acqua calda e strofinare anche i pollici, torno e inizio ad armeggiare con la sacca.

Sei il primo a sentirmi, Clara russa profondamente, la bottiglia se la sarà scolata lei per lo più, almeno spero. Mi tocchi con un piede, per farti notare e mi fai cenno di avvicinarmi

-Spostala- sussurri –pesa- aggiungi.

Finisco di svuotare l’urina, la spingo piano verso il bordo del letto e la ricopro con parte del lenzuolo.

Mi rivolto verso di te

-Stai bene?- ti chiedo

-Puzzi d’aglio- mi rispondi. Ti guardo trattenendo un sorriso, poi dico

-Anche lei, immagino-

-Lei fra poco va via, tu no- Il tuo sguardo non è poi così appannato quando dici queste cose. Scoppio a piangere di nuovo, so che non ti fa piacere vedermi piangere.

-Scusa, scusami- dico

Mi prendi il braccio con una mano. Quella senza agocannule. Stringi, neanche poco. Forse Clara ti fa meglio di quel che penso.

-Mandala via, per piacere-

Clara è morbida, a quanto pare in tutto. Non si arrabbia che la sveglio bruscamente, né che le passo il vestito verde e un bicchiere d’acqua. Dopo essersi rivestita con calma, e senza nessun pudore, mi saluta con un rapido bacio sulle labbra.

Quando torno da te ti sei appisolato. O almeno così penso. Non mi fido più di te, o della mia percezione. E infatti appena mi siedo sulla poltrona apri un occhio.

-Mi ha chiesto di ammazzarmi- mi dici. Non hai mai girato intorno alle parole. Almeno non a quelle.

-Non ti ho mai visto così lucido in settimane-

-Forse la morte mi lucida i pensieri- dici, ridacchiando

Fingo di ridere anche io. Tu finisci la tua risata tossendo e io aspetto

-E cosa le hai risposto?- chiedo, finalmente, quando la tosse si è calmata.

-Che se proprio qualcuno lo deve fare quello devi essere tu- dici, fissandomi- magari con una valvolina messa male o una bolla d’aria in qualche iniezione- Abbasso lo sguardo. Mi conosci meglio di quanto vorrei.

-Intanto mi prepari un aglio e olio anche a me? In mezzo a voi due vampiri mi è venuta una gran voglia-

Torno in cucina e metto l’acqua sul fuoco. Pulisco la padella sotto l’acqua calda, con poco sapone. Metto a scaldare l’olio e schiaccio l’aglio. C’ è un uccellino sul davanzale della finestra, dove ho appoggiato la piantina, vorrei fartelo vedere.  Salo la pasta con un’abbondante presa di sale grosso. Non c’è il prezzemolo, ma se ricordo bene non ti piace. Mi devo ricordare di lavarmi le mani bene, potrei farti molto male con questo peperoncino sulle dita. Accarezzo l’idea per qualche secondo e lecco le dita, a una a una.

Che sia così per sempre, poterti accudire in eterno.

Storia del compagno Rick Gin

0

di Andrea Migliorini

1. All’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica si generano gerarchie: è legge di natura, di pseudo-natura. Il Capitale studentesco non è inteso come valore del lavoro, dello studio o della fatica: corrisponde bensì all’immagine che ogni studente costruisce di sé, tramite l’ausilio di doti innate che la comunità gli riconosce unanime. E le relazioni che si generano nelle trame di questo tessuto iconodulo determinano l’ascensione di una nuova élite, oltre che la conseguente frattura fra padroni e non padroni: l’egemonia dei pochi è garantita dallo Spettacolo non soltanto quando si discute delle astratte macro-dinamiche del metodo di produzione occidentale, ma anche — e soprattutto — all’interno del microcosmo d’ogni classe scolastica, ovvero del sistema-terzaC.

2. In terza C — seconda porta del primo corridoio, Son Row School, Vike City — le forze storiche della dialettica assumono le sembianze d’una società matriarcale e vulvocentrica: dalla cui piramide sociale — non priva d’una propria particolarità raffigurativa — emergono le profetesse della Nuova Era: a sinistra mordicchia la matita certa Lisa More, futura attivista social wwf, ad oggi ancora teorica vegetariana non praticante; a destra si volta — e sorride non senza malizia — certa Linda Blunt, occhiali tondi e profilo bloccato per ragioni di sicurezza. Il potere, in terza C, è una diarchia bivaginale.

3. La coscienza di quest’infinito potere d’acquisto — tanto astratto quanto empirico — si palesa nella descrizione che le due paladine del sistema-terzaC giudicano quale opportuna sintesi delle proprie ambizioni esistenziali: ovvero le didascalie da esporre sulle vetrine dei mezzi di comunicazione di massa. Luogo di nascita: marchio d’un infanzia dura. Anno di nascita: giorno e mese sono opzionali, si venera il demone della Privacy nel politeismo digitale. Luogo di residenza, espresso con patriottico tradizionalismo, specie se coincide con quello di nascita. Passioni tecniche e sportive: giustificano l’esposizione muscolare nell’atto del cosiddetto uork-aut. Qualità scolastiche: giustificano le lamentele continue sui duri tempi della vita. Risorse fotografiche a disposizione: “Reflex”. Eventuale esperienza lavorativa: ben venga se questa sezione tradisce una qualunque esterofilia. Citazioni d’autore: le statistiche indicano come più quotato uno tra Murakami e Bukowski. Infine, la corrente filosofica d’adesione: generalmente il buddhismo zen.

4. La capacità di vivere negli egosistemi digitali si situa a metà fra l’ars e l’ingenium: una qualità innata e orizzontale, che necessita affinamento ed esperienza; un fiuto politico per il successo che deve essere coniugato allo sviluppo d’un moderato cinismo; il sorgere d’un individualismo proto-populista che nemmeno Darwin avrebbe considerato come fattore discriminante per la sopravvivenza della specie — e che d’altro canto si rivela necessaria per la preservazione dell’Io: chi non si vede, non esiste. Lisa e Linda eccellono in questa pratica sociale, che nel gergo accademico è definita con l’anglofona curva sonora di socialmedia-managing, nuovo ramo etimologico dell’antica radice del social-ismo. Eppure la diarchia istituzionale presuppone un confronto costante e serrato fra le due matrone di Governo, la cui indipendenza è relativa: bisogna creare due poli comunicanti, onnipresenti nella dialettica delle comunicazioni sincroniche. Per questa ragione, la costituzione dei profili sociali di Linda Blunt e Lisa More è speculare, l’una pensata in relazione alla fisionomia html della compagna; e quest’architettura a distanza non lascia spazio ad aperture nel vuoto apparente che le separa: nessuno spiffero, nessuna ipotesi così come nessuna certezza; soltanto una corrente continua di dati, senza sosta. La relazione umanoinformatica è ermetica, d’una dialettica figlia più delle binarie dicotomie kierkegaardiane che del triadico pensiero hegeliano, il quale comunque non si astiene dall’influenzarne indirettamente il paradigma. Nella realtà del sistema-terzaC non vi è sintesi, e alla tesi non s’oppone un’antitesi: la vittoria è della negazione che nega se stessa, non senza un briciolo alquanto sfavillante di burbero esistenzialismo camusiano. E’ questa l’affermazione: Lisa More e Linda Blunt restano — seppur simili, se non identiche — entità separate e distinte, nonché complementari: basti uno sguardo rapido ai volti espressivo-semiotici prescelti come manifesti dell’impianto messaggistico delle Vuote Zappe. Del resto, ubi scripta volant, l’epigrafe comune ai due profili è ugualmente rivelatrice: “io sarò per te condanna, L.”, affianco l’eros-kai-thanatos di due labbra disegnate, colorate di rossetto.

5. Ogni società rielabora le medesime ingiustizie, variandone tuttavia le forme, i significanti. A seconda della prospettiva, ogni individuo può essere considerato sia oppresso che oppressore. Tuttavia, è innegabile l’esistenza d’una sorta di classifica primigenia di qualità inalienabili, la quale si condensa in doveri e divieti e diritti. Per quanto concerne questi fattori primi, la struttura della classe scolastica si può tradurre nella forma di un triangolo isoscele — la suddetta piramide non priva di particolarità — che non si esibisce d’altronde come una consueta piramide socio-economica: la descrizione alto-bassa delle classi non termina alla base ampia e larga del disegno. Si produce, invece, una deviazione opposta e contraria al di sotto della comune piramide. Una spinta newtoniana scava le falde del terreno per dare un posto ai dannati, rendendoli sommersi: un disegno di studi cosmologici danteschi, senza amore e senza stelle. La parte inferiore della nuova figura appare come un riflesso pittorico nei campi francesi di Renoir: non meglio definito, non meno rappresentativo. E il quadro finale somiglia, più che a un panorama egizio lungo il Nilo sanguinoso, ai campi perfetti della geometria di Flatlandia: un rombo incomunicabile. Sbiadito, tumefatto. O meglio, un assetto romboide in cui l’asse inferiore perde consistenza; di cui l’ultimo gradino è rovesciato e minuscolo: si direbbe tana di formiche, a vederlo. La vera rivoluzione — quella pratica, quella autentica; non intellettuale — dovrebbe sorgere da qui, ma ne mancano le forze piuttosto che la coscienza, nonostante le presenza sporadica di qualche profeta: talvolta è più arcigna e violenta la volontà dei salvati di salvare i sommersi piuttosto che quella dei sommersi di salvare se stessi.

6. Gauss è cristallino. Per la maggioranza degli studenti la medietas rappresenta una condizione accettabile: di debole sopravvivenza, con gradi differenti di sconfitte e mutilate vittorie. E’ la normalità che dà la normatività. La teoria di Gauss suggerisce dunque che ai vertici opposti si concentrino i numeri più bassi, nel Bene e nel Male: infatti, nel sistematerzaC sono pochi i padroni dei mezzi di produzione; allo stesso modo i veri miseri — ovvero coloro che nemmeno prendono parte alle dinamiche di mercato — rivelano la propria esigua quantità. Costoro si trovano apparentemente fuori dal sistema, e vengono inglobati solo nei momenti di furore mistico: quando si ha necessità d’uno sfogo inerme. Sono accolti per la loro negatività intrinseca: null’altro. Stanno appostati alle gambe nel banchetto dei grandi, si nutrono delle briciole della nuova avida sapienza: fra questi, sgattaiola carponi e sgomita anche l’affamato stomaco di Rick Gin, futuro compagno cui la tradizione epico-scolastica — tanto quella orale quanto quella epigrafica — ha affiancato l’epiteto formulare di “Scopa”, nelle seguenti varianti: “Rick Gin la Scopa”, “Rick la Scopa Gin”, “la Scopa Rick Gin”, o, per brevità e licenza poetica, semplicemente “la Scopa”. Il gusto perverso dei nomina –- quae ne sunt consequentia rerum, sed opposita –- sussume varie circostanze che smussano l’autostima mai appuntita del compagno Rick Gin — metaforico compagno, s’intende. Non è forse una condizione tragica quella cui è sottoposto l’eroismo del giovanissimo proletariato post-moderno? La domanda si alza e la risposta è lo specchio dopo la sveglia delle 7:30, in pigiama, i traumi mattutini di Rick: le mani sudate; il cuscino sbavato; l’iride di sterco, la forma mandorlata delle palpebre, così poco fascinosamente orientale; i capelli duri come il frumento, il cui colore richiama il giallo d’urina che indora la paglia campestre nei mesi più afosi — prima di “la Scopa”, gli aedi avevano proposto una pena nominale per contrappasso: “e se lo chiamassimo il Biondo?”. E poi quella statura da sedicenne in attesa, che ancora sogna. I piedi che cominciano a somigliare a quelli di un Bilbo Baggins; il meteorismo inestinguibile come la sete. Ma s’aggrappava a una frase, Rick, all’alba delle mattine più dure: una sententia antica pronunziata con la voce grave e calda degli adulti più cari, la più alta delle speranze post-pubertà: “fino ai vent’anni; fino ai vent’anni si cresce” — s’era dato quel limite prima d’ammettere la sconfitta del metro e settanta. L’ultimo gesto compreso nella ritualità del risveglio consisteva nell’indagine delle foreste ascellari: quell’odore sapeva creare un’aurea circolare attorno alla sua figura, pareva descrivere una lotta furiosa fra ormoni in conflitto, che s’incornavano l’uno con l’altro a graffiare i respiri. Tempo al tempo: un giorno, era sicuro, ne sarebbe andato fiero. Il profumo non era altro che una moda: sarebbe passata.

7. Son Row School, Vike City, seconda porta del primo corridoio. L’intervallo è concluso: gli alunni tornano ad occupare i punti del sistema. Rick Gin non si è alzato: ha seguito i movimenti di Lisa More, il docile oscillare delle gambe dalla porta al banco. Ora, dal basso, osserva con cupida brama la cima della piramide, partecipe ignaro dello Spettacolo. E gli sovviene un fruscio estivo ma fresco, una brama tattile e prensile, che sviluppa le immaginifiche capacità del pollice opponibile: ovvero Rick Gin, cadendo lo sguardo sulla scollatura di Lisa More che s’era voltata verso una collega, s’accorge d’un tratto che vorrebbe toccarla, la vetta. Toccare. Già. Osservare non lo sazia più. Rick si convince che la contemplazione non può essere l’ultimo stadio dell’itinerario della mente: non può esserlo se ancora avanza un desiderio più concreto e fisico. Toccare. Già, perché più gli occhi restano concentrati, più i neuroni impazziti s’informano di dettagli succosi: una leggera oscillazione del campo visivo mostra che la vetta della piramide è bipennata. Toccare. Non solo Lisa More, anche Linda Blunt. Toccare. Toccare le vette, di Linda Blunt. Di Lisa More. Le vette. Toccare. Toccare. Toccarle. Strizz-“Oh!”, una voce maschile, estranea lo distrae, un gomito lo sfiora: “sta entrando la Mc Pie”. Rick respira con più calma, finge una smorfia di ringraziamento. Stringe le dita, che quasi gli dolgono. Lo zoom visivo si allarga, ponendo gli oggetti ermeneutici nel loro contesto storico-naturale. Eccole lì: una fila di banchi davanti alla sua, l’una di fianco all’altra. Le vette. Toccare.

8. Nonostante l’ingresso della professoressa Mc Pie, Rick ritorna all’analisi autoptica. L’attitudine allo studio lo conduce all’elaborazione d’una precisione chirurgica della volontà: lo zoom si restringe, il campo torna a concentrarsi sulle cime della piramide. Un primo piano d’autore di film per adulti. Non vorrebbe più soltanto toccarle, le vette. Vorrebbe averle, entrambe: possederle nella totalità grassa e unta del mondo vero. Averle entrambe: stringerle. Già. Strizzarle. E poi apparire con esse: apparire era l’ultimo punto, ma contava meno. Era speculativo. Arrivò a provare dolori simili a quelli che i Werther d’ogni adolescenza — insicuri e imbottiti di retorica — provano per il feticcio romantico del possesso: ma la causa ora non era Amore, era il conflitto. Immerso in queste riflessioni, Rick non s’accorge di ciò che appare nel mondo dei fenomeni: la pressione del suo sguardo dev’essere così graffiante da portare una delle due — Lisa More, come per istinto — a compiere una scattante proiezione del torace verso la radice pulsante di quell’energia ossessiva, di cui l’inconscio borghese avvertiva l’inadeguatezza. Rick, sconvolto tanto dalla velocità quanto dalla leggerezza dei gesti — i capelli avevano seguito il corpo in crescita come un cagnolino distratto segue la padrona — mantiene la fissità generatasi dal terrore, le sopracciglia paiono gonfiarsi di folte preoccupazioni, le mani sudano, scivolano dal banco; piove sulle foreste ascellari, sulla pianura frontale, sui piedi da Hobbit. “Ehi, Linda, guarda un po’”, “Guarda ‘sta Scopa”, “Cosa?”, “Ci fissa”. Non appena si voltano —entrambe, questa volta, sempre mantenendo la speculare struttura tanto misteriosa quanto naturale delle mestruazioni parallele — lo sguardo di Rick, quale passero poggiato sul ramo, s’invola spaventato verso le mete ignare della prima finestra disponibile: appena in tempo, prima che il fuoco fatuo dei cristallini si riveli fuoco incrociato. Ma la simulazione — così come la spontaneità — non costituivano la specialità personale del repertorio qualitativo di Rick Gin, ed ogni gesto risuonava nell’aria vuota come goffo, imprudente accusa alla società intera: società incarnata, in questo frangente, dalle paladine della giustizia interna. Ogni gerarchia — dalla comunità medica al microcosmo d’ogni classe scolastica — si autoregola: è come un termosifone troppo intelligente.

9. Lisa gli parlò: non era una domanda elevata nella forma. Si chiedeva, a metà fra retorica e sincero disgusto, quale specifico tributo dionisiaco-fallico, ligio alle usanze d’alcune tradizioni giapponesi, desiderasse da loro. La semantica violenta non giunse alle remote zone della psiche di Rick Gin: quegli spazi che traducono i concetti recepiti — ininterrotta musicalità — e li digeriscono, quali molecole alimentari, scindendoli in foni, fonemi, morfemi, sintagmi. Il tutto rimase nel limbo delle percezioni interrotte, nel traffico mattutino delle metafore pendolari. Ciò che contava, nell’universo costruttivista di Rick, stava nel destinatario: il destinatario, era il messaggio. Ed era lui, il destinario. Era lui che contava. Era la prima volta che si rivolgevano a lui — già, proprio a lui — con la seconda persona? “Tu, Gin?” Davvero? La frenesia delle circostanze pervadeva la classica razionalità che lo contraddistingueva nelle fervide lotte di Pokemon alle elementari. Ma era vero: Lisa parlò a lui –- già, proprio a lui –-, la voce era ormai quella dei sogni per il giovane Rick, ammaliato ed estasiato dalla sola apostrofe iniziale. Eccitato: un sincretismo di folklore digitale s’alzava; ed era gioia e imbarazzo.

10. La reazione alla domanda di Lisa More non giunse: non vi fu risposta. Non fu tanto un’assenza d’azione, quanto un’incapacità psicofisica, pineale. Conscio della propria goffaggine, Rick preferisce rispettare il principio della conservazione di massa, mai pienamente compreso nelle lezioni di fisica –- bisogna dire che Rick la Scopa Gin era rappresentazione icastica dello stereotipo scolastico ribaltato: molto impegno e molta applicazione, risultati scarsi. In principio, Lisa e Linda non colgono il nesso fra l’attacco e la reazione vuota –- sempre più attesa, come un segno del nemico in una guerra di posizione. Quando il silenzio e l’immobilità paiono volgere, come neve, su ogni fonte di luce, l’animo bellico di Linda ha un sussulto che si direbbe d’orgoglio, se non d’affetto verso il proprio universo razionale: privarle d’un confronto, ma come si permette, ‘sta Scopa?!, ‘sto scemo!, ‘sto coglione!: già, ’sto fetente!. “Gliela facciamo pagare, questa!”. “Aspetta che la Mc Pie si gira”, “Non farti beccare”. Rick restava immobile: nella sua mente conservava la massa, ed era la scelta migliore. Fuori dalla finestra, oltre le fessure delle tapparelle, un corvo muto e scuro: elegante fugge.

11. Rick non parlò e non si oppose durante l’esecuzione della condanna, subìta non senza una coerenza giurisprudenziale interna, il cui verdetto inappellabile fu “colpevole”. Di cosa, poi, ben non si sapeva: figurarsi su quali basi. Rick patì senza dare aperta mostra di rassegnazione, come si accetta un’esistenza priva di senso: la coscienza d’essere un capro espiatorio. Doveva farsi eroe, per sopravvivere. Per dare una speranza a se stesso e alla classe dei sommersi: qualcuno lo avrebbe ammirato, oltre che compatito. Fu una visione progressiva, che iniziò con quella sopportazione inattesa e volgare. Maturare una tacita svolta. Era deciso a sviluppare una vendetta, nell’incomunicabile mutismo della sofferenza umana ingiustificata, nonché inevitabile. Comprese che era giusto, doveva essere così: che non potendo attuare una rivoluzione collettiva nel sistema-terza C — une vera Lotta di classe — l’oppresso doveva agire con tecniche di rivolta individuali. Uscì per ultimo dall’aula, sotto gli occhi impotenti e pietosi della signora Mc Pie, il cui pensiero va pur sempre alle vittime. E gli sovvenne un’intuizione, sul pullman, a Rick Gin: logica conseguenza delle prime ammissioni. Una conoscenza intuitiva a corroborare la tempra delle tesi precedenti, stratificatesi ormai nell’inconscio. Venne come un ladro, come le istanze dell’Essere: mentre osservava dal finestrino le gocce di pioggia ferme, immobili prima di cadere, condannate. Le gocce che poi si trascinavano giù, come lumache. Ripensò al corvo, ultimo fotogramma prima della tragedia: si disse “mai più”, con la convinzione del tossicodipendente. Lo colse poi una serie di questioni, una raffica psicologica d’origine masochistica: c’era un piacere nell’essere sopraffatti? E la risposta, ora come per i successivi quesiti, fu sempre la stessa. C’era un senso nell’etica del dolore? Mai più. Perfino la libertà può essere oggetto d’alienazione? Mai più. E le sensazioni? Mai più. Provava rancore? Mai più. Che cosa cercare, illusioni? Mai più. Mai più: mentre cadeva l’ultima goccia del quadro sovvenne l’idea finale, parvenza di orizzonte totale sul cosmo al crepuscolo. L’illuminazione politica, personale. Non era una risposta. Era una forma del pensiero che superava le canoniche dinamiche della quaestio. La verità svelata d’un tratto, sui misteri del tempo umano, sulle leggi della dialettica, sulla condizione dello Stato e sull’amore puro, sulla Rivoluzione: più che articolarsi per essere comunicata, questa verità si tradusse in un proposito d’azione.

12. Rick entrò in camera, chiuse la porta a chiave. La madre — Dorothy Fletcher — sentì il rumore della serratura e della chiave che gira, un vuoto di cecità giocastica le corse lungo i reni: atavico ed eterno. Un lampo le illuminò ogni errore di madre: la separazione genitoriale si traduceva nei confini interni alle mura domestiche, entro le quali non si viveva come in una comunità, ma come in un groviglio di solitudini destinate a marcire: la conoscenza procede per illuminazioni irrazionali; si direbbe eredità cristiana. Dorothy Fletcher si fermò: si sedette. Dorothy Fletcher accese il telefono ed espose sulle bacheche immateriali la trasposizione linguistica stereotipata del proprio disappunto, per affermare con volto piangente che “Dorothy Fletcher è preoccupata”.

13. La nuova società di vergogna spingeva Rick a farsi utente passivo delle comunicazioni mediatiche, piuttosto che leader attivo e propositivo: un’esistenza silenziosa a non rendersi noto, a scomparire nell’ombra. L’esperienza orizzontale non si adattava al verticale senso delle cose vissute, che si facevano storiche nella memoria; e coloravano le stanze. E questa stanza: dell’infanzia, di noi che siamo terra e gioco. Saper giocare è essenziale. Ma ora, adesso: quale ruolo nel grande gioco del mondo? Che cosa poteva mostrare Rick Gin ai pollici del cosmo? Quale parte fisica di sé poteva prostituire nella sublimazione degli sguardi passionali? Le domande erano giuste, sensate. Ma la vendetta doveva passare da qui: dai loro mezzi, oltre i filtri razionali. Mai più, s’era detto. Rick accese il telefono — lo aveva spento per evitare di notare racconti d’icone rappresentanti la trasmissione della propria tragedia — ed entrò nel network. Attraversò la foresta derisoria delle nuove tribù digitali. Passò per la violenza e il degrado, per la stagione del calore e i ghiacci, per le teorie di Girard e gli uomini di Malinowski, per i terrori apocalittici e le profezie di Babele. Passò fra Lestrigoni e Ciclopi: fra hipsterici vestiti ed egocentrici urli; noiose vanità notturne nascoste nel linguaggio dell’anticonformismo radical. Passò fra natiche panoramico-marine di ninfe in bichini, fra superfici d’amicizia e clientele cesariane. E vette. Enormi vette. Finché, ormai fatto savio e stanco — era impossibile tornare a Itaca: dov’è Itaca? — giunse al caloroso nocciolo della propria alienazione, annunciato dall’epigrafe: “Io sarò per te condanna, L.”. Alla fine del viaggio Rick Gin ebbe come l’impressione d’essersi lasciato alle spalle un deserto. Alle spalle il peso di un Dio turbinoso e fraudolento. Come se il rumore, nell’eccesso, avesse raggiunto quella soglia oltre la quale ogni suono ritorna nel silenzio. Rick continuò nei suoi propositi: la prima vittima della vendetta sarebbe stata Linda Blunt, la quale, fra le due matrone di Governo, era parsa agire con maggiore rabbia nell’applicare la colla vinilica ai capelli color paglia — non che a un trattamento simile sarebbe sfuggita, in seconde nozze, anche Lisa More. Rick poteva ammirare, assieme ad altri mille pollici, le immagini che Lisa — previa accettazione iniziatica — aveva scelto per presentarsi al mondo: l’insieme lo colpì, poi l’analisi delle singolarità lo spinse a scorrere verso il basso; era una forza gravitazionale dell’estetica corporea. L’attenzione si fermò sui prodotti della stagione estiva: i più gettonati dagli utenti sconosciuti, oltre che i più riconoscibili. Si fermò lì dove la kantiana cosa in sé si mostra intellegibile, sebbene non esplicita: ai confini fra il conoscibile e il noumeno delle curve e dei seni — d’altronde bisognava che ci fosse della creatività nell’atto vendicativo. L’occhio cade poi su alcune figure particolari, che tradiscono una confidenza intima e, si direbbe, teneramente femminile con il terreno, su cui poggiano le ginocchia sporche di bianca sabbia. E’ il momento della vendetta: Rick si slaccia la cintura. Una mano a reggere lo schermo, l’altra a cercare il falco alto levato della repressione sconfitta, della rivolta individualistica e minoritaria, del mondo sommerso di coloro che non comunicano, del “Mai più” -– “Dorothy Fletcher è preoccupata”, e a quattro persone piace questo elemento. Rick Gin agisce senza un pensiero, coglie la radice dei problemi con la precisa volontà d’alleggerire il bagaglio dell’oppressione: s’aggrappa all’arma del risorgimento proletario. Tutto sarebbe partito da qui.

14. L’epilogo della lotta, breve e priva d’amore, non è altro che un ghigno. Sul viso di Rick Gin resta una smorfia impossibile da connotare in positivo o in negativo: il fulgore rivoluzionario s’attenua piano; si comprende soltanto l’odore sudaticcio e acre del fiore goduto, bergsoniano inno all’amarezza dei piaceri. Un alone di tristezza lo avvolse d’un tratto, una volta appoggiato il telefono sul comodino. Oltre le tende pensò esserci il corvo della mattina: non parlava. L’epifania di Rick Gin fu tragica e tardiva come quella d’Aiace Telamonio: alla pazzia si sostituisce una frustrazione che non conclude e non distrugge; che è sottile, asintotica. L’epifania di Rick Gin fu la realizzazione che esiste soltanto una vendetta per l’oppresso, ed è una vendetta autoreferenziale, priva di riconoscimento. Che esiste un distacco fra il reale corso delle cose e l’universo delle icone. Che nello spettacolo delle illusioni, il problema resta la proprietà privata dei mezzi di produzione. L’epifania di Rick Gin fu sintetica, fu un seme disperso nei campi dell’intelletto: che le immagini non si possiedono, mai. Che i sommersi resteranno sommersi.

15. E poi c’è l’alienazione, ovvio. L’alienazione.

(foto: Perry Como, When you were sweet sixteen, New York Public Library)

Guglielmo Embriaco detto il Malo

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di Luigi Preziosi

Marzo 1116. Dal porto di Genova salpa una galea, carica di merci, comandata da Guglielmo Embriaco detto il Malo, appartenente ad uno dei casati più illustri della città (gli Embriaci), e circondato dalla fama di eroe della crociata da poco terminata: è anche grazie alla sua idea di smontare le navi della flotta genovese per trasformarle in macchine da assedio e torri d’assalto che Gerusalemme è caduta.
Dalla Terra Santa ha portato un vaso di smeraldo esagonale, in cui si dice che Cristo abbia mangiato l’agnello nell’ultima cena: qualcosa di molto simile al Graal, o forse proprio il Graal. Quindici anni prima, a Cesarea, un vecchio sapiente ebreo ha insinuato il dubbio che fosse un falso, asserendo che l’originale era stato trafugato: labili indizi lo darebbero rintracciabile in qualche località della Cornovaglia bretone. Dopo tanto tempo, ora Guglielmo vuole conoscere la verità. Per questo arma la Grifona, una galea di nuova concezione, e con più di 190 uomini fa rotta verso Gibilterra, puntando poi verso l’Atlantico, fino alla remota Bretagna francese, seguendo una rotta raramente prima battuta. Dopo un viaggio drammatico, ricco di avventure e di-savventure, di incontri, di agguati ed inseguimenti sul mare, di tempeste oceaniche di proporzioni mai viste dai marinai genovesi, arriverà alla meta, dove si confronterà con le memorie di antiche leggende, relative al regno di un tempo remoto di re Gradlon e e alla antica città sommersa di Ys.
Ma gli episodi più inquietanti avvengono sulla galea, dove, nelle notti di novilunio, quando le tenebre avvolgono la nave, si sgrana la lugubre sequenza delle efferate uccisioni di tre ufficiali, ai quali viene viene ogni volta estirpato il cuore dal petto. Il comandante è costretto allora ad improvvisarsi inquisitore, con l’aiuto di un giovane scrivano, Oberto da Noli: l’indagine non dimostrerà altro che l’impotenza del comandante ad arrestare gli omicidi, e la soluzione si paleserà con diverse modalità, mostrando quali inaspettate forme possa assumere l’affermarsi della giustizia tra gli uomini. In parallelo alla ricerca di Guglielmo si dipana la storia di Giannetta Centurione, figlia di un ricco mercante genovese, mandata in moglie per motivi di fusione di patrimoni familiari al rampollo di una delle famiglie più in vista della città. Odiata dalla matrigna, e riottosa all’idea di un matrimonio di convenienza con chi non ama, riesce a far fiorire in sé un senso di spiccata indipendenza, manifestato sia nello scegliere un amore diverso da quello a cui è destinata, sia nel coraggio che la sorregge nel compiere scelte decisive per la sua stessa esistenza.
Questa, in estrema sintesi, ed omettendo per evidenti motivi il finale, la storia raccontata da Giuseppe Conte in I senza cuore (Giunti, 2019), recente prova narrativa di un autore che ha percorso gli ultimi decenni della nostra letteratura cimentandosi innanzitutto con la poesia (si veda, a definirne l’accertato valore, l’Oscar Mondadori del 2015, giunto al culmine di una trentennale attività), ma capace di svariare con esiti altrettanto convincenti nella saggistica, nel teatro e nel romanzo. Nella prove narrative Conte applica con esito felice la propria disponibilità all’esplorazione di temi, trame ed anche soluzioni stilistiche diverse: se ne può misurare l’ampiezza anche solo confrontando il medioevo (non privo però di rimandi sottintesi alle penombre della nostra modernità) di I senza cuore con la bruciante contemporaneità del suo penultimo romanzo, Sesso e apocalisse ad Istanbul, uscito appena un anno fa, teso a rappresentare le angosce, che, pur radicate in un remoto passato, popolano ancora a pieno titolo i nostri giorni.
I senza cuore fa propri i topoi classici di più di un genere letterario. E’ con tutta evidenza un robusto romanzo storico, per la sua precisa collocazione temporale: af-fascina il senso di autenticità che percorre tutto il libro, derivante dall’accurata ricostruzione storica, e dall’altrettanto accurata descrizione del mondo marinaresco medievale (a fine libro è presente perfino un glossario dei termini utilizzati). Figura sto-ricamente accertata è poi Guglielmo il Malo, detto anche Guglielmo Testa di Martello, a cui Conte attribuisce una personalità perennemente oscillante tra carnale ferocia ed ingenua religiosità: ne testimonia le gesta Jacopo da Varagine nella Cronaca della città di Genova (Guglielmo poi, prima di diventare protagonista del romanzo di Conte, attraverserà rapidamente anche la Gerusalemme liberata). Ed è Guglielmo che, di ritorno dalla Crociata, porterà con sé il vaso di smeraldo, che, altro elemento di verità storica, è attualmente conservato nel Tesoro di San Lorenzo a Genova. Di lui, però, dal 1112 in avanti non si hanno più notizie nelle cronache dell’epoca, il che autorizza la virata verso quel grado di libertà superiore consentita in linea generale dal romanzo di avventura, senza che perciò solo ne debba scapitare la densità di significato etico della narrazione. Con ciò Conte supera un pregiudizio storico (ultimamente per fortuna un po’ attenuato) nei confronti del romanzo d’avventura, e rende allo stesso tempo omaggio ad alcuni classici della narrativa anglosassone: basti pensare a Melville, Conrad, Stevenson…
E l’avventura che sostanzia il romanzo è originata dall’ansia di conoscere la verità che ritorna dopo anni a tormentare Guglielmo, che trova occasione di manifestarsi anche durante l’infruttuosa inchiesta sugli omicidi dei suoi ufficiali. La declinazione (anche) poliziesca della trama, con tutto ciò che implica in tema di tensione verso la verità, può indurre ad accostare il protagonista al Guglielmo da Baskerville del Nome della rosa. Ma lo sforzo investigativo del Guglielmo di Eco tende all’affermazione della ragione sulle tenebre della superstizione: la conoscenza intuitiva empirica (la dimestichezza con l’uso del rasoio di Occam gli consente le semplificazioni necessarie allo scopo) è in grado di svelare i misteri del mondo che ci circonda. Guglielmo il Malo, pur respingendo le ipotesi di creature demoniache come autrici dei delitti, come invece sostiene il cappellano di bordo, vive invece un medioevo pieno, nel quale non si percepiscono ancora premonizioni del futuro umanesimo. La sua ricerca punta ad una verità metafisica: per gli uomini del suo tempo lo spirito pervade la materia ed il mondo non è tutto conoscibile.
Guglielmo non è l’unico a cimentarsi con la ricerca della verità. Il romanzo brulica di personaggi, di cui Conte tratteggia bene i tratti essenziali a mano a mano che a ciascuno tocca una parte nella complessa macchina narrativa: dagli ufficiali massacrati Primo Spinola, Lanfranco Piccamiglio e Astor Della Volta, ognuno con caratteristiche caratteriali ben definite, al gelido tesoriere Bernardo Malocello, al cappellano don Rubaldo Pelle, al mastro d’ascia Carnac il mancino, arruolato durante la traversata e diventato in breve braccio destro di Guglielmo, a padre Brennan, custode nella biblioteca del suo convento di un insieme indistinto di memorie storiche e leggende, e tanti altri. Ed una rinnovata riflessione su se stessi, un diverso riconsiderare il modo di rapportarsi con il mondo sommuove alcune coscienze durante la navi-gazione: in particolare il mastro d’ascia Pietrabruna, che, sbarcato a Lisbona, lascia i compagni ed il suo antico comandante per immergersi nel misticismo sufi, e lo scrivano Oberto da Noli, che cerca armonia ed equilibrio in Seneca e Virgilio, autori appassionatamente compulsati durante la traversata; anche Giannetta in fondo sperimenterà la tensione verso il rinnovamento di sé, al termine di un itinerario psicologico certo non consueto.
Ma la nostalgia della verità innerva una ragione più specifica, fondamento del viaggio della Grifona e del suo capitano. La ricerca di Guglielmo solo apparentemente è simile alle tante quêtes che affollano le narrazioni medioevali: ha, al contrario, una sua specifica originalità. Guglielmo non cerca, infatti, un oggetto miracoloso dall’incerta esistenza: lo possiede già, cerca invece la prova della sua autenticità. E’ dal possesso non dell’oggetto, ma della verità sull’oggetto, che potranno derivare gli effetti miracolosi che Guglielmo si aspetta, ed in cui crede. Ed allora, l’itinerario per questa ricerca non attraversa le selve in cui si erano aggirati Parsifal e Galaad, ma il mare, tant’è vero che è durante la lunga navigazione che gli uomini in ricerca a bordo della Grifona giungono a qualche forma di composizione delle inquietudini che li affliggono. Alla malia del mare, rappresentata con mano felice nella sua obiettiva naturalezza, nelle bonacce e nelle tempeste, Conte pare attribuire una sorta di funzione catartica, che supera la contingenza necessitata dall’economia della narrazione: se è ve-ro (Keats insegna) che la verità si rivela nella bellezza, è proprio nello smisurato splendore del mare che i naviganti della Grifona (e noi con loro) la possono cercare.