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Il vino buono

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di Antonio Sparzani

A chi venisse in mente di salare il vino, o, meglio, i vini, io non darei alcun affidamento, se poi lo facesse nel mese di maggio, peggio che peggio, vi immaginate voi uno stupendo nebbiolo, o un brunello ben invecchiato con dentro del sale? Io proprio non riesco non solo a desiderarlo, ma neppure ad immaginarlo. Per non parlare poi dei soprannomi e dei nomignoli con i quali costui potrebbe venire indicato, ma questi li lascio immaginare a voi.
Vi immaginate poi se dovesse rivestire una carica pubblica che pessimo esempio darebbe ai concittadini, non solo lombardi e piemontesi ma perfino agli abruzzesi, con quella loro mania di saltare la doppia “g” nelle parole, così che “raggio” lo pronuncerebbero qualcosa come “raio” o simili.
Non si capisce poi perché un tale individuo dovrebbe perpetrare un simile delitto, forse per paura della migragna (o anche micragna, come avverte il dizionario Garzanti della lingua nostra), cioè della penuria di vino che gli si produrrebbe se tutti bevessero il suo buon vino non salato, tantoché mi dicono che tutti costoro che vorrebbero bere il suo buon vino, lui li chiama “migragnanti”, o per brevità “migranti”. Perché è anche un po’ ignorante e non sa che così invece si designano tutte quelle persone, esseri umani come lui e che mai forse farebbero queste corbellerie col vino, che scelgono di cambiare paese perché al loro paese stanno male, o sono perseguitati, perché sul pianeta nostro di stolti perseguitanti ce n’è tanti, del genere del Nostro, ricordiamocelo. E che poi – ormai lo si è detto milioni di volte – gli italiani in tempi anche non troppo lontani sono stati migranti un po’ dappertutto, e talvolta bene e talvolta male, accolti, ma pur sempre accolti, e autorizzati a fare un lavoro per mantenersi. Che se poi andiamo a tempi lontani, ma bastano meno di un migliaio di generazioni, tutti noi che siamo qua nel bel paese, siamo arrivati dal sud, da quello straordinario serbatoio di vita nascente che è stata l’Africa. Ci fosse ancora il grande Luigi Luca Cavalli-Sforza, gli farebbe lui una bella spiega di cosa accadde nell’umanità, anche se ormai quasi ogni giorno si apprende che nuovi reperti sono stati trovati, con resti umani, di tipi ancora non ben classificati e che comunque sempre se ne sono andati in giro per il mondo.
E perché mai dovrebbero tutto d’un colpo fermarsi?

(vignetta di Kira Boker)

“Migrazioni nel Mediterraneo”: per sfidare gli stereotipi sulle migrazioni

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a cura di Gabriele Sirtori

L’immigrazione è stato il tema in assoluto più trattato nelle campagne elettorali degli ultimi anni. Clandestini, rimpatri, respingimenti, sicurezza: queste sono alcune delle parole chiave della politica oggi. Ogni giorno almeno un telegiornale o un talk show affrontano questo argomento e quotidianamente sono proposti al pubblico dibattiti, grafici, dirette, numeri. Un fiume di parole e immagini che scorre ininterrotto da almeno tre anni.

Ciononostante, il livello del dibattito pubblico su reti televisive e quotidiani nazionali è rimasto particolarmente stagnante e ancorato ad informazioni spesso volutamente parziali. È proprio in questo contesto che si apprezza ancora di più lo sforzo compiuto da Giuseppe Acconcia e Michela Mercuri nel curare la collettanea Migrazioni nel Mediterraneo: Dinamiche, identità, movimenti, edita da FrancoAngeli.

Il testo rappresenta un passo importante nel dibattito nazionale sul tema per almeno due motivi. Innanzitutto, il punto di vista è innovativo: il volume non vuole studiare l’immigrazione da una prospettiva esclusivamente europea, ma sceglie come oggetto di studio lo spazio più ampio e completo del Mediterraneo allargato. Non tutti i flussi, infatti, mirano al vecchio continente, e gli stati europei non sono gli unici a dover fare i conti con instabilità e insicurezza dovuti all’arrivo massiccio di immigrati. Allargare la visione, studiare come altri stati – Libia, Turchia, Siria, Egitto – rispondono e storicamente hanno risposto a simili problematiche, nel loro doppio status di paesi di emigrazione e di immigrazione, fornisce un’utile chiave di lettura per capire come si struttura, socialmente e politicamente, l’attuale fenomeno migratorio, quali i suoi driver e quali le possibili prospettive di evoluzione.

L’altro punto di forza del libro è il suo approccio interdisciplinare. Quando si parla di migranti è bene ricordarsi che prima di tutto si tratta di persone, esseri umani che interagiscono con altri esseri umani. Per questa ragione non basta affidarsi esclusivamente alla letteratura su conflitti e sicurezza, ma occorre indagare il fenomeno anche alla luce della psicologia, della sociologia, dello studio dei movimenti politici e civili.

Il libro si struttura in due parti: nella prima il focus è sul Nord Africa e Medio Oriente, nella seconda ci si concentra sull’Europa.

Nord Africa e Medio Oriente

Nella prima parte si indaga il fenomeno migratorio negli stati a Sud e a Est del Mediterraneo. L’originalità di questa pubblicazione, come detto, sta nello studiare quei paesi – Libia, Egitto, Siria, Giordania, Turchia – che normalmente sono considerati solo in virtù del loro essere un punto di partenza verso l’Europa, nel loro rapporto con le immigrazioni provenienti da altri stati e con le comunità migranti ivi stabilitesi nel lungo periodo.

Il primo capitolo, a cura di Michela Mercuri, tratta della regione libica del Fezzan, situata a Sud al confine con Niger e Ciad. A seguito della caduta di Gheddafi e della guerra civile questa regione ha raggiunto un discreto livello di autonomia e autogestione. Meno popolata rispetto alla costa e storicamente periferica rispetto ai centri economici libici, questa regione ha visto una sorta di “rinascita” a seguito dell’arrivo di migranti dagli stati confinanti in fuga da persecuzioni e carestie. Inizialmente accolte da Gheddafi per fini politici e militari, queste popolazioni hanno finito con il creare reti commerciali con i paesi del Sud, sviluppando in alcuni casi una discreta ricchezza e dando vita a grossi centri abitati informali. Tuttavia si tratta per lo più di commercio illecito e di gestione della tratta dei migranti, ma questo non deve indurre a sottostimare la loro importanza per la stabilità della regione (e la conseguente diminuzione di flussi migratori clandestini) qualora fosse offerto loro, tramite incentivi economici mirati, la possibilità di un’alternativa lecita agli attuali traffici.

Comunità migranti poi hanno anche conseguenze profonde sui movimenti politici dei paesi ospitanti. Giuseppe Acconcia traccia un parallelismo tra due momenti storici importanti nella vita di due paesi chiave nella regione: Egitto e Siria. Sia nel periodo compreso tra il 1918 e il 1920, sia durante le proteste delle primavere arabe del 2011, infatti, le comunità straniere residenti in Egitto – nazionalisti pan-arabi e pan-islamici in fuga da altri stati nel primo caso, profughi palestinesi e successivamente siriani nel secondo – hanno contribuito attraverso reti alternative a formare nuovi mezzi di mobilitazione popolare che hanno portato a profondi cambiamenti di sentire politico sia in Egitto sia, di riflesso, in Siria. In entrambe le epoche questi movimenti hanno però dovuto lasciar spazio a populismi e a retoriche nazionalistiche spesso xenofobe, come nel caso dell’Egitto di al-Sisi.

Lorenza Perini, nel suo saggio sulle donne del campo profughi di Zaatari, in Giordania, affronta il tema della permanenza dei migranti nei campi profughi, un momento psicologicamente delicato in quanto i loro abitanti sperimentano il passaggio dallo status precario di profugo in fuga (con la prospettiva di un ritorno a breve) allo status di abitante stabile del campo, con tutto il conseguente carico emotivo di ridefinizione della propria esistenza, del proprio ruolo familiare e sociale e dei propri spazi, che da mobili e momentanei diventano stabili come una vera casa. Questo momento è particolarmente delicato per le donne, che spesso si trovano nella difficile situazione di essere capifamiglia in una società tipicamente patriarcale.

Le migrazioni poi, è bene ricordarselo, sono un pericolo per i nazionalismi. È il caso della Turchia dove, come ricorda il capitolo curato da Alberto Gasparetto, il partito di Erdoğan, l’AK Parti, nonostante le aperture politiche ai diritti per i curdi in nome di una comune sovra-identità islamica e nonostante negli ultimi anni la Turchia si sia trasformata in un paese prevalentemente di immigrazione, non ha riservato un trattamento omogeneo ai profughi in arrivo dalla Siria. Anzi, secondo alcune fonti avrebbe attivato politiche di respingimenti in diverse regioni periferiche, in particolare quelle a maggioranza curda. La tesi di Gasparetto è che per il governo di Ankara la composizione etnica (e quindi la maggioranza turca) della Turchia sia ben più importante dell’islamismo spesso associato a Erdoğan. Le aperture ai curdi turchi in nome della comune religione seguirebbero quindi logiche elettorali e non una vera volontà di inclusione identitaria.

Europa e casi studio

Nella parte finale lo sguardo è all’Europa, vista però non con gli occhi europei di chi si difende da una minaccia incombente, quanto con gli occhi di chi vi emigra e di chi, regolarmente stabilitosi in tempi recenti, si trova a viverci da estraneo, da esule.

Punto d’avvio dell’analisi è una critica alla politica dei confini dell’Unione Europea, in cui l’integrazione fra stati membri è avvenuta solo in negativo, ovvero nel coordinamento delle politiche di respingimento, come fanno notare Marco Omizzolo e Pina Soldano. Gli autori evidenziano due risultati negativi: l’esternalizzazione dei confini, la cui difesa è “appaltata” a stati terzi (come Libia o Marocco), in cui l’Europa tollera la quotidiana violazione dei più basilari diritti; e la clandestinizzazione del migrante, ovvero la tesi distorta secondo cui gli immigrati si dividerebbero in sé (e non ex lege) in regolari e irregolari. La verità è più complessa e vede spesso ingressi regolari seguiti da soggiorni irregolari e viceversa. La criminalizzazione dell’immigrazione è quindi spesso una semplificazione a fini propagandistici.

La permanenza in Europa, poi, anche quando regolare, non va assolutamente considerata come un momento privo di criticità. Spesso infatti sorgono disturbi identitari e psicologici legati alla necessità di ridefinire gli obiettivi della propria vita, i propri spazi e il proprio ruolo all’interno di una comunità. È il caso degli intellettuali turchi intervistati da Aslı Vatansever. Rifugiati in Germania a seguito delle persecuzioni politiche da parte di Erdoğan descrivono la loro permanenza come un “purgatorio”, uno stato di perenne instabilità e incertezza sul futuro in cui è difficile trovare la serenità per vivere la propria quotidianità.

Le Comunità residenti all’estero con il tempo finiscono per formare reti di solidarietà e di supporto reciproco e spesso riescono a esercitare un peso politico tale da influenzare anche le dinamiche politiche in patria. È il caso della comunità diasporica curda in Occidente, molto presente e attiva anche in Italia, dove negli anni Novanta ha trovato rifugio per un breve periodo il fondatore del PKK Abdullah Öcalan. La diaspora si è rivelata essenziale nel forgiare l’identità curda e nella attività di “lobby” verso i governi e le principali istituzioni del paese, ma soprattutto nel sensibilizzare l’opinione pubblica e mobilitare la società civile a favore della causa curda durante i momenti più duri della guerra civile siriana. Se oggi esiste un esperimento come lo stato di Rojava è anche sicuramente merito dell’attivismo della comunità curda diasporica, come dimostrano Giuseppe Acconcia e Giovanni Balslev Olesen.

L’ultimo capitolo è infine dedicato ai rimpatri. “Rimpatrio” – o forse più correttamente “espulsione” o “deportazione” – è un termine caro ad una certa area politica. La realtà, però, è ben diversa dalla sua rappresentazione mediatica e propagandistica. Questo soprattutto per due motivi. Il primo è la limitata efficienza del sistema di accoglienza, identificazione e rimpatrio basato sugli Hotspot e sui CPR (centri per la permanenza e il rimpatrio, ex CIE, centri di identificazione ed espulsione) e sugli accordi bilaterali di rimpatrio con alcuni stati africani e asiatici. Fino al 2017 meno del 50% della popolazione detenuta nei CIE era stata rimpatriata. Spesso, infatti, si assiste al rifiuto dei detenuti di rivelare la loro vera nazione di origine; altre volte, in assenza di un accordo di rimpatrio, ai detenuti viene consegnato un decreto di espulsione con l’idea che questi provvedano da soli al rientro in patria. Il secondo motivo è la resilienza dei migranti, come testimonia il caso della Tunisia – paese con cui l’Italia ha un accordo di rimpatrio – analizzato da David Leone Suber. Per molti giovani tunisini la migrazione verso l’Italia si configura come una serie ciclica di viaggi, permanenze e rimpatri. Il rientro in Tunisia non viene vissuto come un fallimento, ma come un periodo in cui organizzarsi per la successiva ripartenza. Una vita nell’illegalità in Italia è comunque preferibile alla stagnazione e miseria economica di molte regioni depresse della Tunisia. Il rimpatrio, in conclusione, non è in alcun modo una soluzione.

Conclusioni sulle migrazioni

A fine lettura quel che resta è un senso di grande amarezza. Amarezza non tanto per la tragedia di chi è costretto a migrare o per la povertà delle soluzioni al problema adottate al momento dall’Italia e dall’UE, quanto per la siderale distanza tra i limpidi risultati della ricerca accademica italiana sull’argomento, di cui il libro curato da Acconcia e Mercuri è un ottimo esempio, e la tossicità del corrispondente dibattito pubblico. La difficoltà del comunicare i risultati della ricerca universitaria al grande pubblico è una questione comune a molte aree di studio, ma qui il problema non è semplificare una complessità che si presume ingestibile per il semplice lettore curioso. Qui si tratta di portare un’informazione imparziale, suffragata da dati e anni di lavoro accademico, in un territorio di scontro tra tifoserie, costantemente inquinato da manipolazioni della realtà, bugie, verità parziali e fallacie argomentative introdotte da chi ha a cuore interessi (voti, potere, ascolti) altri rispetto alla comprensione della realtà di un fenomeno cruciale.

In una realtà informativa spesso distorta è quindi più che mai fondamentale diffondere, consigliare, condividere il lavoro di chi non solo cerca di portare elementi oggettivi alla conoscenza del pubblico generalista, ma anche provare ad allargare la visione su un fenomeno così centrale oggi come l’immigrazione, fornendo spunti di lettura nuovi, con un approccio di analisi multidisciplinare e soprattutto non euro-centrico degli scenari contemporanei.

(tratto da Pandora Rivista)

 

Héros-Limite / Eroe-Limite

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Eroe-Limite[1]

di Ghérasim Luca

Traduzione di Laura Giuliberti

 

« La morte, la morte folle, la morfologia della meta, della metamorte, della metamorfosi o la vita, vita viva, vita sensazione, vivisezione  della vita »

A occhi aperti

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di Jean Aquaviva

( Il 9 luglio prossimo, presso la Libreria Popolare di via Tadino a MIlano alle ore 18,30 verrà presentato  il romanzo A occhi aperti di Jean Aquaviva, Zona, 2019, con l’autore sarà presente Franz Krauspenhaar. Ne presento qui un estratto, g.m.)

La biblioteca è situata in un edificio a nord della città, che raggiungiamo in taxi. È la sede di un’associazione che si ispira al socialismo rivoluzionario internazionalista di Rosa Luxemburg. Entriamo nella hall, ne percorriamo il corridoio al pian terreno e osserviamo i muri bianchi tappezzati di foto e ritratti di filosofi, politici, attivisti di sinistra, tutti rigorosamente in bianco e nero. Saliamo al primo piano, dove vediamo le sedie stipate per l’intervista a Pennac. Nei tavolini tutt’intorno ai muri vi sono pile del libro La passione secondo Thérèse, l’ultima opera sulla saga dei Malaussène. Ci avviciniamo al tavolo dei relatori, sopra il quale svetta la gigantografia di una giovane Rosa Luxemburg. Alle pareti della sala sono appese delle foto enormi di copertine di libri; quelle all’altezza delle prime due file di sedie sono Cevengur di Andrej Platonov e La madre di Maksim Gor’kij.

Prendiamo posto nelle prime file, ma lateralmente, perché intendo camminare un po’ per la biblioteca durante la conferenza. Mentre la sala si riempie, parliamo di quale domanda potremmo fare a Pennac; Sonia preferisce sia io a intervenire, poiché teme di emozionarsi, così mi riassume la trama de La passione secondo Thérèse e le caratteristiche dei personaggi. Vorrebbe che rivolgessi a Pennac una domanda sul matrimonio di Thérèse ma io sarei più interessato a chiedergli della famiglia Malaussène. Mentre discutiamo, arrivano i relatori.

Finalmente ho davanti a me lo scrittore europeo più osannato degli anni Novanta, che sfila accompagnato da un lungo applauso; insieme a lui – lo so dalla locandina pubblicitaria – , il direttore della biblioteca, un giornalista e uno scrittore danese. Pennac sorride e saluta, gli occhi vispi come un folletto dietro ai suoi occhialini; poi i quattro relatori si siedono. Sonia continua ad applaudire energicamente, sul viso un sorriso a tutta bocca. Mi tocca prenderle il gomito per farle segno di placarsi.

Come di rito, il direttore della biblioteca, mister Trier, procede con la presentazione degli ospiti e della serata; il suo stile sobrio e arcigno mi piace. Vedo della passione in lui. La parola passa al giornalista e allo scrittore danese. I due intellettuali, che a mio avviso si danno molte arie, esprimono la loro opinione sulla saga dei Malaussène, e in particolare sulla Passione di Thérèse. Mi annoio, e decido di alzarmi.

Mi aggiro nella biblioteca come in trance alla ricerca dello scaffale dei libri in lingua straniera. Lo trovo. Vedo libri in tedesco, in inglese, in francese. Come sottofondo odo la voce tenorile di Pennac, squillante e persuasiva. Sento che crede in quel che dice. L’interprete si sforza di tradurre riproducendo l’enfasi che Pennac mette in certi concetti.

Leggo i titoli dei libri sullo scaffale e noto che i primi li ho letti tutti. Le affinità elettive di Goethe, uno scrittore capace di tratteggiare le istanze assolute della passione e quelle ponderate della morale corrente con straordinario equilibrio; Incontri con uomini straordinari di Gurdjieff, un enigma quell’uomo: non dice tutta la verità, si inventa molti fatti eppure non è un ciarlatano; Il signore delle mosche di Golding, un racconto spietato sulla natura umana, dove il realismo trasfigura nel mito; La peste di Camus, un libro dove si affronta l’assurdità di esistere con un rigore etico che é già post- ideologico; Il fuoco di Barbusse, un epico affresco sulla Grande guerra, ricco di umanissime verità, narrato con lingua poetica e realistica a un tempo.

Mentre sto scorrendo gli altri titoli francesi, sento Pennac pronunciare in italiano: “Corsica”. Come d’incanto, esco dalla mia trance. Mi fermo ad ascoltare. “Mio nonno paterno era còrso, infatti il mio vero cognome, Pennacchioni, è còrso. Ha  un suono musicale, come ogni parola italiana, ma declamare Daniel Pennacchioni con accento francese, sentite?, ha sempre destato reazioni comiche, e così l’ho abbreviato.” Io non ci trovo nulla da ridere. Mi chiedo come mai Sonia non mi abbia detto nulla delle origini còrse di Pennac.

Torno verso il mio posto e guardo Sonia, sul cui volto è dipinta l’espressione: “Era ora che tornassi!” Mi fa cenno con il braccio di sedermi. Io obbedisco, sorridendo meccanicamente.

Ascolto, poco interessato, il resto del discorso di Pennac sulla Passione di Thérèse, intervallato dalle considerazioni critiche dello scrittore danese. Terminato questo argomento, il giornalista introduce le domande dal pubblico concedendo a sé stesso l’onore della prima, oltremodo arzigogolata, che riguarda la ricezione della serie dei Malaussène da parte della critica. Pennac replica con serietà e ironia. Poi, alcuni lettori chiedono precisazioni su dettagli insignificanti di questo o di quell’altro libro, che secondo loro sono alquanto rivelatori. Pennac ascolta e risponde con interesse misto – mi sembra – a compassione,  nel senso nobile del termine. Temo che fra sei mesi, a libro pubblicato, toccherà a me compiere lo stesso sforzo.

Dopo quattro o cinque domande, arriva un intervento accademico sugli espedienti dello stile linguistico di Pennac, sul suo pastiche poetico; lo scrittore ringrazia. D’impulso intervengo io, alzandomi in piedi e parlando in francese:

“Buona sera, mi chiamo Daniel Sinclair e sono un critico d’arte.”

Pennac si protende verso di me: “La conosco, ho letto il suo libro su Picasso e l’ho vista in televisione; è un piacere averla qui.” L’interprete gli fa cenno di aspettare, intento a tradurre entrambi.

Io inizio ad argomentare: “Lei è uno scrittore, ed è còrso per eredità paterna. Anche io sono còrso, la famiglia di mio padre emigrò in Corsica all’inizio del Settecento, e mia madre è di un’antica famiglia còrsa di origine toscana, cognome Orsini…”

Voilà! Un Orsini e un Pennacchioni davanti a voi, signore e signori.” Il pubblico ride sommessamente.

“Il còrso è una bellissima lingua romanza, non trova? La Francia per due secoli ha cercato di estirparla dall’isola. A me piace molto anche il suo cognome, e mi rammarico che l’abbia cambiato.”

“È bello, a suo modo. Forse un po’ enfatico, retorico, concorda? Ma suona meglio se pronunciato da un italiano. È questione di gusti, signor Sinclair. Lei come mai non ha tenuto il doppio cognome? Daniel Orsini Sinclair suona bene.”

Toccato nel vivo. Sono impreparato, non avevo mai considerato questa opportunità. Rispondo accomodante: “Perché no? Potrei aggiungere il mio cognome còrso. Farei dispiacere a qualche francese, ma ci guadagnerebbe la mia identità.” Sento Sonia che mi sussurra di fare una domanda sulla Passione di Thérèse.

Pennac non sembra infastidito dalla piega che ha preso il discorso, e prosegue: “Lei sembra avere il dente avvelenato contro la Francia, signor Sinclair, oppure Orsini… Ma temo che questi argomenti interessino poco i nostri amici danesi.”

Rifletto sulla domanda da rivolgergli.

“Ha ragione. Lei nella famiglia Malaussène, anzi nella tribù dei Malaussène, ha cercato di riunire una grande varietà di tipi umani. I fratellastri Malaussène, di padre ignoto, sono circondati da poliziotti spesso di ascendenze coloniali, e da amici protettori musulmani. È palese la sua volontà di rappresentare una famiglia e una società multietniche e ben integrate. Lei vede così la realtà, o sta descrivendo un sogno?”

“Belleville, il quartiere parigino dove vivo e dove ambiento i miei romanzi, è multietnico, ed è una bellezza vederlo tanto colorato. Ho il mondo sotto casa. Questo non significa che non esistano problemi. L’immigrazione, il confronto con l’alterità e la diversità portano arricchimento, scambio ma anche conflitto fuori e dentro di noi. In una società multiculturale la nostra identità viene continuamente obbligata a interrogarsi e a ridefinirsi.”

Riprendo la parola: “Il rischio, a mio parere, nel Duemila, sarà proprio l’esplodere di questo conflitto. In Europa ci stiamo aprendo all’immigrazione e all’integrazione in modo pericolosamente invasivo rispetto alla nostra identità e alle nostre tradizioni, che sono già oltremisura contaminate. Stiamo importando persone, gruppi etnici, culture che al contrario di noi hanno un’identità forte. In questo contesto, il conflitto interiore che si innesca negli europei rapportandosi con l’alterità rischia di generare conflitti anche esteriori, concreti, forse violenti. E la violenza genera il razzismo.”

Pennac mi scruta, fa una pausa e, lentamente: “Lei vorrebbe un’Europa con un’identità più forte, mi pare di capire.”

“Sì, non possiamo permetterci di perdere le nostre radici, perché gli immigrati che arrivano restano ben attaccati alle loro. E ci può essere vero scambio solo se la nostra identità viene affermata e riconosciuta. A tutt’oggi, noi europei non sappiamo più chi siamo.”

Finita la traduzione dell’interprete, mister Trier, da lungo tempo in silenzio, interviene: “Noi rispettiamo ogni opinione, signor Sinclair, ma di fronte a quel che lei dice sento il dovere di ricordare al pubblico che la nostra associazione è internazionalista.” Mentre l’interprete traduce la frase, rendendola comprensibile a me e al signor Pennacchioni, il direttore alza il braccio e con gesto elegante indica la gigantografia di Rosa Luxemburg.

Pennac gli sorride, con quel suo sorriso largo, e gli occhi piccoli strizzati dietro le lenti; poi, rivolgendosi a me: “È così importante, signor Sinclair, sentire l’appartenenza a una nazione? Lei mi sembra in cerca di una patria.”

Silenzio. Rimango turbato dalla parola patria.

“La mia patria? Io sono còrso, e lei?” Le parole mi escono dalla bocca a scatti veloci. Le mie braccia si muovono a scosse.

Pennac si alza in piedi, fa il giro del tavolo e si ferma sulla destra, in linea con il posto da dove sto parlando io. Ci separano solo cinque o sei file di sedie. Scandisce: “Io sono francese, e sono europeo. Se torno indietro nel tempo sono anche còrso e tanto altro ancora. Per essere conciso, sono un uomo, che ne dice?” La sua voce è calda.

“Sì, certo, idealmente siamo tutti cittadini del mondo.” La mia voce è stentata. “Si potrebbe dire che apparteniamo a una grande tribù, come i Malaussène. Tutti figli di… Padre ignoto.” Quindi, alzando le spalle, come stessi tremando: “Brrr… Mi fa venire i brividi, a pensarci.”

“Ha colto nel segno,” risponde suadente Pennac. “In un certo senso, avendo il padre ignoto, non hanno patria. Non hanno la casa del padre a cui tornare. Capisce?”

Adesso ho davvero i brividi, e lui lo vede, infatti fa un passo avanti e, indicandomi con il palmo della mano: “È questo che la turba? Che non hanno un padre?”

“Io… Io non sono turbato!” Sento la mia voce diventare acuta. Sonia mi tira la giacca per farmelo notare. “Io ho una casa paterna a cui tornare! Se lei preferisce non avere una patria, faccia come crede!” Pronuncio le ultime parole con intonazione alta e stridula. “Io ci tengo a essere Sinclair…” Quasi balbetto. “E Orsini!”

Respiro forte. Guardo in basso, come se volessi essere sicuro del posto in cui mi trovo. Mi sento instabile sulle gambe. Cerco con una mano la sedia dietro di me, trovo la spalliera, l’afferro e mentre sto per sedermi vedo con spavento che Pennac è avanzato a lato delle sedie, e ora sta a due metri da me, scrutandomi con occhi penetranti, forse minacciosi.

Resto in piedi, paralizzato. Ci guardiamo. Il mio è uno sguardo di terrore. I suoi occhi sono penetranti. Pennac, con ampio gesto delle braccia – cui rispondo oscillando all’indietro – e mani aperte davanti a me, declama: “Senta il suono della parola Orsini. Inizia cavernoso, con quella ‘o’, poi c’è come una sospensione, una pausa durante la ‘erre’, e infine il suono scivola via sottile, con quel ‘sini’, sinuoso e morbido…”

I suoi occhi sono penetranti. E buoni.

“Sia morbido, signor Orsini Sinclair. Sia morbido.”

La sua voce, come una carezza, mi spinge lentamente a sedermi. Il pubblico applaude.

Tik Tok come incubo

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di Alberto Brodesco

 

TikTok – diciamo subito – è un incubo per un adulto, non certo per la generazione Z che lo usa e lo ama. Chi è nato prima del 2000 e non ha figli adolescenti o pre- può aver bisogno di una descrizione di questo nuovo social media: TikTok è un’app che serve a filmare e condividere video brevi (da 3 a 60 secondi, ma di solito meno di 15) che mostrano il creatore del video mentre balla, canta, fa lip sync, racconta qualcosa, scherza, si muove, va a caccia di simpatia.
 

Ad aver adottato questa app di videosharing come medium generazionale sono in particolare i ragazzi delle scuole medie e dei primi anni delle superiori. Un video di TikTok nasce quasi sempre in abbinamento a una musica. Il suo protagonista è il teenager (o pre-teen) che lo realizza. L’inquadratura parte da se stessi. Appena installata l’app, ci si trova in un disorientante labirinto di specchi, una distopia warholiana dove l’immagine del TikToker continua a moltiplicarsi e moltiplicarsi. Come scrive Clara Mazzoleni su Rivista Studio, “all’inizio il cervello dell’adulto prova un sottile ma persistente senso di di fastidio”. Si sprofonda in un abisso composto da ragazzini che si esibiscono, in una dimensione ibrida tra quella dello “show” (mi mostro mentre faccio qualcosa di interessante/artistico/curioso) e quella dell’esibizionismo puro e semplice (mi mostro e basta).
 

Si può certo sostenere che è un gioco, che non c’è niente di male, che sono poco più che bambini, e via minimizzando. Moralismi e nostalgie non hanno in effetti nessun impatto sulla considerazione che i teenager hanno di questo spazio virtuale. Presto l’app-giocattolo verrà abbandonata in favore di qualcos’altro. Poi si dice di solito: il problema non è lo strumento tecnologico, ma l’uso buono o cattivo che se ne fa. Ci si dimentica però così della non-neutralità dei dispositivi, che cambiano le nostre percezioni o la portata dei nostri sensi al di là dei contenuti che trasmettono. Come scrive ancora Mazzoleni, “il germe di TikTok si è ormai diffuso e, così come Snapchat – che ha obbligato Zuckerberg a trasformare Instagram –, ha contaminato il mondo, e si prepara ad alterare il modo in cui comunichiamo e usiamo i nostri telefoni”.
 

La “continuità d’utilizzo” nella manipolazione dello smartphone, ad esempio, ha cambiato la prassi della registrazione di immagini, che privilegia ora il formato verticale. Come dichiara il sociologo Davide Bennato, “usiamo il cellulare prevalentemente in modalità verticale, per cui metterlo in modalità orizzontale solo per i video è considerato un uso innaturale, una specie di attrito cognitivo che si scontra con la rapidità d’uso e con le nostre abitudini”. Le app (Snapchat, Instagram, TikTok) hanno investito, adottato, legittimato, rafforzato questa sensazione di comodità-continuità.
 

È così che il dispositivo produce potenti conseguenze. L’innocua idea di riprendere in verticale crea un immaginario proprio, che si mette di traverso rispetto a quelli che sono la storia e il sapere orizzontali dell’audiovisivo, accumulati nei secoli precedenti da cinema e televisione, ma anche dalla fotografia e dalla storia dell’arte. Il formato verticale tende a premiare il corpo umano, a spingere nella direzione del ritratto e dell’autoritratto, che ora si chiama selfie. Il dispositivo induce insomma alla riproduzione del sé, non dell’altro da sé, o alla sovrimpressione tra soggetto e oggetto.
 

Anche quando si filma qualcosa al di fuori, si inserisce nell’inquadratura una parte del proprio corpo (piedi nudi cesellati nel tramonto in spiaggia, il proprio volto che affianca al Louvre quello di Monna Lisa…), per dimostrare la presenza in situ, per lasciar emergere la visione in prima persona di quell’evento o esperienza. Come scrive Richard Bégin, “numerose immagini mobilografiche circolanti su Internet mostrano assai poco di un avvenimento, se non l’esperienza corporale di ‘chi filma’ in presenza di quell’avvenimento”. Si può aggiungere, a fianco, anche una considerazione di Jean-Luc Godard: “la gente fa film su internet per mostrare che esiste, non con lo scopo di guardare alle cose”.
 

La vera essenza di un social media come TikTok è proprio questa esigenza auto-mostrativa: mostrare se stessi per dimostrare di esistere. I pur vituperati e incompresi YouTubers continuano ad avere (spesso) un oggetto esterno da raccontare (un trucco, un videogioco, una serie-tv…). TikTok è invece un continuo toccare lo spettatore sulla spalla per chiedergli “guardami, guardami”. La chiamano “look-at-me generation”. La più recente formulazione dell’esibizionismo prevede come primo passaggio “voglio essere guardato”: realizzo un video in cui mi mostro; e come secondo “voglio vedere come vengo guardato”: si controllano i like, i commenti, le reazioni suscitate.
 

Non c’è bisogno di appellarsi al valore salvifico del cinema in quanto arte, ma di riconoscere l’incubo rappresentato da TikTok per chiunque abbia a cuore l’idea di “ecologia delle immagini” di cui parla Susan Sontag. L’occhio umano ha sviluppato con pazienza, genio e perizia dei modi gloriosi e duraturi per concepire e modulare le immagini e i suoni. TikTok dà la sensazione di annullare tutto ciò per ripartire da zero – uno zero che in molti casi coincide col proprio ego.

Soprattutto l’erranza: Stefano Scodanibbio, geografo degli strumenti

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«E poi Lima ha fatto una dichiarazione misteriosa. Secondo lui i realvisceralisti contemporanei camminano all’indietro. Come all’indietro?, ho domandato. “Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta, verso l’ignoto.”» scriveva Bolaño ne I Detective Selvaggi, libro di appigli vertiginosi, montato per svolte e diserzioni come la vicenda di quegli uomini (“messicani perduti in Messico”) per la cui vita è ciò che ha da essere subitamente trangugiato. Smarrimenti e punti di non ritorno: una specie d’intimità con l’ignoto condivisa anche da Stefano Scodabbio, che molto amava Bolaño.

Non abbastanza per me è il titolo della raccolta di suoi scritti e taccuini recentemente pubblicata da Quodlibet, a sette anni dalla scomparsa di quello che è stato -allo stesso tempo- uno dei maggiori contrabbassisti dell’epoca moderna e colui che ha tracciato in ogni partitura il solco di una ostinata minoranza. Un libro simile ad un tumulto o ad una dottrina randagia che continuamente rimuta ogni cosa. Un libro scritto come glossa furibonda ad una stagione ugualmente furibonda (i taccuini vanno dal 1977 sino al 2011), e che si legge ora come un incantamento, ora come il seguito di una lunga insonnia.

Nell’introduzione, il filosofo Giorgio Agamben (che ha curato il volume insieme a Maresa Scodanibbio) fa riferimento a quello che i medievali chiamavano ductus: «non forma e sostanza, ma gesto e flusso.». Affrontare il libro richiede allora di calarsi in questo flusso, in un nugolo di traiettorie rotte, umori calcinati, viaggi e voragini, perché se Paracelso diceva che «fra le cose si sta come tra suoni di campana in una foresta di notte»,  Scodanibbio impiglia assieme musica e letteratura proprio per mutarle in lanterne da avanscoperta, e così afferrare la consonanza inedita, la regione delle materie dissomiglianti dove alloggiano guizzo e sedimentazione, divoramento e principio di continua rinascita: «scoprire la forma ogni volta, e non una volta per tutte.»

Una raccolta, questa, in cui s’incontrano -attraverso ritratti o improvvise illuminazioni- maestri e compagni di tragitto come Edoardo Sanguineti, Luigi (Gigi) Nono, Giacinto Scelsi (“il grande anonimo del ventesimo secolo”), Luciano Berio (Scodanibbio gli dedica le categorie calviniane di molteplicità, rapidità, esattezza), Iannis Xenakis e Karlheinz Stockhausen, la cui presenza a Macerata -in occasione della Rassegna di Nuova Musica, fondata da Scodanibbio nel 1983- viene così tratteggiata in un appunto:

«Stockhausen a Macerata. Con Mario Bartolotto chiacchierando intorno al teatro Lauro Rossi. “Noi due -io e te voglio dire- non siamo male, ma il genio è il genio.»

 

 

Una raccolta che -a partire dal titolo- vivifica i vuoti come sillabe feconde per restituire la vibrazione raggelata, la cartilagine tra cosa e cosa, l’ininterrotta circolazione di forze: quello che dell’esistenza, cioè, non può essere in alcun modo inventariato, e che transita -a strapiombo- tra appunto e appunto. Una forma di topologia sempre incarnata nell’esilio, in un luogo-reticolo: «Alloglotti della musica? (le moltitudini di Pessoa, i rizomi di Deleuze, je est un autre, ecc.) Necessità intima degli esili, della spersonalizzazione.»

Ne L’uomo senza qualità di Musil, Urlich descrive l’avventuriero come «una professione che trasforma la vita in una forma di eterno fidanzamento». Questo eterno fidanzamento mi sembra (almeno per ora) la definizione più adatta a colloquiare con la sostanza sovrabbondante del testo di Scodanibbio, con i suoi rivolgimenti attoniti e volatili, con il suo Messico – Terra di Nessundove che ha l’ampiezza di un’intera geografia dell’anima-. Soprattutto con il suo viaggio inconcludibile,  quel Voyage that Never Ends divenuto poi titolo del romanzo musicale lavorato da Scodanibbio in linee d’abbrivio -dal 1979 al 1997-, vera e propria circumnavigazione del contrabbasso che -forzandone le secolari oppilazioni- ha varato lo strumento sino al mattino di un’altra sonorità, colma di pensiero.

Una pensosità concertata però in leggerezza, poiché limpido non è il suono cacciato nella pece del tempo, ma il gesto che continuamente dissesta il telaio degli umori, la partitura lontana dalle pacificazioni (voyage interrupted), per cui la materia musicale è quanto non può essere immobilizzato in un’unica scrittura. Musica piuttosto come vastità triturata, resto a venire, cioè vita essa stessa:

«Un geografo degli strumenti? Oziare, viaggiare, scrivere. O si ha sempre vent’anni o è come non averli mai avuti. […] Dopo alcuni anni avrei dovuto consolidare, amministrare. […] Ho scelto invece l’erranza.»

 

[Il libro verrà presentato il 21 giugno all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, durante una giornata interamente dedicata all’opera di Stefano Scodanibbio.]

 

 

Teoria e tecnica dell’arresto illegale

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di Michele Frisia

Roma, data protocollo

Da: Ufficio Centrale Analisi Dissidenze

A: Signori Questori, loro sedi

Riservato, personale, non divulgare

Sono giunti a questo Ufficio numerose segnalazioni riguardo a episodi di spiacevole insubordinazione, ad opera di Agenti di Pubblica Sicurezza appartenenti ai ruoli Agenti, Assistenti, Sovrintendenti e Ispettori, che si sarebbero rifiutati di eseguire ordini impartiti dai rispettivi Dirigenti, anche di ruolo apicale. In particolare si assiste sempre più spesso al rifiuto, immotivato e immotivabile, di eseguire gli arresti comandati dai vertici provinciali (leggasi Questori), sulla scorta di un’asserita incompetenza di questi ultimi a svolgere attività di Polizia Giudiziaria e di conseguenza a interferire con detti arresti.

Questo Ufficio ha quindi ritenuto opportuno emanare le presenti linee guida al fine di arginare un malcostume che, se dovesse diffondersi in maniera incontrollata, minerebbe il fondamento stesso del buon andamento della nostra Amministrazione.

Si rammenta, in modo preliminare, che effettivamente la normativa in materia di procedura penale priverebbe i Questori (e i Vice Questori Vicari di conseguenza) dei poteri di Polizia Giudiziaria e pertanto della concreta possibilità di intervenire in maniera ufficiale sull’atto di arresto. Pertanto si dispone che ogni ordine connesso venga emanato in maniera orale e mai per iscritto; e preferibilmente per interposta persona, da scegliersi fra quelle di maggior riservatezza, fiducia e comprovata fedeltà. (Si rammenta infatti che non è opportuno che i vertici dell’Amministrazione e le relative disposizioni figurino negli atti di arresto, neppure de relato).

Ciò nonostante, si è dovuto prendere atto che la semplice emanazione di ordini, diretti o indiretti, spesso non è sufficiente a convincere il personale operante (Agenti, Assistenti, Sovrintendenti o Ispettori) a modificare l’orientamento individuale e l’interpretazione della normativa, fino ad adeguarli ai bisogni dell’Amministrazione. Il personale operante infatti, trincerandosi dietro alle norme del Codice di Procedura Penale (in vigore, come noto, dal 24 ottobre 1989), sovente sostiene che, figurando nominativamente sui verbali di arresto e firmando direttamente gli stessi, sarebbe chiamato a rispondere in prima persona di eventuali abusi o irregolarità di fronte all’Autorità Giudiziaria. E sovente il personale lamenta, al contrario, che la catena di comando a lui superiore (Commissario Capo, Vice Questore Aggiunto, Dirigente di Divisione, Vicario e Questore), non figurando sugli atti e non firmando gli stessi, andrebbe immune da ogni responsabilità.

Appare di manifesta evidenza, invece, che sussistono casi in cui è fondamentale, per la tutela della Pubblica Sicurezza, che l’esecuzione di un arresto, qualora frutto di ordine superiore, venga portata a compimento senza indugio alcuno.

Si va in tal modo configurando un paradosso, pericoloso per la tenuta stessa del sistema democratico, secondo il quale un subordinato avrebbe la possibilità di inottemperare alle disposizioni di un superiore gerarchico, perfino di un’Autorità Provinciale di Pubblica Sicurezza quale è un Questore della Repubblica, sfruttando dettagli e minuzie del sistema normativo e in particolare i cavilli del vigente Codice di Procedura Penale.

Tale però è purtroppo la parossistica situazione di stallo che si viene a creare quando taluni operatori (Agenti, Assistenti, Sovrintendenti o Ispettori) si arroccano sulle relative prese di posizione; contro le quali, per inciso, l’irrogazione di una successiva sanzione disciplinare sarebbe difficoltosa (a causa di un evidente buco normativo) e comunque tardiva.

Poiché non si può prevedere il momento nel quale sarà necessario ottenere una solerte e certa aderenza alle disposizioni impartite dalla catena di comando (la necessità di un arresto può manifestarsi infatti in qualunque momento), appare necessario attivarsi per tempo e creare un clima di sufficiente collaborazione all’interno della Questura.

Si dispone pertanto che in ogni ufficio periferico si attuino fin da subito le presenti linee guida, secondo i seguenti punti.

1. Si deve procedere a far impartire, tramite individui di comprovata fiducia, al personale degli uffici operativi e investigativi, ordini eventualmente contraddittori ma comunque invisi al destinatario, al fine di valutare le reazioni dello stesso e le relative modalità di esecuzione di detti ordini. Qualora il personale operante si rifiuti, o procrastini, o esegua ma successivamente si lamenti in maniera inopportuna o nelle sedi meno consone, si dovrà procedere alla rimozione dall’incarico e allo spostamento verso compiti preferibilmente svilenti (sorveglianza del corpo di guardia, ufficio denunce, sportello dell’ufficio immigrazione, archivio, etc). Si rammenta in tal senso che il trasferimento interno del personale è atto proprio del Questore, il quale lo può disporre a proprio piacimento, senza possibilità alcuna di sindacato. Al fine di evitare comunque eventuali ricorsi amministrativi nonché problematiche di natura sindacale, si prega di voler disporre tali movimenti accompagnandoli con la dicitura generica: “Per esigenze di servizio”.

2. Appare opportuno sottoporre a sorveglianza gli Agenti, Assistenti, Sovrintendenti e Ispettori caratterizzati da una maggior influenza sul resto del personale (per anzianità, prestigio, trascorsi, etc), soprattutto negli uffici operativi e investigativi, e valutarne il grado di congruità all’orientamento dei vertici provinciali. Qualora tale congruità sia manchevole o anche solo insufficiente, si dovrà procedere alla rimozione degli stessi dagli incarichi.

3. Può accadere che la rimozione dei soggetti di cui ai punti precedenti sia difficoltosa, sconveniente o addirittura impossibile. Ciò può essere causato dall’esistenza di guarentigie sindacali, dallo stato di gravidanza, dall’esistenza di malattie professionali, da particolare vicinanza a membri dell’Apparato Giudiziario o da altri motivi di opportunità. In tal caso è preferibile ignorare questi soggetti primari e procedere invece alla rimozione dei soggetti secondari, caratterizzati da rapporti di vicinanza ai primari, quali ad esempio stretta collaborazione se non addirittura amicizia extra-lavorativa. Ciò otterrà un duplice risultato: quello di isolare il soggetto primario, nonché quello esposto al successivo punto 4.

4. A quanto indicato nei punti precedenti appare imperativo affiancare la diffusione, secondo opportuni canali, di notizie informali relative alla rimozione dei succitati operatori, che persegua contemporaneamente due direttrici. Da una parte la rimozione va motivata con episodi incresciosi, o comunque denigratori della persona, che sarebbero occorsi al soggetto ma sarebbero stati generosamente occultati dall’Amministrazione per motivi di opportunità (non ultimo il prestigio dell’Istituzione) in cambio della rimozione dall’incarico. Tali episodi debbono essere ideati tenendo in adeguato conto la personalità del soggetto, il suo stile di vita, le dicerie già esistenti, etc, in modo da renderli il più possibile credibili. Si suggerisce di evitare eccessivi dettagli che ben possono essere colmati dall’immaginazione del ricevente. Al contempo deve però emergere, in modo sottile ma evidente, che tali incresciosi episodi non sono il reale motivo della rimozione dall’incarico, la quale va invece ravvisata nella mancata aderenza dello stile operativo del soggetto a quello dei vertici dell’Amministrazione.

Le azioni indicate nei punti precedenti vanno poste in essere a far data dalla ricezione della presente e reiterate per il tempo necessario.

Se le istruzioni impartite saranno eseguite con solerzia e costanza, quando si manifesterà la necessità di procedere a un arresto, il personale a quel tempo impiegato nei servizi operativi e investigativi ben sarà conscio dell’orientamento della catena di comando (Commissario Capo, Vice Questore Aggiunto, Dirigente di Divisione, Vicario e Questore) e gli ordini impartiti saranno recepiti senza impedimento alcuno.

Con preghiera di doverosa osservanza, si prega di assicurare la ricezione della presente riguardo alla quale è opportuno, in caso di contenzioso giurisidizionale, opporre il segreto d’ufficio.

Originale firmato agli atti

Discarica

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Ingres, La grande odalisca

di Monica Pezzella

L’intermittenza azzurro pallido di un’insegna giù in strada; una camera d’albergo alle cinque del mattino. Ci sono un letto, un comodino in legno con le gambe curve, un armadio a un’anta, una scrivania col piano in vetro, una poltrona in pelle verde, la litografia della pianta di una città. Il letto è scomposto e le lenzuola sono aggrovigliate sulla sponda. Sandra ha poco più di vent’anni, è distesa con le braccia sotto il cuscino, a gambe nude. Sul comodino ci sono un paio di occhiali dalla montatura in osso, una lampada senza paralume, un fazzoletto sporco e tre forcine. Murdoch ha trentasette anni, è vicino alla scrivania, davanti al telefono. Alle sue spalle, la finestra inquadra i fumaioli della cartiera. Sotto i fumaioli, tracima la discarica. Murdoch si gira e guarda il fumo nero.

MURDOCH Faccio una doccia. Dormi ancora?
SANDRA Non dormo. L’acqua calda non viene.
MURDOCH La faccio fredda. Mi devo pulire. Pensa a che vuoi mangiare. Dopo ordino la colazione.
SANDRA Non lo so.

Murdoch va in bagno. L’acqua scorre per dieci minuti; la porta si apre. Murdoch entra nella stanza, nudo, e si mette a cercare una camicia nella valigia sotto l’armadio. Mentre si veste:

MURDOCH Hai deciso?
SANDRA Le focaccine al latte.
MURDOCH Guarda che al sabato le focaccine vengono acide.
SANDRA Non fa niente.
MURDOCH Quante ne vuoi?
SANDRA Quattro.
MURDOCH Mangi quattro focaccine? Te ne faccio portare due. E il caffè.
SANDRA Va bene anche così. Ma sono appena le cinque.
MURDOCH Ho lasciato detto che ce ne saremmo andati presto.
SANDRA Uhm.
MURDOCH Però alzati.

Murdoch va al telefono e digita quattro numeri. Ordina due focaccine al latte, un toast, del burro e due caffè amari. Posa la cornetta e guarda Sandra, stesa sulla schiena.

MURDOCH Ha detto tra venti minuti. Hai un po’ di tempo, lavati pure tu.
SANDRA Sei sempre esagerato.
MURDOCH Sbrigati lo stesso.

Sandra va in bagno. Murdoch si piega a cercare qualcosa nella valigia. Prende una busta gialla, sigillata. Si alza e accende una sigaretta. Sandra rientra appena lui smette di fumare.

SANDRA Che puzza.
MURDOCH Ti sei lavata?
SANDRA Certo.

Murdoch le allunga la busta, sventolandola un po’.

SANDRA Grazie.
MURDOCH Guarda che sono un sacco di soldi. Tienila sotto la giacca. Ti ci compri un vestito. Te lo metti la prossima volta che vieni.
SANDRA Va bene. Grazie.
MURDOCH Prendine uno attillato. Non lo scegliere rosso. Né viola. Non essere volgare.
SANDRA Lo so. Lo prendo come piace a te. Lo so.
MURDOCH Attillato. No rosso, no viola. Se vieni con un vestito che non mi piace non ti do più niente. Se ti presenti qua con un vestito che non ti sta bene non ti do niente. E non farlo vedere a casa. Capiscono che prendi soldi.
SANDRA Ovvio.
MURDOCH Te lo metti la prossima volta. Ti chiamo io. Deve passare un po’ di tempo.
SANDRA Facciamo come sempre.

Sandra va alla poltrona e mette la busta nella tasca della giacca; si siede. Murdoch è ancora vicino alla finestra. Il cielo da buio è diventato perlaceo e le ciminiere hanno smesso di fumare. L’insegna non si vede più.

SANDRA Ti posso chiedere una cosa?
MURDOCH (dandole una sigaretta accesa) Vai.
SANDRA (accetta la sigaretta, ma non fuma) Te lo metteresti, tu?
MURDOCH Che cosa?
SANDRA Un bel vestito.
MURDOCH Ovvio.
SANDRA Un vestito da donna, uno come piace a te.
MURDOCH Cristo santo! Rieccola. Che?
SANDRA Quello che ho detto. Se te lo metteresti, tu, un bel vestito da donna, come quello che mi hai regalato l’altra volta, per esempio.
MURDOCH Non cominciare a fare la matta.
SANDRA Ma se ti piace.
MURDOCH Cosa?
SANDRA Il vestito. Se ti piace, perché non te lo vuoi mettere?
MURDOCH Perché è fatto per stare addosso alle donne.
SANDRA Ti vergogneresti?
MURDOCH Si vergognerebbe chiunque.
SANDRA Ti piace addosso a una donna, ma è vergognoso addosso a te.
MURDOCH Brava. E adesso smettila.
SANDRA (spegnendo la sigaretta su un bracciolo) Ma ti piacciono, le donne?
MURDOCH Come a tutti. Lo sai.
SANDRA Le trovi belle. Cioè, questo?

Murdoch poggia la fronte contro la finestra. Gli scappa un sospiro di esasperazione. Con un dito traccia un cerchio nell’umidità condensata sul vetro. Disegna un albero con due rami a ipsilon. Da quella prospettiva, l’albero spoglio scavato nella condensa nasce dalle scorie della discarica. Bussano alla porta, due colpi di nocche. Nessuno si muove. Altri cinque colpi. Murdoch va ad aprire e rientra con un vassoio. Sistema il caffè, le focaccine e il toast al burro sulla scrivania.

MURDOCH Dài, vieni a mangiare.
SANDRA (alzandosi e avvicinandosi alla colazione) Non mi hai risposto.
MURDOCH (dopo aver bevuto il caffè in un sorso) Neanche mi ricordo la domanda.
SANDRA Pensi che le donne sono belle?
MURDOCH Ho detto che mi piacciono, non che sono belle.
SANDRA È diverso?
MURDOCH Non fare raffreddare il caffè. E prova le focaccine, vedrai che sono acide.

Sandra mangia entrambe le focaccine. Si pulisce le dita con l’unico fazzoletto, quello su cui stavano i dolci; lecca un dito per volta, morbosamente. Beve il caffè e torna a sedersi.

MURDOCH Allora?
SANDRA Non erano acide.
MURDOCH Meglio. Che hai?
SANDRA Proprio niente.
MURDOCH E perché c’hai quella faccia che c’hai?
SANDRA (tirando le gambe sulla poltrona e stringendole al corpo) Non credi che io sia bella.
MURDOCH (ride) Mangi troppo.
SANDRA Solo questo?
MURDOCH “Solo questo” cosa?
SANDRA Solo questo pensi? Vieni a letto con me, mi pare.
MURDOCH E quindi devo pensare che sei bella?
SANDRA Io lo penso. Penso che tu sia bello. Ci penso sempre.
MURDOCH Buon per te. Mi fa piacere.
SANDRA Mi piaci, altrimenti non ci verrei a letto con te.
MURDOCH Dici? Da questa parte funziona in un altro modo. Mi piaci, va bene, ma ti scopo perché mi ecciti, non perché sei bella. Che c’entra il sesso con la bellezza?
SANDRA Tutto.
MURDOCH Risposta da bambina. Credi che l’attrazione abbia qualcosa a che fare con la bellezza? Davvero?
SANDRA Davvero, sì. L’ho sempre creduto.
MURDOCH Te l’hanno insegnato a scuola? Questa cosa, che gli uomini pensano che le donne siano belle, te l’ha insegnata tua madre? Tua sorella?
SANDRA Certo, come no.
MURDOCH E dove l’hai sentita? È una di quelle cose che si sanno? Già. È un’idea comune. Una di quelle cose che sono come dovrebbero essere. Ma guarda, una cattedrale è bella. Un quadro, come quello (indica la litografia). Un albero, una conchiglia. Un insetto. Che ne so, un oggetto. Una donna è un’altra cosa. (Annusa il toast e lo rimette nel piatto) Quanti anni hai? Venti?
SANDRA Ventuno. E lo sai.
MURDOCH Sembri una bambina. Non capisci, di’ la verità. È perché non esci mai.
SANDRA Esco con te.
MURDOCH (ride) Una volta al mese è un po’ poco. Che miseria. Dovresti stare con quelli della tua età.
SANDRA Sto anche con quelli. Ma che c’entra?

Murdoch va a prendere la valigia vicino all’armadio e la trascina sulla moquette fino al letto. Toglie le lenzuola e le piega.

MURDOCH (riponendo le lenzuola nella valigia) A un ragazzino l’hai mai chiesto?
SANDRA Che gli devo chiedere?
MURDOCH Cosa pensa di te. Nuda.

Murdoch apre l’armadio e tira fuori un completo di lenzuola pulite. A differenza delle precedenti, queste hanno le iniziali dell’albergo ricamate agli angoli.

SANDRA Che dovrebbe pensare?

Murdoch rifà il letto. Non dice niente per tutto il tempo. Quando ha finito, tira su anche il copriletto, accende una sigaretta, se la infila in bocca e guarda Sandra, rintanata nella poltrona.

MURDOCH Alzati, dài. Mettiti in piedi.
SANDRA Ce ne andiamo?
MURDOCH Non ancora. Abbiamo un po’ di tempo. Il treno parte alle sei e quarantacinque.
SANDRA Non hai mangiato il toast.
MURDOCH È bruciato. E poi avevo chiesto il burro a parte.
SANDRA Schifiltoso.
MURDOCH Allora, ti alzi?

Sandra si alza e Murdoch va a sedersi al posto suo, sulla poltrona.

MURDOCH Fai quella cosa.
SANDRA Che vuoi?
MURDOCH Fai quella cosa, dài. Spogliati.
SANDRA Mi sono appena vestita.
MURDOCH Quante storie.
SANDRA Va bene. Ma dopo mi accompagni alla stazione.
MURDOCH Ovvio che ti accompagno. Dài.

Sandra chiude le tende e comincia a spogliarsi. Murdoch si sfila la cintura e mette una mano nella patta dei pantaloni. Quando finisce:

MURDOCH Rivestiti.
SANDRA (vestendosi) Che volevi dimostrare?
MURDOCH Niente.

Sandra si avvicina e lo bacia sulla fronte.

MURDOCH Levati. Non mi baciare, santo Cristo, non è il caso.
SANDRA (gli fa scivolare una mano dentro la camicia e gli accarezza una spalla) Perché?
MURDOCH Oh, piantala.
SANDRA (gli bacia il collo) Non fare il ritroso. Rispondi.
MURDOCH Perché ho pensato che sei una puttana.
SANDRA (scostandosi) Ti ecciti pensando questo?
MURDOCH Sì. E se potessi umiliarti mi ecciterei anche di più.
SANDRA Come vorresti umiliarmi?
MURDOCH (richiudendo la patta) Lascia stare.
SANDRA Coraggio. Cosa stai pensando?
MURDOCH Finiscila. Non rovinare tutto.

Murdoch si alza e va ad aprire la finestra e la finestra vomita il brusìo della cartiera e le rancide esalazioni della discarica nella stanza.

SANDRA Già che hai cominciato tanto vale che continui.
MURDOCH Non sto pensando a come ti umilierei. Va bene?
SANDRA Cosa, allora?
MURDOCH Se tu fossi stata una ragazza qualsiasi non avrei voluto umiliarti. Non ci avrei pensato nemmeno. Ti avrei scopato e l’avremmo piantata lì.
SANDRA Che bravo. E invece?
MURDOCH E invece te l’ho detto. Tu mi ecciti.
SANDRA Sei un pervertito?
MURDOCH Ma che Cristo, e ti ho avvisato! Non fare la matta, se fai la matta smettiamo di vederci. Prendi le tue cose. Ce ne andiamo.

Sandra va al comodino, raccoglie gli occhiali e le forcine. Cerca la borsa sotto il letto, non la trova, si inginocchia per cercare più a fondo.

MURDOCH Sei ancora una bambina. Hai bisogno di qualcuno che ti disilluda.
SANDRA E saresti tu?
MURDOCH Può darsi. Lezione numero uno. L’amore non è ammirazione, non è venerazione, non è come te lo hanno insegnato a scuola. L’amore, quello tra un uomo e una donna, è una soddisfazione fisiologica.
SANDRA (recuperando la borsa e spolverandola) Un bisogno fisico. Soltanto?
MURDOCH Per carità. Un bisogno fisico e mentale. Non andrei mai a letto con una donna che ritenessi migliore di me. Non mi darebbe nulla; mi darei a lei. E chi diamine vuole dare niente? È normale, mettitelo in testa. Per te funziona allo stesso modo.
SANDRA Non mi pare.
MURDOCH Non te ne accorgi, ma neanche ne vale la pena. Ché tanto tu sei strana. Pensa come ti pare. Hai finito? Hai preso tutto? Guarda pure in bagno, non lasciare niente in giro.
SANDRA E la lezione numero due?
MURDOCH Ce ne sono ancora tante di lezioni, continuiamo la prossima volta. Adesso spicciati, guarda se manca niente.

Sandra apre la porta del bagno e si affaccia per assicurarsi di non aver lasciato tracce. Il rubinetto perde qualche goccia; lo chiude e pulisce il lavello con la spugna.

SANDRA Preso tutto. Possiamo andare.
MURDOCH È cambiato qualcosa? Tra me e te, voglio dire.
SANDRA (infilando la giacca) No. Credo di no.
MURDOCH Verrai ancora, come sempre?
SANDRA Sì, certo.
MURDOCH Mi ami?
SANDRA Certo.
MURDOCH Brava. Fai la persona normale.

Escono.

La costruzione di una storia

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Pubblico qui  l’introduzione a L’Officina del Racconto,un un progetto speciale nato per dare valore all’attività meritoria che viene fatta da insegnanti e intellettuali dentro le scuole, per stimolare la curiosità, la predisposizione alla lettura, la creatività dei ragazzi e mostrare che, nell’aridità schematica dei programmi scolastici, c’è lo spazio per iniziative potenti, coinvolgenti. La pubblicazione del libro serve non solo per darne contezza, ma anche per invitare a un’espansione di questo tipo di progetti.
 

Gli autori sono più di centocinquanta: gli studenti che hanno preso parte a questa solida impresa; e otto capicantiere: Valerio Aiolli, Elisa Biagini, Enzo Fileno Carabba, Rino Garro, Emiliano Gucci, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni, Marco Vichi.

di Rino Garro

 
Procurati una penna, fogli bianchi formato A4, un taccuino: è tutto ciò che ti serve per il momento. Percorri il lungo corridoio prima di giungere all’ultima aula, non propriamente aula. Ha la porta a vetri zigrinati, chiusa. Vedi ombre caute lì dietro, le immagini, ingrandirsi come istrici in controluce. Poi però senti un chiacchiericcio e delle risate, e anche un urlo. Sono già arrivati, ti dici, e ti aspettano. Non sanno chi sei, o forse sì. È chiaro che devi essere un insegnante, ti vedono sempre in giro nei vari plessi dell’istituto con registri gialli e rossi, anche se non sanno cosa insegni, in quali classi. Esiti un momento prima di bussare; ti aggiusti il collo della camicia, con l’indice riporti in alto gli occhiali che ti scivolano continuamente lungo il naso. Tiri anche un bel respiro; accenni un sorriso. Paura, per caso? Certo che no, ti rispondi; dopo tutti questi anni. Però – ma non lo vuoi ammettere – sei nervoso. Sei sempre nervoso e impaziente quando si tratta di cominciare, di scoprire cosa sarà. Guardi l’ora sullo smartphone. Adesso sei pronto. Dai due colpi al vetro, entri.
 

Buongiorno, dici, good morning to you all. Ti rispondono in coro in italiano e in inglese e in francese, per scherzo; ma anche in ispanoamericano, lingua madre per diversi qui, così come lo sono il rumeno e l’albanese o l’ucraino. Alcuni si alzano seri; altri rimangono seduti a giochicchiare con gli astucci, a mettere via frettolosamente i telefonini di prossima generazione. C’è di colpo silenzio; un vuoto-pieno che sta a te governare con destrezza, comunque non oltre il tempo concesso ai timori di trasformarsi in sguardi annoiati, in risatine che penseresti di scherno. Li guardi uno a uno, ragazzi e ragazze del nuovo millennio, all’apparenza tutti uguali. Ti specchi nei loro occhi furbi e vorresti subito gettare la maschera, unirti a ciò che ti piacerebbe davvero fare se non avessi il ruolo che hai. Sebbene, in fondo, è proprio del tuo ruolo che ti devi spogliare, ma senza lasciarlo vedere.
 

Buongiorno, ripeti con faccia un po’ tirata, mentre rapidi sguardi percorrono la stanza che conosci bene: ampia il giusto, pulita, sufficientemente spoglia. Non è per supplice adesione alle politiche del Ministero se stai valutando che non potresti desiderare altro; il punto è che ne sei ultraconvinto, e lo vai pure a sbandierare sentendoti alquanto ridicolo – eccolo lì, guardatelo l’uomo che vive nelle caverne ai bordi della metropoli. Però di ciò non ti curi molto, a te piace proprio essere qui, adesso, in questo piccolo spazio strappato alla gravità del curricolo, per divertirti e conoscere e sentire raccontare, e certo raccontare anche tu.
 

Ti dici, e li scruti: io e loro, fogli e penne, al caldo ovattato e materno, lontani dalle guerre. Cos’altro vuoi? Cosa ti occorre per essere migliore? Hai un cervello ancora in salute, ti dici, e in mezzo al petto un muscolo sanguigno che non smette di pompare. Vuoi forse trapiantarci dei chip?
 

Sono pensieri che per fortuna confessi solo a te stesso, stupidi al punto da sgusciare all’improvviso per soccorrere il tuo senso di inadeguatezza. E mentre loro dispongono sul grande tavolo oblungo i libri di testo che scovano dagli zaini, tu a cosa pensi realmente? Ai tuoi professori, a te studente senza troppa voglia, al tempo che passa e all’invidia che provi? Non sei l’unico, credici, a dover dominare questi sentimenti; è umano e naturale, è la distanza abissale che separa l’istinto dall’azione depurata. Ma in questo preciso istante tu sei loro, sei dentro i loro spiriti, e hai il raro privilegio di restarvi a lungo, o per sempre. Ricordi bene i tuoi professori, no? E tuo padre, non ha ancora chiare le immagini e le voci dei suoi, belle o brutte che fossero?
 

Allora prof, dice qualcuno con il libro aperto, richiamandoti al presente. Da dove cominciamo? Li guardi – ora quasi composti tutt’intorno al tavolo – e rispondi che non servono libri per questo genere di lezione. Così distribuisci i fogli, e spieghi che invece vi tocca pensare alle cose più divertenti, inventare storie che dicono di voi, che conoscete bene, e siccome sono vere possono diventare di tutti. Ma, in verità, sono anche finte queste storie, e nessuno potrà dire che si tratti proprio di voi. Ci sono obiezioni e perplessità, e risolini malcelati. Non voglio stare in una storia, sbuffa uno; e nemmeno io, e poi come si fa – protestano – da dove si inizia? Per il momento, ribadisci, andiamo insieme a questa gita fuoriporta, vedremo cose e incontreremo gente, avremo caldo e avremo freddo, e saremo bravi se vedremo e sentiremo per davvero. Una biondina con le trecce e il mascara che sbava riempie il rettangolo bianco di scarabocchi, mentre un’altra prova a scorgervi il capolavoro. Altri, affondati in ruvidi berretti di lana, sembrano svogliati o partecipano in estatico silenzio. Bene, riprendi, ma lo dici più che altro a te stesso, per darti vigore, bene, allora si parte sul serio: qui e poi lì, lei e lui e l’altro, e un campo di fragole, e una scuola, e una fabbrica in rovina sullo sfondo. Adesso sgomiti e straparli, e chiedi i loro nomi, dove vivono, i loro hobby. Il racconto stenta a partire, questo ti è chiaro, ma rifletti sul fatto che è soltanto il primo incontro e che comunque ciò che importa è stare insieme, avere la pazienza del pescatore, vagabondare per strade secondarie e viottoli erbosi che infine possano ricondurre a voi, all’intrico dei diversi destini. Alla finestra, uno degli studenti sta sbadigliando da un po’, gli occhi chiusi e la bocca ben oltre gli orecchi. Che sonno stamattina, farfuglia, non mi sveglio più. Ecco, ecco la pazienza, urli a te stesso, proprio ciò che aspettavi. Li scuoti, anche letteralmente, quasi con violenza. Giorgia forza scrivi, scrivi, sì certo con la penna, Che sonno stamattina, disse Giorgio, che sonno bestia, non voglio più svegliarmi! Perché Giorgio?, si oppone qualcuno. E allora come, ribatte un altro, Marcantonio? Così, un po’ per volta, le teste si raddrizzano e convergono su Giorgia, la scrittrice. Ma questo Giorgio dove si trova, cominciano a dire, e com’è vestito? Ah, irrompe quello più tatuato di tutti, per me è solo un povero sfigato tatuato. Ma lo vedi, prof, adesso ti tocca moderare, far stabilire logiche, eradicare contraddizioni, far descrivere spazi e azioni e tutto il resto, però tu non avere l’aria d’intonare già il canto di vittoria. Guarda quei tre nell’angolo, per esempio, i capi chini e i sottovoce complici. Se ne fregano di te e dei compagni che al momento ti stanno attorno. Osservali di sottecchi, caro prof-capocantiere, e lasciali fare, vedrai che anche a loro verrà poi voglia di unirsi all’impresa magari per aggiungere una singola frase, un pensiero, per raccontare di loro che non sono loro. Questa cosa, riusciranno forse a dire con orgoglio alla fine della storia, questa cosa qua l’ho scritta io, l’abbiamo scritta noi.
 

Ti stai già perdendo in scenari dolciastri, quando il suono dell’ultima campana deflagra al pari di una bomba. Ti assordano urla di vittoria, queste sì, e alti canti di gioia, eppure ti è parso di cogliere anche il disappunto di qualcuno, è probabile però che ti sia sbagliato, o forse no. Comunque tutti rimettono le sedie al loro posto e lasciano in giusto ordine, prima di uscire. È faticoso, ti dici, è bello. E ti affiorano alle labbra i versi di uno dei tuoi poeti preferiti, che forse qui, adesso, appaiono come svolazzi fin troppo simbolici: The child is father of the man. Già, Il fanciullo è padre dell’uomo, dici, mentre se ne sfilano via. Chissà come sarebbero contenti. E se fosse l’inizio del prossimo racconto?

Il romanzo a variazioni

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di Simona Carretta

 

È uscito in queste ultime settimane il saggio di Simona Carretta Il romanzo a variazioni nella collana «Saggi letterari» di Mimesis Edizioni. A partire dall’esame delle possibilità del romanzo contemporaneo di impiegare strutture compositive solitamente associate alla musica, in particolare la variazione su tema, il saggio è un invito a riflettere sul valore estetico che nel romanzo assume la dimensione formale.

Mistica cannibale/ ॐ – una sillaba per mondo scritto e mondo non scritto Intervista ad Aldo Nove

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di Marco Zonch

Questa intervista si colloca all’interno di un più ampio progetto di ricerca che ha lo scopo di indagare la produzione letteraria italiana, in prosa, del periodo che va dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi. Il tentativo è quello di affrontare i problemi connessi al cosiddetto “ritorno alla realtà” e, più in generale, le trasformazioni avvenute in questi vent’anni da una prospettiva ontologica.

In questo senso, centrale appare essere la questione della spiritualità, pensata all’incrocio tra la riflessione di Michel Foucault e i risultati della riflessione sociologica contemporanea a proposito delle trasformazioni del panorama religioso occidentale. L’impressione, che questa intervista sembra supportare, è che molti dei più noti scrittori oggi attivi non si pongano problemi nell’ordine della possibile (o impossibile) corrispondenza tra parole e cose, tra mondo scritto e mondo non scritto, ma al contrario riflettano sulla possibilità di entrare in possesso di una verità di ordine spirituale.

Aldo Nove (1967), pseudonimo di Antonio Centanin[1], esordisce con le poesie di Tornando nel tuo sangue nel 1989. A qualche anno più tardi, invece, risale la sua prima opera in prosa, Woobinda (1996), una raccolta di brevi racconti dalle tinte pulp. Woobinda e la partecipazione a Gioventù Cannibale (1996), fortunata antologia curata da Daniele Brolli, gli varranno il “titolo” di cannibale.

Nove proseguirà la sua carriera alternando la pubblicazione di raccolte poetiche e opere di narrativa, a cui andranno ad aggiungersi alcune non fiction. Tra queste ultime si segnalano, in particolare, lo spesso citato Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 450 euro al mese (2006), il personal essay All’inizio era il profumo (2016) – una storia del profumo divisa tra autobiografia e saggio – e l’autofiction La vita oscena (2010). In questa intervista si parlerà in particolare di Tutta la luce del mondo. Il romanzo di San Francesco (2014) e di Il professore di Viggiù (2018).

L’intervista si è svolta attraverso uno scambio di mail che ha avuto luogo tra il 5 febbraio e il 23 aprile 2019. L’autore non è stato messo a parte della prospettiva di lavoro nella quale l’intervista si sarebbe inserita al fine di evitare l’influenza di questa sulle sue risposte. Ho tuttavia premesso che l’oggetto del mio interesse sarebbe stato “mistica e letteratura”, e che l’intervista avrebbe avuto l’obbiettivo di chiarire alcuni punti problematici del lavoro che sto svolgendo.

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Qualche tempo fa mi è capitato di leggere una sua intervista, condotta da Iacopo Barison per Minima&Moralia (http://www.minimaetmoralia.it/wp/siamo-adolescenti-di-cinquantanni-che-bazzicano-nel-caos-intervista-a-aldo-nove/), in cui le veniva posta una domanda sulla fede, su quale fosse il suo rapporto la fede. Affermava di non averne, intendendo così dire di essere lontano dal cattolicesimo istituzionale, da credenze di maniera ecc… Proseguiva dicendo di averne uno con la spiritualità. La pensa ancora allo stesso modo? E ammesso sia questa la parola giusta, che cos’è ‘spiritualità’?

Dunque. Il contesto di quell’intervista non era adatto a “mettere in piedi” un discorso articolato e ho preferito dirottare su una “provocazione” in senso etimologico. L’ambito religioso e spirituale è quanto di più linguisticamente logoro ci sia, in modo inversamente proporzionale al bisogno che ne abbiamo. “Non ho fede” significa “non chiudere” il discorso, ma lasciarlo aperto, come deve essere. Il linguaggio del cuore è delicato quanto l’organo che lo rappresenta, eppure è lì che serbiamo le nostre emozioni più profonde e che ci mettono in contatto con la trascendenza, lontano dunque dai “religiosi da pasticceria” (Sua Santità Francesco). Non a caso qualunque religione è per forza di cose “esoterica” e “essoterica” … Il linguaggio religioso regge inoltre le contraddizioni, e lo fa attraverso i simboli o i “fuori-rotta” linguistici. Prenda la mistica orientale “l’ateismo” buddista o il paradosso della Trimurti (da noi, della Trinità) … Ecco, partirei da qui.

Se ho ben capito, si tratta di respingere quello che potremmo chiamare dogmatismo, o forse obbedienza. Per non lasciare che la propria ricerca interiore – dell’intimità, del sentimento della trascendenza – sia chiusa in un orizzonte di razionalità (senza contraddizioni), e nell’alveo di una sola tradizione religiosa. Interpreto così il richiamo alla mistica orientale, ma non so se in modo condivisibile.

Come scriveva Raimon Panikkar, gesuita e al contempo monaco induista, nessuna religione può dire di essere al di sopra di tutte le “religioni”, in quanto esprimenti in forme diverse lo stesso anelito verso il sacro. Panikkar (di cui è in corso la pubblicazione dell’opera completa presso Jaca Book) parla di visione “Cosmoteoandrica”, e in questo neologismo (universo-Dio-Uomo”) c’è tutto quanto è (ir)risolto (ma sempre riproposto, sempre attuale) al cuore della mistica. Parimenti, nella vita dei Sufi, la matrice islamica è al contempo superata e conservata dalla “via del cuore”: non importa quale Dio preghi (Dio è ineffabile), ma come e quanto lo senti. Questo sentimento universale possiamo chiamarlo, tecnicamente, ecumenismo. Ma è qualcosa che va oltre…

Quali sono i suoi punti di riferimento spirituali? Ci sono dei pensatori, degli uomini di Chiesa, degli artisti che l’hanno influenzata? Vista Tutta la luce del mondo, mi azzardo a fare il nome di Francesco d’Assisi…

Francesco, indubbiamente, e tutto quanto intorno a lui si muove e si è mosso. Quella di Francesco d’Assisi è stata la prima “Imitatio Christi”, e nella sua vicenda sono coinvolti ovviamente Chiara ma anche Frate Elia e tutti coloro che ne hanno vissuto lo spirito originario, fino all’addomesticamento, mi verrebbe da dire, di San Bonaventura che, con la sua “legenda Maior”, lo ha in qualche modo “normalizzato” … Papa Francesco vorrebbe riproporre quello “scandalo” che è stata la vita di San Francesco come “ripetizione” (liturgia incarnata) di Cristo, ma i tempi sono durissimi, e la Chiesa come istituzione è al suo minimo storico. Comunque, nella tradizione della Chiesa, è imprescindibile Sant’Agostino, ovviamente (di cui negli anni ho acquistato e quasi integralmente letto l’Opera completa), mentre, pur essendo mente acutissima, trovo San Tommaso e la Scolastica come l’espressione della massima “cristallizzazione” del pensiero cristiano, il suo impoverimento “dogmatista” quanto il rafforzamento del suo potere “argomentativo”. Così ho preferito rivolgermi alla sapienza ebraica, alla Qabbalah e in particolare allo Zohar, ma anche alla sapienza induista nei suoi ultimi massimi esponenti: Ramana Marshi e il supercitato, ne “Il professore di Viggiù, Sri Nisargadatta Maharaj. Poi ci sono i teologi contemporanei, e su tutti Joseph Ratzinger e Romano Guardini… Ratzinger, in particolare, è una figura molto più complessa di quello che comunemente si pensa. Mi piacciono i suoi scritti sullo Spirito della liturgia.

E chi è Il professore di Viggiù?

Mi spiego meglio. L’impressione che ho avuto leggendo è che il quaderno del professore –attraverso cui si introducono nel testo una serie di dialoghi “socratici” – risponda al desiderio di mettere in chiaro alcune cose, rendere esplicite alcune concezioni filosofico-spirituali che sono tue e mai comprese. Penso questo per due motivi: 1 – la dichiarata somiglianza tra la posizione esistenziale del professore e quella della voce narrante (e autobiografica; p. 26); 2 – il fastidio che il narratore mostra di provare, a più riprese, nei confronti di tutte quelle letture “pigramente cannibali” in sono state confinate le sue opere (p. 20).

Il Professore è un “risvegliato” e, come tale, si muove su diversi piani di coscienza, comunque superiore a quello in cui siamo tutt’ora immersi, diciamo a tre dimensioni. E proprio per questo il professore è presente e non presente… La sua condizione è quella di chi vive secondo il Tao, di cui metto qua l’inizio, che ne è poi la sintesi:

Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao,

il nome che si può pronunciare non è l’eterno nome.

Innominato, è l’origine del cielo e della terra.

Nominato, è la Madre delle miriadi degli esseri.

Eternamente privo di desideri, puoi coglierne l’essenza segreta.

Eternamente immerso nel desiderio, puoi coglierne le manifestazioni.

La Verità (che è altro dalla realtà, assolutamente altro) non è esprimibile a parole se non per approssimazioni del resto pericolose (lo stesso Gesù Cristo – che era consapevole di ciò – ha scatenato indirettamente le peggiori guerre e brutture in suo nome). La Parola (Logos) è ben altro da tutto quanto può essere scritto in qualunque libro. La verità è (uso il lessico induista codificato da Samkara nel 778 d. C.) “neti-neti” (“né questo né quello”), libera dalle costrizioni del principio di non contraddizione. Tornando al Professore, si esprime per metafore e parabole, e infine sprofonda, insieme ai suoi amici, in un Mandala, che è una rappresentazione “attiva” della Verità. Il narratore, invece, è in fondo nient’altro che “uno scrittore” mentre i veri sapienti non hanno scritto nulla.

Questo risveglio “trascina” con sé, implica insomma un mondo (re)incantato, l’esistenza di una qualche forma di anima mundi (si parla di Plotino a p. 110, di analogie tra alchimia e fisica pp. 168-169)? È la stessa concezione ontologica di cui si parla in Tutta la luce del mondo? O meglio: parlando di Francesco d’Assisi alludi a una stessa possibilità di senso – una Verità – che si trova al di là delle teorizzazioni che di essa si possono, razionalmente, produrre?

Direi completamente disincantato. L’incanto contemporaneo è nella prigione idolatrica in cui fluttuiamo: Kali Yuga. Quindi il risveglio è proprio il contrario dell’“incanto”. È consapevolezza. Coscienza. Le analogie tra alchimia e fisica quantistica derivano dal fatto che la teoria dei campi, se non è sorretta dalle ipotesi di “forze altre” (l’universo implicato di Bohm) non regge. O perlomeno, come per Gödel e Heisenberg, resta incompleto. Ma è proprio da questa “falla” (Max Planck, nel discorso di ricevimento del Nobel, disse testualmente che “La materia non esiste”!) a aprirci prospettive uccise da trecento anni di materialismo grossolanamente fideistico.

Dicibile e indicibile. Come affermi, il Professore si esprime «per metafore e parabole», fino a “sparire”, fino al silenzio o, almeno, alla decisione di non scrivere. Scrittore e saggio: in che rapporto stanno? Che rapporto intrattiene la tua scrittura con i risvegli di cui parla?

 Io sono ciò che scrivo e viceversa. Non ho mai mirato al successo. Faccio ricerca. Attraverso la lingua o, meglio, il linguaggio. La mia grande passione, che coltivo da più di quarant’anni, è la poesia: ritmo e “simpatia” (in senso etimologico) di particelle sonore. Collegate al respiro: Paul Celan, forse il più radicale poeta del Novecento, ha scritto in “Der Meridian”, il suo unico testo poetologico, “poesia è una svolta del respiro”. In fondo e sempre, quindi, musica: la terra vive immersa nella vibrazione di Schumann. E anche le cellule emettono vibrazioni/suoni. L’universo è l’eco di un suono ancestrale, che gli indù hanno riconosciuto nell’AUM: espirazione/ intervallo / inspirazione. Di chi sia quel respiro, in fondo, non è importante. Ogni cultura gli dà il suo nome. Ma negarlo significa semplicemente negare ciò che chiunque, a un livello non superficiale, sente e sa.

Posso chiederti di spiegarmi meglio la relazione tra linguaggio, ritmo, simpatia, mondo e respiro? In che modo questa influenza la tua scrittura?

Certo. Ma io non posso che continuare a dare la stessa risposta in termini diversi! Proviamo a rispondere. Ciascuno di questi termini ha ambiti semantici così vasti da costituire una sorta di diffrazione quantistica che, in quanto diffrazione, è una “stortura” di un originario… Ancora, sappiamo sempre dalla fisica delle particelle che la natura della stessa materia, nell’infinitamente piccolo, può essere onda o particella o, meglio, è sia onda che particella. Quindi potrei semplicemente dire che tutta questa fenomenologia dell’apparente non è altro che luce. Linguaggio, ritmo, simpatia (nel senso etimologico di “compassione”, anche e innanzitutto), mondo e respiro non sono che accidenti, direbbero Aristotele e San Tommaso, della Luce (o del Motore Primo). Tutta la luce del mondo, quindi. Stando poi più prossimi al pensiero induista, essendo il Mondo ciclico, il big bang e il big Crunch non sono altro che “respiri” del divino (Brahman, secondo i testi vedici e, in noi, Atman, – vedi il tedesco “Atem”) nella sua ciclicità. Cercare di capire oltre, sul piano razionale, è impossibile. L’influenza che ha tutto ciò con la mia scrittura riguarda innanzitutto la mia coscienza che, quando non è spinta da altro (commissioni, articoli e altra produzione linguistica da sostentamento) si può e deve scrivere con la maiuscola, Coscienza. In quanto tale, è di tutti, e io cerco di scrivere nel senso letterale della parola medium. Lacanianamente, “C’è chi parla”.

Teoria dell’universo oscillante e ciclicità induista, che cosa ne consente la sovrapponibilità?

 Non abbiamo “universi oscillanti” se non ne consideriamo la costanza nei cicli d’entropia che portano ad assimilare l’universo a una sequenza di respiri e, da questo punto di vista, pensiero scientifico e induismo sono già, più che sovrapposti, consonanti.

Cambiando un po’ argomento, mi chiedevo se l’idea di una scrittura medianica fosse il punto d’arrivo o quello di partenza della tua ricerca personale. Intendo dire che, cercando tra i miei ricordi, faccio difficoltà a trovarne traccia in Woobinda.

È il punto di partenza come predisposizione e intento. È il punto di arrivo, o meglio ne è l’idea, in un percorso di continuo raffinamento, di “rettificazione” alchemica nelle sue tre fasi più accettate nella complessa tradizione iniziatica di questa scienza: nigredo, albedo, rubedo. Quello che sento come il più grande poeta rock che abbiamo avuto, Lou Reed, chiude il suo album più incisivo, del 1992, con la formula “There is a bit of magic in everything, and then some loss to keep the things out”. Magia e perdita. Ma perdita di cosa? Trasformazione: energia, cambiamento, evoluzione, e liberazione dall’ego. Ritorna così il concetto di entropia, non possiamo liberarcene… Per quanto riguarda Woobinda, è stato un momento del mio percorso in cui “ho giocato (to play: “mettere in scena”, oltre “che giocare”) la realtà” più immediata di quegli anni. La medianicità stava nel raccontare ciò che mi circondava in modo neutro, senza che interferisse il mio pensiero. Lasciavo fluire in me un mondo demente che poi, è sotto gli occhi di tutti, è diventato sempre più tale. Ma non è certo né “tutto” il mondo né il mondo “vero”. Il titolo iniziale del libro, poi cambiato dall’editore, era “La merce che c’è in noi”. Non volevo assolutamente giudicare (e tantomeno deridere o peggio ancora compiacermi), ma semplicemente ho fatto sì che “fossi usato” dal linguaggio e dai contenuti di un mondo preciso (l’Occidente consumistico a cavallo tra due millenni) nelle sue coordinate culturali e nelle sue allucinazioni. Questo lo scrivo ora. Ma nel libro non c’è alcun giudizio. Come si dice, era “specchio dei tempi”, e non sono poi così felice, abbandonate le gratificazioni egotiche, che quel libro fosse stato “profetico”.

Dal racconto del velo di maya, al racconto del suo sollevarsi, a quello di una possibilità iniziatica vera e propria? Penso alla (ri)nascita che chiude la Vita oscena, fino all’accenno conclusivo sulla ciclicità («Inizi e morte. | E poi di nuovo l’inizio.» p. 111), all’attraversamento del fuoco… dal Rosarium philosophorum:

Se ne alzano a volo due aquile e si bruciano le penne

e sulla terra nuda ricadono.

E già hanno riacquistato le penne…[2]

E torniamo così, in circolo (ovviamente), alla prima domanda. La spiritualità è espressa con termini (significanti) che non combaciano (non possono, non devono) con il significato. Questo iato è il sintomo dell’indicibile. Perché Gesù parlava per parabole? Rivelare vuol dire “svelare” ma anche “velare di nuovo”. Il passo da te citato, a sua volta citato da Jung (che di mistica e simbolismo ha capito poco a causa del suo approccio medico, pur avendo dato all’Occidente una spinta quasi unica a una nuova ricezione di questi temi, abbandonati e bistrattati dallo scientismo dell’Ottocento, la più penosa forma di oscurantismo della storia umana e che oggi prosegue nella mentalità dominante), va letto più e più volte: rivela (e cela) una profonda verità. Credo che ogni discorso iniziatico sia innanzitutto orale (né Socrate né Gesù né Buddha hanno scritto mai nulla). La Parola, il Logos, è suono. Ed è proprio il caso di dire che se “verba volant, scripta manent”, gli scritti sono sempre saturi di intrinseca ambiguità. Ermeneutica ed esegesi sono sempre tentativi di “cavare” fuori qualcosa di vero. E ancora “attraversare il fuoco” cosa vuol dire? Non può esserci una risposta univoca perché è profondamente legato all’individuo. E’ esperienza. Paramhansa Yogananda parlava di tre livelli di approccio al sacro: quello del cuore, quello della sapienza e quello che li compenetra e supera con l’esperienza. Che è sempre individuale (ma non per questo “monistica” o isolata). Tornerei al Tao. Mi sembra, dall’attacco che ho citato prima, illuminante. Se non si cerca di “interpretarlo” troppo…

Hai ragione, si arriva al cerchio. Mi piacerebbe parlarne ma non vorrei abusare troppo della tua disponibilità. Provo invece a fare un ultimo passo, di fianco, prima di concludere. Parli di oscurantismo, di scientismo come mentalità dominante, di merci… la tua scrittura ha qualcosa a che fare con il contrasto di questo dominio, con l’impegno? Se non preciso nulla a proposito di ‘impegno’, spero mi scuserai, è per lasciare la domanda la più aperta possibile. Anzi, avessi una parola (o più) che ritieni migliore, ignora pure il mio ‘impegno’.

Il mio disimpegno è totale. Certo, sarebbe giusto ammazzare Mario Draghi. Pure, per quanto schifoso, Mario Draghi è un essere umano, e l’unica tessera che ho preso nella mia vita è quella di “Nessuno tocchi Caino”. Quella tessera e quello che rappresenta sono per me un valore invalicabile. Per quanto riguardo l’impegno nel senso anacronistico del movimentismo, credo che di questi tempi, in cui le parti si contrappongono per finta, sia semplicemente grottesco. Forse potrei fare qualcosa di utile improntando la mia intera esistenza alla cura degli altri, ma non è nella mia indole. Cerco di farlo nel quotidiano, e ho ancora molto da imparare.

E se invece dico illuminazione, trasformazione o conversione dello sguardo (metanoia)? La letteratura, la tua scrittura hanno qualcosa a che fare con questo?

Mi auguro di sì. C’è un libro molto bello, di Alberto Boatto, dal titolo “Lo sguardo dal di fuori”, (Castelvecchi) che è una riflessione profonda su come possiamo guardarci dall’esterno, e cosa questo possa significare. Boatto parte dalla prima fotografia scattata dallo spazio alla Terra, ma si tratta di un’immagine che non può che evocare l’umano e i suoi confini. Credo comunque che la metanoia sia innanzitutto esperienza, e la scrittura ne è riflesso, anche molto ambiguo. Pure, quello so fare. Ed è sempre un’azione.

Che cosa intendi con cura degli altri?

Ho fatto l’università lavorando di giorno come badante per anziani non adatti a essere curati da donne (per attitudini caratteriali loro, diciamo, e facilmente intuibili) e studiando di notte, dopo avere messo a letto i miei dolci maniaci sessuali di 90 e passa anni. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Per cura degli altri intendevo proprio questo: da autosufficiente curarmi di chi non lo è, in senso proprio fisico e mentale come nel caso mio di cui ho appena parlato o di fronte a disagi, diciamo etnici, culturali: di integrazione dell’Altro. Io sono gli altri, e nel momento in cui questa correlazione si affievolisce troppo viene quasi a mancare il soggetto, si affievolisce troppo o si ripiega su se stesso fino a perdere senso. Sono profondamente convinto che anche un eremita, penso ad esempio a Henry Le Saux, sia “collegato” al resto dell’umanità attraverso altre forme di comunione indirette e potentissime. Che poi, a seconda del contesto culturale in cui le collochiamo, hanno a fare con l’entaglement, la preghiera, i campi gravitazionali o il sannyasin…

Ci sono secondo te altri scrittori, italiani e non, che oggi si fanno portavoce di idee di letteratura simili alla tua? Un’idea di arte o un’idea-mondo, forse.

Susanna Tamaro. Tiziano Scarpa. Aldo Busi. Franco Buffoni. Antonio Moresco. Chandra Livia Candiani. Erri De Luca. Milo De Angelis. E altri ancora… In realtà si tratta di personalità molto diverse, ma tutte animate da profonde convinzioni interiori.

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[1] Aldo Nove, come ricorda Fulvio Senardi nella sua monografia, è «un sintagma di proveninenza insospettabilmente resistenziale perché ricavato dal messaggio che ha chiamato Milano all’insurrezione nell’aprile 1945: “Aldo dice 26 x 1”». ‘Nove’ non è altro che la somma delle cifre due, sei e uno. F. Senardi, Aldo Nove, Cadmo, Firenze, 2005, p. 13.

[2] Artis auriferae, vol. 2, p. 293, cit. in C. G. Jung, Opere, vol. 14: Mysterium coniunctionis, Bollati Boringhieri, edizione per Kindle.

Riviste e poeti a Napoli 1958-1993

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di Giorgio Moio

[Con piacere pubblico una riflessione che anticipa il saggio di Giorgio Moio dal titolo Da «Documento-Sud» a «Oltranza». Tendenze di alcune riviste e poeti a Napoli 1958-1995, in uscita presso Oedipus edizioni.]

Che Napoli sia stato il centro di un lungo dibattito di cultura sperimentale, già a partire dagli anni ’60 – più marcato, se vogliamo, nelle arti figurative (grazie al lavoro del pittore Mario Colucci), e certamente non secondario a quello del resto del mondo occidentale, nonostante uno stagnante e asfittico oscurantismo culturale post-bellico imperante, confuso e a-critico –, è argomento fin troppo noto. Forme sempre più nuove si divulgano negli ambienti culturali  coinvolgendo un po’ tutto il Centro-Meridione che ‒ per dirla con Mario Lunetta ‒ «proverbialmente connotato da pulsioni spudoratamente liriche e trafitto da vettori elegiaco-viscerali, […] ritrova […] le proprie sources illuministiche e si […] ricongiun[ge] (criticamente, dialetticamente) con la grande esperienza futurista e sperimentale» (Poesia: uno sperimentalismo materialistico?, in «Altri Termini», n. 2, terza serie, Napoli, giugno 1985, p. 32)

Da «Documento-Sud» a «Oltranza» ripercorre i fatti e i luoghi di questa cultura avanguardistica e sperimentale napoletana, attraverso tendenze e proposte di alcune riviste e poeti, partendo dal 1958 fino al 1995. Questa nuova cultura, che si contrappone a forme provinciali di un neorealismo descrittivo e folcloristico, ridicolo e privatizzato ‒ attività culturali marcatamente medioevali, di consumo, lauristiche ‒ che trovano terreno fertile in alcune riviste, per es. «Nord e Sud», diretta quasi sempre da Francesco Compagna, ma l’elenco è ben nutrito: «Latitudine», diretta da Massimo Caprara; «Sud», diretta da Pasquale Prunas; «Aretusa», diretta da Francesco Flora; «Il Sagittario», «Città», «Delta», «Realtà», «Le Parole e le Idee», tutte riviste che lavorano e si spostano, fino a promettere false speranze, verso soluzioni che promuovono se stesse.

È con la pubblicazione di «Documento – Sud». Rassegna di arti e di cultura d’avanguardia (ottobre 1959, gennaio 1961) e «Linea Sud» (1963-1967), dirette da Luigi Castellano [detto Luca], artista, critico d’arte, giornalista, arredatore urbano, che si soppiantano, senza mezzi termini, le forme provinciali di un neorealismo descrittivo e folcloristico di cui abbiamo detto. Ma l’imput avviene qualche mese prima, con la promozione nell’ambiente artistico napoletano del “Movimento Arte Nucleare”, grazie alle iniziative del “Gruppo 58”, costituito con un manifesto il 5 agosto 1958 per iniziativa di Mario Colucci, già componente della “Pittura Nucleare”, e di Guido Biasi. Dunque, l’avanguardia napoletana prende il via dai pittori “nucleari”. Il Movimento dei Nucleari nasce a Milano nel 1950, quando Enrico Baj e Sergio Dangelo organizzano una mostra alla “Galleria San Fedele” dal titolo emblematico di “Pittura Nucleare”. La linea che portano avanti è di contrasto con l’idea manieristica dell’arte, per affermare, tra l’altro, la sua irripetibilità: «i Nucleari vogliono abbattere tutti gli “ismi” di una pittura che cade inevitabilmente nell’accademismo, qualunque sia la sua genesi. Essi vogliono e possono reinventare la Pittura. Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico. Le forze sono le cariche elettriche. La bellezza ideale non appartiene più ad una casta di stupidi eroi, né ai robot. Ma coincide con la rappresentazione dell’uomo nucleare e del suo spazio».

A livello nazionale siamo nel bel mezzo di una diatriba tra lo sperimentalismo di Edoardo Sanguineti e il realismo sperimentale di Pier Paolo Pasolini che non lascia indifferente l’ambiente artistico e letterario napoletano. Si mette in campo un certo attivismo politico, in particolare nelle arti visive, ponendosi in posizione polemica nei confronti dell’astrattismo  per una “nuova figurazione”, più semplice, che non trascuri i rapporti con la cultura internazionale, ad esempio con il gruppo “Phases” di Parigi.

Si tenta di superare il vuoto e il deserto presenti, in modo spaventosamente uniforme, sul territorio letterario e artistico: “stabilire il rapporto fra civiltà e miti primordiali” dal quale derivare le immagini. Una proclamata vacuità della storia, un disconoscimento del mondo effimero, nascono su più fronti per mettere in crisi gli strumenti tradizionali ed esistenti, gli spazi poetici delimitati dalla confusione che imbrigliano l’artista e rafforzano il sistema della banalità che li partorisce: si affronta (come mai prima) la volontà di pacificazione che fa del consueto il dialogo col mondo, del consumo il suo credo, l’unica meta di certi “progetti” artistico-letterari. Le forze nuove dell’avanguardia napoletana si dissociano pro-fessando a voce alta una vena provocatoria e trasgressiva in nome di una cultura altra, «nel tentativo “disperato, e forse vano” di essere in qualche modo “alternativi” […] alle ragioni dell’industria del più basso profitto» (F. Cavallo, Editoriale di «Altri Termini», n. 1, IV serie, Napoli, settembre 1990, p. 3).

Il primo nucleo avanguardistico è dato dalla nascita della rivista «Documento-Sud», fondata e diretta dall’infaticabile artista Luigi Castellano, detto Luca, riconosciuto anche fuori Campania, suscitando l’interesse di artisti importanti. Per es. Enrico Baj, con Pop-Napoli, intervento pubblicato in «Marcatrè» (n. 14-15), arriverà a dire che «Documento-Sud» «rappresenta il primo reale documento dell’esistenza di una avanguardia a Napoli», aggiungendo, con Il “paradosso di Napoli”, «il centro più veramente vivo di cultura figurativa che oggi esista in Italia, e può vantare questo suo primato […] da parecchio tempo».

La pittura, dunque, è predominante sulle pagine di «Documento – Sud», anche se si pubblica, nel primo, terzo e quinto numero, testi  poetici di Sanguineti (Il palombaro e la sua amante; Alphabetum; Opus ethicum), di Marcello Andriani, pseudonimo del pittore Guido Biasi (Il gioco dura poco), di Emilio Villa, poeta e critico d’arte che influenzerà più avanti, non poco gli ambienti culturali  napoletani (il terremoto che affoga nel marsala), di Stelio Maria Martini (a partire dal quarto numero) e una poesia visiva del dadaista Francis Picabia.

«Documento – Sud» ha un ruolo di fondamentale importanza per la storia della poesia verbovisiva italiana, per l’interconnessione tra parola e immagine, il recupero del Futurismo che a Napoli ha avuto il suo massimo esponente in Francesco Cangiullo. E non ci pare che si possa attribuire alla casualità la rottura con la “disoccupazione mentale” circolante, che avviene grazie al lavoro sperimentale di un gruppo di pittori, guidati dall’estrosità di Luca, «animatore, organizzatore galvanizzatore di tutte le iniziative locali di allora», come giustamente ha affermato Baj, importante collante tra i “pittori nucleari” di Napoli con quelli internazionali, a «Napoli il figurativo è ovunque, negli “ex voto” argentati a pezzi di membra umane, nell’arte popolare, nelle mascherate, nei cortili barocchi, per le strade, nella fumarola di Pozzuoli e nelle lave del Vesuvio, nelle sagre di Porta Capuana», presentandosi come un «immenso monumento POP» Sprovincializzare e organizzare un nuovo modo di fare cultura diventa quasi un bisogno fisiologico. Si rafforzano i contatti e gli scambi con movimenti italiani ed europei (M.A.C. e C.O.B.R.A., soprattutto), l’entusiasmo di un cambiamento prende il posto del- l’eterno vittimismo, dello stato pietoso e isolato in cui è costretto a vivere l’artista napoletano.

A livello politico l’area di appartenenza è quella del marxismo leninista, anche se è più giusto dire in una forma più estrema che si concretizza, nella maggior parte dei casi, in un’anarchia ragionata, nel senso che il contrasto con la città e i poteri forti che la controllano, avviene all’interno delle istituzioni.

A livello letterario e poetico, invece, la figura referente, in particolare per i giovani quali, ad es., Luciano Caruso, Felice Piemontese, Giovanni Polara, Emilio Piccolo, etc., è quella di Luigi Incoronato (1920-1967), un comunista nato a Montréal da genitori emigranti, autore di Scala a San Potito. Un romanzo neorealista in cui a fare da sfondo e da protagonista è una Napoli travolta dalla miseria e dalla guerra, con descrizione inimitabile della potenza di quell’umanità terribile che  perse tutto sotto i bombardamenti: la casa e ciò che serviva per vi-vere, come tanti altri trovando rifugio sui pianerottoli  della  grande “Scala a San Potito” che s’inerpica da via Pessina, nei pressi del Museo Archeologico, che, specialmente per i poveri rappresentava un condominio a cielo aperto dove Incoronato, per scrivere il suo libro, per un anno, dopo il lavoro, la sera li andava a trovare, condividendo miseria e sofferenze).

In generale, il bilancio della rivista, dopo cinque numeri, risulterà negativo, giacché lo sforzo prodotto non viene recepito, al di fuori del proprio contesto, dai giovani artisti e poeti napoletani. Pochi seguono le idee di Luca e di Emilio Villa (che da Roma è venuto in soccorso dell’amico) al di qua della barricata, ma è meglio di niente. Intanto si decide di dare più spazio alla poesia non più come fatto sporadico, grazie soprattutto all’interessamento e alla “spinta in avanti” di Villa, col quale si costruiscono le basi per un rifiuto dell’esistente, del prodotto finito, catalogato, per far largo al gesto poietico, alla provvisorietà (strumenti che avranno più tardi terreno fertile in seno al gruppo «Continuum» di Caruso e compagni), in una dimensione temporale del linguaggio, degli incontri umani.

Questa “indifferenza” dei giovani, costringe Luca a chiudere «Documento – Sud» aggregandole le forze “isolate” dalla precedente “avventura”, in una nuova rivista: «Linea Sud». Ed è proprio con «Linea Sud», comunque, che ha un sottotitolo che è tutto un programma (Nuova rassegna di arte e di cultura d’avanguardia) che i contenuti prettamente letterari avranno un apporto precipuo, «in stretta connessione con le attività romane di Villa e Mario Diacono» (A. Tecce, Immagini, immaginazione e impaginazione). Ma prima è doveroso segnalare la nascita di «Quaderno», una rivista bimestrale curata da Diacono e Martini (con la collaborazione di Villa), che avviene a un anno dalla cessazione di «Documento  – Sud» e altrettanto dalla nascita di «Linea Sud»: rispetto alle due riviste di Luca, si presenta con un taglio più letterario. Nell’editoriale del primo numero, si evidenzia la linea che assumerà la rivista: «La stampa di questo quaderno non si giustifica tanto dalla novità delle voci che vi si contengono quanto dal fatto che si prendono le mosse dal nostro personale atteggiamento nei riguardi della situazione culturale italiana di oggi. […]. Eccoci intanto al punto: che cosa escludiamo, dunque dal nostro interesse e dalle nostre mire? Escludiamo innanzi tutto, come s’è già detto, e in maniera radicale, l’odierna situazione culturale italiana in ogni suo aspetto e manifestazione, perché avvertiamo chiaramente nei suoi fondamenti il vuoto dell’inettitudine e dell’imbecillità».

Quel periodo è segnato dall’uscita di tre volumi di poesia, tre pilastri della nuova avanguardia italiana, Heurarium di Emilio Villa (1961), Denomisegninatura di Mario Diacono e Schemi, del napoletano Stelio Maria Martini (entrambi nel ’62), la prima plaquette stampata in Italia di poemi-collages (o di poesia visiva), invenzione che Martini “svenderà” in una mostra sulla nuova scrittura allestita alla libreria Guida di Napoli, nel 1964, da egli stesso organizzata, con una mossa alquanto infelice, secondo Caruso, ma anche secondo noi, ossia quella di invitare i novissimi, «con il risultato di essere poi messo da parte e fare la figura del seguace che arriva in ritardo» (L. Caruso, Continuum. Contributi per una storia). Un nuovo linguaggio si affaccia alla finestra del mondo poetico; un linguaggio di segni e composizioni diversificate; sovente artificioso, s’immette nell’orbita del nonsenso per un sabotaggio quasi barocco della forma, delle tante illusioni dell’estetismo. «Linea Sud» esce per la prima volta nel ’63, mutata rispetto a «Documento – Sud», in quanto i lavori sono meno legati alla vita napoletana, ma ne continua, in qualche modo, il ruolo e l’azione, lo spirito, le scelte, le tematiche, sia pure (come è logico attendersi) con interventi poetici più marcati e mirati, sviluppati intorno a un discorso principale, con gli ultimi tre numeri, «rispettivamente dedicati alla poesia visiva (Poiorama) [che anticipa l’uscita della prima antologia di poesia visiva italiana] alla pittura, alla poesia internazionale» (C. Caserta, La poesia visiva a Napoli, intervista a S. M. Martini, in «Poesia Visiva», vol. I/II, ottobre 1992, p. 39. Dai componenti di «Linea Sud», che si presenta all’incirca con la stessa redazione di «Documento – Sud» (Martini e Persico; più tardi si aggregano prima Enrico Bugli e poi Luciano Caruso), senza Biasi che nel frattempo si è trasferito a Parigi, si dipartono tutte – ma proprio tutte – le attività poetiche avanguardistiche (lineari e visuali) di quegli anni a Napoli e non, dando vitalità ad una energia  espressiva alchemica, anticonvenzionale, poietica, continuamente re-inventata, che si protrae fino ai primi anni ’70 con il gruppo di «Continuum». In un editoriale, Diacono, uno dei fondatori della rivista, sottolinea che «la scrittura poetica, la scrittura originaria, reclama le libertà di stare per sé e contro, di non-collaborare, di non-comunicare, di essere».

Sia pure non trascurando i problemi del linguaggio e delle poetiche, si preferisce votarsi alle opere, al solo momento creativo, tracciando un itinerario non di uso locale in una città molto legata agli atteggiamenti e agli accadimenti locali: la presentazione della nascente pop-art, il lettrismo, la  poesia spagnola d’avanguardia, etc., la dicono lunga sulla costante apertura plurima a situazioni nazionali e internazionali, anticipando quello che poi avverrà in tutta la penisola. La vena creativa e sperimentale degli eredi di Cangiullo non cede di un passo. La parola si fa segno e diventa scrittura asemantica, con un suo senso a-logico, significante, de- scrivente, de-costruente nel tentativo di uscire dai canoni stereotipati della lingua italiana, dando vita ad un intreccio che rivendica l’impiego dell’immagine nella scrittura, del corpo-materia, della citazione, del paradosso, dell’azzardo, dell’utopia che traccia con le mani i percorsi complessi del pensiero; che utilizza una varietà di materiali, nonostante le pulsioni di un permissivo colonialismo culturale, di patetiche sceneggiate che presentano sempre lo stesso finale, che hanno nei soliti proseguitori di quel neorealismo ridicolo e privatizzato i loro paladini, i quali occupando ruoli di rilievo nella cultura napoletana, impongono il “numero chiuso” con affinità capitalizzanti.

I dibattiti di riflessione teorica sulla poesia e sulla letteratura in genere (meta-letteratura), che pur si sono tenuti in questa città – contrariamente a quanto si possa pensare e credere –, non sono riusciti a contrastare la supremazia di un livello culturale mediocre e restaurativo; secondo Luciano Caruso, uno dei protagonisti più intraprendenti dell’avanguardia a Napoli targata 1960-70 «a livello di massa la richiesta di consumo poetico è stata soddisfatta da divi e cantanti, abilmente spacciati come fenomeno nuovo del nostro tempo, e non certo da improbabili e incredibili “festival di poesia”, pateticamente messi su dai politici in vena di un equivoco “effimero”, vero e proprio equivalente odierno del “festa farina e forca” di triste memoria» (In Centauri, farfalle e, appassionatamente, tutti gli  altri. Indagine sui linguaggi poetici, cat. a c. di A. Santoro e B. Tramontano, Colonnese editore, Napoli, 1986, p. 24. Gli fa eco Stelio M. Martini, puntualizzando un dato di fatto, ossia che «la poesia oggi latitat per popinas, perché l’editoria “maggiore” (ma è l’industria editoriale, cioè la produzione della merce-libro da difendere/diffondere a tutti i costi) presenta […] per forza di cose un “futuro impedito”, mentre l’atteggiamento notarile dei gruppi correnti impedisce l’unificazione intorno al problema vero, che è, davanti alla società spettacolo, il progetto della società dei protagonisti» (Ivi, p. 25).

Accentuato quello che già si sospetta da tempo, e cioè che la cultura napoletana (certa cultura, almeno) ha una spiccata propen-sione a bearsi nel riconoscimento, nell’applausometro, nei lineamenti di una tradizione ormai fuori tempo ma millantata per “nuovo”, istigatrice di false promesse – basti pensare ai mutamenti scaturiti dalla contestazione giovanile del ’68, per rendersi conto dell’esigenza intrinseca di spostare il discorso poetico almeno di una spanna più avanti –, l’éngagément continua a riaffermare un provincialismo presentato come qualcosa di clamoroso su di un terreno culturale abbastanza immobile, la dissoluzione del mondo storico, ovvero il rifiuto del rapporto statico che intercorre tra le cose trattate superficialmente. «… non si tratta di puntare ancora una volta sopra il mito delle origini perdute, contro la storia e le sue colpe, ma di riprendere in mano, con la più matura energia, gli strumenti lessicali che fondano ogni possibile terreno iconico, per ritornare a costituire, nella piena luce della storia e contro tutte le scritture falsificate, i grafici autentici di una vera e consapevole designazione: non si tratta, insomma, di deformare il veduto nel senso dell’incontaminato, ma di informare di significati l’abbecedario ottico delle cose che si offrono, degli oggetti del vissuto» (E. Sanguineti, Per una nuova figurazione, in «Il Verri», n. 12, 1963, p. 99).

Nessuno vuole assumersi i rischi di un mutamento radicale e impegnativo, in questo contesto storicamente deviante, antropologicamente “infettato” da assistenzialismi “tappabocca”, fisiologicamente anchilosato. È questa l’amara realtà, c’è poco da stare allegri: la merce è il solo credo, “l’usa e getta” il suo verbo. E la Letteratura Sperimentale, di fronte all’ipnotismo del vivere quotidiano, più che impassibile sembra latitante o quanto meno ancorata a posizioni transitorie, di substrato, in attesa del grande evento che nessuno propone. E ci pare persino arrendevole di fronte a una specie di multinazionalismo del facile guadagno, l’americanismo del business, a una mentalità clientelare e sperpera, amante delle cose altrui, dei linguaggi apodittici (certamente dire e no è più sbrigativo, meno faticoso e senza responsabilità), dei lavori sommari e poco esaustivi. Impassibile o non impassibile, arrendevole o non arrendevole, resta il fatto, per quanto sia dolente, che l’avanguardia a Napoli non riesce a smontare i falsi miti – ossia, i falsi significati –, come pure è successo in altri tempi; avendo fatto il loro tempo, non vogliono lasciarsi “invadere” da modelli riproducibili, né farsi attraversare da una dinamica visione del quotidiano che ha nel binomio frantumazione-ricomposizione il suo principale alimento. E accade che l’affermazione di una ideologia interdisciplinare, una prospettiva non abituale, interrogata e contraddetta in continuazione è relegata ai margini del contesto, sommessamente rimandata, in attesa che il tempo le dia ragione, che si sgonfino le atmosfere piene d’ombre e veleni o si frantumano le voci incantate, orfiche e mistiche.

Tra ripensamenti ed abbandoni (Caruso si trasferisce a Firenze; Villa e Diacono ormai stabilmente a Roma; Sanguineti ha altri interessi; i pittori si dileguano restando alla finestra), l’incunearsi della “linea lombarda” viene contrastata dalla rivista «Uomini e Idee», fondata e diretta da Corrado Piancastelli. Si ripristina sul territorio le tematiche di un nuovo modo di fare letteratura, di un metodo di critica, verso un’area gradatamente “off”, attenta al dibattito sul “nuovo” che si stava affermando un po’ in tutta la penisola (dibattito già largamente ripreso negli ultimi convegni di La Spezia [1966] e di Fano [1967] del Gruppo 63 e dalle vecchie e nuove riviste alternative: «Il Verri», «Marcatrè», «Quindici», «Carte Segrete»… Ormai in «Uomini e Idee» si respira aria nuova, pur mantenendo interessanti dibattiti relativi al rapporto tra avanguardia e tradizione e la stessa redazione iniziale (Giorgio Bàrberi Squarotti, Pietro Aldo Buttitta, Piero Chiara, Enrico Crispolti, Giuliano Gramigna, Alberto Mario Moriconi, Adriano Spatola e un giovane segretario: Luciano Caruso), colloquiando con la realtà (non nell’accezione zdanovistica del termine) che dev’essere senza mistificazioni, dove il rapporto arte-vita si situi al centro della poesia portatrice di un’utopia del nuovo, tenta di arginare la catastrofe dell’onda lunga della “linea lombarda”.

Diviene (e non solo per questo l’organo di stampa del gruppo di «Continuum», foglio a redazione collettiva), terreno fertile per un cambiamento del ripetibile e dell’esistente che verrà poi sviluppato proprio sulle pagine di «Continuum», la punta più avanzata dell’avanguardia a Napoli. A proposito di «Continuum», tutta la sua azione si iscrive nel netto rifiuto dell’ufficialità per aprirsi a un realismo non volgare. Agli epigoni di una letteratura effimera, di poetiche fanciulline di ritorno, si preferisce il fuori dall’autobiografia e dalla cronaca, ovvero dal luogo comune (il mondo) che ha deteriorato l’oggetto estetico: non resta che il gesto mentale rivolto a negare i ruoli, gli specifici, gli spazi delimitati della poesia o come funzione del sistema.

Grazie soprattutto all’impegno e alle proposte di Caruso, che le darà definitivamente la propria impronta (con la stessa intelligenza con cui anima quasi contemporaneamente i neonati fogli di «Continuum»), a partire dal n. 13, con l’antologia Il gesto poetico. Antologia della nuova poesia d’avanguardia (post-novissima) che ospita situazioni e poeti trascurati dalla neoavanguardia, si prendono decisamente le distanze da una falsa avanguardia dei novissimi (più precisamente dalla loro professata volontà di inserirsi nel potere economico dell’industria culturale, di scendere a patti con l’establishment), da un giacobismo “perbene” e da un’estetica tradizionale, posizione raggiungibile solo – appropriandoci di una espressione di Caruso – attraverso la proposta di una poesia totale, di “una lucida vocazione del fallimento”: «La nuova poesia in Italia, superate le forme sperimentali e di lavoro sul verbo come fenomeno esclusivo delle conventicole neoavanguardistiche, ha iniziato un processo di poesia totale: questo processo di poesia totale non ha una fine o una scadenza prevedibile (certo aspira a ridursi a semplice operazione di svecchiamento delle strutture della letteratura dominante) si nega recisamente come poesia (anzi cerca il nuovo mentale negando se stessa) – per giungere ad una zona o stadio di possibili mezzi che ha l’uomo: anche il gesto di una mano è una scrittura comunicabile» (La poesia come gest’azione mentale).

Sul piano operativo e della realizzazione «tutto doveva essere ricondotto ad un unico tempo; dal momento che il lavoro individuale, quando c’è stato, da parte di ciascuno, aveva cominciato a proporsi come inseribile, che avrebbe cioè avuto un senso soltanto se inserito e compenetrato nel lavoro di altri individui. Il processo della produzione, in tal modo, ha permesso di superare immediatamente ogni nozione di autore e di opera, per identificarsi sempre più con l’azione stessa» (L. Caruso, Contributi per una storia dei gruppi culturali a Napoli (1958-80). Il fuori, dunque, è la coordinata asintotica di lettura di «Continuum», e non è altro che una posizione periferica, di clandestinità e di fallimentarità – una lucida vocazione al fallimento, dirà Caruso –, un furore utopico eversivo degli schemi, in quanto l’esistente (la città) non è necessario, dove l’artista si sente come un separato in casa. Fallimento come unica alternativa? Pare proprio di sì, rifiuto di «quella parte dell’uomo che è ragione. Ma il problema è anche di produrre cose che sia impossibile affidare all’industria. Se tutto ciò è utopia, non è detto che l’utopia non sia molto più lucida della ragione» (Aa. Vv., L’eternità commestibile, in «Uomini e Idee», n. 15-17, 1968).

Dopo il ’68 le riviste letterarie subiscono un netto ridimensionamento, una riduzione di attività accentuata dalla cessazione di «Quindici», fondata e diretta da Alfredo Giuliani e successivamente da Nanni Balestrini, uno dei più importanti periodici nell’ambito della ricerca e dell’impegno culturale, nemico del provincialismo, dell’establishment culturale, delle arretratezze del mondo accademico e del riaffermarsi dell’éngagément, ossia del fare politico fuso con quello poetico, che resta il motivo principale della sua scomparsa. Se «Uomini e Idee» tenta di frenare l’affermazione della “linea lombarda, negli anni ’70, l’«incertezza di poetiche e di elaborazione», l’invenzione “di un altro spazio poetico” ritrova una sua dimensione con «Altri Termini», rivista quadrimestrale di quaderni internazionali di letteratura (come cita il sottotitolo) fondata e diretta, a partire dal 1972, da Franco Cavallo, con il contributo di Felice Piemontese. Al pari di «Tam Tam» (rivista anch’essa nata nel ’72, fondata e diretta da Adriano Spatola e Giulia Niccolai), si riappropria – è il caso di dire – esclusivamente del “fare poetico”, attaccando la restaurazione e la “morte dell’arte”, ridando «più spazio (o, se vogliamo, più “verità”) a una storia della poesia fatta dalla poesia stessa, in una sua autonoma elaborazione di dati e di notizie» (A. Spatola, introd. a La ricerca della poesia. Poeti italiani degli ultimi anni, a c. dello stesso, in «La Battana», s.q.i., p. 37).

«Altri Termini» interviene «dove più bassa è la tensione, proponendo discussioni di carattere teorico sulle poetiche e sul fare poesia» (M. D’Ambrosio) su un modo «veramente nuovo di concepire il lavoro letterario» (F. Cavallo, Applicando il concetto di violenza, in «Altri Termini», n. 3, Napoli, maggio 1973, p. 5). E dimostra un bel coraggio andando controcorrente,  in un periodo di abbandono delle ideologie, in quanto «[i]deologie e progetti letterari oggi è difficile metterne in piedi. Bisognerebbe credere nelle storie letterarie, nelle posizioni di punta o nelle battaglie delle idee» (A. Berardinelli, Effetti di deriva, introd. a Il pubblico della poesia, a c. dello stesso e di Franco Cordelli, Lerici, Cosenza, 1975, p. 9). Sin dai primi fascicoli la rivista di Cavallo riscopre nelle avanguardie storiche, e in modo particolare nel surrealismo, nella sua più vitale lezione, le istanze per una letteratura di ricerca, un’utopia del “nuovo”. Si tratta di un carrefour dove coesistono diverse esperienze sperimentali, con diversi denominatori culturali ed estetici, nel tentativo di arginare la “parola innamorata”, anticipatrice di un invertebrato postmoderno letterario.

«Altri Termini», dunque, a sentire i critici addentrati, trova subito la collocazione giusta, ponendosi in contrasto con la disoccupazione mentale e il “fuori” di «Continuum»: si svela e si denuncia, nel discorso del quotidiano, la condizione disperata di una scrittura bisognosa di apporto critico e penetrante, di un fare poetico «che presupp[onga] una materialità della scrittura» (M. Lunetta, Introd. a Poesia italiana oggi, a c. dello stesso, Newton Compton, Roma, 1981, p. 10). Ma ben presto l’aria che si respira è poco ossigenata; l’inquinamento lassativo e arrivista sembra inquinare un po’ tutti all’interno della rivista. I “distacchi culturali”, ossia le “incomprensioni” tra alcuni sodali incominciano sin dagli esordi. È il momento di marcare definitivamente la linea di condotta, di votarsi ad una nuova richiesta di poesia da ascriversi in un’autonomia di pensiero come nodo centrale che tenga fuori campo la contaminazione del “politico”, del mercato più vieto, sia pure prendendo atto della loro forza prorompente, contravvenendo a quanto stava accadendo, ossia a quella letteratura di consumo – nonché all’idea accademica dell’arte in genere – che sarà sempre attaccata dalla rivista.

In particolare, «Altri Termini» punta alla «elaborazione di uno spazio possibilmente alternativo rispetto a quello esistente» (F. Cavallo, Spazio, in «Altri Termini», n. 1, Napoli, maggio 1972, p. 11) attaccando coloro che fanno uso di una prosa da burocrati della repressione. Non si vuole più cedere «alla facile tentazione di un settarismo di maniera che, con il falso obiettivo della distruzione del museo e dell’accademia, in realtà mira proprio a questo: al museo e all’accademia» (ibid.); né a una falsa concezione del “nuovo”, simpatizzando coi grandi “messaggi” del Novecento, ma permettendo anche, con La regressione estetica di Antonio Testa, l’erosione di essi, compreso quel surrealismo che nutre, in qualche maniera, il nucleo centrale del discorso letterario della rivista di Cavallo che, tra cessioni e riprese arriverà fino agli inizi degli anni ’90 con la quarta e ultima serie.

Si arriva agli anni ’80, ad una letteratura “alternativa” si lancia dal ponte dell’avanguardia contro il postmoderno, configurandosi, anzi, continuando una presa di posizione contro il dominante “consumo lirico” e un’alterità proprie dell’avanguardia, una “contraddizione” che si è soliti definire «valorizzazione delle valenze ironiche, polemiche, dissacranti, autocritiche della scrittura, impegnata ad analizzare e ad oggettivare se stessa nonché a mettere in crisi il codice predeterminato dei suoi valori effettivi, sentimentali, autobiografici» (M. Lunetta, Un’allegria straziata dal dolore, co-introduz. a Poesia italiana della contraddizione. L’avanguardia dei nostri anni, antol. a cura dello stesso e di F. Cavallo, Newton Compton, Roma, 1989, p. 23).

Se gli anni settanta hanno sentenziato una totale trascuratezza nei confronti di una “letteratura alternativa” e antagonista per far posto agli intrallazzi più vieti, a un narcisistico individualismo e ad una conservazione/restaurazione dell’immobilità, gli anni ottanta hanno rigenerato il gusto del qualunquismo e “personalizzato” di fare letteratura. Dominio facile di ipnotizzatori televisivi, del demo-craxismo, della categoria del postmoderno, si è cercato di azzerare tutto in nome del dio danaro, di pacificare le azioni (le poche azioni degne di tale nome), un mutamento antropologico che ha colpito un po’ tutti. «Indubbiamente, in questi anni cosiddetti postmoderni l’idea stessa di conflitto sembra decaduta definitivamente (non già che i conflitti siano venuti meno; è venuta meno la prospettiva culturale e politica che sapeva riconoscerli). L’assenza di profondità, l’indebolimento della storicità, il nichilismo morbido dominanti hanno avuto anche questa conseguenza» (R. Luperini, Sì, siamo tendenziosi, in «Il Mattino – Libri & Arte  n. 150», Napoli, 20 giugno 1989, pag. I). Insomma, gli anni ottanta, rifiutando le aggregazioni – importanti e vitali negli anni sessanta/settanta – hanno decretato una montagna di spazzatura, un appiattimento in un post dove «un po’ tutti vi sono proiettati e però non si sa ancora bene cosa sia» (G. Picone, Vedi alla voce post, intervista a Edoardo Sanguineti, in «Il Mattino – Libri & Arte, n. 172», Napoli, 2 gennaio 1990, p. 15).

Qualche accenno a uscire dall’anonimato, dalla solitudine viene dai festivals, che nei primi anni hanno una valenza importante e indispensabile, una forte aggregazione militante. E per un breve periodo ritorna il gesto poetico (o la nostalgia del gesto poi/etico), attraverso la voce del corpo, la performance. Nel discorrere alcune manifestazioni pubbliche tra le più importanti degli anni recenti (alcune serate di lettura poetica sulle terrazze di Castel dell’Ovo; una mostra di riviste napoletane d’avanguardia operanti negli anni sessanta e settanta, tra gli scenari liberty di Villa Pignatelli; un seminario sugli ultimi trent’anni di ricerca letteraria in Italia, nel superbo Castel Sant’Elmo, etc.) ci si rende conto della necessità di un ibridismo fluttuante, in grado di approfondire (creativamente) il carattere problematico del quotidiano, le ragioni profonde di una commistione di matrici diverse, in luoghi a volte angusti e umidi, dove le proposte non hanno bisogno di un’occasione particolare per poter esistere: lontano dai vettori dell’ossequio, delle antinomie, c’è la possibilità, in larga misura inesplicata, di concrescere, di scartare anche il più innocuo degli epigoni, la più temeraria delle omologazioni.

Queste manifestazioni si sintonizzano sulla stessa lunghezza d’onda, alimentate da una scrittura dell’hasard, produttrice di quella cultura innovativa che Napoli ha sempre cullato, «l’unico luogo d’Italia dove le posizioni poetiche avanguar-distiche hanno resistito» (R. Pennarola, Dietro la poesia, tutto, intervista a Romano Luperini, in «La voce della Campania», Napoli, novembre 1988), mentre in altri luoghi, quasi a contatto di gomito, una digressione da essa, per il predominio e la tutela di una scrittura d’illusioni, di messaggi ipnotici, continua a mietere vittime, ad annoiare con seminari accademici e un’editoria effimera. Il qualunquismo e i primi sentori di un postmoderno caotico mietono le prime vittime nella Napoli delle riviste letterarie: «ES.», una delle riviste più importanti del suo periodo, fondata nel 1974 da Sergio Lambiase e da Gian Battista Nazzaro, ma praticamente diretta da Glauco Viazzi, la mente pensante della rivista, all’inizio degli anni ’80 è costretta a cessare le pubblicazioni, anche se altre saranno le concause di tale decisione.

In realtà è un periodo, quello dell’inizio anni ’80 che, più che la mancanza di linguaggi appropriati da schierare coraggiosamente contro ogni idea conservatrice dell’arte, mancano gli strumenti idonei. Ad esempio, una grossa casa editrice, l’appoggio dei mass-media, e non ultima, una distribuzione capillare su tutto il territorio nazionale. Di conseguenza, l’emarginazione diventa di primaria importanza, l’unico pretesto per poter esister in cui altre riviste nascono e muoiono nel giro di pochi anni. I tempi che dovrebbero accoglierle sono strani e caotici. È in questo contesto che nascono «Terra del Fuoco», «Baldus» e «Oltranza», tre riviste di ricerca letteraria.

La più attenta a nuove proposte, passando da una poesia verbovisuale a un linguaggio materialistico, è «Terra del Fuoco» (aprile 1985), diretta da Carmine Lubrano, ma praticamente guidata dalle esperienze di Mimmo Grasso e Umberto Attardi, contribuisce in modo non trascurabile. La peculiarità di questa rivista è il confronto che di numero in numero si alimenta tra le più svariate discipline linguistiche e artistiche (la poesia lineare e visuale, la fotografia, la pittura), nonché lo studio dell’evolversi di altre culture. Intanto l’ondata di un’ipotesi di scrittura materialistica, sperimentale o contraddittoria che dir si voglia, ormai è pratica consolidata tra una certa area culturale napoletana. «Terra del Fuoco», che delle situazioni circostanti è stata sempre attenta osservatrice, ospita, sul numero 15-16-17, un manifesto del gruppo di «Quaderni di Critica», Allegoria e Antagonismo, che ripropone, appunto, un’ipotesi di scrittura materialistica, iperbole propulsiva dell’allegoria benjaminiana.

Il dualismo in questione è innanzitutto una polemica tra i «Quaderni di Critica» e la redazione di «Baldus» (rivista semestrale di letteratura nata nel 1990, edita dall’editore Pellicani di Roma e redatta da Mariano Baino, Biagio Cepollaro e Lello Voce, tre giovani napoletani provenienti da «Altri Termini», la rivista fondata e diretta da Franco Cavallo), accesasi all’indomani della critica rivolta, attraverso il secondo fascicolo di «Baldus», al volume Gruppo 93. La recente avventura del dibattito teorico-letterario in Italia (a cura di Filippo Bettini e Francesco Muzzioli, Piero Manni, Lecce, 1990). Al libro in questione si contesta innanzitutto un uso fazioso e discriminante dell’allegoria, «di sovrapporre la loro teoria a quella dei poeti (soffocando le voci [si pensa] di questi ultimi in nome del loro personale punto di vista e […] di sfruttare il richiamo alla nuova generazione per fini poco chiari di auto-propaganda pubblicitaria e di promozione del libro» (F. Bettini, Ancora sul “Gruppo 93”:…, ivi, p. 16)

Ciò che s’imputa a «Baldus», invece, è di aver propugnato un postmodernismo critico inesistente e di maniera, tendenzioso e maligno, una formuletta per stare sia con gli uni sia con gli altri, una «miseria ideale di chi si è limitato a dichiarare le proprie improbabili ragioni di estraneità al fenomeno dell’avanguardia, senza fornire ulteriori e più convincenti spiegazioni dei motivi effettivi del proprio “sperimentare”» (F. Bettini, M. Carlino, A. Mastropasqua, F. Muzzioli, G. Patrizi, Allegoria e Antagonismo, in «Terra del Fuoco», n. 15-16-17, cit., p. 8).

Noi che siamo comunque per l’avanguardia, per una scrittura intraverbale, sperimentale, contraddittoria e antagonista, lontana dall’arcadia del postmoderno, non sappiamo proprio che dire di queste scaramucce tra persone destinate comunque a soccombere di fronte a una realtà tragica, che farebbero bene a unire le armi (ed affilarle!, sì, affilarle!) contro il dilagare della stupidità poetica. Ancora una volta, al centro del dibattito letterario c’è il postmoderno, la sua conclamata tendenziosità all’assoluto e alla poca disponibilità nell’affrontare le espressioni “reali” della vita. Ancora una volta le scaramucce perdono di vista il vero motivo del fare poetico.

Si parte col denunciare l’area «neo-orfica o innamorata, in quanto portatrice di istanze teoriche restaurative» (F. Cavallo, pref. a Coscienza & Evanescenza. Antologia di poeti degli anni Ottanta, a c. dello stesso, S.E.N., Napoli, 1986, p. 12), col spostare il baricentro verso un’area culturale «intesa a rifiutare l’esistente, a trasgredire l’autorità del già dato e a smascherare, senza tregua, le false apparenze della società contemporanea» (F. Bettini, Proposte innovative contro la “restaurazione” degli anni ’70, in Aa. Vv., Letteratura degli anni Ottanta, a c. di F. Bettini, M. Lunetta e F. Muzzioli, Bastogi, Foggia, 1985, p. 21). Si avalla, raccogliendo una parte del “Gruppo ’93”, oltre che una scrittura materialistica, l’uso dell’allegoria, di quell’allegoria ridefinita da Benjamin, nonché l’uso del realismo allegorico sanguinetiano, per una scrittura oggettuale, e si ribadisce la lotta all’ideologia del postmoderno, del poetese.

Con gli anni Novanta la scrittura – specie quella poetica – viaggia nel misterioso, nell’effimero intimismo, con un’etichetta mitologica e ipnotica, frenata da un vissuto di tipo “usa e getta”. «Manca nelle riviste che oggi si occupano di poesia – dirà il compianto Luciano Caruso – ma anche spesso nelle altre, un nucleo di idee, un progetto lucidamente perseguito di messa in discussione del mondo sia pure sub specie aestheticitatis, che riteniamo sia stata la lezione più autentica che la poesia moderna ci ha dato almeno da cento anni a questa parte. Dopo i professionisti in poesia moderna sono venuti i professorini in poesia moderna, così invece di andare oltre, vincere e superare il limite dell’esistente, che era stata l’unica indicazione possibile venuta dalla sperimentazione abortita degli ultimi decenni, si è definitivamente perduta la capacità e la propensione al dispendio che è propria della poesia» (L. Caruso, La poesia nelle riviste d’oggi, in «Terra del Fuoco», n. 5-6, s.d., p. 58). Che strazio, dunque, gli anni Novanta! Col ritorno all’antico, ci si privatizza in gruppuscoli/riviste, in piccoli clan, per cui alla sperimentazione, all’avanguardia, alla letteratura in genere, si dà un senso casalingo amichevole rasserenante, inspiegabilmente a/sacrificale. Pertanto non si riesce ad annullare la distanza che ci separa dall’indispensabile azione poi/etica, da una quotidianità consacrata e riverente, in nome del dio denaro, del più basso e vieto profitto. Dispiace solo dover annotare, man mano che s’indaghi in questa babele di riviste, la morte di alcune davvero interessanti o almeno con una progettualità “non comune”. Dunque, questi sono gli anni in cui una rivista progettuale è destinata a cedere il passo. E allora non può meravigliarci più di tanto se una rivista, ad es., come «Plural», diretta da Enrico D’Angelo e Gabriele Frasca, che nello spingersi ben al di là delle apparenze, proponendo tra l’altro incursioni largamente argomentate nella letteratura araba, quasi del tutto ignorata dai grandi circuiti editoriali napoletani e no, dà qualcosa  di diverso a un ambiente stantio e disattento alla novità, è costretta a sospendere le pubblicazioni.

Stessa sorte tocca, ma per motivi diversi, all’ultima rivista di cui ci occupiamo in queste nostre puntate, «Oltranza», diretta da Ciro Vitiello e pubblicata da Alfredo Guida editore. Nonostante vanti in redazione elementi che hanno fatto la storia della letteratura degli ultimi tempi, non solo napoletana (Franco Capasso, Carlo Felice Colucci, Stelio Maria Martini, Gian Battista Nazzaro, Antonio Spagnuolo), sostenuti da una propulsione di “giovani ” poeti (Alessandro Carandente, Wanda Marasco, Giorgio Moio, Marisa Papa Ruggiero), non è andata al di là della pubblicazione di tre numeri. Con una redazione composta da molte “prime donne” e diversificata dalle origini antitetiche di alcuni, spesso conflittuali, non si poteva certo andare lontano. Tutti “professori” e “professorini” di lettere! Direbbe il mio amico Caruso. Sottace una specie di regola non scritta in seno alla redazione: si attende che l’altro faccia le cose anche per te, un modo di pensare non distante dall’andamento che circola in città, un’inerzia che alimenta un accumulo di problemi, soprattutto sociali, di cui oggi siamo costretti ad affrontare in continuo stato di allerta. Se poi ci aggiungiamo un direttore presenzialista, egocentrico, il quadro fallimentare è bello che delineato. Eppure le promesse e le dichiarazioni, sin da subito si presentano lusinghiere e speranzose: «il terreno dell’avanguardia ci alimenta ancora fecondamente […] [,] il nostro sguardo è desideroso di spaziare oltre i limiti dove i tempi ci comprendono, dove i deserti ci attirano, dove altri sguardi ci lusingano» (C. Vitiello, Editoriale, in «Oltranza», n. 1, Alfredo Guida Editore, Napoli, marzo 1993, p. 3). Solo che lo sguardo pur desideroso di spaziare oltre i limiti, resta solo un desiderio che non riesce a comprendere il tempo in cui vive.

Per il resto vi rimandiamo alla lettura del libro e ai testi poetici dei poeti ospitati: Mario Diacono, Stelio Maria Martini, Luciano Caruso, Leonardo Sinisgalli, Felice Piemontese, Franco Cavallo, Raffaele Perrotta, Franco Capasso, Eugenio Lucrezi, Corrado Costa, Tommaso Ottonieri, Gabriele Frasca, Biagio Cepollaro, Lello Voce, Mariano Baino, Costanzo Ioni, Anna Santoro, Pasquale Della Ragione, Carmine Lubrano, Ferruccio Palma, Michele Sovente, Pablo Visconti, Luigia Sorrentino, Rina Li Vigni Galli, Maria Arfè, Ferdinando Grossetti, Lucia Dell’Anno, Oretta De Marianis, Mario Lunetta, Marisa Di Iorio, Antonio Spagnuolo, Ariele D’Ambrosio, Salvatore Di Natale, Carlo Bugli, Raffaele Piazza, Ugo Piscopo, Orazio Faraone, Wanda Marasco, Marisa Papa Ruggiero, Ciro Vitiello.

 

Oasi

4

di Maddalena Fingerle

 

Stacco immagine colazione: colazione, immagini liquefatte. Fatte. Rosso, freddo, brusio. Io. Fa caldo. Do. Mangio colazione. Azione. Solito tizio, luce potente, accecante. Ante. Odore di farina. Rina. Luce forte e falsa. Sa. Odore di zucchero. Ero. Ti è piaciuta la festa di carnevale, Giuliano?, chiede Nora, muschio bianco. Anco. Quando sarò grande avrò la ragazza. Gazza. Avrò la ragazza. Gazza. La prenderò nel palmo della mano. Ano. La porterò via, sarà bella, la mia ragazza. Gazza. Io sono un vero assassino. Sì, no. Non lascio tracce dietro di me. E. A Giuliano è piaciuta la festa di Carnevale. Vale? Sei brutto, Maurizio. Zio. Maurizio è brutto. To’! Maurizio è cattivo. Ivo. Puzza, Maurizio. Zio. Fragole. Gole. Tantissimi puntini: che schifo. Fo. Non le mangio. Gio. Brusio, rumori, fai silenzio! Zio. Non fare capricci. Ricci. No, basta: non mangio. Gio. Non mangio? Gio? Cosa mangio? Gio? Mangio? Gio? E comincia a fare il cattivo. Ivo. Cattivo. Ivo. Sputare. Tare. Non toccare. Care. Faccio troppo, troppo, non toccare. Care. Non toccare. Care. Suona il telefono. No. Telefono. No. Squilla, forte, nelle orecchie. Recchie. Basta, ti prego, basta. Sta.

 
Shhh. Shhh. Shhh. Shhh.
 

Nora è bella, Nora è muschio bianco. Anco. Terapia. Pia. Sempre terapia. Pia. Terapia, pia, terapia, pia, terapia, pia. Pia? Stacco immagine lavaggio denti: lavaggio denti. Enti. Giovedì viene la mamma a trovarmi, dico a Nora. Ora. Guardami, cazzo, Giuliano, dice sempre la mamma. Ma. Giuliano guarda. Da. Ascoltami, cazzo, Giuliano, dice sempre la mamma. Ma. Non guardo e allora sento. To’! Giuliano si tocca. Ccà. La mamma è arrabbiata. Ah. Giuliano continua a toccarsi. Sì. La mamma lascia Butelli sul letto e se ne va. A. Il ragionier Butelli oggi è stanco morto. Orto. Anche il papà era stanco morto. Orto. Morto. Orto. Nora mi aiuta. Iuta. Stacco immagine doccia: doccia. Ah. Fredda, calda. Da. Rumore dell’acqua sulla testa. Sta. Nora, mi aiuti? Ti. Certo. Collaboriamo! Amo. No, non voglio: faccio da solo. Lo. Va bene, Giuliano. Ano. Faccio da solo. Lo. Stacco immagine tempo libero: tempo libero. Ero. Che robe, non ci posso credere! Ere. Cammino. No. Che stronzo. Ronzo. Tu sei stronzo? Ronzo? Sbronzo? Ronzo? Bronzo? Ronzo? Vuoi disegnare un po’?, chiede Nora. Ora. Comincia tutto il giorno con le mani nel naso. So. Faccio così, sì, con le mani nel naso. So. Ho prurito. Rito. Così non va bene, no! O. Me lo rompo il naso, adesso, con il trapano. Rapano. Te lo rompo, il naso, adesso. So. Finisce il prurito? Rito? O? Più di tredici anni fa. Ah. Era tanto tempo fa. Ah. La suora. Ora. Questo te lo prometto, maledizione. Dizione. Guarda, sto facendo la notte, posso richiamarti? Amarti. Ti va di colorare?, chiede di nuovo Nora. Ora. Rispondo: no, non ci riesco. Esco. Cos’ha fatto, cos’ha fatto? Atto. Spacca, dai, spacca qualcosa. Cosa? Sporca. Orca. Sporca qualcosa! Cosa? Metti qua, così. Sì. Girati, stronzo. Ronzo. Toccami. Ami. Lasciami stare. Tare. Urlo, urlo fortissimo. Simo. Il motorino, fuori, rumore. Ore. Mi sveglio alle dodici domani, alle dodici? Dici? Franco Tri è su, sai, Nora? Ora? Non lo conosco, dice Nora. Ora. Marco Tri, vive quassù. Su. Ah, non lo conoscevo, dice Nora. Ora. Quando Nora sorride c’è cielo, tra i denti, nel buco, cielo. Lo. Mi calma, il cielo, Nora. Ora. È bello il cielo, denti, stellato. Lato. È blu, il cielo, Nora. Ora.
 

Nora dice che dobbiamo tagliare le unghie, io non voglio. Io. Non voglio, non voglio, ti prego! Go. Lasciami, cazzo, lasciami! Ami. Facciamo i bidoni? Doni? Doni. Doni? Doni. Nora dice: facciamo i bidoni. Doni? Doni. Doni? Doni. Piano terra: bidoni. Doni? Doni. Doni? Doni. Bicchierini di plastica, tappi di bottiglia, casino. No. Torniamo. Amo.
 

Stacco immagine apparecchiare: apparecchiare. Chiare. Ne manca uno, Giuliano. Ano. Non lo apparecchio, quello. Lo. C’è la suora. Ora. Oddio c’è la suora. Ora. Ho paura della suora. Ora. La suora buttava l’acqua, i secchi, in testa. Sta. Sei al sicuro, dice Nora. Ora. Guardo il cielo, denti, stellato. Lato. Sono al sicuro, Nora? Ora? Sei al sicuro, Giuliano? Ano? Sei al sicuro, Giuliano. Ano. Giuliano al sicuro. Curo. Ci abbracciamo, no: non ci abbracciamo. Amo. Anzi sì, vorrei. Rei. No, no, no. O. Piacere, sono la nuova operatrice. C’è. No! Via, la spingo via, fuori, tiro capelli, rimangono in mano, vai via, adesso! So. Mi fai male, urla. La. Sputo in faccia, via, cazzo, puzzi: via, via, via, via, se ne va. Ah. Per Maurizio non c’è posto: per Maurizio non apparecchio. Io. Maurizio è brutto e stupido. Do.
 
Stacco immagine pranzo: pranzo. Zoo. Mi piace cucinare, suonare, il violino, il pianoforte. Forte. Ho trentotto anni e tu? Uh! Bello, oggi, vero? Ero. Mi passi il latte? Te? Suona il telefono. No. Vado io! O. Ciao, da quanto! To’! Buon giorno! No! Ti piace? C’è. Perché non mangi? Ih! Che cosa mangi? Ih! Cosa mangi? Ih! Mangi. Ih! Ahia! Eja. Smettila, immediatamente! Mente. Non mi fai paura. Ah. Mi fai paura. Ah. Paura. Ah. Ti richiamo. Amo. Saluta Sara, guarda qui, facciamo una foto, sorridi, guarda qui, Giuliano! Ano. Saluta Sara, guarda qui, facciamo una foto, sorridi, guarda qui, Giuliano! Ano. Giuliano? Ano. Giuliano. Ano. Giuliano? Ano. Mi piace cucinare. Re. Mi piace cucinare? Re? Tutto veloce, troppo, fermatevi. Vi. Fermatevi. Vi. Vi prego. Go. Prego. Go. Basta. Sta. Basta. Zitti. Ti. Zitti. Ti. Bis. Sssss. Il bis, voglio il bis. Sssss. Bis. Sssss. Ce l’ho il caffè? Eh? Caffè. Eh. Ce l’ho il caffè? Eh? Ce l’ho il caffè? Eh? Ce l’ho il caffè? Eh? Ce l’ho il caffè? Eh? Il caffè è amaro. Marò! C’è il melone?, chiedo. Do. No, oggi no. Oh! C’è, l’ha messo la tipa in frigo. Go. Ho visto. Sto. Visto. Sto. Apro il frigo. Go! Ah, cavolo, hai ragione! Hai vinto, melone allora. Ora. Terapia. Pia. Ho vinto. To’. Stacco immagine lavaggio denti: lavaggio denti. Ti. Ho vinto, cazzo, andiamo al piano terra, dico a Nora. Ora A fare?, chiede Nora. Ora. A vomitare. Tare. Finisci di lavarti i denti, dice Nora. Ora. Voglio andare al piano terra a vomitare. Tare. Vomitare. Tare. Vomitare tutto. To’. Basta. Sta. Lasciatemi andare. Re. Lo vuoi un bacino? No? Bacino. No. No, no, no, no. Oh! Attività. Vita. Stacco immagine riposo: riposo. Poso. Camera. Era. Ho fatto la patente e guido il pulmino. Mino. Buona notte e sogni d’oro, chiudo la porta; no, apro la porta: buon riposo e sogni d’oro. Oh. Chiudo la porta. Ah. Poi ti racconto, che storia! Ah. C’è la suora. Ora. Non voglio fare la notte. Te? Mi sdraio, c’è la suora. Ah. Non lo sento da una vita. Ah. Quando stacco ci facciamo una cicca. Ccà. Aspetta, c’è la suora. Ora. Mi metto qua. Ah. Lui che mangiava il prosciutto: io e lui. Oui. Mi manca. Anca. La mamma viene giovedì. Vedi? Il papà è in Germania. Mania. Mi manca. Anca. Il burattinaio Mangiafoco deve starnutire, barbaccia nera. Era. Mi manca. Anca. Non voglio morire, non voglio morire! Ire. Mi manca. Anca. Sono stato bravo! Vo. Sensazionale! Ale. Mi manca. Anca. Me lo dai un bacino? No? Non ce la faccio più, mi manca. Anca.
 

Ha i jeans, sono belli i jeans, jeans: Nora? Ora? Dimmi, Giuliano. Ano. Sei bella con i jeans: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici. Dici. I jeans, la doccia, l’acqua, io nudo, Nora nuda. Da. Nora? Ora? Dimmi. Mi. Vengo. Go! A giugno mi sposo, devo scegliere l’abito. To’! Non picchiarmi, mi picchi, mi stai picchiando, picchiami, picchia Giuliano, gli sta bene a Giuliano, lo merita, Giuliano. Ano. Mi fai male. Ale. Mi manchi. Chi? Vado a vomitare. Tare. Bussa Nora, fine riposo. Oso. Vado a vomitare. Tare. Non voglio morire, non voglio morire, davvero. Ero.
 

Stacco immagine merenda: merenda. Da. Merenda è bar. Arr. Bar è uscita. Ita. Mamma, dove sei? Ehi! Sei pronto, usciamo?, chiede Nora. Ora. Usciamo: voglio il toast con Coca Cola. Là. Se non entri non sai che cosa ti perdi. Di’! C’è il toast con Coca Cola? Là. Non lo so, vediamo, dice Nora. Ora. C’è il toast con Coca Cola. Là. Giacca, uscita, passeggiata, bar. Rrrrr. C’è il toast con Coca Cola. Là. Quadrati, cane, gente, odore, asfalto, semaforo, rumore macchina, clacson, brusio, ragazza, rumore gente, tacchi, vaniglia, urla, puzza di fumo, erba, semaforo, muschio bianco, Nora. Ora. Stop, loop: meglio i Ricchi e Poveri. Veri. Nora ride, Nora per mano. Ano. No, anzi sì. Iiiii! È verde. E. È verde. E. Andiamo? Amo? Andiamo. Amo. Ooooh. C’è il toast con Coca Cola. Là. Bar: Per me una fanta e per lui un toast e una Coca Cola. La. La luce, il bancone, la gente. Ente. Non c’è il toast: li abbiamo finiti. Iti. C’è il toast con Coca Cola. Là. C’è il toast con Coca Cola. Là. I bambini hanno i fucili. Lì. C’è il toast con Coca Cola. Là. C’è il toast con Coca Cola. Là. Ombra per terra. Erra. Ombra per terra. Erra. Ombra per terra. Erra. Ombra per terra. Erra. C’è il toast con Coca Cola. Là. C’è il toast con Coca Cola. Là. C’è il toast con Coca Cola. Là. Ombra a terra. Erra. Confuso, c’è fumo e nebbia. Ah. Luce, rumori e suoni: i bambini hanno i fucili. Lì. Spacco tutto, voglio andare in psichiatria, spacco tutto, giuro: tavolo a terra. Erra. Calci alle cose. Se. Sedie. E. I bambini hanno i fucili. Lì. Spacco le sedie. E. Spacco tutto. O. Guarda che chiamo la psichiatria. Ah. Mi siedo e aspetto, faccio il bravo: in psichiatria angeli. Lì. Angeli aiutano. No. Nora è angelo. Gelo. Non chiama. Ama. Sei diventato un pappagallo? Gallo? È questo l’unico amore che hai: quella. La. La telecamera. Era. Vai, meglio, brava. Va’! Non sono solo. Lo. Non ancora. Ora. Che cazzo ridi? Di’! Ti spacco la faccia, stronzo. Ronzo.
 

Dentro, tabellone programma. Gramma. Stacco immagine apparecchiare: apparecchiare. Chiare. La Rettore fa quello che le pare. Re. Vomito tutto, poi Giuliano lecchi? Chi? Giuliano non vuole. Le. Giuliano deve. Ve’? Tavoletta, disegno, linee. Eeh! Bicchiere, piatto, coltello. Lo. Amore mio, mi senti? Enti? Stacco immagine cena: cena, mi manchi. Chi? Terapia. Pia. Era timido. Do. Era innamorato. To’! Stacco immagine lavaggio denti: lavaggio denti. Ti. Ti sento, ora. Ah. Stacco immagine pigiama: pigiama. Ama. Pigiama di cemento. Mento. Pesa. Sa. Stacco immagine letto: letto. Etto. Letto di seta. Età. Nora. Ora. Buona notte e sogni d’oro, chiudo la porta, è pieno di nodi qui. Oui. Una ragazza da costruire. Ostruire. Ire. C’è la suora. Ora. Oddio. Dio. C’è la suora. Ora. Mamma? Ma! Aiutami. Ami. C’è la suora. Ora. Niente. Ente. Nora? Ora? Dimmi. Mi. Odio. Io. Filo sotto la porta, di luce, mi da fastidio. Dio. Guardo via. A. Di lato. O. Chiudo gli occhi. Chi?
 

Sogno, sogno, sogno, sogno, sogno.
Oasi, oramai, orchestre, oracoli, obese.
Nascoste, navi, nazionali, non, nostrane.
O, o, o, ombre, orrende.
Anche, astronavi, anche, aulenti, assonnate.
Una, uggiose, ululati, udendo, ugualmente.
Tacita, traballare, tristi, tragiche, tristi.
Idea, in, incollati, identiche, in.
Senza, sintonia, sopra, storie, sottane.
Troppe, tremolante, tavoli, travolgenti, trasparenti.
Itrazioni, in, istoriati, ilari, intanto.
Come, case, con, coccole, cadono.
Oggi, ordinate, olio, odi, occhi.
 

Oggi come iterazioni troppe senza idea tacita una anche o nascoste oasi sogno. Ordinate case in tremolante sintonia in traballare uggiose astronavi o navi ora sogno. Olio con istoriati tavoli sopra incollati tristi ululati anche o nazionali orchestre sogno. Odi coccole ilari travolgenti storie identiche tragiche udendo aulenti ombre non oracoli sogno. Occhi cadono intanto trasparenti sottane in tristi ugualmente assonnate orrende nostrane obese sogno. Oro cola immedesimati tacitamente subito immedesimati travolgente uragano ascoltami. Ascoltami, uragano travolgente, immedesimati subito, tacitamente immedesimati, cola oro.

La tigre

0

di Filippo Polenchi

La tigre #1
Pensiamo che chiudendo i vetri e gli scuri il caldo resterà fuori. Usiamo incantesimi di buio per ripararci dall’incendio del sole. I muri devono conservare refrigerio, così ha detto il padrone. E noi rispettiamo il comando. Lavoriamo in questa conca di oscurità, scavati nella tenebra, con la luce accesa come nelle sere invernali. Chissà se oltre la fragile membrana di tenebra ricreata il sole sta fondendo il vetro. È così difficile lavorare quando c’è afa e nero. Mi muovo, penso, telefono, istruisco pratiche, inserisco stringhe di caratteri e sequenze di cifre in maniera letargica, come un transito di sonnambuli; il sogno vuol catturarmi. Man mano che ci avviciniamo al pomeriggio il sogno mi benda gli occhi, le immagini che sono abituato a vedere mutano a scatti, in rapido montaggio. Allora mi scuoto, mi alzo dalla sedia, faccio un giro intorno alla scrivania e vado in bagno: lì mi seggo sulla tazza e chiudo gli occhi, sperando di non addormentarmi. Quando torno in postazione rivolgo lo sguardo al divano dove accogliamo i professori: la tigre è sempre lì.

*

La tigre #2
Tornavo dalla pausa pranzo e camminavo per i viuzzi. In fondo alla stradella c’era la tigre. Era a circa cento metri di distanza, in corrispondenza del viadotto. Sopra le auto muggivano negli strappi di suoni che smuovevano. Nessuno degli automobilisti naturalmente avrebbe potuto vedere la tigre. Era una visione maestosa; anche se così distante si distingueva il corpo perfettamente scolpito, con le scapole sporgenti dove le zampe attaccavano al torso; era composta da sezioni di anelli bianchi e neri intorno al pelo fulvo. Stava immobile, di profilo, con le orecchie ridicolmente arrotondate, piccole, orecchie da peluche. Ho fatto qualche passo nella sua direzione e la tigre si è messa in movimento. Non sembrava andarsene, né però attaccarmi. Misurava i suoi passi lenti quasi su una linea immaginaria nell’asfalto. I cespi di rovi, le frasche selvagge e verdi, le lunghe liane delle acacie, con i loro pungiglioni abbeverati nel veleno, ramificavano tutto intorno al cemento del viadotto. Quella vegetazione era stata comandata dalla morte stessa, per rubare il più possibile materiali alla costruzione. La tigre emergeva dallo spazio di quella cornice di calcestruzzo ed erbaccia. A vederla sembrava appartenere a un unico volume insieme al quadro che la racchiudeva. Così le sono passato accanto: c’è voluto poco. Lei mi ha guardato, ma io ho tirato dritto per la mia strada. Così lei, dopo qualche passo, ha preso a seguirmi.

*

La tigre #3
Le cornici degli scuri lampeggiano del residuo della canicola. Il vetro, di là, sarà tornato sabbia? Il mondo esisterà ancora o si sarà incendiato e liquefatto? Oceani di vetro fuso staranno ustionando terribilmente la Terra? Fuori penso che ci sarà una brezza leggera contro il sole aranciato del pomeriggio. Il cielo sarà terso. Ma forse è solo un’illusione del ventilatore, una brezza artificiale. La tigre è qui con me. Oscilla intorno alla mia scrivania, quasi incorporea se non fosse per il portapenne che sobbalza a ogni suo passo. Questa creatura può essere veloce e letale; ha una precisa determinazione che risponde a una sola urgenza del sangue. Non ha pietà, non ha coscienza della morte, né della propria né di quella altrui. È un meccanismo biologico che la natura ha levigato millennio dopo millennio perché fosse più letale, più determinato, più performante. Leggo la lettera di una persona che propone a me il suo romanzo. Questo scrittore sta proponendo il suo libro a tutti coloro che lavorano nel settore e a tutti quelli che racimola sui social. Do un’occhiata oltre il tavolo e lei è sempre lì. Sgraffierà il tappeto con gli artigli? Ad ogni modo non mi disturba. Anzi. La tigre è quieta; io sono quieto.

*

La tigre #4
Non sapevo cosa dire. Ero paralizzato dalle scelte. Tutto accadeva nella mia testa e davanti a me i colleghi rispondevano al telefono. C’era anche la tigre. Di tanto in tanto lei appariva sulla soglia, come nell’intervallo di un diaframma. Pensavo a tutte le tesi. Poi alle antitesi. Ero stanco e il telefono squillava. Lo schermo del computer riluceva davanti ai miei occhi. Vedevo la tigre che compariva sull’uscio. La tigre aveva un’intelligenza biologicamente superiore, affilata come i suoi artigli. La perfetta natura del suo cervello la rendeva efficiente e sapiente. Interrogavo quell’intelligenza dalla scrivania e mi sentivo sempre più ottuso, sordo e chiuso nell’oscurità del mio dolore. Il telefono squillava. Sullo schermo ogni click cancellava un’immagine e ne verificava un’altra. Qualunque scelta sarebbe stata insufficiente. Sentii un ruggito provenire dall’altra stanza e naturalmente sapevo che era stata la tigre; così alzai la cornetta e composi il numero del fornitore.

*

La tigre #5
Da qualche ora non trovo più la tigre. Il giorno continua a scolorare nel bagno di candeggina. Il mondo evapora per sovraesposizione. La aiuole del giardino scoppiano in uno sfrigolio istantaneo. La strada, il rombo dei TIR, il raccordo autostradale, la luce accecante essa stessa nella materia iper-trasparente sta scomparendo con il battito di un ciglio. La tigre è scomparsa? Anche lei si è arrostita e istantaneamente dissolta? Nella luce accecante non distinguo niente: né voci né volti. Mi metto in cammino. Vado nel bagno, scendo le scale, fingo di recuperare una bottiglia d’acqua per ritrovarla. Ma non c’è traccia di lei. Ho paura a scrutare un’ombra dentro tutto questo bianco.

*

La tigre #6
Un pomeriggio, d’estate, entrammo nel bosco. Le mostrai dove facevamo il bagno da ragazzini, nelle pozze gelide del fiume. Poi distendemmo la coperta su un prato. Il sole era temperato e la brezza ricordava le infanzie del sogno. Questo accadeva un paio di anni fa; l’estate non era calda. Avevo appena perduto un lavoro, ma non ero triste. Il lavoro era stato così depressivo che ne fummo sollevati. Tutto aveva ancora da succedere. Sto raccontando tutto alla tigre e naturalmente nessuno ci ascolta.

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La tigre #7
La tigre ha mangiato un cane oggi ed era il cane della padrona. Tutti noi ci aspettavamo di vederlo trascorrere una giornata come le altre: avrebbe scodinzolato al padrone, avrebbe annusato le particelle acide emanate dai nostri corpi e si sarebbe svuotato le viscere con la solita baldanza, al centro del corridoio. Per noi sarebbe stato oltraggioso, ma per il cane perfettamente normale. La tigre stava sul divano, come gli altri giorni. Ma oggi ha sbranato il cane con poche mosse ben precise. La tigre era perfetta nella sua ginnastica di morte. Ha tenuto fede alla promessa del suo sangue, al meccanismo della sua natura, alla fredda e cieca determinazione di essere un predatore fatale e invincibile. Si è guadagnata un certo rispetto anche fra chi la vedeva in azione la prima volta. Poi, lentamente, tutto è tornato alla normalità. Nel corridoio quello che restava del massacro era una pozzanghera con frattaglie e sangue. Per un po’ è rimasto il suono atroce di tendini strappati come corde di una chitarra slabbrata; carne cruda dilaniata dalla sua sede d’osso; le budella indagate per un vaticinio osceno. Tuttavia il lavoro è tornato regolare in pochi minuti e non certo per indifferenza nei confronti della mattanza, ma perché tutti gli impiegati erano vincolati a farlo. E perché il lavoro non può essere rimandato a lungo: a un certo punto va semplicemente sbrigato. Questa è la realtà. Domani il lavoro proseguirà. Senza il cane che annusa le caviglie delle scrivanie.

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La tigre #8
Avevo gli occhi aperti sul cuscino e poi li ho chiusi. Ho pensato all’ultimo pensiero che avevo pensato e sono tornato indietro. Qual era il primo? Nell’ombra degli occhi chiusi sentivo una sonagliera di spiccioli. Poi ho trovato il pensiero, era in alto. Letteralmente era un trattino posto in alto, in un angolo di quella piramide oscura. Mi sono chiesto cosa ci facesse lassù e ho immaginato la tigre che, per farmi un favore, mordicchiava pezzo dopo pezzo quella matita di pensiero per accorciarla e farmela toccare.

La malinconia del meriggio

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di Nicola Fanizza

Caterina si recava tutti i giorni a casa di mia madre Teresa. Aveva più di ottant’anni. Era una donna di sostanza: si imponeva per la sua altezza e, insieme, per la sua robustezza. Era rimasta vedova e viveva sola, poiché i suoi tre figli si erano sposati. Benché il marito fosse morto da più di trent’anni, continuava a portare il lutto. Copriva i capelli banchi con un fazzoletto nero, e portava quasi sempre una gonna lunga e un maglione nero fatto a mano.

Era prodiga di consigli nei confronti di mia madre, e l’aiutava quando era intenta a sbucciare le mandorle o a preparare i dolci.

Era davvero una donna di altri tempi. Praticava la medicina tradizionale e per ogni malanno seguiva un rituale diverso. Il rito del «taglio dei vermi» andava in scena in questo modo. Mentre recitava la formula magica: «Vermuzzi e vermicelli / siete piccoli e pizzottelli / senza gambe camminate / senza bocche mozzicate / per la Santa Trinità / andate via di qua», Caterina praticava nel contempo il massaggio della pancia del bambino. Poi, segnava diversi punti del suo corpo col segno della croce e, a seguire, recitava un’«Ave Maria», un «Gloria al Padre», e un «Padre nostro».

Il suo massaggio, che avveniva con la dolcezza di una mano materna, aveva probabilmente una valenza pranoterapeutica: consentiva al bambino di potersi rilassare e nel contempo di liberarlo dall’ansia e dalla nevrosi.

Il rituale, però, poteva anche essere declinato non con le preghiere, bensì con le bestemmie. In tal caso la donna che officiava il rito si trasformava in un’autentica sciamana: si caricava, proprio attraverso le bestemmie, del male di cui era affetto il bambino, ripristinando così lo stato di salute.

Non sempre, però, i suoi rituali magici sortivano i risultati sperati. Ciò accadde in particolare quando mio fratello si procurò una frattura alla mano destra, dando un pugno sull’omero di un suo amico. La mano si era gonfiata e, su sollecitazione di mia madre, si rivolse a Caterina per essere curato. Quella volta il rituale del «massaggio» – con l’aggiunta dell’olio e dell’aglio, seguito dalle opportune preghiere –, non le consentì di ridurre la frattura. Mario per guarire fu costretto a rivolgersi alle cure dei medici dell’ospedale del paese che gli ingessarono la mano.

La mia famiglia si era trasferita da alcuni anni in via Pascasio nella città di Mola. Quella strada era molto importante per mia madre che veniva da Rutigliano, lì si sentiva meno sola, poiché era un luogo di passaggio e, ancor di più, di incontri. Ciò che le aveva consentito di addomesticare la distanza con i vicini era la sua generosità. Durante la guerra, quando i bambini sentivano i morsi della fame, regalava loro i dolci e a volte le mandorle e i fichi che metteva a essiccare sul terrazzo. E quando mio padre si accorgeva che la quantità dei fichi e delle mandorle dispiegate al Sole era diminuita, Teresa incolpava gli uccelli!

I vicini, poco prima del meriggio, mandavano i loro figli ogni giorno a casa sua per chiederle un po’ di prezzemolo, di basilico o di menta che Teresa coltivava sulla sua terrazza. Spesso, gli veniva chiesto anche qualche limone. In tal caso, per prenderli, non era necessario scendere nel giardino, poiché i rami dell’albero arrivavano sulla terrazza. A volte le venivano richieste le foglie di arancio. Servivano per riempire il cuscino dei bambini appena deceduti.

Sempre a proposito del meriggio, Caterina raccontava un episodio che per lei era stato un vero e proprio evento. Quando aveva appena cinque anni, era stata testimone di un omicidio che era avvenuto proprio a mezzogiorno nella casa dei miei genitori, che allora apparteneva a don Cesare Pascasio. Asseriva che quel giorno, disubbidendo a sua madre, era rimasta a giocare in strada con gli altri bambini e fu proprio allora che vide il nipote di don Cesare mentre entrava nella casa di suo zio. Il nipote si era recato in quella casa per ottenere del danaro da sua zia. Ma, a fronte del diniego di quest’ultima, l’aveva uccisa con un coltello da cucina. Caterina aveva sentito le sue grida strazianti e subito dopo aveva visto l’assassino mentre correva velocemente verso «Portecchia» (il porto). Venne poi a sapere che lì era salito su una barca a vela e si era diretto, probabilmente, verso le coste dell’Albania o della Grecia.

Quel fatto di sangue appare come un tipico delitto legato all’atmosfera meridiana. Avvenne proprio a mezzogiorno, l’ora in cui Caterina, insieme a tutti gli altri bambini, doveva essere già a casa.

Quello del meriggio nella civiltà greco-romana era il solo istante senza ombra, era quello il momento in cui prendeva il sopravvento la malinconia: l’oscuro desiderio di tornare all’inorganico (l’impulso di morte)

Le Cicale incantatrici e le Sirene – i Demoni meridiani – esprimevano proprio in quella temperie il loro vampirismo, divorando gli incauti che, oppressi dalla canicola, si rendevano vulnerabili alle loro morbose tentazioni.

Da qui la paura che investiva i marinai che si trovavano in mare aperto o i pastori nelle radure (questi ultimi non potevano sottrarsi ai raggi del Sole!). Non è un caso che ancora oggi in gran parte delle regioni mediterranee sopravviva l’abitudine della siesta e una serie di superstiziose dicerie, motti e narrazioni sull’«ora che pare immota», durante la quale i bambini non devono assolutamente uscire ed è sconsigliabile avventurarsi in giro da soli.

L’aver assistito a quell’evento non ebbe, però, alcuna conseguenza sulla psiche di Caterina, che crebbe in modo sereno, con un temperamento gioioso e solare.

Gli accidenti della sua vita, legati per lo più alla sua attività di sciamana che sperimentava quasi quotidianamente l’altrui sofferenza, le avevano offerto la possibilità di riflettere, dopo aver sperimentato a volte il fallimento delle sue cure, sulla sua impotenza nei confronti di alcune malattie.

Caterina divenne consapevole dei suoi limiti. Da qui la sua devozione nei confronti di San Michele. L’Arcangelo le appariva, infatti, come il Santo che avverte l’obbligo di contrastare gli uomini che si sentono onnipotenti, schierandosi sempre dalla parte dei deboli e dei perseguitati.

Ogni anno, nel mese di maggio, Caterina si recava in pellegrinaggio presso il santuario di Monte Sant’Angelo.

Dopo una settimana, tornava su un carro pieno di pennacchi (ogni devoto dell’Arcangelo era obbligato a portarli con sé in ricordo del suo pellegrinaggio!). Quei pennacchi riempivano i miei occhi con un caleidoscopio di colori e diventavano subito strumento di nuovi giochi.

Caterina era solita donare a mia madre del torrone e dei piccolissimi panini benedetti di Santa Rita. Mentre il torrone veniva consumato in breve tempo, i panini bonsai invece venivano conservati nel comò della stanza da letto dei miei genitori fino al maggio successivo. Senza avere l’idea di commettere alcun delizioso peccato, provavo più volte a mangiarli, ma erano troppo duri per essere manducati!

Caterina era attenta alla vita, era attenta a tutto ciò che si opponeva alla morte, non parlava mai delle gioie passate. Stendeva un velo di silenzio su suo marito, e persino sui suoi figli. La sua attenzione era rivolta soprattutto alla vita dei suoi nipoti e ai loro matrimoni.

Se ne andò in punta di piedi, con la stessa leggerezza con cui saliva le scale!

( l’immagine è La siesta di Augusto Colombo)

 

 

 

La tendenza a coniugarsi all’infinito

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di Mariasole Ariot

 

Le visage est signification, et signification sans contexte.
Levinas

 

Sulla faccia muovono ossessioni, carteggiano mani abili di millenni come api operaie, cade una vita dove cade, dove il movimento è una ferita, una città spalancata nell’occhio, il mormorio incostante del lamento – e mentre passa non passa, passano di passati i passanti, le vostre ricorrenze, le alture dei corpi, le gabbie ruggiscono elementi – e cadono, cadono dalla nicchia in cui vi siete separati.
 

Se l’umano è un sentire, un verso duro la manciata di parole, la tendenza a coniugarsi all’inifinito.
 

Catap: catena s’intende la gerarchia delle parti

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Catap, Cut-Up: come principio pericolato, catena tra umori consimili poichè ugualmente inquieti. A 82 anni, Silvio Craia continua a combustionare un’inesauribile formula di creazioni e de-creazioni per materie umilissime, che si vanno sfacendo a precipizio proprio nell’atto di compiersi. Concrescenze e cascate di segni, che Andrea Balietti e Virgilio Gobbi hanno voluto trattenere per un poco nello spazio appena inaugurato a Macerata. Ad impegno votivo, un inedito di Emilio Villa, qui pubblicato integralmente (in francese, e tradito in italiano):

 

 

Catena si intende

La gerachia delle parti

Dall’alto in basso

Nell’etere immacolato

E Nell’etere sporco

Gli anelli si stringono attenzione che tengano tutti

Se uno si rompe

Tutta la catena sfinisce

 

Prendere una catena

Ed immeterla in figura

 

 

 

 

 

 

 

 

Due pub tre poeti e un desiderio: Omosessualità e spionaggio

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di Franco Buffoni

 

L’associazione era stata fondata nel 1820 a Cambridge come Conversation Society presso il Trinity College, ma subito venne ribattezzata The Apostles perché dodici erano i “brothers” che la componevano. E quando qualcuno era assente veniva definito “angel”. Nata come confraternita anticlericale, contro le ingerenze della chiesa anglicana nella vita universitaria, nel corso dei decenni annoverò tra i suoi membri Tennyson e Lytton Strachey, Bertrand Russell, Keynes e Wittgenstein.

Negli anni venti e trenta del Novecento The Apostles divenne un club d’élite per “iniziati” (con tutto ciò che il termine significava sin dal tempo di Byron), caratterizzato da raffinate riunioni conviviali con brindisi a “bellezza e verità” e fortissimi legami omosessuali. Ma anche da grande simpatia per la rivoluzione sovietica, riscontrabile per altro più generalmente in tutto l’ambiente oxbridgeano.

The Apostles divenne così il crogiuolo per antonomasia per la formazione di un gruppo elitario di spie britanniche a favore dell’Urss, capaci di rimanere “coperte” per decenni, come Sir Anthony Blunt e Guy Burgess, fuggito in Urss nel 1951.

Dopo la promessa di impunità, Blunt confessò che il suo era stato in pratica un caso di coscienza: dovendo scegliere tra la lealtà verso l’Inghilterra e quell’intreccio di omosessualità e marxismo che era la lealtà verso i brothers di Cambridge, scelse la seconda. Tuttavia non sarebbe stato difficile scoprire Blunt con qualche decennio di anticipo: bastava scorrere la sua monografia dedicata a Picasso negli anni venti per cogliere un’impostazione critica basata esclusivamente sull’estetica marxista.

Perché è vero che è lunghissimo l’elenco degli artisti che furono anche agenti o spie – da Kipling agente in India a Maugham spia in Svizzera e Urss durante la I Guerra mondiale; da Graham Greene a Durrell, Ian Fleming e John Le Carré; e forse anche a Noël Coward e Evelyn Waugh – ma furono tutti in vari modi collaboratori dell’Intelligence Service del loro paese e a favore dello stesso. Con gli Apostoli invece il quadro cambia radicalmente: il sogno di liberazione omosessuale si intreccia con il sogno dell’ideologia marxista e il nemico primo e unico è sempre l’establishment britannico al quale appartengono le loro famiglie. Come si evince dal romanzo Il fattore umano di Greene, in cui il protagonista accetta di lavorare per i sovietici e, una volta scoperto, si rifugia a Mosca. Greene chiama Castle il suo uomo, ma in realtà la storia somiglia a quella della celeberrima spia Philby, già apostolo a Cambridge. E ancor più verosimilmente è Philby il protagonista de La Talpa di John Le Carré, con il nome di Bill Haydon, spia pro-Urss. Emblematico il titolo originale del romanzo, evocativo di complicità collegiali e appelli nei cortili, sguardi d’intesa e incontri segreti in spogliatoi e aule di scienze vuote: Tinker, Taylor, Soldier, Spy.

Crogiuolo anche di altre memorabili associazioni, il club degli Apostoli. Perché Toby Stephen, apostolo a Cambridge, ereditata dal padre Sir Leslie una vecchia villa nel quartiere londinese di Bloomsbury, vi andò ad abitare con le sorelle Vanessa, pittrice, e Virginia, scrittrice. E fu proprio a Cambridge nel 1928 che Virginia, sotto forma di pubblica conferenza, espose le linee essenziali di ciò che poi sarebbe diventata Una stanza tutta per sé.

In questo quadro si comprende bene il “marxismo” di Auden, da The Witnesses, I testimoni, del 1932 (“Il cielo è come una macchia scura / Qualcosa sta per piovere giù / E non saranno fiori”) a Spain 1937: “Tomorrow for the young the poets / exploding like bombs”.

D’altronde nel 1939 anche Stephen Spender compose gli appassionati Poems from Spain: sapendo poco o nulla di quanto realmente stava accadendo in Unione sovietica, e ritenendo solo frutto di propaganda capitalistica le prime rivelazioni sui crimini staliniani, l’omosessuale molto praticante ma velato Spender volgeva lo sguardo verso un’utopica fonte di liberazione dal brutale capitale e dall’oppressione sessuale. Spender divenne poi anticomunista dal 1950 e fu tra gli autori del Dio che ha fallito. Diresse anche la prestigiosa rivista socio-letteraria “Encounter” fino al 1965, quando scoprì che molti abbonamenti erano sottoscritti dalla Cia per permettere agli intellettuali liberal di esprimersi e poterli così controllare. In un’intervista che mi concesse a Milano nel 1988 dichiarò: “Sono stato comunista perché allora mi sembrava l’unico modo possibile per essere antifascista”.

Estratto da: Franco Buffoni, Due pub tre poeti e un desiderio, Marcos y Marcos. Pubblicato in occasione dei 50 anni di Stonewall e della nascita dei Pride.

Mots-clés__Femminino

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Femminino
di Giulia Scuro

 

Fabrizio De André, Princesa -> play

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da Virginia Woolf, Orlando, trad. Silvia Rosa Sperti, Milano, Feltrinelli, 2007

Ripensò a quando da giovane aveva preteso che le donne fossero obbedienti, caste, profumate e vestite di tutto punto. “Ora dovrò pagare in prima persona per quei desideri”, rifletté, “perché le donne (a giudicare dalla mia breve esperienza del loro sesso) non sono per natura obbedienti, caste, profumate e vestite di tutto punto. Devono ottenere queste grazie, senza cui non potrebbero godere dei piaceri della vita, con la più rigida disciplina. Anche solo l’acconciatura”, pensò, “mi porterà via un’ora della mattina. Poi c’è da guardarsi allo specchio: un’altra ora. C’è da fermare e allacciare il busto, da lavarsi e incipriarsi, da cambiarsi da seta a merletti e da merletti a seta lavorata; e da esser casta un anno dopo l’altro…”. Qui scalciò con impazienza, scoprendo qualche centimetro di polpaccio. Un marinaio sull’albero, che stava guardando di sotto proprio in quel momento, sobbalzò con tanta violenza che perse l’equilibrio e si salvò per un pelo. “Se vedere le mie caviglie può causare la morte di un brav’uomo, che di sicuro avrà moglie e famiglia da mantenere, dovrò per amore dell’umanità tenerle coperte”, pensò Orlando. Eppure le sue gambe erano tra le cose più belle che aveva. E si ritrovò a pensare a quale strano punto si era arrivati, se una donna doveva coprire le sue bellezze per evitare che un marinaio cadesse da un pennone. “Che vadano al diavolo!”, disse, comprendendo per la prima volta ciò che in altre circostanze le sarebbe stato insegnato da bambina, ovvero le sacrosante responsabilità della femminilità.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Overbooking: vocabolario minimo

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Nell’introduzione di Luca Marinelli a questa estrema e delicata antologia in uscita con Wojtek edizioni leggiamo: “Il Vocabolario minimo delle parole inventate raccoglie molti tra gli autori che, conosciuti negli ultimi anni di redazione sul web, ritengo tra i più interessanti nel panorama delle riviste, autori le cui prove narrative aspetto sempre con impazienza.”

Alcuni di questi autori, Stefano Felici e Simone Ghelli, hanno fatto parte di un mio felice esperimento, proprio qui su Nazione Indiana, intitolato “les nouveaux réalistes”. Accolgo dunque con estrema e delicata attenzione questo nuovo esperimento proponendovi in anteprima uno dei racconti.(effeffe)

 

 

 

Un bacione a Saviano

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di Mariasole Ariot

La parola è già movimento, atto, agire: qualcuno la sta ascoltando, e l’ascolto produce, incide, traccia. L’ascolto, anche quando passivo, è sempre attivo.

Le ultime dichiarazioni del Ministro degli Interni, un videomessaggio vagante nei social, pronunciato con la stessa leggerezza del mezzo, dice qualcosa che non può sparire nell’invisibilizzazione che il mezzo, nella sua produzione ipervelocizzata, in cui tutto ciò che appare, appare per un secondo e poi slitta, e slitta fino a scomparire.