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Abitare le lingue

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di Lisa Ginzburg

“Succede così anche per le lingue. Quando si è costretti a parlarne un’altra per molti mesi, come a me è accaduto, quando ritorni alla tua ti accorgi che la lontananza ti è servita per riscoprirla nella sua essenza più profonda. Si potrebbe coniare uno slogan divertente: ‘Studiate l’inglese, il francese, il tedesco per … imparare l’italiano’”. Goliarda Sapienza così scrive ne L’arte della gioia. Ben prima, Goethe aveva affermato qualcosa di simile parlando del suo amore per la lingua italiana: sposando stesso assioma secondo cui, un po’ come quando per conoscere qualcuno per davvero devi anche darti lo spazio e la distanza fisica e interiore per potere pensarlo da lontano, lo stesso accade con la propria lingua.   Distanziarsi in senso fisico e interiore aiuta a comprendere: affina i sensi, fa guardare e riflettere con maggiore attenzione. La lontananza è lente focale, il silenzio acuisce l’udito. Lontani, capiamo e apprezziamo tutto di più. Anche il nostro idioma.
Da quando vivo all’estero in pianta stabile, cioè da una decina d’anni, i miei rapporti con l’italiano mia lingua madre si sono intensificati e sentimentalizzati. Quest’anno a Parigi ho tenuto un ciclo di brevi conferenze dal titolo “Sillabario italiano”, riflessioni su particolari lemmi ai miei occhi particolarmente rappresentativi della peculiarità linguistica del nostro idioma. Nel preparare ogni intervento mi scoprivo a entusiasmarmi, commuovermi persino, per etimologie e curiosi percorsi glottologici delle parole – io abitata da moti d’animo partecipi ai limiti del patriottico, sommovimenti interiori che mai nel mio passato esterofilo avrei potuto nemmeno solo immaginare possibili in me. Emigrare, allontanarmi insomma sì, ha aumentato l’amore. Ma cosa succede con le altre lingue? Perché con ognuna ho il senso di intrattenere un rapporto diverso. E come il tutto si riverbera sul rapporto con la mia lingua?
Sui curricula scrivo di sapere cinque lingue e sono onesta quando lo affermo, non millanto. È vero, alla mia lingua madre se ne aggiungono altre quattro che parlo, alcune meglio altre peggio, tutte – è quel che conta – con l’orgoglio e la temerarietà un po’ incosciente dell’autodidatta. Non proclamo dunque un falso poliglottismo, né credo di vantarlo o sbandierarlo mai. Ne conosco tutta l’imperfezione: sono realista, tormentata da un senso di costante incompiutezza, perché avendo imparato da sola, l’apprendimento è lacunoso. Le sottigliezze della grammatica mi sfuggono, e scrivere mi è quasi impossibile. Il modo strampalato e raffazzonato con cui ho appreso a comunicare e parlare si traduce sulla pagina in maldestri tentativi, prove di un arbitrio compositivo troppo anarchico e del tutto fallimentare. La libertà audace di cui do prova nello scambio verbale, trasposta sulla pagina, è puro disastro.
Anche nelle due lingue che parlo meglio, il francese e il portoghese, lo scarto tra parlare e scrivere è abissale. E questo mi azzoppa, mi imbarazza, mai mi dà quella sicurezza “secchiona” di chi una lingua straniera invece la possiede perfettamente, forte di corsi e frequentazioni regolari di scuole e corsi avanzati con relativi diplomi finali. E il rammarico crea in me un inestirpabile senso di inferiorità. Altro che i poliglotti “veri”. Ormai a scrivere in altre lingue dalla mia non provo nemmeno.
Eppure del mio metodo di autodidatta vado fiera. Fatta eccezione per lo spagnolo, l’ultima lingua in termini cronologici che ho appreso, facilitata dal portoghese già acquisito e grazie a un biennio di rapporti di lavoro quotidiani con una équipe di ispano-parlanti, gli altri idiomi li ho imparati tutti nello stesso modo, usando lo stesso metodo. Leggendo romanzi e ascoltando musica.
Leggendo: ho ricordi di me attonita e incuriositissima davanti a pagine di Middlemarch di George Eliot. È estate, sono in campagna, il caldo mi ottunde mentre osservo quei fogli fitti di una prosa composta di periodi molto lunghi, pochi punti e tante parole incomprensibili. Il più vivido è proprio il ricordo dell’impressione visiva: quei blocchi di frasi sconosciute ma la cui sequenza anche graficamente già di per sé mi affascina, mi ipnotizza. Termini ignoti che si avvicendano, seguo il filo delle parole, leggo e rileggo, mano a mano colgo il senso di un paragrafo, poi un altro, ma mi distraggo continuamente, troppi lemmi mi sfuggono. Annaspo. Eppure è proprio da quella ignoranza sovrana, dominante, che la voglia di capire si farà strada. Una voglia testarda, tenace: di decriptare, non aiutata da vocabolari e dizionari, ma per comparativo / deduttivo procedere della mia piccola testolina, lei da sola.
In francese: “toutefois”, “car”, “souhaiter”, “apprivoiser”, “plenitude”, “l’arrosoir”. In inglese: “meanwhile”, “somewhere”, “feeeling”, “worst”, “despite”, “cosy”, “loneliness”. In portoghese: “agora”, “eu não sei”, “tomara que seja”, “leaozinho”, “madrugada”, “nunca mais”, “juba”. In spagnolo: “alma”, “espesura”, “amanecer”, “duerme”, “sin embargo”… Innamoramenti immediati, rapinosi, definitivi: tutti di natura puramente fonetica. Mi innamoro di parole, e la prima fascinazione, proprio come un primo amore, è viscerale, puro istinto, nessun criterio, non il minimo calcolo.
Metodo del tutto empirico e rudimentale che da allora, da quell’estate in compagnia di Middlemarch, uso sempre: a forza di comparare parole, giustapporle, raffrontarle, provare a decifrarle, incomincio a dedurre le lingue, poi a leggerle via via un po’ meglio, infine a parlicchiarle. Prendo insomma ad abitarle. In ogni lingua prendo dimora, e una dimora diversa.
“Abitare le lingue”: intitolai così un convegno che organizzai a Venezia nell’aprile del 2011, in veste di direttrice di cultura di un organismo internazionale oggi non più attivo, l’Unione latina. Si trattava di due giornate dedicate al tradurre poesia, ospiti poeti di diverse nazionalità. Per la brochure scegliemmo con i miei collaboratori una riproduzione del quadro “Storia della Torre di Babele” di Brueghel il Vecchio. Più che la torre, sghemba e massiccia in primo piano, mi colpiscono di quel quadro le figure umane sulla sinistra della tela: un gruppo di persone interdette davanti alla vastità di opzioni linguistiche, ma determinate a intenderle e a intendersi tra di loro. Si lavorava con i colleghi della Unione latina sull’intercomprensione, una forma molto funzionale di comunicazione nonostante ogni locutore si esprima nel suo idioma. Ritrovavo un filo con il mio amore adolescenziale per l’empiria dell’apprendistato linguistico, quell’intelligenza solo intuitiva che può condurre a un abitare personale e personalizzato, perché conquistato grazie a mezzi e strade proprie.
Abitare le lingue. Il tema continua a interpellarmi, mi riguarda da vicino. Abito ognuno di questi idiomi parlati “a modo mio”, ma soprattutto sono loro ad abitare me. Ciascuno risvegliando un lato della mia personalità, ho l’impressione.
Già. Ogni lingua mi vive dentro in una sua maniera, riecheggia toccando determinate corde e non altre. Parlo con me ad alta voce quando devo capire, sviscerare, e qualcosa fa resistenza allo scavo interiore, o quando sento l’urgenza di sdrammatizzare, di prendermi sanamente un po’ in giro. Allora, mentalmente o in più solenni soliloqui ad alta voce, mi servo di volta in volta di una lingua o un’altra a seconda dei frangenti dei miei stati d’animo.
Per capirsi: l’inglese è la lingua di un sentire delicato, poetico. Il portoghese la lingua del cuore per come parla a se stesso nella forma più diretta, non mediata. Lo spagnolo, l’idioma del vigore appassionato ma lucido. Il francese, lingua del ragionamento minuzioso, razionale sino all’esasperazione. E l’italiano… l’italiano, quando “parlo con me”, è in senso letterale lingua madre: lo uso per rimproverarmi o per aiutare me stessa a vedere quel che non voglio vedere, proprio come faceva mia madre la cui voce mi manca ogni giorno.
Anche se imperfetto, conquistato secondo traiettorie troppo personali per poter parlare di autentico poliglottismo, il plurilinguismo supporta e avalla la prismaticità del sé. Aiuta a essere contemporaneamente più nature, non una univoca soltanto. Argomenta la babelica coesistenza (civile) di sfaccettate parti di noi stessi, bisognose ognuna di esserci e di venire ascoltata. E conferma l’idea goethiana, poi di Goliarda Sapienza: che alla propria lingua si “torni” meglio dopo avere viaggiato tra altre.
Quando scrivo, cioè quando il mio rapporto con la lingua è più frontale, e intenso, e per me importante, allora abito esclusivamente l’italiano. Non credo cambierà. Lì è casa mia, e sebbene mi diverta ancora moltissimo a viaggiare, vagabondare tra altre lingue e abitarle, è a casa mia che voglio tornare.

Buone ragioni per leggere e scrivere

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di Walter Nardon

«Perché leggere e scrivere libri?» Davanti allo studente che pone questa domanda, la tentazione di rispondere in modo tradizionale è irresistibile: allungare il braccio sullo scaffale, prendere con cura il libro giusto dicendo «Qui c’è già tutto», per poi mettere fine alla sua attesa porgendogli con gesto sicuro il volume poveramente rilegato, ma di insuperabile valore esemplare. Per quanto questa soluzione possa produrre esiti di inestimabile comicità involontaria, in alcuni casi, ad esempio se si tratta di Anna Karenina, risulta indiscutibile, ma fonda la sua efficacia sulla possibilità che l’allievo riconosca il valore della letteratura come qualcosa di evidente.

La gente non esiste

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di Gabriele Merlini

Tra i refrain più in voga, avendo la sfortuna di trattare di editoria, c’è senza dubbio questo dei racconti (tirarlo fuori nelle conversazioni non è mai uno sport salutare, tuttavia tornarci potrà aiutare i distratti a orientarsi meglio, funzionando da pratico punto di partenza.) Riassunto: esisterebbe un diffuso, radicatissimo timore nei confronti delle short stories, delle raccolte, delle antologie. Motivazioni più che note: attirano poco, coinvolgono poco, vendono poco, sono difficili da classificare, in fascetta è un dramma, bisogna scovare un sinonimo accettabile di racconto («otto avvincenti romanzi brevi?») senza contare quanto vantino misteriosi poteri satanici grazie ai quali il lettore tende a smarrirsi, confondersi, incattivirsi. Viceversa è nostro dovere tutelarlo con malloppi lineari e omologati.

Per fortuna la faccenda è vera solo in parte, specie in questi tempi di fioritura di realtà specialistiche eccellenti e felici esordi; ma la costante ripetizione del mantra fa sì che qualsiasi uscita nel settore venga all’inizio salutata come un piccolo, fondamentale miracolo degno di stupore e sbigottimento.

 

«Ogni tanto tendeva a balbettare – lui diceva di essere insicuro,

ma a me piaceva pensare che lo facesse perché aveva

molto da dire, e la lingua, le labbra, la faringe, non gli stavano dietro.»

 

Secondo quest’ottica, dunque, Paolo Zardi avrebbe dalla sua la recidività essendo già autore di due libri di racconti (Antropometria e Il giorno che diventammo umani, entrambi pubblicati da Neo Edizioni) oltre alla produzione romanzesca (XXI Secolo è stato candidato allo Strega. Tutto male finché dura è uscito l’anno scorso per Feltrinelli). La verità è che l’ultima raccolta dello scrittore padovano – La gente non esiste, nuovamente con i tipi di Neo – finisce per essere una operazione riuscita sotto vari punti di vista e merita qualche approfondimento.

«Il 2015. Sembrava un anno impossibile da immaginare, allora.

Prima si doveva arrivare al 2000, la fine di un secolo, di un millennio,

e poi serviva ancora un’altra vita, lunga come quella che aveva appena vissuto.

Dove sarebbero stati nel 2015?»

Non saprei quanta consuetudine con altri autori di racconti italiani o stranieri richieda il libro per comprenderne i punti di forza (immagino poca, giustamente) però tra gli aspetti migliori parrebbe esserci la capacità di restituire chiare le influenze, reinventandole via via affinché risultino il più possibile aderenti alla contemporaneità cui siamo immersi. Ventisette quadri – numero che può spaventare, va ammesso – dalle differenti ambientazioni e protagonisti, esposti secondo una prospettiva personale e poco usuale. Scientifica attenzione ai particolari in apparenza secondari, ai dialoghi e le digressioni, focalizzandosi su quanto di epifanico possa nascondersi in ciò che riteniamo superficiale sbagliandoci di grosso. La quotidianità di individui (non gente: termine che grazie al cielo sta riguadagnando una propria tremenda connotazione) posti davanti le rispettive solitudini, inadeguatezze e paure. Plot nella norma lineari – i testi sono per lo più singole scene dissezionate da molteplici angolature – che restituiscono inediti istanti di scoperta e presa di coscienza e per il lettore, o quantomeno per il lettore che scrive questo pezzo, è curioso il processo di identificazione, di ritorno a un vissuto personale sovrapponibile più o meno con precisione alla situazione descritta: ricordi liceali mitizzati, una evacuazione aziendale, una spiaggia affollata che invita alla riflessione, fotogrammi di vita urbana conditi dal rimorso («quando finiva di lavorare, passeggiava per le strade di Milano, da sola, e guardava i giardini nascosti dietro i portoni imponenti di via Borgonuovo, le luci accese fino a tardi nelle finestre dei palazzi ottocenteschi di piazza Cordusio e non smetteva di immaginare cosa potesse significare avere una vita di successo»: qui temo Zardi mi abbia letteralmente pedinato).

Lo stile, alternando virate umoristiche, sarcastiche e cupe – bastano i titoli eterogenei per provare a farsi un’idea: Le sottili pareti del cuore unita a Le cyclette non vanno da nessuna parte – è misurato, funzionale al ruolo che sembra prefiggersi: indagare quanto ci circonda e farlo in modo diretto, senza veli. Pagine talvolta dure ma mai banalmente spietate come capita di incontrare in giro, più un diffuso senso di lievità: caratteristiche non frequenti da queste parti, dunque da accogliere positivamente.

Balcanica

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di Filippo Polenchi (foto di Andrea Biancalani)

#1

I nostri compagni di viaggio ci introducono nel sonno. Un vecchio non respira, accanto a me, dall’altra parte del corridoio. Ha un vestito grande e marrone, le maniche di fustagno gl’inghiottiscono le mani. Solo la punta delle dita ballonzola in una fibrillazione ritmica. Il viso del vecchio è accartocciato, scuro, carta gialla da macelleria, da negozio alimentare disposto in curva. Quel viso non suda, non gocciola, non si bagna con la stessa patina oleosa che appiccica le nostre palpebre insieme, le fonde, finché non abbiamo più scelte che tener gli occhi chiusi e dormire. Nel volto del vecchio ogni sudore è assorbito dalla carta ruvida del suo epitelio. Ma il vecchio non respira. Ansima, fischia. Il suo petto si gonfia con parossismo, alla ricerca di aria in qualunque direzione: più in là di qualche centimetro c’è un po’ di ossigeno, basterebbe una molecola di ossigeno, un atomo, il piccolo dono dell’elemento, un’estrazione dalla massicciata della realtà. Cerca aria con la furia di una migrazione: sulle setole raspose del sedile un poco polveroso, nel vetro, nel sole alogeno che inchioda le ombre nel corridoio. La cerca più avanti, nel corridoio, nella piccola tv piazzata sopra il capo dell’autista, nel suo schermo muto e cieco.

#2

Dal mio diario:

“dopo 6 ore di bus siamo a Podgorica, sulla strada per Sarajevo. tutto questo giro per non passare dalla Serbia. la città sembra disegnata da De Chirico e colpita da una pandemia. nessuno in giro. città metafisica, tra Viareggio e una qualunque città russa. abbiamo mangiato un panino ripieno di pollo e verdure e ci ha serviti Sanya, una ragazza giovane e timidissima, con un grosso neo sul collo, che non sapeva nulla d’inglese. questo popolo si sta prendendo gli avanzi del nostro consumismo e li sta usando con la stessa ingenuità che avevamo noi negli anni ’60. quando inizieranno anche loro a fissare il buio? a Podgorica la vita inizia dopo le 17. pulviscolo di ragazzini, mamme, passeggini, biciclette, tacchi alti, zeppe, minigonne, ginocchia rotte, automobiline a motore elettrico che si riversa sulle strade, tra i cubi in cemento del socialismo reale.

cubi e volumi, case euclidee, desideri geometrici pensati e realizzati, alla Solaris.

tutto era così mentale che la città mancava di colore. c’era un’aria polverosa, una caligine gialla per le strade deserte. a Podgorica nessuno si sarebbe fermato di proposito; solo chi, come noi, ci capitava per caso l’avrebbe vista.

qui si beve birra Niksicko”.

#3

C’è un’aria da località di montagna. Fuori dalla finestra dell’albergo un caos quasi messicano: uno sferragliare di mezzi, voci, musiche planetarie. Fuori dalle stanze d’albergo, oltre il bazar, c’è il solito clima provvisorio di chi vive senza tante aspettative. Oggi mancavo. Mancavo e basta. Chiediamo a un tassista di portarci a Kolovice, perché a quanto pare c’è un monastero. L’autista è un ragazzo giovane, perlopiù biondo, con una testa come quella di un toro, poggiata sulle clavicole. Si vede immediatamente che non capisce nulla del posto che gl’indichiamo. Si consulta con un collega, uno più vecchio; ci stordisce l’odore di farina di ceci, di felafel, di spezie e soffritto d’aglio. Alla fine concordiamo un prezzo per 5 euro e partiamo, ma stiamo in auto per più di un’ora e per strada imbarchiamo due ragazzi che si fermano in un campeggio per strada (uno dei due ha le grucce). Alla fine il taxi si ferma in un punto sperduto, da qualche parte sulla montagna. Non c’è niente qui, se non una chiesa cattolica costruita dagli italiani. Torniamo indietro molto delusi, tra pareti rocciose, gole ombrose, chiaroscuri vegetali. Alla stazione è evidente che l’autista non aveva capito né la destinazione né il prezzo, perché ci chiede 50 euro. Gli diamo la metà e lui, sorridendo e scusandosi, se ne va. Vorrei sapere il nome delle ciabatte che il nostro autista e tutti gli altri tassisti del piazzale indossano.

#4

Una ragazza mi dice che Trieste ci mette poco a essere triste: basta una vocale. Io e Andrea ci prendiamo una bella sbronza, nella tavola calda di Tito, un albanese. Dopocena gironzoliamo per le strade, a cercare refrigerio e proteggerci dal vento. Poi, sotto il loggiato di una chiesa, uno zingaro suona Ederlezi. Ci viene da ridere perché è il primo zingaro che vediamo, dopo le settimane nei Balcani. Lo paghiamo perché suoni ancora e ancora e lui si convince solo quando diciamo la parola “Kocani”. Si chiama Mikele, è uno zingaro di Bulgaria. Attacca con un lamento straziante, la litania di un rimpianto infinito, che ci schianta a sedere contro le colonne della chiesa ad ascoltarlo. In quel canto di tromba ci sono i Balcani che non abbiamo visto, quelli che in Macedonia si disperdono nelle lunghe strade che occupano le giornate. L’Ederlezi di Mikele, invece, è il triste rimpianto del profugo. Accanto a noi ci sono tre ragazzi. Uno di loro dorme. Alla fine compriamo il cd, dove in copertina c’è Mikele con il suo cappellaccio nero e il nome a caratteri dorati.

Quando sono a casa ascolto il disco, sperando che ritorni quel lamento della chiesa, ma ci sono solo i classici di Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Tony Bennett suonati dalla tromba su base midi di Mikele.

#5

1988.

Il colonnello croato dice a Fatir di andarsene a fare un giro in Italia. Fatir non ci pensa due volte: vive per mesi in albergo, a Trieste. Quando finisce i soldi scrive a casa e si fa spedire denaro. Tre mesi in questo modo. E poi altre lire, da suo padre. Quando conosciamo Fatir ha 45 anni e ne dimostra venti di più. Suo figlio non voleva partire per non lasciare la fidanzata italiana a casa. Fatir non ha mai dormito per strada. Non va in Serbia, con l’auto. Una volta ci provò e rimase in dogana per ore. Ci sconsiglia di farlo, per non restare inchiodati all’angolo per ore.

#6

A Kocani, terra di zingari, cerchiamo tracce della Kocani Orkestar. Troviamo, invece, Ivan Levkov, capostazione. Ci accoglie con una foresteria di parole; tutte quelle che non ha potuto spendere in questi anni di anonimato. È felice di vederci, ma degli zingari della Kocani Orkestar non vuol parlare. Ivan vuol bere, la sua grozjie, una grappa d’uva dolcissima, che ci avvelena di oblio il pomeriggio.

#7

La cerimonia della chiamata dei nomi. Affidiamo come gli altri i passaporti all’autista. Lui compila una lista e ci chiama uno per uno, dal predellino del pullman. Sono nomi ottomani, giugulatorie alfabetiche; rispondono all’anagrafe dei Muzzein, del nome che si scioglie nella preghiera dell’alba. I nostri nomi sono incongruenti, ridicoli. Non ci riconosciamo in questo appello. Saliamo defilati, senza dare nell’occhio, confusi fra le canottiere dei ragazzi, nelle musiche che provengono dai telefonini; fra i fazzoletti delle donne, pezzuole nere cotte dal sole, identiche e ripetute di generazione in generazione. Portano pacchi e borse sportive, comprate nei temporary store della capitale. Li cuoce il sole di Roma Tiburtina. Si abbatte vitreo e incandescente sulle pezzuole nere delle donne e delle vecchie, sulle camicie dalle maniche tagliate degli uomini, i loro cappelli. Un sole alogeno, incattivito, insudiciato dalle sopraelevate, gli scheletri elefantiaci dei rebus tangenziali. Un intrico di Escher domina il sottobosco putrido di queste ombre lacustri. Dentro gli occhi è il rombo imperscrutabile del transito romano. Il continuo e ripetuto suono della strada che alimenta se stesso.

#8

Nel sogno c’è un vecchio che organizza una festa per quello che presumibilmente è il suo compleanno. La casa della festa è quella di campagna dove io e Andrea abbiamo pensato a questo viaggio. Ci sono tutti, ma proprio tutti: gli amici, i primi amori, conturbanti avventure sentimentali o soltanto il reparto Baci Rubati. (Manca la mia famiglia). Ci sono anche quelle persone che non si frequentano più perché c’è stato un momento nel quale noi e quelle persone eravamo così arrabbiati che ci sembrava giusto rompere tutto. Poi passa il tempo e si scopre di essere rimasti assenti per così tanto tempo che ormai la paura di non riconoscersi più in quello che eravamo c’impedisce l’ultimo, sensato, tentativo di chiamare nel cuore della notte e svegliare quei testimoni del nostro passato. Insomma, nel sogno ci sono anche queste persone, che nell’arco della vita sono disseminate qua e là.

Improvvisamente si scopre che al di là della festa gli invitati sono lì perché io e Andrea siamo tornati dal viaggio dai Balcani; sono lì per festeggiare il nostro ritorno. I primi amori sono ancora quella struggente tenerezza pomeridiana che erano al tempo; gli amici sono i compagni di una vita; coloro che non sono più nella nostra vita sono lì, di nuovo, per chiederci udienza, per domandarci scusa o per darci l’occasione di fare noi altrettanto.

Nel sogno sono in definitivo accordo col mondo. Mi sento come il verso di un poema.

Invece mi sveglio: sono ancora a Tetovo, lontano da tutto, in una gelida stanza d’albergo. Racconto il sogno ad Andrea. Per lui ha ragione lo Schnitzler del Doppio sogno: noi siamo anche quello che sogniamo. I sogni sono tanto reali quanto la realtà, quindi il mio sogno armonico era reale. “Reale quanto questo comodino”, dice Andrea. E ancora: “è successo davvero, che tu ci creda o no”.

A Skopje, qualche giorno dopo, mi dicono da casa che qualcuno se n’è appena andato.

#9

Il bar; al tavolino un uomo con due belle donne, bionde. Mosche dappertutto, uno sciame come polvere di caffè. Il posto è insolitamente fitto di partenze; pullman per Istanbul, Struga, Skopje, per la Svizzera.

Il bar è attesa. Nell’attesa c’è tutto, compreso il movimento. Il movimento è tempo, è dispiegamento della vita. Nel bar c’è vita, vita-in-attesa, attesa di movimento; qualcosa che sta per cominciare, poi l’attesa è finita.

La vita è sulla soglia, oltre è già troppo. Il bar della stazione è una soglia, più avanti è tutta un’altra faccenda (vale la pena o non vale la pena avventurarsi laggiù, se ne può discutere).

Se l’unico modo per cui abbia senso vivere è spostarsi di continuo, il bar è un senso+1, perché nel movimento manca l’assenza-di-movimento, che è invece nell’attesa, nell’infinita parata degli istanti prima di partire, mentre si beve una birra Ϲкoпскo (Scopsko) e si aspetta il pullman per un’altra città, un poco più a est.

#10

Da un po’ di tempo non riesco a dormire. La notte è tutt’altro che uno spazio neutro, un ricavo, la mia geografia di libera mobilitazione. Di notte sento forze che volteggiano sopra la casa, disegnano campi di gioco magnetici, intessono reticoli elettrici. È uno svolazzo invisibile, frustrante. L’inquieto circuito di traiettorie sopra la mia testa. Allora chiudo gli occhi. La scorsa notte è successo di tutto; poi si è alzato un vento incattivito che ha rovesciato vasi, schiantato vetri e battuto porte. Dalla finestra della camera da letto ho sentito una danza di foglie secche, per strada, e nel silenzio sembravano carta. Non riuscivo a pensare a niente; avevo la mente occupata dalle frequenze di quel vento. Gli Hertz epilettici mi facevano uscire fuori di cervello: ho aspettato l’alba sperando che le cose migliorassero e basta.

Non mi alzo, di notte, quando non dormo. Non esco. Rimango disteso, sgomento per quel rovescio della regola che vorrebbe vedermi in una fase di sonno profondo. Ma a quelle latitudini non ci arrivo. Rimango sulla superficie di un sonno interrotto, di momenti di stanchezza insopportabile. Rimango con gli occhi aperti, spesso, in un eccesso. Le pupille si riempiono di buio. Cerco d’impormi il silenzio, quello spazio di bianco dove non transitano variazioni ottiche, dove la somma ambiguità è non avere ambiguità. Il silenzio, però, rimane in fondo a quella landa nera, percorsa da prismi di luce, di variazioni sintetiche del blu, del rosso, dell’indaco, del giallo, del viola. Là in fondo brilla anche il tasto del silenzio, ma non riesco a raggiungerlo. Più forte è la sinfonia della febbre notturna che soffia col vento. Io con la notte e le sue brigate.

Una notte sono rimasto a fissare un ragno. Il palazzo di fronte al mio, dalla nudità del terrazzo, era illuminato dal giallo dei lampioni in basso. Aveva un aspetto sporco, senza ombre, un aspetto così insopportabilmente oggettivo e urgente. Il ragno era sul mio balcone. L’ho visto zampettare in cerchio. Ho immaginato che avesse paura di me, della mia imponderabile dimensione. Non fuggiva, però. Continuava la sua ginnastica macabra andando avanti, poi di lato, poi di nuovo avanti. Restava nei paraggi, a volte scompariva. Guardavo il palazzo e poi il balcone e non lo vedevo. Dopo poco, però, era di nuovo lì, di fronte a me. Ho pensato di schiacciarlo e basta, ma non si fa con i ragni. Di notte sono tiranneggiato da un senso superstizioso e naturale ancor più che durante il giorno. È ormai evidente che il balletto che questo ragno né più repellente né più minaccioso di altri sta compiendo un rituale apotropaico prima di sferrare un attacco: è una danza di morte, prima della battaglia. È così ostinatamente aggrappato alla sua liturgia di guerra, questo ragno. La minuscola orografia del suo corpo nero sprofonda nel più tenace istinto del sangue, nel tributo che domanda il suo codice genetico. È ingenuo e superbo questo ragno: crede nel suo onore da strada, come per una disperata febbre da infezione.

#11

Trame di informazioni incomprensibili sorvolano la nostra testa, calano in basso come un narcotico. Non oppongo forza. Lascio aperta giusto la frattura orizzontale che immette una bassa vibrazione di rosso, l’ipotesi di finire accecato. Sobbalziamo in questa notte divorata dal giorno, dalla luce, dalle aiuole autostradali.

#12

Sul pullman le musiche ottomane sono interrotte soltanto da sketch comici con una drammaturgia basica: un operaio addetto al manto stradale si fracassa un dito per errore, dopo essersi colpito accidentalmente col martello; due amici si lanciano torte di panna in faccia. Gli attori sono gli stessi: passano da una situazione all’altra con disinvoltura e incanto. Sono cortometraggi prima del cinema, incastrati nella transizione dal vaudeville al grande schermo. È una comicità che scatena risate e battimani e, in fondo, funziona. C’è una dolcezza paesana nel ridere di fronte a questi siparietti innocui, in mezzo alle montagne albanesi. I filmati scorrono in un VHS trasmesso da un videoregistratore ad uso schermo che domina il corridoio. Un occhio lontano e brillante ci proietta luce in faccia nella direzione opposta alla strada. Poi, in una delle scene, due amici ricordano un vecchio amore e cantano Marina, il mambo di Rocco Granata (1959). Tutti la conoscono; e cantano. L’unisono nasconde timbri, volumi, livelli di ubriacatura diversi, ma tutti hanno un amore lontano da ricordare. Scopro invece che il nome “Marina” era una marca di sigarette belga.

#13

Da un terrazzo sventolava una girandola arcobaleno e piante anemiche abbellivano coi loro spogli rami il grigiore del palazzo. La Macedonia era un posto disabitato dalla grazia; umido, squallido, spoglio. Un luogo abitato da fantasmi, da assenze. Non c’erano le montagne sassose della Grecia, ma campi dissodati, erbacce lasciate crescere senza cura e nelle città più grandi un’euforia patetica verso un futuro di benessere e capitalismo che altrove, in Europa […]

Mots-clés__Očered’, Fila

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Očered’, Fila
di Giulia Marcucci

Vladimir Vysockij, Očered’ -> play
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Aleksej Sundukov, Očered’, 1986

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da Ljudmila Petruševskaja, Kujbyšev. Come sopravvivere, in La bambina dell’hotel Metropole, trad. di Giulia Marcucci e Claudia Zonghetti, Francesco Brioschi Editore, Milano, 2019, pp. 57-61.

 

A Kujbyšev restammo dunque in tre: io, la nonna e la zia. E subito cominciò la fame vera. In quanto nemica del popolo, Vava fu licenziata dalla fabbrica dopo un lunghissimo interrogatorio notturno negli uffici della polizia.
Vivevamo di quello che ci mandava la mamma, ovverossia degli alimenti versati da mio padre Stefan, giovane filosofo.

Durante la guerra funzionava tutto con le tessere annonarie. Noi ne avevamo tre: una per me bambina e due per loro, “persone totalmente a carico altrui”. Ci bastavano giusto per il pane nero, con la commessa che ogni volta staccava un tagliando. Verso la fine del mese, però, capitava spesso che il pane risultasse “già preso” [1] …
Ci mettevamo in fila alla mattina, quando era ancora buio, al gelo. La coda serpeggiava nel bianco della neve fino alla bottega, fino alla pesante porta congelata. Alla fine ci ritrovavamo dentro, al caldo, nella calca, stretti gli uni agli altri per non perdere il turno.
Nel caos della guerra la nostra salvezza era tutta in una frase: “Chi è l’ultimo? Dopo di lei tocca a me.” Incollato a chi ti stava davanti, per nessuna ragione avresti lasciato il tuo posto, in quel mondo dove regnavano la legge, l’ordine e la giustizia e che ti dava il diritto alla vita. Lo difendevi con le unghie e coi denti, il tuo posto, nessuno doveva scavalcarti! A quei tempi non era concepibile abbandonare la fila neanche per qualche minuto.
Nel minuscolo negozio il profumo del più squisito pane nero era fortissimo, dava le vertigini; quell’odore faceva dolere le mandibole e venire l’acquolina. I motori della fame si accendevano rombando negli stomaci vuoti, incitandoli a mettersi in moto. Noi allungavamo il collo, ciondolanti, spostandoci da un piede all’altro, ma senza mai avvicinarci d’un centimetro alla meta. La folla ondeggiava.
Avrei poi notato che anche i mimi fanno così, nei loro numeri: fingono di camminare, ma restano dove sono.
Finalmente arrivava il nostro turno. Il pezzo di pane della commessa pesava sempre meno di quanto ci spettava, lei faceva piovere dall’alto l’“aggiunta” sul piatto della bilancia che già conteneva il resto, il piatto si abbassava di un bel po’ e lei subito toglieva tutto. L’arte dell’inganno nella più miserevole delle sue espressioni. L’aggiunta la davano sempre ai bambini, ed era molto gradita. Io la spazzolavo seduta stante.

Il pane veniva diviso in tre parti uguali. Io divoravo subito la mia, sbocconcellandola sotto il cuscino. Poi la zia e la nonna mi davano qualche pezzo delle loro…
Quando chiedevo a Vava come avessimo fatto a sopravvivere, lei stringeva le spalle e sorrideva smarrita: “Non lo so.”
Per qualche tempo frequentai l’asilo, dove i bambini vivevano di vita propria; mangiavamo anche la colla di nascosto: s’era sparsa la voce che “sapesse di ciliegia”, e quando le maestre ci lasciavano da soli a fare i lavoretti con carta e forbici, affondavamo le dita nel barattolo e le leccavamo. Eravamo tutti convinti che nel corridoio vivesse la strega cattiva, la Baba Jaga, per cui non bisognava uscire soprattutto quando il pavimento era stato appena lavato (questo lo diceva la bidella). C’era anche un’altra regola: se passava un aereo, i miei compagni pronunciavano solennemente i nomi dei loro familiari al fronte, che in quel momento era come se volassero su di loro. E fieri si guardavano l’uno con l’altro. Io non avevo nomi da pronunciare. Umiliata, un giorno arrivai a casa e chiesi alla zia che nomi avrei potuto fare. Ci pensò su convinta, ma non avevamo uomini al fronte (Ženja, il suo adorato zio, era stato arrestato; stessa sorte era toccata al marito di sua zia; mio padre – che comunque ci aveva lasciate – era stato esonerato perché tubercolotico). Alla fine zia Vava tirò fuori due nomi. E anch’io, come gli altri, potei dire con voce fiera e squillante: “Lassù ci sono Serëža e Volodja.” Non avevo idea di chi fossero. Mi dissero poi che Volodja era l’ex marito di mia zia e Serëža il mio prozio! Aveva diciassette anni più di me, come seppi in seguito.

(L’avrei conosciuto quasi sessant’anni dopo, quando tutti noi discendenti festeggiammo i centoquarant’anni anni del mio bisnonno Tato all’Hotel Metropole. Serëža era l’ultimo figlio di terzo letto di Tato, nato quando lui aveva una cinquantina d’anni. E venne fuori che durante la guerra era stato davvero un pilota.)

Tra l’altro, un giorno nel corridoio dell’asilo la vidi sul serio la Baba Jaga che scivolava via sotto al soffitto. Era un pomeriggio d’inverno ed era saltata la corrente. Tutti i bambini corsero come matti fuori dall’aula, si spingevano, strillavano, si sbracciavano a più non posso. Si sa, quando nessuno vede, la gente impazzisce! Nel corridoio era buio pesto; solo in lontananza un barlume di luce filtrava da una finestra alta (doveva avere nevicato, la notte prima). Scaffali lungo le pareti. D’un tratto, nella parte superiore del finestrone in fondo, là dove si apriva una finestrella d’aerazione, quasi sotto il soffitto si delineò un’ombra ritorta con la gobba, una specie di scimmia nera che allungò prima un braccio e poi una zampa per aggrapparsi a uno degli scaffali e poi scartò di lato senza un suono. Alle sue spalle si udì un fruscio di tessuto o di vesti. Sì che era la Baba Jaga! Era lei e io lo sapevo. La paura fu mia fedele compagna per tutta la mia vita di bambina. La nostra bidella aveva ragione, era meglio restare in classe.
(Non avevo considerato che i bambini si arrampicano ovunque senza timore anche al buio. E che qualcuno doveva essere arrivato in cima a uno scaffale e di lì giù, sul davanzale.)
Il secondo incubo della mia infanzia fu Koščej l’Immortale [2], ma dirò più avanti del nostro incontro.
Davvero i bambini sono capaci di vedere realmente gli spauracchi usati dai loro genitori…

A un certo punto non ci furono più soldi né per pagare l’asilo né per comprarmi le scarpe per andarci, perciò dovetti dirgli addio.
Per i poveri del nord russo le scarpe sono la cosa più importante. E nelle città i lapti non li sanno fare.
Da aprile a ottobre non c’erano problemi: correvo scalza in libertà dall’ultima neve fino alla prima nevicata successiva. Nessuno parlava più di tubercolosi, e nemmeno mi colava più il naso, addirittura.

Note

[1] Quella a cui avevano diritto era la razione più bassa, 300 grammi di pane al giorno. Fra pesature abbondanti e astuzie delle distributrici, poteva capitare di sentirsi dire di avere esaurito il quantitativo mensile.

[2] Come la Baba Jaga, Koščej l’Immortale è un personaggio negativo della mitologia e del folclore slavi. È detto Immortale perché per ucciderlo bisogna prima distruggere la sua anima, che è però nascosta “dentro un ago che sta dentro un uovo che sta dentro un’anatra che sta dentro una sacca di pelle che sta dentro una cesta di ferro sepolta ai piedi di una grande quercia nella favolosa isola di Bujan in mezzo all’oceano”.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Popcorn e imbarbarimento

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di Giorgio Mascitelli

Vedendo le immagini della comandante della Sea Watch che scendeva dalla nave arrestata dagli uomini della guardia di finanza, mi è venuta in mente la battuta di Renzi dell’anno scorso sul fatto che con il nuovo governo si sarebbe seduto comodamente coi popcorn in mano a vedere cosa avrebbero combinato. Questa battuta è più profonda ed emblematica di quanto pensi il suo autore perché rappresenta non solo il suo pensiero, ancorché un certo tipo di tronfieria che la caratterizza sia tipicamente renziana, ma il coronamento o, per parlar da professorone, l’entelechia di un’intera classe dirigente. L’immagine dei popcorn suggerisce infatti sia l’idea di una politica da spettatori, senza partecipazione delle persone,  sia quella che le cose che accadranno in Italia a causa di questo governo infondo non tocchino lo spettatore, come se non ne pagasse lui le conseguenze, cosa che probabilmente per le nostre classi dirigenti  è vera.

Quella dei popcorn è anche un’opzione strategica che significa nessun ripensamento sul passato, ma attesa semplicemente degli errori dell’attuale governo perché la politica non è altro che amministrazione più o meno abile dell’esistente che non può essere messo in discussione. Eppure in Europa se l’imbarbarimento avanza, è anche  grazie a questa idea narcisista e autolesionista delle classi dirigenti, con l’aggiunta tutta italiana dell’illusione che questo governo, o altri ancora peggiori che si profilano, finirà  esattamente come finisce un film magari quando sono terminati anche i popcorn.

Si dà il caso invece che nel governo ci sia un comunicatore veramente bravo nel suo ramo che ha già spiegato che vuole governare per trent’anni, e tra l’altro i seguaci della strategia del popcorn sono anche convinti che si tratti del male minore rispetto ai cinquestelle.  I risultati di questo modo di approcciarsi si vedono con  il caso della Sea Watch: il ministro degli interni, in disprezzo delle norme internazionali che regolano la navigazione, costruisce un caso mediatico su una nave che ha salvato dei naufraghi per distrarre l’opinione pubblica dai tagli alla spesa che il governo deve fare per non incorrere nelle procedure d’infrazione dell’Unione dopo aver solennemente assicurato che lui dell’Europa se ne frega. I rappresentanti della strategia del popcorn,  invece di smascherare il gioco illusionistico e di fare delle controproposte sulla finanziaria, mandano alcuni loro esponenti sulla nave finendo con il favorire la diffusione dell’interpretazione tendenziosa che tale nave non ha salvato delle persone, ma è inviata apposta per mettere in difficoltà il governo.  Risultato, nonostante Salvini abbia sostenuto tesi prive di riscontro e sia sceso a più miti consigli nei suoi rapporti con l’Unione, guadagna consensi come l’uomo tutto d’un pezzo che non si piega ai diktat europei.

Benché l’Italia sia un paese senza prospettive economiche in cui la crisi demografica sta incidendo come durante una guerra,  una parte cospicua della popolazione, potenzialmente maggioritaria, non è poi così disponibile a lasciarsi incantare da giochi illusionistici, ma non per questo è disposta ad appoggiare un’opposizione che tramite la strategia dei popcorn mostra di volere solo il ritorno al passato sentito con ragione come altrettanto minaccioso. Occorre, se si vuole contrastare quell’imbarbarimento di cui gli insulti a Carola Rackete sono un sintomo, indagare con umiltà le problematiche che affliggono le fasce medio basse della popolazione italiana e fornire proposte concrete alternative ai risarcimenti simbolici per l’impoverimento collettivo offerti con gran dovizia dal comunicatore

Almeno è che così che la vedo io, ma a me il popcorn non è mai piaciuto.

Carta Laniena: tre poesie di Franco Scataglini

0

 

 

Una quartina di questo libro dice un pezzettino di porto visto dalla finestra di casa nel grigio della sua fisionomia, opaco, come un frammento di mare morto che, pur di non andare anch’esso verso il silenzio, si chiama in poesia per consegnarsi all’evidenza oltre le trame d’uno scomparire eterno. Se in quell’immagine cogliamo quanto di più profondo è in essa, avvertiamo la paura relata ad un destino vecchio quanto il mondo che è solo di coloro ai quali è toccato in sorte di eclissarsi sotto lo sguardo ignaro di chi ha avuto i mezzi per continuarsi in altri lasciando traccia di sé.

Francesco Scarabicchi, dall’introduzione a Carta Laniena (Residenza Edizioni, 1982) di Franco Scataglini (1930-1994). Proprio da questo volume ripubblico tre poesie, a rinnovata testimonianza:

 

O cità, crucifisse

a ochi de poeta

estragne case, in seta

(come chi se confisse

 

da bregno siderale

su marciapiede cupo)

va i àngioli a lo sciupo

senza resiste.

 

Vale

 

come nodo scursore

che stròza la parola

al nasce scura in gola

(però senza dulore)

 

ogni lògo.

 

Ah le bare

vòte, de nisciun evo,

del cimitero abrevo

portato via dal mare

 

***

 

Omo che cade in mare

e che s’aprende a ‘n dio

(el franto remotare

sul niente del desio)

 

a fronte de le care

stelle, el zito brusio,

in ato d’afogare

vol compimento pio,

 

e poi, eco, sucede:

da longo el mare calvo

viene barche legere

 

piene d’ochi per vede

cristiani da pia’ in salvo

for da le mischie nere.

 

***

 

Tutta t’ha traversata

stanote, via de morte,

vita, la bondonata

de vechio ombra de sorte

 

con el glu glu de gola

da verso de picioni

-aborti de parola

‘ntra sordi cornicioni

 

e l’aria trasmeteva

lumi come cerase

a la sua angoscia abreva

‘nt’un tramestà de case

 

(forme de l’esistenza

comune, dolce modo,

sgramate a la violenza

come intonaco a chiodo).

 

La primordiale tara

del vive: sortì al niente,

pesci per la bogara,

sul fil de la corente,

 

omini soto al giallo

astro de l’agonia

spinti da dietro al vallo

dei persi – in atonia

L’ossessione dei “Fiori estinti” di Mattia Tarantino

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di Daniele Ventre

L’opera seconda, o se si vuole ancora quasi prima, di Mattia Tarantino, Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi 2019, seguita a Tra l’angelo e la sillaba, per i tipi del medesimo editore (e risalente al 2017), segna il secondo tempo del momento di esordio di un autore giovanissimo (nato a Napoli nel 2001). In Fiori estinti di Tarantino, due connotati generici, che in parte si ravvisavano già nel libro d’origine, tendenza fortemente centripeta dei testi della raccolta attorno a ben precisi nuclei tematici, e pronunciata inclinazione all’asperitas verbale e concettuale, con il semiconscio rifiuto di ogni tentazione d’equilibrio, si ripresentano rafforzati, con le loro luci e con le loro ombre, e sono spia e documento testimoniale di una nuova fase, che si viene annunciando, della contro-storia di una certa area della contemporanea produzione in versi nostrana.

La piccola opera di Mattia Tarantino si contraddistingue anzitutto, e l’abbiamo accennato, come un sistema lontano dall’equilibrio, o che da ogni equilibrio si mantiene più o meno accortamente remoto, in un’omeostasi capovolta. Di tale status singolare è primario indizio la strutturale violenza delle immagini e delle scelte lessicali, che non si precludono l’azione perlocutoria, e a tratti persecutoria, di evocare oggetti e dimensioni di realtà posti ben oltre il limite della deiezione, fisica ed esistenziale, quasi che lo scavo nella sostanza della parola debba porsi, anzitutto, come scavo archeologico grufolante nella periferia dell’essere, in quanto di degradato, biodegradato e biodegradabile si rinviene alle radici fecali dell’intima natura delle cose. In mezzo al loess dell’esistenza, di cui Tarantino si fa collettore, emergono occasionali aree di coesione ontologica, piccoli luoghi verbali di non inferno che l’emittente del messaggio deve ancora ostinarsi a far perdurare, calvinianamente, contro l’inferno fluviale che al momento li travolge.

Nel piccolo grande fiume lutulento di esistenza che i versi di Tarantino trasportano, emergono a tratti lo spettro del poeta veggente, l’alone della natura, l’eco del responso oracolare, l’infinito per speculum et enigmate, un assoluto che digrada alla vista come per acqua cupa cosa grave, l’evocazione neo-foscoliana del materno terragno e terreno, quasi immagine locale e ritratto dislocato di una Eterna alla Macedonio Fernandez: frammenti di totem, residui di metafisica, evocazioni in corso, immagine di un universo minimo in espansione, in cui si trova molto più di potenza che d’atto, senza cedimenti all’idolo del controllo.

Di queste “apparizioni senza durata e senza difesa contro la furia marziale del mondo” trascinate e stritolate da un “immaginario convulso”, come scrive Giorgia esposito, brevitate felix, nella sua post-fazione, Mattia Tarantino dichiara l’estinguersi, in una sorta di contro-inno al naufragio dell’ente di jaspersiana memoria. Il tutto si condensa in un’urgenza comunicativa da poète maudit benedicente e in cerca di benedizioni, urgenza che spesso travolge sé stessa, nel suo ritmo battuto di posizioni trocheo-giambiche, con impeto ruvido di creazione primitiva.

[Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia; fa parte della redazione di Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria (Terra d’ulivi edizioni) e di Bibbia d’Asfalto – Poesia urbana e autostradale; ha curato la sezione di poesia per Nefele. È presente in diverse riviste e antologie, italiane e internazionali. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi edizioni 2017)]

_______

Da Fiori estinti, ed. Terra d’Ulivi, 2019

Vigilia d’inverno

Ho offerto i miei voti all’inverno,
alla rosa sbaragliata da una neve
che non cade, non vacilla, ma soltanto
che attendiamo e ci rinnega.

Da domani i bambini torneranno
a inventare nuove storie e nuovi fiori.

* * *

Tutto trema

Non capisco il vento quando annuncia
una catastrofe di tuoni, né il castigo
di questi lampi neri e malaticci.

Ma mia madre è un temporale: lei conosce
il mistero che si scorge
in bocca al cielo, scaraventa
una bufera sulla casa e tutto trema.

* * *

Ossa di latte

Ho ossa di latte: le stacco
a una a una e le chiudo
nelle grotte del cielo.

Se un fiore spunterà
ne rideranno gli angeli.

* * *

Il trucco degli amanti

Mi hai donato fiori morti
da lanciare nella stanza, fiori
già sporcati da una voce, e seppelliti
dove la parola non fa tana.

Ed è questo il trucco degli amanti:
se prendi un fiore puoi legarlo
in fondo al cielo, puoi impiccarlo
a qualche nome e poi morire.

* * *

La legge del mondo

Ho visto corpi aggrovigliati
alla mania dei fiori; ho visto
i morti sudare in bocca
ai vermi. Eppure
conosco la legge del mondo:

ogni giorno il sole è nuovo e noi soffriamo.

* * *

Mio nonno

In autunno i morti gorgogliano,
hanno in gola la rosa
interrotta, le ultime
parole mozzate ammainando
la luna. Strette
queste ossa, stretto
il bacio che li negò al mondo:

c’è qualcosa di sepolto
tra mio nonno e il mio cognome.

* * *

Rima in ottobre

A S. tra i fiori

L’acqua esplode, noi
esplodiamo: nemmeno
le stelle fanno argine al diluvio.

Voglio cantare con la voce
dei morti, regalare
un fiore che non spunta, da intrecciare
alla tua gola e poi tirarlo

forte, poi più forte, poi strapparlo.

* * *

Tempesta

A S. in un lampo freddissimo

Ho conficcato un grande urlo
dentro il cielo; l’ho abbattuto
in fondo alla tua gola, mentre gli angeli
mordevano e azzannavano la prossima
tana delle stelle: ora i fulmini

annunciano riscossa, tutti i corpi
degli uccelli li attraversa
il vento. Svelta,

inchiodami là in alto e poi spalancami.

* * *


Mia madre

Legge di Ponente la discordia
verticale che fu taglio:

mia madre inghiotte cento fiori,
poi rimette dalle vene.

Da “Posti a sedere”

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di Luciano Mazziotta

 

[Quattro testi da Posti a sedere, Valigie Rosse, 2019. ]

 

 

perché si odiano diluiscono le colpe nel caffè

miscelano antefatti girando il cucchiaino

prima in senso orario a consistere decenni

dopo li riavvolgono

come se fosse spago

incatenato alla scogliera e sembra riva.

In territorio selvaggio

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 dialogo tra Laura Pugno e Massimiliano Manganelli

MM: Il tuo nuovo piccolo libro In territorio selvaggio mi pare un s(ond)aggio dentro una serie di questioni interessanti. Nell’andamento del testo – che non risponde a una forma predefinita – ho trovato utile lo sguardo duplice che adotti: quello di chi, cioè, pratica tanto la poesia quanto il romanzo. Comincerei però dal titolo, perché riguardo al selvaggio e al naturale dentro il libro ho trovato alcune precisazioni con le quali concordo, in particolare in relazione al carattere reazionario dei discorsi sulla naturalezza.

LP: Ci sono, a questo proposito, appunto due precisazioni da fare. In primo luogo, In territorio selvaggio nasce come un libro che mi è stato chiesto. Fa parte di una collana, “Trovare le parole”, che è curata da Daniele Giglioli e dall’editore di Nottetempo, Andrea Gessner. L’idea è di affidare a scrittori parole che siano risuonate all’interno della loro opera, identificate da loro ma anche per loro. L’aspetto affascinante di questa scrittura, per me, è che in un certo senso mi ha colto di sorpresa. Ho scritto poesie, racconti, romanzi, scritture performative, non avevo però mai veramente pensato alla scrittura saggistica. Già solo decidere di immergermici ha quindi richiesto un atto di esplorazione.

I comandamenti della montagna

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di Michele Nardini

Estratto da memoriale – Agosto 1944

Vado avanti. Supero il blocco delle prime case e raggiungo una nuova località. Davanti a una casa scorgo movimento e agitazione, due soldati hanno i fucili puntati contro un gruppo di persone e li spingono dentro una casa da cui provengono voci concitate.
Decido di entrare. Dentro c’è poca luce, solo una macchia grigiastra che illumina la prima parte della stanza dove sono radunati i soldati tedeschi, attorno al loro comandante. Il resto è oscurità, ombra perpetua, ma oltre il buio si sentono dei lamenti, flebili e tremanti, quasi soffocati.
Improvvisamente un ufficiale entra trafelato, sbattendo la porta. Giunto davanti al suo comandante, gli rivolge il saluto militare e posa due cavalletti a terra, sul lastricato della casa, uno accanto all’altro. La preparazione è lenta, meticolosa, ai limiti dell’estenuante: c’è da trovare l’altezza giusta dei cavalletti e poi fissare le mitragliatrici per capire l’angolazione migliore. I minuti scorrono via che sembrano ore, ma non per tutti. Per alcuni, dentro la casa, il tempo è sospeso, strozzato, come i respiri che percepisco nel buio.
E proprio dall’oscurità emerge il volto di una donna, febbrile e sofferente, che non si attiene agli ordini ed entra nel cono di luce, dirigendosi verso di me. Ha in mano un fagotto, tende le braccia e mi implora di salvare almeno lui, di portarlo via. Dapprima non capisco, poi abbasso gli occhi ed è tutto chiaro: avvolto in una coperta c’è il corpicino di un bimbo, «Ha sette mesi», mi dice la donna, «Che colpa ha lui?», mi chiede. «No, lui non c’entra nulla», ripete, «Portalo via, non importa dove, portalo lontano da qui». Continua a guardarmi e piange. «Portalo via», sussurra, mentre un soldato la trascina di nuovo verso l’oscurità, con il fagotto ancora stretto tra le mani.
I cavalletti sono pronti, resta solo da posizionare la mitragliatrice e scegliere i tiratori. Un urlo squarcia il silenzio, ed è disumano, perché proviene dalle viscere di un corpo, perché contiene tutta la disperazione che una persona può avere. È un’altra donna, molto più anziana.
Agita le braccia in alto, come a invocare aiuto dal cielo. Anche lei esce dalla zona in ombra, ma solo per metà.
«Lasciateci sta’, ’un s’è fatto nulla, noi», urla disperata.
Le mitragliatrici sono fissate sopra i cavalletti, puntate verso l’oscurità che adesso è meno impenetrabile. Riesco a distinguere gli occhi di chi sta dall’altra parte della stanza, distinguo gli occhi della donna con il fagotto in mano, distinguo gli occhi del nipote che tiene per mano la nonna e la accarezza, per proteggerla.
«Ma ci volete ammazza’ pe’ davvero?»
La domanda cade ingenua, spontanea, senza senso. Nel frattempo è arrivato anche Cranio lucente. Si muove con disinvoltura nella penombra, con quei passettini frenetici e irregolari. Si accorge di me e mi rivolge un ghigno. Rido, e non mi preoccupo di non fare rumore, così la risata coinvolge il soldato accanto a me e, come un’onda, tutta gli altri soldati presenti nella casa.
«O Madonna, salvici te, e se non puoi salva’ tutti, salva almeno i bambini».
La preghiera si perde nel vuoto. Cadono tutti insieme, uno dopo l’altro, travolti dalle sventagliate di mitraglia.
I corpi restano lì, ammassati a terra. I cavalletti e le mitragliatrici vengono invece portate via, verso le altre località del paese. Anche i tedeschi sono usciti, Cranio lucente se n’è andato, ne è rimasto solo uno, sta raggruppando dei legnetti e del fieno e li sta disponendo al centro della stanza, accanto ai cadaveri. Ancora quella meticolosità che non riesco proprio a capire. Esce un attimo, alla ricerca di altro materiale per appiccare il fuoco.
Entro nella stanza, spinto da non so quale curiosità. Nel mucchio di corpi sento un rumore, un lamento flebile, indefinito. Mi avvicino e vedo una mano che si contrae in un gesto di effimero attaccamento alla vita, le vene gonfie sul dorso, le dita rattrappite e macchiate di sangue. Una mano minuscola, da bambino, si muove con lentezza, cerca uno spiraglio, una via di uscita ma sbatte contro qualcosa, una testa che schizza sangue. Mi avvicino ancora di più fino a sfiorare la mano che non reagisce, il mio sguardo risale il braccio e poi verso la faccia: ha un buco sulla pancia, un altro sulla spalla. Non ne avrà per molto.
Estraggo la pistola e la punto contro la sua testa. Forse è solo un’impressione, un riflesso incondizionato ma, prima di sparare, mi pare che sul suo volto appaia quasi un accenno di sorriso. Basta un colpo e la mano del bambino si distende, dimenticando il dolore.

C’è una musica discreta e irreale che si spande sopra Sant’Anna. Musica di organetto che dà ritmo alla marcia, agli ordini dei capireparto, alle mitragliate, alle colonne di fumo che iniziano ad alzarsi in ogni località del paese. Alle grida acute, disumane, tragiche delle persone, ai pianti disperati.
C’è questa musica che continua come se nulla fosse successo, e io decido di seguirla. Alle mie spalle ho lasciato il primo mucchio di cadaveri. Attraverso un boschetto e mi trovo nei pressi di un cortile dove c’è una stalla, in fiamme. Mi affaccio alla porta, vincendo l’odore insopportabile del fumo, e scorgo un ammasso di corpi, braccia, teste, mani e gambe senza vita.
Vado avanti, ormai nulla può sconvolgermi, neanche il cadavere di un uomo che non ha più le gambe, nemmeno l’ultimo abbraccio tra due donne anziane. Non mi scompongo neanche di fronte a una donna incinta con la pancia sventrata, aperta in due e poi fatta partorire, prima di sparare alla testa del minuscolo feto. Adesso la donna cadavere abbraccia il suo bimbo, legato ancora a lei dal cordone ombelicale.
Vado avanti. Arrivo nei pressi di una stalla, accostata alla porta d’ingresso c’è una collana d’aglio: si dice che tenga lontano le sventure e il malocchio. Appena la sfioro con le dita, sento un grido provenire da dentro. Entro e vedo una donna a terra, con il sangue che le cola dalla tempia, e a pochi metri un soldato che sta cercando qualcosa.
«’Un c’è nulla qua, ci sono solo io», ripete in modo febbrile. Ma il tedesco non l’ascolta, forse non capisce, continua a cercare, adesso si sta dirigendo verso un’intercapedine del muro, dove è ammassato del fieno. Non so dove la donna trovi l’energia, forse è la disperazione, forse è l’odio, forse è solo quell’istinto di sopravvivenza più forte dei nostri limiti. È allo stremo, ma riesce comunque a sfilarsi uno zoccolo. Non le occorre prendere la mira, lo lancia verso il muro opposto. Il soldato sente prima il fruscio, poi lo spostamento d’aria. Troppo tardi per evitare l’impatto. Lo zoccolo lo colpisce sulla fronte, appena sotto gli occhi. Grida, sorpreso, poi bestemmia qualcosa. Ha gli occhi spiritati, iniettati di sangue. La donna non si accontenta, sfida ancora il suo orgoglio, si prende gioco di quel giovane uomo che pensava di schiacciarla.
Il soldato è senza fiato, come se avesse corso una maratona. Impugna la mitraglia e squarcia l’aria con una raffica. La donna crolla a terra, al centro della stanza, in una pozza di sangue. Il soldato raccoglie lo zoccolo, esce di corsa dalla stalla e lo lancia lontano. Poi si piega, senza fiato, e si allontana. Io rimango ancora un po’ dentro, attratto dal cadavere di quella donna che ha fatto di tutto per farsi ammazzare.
La sto ancora osservando, cercando di capire i motivi dei suoi gesti, quando noto un movimento impercettibile dietro l’intercapedine del muro. Mi sposto allora nel punto più buio della stalla e trattengo il fiato: passano pochi secondi e, dall’intercapedine, spunta un bimbo. Non sa cosa fare, lo sguardo vaga terrorizzato tra il cadavere e la luce che filtra dalla porta aperta. Pongo fine alla sua titubanza: con un pugno faccio rimbombare il muro della stalla, il bimbo sussulta, lancia un’ultima occhiata al corpo della donna e corre via. Dall’angolo in cui sono nascosto sento i suoi esili passi perdersi dentro il bosco.
Sembra una rappresentazione ma è solo la realtà. Ogni località di Sant’Anna brucia: bruciano le case, bruciano le stalle, bruciano gli alberi, bruciano le piazze e brucia la chiesa, brucia il prete, bruciano le panche, bruciano le foglie così come bruciano i bambini, bruciano gli animali e bruciano le donne, assieme ai loro padri.
Esiste una democrazia, a Sant’Anna. Nessuno scampa al massacro, nessuno sopravvive alla follia.

Estratto da: Michele Nardini, I comandamenti della montagna, Barta Edizioni

Caroliade. Invective.

3

di

Francesco Forlani

Je soy poète e v’aggia mannà affancul
vuje qui agressez les filles qui combattent
site hommes em’merde hommes sanza pisci
et fimmine pittate ca alluccate site sanza core

St’humanitade blanca est brutta assay e la và battue
de port en port, de plagia en plagia va affunnate
n’do gorgo malin des mala paroles à strakke
e nu ferry boat nun v’adda fa passà a nuttate

 

Vive les pirates, les brigantèss, les Jeanne D’Arc
ca s’enfilano armures pour sauver les autres
et vos autres da Liga qui parulate en vrac
v’anna purtà luntane luntane de nosotros.

Je soy poète Salvi’ e t’aggia mannà affancul
et sta cosa cu sta chaleur m’entorze à nirvature,
car je me vurrià restà a lu calme cu nu bikkier ‘e vine
e m’aggia pija collère pe’ nu fije e bukkine

 

La punta della lingua 2019, Ancona – festival di poesia totale

1

30 giugno

Facebook Poetry XI edizione
30 Giugno ore 17:00
online

lunedi 1 luglio

Apertura Spazio Poesia MultiVerso
1 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Intimi Ritratti
Inaugurazione mostra Dino Ignani
1 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Fabio Orecchini in TerraeMotus
1 Luglio ore 18:00 – 20:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poe3D
1 Luglio ore 18:30
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Le “parole orrende” di Vincenzo Ostuni
1 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poesie elettroniche di Fabrizio Venerandi
1 Luglio ore 19:30
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Reading di Fabio Orecchini | Vincenzo Ostuni | Fabrizio Venerandi
1 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

Motopoiesis. Multimedia Performance by Orbìta (Lettonia)
1 Luglio ore 22:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

martedi 2 luglio

Incontro con Marco Paolini
2 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Tienilo acceso
2 Luglio ore 18:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Giovanni Fontana
Epigenetic Poetry
2 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Filo filò
di e con Marco Paolini
2 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Corte

mercoledi 3 luglio

Ora d’aria
3 Luglio ore 10:00
Ancona | Carcere di Montacuto

Reading di Carol Ann Duffy
3 Luglio ore 18:45
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

Cena
3 Luglio ore 20:00
| €20
Ristorante da Giacchetti

Omaggio ad Agota Kristof
3 Luglio ore 21:30
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

Poeti da antologia
Fabio Pusterla
3 Luglio ore 22:00
Chiesa di Santa Maria di Portonovo

giovedi 4 luglio

Tradurre Carol Ann Duffy
4 Luglio ore 13:00
Hotel Emilia

Escursione poetica
Genius Loci | Poeti neodialettali marchigiani
4 Luglio ore 18:00
Anfiteatro Romano

Bobi Bazlen: il poeta delle note editoriali
4 Luglio ore 21:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

Max Collini (Offlaga Disco Pax)
legge l’indie italiano degli anni dieci
4 Luglio ore 22:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

venerdi 5 luglio

Matrilineare
Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi
5 Luglio ore 18:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

Le Marche della poesia
Sarah di Piero. Reparto da qui (Argolibri, 2019)

5 Luglio ore 19:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar
Le Marche della poesia
Alessandra Carnaroli. Sespersa (Vydia, 2018)

5 Luglio ore 21:30
Parco del Cardeto | FARgO Bar
Rimando a domani
Improvvisazioni di disfide in ottava rima e altre peripezie rimate

5 Luglio ore 22:00
Parco del Cardeto | FARgO Bar

sabato 6 luglio

Supernove – Poesie per gli anni 2000
6 Luglio ore 18:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

La Punta della Linguaccia
Testa per aria
6 Luglio ore 18:00 – 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Corrado Costa. La moltiplicazione delle dita (Argolibri, 2019)
6 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Poetry Slam
6 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

Poetry Party
6 Luglio ore 23:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

domenica 7 luglio

Le Marche della poesia
Maledetti Marchigiani
7 Luglio ore 17:00
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

Emily.
Il Giardino nella mente di e con Isadora Angelini e con Luca Serrani
7 Luglio ore 18:00 – 20:00
| €5
Mole Vanvitelliana | MultiVerso Spazio Poesia

I’m nobody! Who are you?
Silvio Raffo per Emily Dickinson
7 Luglio ore 19:00
Mole Vanvitelliana | Lazzabaretto

A quiet passion di Terence Davies
7 Luglio ore 21:30
Mole Vanvitelliana | Arena Cinema

*

per altre informazioni: https://www.lapuntadellalingua.it

La poesia ha forse un occhio di troppo

2

di Adriano Ercolani

 

 

A chiunque sia nato dopo il 15 maggio 1871 l’accostamento dei concetti “poesia” e “veggenza” non può non evocare la celebre lettera scritta in quel fatidico giorno dal sedicenne Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny; per l’appunto, la celeberrima “Lettera del Veggente” in cui la mente incendiaria del giovane poeta, destinato a divenire icona universale del maudit, sancisce un comandamento inciso nelle coscienze di molti autori a venire: “«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!».

Eppure c’è molto altro da dire a riguardo, prima e dopo delle memorabili parole del poeta ribelle per antonomasia.

Stefano Riccesi, nel suo Veggenza – le radici spirituali della creatività (Edizioni Porto Seguro) lo fa, e lo fa molto bene, cercando, trovando e offrendoci in tutto il suo splendore il Filo d’Oro di una conoscenza occulta, che va da l’Orfismo a Yeats, da Giamblico a Jung, da Pitagora a Hillman, attraverso giganti della spiritualità come Rumi e William Blake, messaggeri illuminati come Giordano Bruno e Jacob Böhme; un percorso di rivelazioni, condotto sulle orme sapienti di Elémire Zolla (che considerava Rimbaud “la parodia di una sapiente”) e Henry Corbin (e la sua fondamentale nozione di mundus imaginalis) fino a risalire alle sorgenti vediche.

Non è facile riassumere e divulgare correttamente due millenni e mezzo, almeno, di tradizione esoterica, senza inciampare in trappole consuete: un borioso pontificare, una vaghezza urticante direttamente proporzionale, un richiamo continuo quanto generico a una nebulosa Tradizione (concetto nobile ma spesso preda di pericolose deformazioni ideologizzanti).

Riccesi compie un’opera notevole: comporre un discorso coerente e progressivamente rivelatorio attraverso un mosaico armonioso di spunti illuminanti, realizzando un testo dalla eccezionale scorrevolezza, considerata la profondità non comune dei temi affrontati.

Ma, chiariamoci, il testo non è solo un Bignami godibile dell’esoterismo classico; l’autore, certo, non è il primo a esplorare e collegare con intelligenza diverse tradizioni, dal Sufismo al Neoplatonismo, dalla Gnosi alla Qabbalah: i riferimenti a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno sono espliciti.

Ciò che è originale, o meglio fresco, vivo, appassionante è l’approccio a questi abissali ambiti di riflessione.

Nessuna pedanteria a soffocare la meraviglia, nessuna presunzione a uccidere lo stupore: l’evocazione del maestro del dubbio Jorge Luis Borges è garanzia dell’assenza di ogni esaltazione fanatica.

Dal mito di Diana alla potenza archetipica dei simboli nei Tarocchi fino al Libro Rosso di Jung, il fiume carsico della conoscenza esoterica prorompe in superficie nelle fonti maestose dei grandi iniziati, tra cui amiamo menzionare William Blake, definito nel libro “l’incarnazione perfetta dell’archetipo del veggente”. Sarà Yeats a rendere giustizia al poeta mistico, e alla poesia mistica in sé.

Il più grande pregio del libro è condurre il lettore, procedendo per paradossi illuminanti, al riconoscere come Tutto sia una costante teofania, una ininterrotta manifestazione di Verità e Bellezza da contemplare.

Ecco un brano significativo, che distingue tra immaginazione come fantasia (nel senso negativo conferito da Gurdjieff, ad esempio) e visione: “Corbin introduce la distinzione tra immaginario e immaginale: il primo è il luogo dell’invenzione che segue i capricci dell’ego, il secondo è il piano delle creazioni teofaniche, dell’intuizione dei princìpi, quello in cui i visionari di ogni luogo ed epoca collocano l’esperienza delle forze che tutto guidano. Un simbolo vivo, dotato di carica magica, di numinosità, ci cattura e si lascia riconoscere in profondità quando accettiamo di seguire una visione dove essa vuole condurci e non dove noi dovremmo andare. L’immaginario, o fantasia, è in sintesi autoreferenziale. La visione è invece un riflesso dei misteri dell’essere nella percezione soggettiva”. In tutto ciò la poesia è la forma di conoscenza, prima che artistica, intimamente connessa alla veggenza, “un sentiero di ritorno alla divinità”, citando una frase di Riccesi riferita a Blake, che è però perfetta descrizione dell’itineriarium dantesco ne La Divina Commedia; rifacendosi agli studi di Tonelli Sulle tracce della sapienza, che mostrano le evidenti “origini greche della poesia occidentale e mediterranea, che sorge come azione rituale, mescolandosi con la musica e la danza, e si intreccia col mito”, l’autore giunge a conclusioni importanti: “La veggenza, la himma, è vita che nell’unità del cuore divino e umano si compie. Per questo la magia e la poesia sono intrinsecamente risanatrici della nostra sensazione di separazione dall’infinito: esse ci insegnano che il piano personale trova la sua strada quanto torna ad accogliere e onorare quello transpersonale. Ma anche che c’è un bisogno di ispirazione che non tollera ordini precostituiti e va oltre ogni modello con il quale vorremmo forzare la vita”.

E il pensiero va commosso, à rebours, a Dino Campana, all’ultimo Nietzsche, al sublime Hölderlin e al suo commento sul Re Edipo, cieco, che “forse ha un occhio in più”.

 

Schola post: Gigi Spina

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Prova la seconda (o la seconda, prova)

di

Gigi Spina

Ho aspettato con ansia la prima telefonata. Mi dicevo: vedrai che qualche importante giornale ti chiamerà, in fin dei conti hai insegnato per anni filologia classica e continui a imperversare sul tema anche sui social. Nulla, la telefonata non arrivava. Allora ho pensato: vuoi vedere che finalmente hanno capito che non ha senso intervistare un professore universitario sulla prova di traduzione della maturità classica, che bisogna intervistare professori/professoresse di liceo, che ne sanno molto di più perché maturandi e maturande li hanno preparati loro. E quindi mi ero rincuorato. Poi arriva la delusione. No, non l’hanno capito. La prima telefonata mi dice che c’è già un’intervista di un professore universitario in rete.
E allora mi sono telefonato da solo, e la seconda telefonata è un’autointervista sulla seconda prova, su Tacito, Galba, Plutarco, la brevitas ecc. ecc. Insomma, una cosa che riguarda solo il 6% circa della popolazione scolastica italiana, e mi viene da ridere per la autopomposità.
D Dunque, professore, secondo lei il testo era facile o difficile?
R Direi che nobody expects the classics inquisition.
D Cioè?
R Che non capisco: che se è difficile, vuol dire che non si capisce nulla e la traducono solo in pochi, invece se è facile la traducono tutti e quindi non vale?
D Perché, non dovrebbe essere così?
R Scusi, ma il liceo classico dovrebbe insegnare a tradurre o a tradurre i testi difficili? Che magari sono difficili perché dicono cose astruse, mentre gli altri parlano di cose della vita, raccontano di fatti storici, insomma cose umane. La cui difficoltà, magari, è capire che si tratta di cose di una cultura diversa dalla nostra anche se, ripeto, umana, come può essere una pagina di storia.
D Dunque, si trattava di un testo facile, mi pare di capire.
R Si trattava di un testo di uno storico che raccontava un momento di una congiura. E quella stessa congiura l’aveva raccontata anche uno scrittore greco, e quindi anche questo testo è stato offerto al maturando/a, in originale e in traduzione.
D Tutto questo, naturalmente, per facilitare e abbassare ancora di più l’asticella.
R Non saprei, so che se lo scopo è quello della comprensione, in sei ore, di un testo e di un inquadramento di alcune caratteristiche dello stesso, forse questa completezza di dati può aiutare a capire come ha lavorato durante cinque anni e come risponde un/una studente. Forse, ma questo potrebbe dirlo meglio chi insegna nella scuola.
D Perché, scusi?
R Perché, in genere, il professore universitario (conosco l’ambiente) di lettere classiche dice, alla prima lezione: ora dimenticate tutto quello che avete imparato a scuola, cambia il metodo, cambia l’approccio, qui si scava, come vecchie talpe (questo lo dicono i professori marxisti, naturalmente). E allora, mi risponda: cosa gliene importa della scuola a chi della scuola vuole cancellare l’esperienza, mentre per paradosso, sta formando proprio chi, forse, andrà a insegnare a scuola? E a costoro, allora, per compensare, dovrebbe dire, alla fine del corso di studi: dimenticate tutto quello che avete appreso qui, i corsi monografici, i testi astrusi, le contese filologiche, perché non dovrete insegnare questo a scuola, ma aiutare a trovare un metodo insieme a docenti di altre materie, aiutare persone in formazione, una formazione a tutto tondo, critica, certo, per carità. Ha mai sentito un professore universitario dire qualche cosa del genere?
D Guardi che qui le domande le faccio io. E vorrei sapere se il testo era facile o difficile da tradurre, se hanno vinto gli antropologi o i filologi, se i nuovi maturi perderanno la capacità logica diventando così succubi della rete e dei social, dei telefonini e di netflix.
R Guardi, per sapere questo dovrà rivolgersi a un professore universitario di lettere classiche in servizio. Io lo fui, a mio modo, ora sono in pensione. Io, pensi, vorrei che la seconda prova fosse così formulata:
Caro/a maturando/a, eccoti un testo, che parla di questo. Prova a tradurre questi quindici righi. Ma non a dare la traduzione, bensì a raccontare come ragioni mentre tenti di tradurre, come consulti il vocabolario, come ti poni le domande, che dubbi hai, cosa ti è venuto in mente ecc. ecc. Pensi che follia!
Ma scusi, perché mai ho pensato a me per questa intervista?
Nota Post (effeffe)
Proponiamo, d’accordo con l’autore dell’intervento, che chiunque avesse voglia di tradurre il brano di Tacito in questione avrà la sua traduzione corretta e commentata dal Professore, ma senza voto.

Direttamente dagli Esami di Stato 2019

1

OPERETTA IM(MORALE)

di Lidia Massari

– Prego, si accomodi. Caldo, eh? Vuole dell’acqua?
– No, grazie.
– Allora cominciamo. Iniziamo dalle sue esperienze lavorative. Vede, non ci interessa tanto sapere dove, o le sue specifiche mansioni. Ci parli di come è stato accolto nell’ambiente di lavoro, quali sono state le esperienze che ha fatto, ci racconti le emozioni che ha provato in quella situazione.
– Per un mese ho aiutato la segretaria di un centro prenotazioni…avevano tutti molto da fare, il primo giorno sono stati gentili, mi hanno mostrato le diverse zone dell’ufficio, ero un po’ frastornato. Dal secondo giorno, alle 11:00 mi mandavano a prendere i caffè al bar -caffè vero, non quella brodaglia delle macchinette, dicevano- e dopo dieci giorni mi hanno anche fatto rispondere al telefono…ho fatto anche tante fotocopie. No, tempo per fare amicizia poco, ma era lavoro, il lavoro è un diritto garantito, art. 1 della Costituzione, ma anche art. 4 e 36. Dopo due settimane mi ero ambientato, mi hanno fatto compilare gli schedari, e un paio di volte la segretaria mi ha lasciato solo a prendere le telefonate, doveva farsi il semipermanente, diceva. Alla fine il titolare mi ha offerto un lavoretto per l’estate, così, giusto i soldi per il motorino.
– Bene, bravo, bravissimo. Si è integrato nel nuovo contesto, si è fatto apprezzare, ha trovato un lavoro, non importa, non importa se non in regola, è così giovane, avrà tempo… passiamo alla seconda fase. Qui ci sono tre bussolotti rovesciati: sotto ognuno di essi si trova un oggetto. Prego, non abbia timore, ne scelga uno e ci mostri cos’ha trovato.
– Una foglia!
– Oh, benissimo! Una foglia! Cosa le fa venire in mente?
– “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” di Ungaretti che si arruolò volontario nella prima guerra mondiale scoppiata nel 1914 che contiene 19 che è un numero primo che ci porta alla congettura di Golbach nato a Königsberg come peraltro anche Kant che com’è noto dalle 16:27 alle 18:36 si ritirava nello studio che ragionevolmente non doveva essere dissimile dallo studio in rosso di Sherlock Holmes che suonava il violino così importante nella sinfonia “Tragica” di Mahler a sua volta colonna sonora di “Morte a Venezia” di Visconti regista anche di “La terra trema” film neorealista come in fondo anche P.P. Pasolini tragicamente ucciso nella periferia di Roma dove troviamo anche la colonna di Traiano a cui Plinio scrisse delle lettere a proposito dei cristiani la cui morale fu molto criticata da Nietzsche che un giorno abbracciò un cavallo che ci fa pensare ai cavalli forse bizantini di San Marco a Venezia che ha come simbolo un leone che vive nel deserto e divora un islandese nel mentre che dialogava con la Natura in cui gli organismi viventi hanno un DNA che letto al contrario è AND che suona come END e io, ecco, avrei finito…
– Ma bravo, benissimo, perfetto! Caro ragazzo, lei ha dato prova di saper usare le informazioni in un contesto nuovo, adattandosi all’alea del bussolotto con notevole prontezza e mostrando una capacità sopraffina di collegare fra di loro realtà distanti con un’arguzia davvero rimarchevole. Complimenti! Un fulgido destino la attende nel mondo del Pressappoco! Vadi, vadi: l’università della vita la attende!

 

Osservazioni marginali sulla cultura europea contemporanea

2

di Giorgio Mascitelli

 

 

 

 

Con la morte di Jean Starobinski il marzo scorso arriva probabilmente a estinzione o quasi quella tradizione plurigenerazionale di studiosi novecenteschi, di formazione storicofilologica, in grado sia di muoversi con rigore specialistico su singoli aspetti sia di padroneggiare  una visione d’insieme dei fenomeni culturali e letterari, di cui il più autorevole esponente è stato, a parere di molti, Erich Auerbach.  Si potrebbe affermare che furono studiosi che non avevano bisogno di alcuna comparatistica non soltanto perché il loro standard era quella di conoscere a menadito quattro o cinque lingue e culture, oltre la propria, ma perché essi stessi incarnavano quella sostanziale unità della cultura europea: le opere che analizzavano dentro una specifica letteratura nazionale avevano per loro significato solo in un ambito europeo.  Non credo che la loro scomparsa dipenda dal fatto che oggi non ci sono più ingegni e possibilità di formazione di quel livello, ma dal fatto che nel sistema della cultura contemporanea non esista più uno spazio per percorsi di tal genere.

In un certo senso è sorprendente che in un’epoca globalizzata come quella attuale, in cui grazie alla rete i contatti tra culture sono sempre più immediati e diretti, a scomparire siano proprio quegli aspetti della cultura tradizionale che sono più moderni e per l’appunto più globali. D’altra parte Starobinski, Auerbach e tutti gli altri furono esponenti d’èlite della cultura di un mondo pluricentrico e plurilinguista ( fino al conflitto), in cui fatalmente i rapporti centro/periferia erano più sfumati e per così dire concentrici, mentre la globalizzazione esprime un disegno imperiale di pacificazione del mondo, monolinguistico e imperniato su una rigida divisione di ruoli tra le numerose periferie e un solo centro.

La principale ragione, tuttavia, di questa scomparsa sta nella crisi dell’umanesimo, che secondo una suggestiva formulazione di Peter Sloterdijk è da individuare nell’incapacità della cultura umanistica di svolgere una funzione, simbolica ed effettiva, di unificazione comunicativa degli abitanti di una moderna società mediatica. Le tappe della crisi dell’umanesimo coincidono con lo sviluppo tecnologico della cultura di massa, dalla fine della prima guerra mondiale con la diffusione della radio alla fine della seconda con quella della televisione per arrivare alla rete a partire dalla fine della guerra fredda. In questo modo il processo di formazione che ha al centro il libro, tipico della cultura umanistica, entra profondamente in crisi. La crisi della cultura umanistica si sviluppa lungo tutto il novecento, anche se essa diviene di dominio pubblico solo con la fine del secolo breve e l’inizio della globalizzazione.

Questa scomparsa è purtroppo una cattiva notizia per l’Europa perché l’idea non solo di un federalismo europeo, ma in generale l’idea di un’unità europea a qualsiasi titolo ha senso solo nell’umanesimo: per capirlo non serve sviluppare raffinate analisi comparative fra Il manifesto di Ventotene e il discorso tecnocratico oggi dominante nelle istituzioni dell’Unione, basta considerare lo stato di fatto che oggi in Europa, se si rispettano certi parametri economici, è poi possibile assumere qualsiasi posizione politica o intraprendere qualsiasi tipo di avventura contro qualsiasi degli altri stati membri. Esaurita l’idea umanistica che la cultura europea fosse figlia, al di là delle specificità nazionali, di una comune radice legata all’idea della civilizzazione rappresentata dalla parola scritta, è restata solo un comunanza geografica e di qualche interesse economico, a cui peraltro si contrappongono una storia irta di odi reciproci e altri interessi economici divergenti,  che si è cercato di tenere insieme tramite l’ideologia liberista ossia un’ideologia che propone come cardine della società la competizione a tutti i livelli, tra individui, tra aziende, tra stati.  Indicativa a questo proposito la vicenda della costituzione europea: essa è stata bocciata in quei paesi dove, democraticamente, aveva bisogno dell’approvazione di un referendum popolare perché era talmente intrisa di neoliberismo da risultare agli occhi delle popolazioni un deciso passo indietro rispetto alle rispettive costituzioni nazionali. Non è però il  trattato di Lisbona che ha preso il posto della costituzione europea nella pratica effettiva: l’atto costituente della nuova Unione europea è stato il caso greco e il modo in cui la Grecia è stata sanzionata dalle autorità comunitarie. La vera costituzione europea è rappresentata dalla legge dei mercati e dal sovrano che la custodisce, la Germania.  Questo atto ha segnato anche la fine dell’idea umanistica dell’Europa come comunità legata da radici comuni. Non è un caso che la scelta di questi giorni del governo greco di chiedere alla Germania il pagamento dei debiti di guerra, una scelta in realtà obbligata da quanto il paese ha subito, abbia il significato di reintrodurre nei rapporti europei ciò che era stato lasciato alle spalle alla fine della guerra in nome dell’utopia umanistica europea. La forza e il fascino della comunità europea erano stati proprio la volontà di costruire oltre i disastri della storia in un’atmosfera di speranza, cooperazione e di rottura con il passato che prevaleva comune sugli aspetti di competitività economica: gli atti di ostilità subiti dalla Grecia in questi anni ( ma lo stesso si potrebbe dire dell’azione francese in Libia nei confronti dell’Italia) riportano a un clima e a un sistema di rapporti tra paesi che ricorda oggettivamente quello tradizionale.

Mai come ora ci vorrebbe un terreno comune che può nascere solo dalla cultura, ma se pensiamo alla cultura attuale delle élite, una cultura tecnocratica intrisa di pensiero economico main stream, dobbiamo riconoscere che essa è stata efficacissima nell’alimentare il conflitto, ma quanto a sviluppare un senso di comunità nascente dalla conoscenza reciproca delle rispettive culture e storia non ha, per usare un eufemismo, raggiunto gli obiettivi auspicati. A questo proposito mi ricordo che nei giorni della crisi del 2012 il commissario europeo agli affari economici e monetari Olli Rehn, finlandese, per far capire alla stampa italiana che era un conoscitore della nostra cultura dichiarò che da ragazzo aveva letto Don Camillo. A livello di cultura popolare le cose non vanno meglio: in ogni paese esiste la propria cultura nazionale e quella statunitense egemone a livello internazionale, anzi il livello dei rapporti tra culture popolari europee è in discesa. Fino a trenta quarant’anni  fa per esempio molti cantanti che avevano successo nel proprio paese cantando nella propria lingua riuscivano a diventare noti anche in altri paesi europei, oggi non più.

In questo contesto solo l’habitus umanistico di pensare a una comunanza di civiltà sotto le differenze potrebbe consentire di gettare qualche ponte e pensare a qualche politica che non sia solo rispetto dei parametri, ma che parli alla popolazione europea. D’altronde ci è stato spiegato in tutte le salse che la cultura umanistica non serve a nulla nel mondo contemporaneo e gli unici ponti che interessano sono quelli in cemento armato.

 

 

Ambulance Songs!

1

di Luca Buonaguidi e Salvatore Setola

Dirty Three – I Offered It Up To The Stars And Night Sky

Anno di pubblicazione: 2000
Genere: post-rock
Durata: 13.41
Album da cui è tratta: Whatever You Love, You Are
Etichetta discografica: Touch & Go
Produttore: Dirty Three

“Se riesci ad entrare nel cuore della canzone e in quel momento stesso  a dimenticarti di tutto il resto, è come essere trasportato, per un momento sei come Dio” 

Nick Cave in 20.000 Days On Earth

 

 

Ho offerto alle stelle
un crepuscolo di intenzioni,
solitari ammassi di nostalgia.

Sono un  cavallo azzurro
e non c’è segno, solo sterminato
orizzonte su cui scivola ogni passo.
Dentro la cruna
dell’ago dimentico che sono
Sangue, Spirito e Ricordo.

E pur ramificato, sono atomo
che reagisce all’altro dentro
liberata energia potenziale
fino a innescare l’azione.
Che poi non compio.
Che non ricordo.

Tu sai dove, io neppure
quando ascolto una canzone
che rende il tempo inverso:
immagina un mondo in cui
la nostalgia dia forma a un futuro
in cui ritorna ciò che si è perso.

***

Era l’estate della laurea, la prima da single da otto anni a quella parte. Avvertivo un’energia insolita scorrermi negli occhi, a ogni sibilo d’aria intercettato dalle palpebre. Di nuovo in pace con la mia solitudine. Libero finalmente di esporla agli agguati del mondo, all’impavida incertezza del futuro, alla paura di morire che altro non è che fame di vita.
Con i miei tre amici di sempre avevamo deciso di fare una zingarata ferragostana, un’occasione per ritrovare quattro adolescenti che giravano tra i corridoi sudici di uno dei più malfamati istituti dell’agro aversano. L’organizzazione non è mai stata il nostro forte, per cui prendemmo sacchi a pelo e costumi, e ci infilammo in macchina senza una meta. Direzione sud, l’unica cosa certa. Ci saremmo fermati quando qualcosa o qualcuno ci avrebbe invitato a farlo. La prima vocazione furono le mozzarelle di Battipaglia. Mi rendo conto che località e circostanza stridono con la colonna sonora a base di Meat Puppets e Thin White Rope che avevo compilato illudendomi di dover percorrere la Route 66 anziché la Salerno-Reggio Calabria. Sta di fatto che trangugiammo un chilo di mozzarelle in piedi, nel parcheggio desolato di un buco di negozio gestito da un’anziana signora autoctona, di quelle che troverai lì anche dopo la fine del mondo. Il latte ci scorreva ai bordi delle labbra e fluiva, come un Danubio di sangue perlaceo, lungo il collo e poi giù a sporcarci le magliette, orgogliosi di incarnare l’anello mancante tra Jerry Calà e Ozzy Osbourne.     Riprendemmo la marcia. Dopo una cena frugale in un ristorante di fortuna, optammo per passare la notte a Palinuro. Per puro culo ci imbattemmo in uno sputo di spiaggia privata che scendeva a dirupo da un piccolo promontorio. Un’oasi di silenzio dove l’unica voce ammessa era quella del mare. La occupammo abusivamente. Mentre i miei amici schiacciavano un pisolino, mi avvicinai a riva per godere della perenne melodia della risacca. Nei dintorni non c’erano luci artificiali. Alzai lo sguardo. Il cielo mi stava pisciando addosso le stelle di Van Gogh. Non avevo musica con me. Così pensai ai Dirty Three, ai loro acquerelli strumentali per superstiti romantici. Alla copertina di Whatever You Love, You Are con il mare, le stelle e la spiaggia deserta. Quel disco era lì, ci stavo dentro. Ero io il violino struggente di Warren Ellis, il seducente twang di chitarra di Mick Turner, le spazzolate flessuose di Jim White. Tutto quello che ami, sei. Ma io non ero stato. Lo avevo capito a mie spese, rinunciando all’amore per salvaguardare un rapporto.

Mi chiedevo come avessi fatto tutti quegli anni a dimenticarmi di me, a sacrificarmi per una storia nella quale ero stato il primo a non credere. Ripensavo a tutte quelle volte che, dopo aver scopato, mi ero rannicchiato su me stesso domandandomi che diavolo ci facessi in quel letto. Le avevo voluto bene e c’ero stato sempre. Nelle difficoltà, nei lutti, nelle piccole gioie. Ma non sentivo di appartenerle e lei non mi apparteneva. Spesso lottiamo per l’idea anemica di amore che ci siamo costruiti, erigendo cattedrali di cartapesta sul senso del dovere. L’amore non è un idillio, ma nemmeno può essere un lavoro. È una seduta spiritica dove ci si scambia i fantasmi, e la verità era che noi due, a quel tavolo, non ci eravamo mai accomodati. Offrivo le mie conclusioni alle stelle e al cielo notturno, forte di una serenità ritrovata, mentre nel mio cuore risuonavano le note dei Dirty Three. Le sole adatte a confessioni tanto abissali.

I Offered It Up To Stars And Night Sky sembra stata scritta apposta per porre domande al cielo stellato e ricevere risposte dalla notte che è in ognuno di noi. È il brano centrale su cui fa perno Whatever You Love, You Are, quinto disco in studio pubblicato nel 2000 dalla band di Melbourne che nel frattempo –  oltre ad aver conquistato i favori di Sonic Youth e John Cale coi quali era stata in tour nel 1994  – era entrata nelle grazie del connazionale Nick Cave, invaghitosi  al punto tale da cooptare il violino di Ellis nei suoi Bad Seeds.

Whatever You Love, You Are è l’album più potente e lirico della discografia dei Dirty Three. Sei madrigali in suffragio di poeti anonimi che nessuno leggerà mai. “La cosa più importante per noi è la tristezza della nostra musica”, ha ammesso Jim White. Una mestizia palpabile che lascia dietro di sé una scia insolitamente serafica. Percorrerla conduce alla deriva dell’infinito, sulla soglia dove ogni peso è lasciato. Tristezza compresa. È questo il loro mistero taumaturgico. Un rito apotropaico operato da una tribù composta di soli tre artigiani osservanti del free jazz e dalla Penguin Cafè Orchestra.

I Offered It Up To The Stars And Night Sky inizia col violino di Ellis che ripete la stessa frase melodica su quattro linee sovraincise così da sembrare un quartetto in piena regola. L’effetto è quello di una fuga vertiginosa che si dilegua presto in una lenta marcia. Il climax visionario del brano si ha quando Ellis riprende il centro della scena ricamando florilegi di fraseggi singhiozzanti, strozzati, trattenuti fino a quasi implodere. In quel momento l’universo si ritrae in se stesso risucchiando il mare, la notte, le stelle di Van Gogh –  che adesso pisciano al contrario, verso il cielo –  e ogni fottuto soliloquio. È un diluvio universale alla rovescia, un big bang a ritroso. La batteria imbastisce un tramestio sontuoso, travolge la chitarra di Turner che è un torrente di distorsioni lungo un altro torrente di distorsioni. Quelle del violino di Warren Ellis. Nessuno nel rock ha usato tale strumento in un modo altrettanto poliedrico. Non Simon House degli High Tide, che fu tra i primi a proporlo in un complesso hard rock. Non Peter Stempfel degli Holy Modal Rounders, che lo trasformò in sostanza psicotropa. Non il divino Steve Wickham dei Waterboys, colui che elevò il folk celtico a categoria dell’anima. Nei Dirty Three il violino di Ellis è vocalist e chitarrista al contempo. Interpreta melodie, tracima assoli e stridore di ferraglia. È ancora il vecchio caro hard rock, ma come se lo stesse suonando John Keats. Non siamo affatto distanti dalla poesia, dal suo scopo ultimo e profondo: rendere vero “un posto per andare via dalle cose, un posto per sognare”. Sono parole di Warren Ellis sul senso della loro musica. Il medesimo che deve aver colto anche Nick Cave: “La musica dei Dirty Three ti inonda e ti trascina lontano. Ogni volta che li ascolto mi si accende qualcosa, inizio ad avere grandi idee e centinaia di versi mi saltano in testa”. Capita anche a me tutte le volte che metto su I Offered It Up To The Stars And Night Sky. Peccato che io non sia Nick Cave e le immagini mi rimangano dentro la testa. Inespresse. Incapaci a tradursi in una qualsiasi forma metrica. Allora ritorno a quella notte, a quel momento perfetto davanti al mare, sotto il cielo notturno, in cui realizzai che il fallimento è soltanto un abbaglio della volontà. Tutto ciò che è finito è dato. Ma tutto ciò che non smette di darsi è infinito. Il pensiero, l’amore, la notte stellata dei Dirty Three.

***

Testo estratto da: Ambulance Songs. Non dimenticare le canzoni che ti hanno salvato la vita. Di Luca Buonaguidi e Salvatore Setola (Arcana, 2019). Qui il sito: https://ambulancesongs.com/

sull’editing (lettera a una editrice)

6

di Giacomo Sartori

ciao X.,

ti scrivo ora – a mente fredda – perché non amo lasciare le
cose aperte, o insomma senza spiegazioni; mi disturba, visto che avevamo un
legame diretto, che la cosa sia stata liquidata tramite l’agente; e lo trovo
anche poco rispettoso per l’autore che sono, quindi su un piano più
professionale;

trovo un po’ assurdo quello che è successo, perché secondo me un libro

La notte non esiste di Angelo Petrella

0

di Guido Caserza

Il ritmo giambico, ossessivo del periodare breve, impiegato per rafforzare l’icasticità delle scene, amplifica anche le iperboli del fittissimo intreccio di La notte non esiste (ed. Marsilio), seconda puntata della quadrilogia di Angelo Petrella che ha come protagonista l’ispettore Denis Carbone. Lo ritroviamo quattro mesi dopo la vicenda raccontata nel romanzo precedente (Fragile è la notte), alle prese con un crimine che incarna le peggiori turpitudini umane, fra bambini seviziati, brutalizzati e orrendamente uccisi e, dietro di loro, a incombere come una maschera del fato, gli oscuri intrighi di una setta segreta che ha ramificazioni nelle istituzioni e negli stessi apparati giudiziari, perché il crimine e la colpa, almeno da Ellroy in poi, non sono discriminabili per compartimenti e la giustizia coabita con il reato; ne è, anzi, il complemento in un mondo, quello della pubblica sicurezza, dove «nessuno era pulito». Lo stesso Carbone ha nel suo passato una macchia, sebbene giustificata da un ardimentoso sentimento di giustizia personale: per svolgere le sue ricerche private sulla sparizione della sorellina Alice aveva messo su un giro di scommesse truccate che gli erano costate una sorta di esilio nel commissariato periferico di Posillipo, dove tuttora esercita la sua mansione.

Poco sopra ho usato il termine iperboli per caratterizzare l’intreccio del romanzo: Petrella, che è maestro nella costruzione di trame, questa volta sembra aver ceduto a un eccesso di autocompiacimento, disseminando l’intrigo di colpi di scena, agnizioni vere e fallaci, con il risultato che esso appare in alcuni passi un poco arzigogolato e inverosimile. Ma ci sono qualità tali, in questo romanzo, che fanno passare in secondo piano questo eccesso di autocompiacimento, di climax e anticlimax, a partire dall’evocazione istrionica della struttura dei romanzi d’appendice. È infatti proprio l’istrionismo di Petrella, retoricamente un’ironia amplificata, a far sì che si possa sorvolare su certo ingolfamento di colpi di scena (penserei, per dare l’idea, alle macchine narrative di Eugène Sue) e, un po’ benignamente, gustarli da una parte come esche per il lettore beatamente ingenuo, dall’altra come occhiolini al lettore disincantato che riconosce in essi un gioco metanarrativo con la tradizione narrativa popolare.

L’altra qualità, che è contigua a questa, è l’impiego dovizioso di tutti gli stereotipi del genere poliziesco: il fissismo psicologico e comportamentale dei personaggi, con la loro descrizione sommaria risolta in brevi schizzi; l’impiego di tratti abitudinari ormai logori, con l’impiego a profusione di sigarette, litri di caffè, whisky dozzinale e antiacidi per uno stomaco corroso; il ricorso a una donna fatale che spezia e compensa quell’«odore di solitudine e morte» che pervade il romanzo e che nemmeno le sigarette fumate a nastro possono coprire.

L’impiego dei tipi e degli stilemi fissi del reportorio di genere è naturalmente una qualità solo a patto che non decadano a ruoli prefissati all’interno di un universo romanzesco chiuso: il poliziesco corre sempre di questi rischi; li corre naturalmente anche Petrella, ma con un grado di accortezza maggiore rispetto ad altri colleghi. Sebbene le personae dramatis di La notte non esiste preesistano in quanto tipi tradizionali, sebbene tutto sia subordinato all’esigenza dell’azione e a un intreccio scoppiettante, sebbene lo scrittore trascuri lo scavo psicologico (onorando anche in questo la retorica del genere), riesce però a creare un personaggio memorabile (quello dell’ispettore Denis Carbone), contraddistinto da un’evoluzione psicologica talmente definita da farne un carattere letterario a tutti gli effetti. Sul carattere di Carbone tornerò più sotto.

Un’altra qualità del romanzo, forse la sua maggiore virtù, consiste nel modo in cui all’azione viene conferita una portata simbolica: ciò non avviene tanto per il simbolo (un sole a cinque raggi, impiegato dalla setta di criminali) disseminato nell’intreccio, poiché esso ha meramente una funzione narrativa, quanto per quella grotta labirintica in cui il protagonista rischia di smarrirsi nell’epilogo. «Quel maledetto labirinto» è infatti il simbolo dello stato mentale di Carbone, la cui psiche è tutta introflessa in un passato da cui non riesce a liberarsi e che continua ad affiorare, un passato su cui grava il senso di colpa per non avere saputo proteggere la sorellina Alice, misteriosamente scomparsa venticinque anni prima e la cui vicenda tragica è forse collegata ai nuovi orrendi crimini rituali, ma anche un passato fatto di amori illusori, divenuti fantasmatici.

C’è, dunque, una profonda tessitura simbolica che costituisce l’aspetto subnarrativo del romanzo e ne fa scaturire i motivi profondi: è raro che in un poliziesco il significato dell’opera dipenda, più che dall’azione, dai suoi simboli e dalla psicologia del protagonista. Qualcuno potrebbe impiegare, per definire questo romanzo, l’etichetta di poliziesco esistenziale, ma ritengo che non sarebbe del tutto calzante, come non lo sarebbe il suo accostamento al noir mediterraneo. C’è qualcosa di più, nel romanzo di Petrella, che forse va contro le sue stesse intenzioni, ed esso va cercato nella tara malinconica del protagonista e su quel senso di fato che incombe sulle sue azioni.

Dovrebbe essere un personaggio accidioso Carbone, autonegantesi alla realtà, quasi un belacquista, sopraffatto com’è dai rimorsi e dal rimpianto, ma sappiamo che la malinconia può generare azione, e l’ossessione trasformarsi in motivazione. L’idea fissa, su cui si impunta il malinconico, può prendere la figura di un’azione coatta e l’accidia belacquista trasformarsi nel ripudio disperato di sé stessi, ovvero nell’idiosincratica costruzione di un altro sé, determinato, seppure vanamente, all’azione risolutiva.

La grammatica narrativa del romanzo è disseminata delle particelle congetturali “se” e “ma”: il topico se non avessi fatto (o il suo rovescio, se avessi fatto) è il loop psichico che tormenta la mente di Carbone: venticinque anni prima la sorellina Alice si è immersa nel mare di Napoli e non è più tornata a riva. Qualcuno l’ha portata via. Carbone era rimasto a riva. Questo è il tormento dell’ispettore, la sua idea fissa. Il se è lo stigma psichico di ogni uomo dominato da simili tormenti e pensieri ossessivi, su cui altri ne germinano fatalmente, perché il destino, nell’uomo malinonico, non è altro che tempo ripiegato su sé stesso. Tanto che anche l’indagine poliziesca diventa a un certo punto una reduplicazione del medesimo assillo psicologico, ne è, direi, l’equivalente intellettuale, come vedremo fra poco.

Parassitato da un’idea esclusiva e fissa, Carbone trasforma l’indagine in quello che gli psichiatri definiscono «delirio esclusivo», non solo perché i delitti di oggi sembrano legati alla sparizione della piccola Alice, ma perché nell’azione l’ispettore trova l’illusoria terapia del proprio male, una sorta di revulsione morale che sposta l’attenzione da una idea fissa all’altra.

Persino la morte, sempre all’orizzonte, sembra implorata come una catarsi che possa conferire un valore estetico ai fantasmi del passato, ed è una morte sempre aleggiante: «morte e solitudine» sono il corrispettivo simbolico di una psiche introflessa, dunque non sorprenderà che, per la profonda innervatura simbologica del romanzo, anche gli oggetti sfumino in una dimensione instabile e aleatoria, sottratti alla loro denotazione.

«I panini comprati al chiosco che si affacciava sull’isolotto di Nisida sapevano di cartone e fretta» dice il narrattore a commento di un fugace pranzo consumato da Carbone e da Teresa, la segretaria del commissariato. La constatazione, di primo acchito, sembrerebbe prosaica e rimandare al classico pasto da poliziotti, ma la contiguità metaforica materiale/immateriale («cartone e fretta») è indicativa dell’instabilità dei realia, ossia di quella aleatorietà esistenziale che è tipica del malinconico.

Anche il tempo dell’azione è spesso sottratto, seppure per brevi incisi narrativi, al suo divenire per lasciare spazio al tempo mentale di Carbone; un tempo che non progredisce, perché «lui riviveva lo strazio ogni notte» (lo strazio della perdita della sorellina), un tempo che si dilata nella sua immobilità persino all’interno dell’inchiesta: in un momento clou dell’indagine, dopo il ritrovamento di un primo bambino morto, mentre l’ispettore, il commissario e un tecnico visionano il filmato di una videocamera di sorveglianza, «il tempo sembrava dilatarsi, incepparsi nella sua progressione». Ciò che fa Petrella, evidentemente, è trasferire metaforicamente nell’indagine il tempo mentale, personalissimo, dell’ispettore, perché lo stigma della malinconia pervade fatalmente ogni cosa.

La memoria è la dannazione del nostro eroe, al pari della dannazione memoriale delle tragedie attiche, qui rivisitate attraverso lo strumento degli stilemi del genere poliziesco che fanno scaturire, a tratti, un effetto di straniante ironia: «La sua mente galoppava a ritroso, ansimava nello sforzo di tenere a bada quello che era rimasto troppo a lungo sepolto nei recessi della memoria, e che ora stava per schizzare fuori con la portata di un mostro marino. Le ginocchia quasi gli cedettero mentre tornavano a galla brandelli dell’incubo che lo accompagnava ormai ogni notte da venticinque anni a quella parte.» L’enfasi della figura retorica («con la portata di un mostro marino»), la corrività dello stereotipo («Le ginocchia quasi gli cedettero») sono gli strumenti di cui Petrella si serve istrionicamente per esasperare ironicamente la tragicità del momento. Se gli strumenti sono logori, scelti proprio per il loro carattere di facile riconoscibilità, il trattamento che ne fa l’autore è però ironico, tutto teso a evidenziarne l’artificio: un procedimento enfatizzato nei due inserti in cui Petrella attualizza e introietta la funzione del coro e dell’oracolo delle tragedie. Lo fa, coerentemente con il tratto malinconico del protagonista, lasciandone parlare l’inconscio nella figura del sogno, seppure (artificio nell’artificio) non in prima persona, ma mediato dal tu con cui il narratore/inconscio si rivolge all’eroe. Avviene una prima volta, quando Carbone rivive oniricamente la scena della scomparsa della sorellina, in una sorta di flusso di coscienza per interposta persona (il coro del sogno che si rivolge a lui), una seconda volta quando invece l’inconscio prende la forma dell’oracolo, avvertendolo che incontrerà ancora il suo nemico, «e sarà un giorno ostile, in cui sulle pareti di roccia sorgerà un sole oscuro e invernale». In questo inverno dello scontento si fondono oracoli antichi e suggestioni scespiriane, contaminandosi con i topoi del poliziesco: in momenti come questi Petrella riesce a rinnovare il genere rispettandone la retorica dominante e i repertori tradizionali.

 

L’ossessione della sorellina scomparsa è narrativamente il motore del romanzo e ciò che viene a costituire la motivazione dell’eroe ad agire: «Era entrato in polizia con l’assura idea di trovare il rapitore di sua sorella (…). Era questo il motivo per cui ogni ingiustizia diventava una questone personale.»

L’introflessione dell’inchiesta passa attraverso questa introflessione del tempo, sotto il segno di un carattere malinconico e maniacale, condannato da una parte all’azione, dell’altra a vivere in un tempo saturnino e immobile («Il volto sorridente di Alice gli balenò davanti agli occhi come se il temo si fosse fermato»), in cui il passato, sempre ritornante, assume il tratto psicologico del perturbante.

«Il passato tornava sempre. Ma non avrebbe mai creduto che potesse incastrarsi così assurdamente con il presente»: l’incipit del terzo capitolo sintetizza efficacemente il plasmarsi dell’inchiesta sulle ossessioni personali dell’ispettore. Il loop psichico del malinconico diventa in qualche modo il sostrato metafisico dell’inchiesta, pervadendola strutturalmente: anche in essa vale l’ossessione congetturale dei se e dei ma (avendo compreso di trovarsi a fronteggiare forze potentissime e oscure, Carbone rimpiange di avere ucciso il questore corrotto – fatto occorso alla fine del romanzo precedente -, perché di lì tutto e partito: se non l’avessi ucciso! arriva infatti a dirsi), un’ossessione che traligna persino nelle angosce della vita sentimentale, nel momento in cui Carbone rimpiange di non aver fatto di più per trattenere Laura, la donna fatale che continua a dominarne i pensieri: «se fosse stato zitto – scrive il narratore in sua vece –  avrebbe coronato il sogno degli ultimi dieci anni.» Ai lati dell’inchiesta giudiziaria, sui lembi che la avvolgono, viene così a generarsi una giuntura simbolica delle due figure femminili, Alice e Laura, una giuntura che forma il controcanto sentimentale dell’inchiesta: «Sentiva di esserci arrivato, finalmente, e provò una specie di nostalgia: avrebbe voluto che Laura fosse lì per capirlo, per vedere con i suoi occhi che non si era sbagliato. Per accettare la sua crociata contro chi gli aveva strappato via Alice e il loro passato insieme». E non è ovviamente un caso che la giuntura si saldi scopertamente nel cuore del romanzo.

Non è poi neanche un caso che l’azione si svolga fra la vigilia di Natale e Capodanno: non è solo il periodo del tempo astronomicamente sospeso, ma anche il tempo della nera lassitudine malinconica, ancora l’inverno dello scontento, fin troppo schematicamente contrapposto alla festa collettiva.

La coazione del malinconico si dilata in questo tempo sospeso, il rimpianto e il desiderio ne sono lo stigma e, all’interno di questa cornice, l’indagine non può che trasformarsi nell’ipostasi del destino. Un tempo sospeso, a rileggerla a ritroso, è anche l’intera vita dell’ispettore Carbone che ha trascorso notti insonni «correndo dietro ai propri fantasmi e scegliendo di rimandare la vita anziché viverla»: il belacquismo, nonostante la revulsione morale della diuturna, defatigante inchiesta, è tarlo operante nell’intimo di un’esistenza bloccata, in quella regione della psiche in cui il malinconico attivo riconosce di non aver vissuto la propria vita, che è tragica, e insieme ironica, agnizione. È per questa vita non vissuta che all’ispettore «il tempo sfuggiva di mano»: la frase arriva nelle fasi conclusive dell’inchiesta, a caratterizzarne la concitazione e il precipitare degli eventi, ma in essa riverberano i fantasmi del passato e quelli irrealizzati della psiche di Carbone, in una strutturante connessione simbologica.

L’unica indagine che il malinconico conosce è infatti quella su sé stesso: è per questo che l’inchiesta poliziesca diventa la figura di una infinita indagine sul proprio mondo interiore, e su di essa si plasma strutturalmente, ripetendone in modo ossessivo quel modello circolare e labirintico che campeggia in tutta la sua evidenza nel potente simbolo della grotta, in epilogo.

Infine, è per questa profonda e decisiva coesione simbolica del romanzo che l’inchiesta va letta come domanda – chi cerchi sipettore? -, all’insegna dell’antichissimo tropo del quem quaerit.

Angelo Petrella, La notte non esiste, Marsilio, pagg. 190, euro 15.

La macchina del vento

1

di Edoardo Zambelli

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, 344 pagine

Wu Ming 1, qui in un suo progetto solista, riprende e prosegue il discorso che assieme al resto del collettivo aveva già intrapreso (almeno in parte) con L’armata dei sonnambuli e che ha trovato poi pieno compimento con il recente Proletkult. Un tipo di romanzo, cioè, che pur non rinunciando al suo carattere “storico”, vive della contaminazione con altri generi, in questo caso particolare con la fantascienza e la letteratura fantastica.

La vicenda raccontata ne La macchina del vento occupa un arco di tempo che va dal 1939 al 1943, ed è ambientata a Ventotene, l’isola che fu confino di molti degli oppositori al regime fascista. Qui, in una narrazione continuamente scandita dall’appello ai confinati – una specie di ritornello -, i fatti e i personaggi storici, sempre frutto di una rigorosa documentazione, convivono quindi con invenzioni che oltrepassano la realtà storica, e che vanno – come già detto – a fondersi con tematiche e processi narrativi che appartengono ad altri generi letterari.

Coi discorsi di Colorni non si va da nessuna parte. C’è una lingua del giorno e una lingua della notte. Pontercoboli vi ha parlato nella lingua della notte, che Colorni sta cercando di tradurre nella lingua del giorno. Il viaggio nel tempo di cui parla Pontercoboli è un’esperienza dionisiaca, mentre Colorni è apollineo da fare schifo. Ma consolatevi, sono sicuro che Pontercoboli stesso compie un errore simile: anche durante il giorno continua a parlare nella lingua notturna, che è fatta di visioni, credendo di usare la lingua diurna, quella della ragione.”

La citazione sopra, tratta dalla seconda delle tre parti di cui il libro si compone – esclusi antefatto ed epilogo -, è significativa dell’anima profonda dell’opera di Wu Ming 1. Infatti, l’intero romanzo vive proprio di questa contrapposizione fra una lingua del giorno e una della notte, fra realtà e illusione. Tutto si svolge nel segno di una doppia allucinazione: quella di Giacomo e quella di Erminio, che del romanzo è anche narratore. Il primo è un fisico, ha fatto parte del gruppo di Enrico Fermi, e sostiene di aver creato – influenzato dal romanzo di H.G.Welles – una macchina del tempo. Macchina del tempo che, tra le altre cose, è la causa della scomparsa di Ettore Majorana, che ha voluto sperimentare l’invenzione in prima persona e si è perso chissà dove nel tempo.

Il secondo, invece, “rilegge” il fascismo alla luce di una tesi di laurea mai terminata sui miti greci nei mari d’Italia. Diverse parti del racconto hanno per protagonisti proprio gli dei, divisi tra fascisti e antifascisti, che seguono e in qualche modo cercano di intervenire negli accadimenti dell’isola. Difficile dire se tali segmenti narrativi siano fatti che accadono davvero o siano solo immaginazioni del narratore, ma poco importa, il fascino del libro sta anche nel non sbilanciarsi mai a spiegare ciò che succede – suggerisce, questo sì, ma senza mai dire. In questo senso, l’autore si fa da parte, lasciando tutto il divertimento al lettore.

È dall’incontro/scontro fra questi due personaggi – Giacomo ed Erminio – che la storia prende forma. Le teorie di Giacomo scuotono una quotidianità fatta di camminate e discorsi fatti sottovoce nelle camerate, di soprusi subiti dagli ufficiali del regime, e dai mille stratagemmi che i confinati inventano per aggirare le severe regole del confino.

– Fa l’ora sbagliata…- osservò Giacomo. Il quadrante segnava le cinque.
Noialtri sorridemmo, alcuni fecero spallucce passando oltre.
– Torna sempre a farla, – spiegò qualcuno. – Non importa quante volte lo riparino.
– Ci si sono incaponiti più artigiani, ma niente, – aggiunse un altro. – Perché continui a rompersi è un mistero.
Giacomo fissò il quadrante e si chiese: è in ritardo di due ore o in anticipo di dieci? Fa ancora le cinque o già le diciassette? Oppure le diciassette di ieri?

Simbolo centrale del racconto è l’orologio civico, un orologio capriccioso, che segna sempre l’ora sbagliata, avanti o indietro è impossibile dirlo. In realtà (ma parlare di realtà in questo caso è un azzardo), Giacomo è convinto che non sia l’orologio a essere in errore, ma che sia piuttosto la percezione del tempo sull’isola a essere un errore. O meglio, per dirla con altre parole, Giacomo è convinto che l’intera isola sia un’anomalia temporale di cui l’orologio è semplicemente il sintomo più evidente.

Ecco, forse è questa la vera macchina del tempo: l’isola. L’isola con quel crocevia di tribù politiche che cercano di pensare l’Italia dei tempi a venire. Sono loro, con tutti i progetti, i sogni e i disegni di un futuro migliore, ad essere in qualche modo avanti rispetto a un’Italia ancora confusa perché troppo occupata dal tempo oscuro del regime.

La macchina del vento è un libro appassionante, leggero quando si abbandona a parentesi comiche, e terribilmente serio nella sua riflessione storica – riflessione che, ovviamente, rimane su tutto il vero motore dell’opera. In un’esecuzione perfetta, riesce a essere insieme racconto politico e racconto d’avventura, racconto fantastico e racconto di fantascienza. Sostenuto da un piacere del narrare che non viene mai meno, mette in campo la storia di tutto ciò che sono state le speranze della Resistenza, e ragionando sul tempo come elemento narrativo diventa per noi che leggiamo oggi un importante monito su quanto importante sia il suo scorrere. E soprattutto: il ricordare. Sono tempi, questi, in cui c’è bisogno di libri così.