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di Gianluca Veltri

“Sono tutti vittime delle circostanze
Di antiche campane che recano
Tutta la paura del mondo, timida e nuda

[…]

Ma i conigli hanno abbandonato le loro tane
Si sono riconsegnati alla terra”

(David Sylvian “Gone To Earth”)

Chiedo scusa se parlo di Maria, cantava Giorgio Gaber. Era una maniera per schermirsi, quando il suo tarlo tornava a galla, nel momento in cui quella cartina di tornasole ricompariva a reclamare la sua visione della vita. Come i saggi di Roland Barthes, che pretendevano di vedere il mondo attraverso una fava.

Ognuno ha la sua finestra affacciata sul mondo, la sua feritoia sulla vallata, e David Crosby è la mia.

La vita è un romanzo, dice Alain Resnais. Come l’avrebbe raccontata, lui, la vita di Baffo Van Cortland alias David Crosby? Riemerso da varie vite precedenti come in un serial che però era la sua esistenza, avviluppato sulla scala a spirale del proprio inferno personale. L’ho riascoltato in un disco registrato dal vivo nel 1986 a una radio americana. Si intitola, quel disco privo di grazia, “Silent Harmony”, ed è stato pubblicato solo nel 2017. Il 1986, l’anno a cui risale, è il nadir di David Crosby: sono trascorsi quasi dieci anni dal disco della barca con Stills e Nash: ogni cosa si è rabbuiata, si è spento il sole californiano, tutto è passato e futuro niente. Deriva, droga, carcere. Ascoltare “Silent Harmony” non è bello: quella glossa – “armonia silente” – contenuta nella celestiale “Guennevere” rimanda a tempi – il 1968 – in cui Crosby era al centro del suo mondo, ispirato come un poeta pieno di luce e ascoltato come un profeta o un guru, avvolto in un mantello di sapienza e carisma. Cos’era diventato, dopo? Un attaccabrighe di periferia; un tossico collerico che stava distruggendo la sua mente e il suo fisico. Un uomo infelice, pieno di rammarico e risentimento. Nel live del 1986, Croz è sovraeccitato, presenta in modo logorroico le sue canzoni, splendide ma suonate in modo approssimativo, con un tocco greve sulle corde. Non è più al centro del suo mondo; o forse è al centro di un altro mondo – brutto, buio, sbagliato, pieno di rabbia e rimpianti.

Dopo il suo ritorno sulle scene con “Oh Yes I Can” nel 1989, diciotto anni dopo “If I Could Only Remember My Name”, a Crosby capitavano un sacco di cose interessanti, tra le quali, più di tutte, riscoprire il figlio perduto James Raymond, destinato a diventare alter ego artistico inseparabile. Poi faceva incontri, con artisti già acclamati che volevano collaborare con lui, e con giovani talenti che lo consideravano il loro mentore.

E siamo ai giorni nostri.

È il 2014, e Crosby ha pubblicato a suo nome soltanto tre album:

“If I Could Only Remember My Name” (1971);

” Oh Yes I Can” (1989);

“Thousand Roads” (1993).

A partire da quell’anno – ha 73 anni – il songwriter californiano pubblica quattro album in un lustro scarso, fino al 2018. Più precisamente:

“Croz” (2014);

“Lighthouse” (2016);

“Sky Trails” (2017);

“Here If You Listen” (2018).

Considerando che “Croz” esce a oltre venti anni dal precedente album, è stupefacente registrare la freschezza senile e la felicissima prolificità di un musicista proverbialmente parco: tre dischi in quarantatre anni, quattro nei successivi cinque. Una parabola unica; una doppia anomalia. Ma adesso arriviamo all’incredibile: perché questi quattro album di un artista ultra75enne già leggendario sono tutti e quattro di una bellezza ispirata, stupefacente, abbagliante. È come se Crosby si fosse conservato tanta grazia a bella posta. Come avesse serbato dentro di sé e messo al sicuro una silente armonia, un universo intatto, un pozzo di perle, nascondendole ad arte nei giorni bui, per poi esporle in serie.

Di solito nelle ultime uscite discografiche dei grandi vecchi, dei mostri sacri, ci accontentiamo di qualche zampata, di un lampo antico in mezzo alla mediocrità inevitabile del presente: il passato parla per loro, non pretendiamo di più, ci basta avere un lavoro nuovo che testimonia la loro vitalità, la loro esistenza. Con David Crosby non funziona così, è tutto radicalmente diverso: la sua carriera ellittica si è popolata di capolavori con i Byrds (cinquant’anni fa!), con Stills, Nash e Young; con i tre primi album usciti a tanta distanza l’uno dall’altro. Long Time Gone. Mentre pensavamo a lui come a un vecchio bonario che aveva recuperato almeno la salute e la voglia di vivere, lui sforna quattro capolavori. È un artista che ha un mondo dentro di sé, ha il mondo dentro di sé, e non smette di raccontarcelo. Un’anima traboccante che non cessa di meravigliarci.

Il terzo capitolo di questo poker (“Sky Trails”) si chiude con uno dei suoi pezzi più meravigliosi. Si intitola “Home Free”, una glossa che può significare molte cose: “sicuro di farcela”, o anche “fuori pericolo, in salvo”. Crosby canta delle notti di pioggia e della splendida felicità di avere un tetto sopra la testa; della necessità di non smettere mai di ripetersi “come sono fortunato”. Si sente “come un neonato avvolto in una coperta che non ha niente da temere”; come “un albero che sa sempre dove cadranno le sue foglie”.

“Home Free” è il canto di un uomo che sa cosa significa non avere casa da nessuna parte; che è stato randagio e reietto, senza pace. Un uomo che per anni si è sentito ben diverso da un neonato avvolto in una coperta. È un brano, questo, che contiene la parola home, casa. In musica, quando si torna all’accordo principale del brano (l’accordo di tonica), si dice che l’armonia “torna a casa”, diventa tranquillizzante, ossia riporta tutto a posto, si pacifica, rassicura l’ascoltatore. L’accordo di tonica di “Home Free”, quello che dovrebbe “riportare tutto a casa”, contiene intervalli armonici estremamente dissonanti (è un accordo di sesta nona), che lasciano aperte sospensioni larghe e inquietudini profonde. Anche mentre canta la meraviglia di sentirsi a casa, di percepire se stesso aggrappato alla sua terra, Crosby non rinuncia all’ambivalenza delle sue note oblique. Non è mai rotondo, sarebbe troppo facile: è la sua cifra, è la sua grandezza.

Zangrando a Berlino sulle tracce di Peter Brasch

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di Roberto Antolini

Questo è un libro che fa venire in mente i primi film di Wim Wenders, quelli in bianco e nero. Anche questo libro è in bianco e nero, con tutte le sfumature del grigio, il colore della Berlino sospesa fra la decomposizione della DDR e l’assorbimento consumistico nella Bundesrepublik. In quell’arco di anni fra la fine dell’una e l’altro, il grigio era il colore dominante: il colore dei portoni scrostati dei vecchi quartieri provenienti direttamente dalla Repubblica di Weimar, passando per il Terzo Reich e la succursale germanica del socialismo reale. Insomma il cuore dell’Europa, «l’Europa prima che sparisca».
L’autore è Stefano Zangrando, scrittore nato nel 1973 a Bolzano, ma con un link sempre in funzione su Berlino, dove ha ottenuto nel 2008 una borsa di scrittura della Accademia delle Arti, e nel 2009 ha vinto un premio italo-tedesco per traduttori. Questo suo terzo libro nasce dall’interesse dell’autore per Peter Brasch, figlio di un ebreo in fuga dai nazi che, diventato comunista, fa una relativa carriera burocratica nella Germania dell’Est, e fratello del più celebre Thomas Brasch, poeta e regista fuggito all’Ovest nel 1976, dove ha raccolto qualche successo (come il film “Ritorno a Berlino” del 1988) ma ha fatto una brutta fine. Peter resterà invece in DDR sperando inizialmente in una riforma dall’interno, ma sempre più critico, fino a venir espulso dall’università per aver espresso solidarietà a Wolf Biermann. Diventerà scrittore e uomo di teatro non di successo, un dissidente appartato della Berlino est, sopravvissuto poco più di un decennio all’unificazione delle Germanie.
Nei suoi momenti di vita berlinese Zangrando conosce gli amici e le ex-compagne di Peter Brasch, trova i suoi libri ormai dimenticati, ed un giorno navigando in rete incappa in due registrazioni televisive degli anni ‘90, restandone impressionato: «c’era qualcosa, in quel giovane uomo tormentato, che toccava una mia corda nascosta. Perché lo sentivo così vicino, così familiare?».
Zangrando adotta nella narrazione uno stile “sperimentale”, basato sul montaggio di materiali diversi: conversazioni e testimonianze, brevi testi letterari e lettere di Brasch, impressioni e descrizioni d’ambiente. Una forma narrativa & saggistica, documentaria ma anche introspettiva. Un’opera aperta, che rivolge al lettore domande senza risposta. Filo conduttore della narrazione è un vagabondaggio per la Berlino “mutata” di oggi, alla ricerca delle tracce sue e di quell’altro tempo, intrecciando un dialogo con l’assenza di Peter. A partire dalla casa dove ebbe il tetto più durevole, sulla Choriner Straße: «è un buon posto per abitare, dopo l’89. Al confine tra Mitte e Prenzlauer Berg, da qui in pochi minuti sei in Alexanderplatz – se vuoi fiutare bene i venti che spirano da ovest e che stanno spazzando via tutto, un po’ alla volta, in un paziente e implacabile lavoro di erosione; oppure in un attimo sei nella Schönhauser Alee, l’asse più in fermento di questo ex-quartiere operaio che, nel giro di un decennio o poco più, verrà colonizzato e tirato a nuovo dai figli di papà occidentali, tedeschi e non solo. Molti autoctoni, i più anziani soprattutto, se ne andranno da qui nei sobborghi, arresi ad affitti sempre più insostenibili; qualcuno della tua cerchia resisterà e lo incontrerò».
La parte centrale e più sostanziosa del libro – come è giusto che sia per il libro su di un uomo di teatro – ha la forma del racconto di una messinscena di teatro-verità, in cui Zangrando utilizza le testimonianze che ha raccolto direttamente dalle testimoni. Le molte donne della sua vita (amanti, amiche, familiari) vengono narrate come se si incontrassero su un palcoscenico per raccontarsi reciprocamente la loro esperienza di Peter, incrociando diversi punti di vista, tramite i quali prende corpo la storia – umana, artistica e (involontariamente) politica – di Peter. Dice la sorella Marion: «non stava da nessuna parte, non con il sistema, non con l’annessione da parte dell’occidente. Neanche a lui del resto andava giù il termine “riunificazione”. L’ho detto, quelli come noi le cose volevano cambiarle dall’interno. Non eravamo neanche nei movimenti per i diritti civili, non eravamo dissidenti sotto i riflettori dell’ovest. Eravamo un’opposizione interna, diffusa, che puntava a liberarsi del vecchiume senza gettarsi nelle braccia del mercato. E siamo quelli che la storia ufficiale ha voluto dimenticare».
Il fratello di Peter (e di Marion), Thomas, fuggito in occidente sarà sotto i riflettori come dissidente, ma trasformerà la sua incompatibilità con la generalizzata competitività occidentale in alcoolismo e tossicodipendenza, fino a venirne travolto. Peter, rimasto ad est fino alla fine, verrà travolto dalla stessa irriducibilità quando l’ovest ingloberà l’est: «il denaro, disse, è la nuova forma della censura» ricorda nella scena di teatro-verità Katja, la miglior amica di Peter. La sua precarietà, sia lavorativa che esistenziale, si aggraverà con la “riunificazione”, o comunque non migliorerà. Proverà anche a scrivere un romanzo, come chiedevano gli editori ed i media occidentali, ma nessuno se ne accorgerà. Gli verrà negato anche un posto da insegnante, e si farà distruggere anche lui dal bere, come il fratello. Lo troveranno una mattina riverso a casa sua. E a questo punto, chiaramente, la tragica traiettoria di Peter viene ad assumere una forma universale. La forma non più solo di una storia della DDR, ma della decadenza dell’Europa mercantile, dell’eclissi dell’intellettuale, della crisi della sinistra, della nostra crisi, della crisi di chi scrive e di chi legge. «È qui – dice Zangrando a se stesso – che ti sembra abbia origine la vostra affinità: si scrive innanzitutto per chi si ama, vivo o morto che sia».
Il libro si chiude con il racconto della commemorazione di Peter Brasch, nel giorno in cui avrebbe compiuto i 60 anni, tenuta nella Kneipe [birreria] gestita dal poeta Bert Papenfuß, che chiuderà il giorno dopo (è quindi insieme una commemorazione di Peter e della Kneipe). «Seduto a lato del palco, fumando e bevendo davanti a quella declamazione sublime e sinistra – dice Zangrando – compresi tutt’a un tratto che stavamo celebrando un addio. Un addio al locale in cui ci troviamo, certo, che tra poco avrebbe chiuso per sempre; ma anche un addio a Peter, poiché il Prenzlauer Berg [quartiere e movimento letterario] che quella sera lo stava ricordando era un mondo in via d’estinzione – perché, così com’era morto Peter, prima o poi tutta quella Berlino sarebbe invecchiata e poi morta, morta». Eh già, si muore, si è tutti in transito. E quindi questa è anche una parabola sulla condizione umana, sulla sua provvisorietà.

NdR: il romanzo di Stefano Zangrando “Fratello minore : sorte, amori e pagine di Peter B.”, è edito da Arkadia (Cagliari, 2018), nella collana diretta da Luigi Preziosi, Paolo Ciampi e Marino Magliani; nelle immagini che seguono Prenzlauer Berg, di cui si parla nel libro (e nella recensione), oggi e come era sotto la DDR, e un ritratto di Peter Brasch (materiali presi dalla rete).

 

adesso vai (2/2)

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di Giacomo Sartori

ora vai per conto tuo
ditti anche tu
che per troppo tempo
nessuno di noi
s’è sentito accolto
(o anche solo al riparo)

Pensare l’originalità dei gilet gialli: territorio, rappresentanza, salario

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di Andrea Inglese

[Apparso in alfadomenica del 16 dicembre.]

 Questo articolo non si propone di fare la cronaca del movimento dei gilet gialli francesi, ma di provare a pensare la sua originalità, riconoscendolo come una creazione collettiva, e non come la semplice replica di modelli d’organizzazione e lotta già codificati storicamente in seno a istituzioni, partiti, organizzazioni sindacali. Il primo segno evidente d’originalità politica è riscontrabile proprio nella difficoltà che testimoni e commentatori esterni hanno nel situarlo “politicamente”.

Misura – l’operativismo esistenziale di Bernardo De Luca

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di Daniele Ventre

Da poco ha visto la luce, per i tipi di Lietocolle, nella collana gialla a cura di Augusto Pivanti, la silloge Misura, del poeta, critico e studioso napoletano Bernardo De Luca. Di fatto, se si escludono le presenze in antologie di un certo rilievo (Delle coincidenze, a cura di F. De Cristofaro e C. De Caprio, Ad est dell’equatore, 2012; Buio, catalogo mostra giugno 2007) e Gli oggetti trapassati, uscito per i tipi della casa editrice d’If nel 2014, si tratta, in quanto primo libro compiuto al di là della misura della plaquette, di un’opera prima: tuttavia, è l’opera prima di un poeta di lungo corso, la cui pubblicazione è anche il punto di arrivo e di maturazione definitivo di un annoso percorso evolutivo. Costatazione banale, ma dovuta, sin dal titolo immediato e polisemico, Misura appunto, la silloge, divisa in due asimmetriche sezioni, Geometrie, di ventisei componimenti, e Superstiti, di otto, porta significazione della ricerca di un equilibrio dai molti sensi a cui molte direttrici necessarie, psicologiche, stilistiche ed esistenziali, conducono.

Della misura la silloge ha già nel suo tessuto e vissuto le tracce, per come la sua evidente struttura ad anello la connota. Così nel componimento III (“Comprendi che ogni gabbia ti contiene”), l’idea della misura, “l’incrocio delle rette”, assume la forma esteriore e superficiale di una rete geometrica che ingabbia il reale. L’idea di una membrana, in questo caso di una membrana conoscitiva di rappresentazioni fra il soggetto e l’esterno, implica però l’idea del foramen, della porosità (in senso rigorosamente biologico, e per fortuna non genericamente vattimiano) della membrana stessa: implica la possibilità dell’osmosi come necessità statistica dell’esistenza: “potrebbe bucarsi la parete”, come limite bifacciale, e confondere la località rassicurante alla base dell’antropologia del fuori e del dentro, con tutte le implicazioni che la parete, la barriera, la membrana, il criterio rappresentano. La dittologia avverbiale oppositiva “fuori e dentro” è richiamata alla fine della silloge, con rovesciamento delle determinazioni spaziali, nella poesia Dentro e fuori, l’unica contrassegnata con un titolo a sé. Dentro e fuori enuclea quel tema della bifocalità e bifaccialità della “parete” e la misura come idea guida vi viene evocata come potenza esorcizzatrice dei “mostri”: la misura del “tempo” inteso in tutte le sue possibili accezioni: da quella tecnica, del tempo spazializzato d’orologio, del tempo dell’agenda, che definisce gli impegni ed esorcizza l’imprevisto dietro la scaletta del programma, a quel tempo primo misurato che può essere a vario titolo il ritmo della poesia. I momenti essenziali, però si rivelano “incalcolabili”: quei momenti in cui “i globi che… circondano la testa sono indistinguibili”, cioè le membrane che separano in varia maniera gli attori dell’esperienza e della coscienza e dell’autocoscienza finiscono per compenetrarsi. Si attua, in questa osmosi, una sorta di sinestesia conoscitiva tra la forma del senso interno, kantianamente il tempo, e la forma del senso esterno, lo spazio o l’estensione come corporeità, nel passaggio fra la misura del tempo e dell'”evento che non vedi” (l’orizzonte e l’area liminare dell’esistente rappresentato dal nulla, o dalla minaccia di annullamento che la permeazione delle membrane o la deviazione dalla routine ontico-esistentiva potrebbe comportare, “cicatrice che potrebbe renderti misura del presente”) e i “chili di corpo/passato”.

La riduzione a tempo, a misura di tempo, ultimativamente a misura, della corporeità, della solidità apparente dell’esserci, produce una virtualizzazione dello spazio esistenziale attorno al soggetto riflettente (questa entità è opportuno ora sostituire al tradizionale io lirico, variamente superato, rimosso, riformulato nella poesia di questa stagione storica). La virtualizzazione è un portato del fatto che il mondo attorno al soggetto riflettente si riduce a operazioni di misura concentriche: misura dello spazio di distinzione fra i campi dell’esperienza, misura della decidibilità del vivere, misura della dicibilità del vivere l’esperienza del mondo -e i giochi semiologici fra relazioni che si attivano nel testo e nella sua disamina si moltiplicano all’infinito in una sorta di vertigine immobile. In questo senso -facciamo un passo indietro nella sequenzialità delle poesie- va inteso con tutta probabilità il nucleo tematico essenziale che si snoda a partire dai versi conclusivi del componimento incipitario di Geometrie e di tutta la raccolta: “Lo spazio si dispone intorno senza/precauzioni, muoversi significa modificarlo.//Prova a non muoverti,/trattieni.//Muoviti,/segui la scia”. Come si può notare, la virtualizzazione, effetto della riduzione a misura, presuppone attorno al soggetto un cronotopo interiore. La dinamica del fuori-dentro/dentro-fuori, soggetto-oggetto/oggetto-soggetto, riflettente e riflesso, rende permeabili le membrane e le quinte del teatro dell’esperienza; inoltre riduce l’esperienza a decisione di movimento o di stasi, ad atti privati di coscienza minimale effetti di possibili scelte spontanee, così che nel contesto della visione che De luca sembra suggerire, si sottende in ipogramma un ripensamento -figlio improprio di un altro gioco paretimologico- dell’idea di realtà effettiva ed effettuale, come struttura trasparente e proiettiva dell’effetto e dell’efficacia di opzioni conoscitive e pratiche. Non è il caso di parlare di una poesia della realtà liquida, o porosa, riducendosi, in cerca dell’universale asylum ignorantiae o della facile formula buona a tutto e a niente, all’interno delle scelte di campo tipiche dei falsi problemi occorrenti nel dibattito intorno alla cosiddetta dimensione postmoderna, variamente disinterpretata o surinterpretata. La prospettiva di questa poesia, a partire dall’usuale spazio defilato della ricezione della poesia in genere, sembra con onestà di propositi e piena coscienza d’intenti indicare un nuovo possibile modo di organizzare e pensare l’esperienza umana: ad ogni elemento fondativo di tale esperienza, a partire dalla misura e dall’operazione di (auto-)misura in cui essa si traduce, viene attribuita una concreta e recisa definizione di ambiti, di pertinenze, con precisione filologica, ed è qui che la compresenza, nella figura di De Luca, della chirurgica nettezza del filologo italianista e della valenza creativa del poeta, dà luogo a una forma espressiva di profondo rilievo, posta per sua natura e matrice generativa al riparo delle trite scelte di campo che caratterizzano le false questioni occorrenti sul dibattito intorno alla poesia, all’accademia, alla poesia nell’accademia. Tutti gli attori/attanti linguistici in gioco nelle poesie di Misura sono definiti, ultimativamente ridotti, al concreto loro agire/attare il messaggio e il suo referente; il retroterra ontico e la presenza di impalcature, grucce, applique esistentivi, sono stati, dialetticamente, messi da parte, quasi esse sequatur operari. In tale contesto, accade ed è, solo ciò che concretamente agisce, si agisce ed è agito, in una effettualità che nei verbi, sistematicamente al presente gnomico, si riduce ipso facto in una perfettività/perfezione resultativa, talché l’impressione di virtualità e la granitica presenzialità degli enti in questi versi, anche tanto rarefatti di cose, convivono, senza contraddizione, ma per mutua deriva e derivabilità. Di tale complessità nascosta dietro il nitore essenziale del linguaggio è spia, altresì, la misura ritmica che i versi di Misura sistematicamente assumono: il loro impianto ritmico, sembra determinarsi fra una misura medio-lunga, endecasillaba o endecasillaboide, e una misura decisamente lunga, da verso doppio, martelliano (fino a cadenze esametroidi che ricordano specifici formalismi fortiniani), con tutte le possibili variazioni, frammentazioni e segmentazioni, ed è scandito con oculata ricorsività per sequenze distiche (non c’è una strofa tristica o polistica in tutta la raccolta), così che potremmo azzardarci a parlare di un post-lyric couplet come scansione naturale della dualità dinamica e del monismo anomalo che il senso profondo dei versi di Misura nasconde.

Per tutte queste ragioni forse non è peregrino vedere nei versi di De Luca l’esordio di una delle voci più limpide e chiarificatrici dello sforzo che la poesia italiana, messa in sordina dalle dinamiche di mercato, sta compiendo per superare l’impasse delle scelte oppositive per grossi palati di bassa cucina culturale. La complessa dinamica di compermeazione degli attanti che abbiamo cercato di chiarire, si traduce in ogni aspetto della silloge deluchiana: dalla riflessione in apparenti termini storici e socioeconomici di “Finisce l’era dei redditi e tutto” (in superficie, una sorta di Je suis l’empire en fine de la décadence in termini di contemporaneità post-crisi), all’immagine dell’apocalisse ecologica del particolato in “Il cielo colorato di carbonio” (uno dei testi formalmente più rigorosi, in cui la misura endecasillaboide orecchia sé stessa, si autoparodia, come in alcuni dei più riusciti capitoli di terzine “civili” pasoliniani), al teatro di interazione fra il soggetto riflettente e le percezioni dei suoi simili, in un gioco di membrane esperienziali che si trapassano senza effetto, con scene da abbraccio oltremondano di antica e dantesca memoria, in “Puoi attraversare e riconoscere senza”, gioco che si rimpalla nella specularità degli sguardi sottesa ai distici di una delle più emblematiche poesie della sezione Superstiti, “Hai guardato il suo occhio e ti sei visto”, simmetrici e controfattuali rispetto al componimento III di Geometrie, a cui fa eco nel sistema concentrico di strutture ad anello che apre e chiude una silloge che nella sua curiosa felicitas è fra le espressioni più calcolate e spontanee dell’ultimo decennio.

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Da Geometrie

I

Dimentichi qualcosa che va trattenuto
ogni giorno si sfibra un tessuto nervoso.

Le diagonali degli aerei
lasciano brevemente i segni delle rotte.

Lo spazio si dispone intorno senza
precauzioni, muoversi significa modificarlo.

Prova a non muoverti,
trattieni.

Muoviti,
segui la scia.

III

Comprendi che ogni gabbia ti contiene
l’incrocio delle rette rassicura.

Potrebbe bucarsi la parete e nel risucchio
del suo vuoto essere fuori e dentro.

Stai fermo,
ti muoverai.

* * *

Finisce l’era dei redditi e tutto
si sposta nella tua mano che afferra.

I paesi s’addensano all’incrocio delle statali,
mobili agglomerati di fuggitivi.

Qualcuno sogna ancora la vecchia
vita, altri pensano che di questa

che abbiamo in pegno
vada ricercato il bene.

L’illusione può catturare la luce
tra le grate di una finestra

e la forma parabolica
dei fiori sul davanzale.

* * *

Il cielo colorato di carbonio,
scende verticale il senso

della fine, si posano le ceneri
sui davanzali dei balconi, qualcuno

ogni mattina tenta la pulizia
delle scorie, muovere la scopa

è un gesto di speranza. Tu cosa
fai, cosa suggerisce la forma

che si specchia nella pupilla,
le metamorfosi del fumo nero.

A testa alta, in mezzo agli sterpi
di cemento, guardi. Credi che

le particelle si muovano secondo
l’ordine prestabilito del disastro.

* * *

Puoi attraversare, riconoscere senza
essere indicato, abbracciato

da tutti perché nessuno ti vede.
Valgono a poco i tuoi metodi qui.

Come quando camminano tra le tende
vicino alla rotonda, il collo

abbassato, stanchi per la giornata
e gli occhi semichiusi dalle palpebre.

Non ti vedono. Ascoltano
lo scricchiolio delle suole sui sassi.

Pensi spesso che non c’è spazio
che assicuri l’interazione.

* * *

Due uomini si rinfacciano a morsi
il presente, come ghiacciati nell’asfalto.

La nube di ferraglia si ramifica
nell’aria, sulle statue.

Uno intima la scissione, come particella
che allo scontro diverge –

e quando s’addenta al braccio
masticando intenti progetti rimorsi

tu ti ritrai dalla carne che sbrana
dal seme del dolore che ti mangia.

* * *

Da Superstiti

I

«…il lago trovato nessuno lo ricordava
i luoghi e le trasformazioni sono indecifrabili,

poi dalla superficie dell’acqua
un cartello dell’autostrada ci mostrò

che per chilometri c’era tutto
un passato sott’acqua. Nessuno

poté fare a meno di pensare quale
vita si muoveva sommersa, come…»

* * *

Hai guardato il suo occhio e ti sei visto
come un ostacolo da scansare,

e mentre barcollava fiutando il vuoto
tu ti piombavi nell’asfalto:

stai fermo,
ti muoverai.

Cadono i limiti, le geometrie.
L’uomo della caligine ti vede.

* * *

Dentro e fuori

La mattina appena sveglio pensi di vedere i mostri.
E allora misuri il tempo, l’evento che non vedi.

Quando poggi il piede a terra cominci a contare.
Dovresti sapere che in alcuni incalcolabili momenti

puoi essere dentro e fuori, e i globi che ti circondano
la testa sono indistinguibili. Misura il tempo, l’evento

che non vedi. Ti rimane questo: tenere fissa la pupilla
sullo spazio inesistente, mettendoci i tuoi chili di corpo

passato senza badare alla cicatrice che ti marchia
la fronte e che parrebbe renderti misura del presente.

I segreti vanno detti a bassa voce, scandendo
bene la visione ed eseguendo la parola che s’attaglia

al cemento. L’hai visto infinite volte e non puoi che serbare
il resto: misura il tempo, l’evento che non vedi. Cammina.

Il 23 agosto – un piattello di segreti. Gianluca Garrapa

4

Incipit del nuovo romanzo di Gianluca Garrapa

Pomeriggio

I

 

Ambiente sonoro: il frinire delle cicale.

 

 

In macchina si muore dal caldo. Giulio tarderà, come al solito, almeno mezz’ora.

Vado a prendermi un caffè in ghiaccio. Lo aspetterò al bar.

 

Uscire di casa nella fornace che traspira odore di asfalto e cicale. È sempre un ambiente ostile. Scendere dalla macchina e affrontare il sonno pomeridiano apparente. Le case sono casse mortuarie piombate e le finestre socchiuse nascondono occhi crudeli di indifferenza. Il pettegolezzo è un congegno ben oleato che tradisce piccole e grandi nevrosi, accidenti dell’animo e inciampi della psiche. Un chiacchiericcio che non smette mai, che cementifica, con il trascorrere degli anni, i rapporti falsi e retorici, di autodifesa, di protezione reciproca, di patti, di leggi non scritte.

Immobile, l’organismo sociale conserva muffe e pregiudizi atavici.

 

Al Castello, come dovunque ormai, non esiste vera amicizia né amore, si coltiva l’interesse personale con la stessa cura e pervicacia con cui i contadini, gli ultimi sopravvissuti, non si arrendono alla mestizia della terra brulla e al mistero dell’olivo fecondo che secca senza l’affezione della Xylella Fastidiosa: è forse la malinconia che uccide gli alberi? Sia come sia, gli uomini inseguono un’ideale bellezza sacrificandosi ottusi nella speranza nostalgica, e sanno l’abisso barocco che li attende. E ci si consacra al gruppo, innanzitutto tacendo. Ignorando le storture dei rapporti di vicinanza, che variano, oscillano, barcollano ma si mantengono saldi per via di un mutuo opportunistico soccorso: ci si può sempre trovare nella condizione d’aver finito la panetta di fumo, di avere la macchina dal meccanico, a esempio, di aver bisogno di.

C’è sempre il parente del tuo amico, che è un meccanico, che è come tuo fratello e ti fa prezzi scontati aumentandoli all’estraneo: aiuta te per fottere un altro.

 

Sono a questo tavolino, a sorseggiare il caffè col ghiaccio velenoso del rancore. Mia moglie e i figli sono lontani. Si usa solo da questi parti, il caffè in ghiaccio.

L’altro anno, mia moglie, a Torino, chiese un caffè con ghiaccio.

E il tizio: «Come, scusi?»

E mia moglie ripeté, con il candore più puro del mondo: «Caffè… con ghiaccio.»

E il tizio le poggiò sul bancone una tazzina di caffè normale e un bicchiere di plastica con dentro due cubetti di ghiaccio.

Rise.

Io no, finsi di nulla.

Dietro il bancone, qui, c’è il figlio del proprietario. Ha quindici anni, le occhiaie così accentuate da vanificare il brillante lago blu degli occhi, è alto, un viso affilato e piacevole.

Suo padre m’ha preso in simpatia, per via del mio carattere schivo e intelligente.

Non mi lusingano i suoi apprezzamenti, è un postmoderno padre-padrone. Offre a turni massacranti di lavoro il figlio, spesso maltrattato dagli altri dipendenti, che sfogano sul quindicenne il loro disastro totale di quarantenni che non hanno ancora trovato la moglie giusta da bastonare dopo averle dato alla luce, cioè alla morte in vita, i figli su cui sgravare la repressione subita, le angherie dei padri e dei nonni. Il Castello, come tanti altri luoghi, è fascista. Non è luogo di solidarietà. Né di sincero confronto. C’è lo storico cinema chiuso ormai da anni. Una biblioteca fornitissima frequentata solo dai cervelli natii dei feudi circonvicini. Gli abitanti del Castello sanno già tutto e hanno visto il mondo: per loro non è necessario alcun supplemento di conoscenza.

Si mangia, si beve, si balla e si sparla. A volte si muore, e il clima diventa pesante. Specie se si muore giovani. Ma a nulla vale la consapevolezza della morte, non a risvegliare coscienze, non a distillare la cattiveria, non a incoraggiare all’autoanalisi, alla consapevolezza.

 

Liberarsi della propria pagliuzza che impedisca di vedere le reali dimensioni della pagliuzza altrui, simile alla nostra e che la semi-cecità ci fa traveggolare per trave, ma la trave non ce l’ha nessuno, tranne chi ce l’ha voluta mettere nell’occhio dell’umana convivenza. E chi ce l’ha messa questa trave? Non so. Non c’è nessuna pagliuzza, nessuna trave, nessun io che possa permettersi di azzardare giudizi e pregiudizi.

 


Gianluca Garrapa abita al terzo piano di un condominio di fronte a Porta Pisana che ha resistito ai bombardamenti della Seconda Guerra e attualmente in totale quasi stato di abbandono. Per questo ama dicembre.

Pino Pinelli

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di Antonio Sparzani


oggi 15 dicembre 2018 è l’indimenticato anniversario (quest’anno quarantanovesimo) della strana morte di Giuseppe Pinelli, nei locali della questura di Milano

Il 13 febbraio scorso Stefania Consenti pubblicava sul quotidiano “Il Giorno” questa proposta:

L’idea è alquanto suggestiva. E sarebbe un vero regalo alla città. È questa: esporre in modo permanente nel salone dell’anagrafe comunale di via Larga l’opera – dimenticata – di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”. Opera di dimensioni monumentali, di tre metri di altezza e 12 di lunghezza, con 18 figure ritagliate nel legno e unite con la tecnica del collage. Da anni in cerca di una collocazione definitiva, appartiene alla Fondazione Marconi che proprio in questi giorni la espone nelle sue sale.

A dirlo, intervenendo in Consiglio comunale, è stato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno: «Stiamo cercando di capire se è fattibile questa ipotesi di esporre il quadro nel salone di via Larga, che ha un valore simbolico per la vicinanza a piazza Fontana ed è frequentato da tantissimi cittadini». Per Del Corno «questa sarebbe la collocazione migliore». Terminata nel 1972 , l’opera racconta la storia di una moglie e due figlie che hanno perso un marito e un padre, sospettato ingiustamente di essere l’autore della strage di piazza Fontana. Allora Baj disse: «Mi si reclamava una rappresentazione e rappresentazione ho fatto, affinchè testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia». Fu donata a Licia, la vedova di Pinelli, che non sapeva dove tenerla, così l’artista riuscì a venderla alla Fondazione Giorgio Marconi, donando il ricavato alla famiglia Pinelli.
Mio padre avrebbe piacere di regalarla al Comune – interviene il figlio, Giò Marconi dell’omonima Fondazione – e sarebbe un bellissimo regalo alla città. Siamo disponibili a fare tutte le valutazioni con l’assessore Del Corno circa la collocazione in via Larga e la tutela dell’opera. Se ne parla da diverso tempo e penso che anche alla famiglia di Giuseppe Pinelli farebbe piacere. Un modo per non dimenticare e trasmettere una vicenda storica ed umana alle nuove generazioni». Nel 2012, dopo 40 anni, l’opera fu esposta a Palazzo Reale, nella sala delle Cariatidi, per iniziativa di Giuliano Pisapia.

Gli invernali, capitolo primo

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Ovvero, per una “Metafisica della sessualità” in Luca Ricci.

di Matteo Pelliti

Cosa c’entra Schopenhauer con Luca Ricci? Ah, saperlo… Fatto sta che, cercando un libro da appaiare in fotografia – le coazioni da libri instagrammabili – alla bellissima copertina di Saul Steinberg di “Trascurate Milano” (La Nave di Teseo, 2018, pp.86), l’ultimo racconto anti-natalizio di Ricci, mi è caduto in mano proprio quel libretto, “Metafisica della sessualità”, in cui il filosofo tedesco mette in fila le sue idee sui paradossi – e la natura – della coniugalità e della procreazione. Cercherò qui di capire il perché quel libro sia caduto dalla mia libreria proprio mentre leggevo l’ultimo Ricci e anche di spiegare come mai i suoi racconti vengano talvolta fraintesi: sembra che parlino di sesso e invece stanno parlando di scrittura. Milano è un pretesto perfetto, a partire dal titolo preso in prestito da Buzzati, e poiché a Roma l’inverno è inibito dal suo umidore mediterraneo, spostandoci dai recenti “Gli autunnali”, l’ultimo romanzo di Ricci là ambientato, non potevamo che ritrovarci nella capitale del Nord per vivere questo apologo dark, sospeso sul “baratro dell’abisso” morale, nella capitale morale, appunto.

Il primo sospetto che prende il recensore è quello di trovarsi di fronte al primo capitolo di una nuova raccolta di figure della contemporaneità censite da Ricci, Gli Invernali appunto, che costruisce narrazioni di antropologia fantastica intorno al tema della coppia, dell’amore, delle relazioni di forza (possesso, dipendenza) nelle infinite declinazioni dell’eros (la cui massima perversione, come è noto, sta nella monogamia). “In definitiva ciò che attira con tanta esclusività e con tanta forza due individui di sesso diverso l’uno verso l’altro è la volontà di vivere dell’intera specie la quale anticipa un’oggettivazione della sua essenza corrispondente ai suoi fini nell’individuo che quella coppia può generare”, e ancora: “L’impulso che nella coscienza individuale si manifesta come istinto sessuale in generale, e non si indirizza verso un determinato individuo dell’altro sesso, tale impulso è, in se stesso e fuori dal fenomeno, la semplice volontà di vivere. Invece l’impulso che appare nella coscienza come istinto sessuale rivolto a un determinato individuo, tale impulso è, in sé, la volontà che un ben determinato individuo ha di vivere. Ora, in quest’ultimo caso, l’istinto sessuale, che pure è in sé un bisogno soggettivo, sa assumere molto abilmente la maschera di un ammirazione oggettiva e riesce così a ingannare la coscienza: la natura ha bisogno infatti di questo stratagemma per realizzare i suoi fini”. Sembra un cinico filosofema di quelli che, solitamente, gli amanti di Ricci si mettono a fare a letto, monologando con le partner dopo un rapporto, invece è la voce di Shopenhauer. Il molestatore del nostro racconto riflette sulla perversione più grande che l’uomo abbia mai inventato, un atto di palese violazione di tutte le regole imposte da madre natura, cioè la monogamia, il decidere di vivere tutta la vita con un’unica persona; risuonano anche qui le pagine Schopenhauer: una natura che ci guida e ci tiranneggia. Quando Ricci fa dire al suo molestatore che la nostra follia sta nell’avere innescato – ingannati dall’eros – “il processo generativo” e non c’è modo di tornare indietro di “riportare il seme dentro i coglioni”, esprime in realtà questa vertigine: la consapevolezza che in ogni scopata fecondativa siamo scopati dalla Natura stessa. In questa illusione di seduzione vi è qualcosa di profondamente simile al meccanismo seduttivo della scrittura, al potere seduttivo che l’autore vuole esercitare sul lettori. Molto dense e perfettamente cesellate, poi, sono le pagine dove viene evocata la galleria di fantasmi dei progenitori dai quali deriviamo, e la nostra progenie come risultato ultimo di questa selva di fantasmi scomparsi (riemerge qui il tema, già presente in Manganelli, della famiglia come “associazione a delinquere”). Segnalo, a margine, alcune pagine di densa prosa poetica del racconto: un monologo del nostro protagonista intrecciato allo studio della tabellina del nove da parte della figlia prima di entrare a scuola, pagine che – a mio gusto – valgono l’acquisto del libro.

C’è una certa continuità tra i monologhi sul sesso, sulla coppia, come se queste coppie di amanti trasmigrassero tra i letti nelle stanze di alberghi tra un libro all’altro per proseguire un unico trattato teorico (vedi la figura bianciardiana di uno dei racconti de I difetti fondamentali, ma anche certe pagine de Gli autunnali) per le quali si può dire che esista un unico libro che Ricci sta scrivendo, tessendo, con ostinata vocazione. Al recensore si chiede, di solito, di dare anche un accenno di trama senza rovinare il gusto della sorpresa, e allora dirò solo che c’è una ragazzina violenta e nichilista che si fa molestare in metropolitana, uno sporcaccione fedifrago con moglie, figlia e amante storica che molesta la ragazza per un confuso male di vivere, una città capitale morale (ora non ricordo bene i dati sul consumo di cocaina a Milano, ma fa niente…) ritratta nel precipizio del Natale, distopia dei buoni sentimenti commerciabili, con una luce esatta (ecco un altro tratto caratteristico di Ricci: usare la luce per descrivere l’urbanità).

Nell’epoca del #metoo, quale migliore occasione che scrivere una favola natalizia scura che abbia come protagonista un molestatore? E riuscirà il nostro autore a difendersi dalle accuse di misoginia, sessismo, istigazione alla violenza di genere? Il recensore lo spera, appellandosi alla libertà della creazione letteraria e all’intelligenza, ormai poco diffusa, di capire che l’autore – in virtù di quella libertà – non necessariamente coincide con le azioni e i pensieri dei personaggi che s’inventa. Ma, si sa, viviamo tempi un poco dogmatici e scarsamente intelligenti, per questo abbiamo un gran bisogno di buona letteratura.

Il trauma e le radici ( veniva da Mariupol)

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di Valentina Parisi

Natasha Wodin Veniva da Mariupol, L’orma, 2018, pp 384, euro 21, traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat

Tra le pagine più rimosse della storia europea che, malgrado l’accelerazione temporale veicolata dai media, non possiamo non considerare recente, almeno in virtù dei legami di consanguineità che ci legano ai protagonisti più o meno involontari di tali vicende, v’è indubbiamente quella degli Zwangarbeiter, ossia dei “lavoratori forzati” deportati durante la guerra in Germania e nei territori annessi dal Terzo Reich e costretti a contribuire allo sforzo bellico come manodopera ridotta in stato di schiavitù. Un fenomeno che riguardò anche il nostro paese, dal momento che circa seicentomila uomini dell’esercito italiano catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di continuare a combattere al fianco di Hitler e Mussolini e scelsero di restare nei campi di detenzione nazisti, benché lo status di internati militari (e non di prigionieri) elaborato appositamente dal Führer per designarli li ponesse al di fuori delle garanzie stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 1929, consegnandoli a condizioni di vita particolarmente dure.

Se chi tra loro sopravvisse poté comunque far ritorno a casa, in un’Europa devastata dai bombardamenti, seguendo itinerari tortuosi come quelle descritti da Primo Levi nella Tregua, così non fu per i molti Ostarbeiter provenienti dai territori orientali annessi al Reich che non rientrarono mai più in Unione Sovietica – sarebbero stati immediatamente accusati di collaborazionismo. Come tutti gli ex deportati che rimasero segnati per sempre dall’esperienza della riduzione in schiavitù e dell’annientamento della propria dignità individuale, anche loro avrebbero certamente sottoscritto l’affermazione di Mordo Nahum, il “Greco” della Tregua: “Guerra è sempre”. Sempre, e assume di volta in volta le forme della disperazione, dell’obnubilamento psichico, dello spossessamento non solo nei confronti di se stessi, ma anche della propria infelice progenie, messa al mondo in un estremo slancio di attaccamento alla vita.

Ed è proprio la prospettiva di questi ultimi – figli o nipoti – a risultare oggi centrale, stante la scomparsa dei testimoni oculari, in quei testi di carattere memorialistico che continuano a ruotare, ossessivamente, intorno al secondo conflitto mondiale e alle sue conseguenze. Se fotografie, lettere e altri documenti attinti dagli archivi familiari spesso si rivelano reliquie-relitti, frammenti muti interrogati invano, un aiuto inatteso nella riscoperta delle proprie radici arriva talora da quel calderone eterogeneo che è Internet. O, almeno, questo è lo spunto di partenza di Veniva da Mariupol  di Natascha Wodin, autrice tedesca di origini ucraine nata nel 1945 a Monaco di Baviera, di cui Einaudi aveva già pubblicato nel 1995 il romanzo Avrò vissuto un giorno nella resa di Paola Albarella.

Il viaggio nel tempo che ha condotto la Wodin a ricostruire quasi per intero la storia della propria famiglia inizia quasi “per gioco”, quando in una notte d’estate l’io narrante (una traduttrice e scrittrice già in là con gli anni) digita il nome completo di sua madre sulla barra di ricerca dell’equivalente russo di Google. Notevole è il suo stupore nel vedere che il motore di ricerca le restituisce subito i dati anagrafici di lei, rinviandola a un sito dal nome curioso, Azov’s Greeks. Dunque Evgenija apparteneva a quella sparuta minoranza greca che risiede tuttora nella cittadina ucraina di Mariupol’, sulle rive del mar d’Azov? Ma la nonna Matilda non era piuttosto italiana, come le sembrava di ricordare? Assediata da questo e mille altri dubbi, l’io narrante intraprende una lunga ricerca a ritroso, a dispetto delle strategie di rimozione che avevano caratterizzato fino a quel momento la sua esistenza.

Una scelta non sorprendente, stante l’eredità tragica che le era stata involontariamente imposta. L’autrice aveva infatti solo dieci anni, allorché sua madre era uscita di casa in un giorno d’ottobre del 1956 per togliersi la vita non lontano dall’insediamento di baracche in cui abitava con altre displaced persons – così venivano eufemisticamente chiamati nella Germania del dopoguerra gli Ostarbeiter come Evgenija, che a ventitré anni aveva lasciato Mariupol’ insieme al marito per lavorare in una fabbrica del gruppo Flick, vicino a Lipsia. Comprensibile dunque che la Wodin, fin dall’infanzia trascorsa nel ghetto degli ex deportati, avesse tentato di costruirsi un’identità alternativa a quella di partenza, dimenticando anche quel poco che ricordava della madre. Veniva da Mariupol riflette il processo inverso e cioè un’irresistibile, tardiva urgenza che la spingerà quasi parossisticamente a indagare quanto fin lì aveva solo desiderato ignorare.

Un viaggio a ritroso che la costringerà anzitutto a rivedere l’immagine stereotipata che si era fatta del luogo di nascita di Evgenija – una specie di Siberia eternamente ricoperta di neve, ben diversa dall’assolata Mariupol’ della realtà. La protagonista rimarrà piacevolmente sorpresa nello scoprire che da bambina non si era poi tanto allontanata dal vero quando, per impressionare i coetanei tedeschi che la maltrattavano, sosteneva di discendere da nobili russi. I suoi avi materni d’origine italiana erano infatti tra gli abitanti più facoltosi di Mariupol’, avendo messo insieme una piccola fortuna con il commercio di legname.

Tuttavia dalla ricerca emergono particolari sempre più drammatici, come ad esempio l’arresto della zia Lidia negli anni del terrore staliniano e il doppio suicidio della prozia Ol’ga e della cugina Marusja (che negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre non aveva potuto iscriversi all’università a causa della sua origine privilegiata). Il senso di vuoto che aveva perseguitato Evgenija non era dunque dovuto esclusivamente alla deportazione, ma era iniziato già in patria, a causa delle tante sciagure familiari e dell’atteggiamento anaffettivo della nonna Matilda. Eppure per l’autrice lo shock maggiore sarà scoprire come Kirill, il nipote di Lidia ritrovato sempre grazie a internet, abbia ucciso sua madre Svetlana senza apparente motivo: “Sapevo che c’erano degli assassini in giro per il mondo, sapevo anche che tra questi alcuni avevano ucciso la propria madre, ma era possibile che proprio io fossi imparentata con uno di loro? Io che per tutta la vita non ero mai stata parente di nessuno?”

Storia di una riappropriazione “in rete” delle proprie radici, Veniva da Mariupol è dominato da un’intonazione tutta particolare. La sua cifra principale è un’emotività trattenuta, smorzata, quasi in sordina, si potrebbe dire con una metafora musicale che pare tanto più giustificata, visto l’amore della Wodin per il canto. Perfino i dettagli più terribili sono riportati con estrema asciuttezza – si pensi a quando l’autrice, nel riferire che Lidia era stata violentata durante l’interrogatorio nella sede dell’Nkvd a Mariupol’, aggiunge laconicamente che questa era la procedura standard adottata nei confronti delle arrestate. Tale sobrietà si accompagna a un’inevitabile malinconia di fondo: man mano che avanza nella sua indagine, la Wodin si rende conto che Lidia è morta solo nel 2001 e quindi avrebbe potuto benissimo conoscerla, così come avrebbe potuto incontrare il fratello di lei, lo zio Sergej, celebre cantante lirico che abitava a Kiev non lontano dal Majdan: “…Continuavo a cliccare sul file con la voce di Sergej e non sapevo cosa fosse più forte in me, se la felicità per ciò che avevo trovato o il dolore per quel che avevo perso”.

Se le pagine dedicate a Lidia sono basate sulle memorie che ella stessa aveva messo su carta a ottant’anni (e risentono di un effetto di relata refero un po’ goffo), molto più coinvolgente è la terza parte, in cui l’autrice è costretta a dare la stura alle proprie supposizioni per ricostruire l’approdo dei genitori a Lipsia. Significativa è la penuria di documenti su questo capitolo della loro vita, a ulteriore riprova del fatto che il tema degli Ostarbeiter è stato finora cancellato dalla coscienza europea, anche, come ammette la Wodin, a causa della stessa generazione dei figli, impegnati a prendere le distanze dal surplus di tragicità che i genitori avevano consegnato loro. Proprio per questo s’immagina quale sforzo sia costato all’autrice settantenne figurarsi Evgenija ridotta nella fabbrica di Flick “a quello stadio di denutrizione al di là della dignità umana, per cui si pensa solo ed esclusivamente al cibo”. Oppure affrontare a viso scoperto il trauma del suicidio di lei, cercando di comprendere quale abisso di dolore l’avesse condotta a quel gesto.  O, più semplicemente, tornare alle discriminazioni patite in prima persona durante l’infanzia, quando ai Russenkinder figli degli odiati “vincitori” sovietici – in realtà ex schiavi della Germania nazista – si faceva pagare quotidianamente il fio di una sconfitta troppo cocente.

 

 

 

Il loro campo e il nostro

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di Fabrizio Bajec

Ci è stato detto che quando il popolino insoddisfatto delle proprie condizioni sociali si arrabbia ha l’apparenza di una massa informe, disarticolata, piena di rancore, con la bava alla bocca, ma incapace di organizzarsi.

Tasàr. Animale sotto la neve

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di Francesca Matteoni

C’è un rifugio, c’è un monte lì vicino. C’è un campo, qui vivono confusi i solitari. Ogni tanto gli esseri salgono sul monte per guardare dall’alto la terra di Zard all’orizzonte.

Così inizia il nuovo libro di Ida Travi, quinto e ultimo capitolo di una vera e propria saga poetica che ha per protagonisti i Tolki, i parlanti (dall’inglese talk), coloro che hanno un corpo di parola. Abitano la terra di Zard, familiare e ignota al tempo stesso; parlano da un vuoto, uno spazio innevato, portando le cose in essere, quasi a dare senso a un mondo disgregato e, soprattutto, al tempo.

Ti ricordi le rose? Ti ricordi
Quando c’erano le rose?

Un altro tempo racchiuso nel fiore, un tempo forse solo in attesa di tornare dopo un lungo inverno. Scrive Daniele Barbieri nella sua nota conclusiva al libro: “Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro (…). Attraverso tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono”.
I versi sono frammenti di dialoghi fra i personaggi – mormorano nel campo, sulla neve, nel casolare, dall’orizzonte indefinito di luogo ai margini della civiltà, poco prima dei boschi, o di pianura da cui salire, ma dove è facile smarrirsi e il cielo è lontano.

Saliremo sul monte
la neve sopra di noi
l’asino sotto di noi
e intorno le volpi
gli angeli, gli spiriti, i villaggi.

Variano dall’asserzione alla domanda, trascendono il quotidiano cui pure fanno continuo riferimento, diventano lingua spirituale, scarna – la lingua di chi deve stare nella verità. E la verità è sempre insostenibile, va detta sghemba, suggeriva Emily Dickinson, evocata nelle cose povere di una vita – un pettine, una brocca, del pane, un bottone, un chiodo. Reliquie che assicurano il vivente umano della sua presenza, che sembra sempre minacciata e cerca conforto nell’altro cui si rivolge. Noi non leggiamo semplicemente i versi, li udiamo e vediamo, siamo portati dentro da Katrin/Katarina, Fedòr, Ur, Kraus, Sunta,  in modo “affilato e vorticoso”, per parafrasare una definizione di Alessandra Pigliaru, fin dall’inizio attenta osservatrice dei Tolki.  La poesia della Travi scava in responsabilità antiche (qualcosa è stato fatto e non si trova riparo), così come nei desideri, nel vagheggiare  un passato incollocabile, che ci riguarda.  Non seguiamo una storia, siamo afferrati da un discorso che ci travalica, travalica l’ordinario in un sogno lucido dove avviene di incontrare cosa non siamo mai stati, sebbene ci assomigli. Questa sospensione dell’incredulità, un incantamento reale, è la stessa che riconoscerà chiunque abbia sentito Ida Travi dire le sue poesie. E per me è impossibile scindere i libri dalla voce di Ida, ferma, gentile, straniante a tratti oracolare, che rende dignità al nominato e nominabile. Un invito a credere e ricordare, quasi fossero infine lo stesso verbo. Ma chi, cosa?
Forse, mi sono detta più volte, la terra di Zard non è altro che quel paese dell’infanzia divenuto inaccessibile a causa del tempo, eppure fisso, tradotto in modo sciamanico negli oggetti. C’è un bambino prezioso, Antòn, verso cui la poesia si raccomanda:

Devi trattarlo come un uomo, il bambino
devi trattarlo bene, fin dalla nascita
come se avesse la sua volontà

C’è la neve, epifanica e totale, che azzera e spinge lo sguardo verso l’esperienza interiore.
In questo libro tuttavia affiora a tratti quanto è avvenuto in un momento antecedente, una regione e un vivere da cui i personaggi sono stati costretti a partire o che hanno volontariamente lasciato indietro. Siamo alla conclusione e quindi a una risoluzione, per quanto intuitiva e aperta.

Scrive Alessandra Pigliaru: “Diversamente dalle sillogi precedenti, qui i Tolki acquistano la struttura temporale di un tempo trascorso prima che viene restituito a una modernità nota, seppure abbandonata”.  Si parla di schermo, giostra, accendino, automobile oggetti che infrangono la dimensione arcaica e ci riportano al contemporaneo, di cui i Tolki sono consapevoli.  E insieme ai relitti del moderno appare l’animale, l’asino Tasàr, memore del fratello Balthazar nel film di Bresson.  Zampa, coda, muso: attraverso di lui l’immobilità in cui sembra immersa la terra cede, si infrange;  verso di lui c’è un moto affettivo, che dà un nuovo valore alle cose.

C’è del sentimento nella neve,
 
ed ha consistenza e respiro: è nell’occhio animale, nella sua sopravvivenza, nel suo portare, senza lamento, un destino.

L’animale è sacro, non dovete
trattarlo così. Non lo vedete il lampo?
Il diluvio sta per venire
ed è per cattiveria, è solo
per la vostra cattiveria
 
Ha due occhi come voi
ha il naso come voi, come voi
quando portavate gli zoccoli
 
Ha la fronte, come voi, e dietro
la fronte si stende il cielo nero
 
E le nuvole, e il volo degli uccelli
e l’amore che arriva di notte
l’amore che arriva di notte
e si siede sulla branda
non appena si spegne la luce
 
Non appena si spegne la luce
Come voi, come voi
Tasàr, è con voi, nelle tenebre.

Grazie al raglio di Tasàr cade il velo illusorio, perfino i nomi rivelano la loro natura di compromesso col reale; l’asino  fa la carità ai personaggi,

Voi non sapete da dove venite

E no, tu non sei Katarina
e Fedòr non si chiama Fedòr
chissà come si chiama Fedòr.

Essi tornano, si spogliano grazie all’animale, possono finalmente restituirsi al fiume, alla pietra, alla terra. Può la poesia liberare se stessa dal senso e dalle spiegazioni, per dare solo una piccola luce, il piccolo coraggio di guardare.
Nell’asino si condensa tutta la capacità di provare compassione, di difendere quel che resta del bene, un’accettazione dell’esistenza e della sua grazia, più grande dei personaggi che parlano, più grande degli umani che si affannano e perfino più umile e quieta. La parola viene data quindi a chi parola non ha, a chi sta e spera speranze semplici, impronunciabili.
Il bambino verso cui bisogna essere responsabili si avvicina all’animale su cui gettiamo fatiche e crudeltà,  e che pure resta accanto: l’altro, l’altra vita, la fratellanza del tempo d’oro, che forse non si può riattuare, ma chi chiede di essere protetta, preservata,  ultimo e definitivo dei doveri, prima e più forte delle bellezze.

Il bambino e l’animale
sembrano fratelli, sono uguali
aspettano così tranquilli
 
Li chiamo, e non girano la testa
sono d’oro, sono nel tempo d’oro
io non li stacco dalla loro eternità
 
Dovrebbero farci scuola, dovrebbero
dirci cosa c’è nell’oro
perché io l’ho perduto l’anello
e tu?

Ida Travi, Tasàr. Animale sotto la neve (Moretti & Vitali, 2018)

adesso vai (1/2)

2

di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

adesso esci da me
scendi i gradini
scarruffati dal maestrale

off/on

3

(come spesso, la domenica pubblichiamo un post dell’archivio, questo fu pubblicato da Franz l’11 agosto 2008, red)

di Franz Krauspenhaar

off
Con quella maglia di Snoopy
versante calamaro
mi viene da piangere Warhol
minestra, da una siepe maestra
nasconditrice di falsi.
Sembri uscita da una lavatrice,
da una confezione Zuegg
o cornflakes, da una piramide
di latte, da un fiore esploso.

Pasolini traduttore di Eschilo. Il caso dell’Orestiade

0

di Francesco Ottonello

«La trilogia dell’Orestiade è probabilmente il pezzo del teatro greco che io amo di più, o perlomeno che ho amato di più»[1], con queste parole Pasolini si espresse in un’intervista per raccontare del suo incontro con la trilogia di Eschilo, il primo padre della tragedia occidentale. La traduzione pasoliniana, che si svolse nel giro dei pochi mesi concessigli (tre circa) e fu consegnata il 15 gennaio 1960 a Vittorio Gassman che gliela propose, rappresenta un punto di svolta nella biografia artistica dello scrittore.

Risaputa è la presenza del mondo antico nell’opera pasoliniana, studiata approfonditamente riguardo la grecità nel notevole saggio La Grecia secondo Pasolini di Massimo Fusillo (1996), che sottolinea il carattere ossessivo e l’ecclettismo intermediale nella ripresa di motivi legati soprattutto al mito, al rito e al sacro. Basti pensare alle peculiari reinterpretazioni delle tragedie greche in chiave cinematografica quali Edipo Re (1967), Appunti per un’Orestiade africana (1968-1969), Medea (1970), lo spettacolo teatrale Pilade (1966-1967). Meno nota forse, ma particolarmente interessante, è l’attività di traduttore di Eschilo, nello specifico dell’Orestea, o Orestiade come Pasolini stesso preferiva chiamarla. Ci si può legittimamente chiedere se la trilogia tragica portata in scena il 19 maggio 1960 al teatro di Siracusa (per l’INDA) possa essere ancora la stessa opera dell’autore greco, o meglio – se non la stessa – un’opera che seppure trasposta in altra lingua ed epoca, in maniera originale e ricreativa, sia ascrivibile all’autorialità eschilea. La risposta non è certo immediata e a questo interrogativo è dedicato il mio saggio intitolato Pasolini traduttore di Eschilo. “L’Orestiade”. Possibilità e limiti traduttivi nella tragedia greca (GRIN Verlag, 2018), da cui cercherò di mettere in luce qui alcuni punti.

 

Necessaria una premessa circa l’occasione di tale operazione. Difatti, non fu propriamente Paolini sua sponte a decidere di prendere tra le mani il testo eschileo, per renderlo in un nuovo habitus, ma l’opportunità nacque per un evento che potremmo dire fortuito, ovvero la richiesta da parte di Gassman di tradurre l’intera trilogia per una messa in scena che avvenne sotto la regia di Gassman stesso e Luciano Lucignani, rientrando all’interno del progetto di Teatro Popolare di Gassman. La scelta di Pasolini come traduttore atipico – in linea con gli scopi di una netta e intransigente interpretazione “storica” – fu ricercata dai registi, che rifiutavano una resa “archeologica” o “estetica”, condividendo le teorie marxiste contenute nell’Aeschylus and Athens (1941) di G.D. Thomson. Al di là di ciò, come sottolinea l’autore nelle Nota del traduttore[2], seppure il pretesto fosse allora «in un certo senso causale», «non è stato un caso» decidere di tradurre l’opera. Nella stesa intervista già citata Pasolini dichiarò:

«Da allora ho cominciato ad avere per il teatro greco un amore che è rimasto per molto tempo come sopito in me, ed è improvvisamente rifiorito con violenza e addirittura con irruenza in questi ultimi due anni [1966 e 1967] in cui ho scritto io stesso per il teatro, e scrivendo per il teatro sono stato incapace di uscire dallo schema del teatro greco».

Infatti proprio dal 1960, a partire da questa traduzione, ci fu il fiorire di lavori ispirati più direttamente dalla grecità, che comprende l’opera cinematografica e teatrale, ma anche il romanzo incompiuto Petrolio, considerato dall’autore come un poema «che avrebbe dovuto contenere delle strane Argonautiche»[3]  oltre che dei «versi greci della parata dell’Iliade – o latini dell’Eneide»[4]. Inoltre, il 1960 coincise con la “conversione” all’attività di regista cinematografico (iniziò a scrivere il soggetto di Accattone), capitale nel suo percorso artistico, poiché l’espressionismo finisce quando inizia il cinema, il cosiddetto “cinema di poesia”, rappresentante nella visione pasoliniana una forma esasperata di espressionismo. Proprio un gusto espressionistico, in parte, può essere visto come una delle cifre stilistiche del suo dibattuto lavoro traduttivo, caratteristica propria anche delle raccolte poetiche precedenti alla sua Orestiade.

Tralascerò in questo contesto di parlare estesamente delle accese polemiche circa l’operazione pasoliniana, che indubbiamente a livello di messa in scena ebbe un grande successo di pubblico, come riportato da un giovane Andrea Camilleri per “RADIOCORRIERE TV” (N° 12 del 18.06.1960):

«Gli spettatori del Teatro Greco usano comprare, assieme ai cuscini, anche il volumetto della traduzione e con esso si comportano un po’ come i frequentatori dei teatri lirici. Negli anni scorsi abbiamo avuto modo di osservare come il volumetto si rivelasse in certi momenti indispensabile per la comprensione delle battute e non per difetto d’acustica o di dizione ma proprio perché i traduttori, rispettosi del testo originale, si erano preoccupati più della fedeltà filologica che non della necessità di far chiaramente capire quanto veniva detto. Quest’anno invece il volumetto, durante gli spettacoli, è rimasto chiuso sulle ginocchia dello spettatore».

Questo fatto, seppure eloquente, non è necessariamente indice di quella mancanza di fedeltà all’opera eschilea che gli verrà rimproverata da alcuni filologi, quali al tempo Enzo Degani (1961) e più recentemente da Federico Condello (2012), e che verrà apprezzata, invece, da altri studiosi più sensibili al contesto realizzativo della traduzione (quali Nadia Fagioli, Umberto Albini, Massimo Fusillo, Paolo Lago). Questa bipartizione della critica non deve sorprendere, dato che in primis ciò che è fonte sotterranea di contese dialettiche e divergenze è spesso proprio il manchevole accordo sul concetto di fedeltà di una traduzione e sulle possibilità e i limiti che un traduttore debba costringersi a rispettare. Risulta fondamentale considerare, infatti, la differenza di una traduzione eseguita per ambienti settoriali, o non pensata per una sua messa in scena, da quella realizzata per un evento teatrale, atta a trasmettere qualcosa anche a livello più immediato per avere un riscontro positivo. Per riuscire in ciò ed espletare la «valenza teatrale»[5] (Albini), una traduzione non può che essere viva a livello linguistico e stilistico, ovvero utilizzare una lingua contemporanea, inserendosi nel contesto realizzativo con un senso del presente.

 

Ora, possiamo addentraci nelle modalità con cui Pasolini si avvicinò ad Eschilo; come rapportarsi a un testo classico, con quale coraggio e con quale umiltà, con quale ardore e con quale timidezza? Questo pare essere l’originario interrogativo con cui dovette scontrarsi Pasolini per l’approccio a questa traduzione incentrata sulle vicende mitologiche di Oreste.

La prima parola chiave che nella pagina iniziale della Nota del traduttore compare ben tre volte è infatti «istinto»: non potendo che essere «impreparato» di fronte a un confronto di tale portata e da condurre in così breve tempo, il poeta scommise sul suo istinto, sull’enthusiamós, sulla propria naturale vicinanza alla sensibilità dell’opera eschilea e sui mezzi tecnici atti a realizzare tale traduzione, ovvero la lingua del suo idioletto. Al poeta, quasi come se non avesse altra scelta per una resa ottimale, «non […] è restato che seguire il […] profondo, avido, vorace istinto», fruendo dei tre testi consultati per la traduzione (francese, inglese, e italiano, rispettivamente a cura di Paul Mazon, George Thomson, Mario Untersteiner) con la «brutalità dell’istinto», e «nei casi di discordanza, sia nei testi, sia nelle interpretazioni» fare «quello che l’istinto […] diceva». A proposito di un mezzo espressivo da egli posseduto e utilizzabile per questa traduzione, ovvero fondamentalmente l’«italiano […] delle Ceneri di Gramsci», egli aggiunge: «sapevo (per istinto) che avrei potuto farne uso».

Tuttavia, accanto all’istinto, che rappresenta la fase dell’impulso, si può notare un momento di pausa, meditazione, ragione, che si esplica quando egli decide di «combattere» pazientemente contro l’istinto, quando compare «la timidezza di fronte a un grande testo […], che si presenta sotto l’aspetto linguistico dell’inibizione alla traduzione», quando procede «limando» il «sapore» istintivo della prima stesura, quando attua una «correzione di ogni tentazione classicista», seppure «disperata».

Come nella produzione artistica pasoliniana e nell’esistenza stessa condotta dal poeta, è riscontrabile anche in questa operazione un binarismo dialettico che tentenna, oscilla, entra in crisi, si contraddice e fa della contraddizione la sua caratteristica, tanto da essere spesso refrattario ad una sintesi, ad un terzo momento. Ciò nonostante, in questo caso il “terzo momento” è il risultato traduttivo, la trasposizione di una trilogia, in cui nelle Eumenidi – col termine della catena di espiazioni che verte da più generazioni sugli Atridi – «le Maledizioni si trasformano in Benedizioni», ciò che si rivelerà poi essere per l’ultimo Pasolini “apocalittico” solo una grande illusione per il presente. Il finale dell’Orestiade – a differenza dell’Edipo Re sofocleo e della Medea euripidea – si conclude con un finale positivo e redentivo, non è un caso infatti che il film pasoliniano a riguardo non sia mai stato portato a compimento, sfociando soltanto nella forma aperta e in-concludibile degli Appunti per un Orestiade africana. Ed anche nel Pilade, che è l’altra delle tre opere pasoliniane ispirate al mito di Oreste e quella più mitopoietica in assoluto – una personale ed inventata continuazione della trilogia greca – l’utopia della sintesi rappresentata dalla trasformazione delle Erinni in Eumenidi è incrinata; rimanendo sospesa nell’incertezza, nel dubbio. Tuttavia, in quel momento, la visione del poeta era ancora nutrita da un’idea di tempo lineare, da una speranza, da un’utopia, e la lettura dell’episodio delle Eumenidi e del suo acme, ovvero «quando Atena istituisce la prima assemblea democratica della storia», al poeta «dà una commozione più profonda e assoluta» di qualsiasi vicenda di alcun’altra tragedia.

Non mi soffermerò qui troppo a lungo sull’interpretazione ideologica. Mi limito a evidenziare che Pasolini elaborò una vera e propria reinterpretazione personale, pur rimanendo influenzato dall’ipotesi di Thomson per cui il mito di Oreste rappresenterebbe il passaggio da una civiltà prerazionale e tribale basata sul ghenos e retta da un ideale di vendetta, a una società civile e democratica retta da un’ideale superiore di giustizia. Nonostante Pasolini affermasse la preminenza assoluta del significato politico nella tragedia eschilea, la politicità dell’opera non appare esclusiva o limitante, anzi, a mio avviso presuppone una dimensione antropologica. Infatti, all’interpretazione pasoliniana si può meglio associare quella antropologica di Johann Jakob Bachofen, che colse nella trilogia eschilea l’avversato passaggio da diritto matriarcale a diritto patriarcale e per cui la legge materna verrebbe dal basso, da una realtà più ctonia del mondo naturale, mente il Dio padre dall’alto, da un’idea di natura/realtà celeste.

 

Al di là dell’interpretazione ideologica, fu proprio la traduzione in sé a presentarsi come totalmente nuova rispetto alle precedenti. Per prendere in esame il punto di vista stilistico e inquadrare la tipologia di traduzione eseguita da Pasolini sono illuminanti le parole da egli pronunciate nella già precedentemente citata intervista:

«Ho cercato di ridare il testo greco non attraverso una traduzione letterale, che è impossibile, perché i significati delle parole cambiano in ogni era, e non ho cercato nemmeno una mediazione classicistica, ho cercato solo di rifare una traduzione un po’, come si dice, per analogia».

È chiaro da questo passo che Pasolini rifiutò una traduzione più letterale, non ritenendola di giovamento alla restituzione del senso profondo dell’opera, oltre che impossibile per lo scopo prefissato. Pasolini mirava infatti a valorizzare l’incontro/scontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto. Attraverso un processo di varie sostituzioni per «analogia», puntava a «ridare il testo greco» e non a esprimere meramente sé stesso o una sua propria e originale ideologia. Difatti, egli rivive personalmente nell’intimo il testo eschileo per arrivare all’Einfühlung[6], traduce entusiasmandosi. Seguendo il procedimento descritto da Steiner in After Babel (1975), prima dell’«incorporazione» e dei finali «restituzione» o «reciprocità» e dopo l’iniziale «fiducia», è ben descritta da Pasolini stesso la fase di vera e propria «aggressione»[7] al testo eschileo, la quale non è finalizzata a disintegrare, ma a preservare. Egli infatti scrive nella nota di essersi «gettato sul testo, a divorarlo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo, contro un infimo campo visivo».

Nonostante l’istintività e la consonanza con il sentire eschileo (Pasolini in conclusione alla Nota del traduttore scrive che Eschilo è «un autore come io vorrei essere») permangono delle problematicità all’interno del processo traduttivo. Un problema fortemente percepito è quello del linguaggio, poiché mancava un autentico italiano parlato e Pasolini non voleva di certo utilizzare un linguaggio retorico e altisonante, quale quello adoperato da Ettore Romagnoli  (1921, traduzione in endecasillabi). Il testo eschileo non è pomposo o ampolloso come saremmo portati a pensarlo, ma denso concettualmente e scarno allo stesso tempo, ovvero per Pasolini «estremamente strumentale, talvolta fino a una magrezza elementare e rigida» con «una sintassi priva degli aloni e echi» a cui il classicismo ci ha abituati. Pertanto, egli tende a «modificare continuamente i toni sublimi in toni civili» e «da ciò un avvicinamento alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante»[8]. Ciò non significa volgarizzare o appiattire il testo; la sua operazione traduttiva è pur sempre poetica tanto nella sostanza quanto nella forma, poiché utilizza versi liberi e la traduzione seppure si avvicini alla prosa, rimane poesia. La poeticità è conservata attraverso riproduzioni di figure retoriche quali assonanze, allitterazioni, parallelismi ed impiego, talvolta, di termini preziosi vicini alla poesia ermetica. Ben riscontrabile nella traduzione di Pasolini è la tecnica che Franco Fortini chiamerebbe «compenso poetico»[9], per cui il traduttore non può riprodurre gli stessi effetti espressivi dell’originale, ma può riprodurne di nuovi cercando di compensare la perdita. Secondo questa modalità compensativa, «il traduttore attinge ad un repertorio personale di forme e stilemi e procede ad una loro combinazione in presenza, o in occasione, del testo che traduce» e poiché «la traduzione costituisce un nuovo testo, il problema di quest’ultimo è un problema di forma e di stile e quindi di pienezza o solidità o embricazione o attitudine centripeta del nuovo testo».

Una cospicua dose centrifuga è innegabile nella traduzione pasoliniana, come anche un considerevole utilizzo di “parole chiave” tipiche della propria poetica, quali «ossesso»[10] (Eum. v. 83, v. 236, v. 306, v. 859), «impuro» (Eum. v. 204, v.237) con i corrispettivi corradicali, che traducono svariati termini eschilei. In più, per rafforzare i concetti espressi e veicolarli in modo più immediato, è indicativo il fatto che si utilizzi spesso il discorso diretto, anche quando nell’originale greco era presente la forma indiretta. Ancora, Pasolini spesso ricrea le immagini eschilee e trasforma i concetti, per renderli autentici di nuovo, con parole più vicine a un pubblico degli anni Sessanta.

Dobbiamo ricordare, infatti, che il testo dell’Orestea fu composto da Eschilo, oltre che con un senso politico più universale, anche con uno maggiormente legato allo specifico contesto di realizzazione, ovvero la democrazia ateniese in un momento di forte tensione tra forze progressiste e conservatrici. Il 458 a.C. fu l’anno della prima messa in scena alle Grandi Dionisie, ed essa è da intendersi come un “rito teatrale”, con legame alla sfera religiosa ed allo stesso tempo con una valenza civica, in quanto il teatro diventava una piazza cittadina, luogo di discussione della vita politica e culturale della polis ateniese; un luogo in cui il passato mitico a cui la tragedia si riferisce veniva percepito come la rappresentazione trasfigurata della società ateniese. Proprio per dare concretezza alla sua interpretazione ideologica, Pasolini utilizza l’espediente linguistico della sostituzione per «analogia» in modo sorprendente, distaccandosi dall’originale testo eschileo, a volte in maniera azzardata. Essa diede adito alle astiose recensioni da parte dei rappresentanti della filologia tradizionale, rimanendo spesso incompresa e non contestualizzata (al di là di sbrindellature grammaticali sporadiche e talvolta stretta aderenza alle traduzioni altrui più che al testo greco).

Qui, non posso addentrarmi nell’analisi del testo greco e pasoliniano (per cui rimando alla lettura dell’intero mio saggio Pasolini traduttore di Eschilo), limitandomi a pochissimi esempi. È interessante notare come il traduttore si sia comportato nei confronti di termini ed espressioni più strettamente legati al contesto mitologico e religioso dell’epoca di realizzazione. Essi vengono in genere omessi, oppure modificati, proprio perché troppo stranianti ed intesi come ostacolo ad un’immediata comprensione. Esempi emblematici della sua creatività attualizzante si colgono quando decide di tradurre logos con «storia sacra» (già dal v. 4) e Zeus con «Dio» (già dal v. 17), rendere la Pizia con «religiosa», trasformare i “templi” in «chiese», o ancora inserire nella processione finale del coro nelle Eumenidi l’iterata esclamazione «Osanna». Questi pochi elementi presi ad esempio, considerabili “incongruenti” dai puristi, nonostante facciano parte di un lessico di eredità cristiano-cattoliche, sono piuttosto da vedersi solo come analogie sostitutive per attualizzazione, che trovano giustificazione nell’interpretazione ideologica di Pasolini. Viene rimarcata da egli stesso l’allusività del testo eschileo, per una traduzione che potrebbe essere definita anti-filologica secondo una definizione classica della filologia, ed assimilabile quindi, seguendo la storica dicotomia, a una “bella infedele”. Tuttavia, spesso è sfuggito nell’analisi di una tale soggettività traduttiva, il fatto che “soggettività” non è sinonimo di “infedeltà” e che la traduzione di Pasolini non aveva un “obiettivo filologico”. Non bisognerebbe dimenticarsi, infatti, che tradurre significa anche interpretare e che la ricerca di una resa puramente filologica e letterale potrebbe finire proprio, in taluni casi, con lo smarrire il fulcro di un testo poetico. Pertanto, in questo caso, ritengo assai confacente utilizzare il lessico di Franco Buffoni a riguardo, ovvero il termine «lealtà»[11] come sostitutivo di “fedeltà” al testo.

 

Concludendo, da una parte, risulterebbe banalizzante e limitante – volendo stabilire “una volta per tutte” chi sia Eschilo e cosa sia la sua opera – definire il concetto stesso di fedeltà[12] (o tradimento) in traduzione, dall’altra, non sarebbe forse nemmeno corretto tentare di individuare una sola e unica lettura – immobile per sempre – di un testo letterario. Nonostante una dimensione di perdita e rottura, il “rapimento appropriativo” di chi traduce può lasciare all’originale un residuo dialetticamente enigmatico, al punto che l’opera tradotta può venirne anche intensificata. Ricollegandomi a Jacques Derrida, in qualche modo un testo vive sopravvivendo e per sopravvivere deve presentare anche un carattere di intraducibilità, accanto ad uno di traducibilità, dunque «l’originale si dà modificandosi; questo dono non è un oggetto dato, vive e sopravvive in Mutazione»[13]. Concludo, ricordando il concetto di hospitalité langagière di Paul Ricoeur, per cui «al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero»[14]. A fronte di tutto ciò, parlerei di un “incontro trasformazionale” tra due autori, che può dare vita a un’opera antica e nuova allo stesso tempo. La dizione e il senso dell’opera eschilei, di cui Pasolini si appropria, subiscono una metamorfosi per venire ad integrarsi con l’idioletto ed un significato pasoliniani, e che questo lo si voglia considerare fedeltà o tradimento, in fondo, è solo una questione di prospettive.

Riporto, dunque, un curioso caso di consonanza, a partire dai vv. 932-937 di una delle parti focali del canto commatico delle Eumenidi, in cui da “metapoeta” Pasolini esprime in sintonia con Eschilo la sintesi utopica tra cultura arcaica e razionale:

«Chi non capisce che è giusto accettare

tra noi queste primordiali divinità,

non capisce i contrasti della vita:

è la barbarie dei padri che si sconta

davanti ad esse: e un’inconscia empietà,

malgrado i gridi della sua coscienza,

può portarlo a un’oscura rovina».

Tali versi, i quali sono al “limite della riscrittura”, mi hanno riportato al finale del pasoliniano Il canto popolare (1952-1953), per la presenza dell’interazione contrastata tra «incoscienza» e «coscienza» nella «storia» dell’«Uomo», oltreché di termini ricorrenti anche nell’opera eschilea, quali «violenza», «memoria», «ansia di giustizia»:

«Nella tua incoscienza è la coscienza

che in te la storia vuole, questa storia

il cui Uomo non ha più che la violenza

delle memorie, non la libera memoria…

E ormai, forse, altra scelta non ha

che dare alla sua ansia di giustizia

la forza della tua felicità,

e alla luce di un tempo che inizia

la luce di chi è ciò che non sa».

Eschilo nell’intera trilogia scelse di far leva sull’emotività, raccontando una serie mitologica di luttuose lacerazioni giunte a ricomposizione solo nel finale, per proporre non una creazione ex novo, ma una rifondazione etico-religiosa dello Stato. Pasolini riconobbe tale progetto di sintesi come fulcro, lo fece suo per poi riprodurlo. Lo universalizzò, allo stesso tempo attualizzando quello che individuò come senso profondo della tragedia eschilea; realizzando, in definitiva, una traduzione a cui si può imputare il difetto di distaccarsi dal testo fonte, ma a cui non facilmente si può negare il pregio di avere tradotto un Eschilo poeticamente vitale.

[1] Intervento di Pasolini sulla rubrica radiofonica a cura di Ruggero Jacobbi Le belle infedeli, ovvero i poeti a teatro, RAI, gennaio 1968.

[2] Nota del traduttore, in P.P. PASOLINI, ESCHILO, Orestiade, Einaudi, Torino 1960, 19882.

[3] M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini, La nuova Italia editrice, Scandicci (Firenze) 1996 (20072), p. 6.

[4] PASOLINI, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, in Pasolini. Opera completa, Mondadori, Milano 1998, p. 1659.

[5] U. ALBINI, Il banco di prova delle Coefore, in La traduzione dei testi teatrali antichi, Atti del VII Convegno internazionale di studi sul dramma antico. «Dioniso», 50, 1979, p. 51.

[6] L’Einfühlung indica «il raggiungimento del senso interno dell’opera» ed è «un atto sia linguistico che emotivo», in G. STEINER, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 1994  (19751), p. 52.

[7] STEINER 1994  (19751), pp. 354-490.

[8] PASOLINI 1960 (19882),  p. 176,

[9] F. FORTINI, Lezioni sulla traduzione, Quodlibet, Macerata 2011 (19891), pp. 124-125.

[10] Cfr. FUSILLO 1996, pp. 205-206: «L’ossessione è infatti un termine chiave di tutta l’opera pasoliniana, legato alla sfera emotiva, all’indistinzione logica dell’inconscio, alla barbaricità astorica dei sottoproletari, alla ripetizione del rito e del sesso».

[11] «Il termine fedeltà connota guanciali, lenzuola e sotterfugi; il termine lealtà due occhi che fissando altri occhi dichiarano amore ammettendo un momentaneo “tradimento”»; in F. Buffoni, Una piccola tabaccheria. Quaderno di traduzioni, Marcos y Marcos, Milano 2012, p. 14.

[12] Cfr. STEINER 1994 (19751), p. 361: «L’intera formulazione, così come l’abbiamo trovata ripetutamente nelle dispute sulla traduzione, è disperatamente vaga. Il traduttore, l’esegeta, il lettore è fedele al proprio testo, dà una risposta responsabile, soltanto quando cerca di ristabilire l’equilibrio delle forze, della presenza integrale, che la comprensione appropriativa ha sconvolto. La fedeltà è etica, ma anche, nel senso pieno del termine, economica».

[13] J. DERRIDA, Psyche. Invenzione dell’altro, Jaca book, Milano 2008 (19871), p. 242.

[14] P. RICOEUR, La traduzione. Una sfida etica, a c. di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001, p. 50.

Francesca Canobbio – La legge del buio – Skoto-gnosis

3

di Daniele Ventre

La dimensione ontologica enucleata dalla nuova raccolta di Francesca Canobbio, La legge del buio, uscita quest’anno per i tipi di Oèdipus, è un luogo esistenziale liminare. Il buio e la sua legge evocano i passaggi e le figure teoretiche di una tradizione antichissima, che appartiene ovviamente non solo alla poesia, ma anche all’evoluzione del pensiero occidentale, sin dai tempi della cosmogonia della luce e del buio, doxa plausibile che Parmenide, nel suo poema metafisico sull’essere, pone a corollario della sua arcaica fondazione del logos.

In modo a volte deliberato, a volte semiconscio, i versi atonali e le prose ritmiche de La legge del buio elicitano ed esplicitano momento per momento un descensus averni che è nello stesso tempo un’ascesa sciamanica, oscillando fra i due poli dell’esistente che luce e buio rappresentano nella loro immediatezza metaforica. Si viene così tramando un ordito analogico i cui momenti più alti richiamano le forme espressive più aspre e sottili di una tradizione mistica alla Meister Eckhart. Della complessa struttura tematica che la legge del buio in tal modo sottende leggeremo, con trasceglimento forse arbitario, ma necessitato da esigenze di sintesi e di spazio, tre momenti, allo scopo di cogliere uno intuitu, le tappe di questo percorso di descensus/ascesa.

Anzitutto, per ovvia e inerziale dinamica di impatto con l’opera, la lassa incipitaria di versi atonali. In essa la legge del buio, nella sua ambiguità, mostra anzitutto una precisa intenzione cognitiva: il buio è a tutta prima il non essere per come l’occhio, il più intellettuale dei sensi, può (ci si perdoni il paradosso) percepirlo. E tuttavia Francesca Canobbio precisa sin dall’inizio che il buio con la sua legge “non… dettata da notte alcuna”, ha forse sede in un sensorio ontologico-esitenziale interno, in cui la rinuncia a vedere, quel “riposo” che “non è paura degli occhi”, prelude a una “vista così vasta che il buio vince la notte”. Il gioco paronomasico “vista/vasta” chiarisce dunque che la contemplazione/non-contemplazione del buio è effetto di una mente che si circoscrive di fronte alla vastità/devastazione dell’essere. Il “primitivo nero”, questa primalità di un nulla superessente primordiale, “si fa percossa di sguardi” prosegue l’autrice, “e non posso dirmi cieca/ se leggo fra le righe del tempo/ ciò che sono stata, ciò che sono,/ quando arriva ciò che sarò”, si mostra come ambigua evidenza, e nel suo grembo di nulla apparente si rivela invece gravido, portatore di una futurizione implicita. Il tempo, col suo copione di statue, di istantanee, di autostati fissi secondo per secondo in una sequenza di “adesso”, è la trama di questo senso interno del buio gravido di tutto. La prodigiosa sinestesia multipla luce/oscuro/silenzio/parola/pagina/scrittura (“Non c’è copista che mi legga intera/sin da quando sono venuta alla Luce/ ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio/ ed ecco che io perdo la tua mano./ Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei/ di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,/fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace./Le finestre parlano chiaro./Le finestre parlano scuro.”) conclude questo exhordium con un vortice concettuale in cui senso, esistenza, voce, scrittura si compattano in una singolarità concettuale da cui il tutto sprigiona, come da un fiat. Un fiat obscuritas che è nel contempo un fiat lux.

La lingua con cui l’ambigua legge del buio si articola appare sin dall’inizio tramata da un’analoga ambiguità comunicativa, fatta di bisticci, figurae etymologicae e paronomasie, accompagnate da meno appariscenti e più comuni decostruzioni delle trame semantico-sintattiche del linguaggio ordinario: così nella lassa incipitaria che abbiamo appena sommariamente investigata, troviamo “vista/vasta” con tutte le sue implicazioni e connotazioni e sovrasensi, osserviamo giochi e immagini argute sui nessi cristallizzati e gli idiom (“il riflesso … nel vetro di un quadro” o l’esplosione semantica del tema dell’iride, dall’occhio riflettente all’occhio della piuma di pavone), soprattutto reperiamo catene di etimologie (“ritornello… ritorna”; “legge/leggo/legga/leggenda”) in cui la trama di morfi lessicali ricorsivi e di poliptoti crea un sottofondo ossessivo di gemmazioni segniche, paragonabili a quelle che connotano le forme della poesia oracolare sciamanica o rapsodica. Questo tratto specifico dello stile di Francesca Canobbio, già affiorante nel suo precedente libro, Asfalto Rosa, nelle parti centrali de La legge del buio viene accentuandosi e complessificandosi. Ne fa fede ad esempio la lassa IV, sempre in versi atonali, in cui il rampollare delle figurae etymologicae e dei giochi di ambiguità omofonica si accentra sul nucleo tematico del buio che è esso stesso luce, e pone in evidenza un ipogramma di tradizione antica, riecheggiante, in modo semi-conscio, l’invocazione alla tenebra dell’Aiace di Sofocle. Su questo ipogramma si annodano la legge del buio e il buio che legge l’interiorità di quello che per comodità chiameremo il soggetto lirico. Si tratta, appunto della legge di un buio che è più luminoso della luce del sole; ma qui l’omofonia fra il sostantivo “sole” e l’aggettivo “sole” fa affiorare alla razionalizzazione sintattica la dimensione ossimorica originaria del testo (“Il buio è più luminoso della luce del sole, per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal Sole che dal Buio”). Il successivo passaggio logico, “siamo figli del buio e ci brillano gli occhi al pensiero”, è teso fra l’antica inclinazione dell’uomo a preferire alla luce le tenebre, e nello stesso tempo il rimando biblico si intreccia, stavolta in un ossimoro intertestuale, con la constatazione ilarotragica, alla Giorgio Manganelli, della natura discenditiva dell’uomo, del suo clinamen verso il basso (“Il buio mi legge quando sto per cadere./Basterebbe una spinta e giù,/ perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio/ di ogni madre,/che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio”). E tuttavia, nel procedere per associazioni e dissociazioni verbali e concettuali, l’immaginazione dell’autrice, ancora una volta spinta al limite della dimensione mistica, trova in questa natura discenditiva materiata di oscurità, proprio in virtù della sua trama oscura, l’embrione di un’ascesa: “Il buio mi morde, ma il buio mi dona./ Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,/ ma che mi scava una porta per rifugio./ Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra/ da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio. […] Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,/attraverso il buio./ Attraverso buio./ Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno/ ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,/ Mangiastelle, occhi grandi,/pupille.” In particolare la chiusa della lassa IV, “Mangiastelle/ occhi grandi/ pupille”, addensa, nel potere di evocazione del composto, dal tono di fiaba o di canzone per bambini, e dei sintagmi nominali cumulati, il tema dello sgranarsi della luce nel buio, del buio nella luce, dell’essere che si fa notturno nel non essere: siamo di fronte in apparenza a una climax del buio e a un’anticlimax della luce: occhi sempre più grandi, pupille oscure divoratrici di luce; ma al contempo siamo di fronte a un fenomeno specularmente simmetrico, climax della luce e anticlimax del buio, bagliore puntorio e sporadico di stelle che dilata gli occhi, le luci, si riflette nello specchio delle pupille.

La parte conclusiva della raccolta si connota per un progressivo abbandono della struttura cosiddetta versale, a vantaggio del collasso ritmico e grafico dello stico atonale nella lassa di prosa. Sul piano tematico, il buio come intenzione cognitiva delle lasse versali incipitarie, o la legge del buio come natura interna dell’esistenza, viene a maturare la visione dell’effetto della parabola, e del paradosso, che oppone intrecca descensus e ascensione. La trama stilistica delle figurae etymologicae, degli Sprachspiele, si fa più soffusa, messa in sordina. Basti pensare a un testo clou come la prosa del capitolo XII, che è emblematica dei connotati espressivi e tematici della sezione finale dell’opera. I versi e i periodi spezzati, nominali, appaiono in fine agglutinati in periodi-flusso, vi si disciolgono, vi annegano, e a segnare il limite e il ritmo appaiono occasionali alliterazioni, poliptoti, ancora una volta rimandi di radici affini, attorno a grumi di parole-chiave (nella prosa XII, basti pensare a situazioni come “sogno di CONFine entro CONFortevole guscio a noi Familiare e COModo”, “in lui si spegne ONirica in OGNi leTTO disFATTO e riFATTO per la PACE del CORPO fino a che PACE non lo sePAri dal CORPO” “a tutti i periodi che STRUccano in un assolo magnifico ed unico di STRUggente abito STonato…”). Protagonista della lassa prosastica è poi un Icaro che “perde le ali” e il cui volo di falena si conclude in un rogo sulla “candela di elio sovrano”; la sua vicenda e parabola si intreccia con la forma pensiero dell’anima che abita il buio, e che si chiude, ad anello come la vicenda di icaro, nell’aforisma finale, “Nel buio la luce. Sia”, in cui la benedizione mistica del buio (“Sia”) e il richiamo a una fiat di creazione primordiale si intersecano, a concludere un discorso che sfiora i momenti di abbandono più vertiginoso di una poesia mistica al limite della gnosi.

D.V.

______________________

I PARTE

La legge del buio non è dettata da notte alcuna.
Il riposo non è paura degli occhi,
ma spesso la vista è così vasta che il buio vince la notte.
Ecco che l’eco di una o più voci, un ritornello che ritorna
richiama alla memoria quel tanto di nero che ebbero le pupille
sganciate dagli occhi, senza colore, o, se si vuole
temporale d’iride, tutte le iridi non fanno una pupilla
quando il riflesso è solo nel vetro di un quadro,
sia esso l’universo di un pavone come un poeta
che stacca una piuma a favore dello sguardo animale
che soprassiede ogni cosa che siamo
ed il primitivo nero si fa percossa agli sguardi
e non posso dirmi cieca
se leggo fra le righe del tempo
ciò che sono stata, ciò che sono,
quando arriva ciò che sarò
nella tempesta delle statue che portano i copioni
a svolgersi come deve svolgersi un copione
anche dietro ai cori più alti, non sarà che commedia
una cosa ridicola, sempre più imbarazzante per quanto semplice
nel proprio orrore perpetuandosi.
Dite a colui che mi ha scritta che ogni verso si ripiega e torna.
Dite che le lettere non trovano più spazio nel foglio:
è caduto l’inchiostro sulla parola “Amore”.
Non c’è copista che mi legga intera
sin da quando sono venuta alla Luce
ci sono bozze e brogliacci da recitare a braccio
ed ecco che io perdo la tua mano.
Li ho visti sulle scale a bestemmiare su tornei
di lancia, a tirarmi i dadi dell’esistere,
fino a moltiplicarmi i punti sui dadi affinché non avessi pace.
Le finestre parlano chiaro.
Le finestre parlano scuro.
Se mi ritiro per un giorno di dadi forse non cadrà nessun punto.
Se la macchia sul foglio ha consumato ogni favola, non ha cancellato la leggenda.

* * *

IV PARTE

Come ringraziare la legge del buio se il buio mi legge?
Diremo che al buio io sono una presenza, un fantasma.
Il buio è più luminoso della luce del sole,
per quanto siano sole tutte le presenze che distano più dal
Sole che dal Buio.
E’ questione di statistica.
Siamo i figli del buio e ci brillano gli occhi, al Pensiero.
Nel buio il pensiero è fantasia, inesauribile.
Nella fantasia il buio si colora di ricami di originale fantasia.
Nei miei occhi brillano le stelle che cadranno al buio.
Il buio mi legge quando sto per cadere.
Basterebbe una spinta e giù,
perderei ogni luce che abita i miei occhi scavati nel grembo buio
di ogni madre,
che mi precede nel buio e che nel buio trova rifugio.
Chi fotografa il buio una volta
lo porta nel cuore per sempre.
Il buio mi morde, ma il buio mi dona.
Mi dona alla luce che non mi morde come il buio,
ma che mi scava una porta per rifugio.
Siamo i profughi del buio, alla luce, e combattiamo la nostra guerra
da illuminati, se conosciamo la legge del morso del buio.
Ho un capo buio addosso, quando mi parla l’Amore
Ho una corona di stelle sul capo del buio quando sono Amore.
Se spengo la luce sono certa di ritornare alla luce,
attraverso il buio.
Attraverso buio.
Sono di buio se tu mi leggi la notte in pieno giorno
ed io mi accendo di fuoco vivo per cibarci,
Mangiastelle, occhi grandi,
pupille.

* * *

CAPITOLO XII

Icaro perde le ali e la piuma per lasciare il suo segno nel mondo col fuoco del sole dei giorni a venire di lente prodezze della fatica del tempo che si indaga nell’esperienza di un inchiostro che non è che la vita al largo dell’antico sogno di confine entro un confortevole guscio a noi familiare e comodo ad ogni risveglio. Io cerco la pace nei giorni sereni di un mattino ma la mia anima abita il buio e con lui si spegne onirica in ogni letto disfatto e rifatto per la pace del corpo fino a che pace non lo separi dal corpo e gli tenga la morsa serrata sino al crocchiare delle ossa dimenticate sul marciapiede che abbiamo trovato ultimo giaciglio in nostro potere d’uomo con Icaro battuto per terra che lascia per sempre cio’ che lo colpisce a morte e lo divorerà per tutto il percorso della sua vita con chiaro coraggio trascorsa nel tempo di un viaggio che riporta a tutte le fasi della storia umana, a tutti i periodi che struccano in un assolo magnifico ed unico di struggente abito stonato e per persona di maschera in maschera sempre più antica e smodata nei toni, sino al pargolo del proprio figlio, di una prole di cuccioli impegnati a restituire il calore mancante da una vita, quella fiamma del focolare non per ragioni di forza costituiti consanguineamente, ma in virtù del proprio odore e della sostanza che è vera linfa di vita per l’uomo.
Il fuoco sacro dell’affetto è scarso sul suolo terrestre abituale al nostro sentire diurno e abbiamo un sonno per abituarci alla morte che sboccia ogni sera sul cronografo dei giorni e della sfera di spicchi di arancia amara del sole e della fatica umana dell’individuo spremuto in un cocktail stratificato dal ghiaccio dei simulacri della propria anima sempre in una coltre più fitta di lame che squarciano fredde le ali di Icaro al sapore di libertà al podio soffiato sulla candela di elio sovrano che ci infiamma le membra di un colore che solo il bambino può riscoprire nei giochi del mare di un ulisse che guida la nave della avventura ai confini della cromatizzazione terrena.
Nel buio la luce. Sia.

______________________

La legge del buio – Rebstein

La legge del buio – Perigeion

In difesa della Polveriera di Firenze

6

Apprendiamo con stupore che il CdA dell’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio ha approvato, con il solo voto contrario delle rappresentanze studentesche, lo sgombero degli spazi della Polveriera, presso la mensa di Sant’Apollonia.

In questi cinque anni la Polveriera, creata autonomamente da studenti che hanno ripulito, attrezzato e messo in uso tre stanze abbandonate del complesso, ha funzionato, oltre che come aula-studio, come sede e luogo di diffusione di oltre trenta diversi progetti culturali, in campo accademico, tecnologico, artistico, musicale e letterario, non ultimo quel Festival delle Letterature Sociali che da tre anni offre alla città, a costo zero, un festival letterario di livello, cosa tanto più notevole se si considera il grave fallimento, in città, di altri tentativi privati in tale direzione.

Se questo si aggiunge lo spopolamento in corso del centro storico di Firenze, sempre più piegato alle esigenze del turismo di massa, e la difficoltà crescente per i cittadini di condurvi una vita piena, fatta anche di studio e socialità, si capisce come i pochi spazi culturali rimasti in centro risultino indispensabili. Non è un caso che in altre città – si veda ad esempio Milano con lo spazio Macao – si sia deciso di confrontarsi con chi fa cultura dal basso, onde tutelare e valorizzare tali esperienze, cosa tanto più necessaria nell’attuale e difficile situazione politica nazionale.

Come accademici, scrittori, artisti, critici e curatori che fanno base a Firenze, e che sono stati spesso ospiti di eccellenti iniziative culturali in tali spazi, chiediamo all’ARDSU e alla Regione Toscana di aprire un dialogo con il coordinamento della Polveriera, oltre che un tavolo in cui si lavori in modo condiviso per stabilire il futuro del luogo, tenendo conto dei risultati dell’attuale gestione, e cercando di garantire la sopravvivenza dei molti progetti che lì hanno trovato casa.

Francesco Ammannati, storico
Simona Baldanzi, scrittrice
Luca Baldoni, poeta
Carlo Benedetti, curatore
Diego Bertelli, critico
Raoul Bruni, critico
Sara Cassai, curatrice
con.tempo, rivista
Collettivomensa, rivista
Andrea Caciagli, redattore
Salvatore Cherchi, redattore
La Cité, libreria
Francesca Corpaci, scrittrice
Silvia Costantino, curatrice
eFFe, editor
Effequ, casa editrice
Firenze RiVista, festival
Francesco D’Isa, scrittore e artista
Federico Di Vita, scrittore
KweenD.O.L.O., MC
L’Eco del Nulla, rivista
Daniele Gambit, scrittore
Giuseppe Girimonti Greco, traduttore e editor
Ilaria Giannini, scrittrice e giornalista
Machine Funk, crew
Simone Lisi, scrittore
Gregorio Magini, scrittore
Vincenzo Marasco, sociologo
Ferruccio Mazzanti, scrittore
Francesca Matteoni, scrittrice
Gabriele Merlini, scrittore
Elisabetta Meccariello, scrittrice
Valerio Nardoni, scrittore e editore
Francesco Quatraro, editore
Matteo Pascoletti, giornalista
Daniele Pasquini, scrittore
Giulio Pedani, scrittore
Alberto Prunetti, scrittore
Alessandro Raveggi, scrittore
Edoardo Rialti, critico e traduttore
Filippo Rigli, scrittore
Fabiagio Salerno, architetto
Matteo Salimbeni, scrittore
Marco Simonelli, poeta e traduttore
Vanni Santoni, scrittore
Street Book Magazine, rivista
Associazione Three Faces,
The FLR, rivista
Andrea Zandomeneghi, scrittore

aderiscono dall’Italia:

Mariasole Ariot, poeta
Marco Balzano, scrittore
Alessandro Bertante, scrittore,
Gianni Biondillo, scrittore
Laura Bosio, scrittrice
Caterina Bonvicini, scrittrice
Azzurra D’Agostino, poeta, scrittrice
Claudia Durastanti, scrittrice
Angelo Ferracuti, scrittore
Giorgio Fontana, scrittore
Fabio Geda, scrittore
Lisa Ginzburg, scrittrice
Helena Janeczek, scrittore
Nicola Lagioia, scrittore, direttore del Salone Internazionale del Libro
Marco Mancassola, scrittore
Bruno Luca Maida, scrittore
Marina Mander, scrittrice
Federica Manzon, scrittrice
Michela Marzano, scrittrice
Antonio Moresco, scrittore
Renata Morresi, scrittrice
Michela Murgia, scrittrice
Davide Orecchio, scrittore
Francesco Pacifico, scrittore
Lorenzo Pavolini, scrittore
Laura Pugno, scrittrice, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid
Christian Raimo, scrittore
Alessandro Robecchi, scrittore
Evelina Santangelo, scrittrice
Alessandra Sarchi, scrittrice
Tiziano Scarpa, scrittore
Igiaba Scego, scrittrice
Antonio Sparzani,fisico, scrittore, Nazione Indiana
Carola Susani, scrittrice
Andrea Tarabbia, scrittore
Nadia Terranova, scrittrice
Filippo Tuena, scrittore
Chiara Valerio, scrittrice
Giorgio Vasta, scrittore
Wu Ming, scrittori
Alessandro Zaccuri, scrittore

Infanzia

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di Barbara Lisci

Io quando sono nata me lo ricordo. Mia madre strinse le labbra fra i denti, che tanto sapeva che gridare non le sarebbe servito a nulla. E nemmeno imprecare. Io ero il suo secondo, atroce, dolore. Lo sapeva dal primo: mio fratello. Aveva sputato, gridato infamie, pregato Iddio. Ma il dolore non era cessato. Anzi, era stato un crescendo vorticoso che la faceva impazzire. In quelle grida strazianti, vi si poteva leggere di tutto: il terrore di finire come tzia Mariedda, inferma sulla sedia a rotelle, l’orribile fracasso degli ossicini rotti, com’era accaduto a signorina Elvi, quando avevano dovuto estrarle con la forcipe il bambino ormai morto, la frustrazione di una vita passata senza gioie, ma solo rassegnazione e sacrifici.

Eppure venni al mondo rosea e liscia, come se non avessi ereditato alcuna sofferenza. I primi anni li passai nella totale incoscienza, ma con una curiosità irresistibile verso il mondo delle cose, delle persone e dei colori. Mio fratello, di quindici mesi più grande, era il mio eroe. Io lo emulavo in tutto, persino quando pisciava nel vasino. Anch’io machio – dicevo, abbassandomi i calzoncini e le mutande. Mi tiravo il bottoncino dell’ombelico e con una mano tenevo il vasino. Ma poi la pipì usciva da “ancora più sotto”, formando una pozza calda sul pavimento. I miei ridevano, ma certe volte mia madre strillava che aveva appena lavato il pavimento. E io non capivo cosa avessi sbagliato.

Fervente cattolica, all’asilo mia madre ci mandò dalle suore in su bixiau becciu. Capii presto che lì, era vietato sbagliare. Vietato sporcarsi il grembiulino rosa, vietato portare i calzoncini per le bambine, vietato urlare di gioia scendendo dallo scivolo. La trasgressione veniva sancita in punizioni corporali, castighi che duravano ore restando immobili nel corridoio e nel continuo stillicidio psicologico del “Gesù si arrabbia”! L’ultima volta che Gesù si arrabbiò avvenne quando mio fratello scappò dall’asilo. Stanco di stare in piedi a contare le pietruzze incastrate nelle mattonelle, quatto-quatto, Andrea aveva varcato l’uscio, attraversato il cortile di ghiaia e scavalcato il cancello. Le suore l’avevano cercato dappertutto, prima di chiamare i carabinieri, svuotando persino la vasca dei pesci rossi. Mio fratello era semplicemente tornato a casa, a riposarsi. Aveva attraversato mezzo paese, e pure i binari della ferrovia, fermandosi davanti alle locandine del cinema, per leggere la programmazione in corso.

Le suore avevano nomi inusuali. Si chiamavano suor Candida, suor Immacolata, suor Maria. Qualche tempo dopo scoprii che non erano altro che nomi fittizi, scelti nel noviziato da loro stesse. In realtà, all’anagrafe, avevano nomi lunghi e desueti: Ermenegilda, Veneranda, Eustachia. Io, ingenuamente, ne avevo dedotto che se alla nascita ti appioppavano un brutto nome, l’unica salvezza che ti restava per cambiarlo, era quella di diventare suora! Quello che non riuscivo a capire però, era perché la parola divina del vangelo dispensasse tanto amore e loro, le serve di Dio, fossero così cattive.

La volta che mi toccò la più grande punizione eravamo sotto Natale, quando il “Gesùbambino” dell’asilo mi aveva portato una bambola di pezza. Fu anche la mia prima delusione, perché avevo pregato tutto l’anno e speravo di ricevere il camion come quello di mio fratello. Invece tra le mani, lo sguardo terrorizzato della bambola di pezza, guardava proprio me. Avevo strillato e pianto come un’ossessa tutto il pomeriggio, fino a farmi mancare il respiro. Quando mio padre arrivò a prenderci, io me ne stavo buttata a terra con la faccia tutta rossa e i pugni stretti in una morsa di rabbia e disperazione. Ma non c’era verso di farmi ragionare.
– Le femmine giocano con le bambole, disse mio padre.
Ma non aveva molta pazienza, e nemmeno argomenti convincenti. Così, mi strappò dalle mani quell’orrore di pezza, lo portò dalle suore e tuonò: – Datele il camion!
Loro, rosse dalla vergogna, avevano dovuto ricapitolare e io sapevo che l’avrei pagata cara.

A cinque anni, curiosa come una scimmia, mi apprestavo a compiere il mio primo progetto di sabotaggio della Fede. Da sempre, ebbi la convinzione che sotto il loro velo, le suore portassero i capelli corti come quelli dei soldati. Se fossi riuscita ad averne le prove, giurai a me stessa che non avrei più indossato una gonna. Misi le dita a mo’ di pinzetta e tirai con tutte le mie forze di bambina. La testa svelata di suor Candida era rasata e grigia, piena di forfora e chiazze rosse. Per poco non bestemmiò, tirandomi un ceffone e riprendendosi il suo velo nero. Le altre suore erano accorse in suo aiuto e io fui portata per un orecchio dalla direttrice. Mia madre fu chiamata a rapporto, mi picchiò anche lei e tornammo a casa con la pena di venticinque preghiere al giorno e con la promessa che non l’avrei fatto mai più.

All’epoca mi ero messa in testa che da grande volevo fare la missionaria. Scoprire mondi lontani, viaggiare con l’aereo, andare a conoscere i bambini che morivano di fame, perché quando non volevo mangiare il minestrone coi cavoli, le suore mi obbligavano a finire tutto nel piatto dicendomi: – Per ogni volta che non vuoi mangiare il minestrone, un bambino sta morendo nel Biafra. E io, per quanto spremessi le meningi del mio piccolo cervello, non riuscivo a capire il nesso tra il minestrone e il bambino che muore di fame. Ma nonostante tutto, il mio senso di colpa era perenne. Un giorno dell’ultimo anno d’asilo, ch’era il 1978, faceva un’afa insolita, tant’è che le suore abbassarono tutte le saracinesche perché il vento, simile a quello che emetteva il phon, non disturbasse il quotidiano riposino pomeridiano. Stavamo tutti chini con la testa sul banco a far finta di dormire, per far piacere a Suor Maria quando bussarono alla porta e Suor Giovanna entrò in lacrime: – Hanno ucciso Aldo Moro, disse, e si abbracciarono tra le lacrime e le convulsioni. Quando tornai a casa dissi a mia madre: – Mamma oggi è morto un vicino di casa delle suore. Mia madre cominciò a piangere anche lei, però alternando risate e lacrime e io non ne capivo il perché.

Ho fatto la comunione vestita da monachella con l’abito di mia cugina, perché mia madre non aveva soldi per comprarmi il vestito da sposina come quello di Flavia, la mia amica del cuore. Dopo di che, ho cominciato a bigiare la messa; un po’ per la vergogna di essere stata immortalata con quella orribile tunica color crema e quel velo ch’era simile a quello di suor Candida; un po’ perché la messa era uguale a quella della domenica precedente e dell’altra ancora e io ne conoscevo a menadito tutto il procedimento: in piedi, seduti, in ginocchio. E quando mia madre ci dava le 100-200 lire per l’offerta ai poveri, io uscivo di casa col vestito della domenica e trainavo mia sorella ai giardinetti. Con quei soldi compravo un sacchetto di patatine, e dividendocele, convincevo Emanuela a non dire nulla a mamma, che tanto eravamo poveri anche noi.

Quando trovarono il ragazzino, nudo, sulle gambe di Don Lecca, nel mio vicinato scoppiò un casino: c’era chi parlava di pedofilia (ma io non sapevo cosa volesse dire), chi ritirò i suoi figli dal catechismo, chi difendeva il parroco dicendo che le sue mani erano quelle di gesù, ricordando i versetti del vangelo: Lasciate che i pargoli vengano a me. Io, dal quel giorno, non misi più piede in una chiesa e smisi di credere nelle favole.

La letteratura italiana con gli occhi di fuori #2 : mandato sociale, posterità, riviste

1

Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori e Giuseppe Schillaci, ossia Il Cartello, hanno curato su invito di Luigi Grazioli un intero numero di “Nuova Prosa”, il 69. Presentiamo qui le ultime tre voci dell’editoriale scritto a otto mani e la nostra nota introduttiva sulle modalità di realizzazione del numero.

EDITORIALE A PIÙ VOCI

MANDATO SOCIALE (A. I.)
Oggi si tende a fare questo ragionamento: una volta gli scrittori (narratori, poeti, drammaturghi) avevano un mandato sociale, la loro arte letteraria riguardava la nazione, o il popolo, o la formazione dei cittadini. Questo accadeva ancora nel Novecento.

Preparazione dell’orda

2

di Gianluca Gigliozzi

( si tratta  della seconda scena del dramma per sole voci Terrore e miseria nella Terza repubblica.g.m.)

[Rumore di fiamme, sirene, fragore di mezzi di trasporto, piccole esplosioni, voci al megafono che pronunciano parole incomprensibili, poi questi rumori si attenuano e passano in sottofondo, strepiti e riverberi in un ambiente ampio, vociare di più persone, voci gracchianti dalle radioline, schioccare di passi]

 

POLIZIOTTO 1: Ecco, da questa parte!

POLIZIOTTO 2: Qui accomodatevi pure per terra!

POLIZIOTTO 1: Signore e signori, fate un po’ di spazio per favore!

POLIZIOTTO 1: Lei può sedersi qui!

POLIZIOTTO 2: Voi invece potete sistemarvi laggiù!

POLIZIOTTO 1: C’è posto là? Non vedo!

CITTADINO 1: Sì c’è posto per un paio di persone, venite!

POLIZIOTTO 1: Coraggio, da quella parte, su!

CITTADINO 2: Agenti, potreste dirci come va là fuori?

POLIZIOTTO 2: La situazione è sotto controllo, ma non possiamo rischiare per il momento di lasciarvi andare.

CITTADINO 3: Ma quanto prevedete che dovremo restare ancora qua dentro?

POLIZIOTTO 1: Purtroppo non lo sappiamo ancora. Dovrete pazientare ancora un po’.

POLIZIOTTO 2: Per ora non sembrano esserci più problemi, ma per la vostra sicurezza dobbiamo prima essere più che sicuri che una volta usciti non correrete più alcun pericolo.

POLIZIOTTO 1: L’importante è che ve ne stiate tranquilli qui, questo vi raccomando.

POLIZIOTTO 2: Dovete fidarvi di noi e delle forze speciali. Stiamo facendo tutto il possibile per riportare la situazione alla normalità.

CITTADINO 4: Già, ma qui nessuno ci dice qual è questa situazione. Io non ci ho capito nulla!

CITTADINO 5: Molti in effetti non hanno fatto in tempo ad accorgersi di quello che è realmente successo! Tutto troppo rapido!

CITTADINO 6: Io e mio marito ci siamo ritrovati spinti qua dentro senza neanche capire bene come ci siamo finiti.

CITTADINO 7: Si tratta di un attacco terroristico?

CITTADINO 8: E certo che si tratta di un attacco terroristico, se no di che?

[vociare nervoso di malcontento]

POLIZIOTTO 1: No, signori, dovete mantenere la calma!

POLIZIOTTO 2: Non si è trattato di un normale attacco terroristico… le cose sono più complicate.

CITTADINO 7: Perché agente ci sono attacchi terroristici normali e attacchi anormali?

POLIZIOTTO 1: Non è questo il punto, signore. Lo stato delle cose è in via di accertamento, per ora non tutto è così chiaro.

CITTADINO 8: Ma io ho sentito sparare! Che me lo sono inventato?

CITTADINO 9: Io solo pochi colpi, ma ho visto un cassonetto bruciare!

POLIZIOTTO 1: Ascoltate/

CITTADINO 6: Io ho sentito un gran fracasso, tipo rumore di vetri infranti, ma non ho fatto in tempo a vedere nulla!

CITTADINO 5: Con tutte le sirene che si sentivano, io, questi spari e fracassi, se ci sono stati, non li ho proprio sentiti!

CITTADINO 8: Io invece ho sentito sia degli spari che delle piccole esplosioni!

POLIZIOTTO 2: Ascoltate signori, non dovremmo sbilanciarci, anche perché andiamo di fretta e i nostri colleghi ci stanno aspettando all’esterno… però ecco, mi sembra giusto che siate aggiornati un minimo su quel poco che finora abbiamo avuto modo di vedere direttamente o di sapere dai nostri colleghi e dai superiori. Allora, i fatti appurati sono questi. Era in corso una manifestazione di immigrati. Procedeva pacifica e regolare. Ma a un certo punto hanno iniziato a scaldarsi un po’ troppo, ad alzare la cresta diciamo. Ci urlavano contro, ci sputavano, ci tiravano immondizia. Avanzavano minacciosi per cui abbiamo dovuto caricarli, ma quelli, invece di arretrare, hanno iniziato a tirarci sassi, bidoni e pure molotov! Subito dopo si sono dispersi, ma in piccoli gruppi hanno proseguito l’attacco da punti diversi del quartiere, mettendoci in seria difficoltà.

POLIZIOTTO 1: Una vera e propria guerriglia urbana.

POLIZIOTTO 2: In dieci minuti si è scatenato di tutto e di più. Gli interventi delle forze di polizia e delle forze speciali non sono stati rapidi, sono stati ultra-rapidi! Voi non avete fatto in tempo ad accorgervi di quel che accadeva perché il momento più drammatico è durato una manciata di minuti, e ovviamente non ha riguardato questo isolato, ma il corso principale.

CITTADINO 1: Ci sono stati feriti tra i nostri?

POLIZIOTTO 1: Un paio di feriti lievi. Due fotografi, mi pare, che si trovavano proprio lungo il corso, per seguire la manifestazione.

POLIZIOTTO 2: Bene, noi ora però dobbiamo lasciarvi. Speriamo entro un’oretta massimo di potervi venire a riprendere ed accompagnarvi fuori.

CITTADINI 1,2 3,4,5 (insieme ma un po’ sfalsati): Grazie, agenti!

POLIZIOTTI: Dovere!

POLIZIOTTO 1: Solo un’ultima cosa: avete chiamato i vostri cari per rassicurarli? Avete avuto problemi con la linea telefonica?

CITTADINI 1,2 3,4,5 (insieme ma un po’ sfalsati): No, nessun problema.

CITTADINI 6, 7: No, qui prende bene!

POLIZIOTTO 1: Vi chiedo ancora una volta: qualcuno di voi deve assumere farmaci d’importanza vitale entro due ore?

CITTADINI 1,2 3,4,5 (esitanti, insieme ma un po’ sfalsati): No, no, nessuno!

POLIZIOTTO 2: Ok. Bene. Allora noi usciamo. Mi raccomando eh? Niente colpi di testa! Restate assolutamente qui, fermi e tranquilli. Fatevi una bella chiacchierata. Pensate che è un pomeriggio diverso dai soliti. Presto sarete a casa e avrete qualcosa di diverso da raccontare!

POLIZIOTTI:  A tra poco allora!

CITTADINI 1,2 3,4,5 (insieme ma un po’ sfalsati): A tra poco!!

[passi degli agenti che si allontanano, svanisce il rumore delle radioline trasmittenti]

CITTADINO 1: Voglio vedere quanto dura questo “tra poco”!

CITTADINO 2: Già, da quant’è che ci hanno spedito qui dentro?

CITTADINO 3: Neanche mezz’ora!

CITTADINO 2: Ma dài, mi sembravano già due ore!

CITTADINO 4: Sarà l’angoscia che fa sembrare che ne è passato di più.

CITTADINO 6: Non ci entravo da anni in questo posto.

CITTADINO 5: Beh è stato uno dei primi negozi del quartiere a fallire con la crisi.

CITTADINO 1: Vuoto così fa abbastanza impressione.

CITTADINO 2: Quanta polvere!

CITTADINO 3: Speriamo si sbrighino.

CITTADINO 4: Io non ce la faccio a starmene seduto tranquillo, devo farmi un giro.

CITTADINO 5: Datti una calmata!

CITTADINO 6: Per adesso la luce di fuori basta, ma più tardi bisognerà accendere quella elettrica.

CITTADINO 7: Non ci hanno detto niente della luce però.

CITTADINO 6: Non possiamo restare mica al buio.

CITTADINO 1: Magari non ce ne sarà bisogno.

CITTADINO 2: Certo che è una situazione assurda.

CITTADINO 3: Sì è pazzesco.

CITTADINO 4: Chissà come diavolo stanno davvero le cose?

CITTADINO 5: Dici che non ci hanno detto tutto?

CITTADINO 6: Ma sì, sembravano proprio dei bravi ragazzi.

CITTADINO 7: L’importante è che sistemano tutto prima possibile. Non ho nessuna intenzione di perdere il pomeriggio dentro sto negozio abbandonato.

CITTADINO 1: Certo che è assurdo anche che non abbiamo fatto in tempo ad accorgerci di niente.

CITATDINO 8: Parli per lei, signore! Io ho visto abbastanza. Un gruppo di quei figli di puttana me lo son ritrovato alle spalle. Scappavano come forsennati.

CITTADINO 7: Ha fatto in tempo a vedere se erano armati?

CITTADINO 8: Diversi avevano delle bottiglie in mano.

CITTADINO 6: Molotov!

CITTADINO 2, 3: Porca vacca!

CITTADINO 9: Beh, un cassonetto l’ho visto bruciare, potete giurarci!

CITATDINO 4: Si sono scatenati!

CITTADINO 5: Scusate ma voi che siete arrivati per ultimi, avete visto qualcosa di più?

CITTADINO 10: No, veramente noi venivamo da via [//] e abbiamo sentito un po’ di fracasso, ma figuratevi che ci sembrava un concerto!

CITTADINO 11: Sì, allora ci siamo incuriositi e ci siamo diretti verso il corso, ma dopo pochi istanti ci è venuta incontro una pattuglia di teste di cuoio… ci hanno afferrato sottobraccio e in un attimo ci hanno trascinato fino a questo isolato..

CITTADINO 12: Ci hanno consegnato a quegli agenti che ci hanno portato di filato qui… insomma ne sappiamo anche meno di voi!

CITTADINO 7: Quindi nessuno di noi veniva dal corso. Magari poteva aver incrociato la manifestazione.

CITTADINO 5: Veramente io sì, ho attraversato il corso… non ero diretto da questa parte, ma quando ho visto che c’era gente che correva da tutte le parti e che gridava e che c’era un gran baccano, ho pensato di fare una deviazione.

CITTADINO 4: Adesso che ci penso, io avevo notato in zona una certa concentrazione di facce nere, però non ci ho fatto caso più di tanto. Insomma siamo in città, capita! E comunque non mi sembravano tanti.

CITTADINO 7: Magari erano tanti, però tu (scusa se ti do del tu) non te ne sei accorto perché non avevi dato tanto peso alla cosa.

CITTADINO 4: Sì magari erano tanti, non so. Non passo il pomeriggio a contare i neri – o quello che sono – che vedo per strada.

CITTADINO 9: Già non finiresti più, visto che ormai sembra che sono più loro di noi!

CITTADINO 8: Attentato, rivolta andata a male, guerriglia urbana… anche se gli agenti ci hanno detto tutto quello che sapevano – e io penso che sia così –  non starei così tranquillo, se vogliamo esaminare la cosa con un po’ di lucidità…

CITTADINO 10: Vuole dire che là fuori le cose si stanno mettendo peggio di come ci hanno raccontato?

CITTADINO 11: Non creiamo inutili allarmismi.

CITTADINO 8: Non mi riferisco alla situazione che ci riguarda ora, in questo preciso momento, in questo pomeriggio! Mi riferisco alla situazione nel suo insieme, lo capite? Quello che ci è successo oggi è solo una piccola parte di una roba più grossa.

CITTADINO 12: Si spieghi!

CITTADINO 8: Voglio dire che quello che è successo a noi oggi è un episodio di un qualcosa di più grande che ci riguarda tutti e che sta per travolgerci nonostante si continui perlopiù a far finta di nulla.

CITTADINO 9: A far finta di cosa? Io – parlo per me – sono anni che mi sono accorto che questi immigrati, a forza di farli entrare, ci avrebbero portato sempre più casini.

CITTADINO 8: Sì, ma continuiamo a pensare che questi che Lei chiama casini non si sarebbero sommati tra di loro, fino a formare un Casino Enorme, quando invece alla fine si sono sommati e si sommano tra di loro, eccome se si sommano! Non so se mi spiego, caro signore…

CITTADINO 7: Tutti, penso che, come cittadini, siamo consapevoli della situazione pessima, per non dire schifosa, solo che non abbiamo soluzioni.

CITTADINO 8: No amico, io la soluzione ce l’avrei, sono i nostri politici che non ce l’hanno la soluzione!

CITTADINO 6: Per favore, non confondiamo i politici che per anni non hanno saputo gestire la cosa con quelli che ci sono adesso, che invece la cosa stanno provando a gestirla!

CITTADINO 8: Si vede con che risultati!

CITTADINO 6: I buchi da tappare sono troppi, tanti che lei neanche s’immagina, caro signore! Non è facile gestire una situazione così dopo che per anni è stata fatta una politica sbagliata da cima a fondo!

CITTADINO 9: Anche perché hanno, anche questi di ora, comunque le mani legate.

CITTADINO 8: A quelli che ci governano fa comodo averle legate, vi assicuro! Ce l’avranno comunque il loro tornaconto. Invece siamo noi che dobbiamo vedercela direttamente con le conseguenze della loro incapacità ad affrontare questa situazione!!

CITTADINO 9: Non è che non lo sanno come sarebbe meglio fare. È che non possono farlo.

CITTADINO 6: Secondo me fanno abbastanza, considerato tutto.

CITTADINO 8: Sta di fatto che fino a qualche mese fa queste cose, nelle nostre città, non sarebbero mai successe, né a nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente che potessero accadere. Dite la verità, ci avete mai pensato che un giorno sarebbero potute accadere cose così?

CITTADINO 1: … beh in effetti…

CITTADINO 2: … proprio in questo modo no…

CITTADINO 7: Uno cerca di tirare avanti, che già è difficile campare in questo paese con sta crisi nera che continua! Se ci si deve mettere anche a prevedere tutti i casini possibili e immaginabili allora stiamo freschi!

CITTADINO 5: Già, ha detto bene, la crisi che continua! alla faccia di quelli che dicono che c’è la ripresa! Ma quale? Ma quando? Ma un contatto con la realtà vera ce l’hanno?

CITTADINO 6: Certo che continua! Ma la crisi viene da lontano. Il problema è che invece di prenderla di petto, con soluzioni ad hoc, si pensa di cavarsela aprendo i mercati e spalancando le porte ai migranti!

CITTADINO 7: In più questi flussi non si è saputo gestirli – ci si faceva belli ad accoglierli –l’umanità, la civiltà, tutto ok, bene – ma poi? Dove li piazzavamo questi qui? E con che prospettive? Ed ecco che ci ritroviamo con questi balordi che si inferociscono…

CITTADINO 10: Forse era meglio sistemare le cose in modo da non arrivare al punto di farli inferocire.

CITTADINO 9: E come, sentiamo?

CITTADINO 10: Beh, ora ricevono meno soldi dallo Stato con questo governo…

CITTADINO 11: La situazione è diventata bollente in certi centri di accoglienza.

CITATDINO 12: In più, togliendo i fondi, si fanno chiudere cooperative che curavano l’accoglienza col pretesto che ci lucravano sopra.

CITTADINO 4: Perché non è vero?

CITTADINO 10: Sarà anche vero, però poi diventa comunque molto più difficile fare qualcosa per mantenere tranquilli i disperati in attesa di tempi migliori per tutti.

CITTADINO 5: E se ci fossimo stufati NOI di mantenerli?

CITTADINO 10: Ormai quelli che sono dentro son dentro; che ci fai, li bruci?

CITTADINO 11: Anche smantellare i campi di accoglienza gestiti da volontari per ristabilire il decoro cittadino, senza offrire delle alternative abitative, è stato un errore tattico che potremmo pagare caro… da allora, se ci fate caso, la tensione è aumentata in quei territori.

CITTADINO 9: Insomma dobbiamo farci andare bene tutto?

CITTADINO 10: Cerco solo di dire che se hai una bomba in casa cerchi di disinnescarla, non di aumentare le probabilità di farla esplodere.

CITTADINO 8: La bomba in casa resta una bomba in casa, giovanotto. Qualcuno di voi vuole una bomba in casa anche se sa che è disinnescata?

CITTADINI 1, 2, 3 (insieme, ma sfalsati): No, certo che no!

CITTADINO 9: Tanto più che nel caso nostro non possiamo mai essere veramente sicuri che sia disinnescata.

CITTADINO 6, 7: Giusto/vero!

CITTADINO 4: E allora che si fa?

CITTADINO 8: Se non si vuole girare la testa dall’altra parte, una la soluzione la si trova. Non si la aspetta da quelli che stanno in alto. Ci si arriva dal basso. E la soluzione è una sola.

CITTADINO 10 (ridacchiando nervosamente): Vuole eliminarli?

CITTADINO 8: Intendiamoci: io non voglio niente che non vogliano gli altri. Non sono un esaltato fanatico che si sveglia la mattina e pensa di aver trovato la soluzione buona per tutti. Io voglio la soluzione che è la soluzione ragionevole per qualunque italiano che ci tenga ancora a questa nazione.

CITTADINO 5: Ma dicono tutti di tenerci, solo che non tutti la pensano come Lei.

CITTADINO 8: E Lei come la pensa, invece, signore?

CITTADINO 5: Io penso che se ci fosse garantita più occupazione e fossimo più tranquilli coi salari non ci sarebbe nulla di male ad accogliere questi che provengono da paesi disgraziati. Ma il problema è che sono arrivati nel nostro, di Paese, a valanghe, e soprattutto nel momento sbagliato. Loro qui non migliorano la loro situazione, né la migliorano a noi, anzi semmai la peggiorano. Non solo perché paghiamo più tasse per sostenerli, ma anche perché forniscono manodopera a basso prezzo e quindi, in un momento di crisi nera, fanno concorrenza agli italiani.

CITTADINO 4: E quindi che soluzione ha?

CITTADINO 5: Sentite io non ho soluzioni, le soluzioni dovrebbero trovarle quelli che mandiamo a governare, o no? Io penso solo che il lavoro deve essere dato prima agli italiani, tutto qua.

CITTADINO 12: Ma molti italiani non sembrano disposti a fare quei lavori!

CITTADINO 5: Forse era così fino a un annetto fa. Ma le assicuro, giovanotto, che con la ripresa mancata o traballante, molti italiani stanno facendo un passo indietro e sono tornati disponibilissimi a fare lavori anche di basso livello pur di avere uno straccio di salario!

CITTADINO 1: Certo che siamo messi proprio uno schifo!

CITTADINO 2: Non vedo una via di uscita.

CITTADINO 3: Già, che ci fai con questi che abbiamo fatto entrare a iosa?

CITTADINO 4: Bisognerebbe trovare un modo per farli filare via.

CITTADINO 6: In Europa non li vuole più nessuno.

CITTADINO 7: L’Unione ci impone di tenerceli e di trattarli pure bene, se no passiamo per razzisti e ci coprono di sanzioni!

CITTADINO 9: L’Europa, bell’affare! Siamo incastrati!

CITTADINO 8: Non resta che rispedirli indietro.

CITTADINO 6: Forse con accordi coi paesi di provenienza…

CITTADINO 8: Ci vorrebbero secoli per risolvere la faccenda cogli accordi… E noi non abbiamo più tempo. Non avete visto? Quello di oggi è solo una parte del fenomeno, ve l’ho detto. Rivolte nei centri di accoglienza e identificazione sono all’ordine del giorno, per non dire delle fughe, di cui non si parla mai abbastanza: centinaia di migranti fuori controllo… ora pure manifestazioni che degenerano in guerriglia urbana. È venuto il momento di darsi una svegliata in questo Paese! E la cosa deve partire dal basso. Sono gli italiani che devono riprendersi in mano il loro destino. Se non capiamo questo siamo fottuti.

CITTADINO 9: Io non sono razzista, ma… devo dire che mi fanno paura… sono davvero troppi e sempre più incazzati. I nostri politici hanno sbagliato a gestire la faccenda? Può darsi, sta di fatto che adesso la miccia è accesa e non possiamo più fare finta di nulla.

CITTADINO 6: La vedo dura: prima che noi italiani riusciamo a metterci d’accordo su decisioni importanti per il futuro nostro e dei nostri figli, non so che miracolo ci vuole…

CITTADINO 7: Se la situazione precipita come sembra, dovremo fare di necessità virtù…

CITTADINO 4: E mettere da parte i nostri soliti egoismi e interessi particolari…

CITTADINO 5: …e finalmente unirci sul serio, come non siamo mai stati uniti!

CITTADINO 8: Il razzismo infatti non c’entra nulla. Non c’entra il colore della pelle. Razzisti semmai sono i governanti che lasciano milioni di italiani nella miseria, quello è razzismo vero!

CITTADINO 10: Anch’io penso che razzismo sia una parola usata a sproposito. La gente è sicuramente stanca di questa situazione, ma temo solo che se iniziassimo a prendere di nostra iniziativa a calci nel culo tutti questi islamici, beh potrebbero incazzarsi ancora di più – questo temo.

CITTADINO 11: I focolai di rivolta potrebbero aumentare…

CITTADINO 12: Già si dice che stiano provando ad organizzarsi tra di loro, con l’aiuto dei centri sociali e di altre associazioni sinistrorse.

CITTADINO 9: Ah, ci manca pure che si organizzano tra di loro! Allora siamo fritti!

CITTADINO 7: Bisogna vedere se è vero però.

CITTADINO 6: E se fosse vero?

CITTADINO 7: Ci sarebbe un pretesto in più per chiudere i centri sociali…

CITTADINO 12: Non volevo creare allarmismi, ma è che non sappiamo quanti sono davvero, e di quante risorse effettive dispongono…

CITTADINO 4: Suggerisci di tenerceli buoni…

CITTADINO 12: Non ho detto questo… però bisogna prima capire meglio la situazione…

CITTADINO 9: Basta che non si perde poi troppo tempo a capire… perché mentre tu stai ancora lì a cercare di capirci qualcosa magari ti ritrovi, scusate il francesismo, un forcone nel culo.

CITTADINO 1: Forse in effetti è un po’ presto per parlare di invasione…

CITTADINO 2: In ogni caso sarebbe un’invasione dall’interno…

CITTADINO 3: Va beh, lui intendeva comunque un qualcosa di organizzato… con una testa…

CITTADINO 4: … un fronte…

CITTADINO 6: Se sono così inferociti non hanno bisogno di essere organizzati più di tanto o con chissà che mezzi o che appoggi… vanno avanti così… tipo orda…

CITTADINO 5: Si organizzassero pure… ma non per far danni, ma magari per rendersi utili e non fregare il posto a noialtri…

CITTADINO 7: Sì, rendersi utili, come no! A spacciare droga, per quello sì che sono utili!

CITTADINO 6: Non sono assolutamente razzista io, ed è vero come diceva il signore che non è questione di pelle. Semmai di cervello. Ora però devo dire che proprio ieri sentivo in TV uno scienziato che diceva che i negri hanno un cervello meno sviluppato delle altre razze…

CITTADINO 10: Sarà vero?

CITTADINO 11: Certo che no! Diceva proprio “razze”?

CITTADINO 12: Se fosse vero sarebbe meglio… un’orda di scervellati si blocca meglio…

[risatine]

CITTADINO 4: Infatti il problema non sono i neri, ma gli islamici, i libici, i magrebini, insomma quelli là, ci siamo capiti.

CITTADINO 6: Pakistani, bengalesi, pure… quasi tutti islamici…

CITTADINO 1: Beh non so se tutti sono islamici.

CITTADINO 4: Ma quelli sono più litigiosi di noi italiani! Figuriamoci poi se riescono a mettersi d’accordo quelli che sono fra l’altro di razze diverse!

CITTADINO 3: Allora possiamo stare tranquilli!

[risate]

CITTADINO 2: Tranquilli tranquilli magari proprio no… però forse ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che…

[rumori forti come all’inizio; i cittadini ammutoliscono]

CITTADINO 8: Non ne sarei poi tanto sicuro…

Compagne e compagni

9

di Antonio Sparzani

e se cominciassimo a darci una mossa?

Ieri 1 dicembre manifestazione a Milano da Piazza Piola a via Corelli, molto partecipata, senza incidenti, malgrado vigili e pulotti in quantità.