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La custodia dei cieli profondi

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di Raffaele Riba

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo le prime pagine del romanzo di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi, 66thand2nd 2018)

Quando il sole blu sorge e inizia a contaminare la luce, gli animali smettono di muoversi. Passano 7 secondi in silenzio (uno, due, tre, quatto, cinque, sei, sette); poi tutto riparte: le cicale ricominciano a frinire, le poiane a volare, i vermi a scavare la terra. Speravamo non tornasse, e invece torna puntuale quando all’altro sole, quello che conoscevamo, mancano un paio d’ore al tramonto. Tra i due si percepisce una distanza siderale, il cielo pare avere una dimensione in più, ma da qui li posso vedere senza muovere il capo. Se allungo il braccio e col pollice copro il sole, basta aprire il palmo e col mignolo riesco a coprire il sole blu. La mia spanna, adesso, occupa uno spazio profondo centinaia di anni luce.

*

Per qualche istante stanno alla stessa altezza sulla linea dell’orizzonte; poi mentre uno sale, l’altro scende. Sembrano due sovrani che si cedono la volta celeste, e noi: sudditi alieni increduli che non si facciano la guerra. Perché quaggiù è un susseguirsi di luci cosmiche che abbagliano gli umani, i galli, i fiori, che infatti cominciano ad annerirsi. Ci sono soltanto tre ore di buio e tutto se ne sta andando.

Tuttavia, capire cosa succede in cielo sarà più facile che ricostruire cosa è successo qui, su questa porzione di terra che, una volta, aveva una densità di persone e di legami che ne facevano una casa. Questa è una sapienza da raggiungere studiando il dolore, qualcosa che ha a che fare con la dispersione.

 

***

Parte prima – il legame anteriore

Cascina Odessa è stata costruita qui a seguito della decisione che mio nonno prese il 27 settembre del 1936, all’ombra della terra che lo aveva momentaneamente sepolto. La storia di cosa era successo – lo spavento, l’agonia, la tristezza, la determinazione, tutto insieme – è stata la preghiera che ogni santo giorno ci recitava per penitenza a una colpa che non ha mai sentito di avere estinto. L’ho ascoltata migliaia di volte da una voce che nel tempo è diventata roca, fino a uscire tanto flebile da non essere più in grado di ricordare, chiedendo allora che fossimo noi a farlo. Così spesso che in certi momenti mi sembra di aver vissuto quel giorno.

C’erano stati due anni di forte siccità. Qualcuno ancora li ricorda e dice che fu quello il motivo. Mio nonno arrivò in auto con il cane sul lato passeggero, la 515 aveva una crepa sul parabrezza che andava da parte a parte e rifrangeva la luce, disturbandogli la visuale. Sta – va seduto allungando schiena e collo, ma all’epoca le auto erano quelle che erano. Parcheggiò qui che il sole aveva cominciato a valicare le montagne, illuminando il bosco che scendeva fino alla pianura.

Questo bosco, questo inizio di pianura.

Non c’era acqua nel Roburent, e anche lui pensava a quella stranezza mentre attraversava il letto del torrente senza gli stivali che da anni utilizzava per guadarlo. Il Roburent era un confine che superava per perdersi, per diventare un raccoglitore. Da lì in poi, grazie alla conoscenza di una vita sui luoghi giusti e sulle specie buone, iniziava la raccolta dei funghi che per tutta la settimana mia nonna avrebbe cucinato e messo in conserva. Qualcuno, ancora, dice che la siccità avesse prosciugato un piccolo bacino sotterraneo, profondo tre, quattro metri e largo poco più di sei. Prima s’era svuotato completamente dell’acqua, perdendo pressione interna; poi, pian piano, anche la terra che lo conservava come un segreto aveva perso umidità, elasticità e compattezza risultando friabile. Le radici di arbusti ed erba tenevano insieme la superficie aggrappandosi l’un l’altra come dita allo stremo.

Odessa, il setter irlandese di mio nonno, camminava sempre due o tre passi davanti a lui, mai di più. Era un cane diligente e aveva un olfatto delicato. Cadde lei per prima, mio nonno nell’istante successivo. L’abbaio diventa guaito e poi si strozza perché il corpo di mio nonno cade sopra il suo. Tutto nello spazio di un secondo. «Non so se è stata la sensazione di vuoto, il colpo e lo spavento o se ho perso conoscenza: è stato tutto istantaneo come spegnere e riaccendere un interruttore » raccontava mio nonno. «Di certo c’è stato qualcosa in mezzo, tra un prima e un dopo. Un prima in cui io ero su, stavo passeggiando contento verso il sole che si infiltrava tra i castagni, con il mio cane. E poi un dopo in cui l’avevo schiacciata e uccisa, non vedevo nulla, sentivo la polvere entrarmi negli occhi e nella gola e un fischio che arrivava nelle orecchie dopo aver rimbalzato nella cavità. Quando il rumore e lo spavento passarono, e il pulviscolo scese a terra come neve secca, finalmente vidi il buco illuminato da cui eravamo caduti. La luce era omogenea, senza ombre».

Mio nonno si mette a sedere, prende Odessa e la tira verso di sé. La accarezza lasciandole indietro le orecchie, chiudendole gli occhi. La accarezza dalla testa fino al collo perché non ha il coraggio di scendere sul torace. Fino al collo il suo cane sta dormendo. La bacia sulla nuca, la pettina come fosse una bambina, e solo quando decide di lasciarla pensa a come fare per uscire. Scala il terreno e con qualche pugno fa crollare altro soffitto, la terra, le radici, mangiando polvere e cominciando a ricoprire il corpo per il quale questa casa sarebbe stata il tumulo abitato e folle che ho protetto come ho potuto.

Questo è il posto sopra cui vivo.

Ho abitato a Cascina Odessa per più di trent’anni, salvo qualche breve intervallo. Io derivo da questo posto, e per ogni cosa fatta dopo sono partito da qui. Se scavassi nel terreno, se facessi il lavoro di mio nonno al contrario, probabilmente troverei una stratificazione di sedimenti diversi. Qui sono passati adulti, bambini, animali, alberi. Qui sono morte due persone della nostra famiglia, sette cani, due gatti e poi chissà. Insetti, uccelli, bisce d’acqua, foglie, alla ricerca dell’equilibrio chimico, della dissolvenza.

Voglio solo dire che la casa è pelle, che la casa è cognizione, che la mia casa è un modo che ho per dire qualcosa di me.

Il primo nome che mi hanno dato è Gabriele, una mattina di aprile del 1980, ma è accaduto spesso che quel nome si sia disperso in un marasma di altri meno evidenti. All’inizio mi hanno chiamato figlio, poi fratello, poi il Custode; infine l’Eremita o il Matto. È stato un processo lento e graduale, questo disperdersi verso il non me, come se tutte le persone che ho conosciuto avessero prima o poi preso un treno e, affacciati ai finestrini, mi avessero salutato allontanandosi. È un fatto che le loro voci non solo si siano abbassate di volume e poi perse nel viaggio, ma che anche la semantica dei nomi usati per salutarmi si sia allontanata via via, diventando più rarefatta, più impersonale. Dall’essere chiamato figlio e fratello all’essere additato come matto, la prossimità è diventata deserto.

Andati via tutti, alla stazione di partenza non c’ero più nemmeno io.

Adesso, infatti, vedere cosa sono stato e quale stravaganza le persone si inventeranno per indicarmi da lontano non è più possibile. I soli ballano, c’è un senso di fine. Sotto di loro i fiori di tarassaco non si chiudono, gli insetti e gli animali notturni escono per mangiare ma finiscono ammazzati da qualche predatore diurno. Tordi e poiane volano su una benedizione che ha sconvolto il ciclo circadiano. Infatti li si vede sfiancati. La luce continua, la notte non arriva, gli animali non dormono, io non posso più fischiare per far tacere i grilli. Mi facevo compagnia così.

La prima volta che ho avuto coscienza di questo posto è stato il giorno del mio settimo compleanno, quando per l’occasione mia madre ha ritenuto necessario invitare qualche amico. Aveva chiesto consiglio alle maestre perché probabilmente io non ero mai stato capace di informarla a riguardo: chi mi piaceva, con chi passavo il tempo a scuola, chi mi faceva ridere. Tutti e nessuno. Non ero in grado, allora, di scartare alcuna ipotesi.

Per non darle fastidio mentre preparava i panini e metteva le bevande in frigo, mi aveva mandato a spazzare le scale. Tredici gradini di marmo che all’ottavo diventavano triangolari per assecondare la curva di novanta gradi che porta all’ingresso. Le spazzai con molta cura e alla fine ne ero ammaliato. Non le avevo mai notate prima di allora. Ma erano sempre state le mie scale. Ed erano di pietra millenaria, levigate, solide, fatte su misura. C’era tenerezza e senso di possesso.

La festa passò, tutto sommato divertendoci, coi regali, le candele spente, i giochi organizzati e regolarmente sabotati per correre fino allo sfinimento e senza troppa logica dietro un pallone. L’attenzione per le scale, invece, rimase come una sorta di risveglio responsabile, e sensoriale. Quello che imparai il giorno del mio settimo compleanno non fu solo la dedizione ai particolari, ma la costanza con cui si consumano e la sostanza con cui vengono offuscati. Guardandole a fine festa restai sorpreso dal poco tempo che la polvere, la terra, gli insetti morti, le foglie ci avevano messo per ridepositarsi. A sette anni forse immaginavo che non sarebbe più accaduto.

Ogni due, tre giorni, allora, prendevo la scopa e spazzavo, partendo dall’ultimo scalino per arrivare al primo, da destra verso sinistra, facendo scorrere i residui fino al punto in cui li spingevo a cascata nella paletta, posizionata sullo scalino sotto.

Poi tutto ricominciava da capo.

Ero un piccolo Sisifo che invece della roccia trasporta carcasse organiche e polveri sempre più sottili. In poco tempo mi resi conto della condanna enorme che stava dentro quell’accanimento. La polvere si accumula in casa, la frutta marcisce, le crepe si formano, la muffa dietro ai mobili si espande, i fili di tungsteno si consumano, le stoviglie si sporcano. Una specie di inflessibile legge dello sfaldamento da una parte – la polvere che cade – e l’asfissiante resistenza al declino dall’altra – lo spazzare le scale. Faticoso, costante e snervante mantenimento dello status quo per non cedere all’erosione. In definitiva una condanna alla saggezza, alla pazienza.

Mi ero preso in carico le scale e l’ho fatto per un po’ quando ero bambino. Da adulto ho intensificato il mio impegno, sono diventato il Custode, ma è comunque arrivato il giorno in cui mi sono sentito stanco. Ed è da qui, da questa stanchezza che ho smesso di guardare dietro di me e ho cominciato a osservare il cielo.

Villa Borsani a Varedo

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di Gianni Biondillo

Un intero inverno senza precipitazioni e il giorno che decido di prendere un treno per Varedo nevica. Va bene, me lo merito. Pago lo scotto del tipico milanese che appena esce dalla città gli sembra di andare nel deserto dei Gobi. E invece si tratta solo di venti minuti di treno, praticamente una tratta urbana.

Sono venuto qui a cercare una storia. Da architetto conoscevo i prodotti della Tecno, oggetti di un italian design che ha fatto il giro del mondo, da scrittore non immaginavo ci fosse alle spalle una storia familiare degna di essere raccontata. Una storia che ripercorre il novecento, descrivendo in maniera esemplare lo spirito imprenditoriale di questa parte di Lombardia, che ha fatto del lavoro una bussola esistenziale, una ragione vitale. A raccontarmela, questa storia, ci pensa Tommaso, che è venuto ad accogliermi sulla soglia di casa.

È da Gaetano Borsani, il patriarca, che dobbiamo inziare, quando un secolo fa, proprio qui a Varedo, fonda un altelier di arredamenti. Oggetti unici, raffinati, dal gusto mitteleuropeo. “Mobili in stile” che nel tempo si evolvono e assumono forme più moderne, contemporanee, senza perdere in raffinatezza. È stato questo il laboratorio immaginifico del figlio Osvaldo, fin da ragazzino, quando frequentava gli artigiani del legno, i decoratori, gli intagliatori. Una scuola pratica, sul campo, prima di frequentare prima l’accademia di Brera e poi il Politecnico. Ché anche Osvaldo, figlio di cotanto padre, bruciava le tappe, irrequieto. Si laurea in architettura nel 1937, ma già quattro anni prima, ancora studente, era stato premiato alla mitica V Triennale per la realizzazione di una “Casa minima”, manifesto edificato di adesione ai dettami razionalisti della migliore avanguardia dell’epoca.

Tommaso mi apre la porta di casa, abbandono cappotto e ombrello e mi guardo attorno. “Questa non era la casa di Osvaldo”, mi spiega. Qui abitava Fulgenzio, il gemello omozigote. La casa è del 1944. Gli Arredamenti Borsani Varedo (ABV) viaggiavano a pieno regime, i due figli di Gaetano collaboravano attivamente col padre. Il giovane Fulgenzio aveva bisogno di una casa per la sua famiglia, a due passi dai laboratori. Osvaldo ebbe l’intelligenza di non riproporre per il fratello un oggetto radicale, come quello della Triennale, ma una casa che riuscisse ad essere raffinata e moderna, elegante e domestica. Quella che ora sto attraversando.

Mi soffermo sui particolari, gli infissi, i marmi. Da un punto di vista decorativo sento come una risonanza, un’attenzione al modello di casa borghese che in quegli anni Piero Portaluppi stava sviluppando a Milano. Planimetricamente invece, nella distribuzione degli spazi e dei volumi, Osvaldo guardava verso Vienna, al raumplan di Loos. Ma le due spinte non cozzano, non c’è contraddizione. In fondo questa casa non doveva essere un manifesto, un esperimento, una teoria applicata. Doveva essere una casa per suo fratello. Probabilmente discussa assieme, attorno ad un tavolo, bevendo un caffè.

Perché assieme, i due gemelli, hanno fatto molto. Tutto. Finita la guerra erano abbastanza adulti e consapevoli da capire che l’Italia andava ricostruita, che il prestigioso atelier paterno aveva bisogno di diventare qualcosa di più: un luogo dove produrre a una scala più ampia, passando dalla grande tradizione artigianale alla produzione industriale di serie, dato che con il boom economico alle porte, la domanda sarebbe stata enorme. Fondano la Tecno. Era il 1953. Il sito della fabbrica era qui, alle spalla di questa casa, l’ufficio progetti e lo show room in via Montenapoleone a Milano. Come ebbe a dire una volta Fulgenzio, con praticità brianzola: “Lui disegnava e io facevo i conti”.

Tommaso fa scorrere un’anta in legno intagliata e mi porta nella zona a giorno. Campeggia un camino intarsiato da ceramiche di Lucio Fontana. Resto senza fiato. “Fontana era un amico di famiglia”, mi spiega Tommaso. Aveva frequentato l’Accademia con Osvaldo e non si erano mai persi di vista. D’altronde era nella natura di Osvaldo incontrarsi con altri talenti dell’epoca e collaborare con loro, che fossero artisti, fotografi, designer, architetti. Il gusto non era cosa che restava costretta in una disciplina, ma si moltiplicava nel continuo confondersi con le altre forme d’arte. Negli anni Osvaldo ha progettato gli appartamenti di molta della meglio borghesia meneghina, dove non era raro che il soffitto o le pareti fossero decorate dagli artisti amici suoi. Nomi come Fontana, appunto, Pomodoro, Spilimbergo.

Riconosco alcuni pezzi d’arredo della Tecno, ma non sembrano qui a fare bella mostra di sé, come in un museo. Passo una mano sul tessuto di una poltrona, è leggermente lisa. Da quanto tempo, chiedo, non è più abitata?

“Sono circa dieci anni”, mi risponde Tommaso, “da quando la zia non c’è più”. Sento dell’affetto in queste parole. Tommaso Fantoni non è solo un architetto che mi sta facendo visitare una bella casa del secolo scorso. È anche il depositario di una memoria familiare. Non c’è angolo della casa che non sia luogo dove le migliori menti di una generazione si incontravano e dove contemporaneamente le piccole storie famigliari riprendono vita. Come nel giardino che sto attraversando, oggi sommerso dalla neve. “Qui”, mi racconta, “da bambino pedalavo in bicicletta avanti e indietro immaginandomi al giro d’Italia”.

Questo unire lavoro e famiglia, casa e bottega, lavoro e amicizia è stata la forza dei Borsani. Fulgenzio da casa sua con uno sguardo vedeva la fabbrica. Osvaldo invece viveva all’ultimo piano dell’edificio di via Montenapoleone, riprogettato nel dopoguerra come vetrina dei prodotti Tecno (e i soffitti in vetro che permettevano la visione anche dei piani superiori lasciavano a bocca aperta ogni passante che si fermava ad ammirare il modo “moderno” di abitare, di arredare un appartamento).

Ho visitato e studiato Casa Boschi-Di Stefano e villa Necchi-Campiglio. Due modi di interpretare l’abitazione borghese del novecento a Milano. Ma – non ostante l’indiscutibile bellezza – l’eccessiva musealizzazione, le rende fredde, sacrali, distanti. Qui, a differenza, si respira ancora aria di casa. Lo specchio della toeletta in camera da letto sembra sia stato appena alzato dalla proprietaria, la cantina ha ancora bottiglie impolverate di Barolo, nello studiolo pare ancora di sentire gli echi delle discussioni fra Gio Ponti e i fratelli Borsani.

L’intera Varedo, che fu per decenni città-fabbrica, mi viene da dite “Tecno-Città”, cresciuta sempre più, sembra abbracciare affettuosamente questa villa suburbana ormai immersa nella enorme metropoli lombarda. E persino la neve, a ben vedere, mi appare come un dono del cielo. Prometto di tornare a visitare casa Borsani, a primavera, col sole e il verde rigoglioso degli alberi del giardino. Ma ora, sotto questa coltre imbiancata ho come la sensazione che la casa galleggi in un tempo sospeso, in letargo da dieci anni, in attesa di risvegliarsi, ospitale. Forse non più per accogliere i talenti che fecero la rivoluzione del gusto del secolo scorso, ma per aprirsi ai nuovi, giovani talenti che vogliono venire a visitarla, assieme a tutti i curiosi che desiderano imparare come ci si sentiva “a casa” quando, nel passato, si sognava il futuro.

(pubblicato precedentemente su The Fashonable Lampoon n.13 aprile 2018, le fotografie inguardabili le ho fatte col mio pessimo cellulare)

Contro il “decreto sicurezza”

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La Costituzione italiana

 

firmata il 27 dicembre 1947 da tutti questi.

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Un saggio di Tolstoj e una nota di Gramsci sull’Amleto

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di Pierpaolo Rosati

L’inaudita originalità delle idee e l’indubbia autorevolezza del nome inducono a prestare ascolto alla voce di chi – più di un secolo fa – emetteva la condanna più impietosa dell’Amleto e, come se non bastasse, dell’intero corpus shakespeariano. Si parla di Lev Nicolaevič Tolstoj, autore di un Saggio critico del 1903, raccolto dalle Edizioni Boringhieri tra i suoi Scritti sull’arte (con Introduzione di L. Radoyce, Torino 1964 pp. 403-98). Saggio nel quale – aldilà del Re Lear, sempre al centro dell’attenzione – non mancano analisi e rilievi trasversali, rivolti anche ad altri titoli. Pietra dello scandalo, per Tolstoj, è anzitutto il “linguaggio” shakespeariano, che egli definisce “manierato, artificioso, … esagerato e vuoto”; segue la “rappresentazione dei caratteri”, in sé del tutto carente. Lo attesterebbe proprio l’Amleto, lì dove il grande narratore russo, se da un lato riscontra un “evidente difetto… [nel] fatto che proprio il suo protagonista non ha alcun carattere”, dall’altro deduce, con molta acribia, che “Shakespeare non è stato capace, anzi non ha voluto attribuire alcuna specifica personalità ad Amleto, senza neppure capire la necessità di doverlo fare”.  Al tempo stesso, nel Bardo – così dice – “tutto è esagerato: …le azioni, …le loro conseguenze, …i discorsi”, con grave nocumento per quel “senso della misura” senza il quale “non è mai esistito e non può mai esistere l’artista, come senza il senso del ritmo non può esistere il musicista”. Del resto – afferma Tolstoj – i drammi shakespeariani mancano dei tre requisiti indispensabili al genere drammatico: un “contenuto significativo”, un’adeguata “tecnica costruttiva” e una “viva e sincera partecipazione dell’autore a ciò che egli rappresenta sulla scena”.
Trattandosi inoltre di “opere … insignificanti, volgari e amorali”, “le persone che vi compaiono non solo disprezzano la massa (cioè la classe lavoratrice); ma, negano l’aspirazione religiosa, oltre che qualsiasi aspirazione umanitaria”. “L’arte drammatica – al contrario – è sempre stata religiosa, cioè ha sempre avuto lo scopo di suscitare nella gente il chiarimento del rapporto dell’uomo con Dio”.
Ad avviso di Lev Nicolaevič, le radici del funesto laicismo shakespeariano affondavano nell’ “avvento del Protestantesimo” che, in senso lato, aveva trascurato le istanze della drammaturgia cristiana, e nella mentalità degli “uomini del Rinascimento i quali – per altro verso – si erano appassionati all’imitazione dell’arte greco-classica” ovvero pagana. Le tesi di Tolstoj raggiungevano così l’apice della spiritualità a lui connaturata, mostrando, nel contempo, tutti i loro limiti.
Se infatti il nostro senso della modernità dovesse mai rinunciare ai progressi antropologico-culturali resi possibili da Umanesimo, Rinascimento e Riforma, dove più ci ritroveremmo se non nel cuore del Medioevo?
In verità, il realismo paternalistico di Tolstoj ed il «Credo» da lui predicato – vale a dire l’esigenza di commisurare l’espressione artistica ai bisogni formativi della “classe popolare”, ovvero “contadina” (siamo nella Russia del primo Novecento!) – altro non esprimevano che l’illusoria fiducia in una visione rétro. La cui presunzione era quella di poter tornare ad una condizione di vita sempre e comunque edificante nella sua mitica e pura autenticità. In prospettiva, mutatis mutandis, verrebbe da pensare al caso altrettanto eterodosso di Pierpaolo Pasolini che – come in fondo Tolstoj – era un intellettuale di sinistra. Il che lascia intendere quanto certe definizioni siano imprecise e sfumate.
Comunque sia di ciò, possiamo ritenere concluso, con l’aggiunta di queste ultime riflessioni, il ragguaglio circa le argomentazioni che il narratore russo presenta nelle quasi cento pagine del suo Saggio. In esso, come si è visto, i rilievi di ordine estetico fanno tutt’uno con le pregiudiziali etico-politiche, morali e religiose. Argomentazioni alle quali, tuttavia, ci sentiamo di dover ribattere, anche sulla scorta di quanto già sottolineato qui:  https://www.nazioneindiana.com/2018/08/12/amleto-un-intellettuale-gramsciano-in-ricordo-del-68/
Ebbene, può dirsi davvero, tanto per entrare nel merito, che Amleto fosse un protagonista senza carattere o personalità?
Allo scrivente sembra invece che il carattere del Principe sia, sì, difficile da definire, ma perché multiforme, sfuggente, coinvolto in un tortuoso snodo evolutivo. Niente affatto inesistente, esso si manifesta in varie fasi, disseminate nel corso del dramma. Riassumendo, sono cinque gli stati mentali e psico-emotivi riscontrabili in Amleto, subito dopo la dichiarazione di intenti che egli enuncia al cospetto dello spettro paterno, e che per se stessa costituisce la vera chiave di volta della tragedia, vale a dire il suo manifesto programmatico:


          Ricordarmi di te [del padre]? Ebbene, dalla tavola

          della mia memoria cancellerò tutte

          le banali annotazioni, tutte le massime

          dei libri e tutte le impressioni

          che la giovinezza e l’osservazione vi copiarono.

          E il tuo comandamento, da solo, vivrà

          nel libro e nel volume della mia mente.

I  5, 97–103.

Comincia qui, in tutta evidenza, il tormentato itinerario di Amleto: la lenta e faticosa rimozione del suo curriculum aristocratico-rinascimentale, perseguita per l’appunto in cinque specifici momenti:

  • La rinuncia all’amore galante per Ofelia, un tempo ispirato a modelli comunicativi di ordine letterario (cfr. III 1, 90-102);
  • L’impulso ad emanciparsi dalle norme positive della religione cristiana, la cui inderogabile condanna del suicidio (cfr. I 2, 131 s.) gli appare invasiva rispetto al libero arbitrio riservato all’individuo (cfr. II 2, 248 s.).
  • La paura – non più della sanzione divina – ma dell’aldilà in senso indefinito, vago e problematico; da qui l’indecisione tra “essere o non essere”, e l’incerta prospettiva che ne consegue (“morire, dormire, … dormire, forse sognare”). Detto en passant, il celebre monologo (cfr. III 1, 56-88), pur impreziosito da una incomparabile intensità lirica, trova nell’approccio ermeneutico ivi proposto una collocazione narrativa di minor peso; esso infatti «non è più» il passe-partout del dramma o, se si preferisce, il suo biglietto da visita, così come una troppo enfatica recitazione ci ha fatto credere, «ma solo» il corrispettivo ad uno dei diversi steps esistenziali che il nostro protagonista attraversa.
  • È questa la fase nella quale egli perviene al superamento del dubbio, almeno sul piano teorico: ciò che si riscontra alla vista dei preparativi militari messi in atto dai soldati di Fortebraccio, uomini coraggiosi, motivati da un ideale che li induce ad affrontare una guerra il cui risultato non promette altro che la morte o la conquista di un territorio forse insufficiente ad accogliere le tombe di quanti cadranno per esso (cfr. IV 4, 32-66). Ma – soggiunge Amleto – “quando è in gioco l’onore, è giusto lottare con animosità anche per una pagliuzza”. Piuttosto, egli si sofferma a notare quanto sia la Storia contemporanea a sollecitare gli animi, determinandoli all’azione. Non così la Storia antica che, lontana nel tempo, si ritrova ammantata e distorta dalla retorica celebrativa. Eloquenti, per oppositum, gli esempi dissacranti di Alessandro Magno (V 1, 194-208) e di Giulio Cesare (Ibid., 209-13): eccentrica damnatio memoriae de viris inlustribus (Tolstoj avrebbe parlato di “insipide spiritosaggini”). Il “problema”, molto più seriamente, poneva in gioco lo statuto della Storia, in quanto materia da rileggere attraverso il filtro della demistificazione e di una cultura non più soltanto libresca, ma vivificata dall’esperienza diretta e da una personale consapevolezza nell’agire motivato.
  • Siamo alla resa dei conti. Tessuti in un inestricabile groviglio, gli eventi precipitano, e la tragedia, inesorabile, si abbatte sul castello di Elsinore. La strage è indiscriminata e non lascia scampo. Lo stesso Amleto, ormai in fin di vita, ha appena il tempo – dopo aver portato a termine la missione affidatagli – di recuperare il proprio ruolo politico. Si volge pertanto alla designazione di colui che potrà succedergli sul trono danese; compito che egli assolve con un “voto morente” (V 2, 350) e con la forza morale di chi detta le proprie volontà testamentarie.
    “Il resto è silenzio” (, 352). Sono queste le sue parole estreme, lapidarie. Esse cancellano ogni paura oltremondana e legittimano la sua ineccepibile vendetta alla luce di una prassi tutta terrena. Non già il proverbiale dubbio amletico, ma la conquista di una nuova certezza travolge e nel contempo esalta la vita e la morte del nostro Principe. Gramsci avrebbe potuto riconoscere in lui un intellettuale organico, tale anche perché “amato dal popolo” (IV 3, 4), e ancor più confortato dal “grande affetto che per lui nutriva la gente comune” (IV 7, 18). A farne parola, a denti stretti, era niente meno che Claudio, lo zio usurpatore. Amleto, in tal caso, della sua buona coscienza avrebbe risposto al popolo e non al giudizio divino.

Desta qualche meraviglia – lo si può notare ex post – che questa potenziale quanto pertinente lezione gramsciana, nella seconda metà del Novecento non abbia trovato né un portavoce, né alcuno spiraglio presso l’allora dominante cultura di sinistra, come pure avrebbe meritato. Forse, in quel milieu, a determinare l’incerta fortuna dell’Amleto potrebbe aver contribuito un pregiudizio ideologico: l’opinione di quanti ravvisavano nel Principe di Danimarca – quasi una diminutio – null’altro che… un eroe borghese. Non già il giovane Gramsci che – in una “cronaca teatrale” comparsa sull’ «Avanti!» del 20 febbraio 1916 – dedicava all’Amleto una pagina incondizionatamente celebrativa, nonostante la discontinua qualità della messinscena appena rappresentata a Torino da Ruggero Ruggeri, presso il teatro Carignano.
Ma, perché l’ideologo di Ales lamentava la modestia della rappresentazione torinese [Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 1977 pp. 284 s.]?
Vista la disuguaglianza tra la bravura di Ruggeri e la mediocrità degli altri attori, diveniva impossibile per quella rappresentazione rendere in misura adeguata la pari dignità artistica di tutti i personaggi, ciascuno meritevole di trovare il suo giusto “rilievo”. Ché di un dramma collettivo si trattava, e non di una vicenda destinata a coinvolgere “il solo tragico Amleto”!
“Nella concezione shakespeariana – scriveva Gramsci – tutti i personaggi sono grandi”, tanto che “la caratteristica del capolavoro consiste nella saturazione poetica di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona”. E null’altro affermava Agostino Lombardo (1927-2005) – l’anglista più influente del nostro mondo accademico – quando parlava dell’Amleto come di un “grande e autonomo universo poetico”. Né altro deplorava Tolstoj, se non l’esatto contrario, vale a dire l’imperdonabile errore che Shakespeare a suo avviso commetteva nell’attribuire, indistintamente, sempre lo stesso linguaggio (ovvero lo stesso registro poetico) a tutte le persone chiamate a calcare la scena: uno standard linguistico tipicamente shakespeariano, sempre aulico, ispirato, aristocratico, e non una lingua personalizzata, di volta in volta coerente con lo status ed il carattere specifico del parlante. Le buone ragioni, e i torti, sembrano talvolta ripartirsi: “a ciascuno il suo”.

La letteratura italiana con gli occhi di fuori #1: frontiera, lingua, luogo

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Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori e Giuseppe Schillaci, ossia Il Cartello, hanno curato su invito di Luigi Grazioli un intero numero di “Nuova Prosa”, il 69. Presentiamo qui le prime tre voci dell’editoriale scritto a otto mani e il sommario del numero.

EDITORIALE A PIÙ VOCI

FRONTIERA (G. Schillaci)

I luoghi sono unici e diversi, simili, mai uguali. Perché sono tagliati, amputati, circoscritti, e limitati da un quadro, una prospettiva, una frontiera.
Senza frontiera non sapremmo definire un luogo, un’identità, un mondo. In fondo la prima frontiera che conosciamo, che ci definisce è la pelle che separa il nostro corpo « di dentro » da quello « di fuori ». Le frontiere dunque non sono un problema, anzi sono necessarie, fondamentali alla creazione dell’io e di un noi, di un’immagine, di un racconto.

Le mamme d’Aspromonte contro la Malingredi

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di Domenico Talia

Mamme che profumano di gelsomino, ragazzi che rincorrono treni che non si vogliono fermare, vecchie che raccontano storie intorno a bracieri che sono lì da più di duemila anni, mare e montagna uno contro l’altra. Una storia che nessuno aveva raccontato finora perché andava contro le narrazioni mainstream. Una storia scritta contro l’oicofobìa che colpisce tanti figli del Sud. Una storia contro i malandrini e contro il potere gretto che li favorisce.

L’impasto di ribellismo e mafiosità ha segnato alcuni paesi ionici e aspromontani. Ha prodotto errori. Ha illuso giovani che si credevano “dritti” senza essere consapevoli che di un legno storto è fatto l’uomo. Si è prestato alle strumentalizzazioni di tante anime belle del potere. Però in ribelli come Papula c’è la chiara idea che il mondo si può cambiare e che bisogna provare a cambiarlo anche quando tutto sembra non volerlo consentire.

Il paese era un non-paese e il treno che lo lambiva era un non-treno per Africo Nuovo, senza stazione e senza fermate. Il paese era scivolato verso il mare per l'acqua che, insieme alle case, aveva alluvionato le debolezze di un popolo. Vivere lontano dai luoghi in cui si è cresciuti provoca sempre un senso di perdita. E comunque rimane la vitale necessità di appartenere a un posto, di avere una terra dove sentirsi a casa. Dove un treno che passa debba fermarsi.

Se Criaco non fosse nato e cresciuto ad Africo non avrebbe potuto scrivere tutto quello che ha scritto e questo vale non soltanto per il suo ultimo romanzo La Maligredi (Feltrinelli, 2018). Il microcosmo è unico e soltanto un protagonista consapevole di quel mondo può raccontarlo con sincerità. Raccontarlo guardando negli occhi ragazzi che si lasciano irretire dai soldi facili senza voler essere criminali, entrando nelle case di mamme e nonne che capiscono che a volte bisogna avere il coraggio di protestare dietro bandiere riempite dal vento.

In questo romanzo c’è uno scrittore dentro un paese, ma soprattutto c’è un paese dentro uno scrittore. Un paese che vuole essere raccontato, con le sue feste animate dagli zingari, con i ragazzi ribelli che vogliono sentirsi parte del futuro, con i capibastone che si abbuffano di carne di capra, con le donne che si prendono sulle spalle le famiglie quando gli uomini scappano, soprattutto dalle loro responsabilità.

Criaco si nutre del mito del popolo della montagna e allo stesso tempo è lui a nutrire quel mito. Purtroppo in Aspromonte il mito aspetta ancora di diventare sapere. Quel sapere necessario per sciogliere i problemi, per trasformare progressivamente la realtà di quel popolo e dei popoli fratelli. Criaco con le sue narrazioni vuole generare sapienza. Una sapienza che nasce da antiche narrazioni ma che per acquistare valore deve generare azione, consapevolezza di sé, soluzioni per un mondo ancora sofferente, ma non per questo perduto. È lo sforzo maturo di questo scrittore del profondo Sud italiano, trasformare la narrazione in sapienza. Perché il suo popolo ne ha bisogno per conciliarsi con la storia, con quella costruita fuori e lontano da esso e con quella fatta dalla sua gente. Per far diventare la seconda una parte degna e preziosa della prima.

Ciao, Maestro. à Bernardo Bertolucci

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Intervista a Bernardo Bertolucci

di

Olivier Maillart

Traduzione di Francesca Spinelli

(Pubblicata su Sud n°2, numero dedicato ai maestri)

Olivier Maillart: Mi sono spesso interrogato sulla possibilità di avvicinare i suoi film alla lettura che Kundera propone del romanzo,quando lo definisce l’arte ironica per eccellenza, che ci svela il mondo come un carnevale di verità relative. Lei stesso si è spesso descritto come il cineasta dell’ambiguità. Eppure non ha fatto altro che ricorrere a dei discorsi (politico, psicanalitico) che sembrano bandire l’ambiguità in quanto propongono una lettura totale, non romanzesca della realtà.
Cosa le sembra prevalere nei suoi film: un principio di scoperta del mondo nella sua ambiguità attraverso i procedimenti dell’estetica, o la messa in scena di saperi precostituiti (marxista o freudiano, ad esempio)?

Bernardo Bertolucci: Ricordo che quando dovevo parlare di Prima della Rivoluzione,cioè molto tempo fa, la prima cosa che mi veniva da dire, spontaneamente, era che Prima della Rivoluzione era un film ambiguo sull’ambiguità. Oggi noto la doppia negazione, ma all’epoca, penso, intendevo dire che si trattava di un film lucido. Mi sembrava che lo Stato, negli anni 1963-1964, non accettasse l’idea di ambiguità. Ci fu subito una sorta di sospetto nei confronti di quel film, che inoltre diceva di essere ambiguo. E che non era un film collocabile nella linea politica nata dal neorealismo.
Penso che né Rossellini, né De Sica – forse Visconti– fossero membri di un partito, ma il loro cinema era in gran parte politico. E nel periodo in cui uscì Prima della Rivoluzione, il cinema politico era Rosi, Lizzani…tutto il cinema italiano. Rosi era il più interessante. In quel cinema, nato dal neorealismo (ma tutto il cinema italiano derivava dal
neorealismo), c’era sempre più politica e sempre meno cinema. La ricerca sul cinema, su quello che c’era di interessante da scoprire e da dire sul cinema, passava in secondo piano. In compenso, e in questo gli italiani erano davvero forti, in Italia c’era un partito comunista molto importante, glorioso, con un suo passato, c’era stata la Resistenza…un partito robusto, al quale ci si poteva attaccare, legare. Ma erano gli anni Sessanta, cioè il periodo in cui ho fatto una parte di quei film politici. Era un periodo in cui, qualunque cosa si facesse, anche una cosa senza
senso, era politica. E in qualche modo era vero, perché la congiuntura tra ciò che facevamo e la realtà ci diceva che accettare o rifiutare le convenzioni date dal Sistema (come veniva chiamato), le interpretazioni della realtà, che erano dei clichés dati dal Sistema, tutto questo rappresentava una scelta politica.

Formavamo un gruppetto che era un’entità estetica più che politica, e che tentava di reinventare il cinema…Eravamo gli ultimi sul treno della Nouvelle Vague, eravamo sparsi in Italia, Brasile, Canada, Inghilterra. All’epoca c’erano molti amici cineasti. Nei film di quel periodo si vedeva molta politica e pochissimo cinema, e si arrivava a dei veri e propri paradossi…Se ci ripenso, la cosa mi sconvolge. Finivamo col dire certe di quelle cose… Già in Prima della Rivoluzione, il cinefilo (Gianni Amico) fa delle affermazioni abbastanza pesanti, che condividevo in pieno. Questa, probabilmente, è una delle differenze principali tra il presente e quel periodo lì, ma forse si tratta anche della differenza tra l’avere 62 anni e averne 23: negli anni Sessanta, quando prendevamo posizione, eravamo talmente sicuri di noi stessi, talmente privi di dubbi. Alla fine degli anni Sessanta questa era la nostra visione politica, che doveva diventare rivoluzione nel cinema, rivoluzione nel film, rivoluzione nel linguaggio, nel mododi affrontare la storia, e in tutto il resto…
Questo, da un lato,e dall’altro,la completa assenza di interlocutore. Se ci fosse stato un Dogma Sessanta, una delle
regole sarebbe stata: «L’unico modo di rispettare il pubblico, è di non pensare mai che esiste un pubblico». E c’era,
da parte mia, un certo sospetto verso i film di successo. Nel 1969 arrivammo a pensare che Z fosse un film politicamente irrilevante, dicevamo che era un film commerciale… Circolavano delle battute molto stupide, come quella che diceva che i tank russi avevano invaso Praga perché non apprezzavano il cinema cecoslovacco, Forman e gli altri.
È solo alla fine di quel periodo che per… irritazione nei confronti dei miei amici filo-cinesi mi sono iscritto al Partito Comunista. Perché sentivo nelle loro iniziative un profondo anticomunismo. Mi dicevo, c’è qualcosa che non va.

OM: Come in Dreamers, la discussione tra il giovane Francese e l’Americano riguardo il Libro Rosso…Ricorda alcune discussioni che lei avrebbe potuto avere con Godard, ad esempio, o con altri filo-cinesi. Un modo di opporsi al tempo
stesso politico ed estetico, nel 1968 e negli anni che seguirono.

BB – È vero,sì. Ci sono stati molti errori, da parte mia, a volte da parte degli altri. Poi si arriva a Novecento. Già ne La Strategia del ragno e nel Conformista, erano presenti i segni di una stabilità molto più forte. E riesco a fare Novecento in preda a una specie di sensazione catartica, politica e culturale, rivendicando una cultura popolare che già iniziava a scomparire. Ma nella figura di Berlinguer (come anche in quella di Moro), si vedeva già qualcosa di estremamente nuovo. Poi Moro è stato ammazzato, e Berlinguer si è ucciso qualche anno dopo… forse. Si tratta, per me, di un film quasi religioso, in cui la politica diventa quasi religione. Nel realizzare Novecento, il mio era un sentimento di pienezza religiosa. La cultura popolare era il luogo in cui si ritrovava ciò di cui parlava Pier Paolo Pasolini negli ultimi anni della sua vita: parlava della società consumistica come di un fascismo, un fascismo di gran lunga più pericoloso del precedente.

OM: Appunto, rispetto alle posizioni pasoliniane di quello stesso periodo, negli Scritti corsari o nelle Lettere luterane, c’è, nell’ottimismo di Novecento, l’idea che grazie al comunismo si possa ancora salvare la cultura popolare.
È un’idea che trovo molto bella, questa di salvare il retaggio del passato (la cultura popolare, i valori) attraverso un discorso marxista. Anche Pasolini ha sostenuto un’idea simile, ma verso la fine era molto più pessimista. È
proprio a quel punto, infatti, che gira Salò, parla della società consumistica come del vero fascismo e scrive che «nessun uomo deve essere mai stato normale e conformista quanto il consumatore»…

BB – Già, e ha girato… non ricordo più, quale film ha girato prima di Salò?

OM: La Trilogia della vita, se non sbaglio…

BB: – Sì, ha ragione… E poi rinnega la Trilogia della vita, con quella specie di sorriso amaro da martire. Dice: «mi sono sbagliato», scrive queste parole,queste parole così crudeli, ma crudeli verso se stesso. E parla dei giovani che
lo fanno vomitare, che non sanno più ridere, che fanno le smorfie. Non ricordo, era negli Scritti corsari?

OM: Sì, mentre è nelle Lettere luterane che troviamo l’abiura della Trilogia della vita. Lei, invece, proprio nello stesso periodo vede le cose in modo diverso, sembra credere che sia ancora possibile fare qualcosa…

BB: Assolutamente, sarebbe stato impossibile girare Novecento senza crederlo.

OM: È vero. Ed è solo in seguito, nella Tragedia di un uomo ridicolo, che ha sviluppato una visione molto più vicina a quella di Pasolini, riprendendo alcuni dei suoi testi sui giovani, ad esempio in quello che dice Ugo Tognazzi…

BB: Era strano sentire Tognazzi dire quelle cose. Quando parlava dei giovani, parlava di suo figlio Ricky, che stava crescendo in un certo modo… Perché poi quei giovani di cui parla Pasolini sono anche delle vittime. Ma quando giravo Novecento, ci credevo davvero. Per farle un esempio, all’inizio volevo creare, attraverso il film, un dialogo tra USA e URSS. La parte del padrone doveva essere recitata da un attore hollywoodiano e il contadino doveva essere russo, sovietico. Mi misi in contatto con la Mosfilm, ma furono sollevate tante di quelle difficoltà, dicevano che dovevano approvare la sceneggiatura etc…

OM: Per Novecento lei parlava di un senso di religiosità, e su questo aspetto ci sono state molte critiche: il film imporrebbe al pubblico una verità, una chiave di lettura della storia… Ma se si cerca di capire quale sia il principio dominante del film, principio ironico o principio politico, ci si accorge che si tratta di un film che si contraddice continuamente.

BB: E’ basato sulla contraddizione.

Scherzo e ironia

BB: E questa contraddizione, per l’appunto, non viene superata. Alla fine del film c’è quella scena del processo che sembra dare un senso generale all’insieme, eppure lei aggiunge un’ultima sequenza in cui ritroviamo Alfredo e Olmo che continuano a battersi in eterno. Sono l’uno il doppio dell’altro e questo basta a relativizzare tutto ciò che poteva somigliare a una lettura troppo lineare di quanto precede. E il film funziona così, dall’inizio alla fine, facendo scontrare degli elementi ideologici con quanto li contraddice: l’intimità, la relazione ambigua tra i due eroi. Pur essendo un film molto politico, sostenuto da quella pienezza religiosa di cui si parlava, tutto vi è relativizzato, in modo affine al principio romanzesco di cui parla Kundera.


OM: Si ma vorrei tornare a ciò che lei intende per ironia… Nell’Arte del romanzo, Milan Kundera definisce il
romanzo l’arte ironica. “L’ironia irrita. Non perché si faccia beffe o attacchi, ma perché ci priva delle certezze,
svelando il mondo come ambiguità” e rifiutando di scegliere tra le verità, tutte relative, che vi si affrontano. E in Prima della Rivoluzione, in Novencento e di nuovo in Dreamers, trovo molto interessante questo trattamento ambiguo, ironico del racconto, perché ogni volta lei vi inserisce la politica e i suoi discorsi, in particolar modo il discorso rivoluzionario, che poi è quello che tende maggiormente a bandire l’ironia, chefavorisce la distanza mentre la rivoluzione esige che si faccia causa comune.

BB: Ricordo che Pier Paolo Pasolini diceva di non amare l’ironia, che qualcosa di un po’ troppo facile, e che l’ironia era un atto borghese: le preferiva la facezia, lo scherzo. Ma credo che l’ironia sottile di cui parla Kundera fosse quella che più detestava. Kundera rivendica anche il retaggio di Rabelais, dello scherzo, del riso che relativizza… Ma in effetti, nella distinzione fatta da Pasolini (che ricorda la distinzionepopulista di Victor Hugo), da un lato doveva esserci la sana risata del popolo, dall’altro l’ironia dei maestri…

OM: Già, c’è proprio uno sguardo ironico, distaccato (ma al tempo stesso riesce ad essere colmo di empatia per i
personaggi), probabilmente perché il tempo è passato. Il film risponde a Partner, che invece era immerso nel ’68,
lirico e rivoluzionario. E’ una risposta anche perché in entrambi i film troviamo Cocteau, ma in modo completamente diverso. In Partner, Cocteau è presente dalla parte del sogno, del passaggio attraverso gli specchi, del doppio, della figura del Poeta… Mentre in Dreamers, si avverte l’eco dei Ragazzi terribili più che di Orfeo: soprattutto nel restringimento sulla segreta dimensione incestuosa, la regressione verso il guscio intra-uterino, la grotta nel salotto), l’appartamento diventato “roulotte”…

I gemelli, il Padre

BB: Qui c’è un equivoco sull’incesto. Come si possono accusare d’incesto dei gemelli? Dopo che hanno vissuto nove mesi nel ventre materno, nel guscio come ha detto. Insieme. Se c’è stato incesto, deve essere stato in quel periodo lì. Poi sono cresciuti l’uno di fronte all’altro, perché sono fratello e sorella, sempre insieme. In una specie di familiarità, di intimità. Un’identificazione dell’uno con l’altro. Eccolo, l’incesto.

OM: L’incesto è anche la perdita delle differenze strutturanti che accompagna lo sgretolamento della figura paterna, enunciatrice della Legge. Dreamers è un’opera talmente ironica e romanzesca in quanto presenta il maggio del ’68 (un avvenimento che in Francia viene spesso sacralizzato, o demonizzato, il che è esattamente la stessa cosa) in modo sia critico che empatico: siamo al fianco dei giovani, condividiamo le loro esperienze estetiche e sensuali ma nel film, il Maggio del ’68 è anche il giorno in cui i genitori se ne vanno in punta di piedi, lasciando un grosso assegno.

BB: Questo padre in un certo senso è un “maestro” per i suoi figli. Deve avergli dato da leggere Bataille, Sartre, la Storia di O. Così, quando i figli gli si ribellano contro, quando li vede abbracciati, non può far altro che andarsene in punta di piedi. Trovo che i genitori siano i personaggi più simpatici del film. Ma comunque sia, e questo vale per tutti i miei film, io amo tutti i miei personaggi, sono in ognuno di loro. In Renoir accade la stessa cosa: ogni personaggio ha le sue ragioni.

OM: La scomparsa della figura del Padre è rintracciabile in molti dei suoi film, sia per parlare del fascismo (La strategia del ragno, Novecento) che di fatti più contemporanei.

BB: Nell’Ultimo Tango a Parigi, per esempio quando Marlon Brando si mette il cappello del Padre che Maria Schneider gli spara.

OM: Vorrei tornare a Dreamers. E’ un film che trovo molto baudelairiano, per il modo in cui ha inserito gli spezzoni
di film: servono sia a caratterizzare una sensazione, un sentimento che a rappresentare una memoria, un legame con l’arte e il passato, l’emozione estetica. Troviamo al tempo stesso l’eterno e il transitorio, e i due si ricongiungono nel momento in cui un soggetto li chiama a sé per esprimere le sue sensazioni e dispiegare pienamente l’animo.

BB: Sì, è così… Sa, l’ultimo libro pubblicato da mio padre s’intitola Ho rubato due versi a Baudelaire. Quello che lei dice sull’istante presente, lo troviamo anche nei Miti d’oggi di Barthes, in cui si parla della pubblicità, della moda, dello strip-tease… Insomma, una altro modo di individuare nel transitorio la caratteristica di un’epoca. Lo stesso vale per i film di Godard: li si poteva datare in base al mese di uscita, uno esprimeva perfettamente il luglio del ’62, un altro il febbraio del ’65…Ho notato la stessa cosa nel suo ultimo film, Eloge de l’amour, che mi è piaciuto come da tempo non mi piacevano più i suoi film, da allora. La prima parte ricorda Alphaville, la seconda… Godard usa il video come un pittore dilettante, eseguendo ampie tinte piatte di colore con un’apparente ingenuità.

Un film allegro
OM: Sempre in Dreamers, troviamo di nuovo la figura dello straniero, spesso anglosassone, già presente in Ultimo
tango a Parigi, La Luna, Bellezza rubata… Con la conseguenza, tra l’altro, che tutti parlano inglese.

BB: Faccio fatica a sopportare la lingua italiana, che non trovo nobile (forse sublime). E’ un difetto frequente in molti film; anche con un’ottima regia. Se si considerano quelli di un maestro insuperabile come Michelangelo Antonioni, sono stupendi ma ci si accorge che non appena i personaggi aprono bocca, rovinano tutto. Ma, fondamentalmente, ho la passione della differenza dell’altro. Non tanto perché mi senta altro io stesso, ma perché amo molto il passaggio attraverso uno sguardo straniero. In Dreamers poi, il personaggio dell’Americano permetteva di introdurre un contrappunto al discorso dei parigini, e cioè il pacifismo. Ero stato molto colpito dalle immagini di quei giovani Americani che, alla fine degli anni Sessanta, bruciavano la loro cartolina per non partire in Vietnam. C’erano degli
enormi falò, alla frontiera con il Canada. Il personaggio permette di esprimere quel tipo di atteggiamento.

OM: Permette anche di introdurre la contraddizione, come sempre irrisolta. Alla fine, ad esempio, quando si oppone
a quello che vuole lanciare i cocktail Molotov. Finché ci si ritrova in un confronto tra la gioventù eroica e i poliziotti
cattivi e fascisti va tutto bene, perché il fascista è sempre l’altro. Ma la contraddizione all’interno della gioventù stessa vi costringe a considerare la possibilità del male in noi stessi, e l’ambiguità, ancora una volta,
ricompare.

BB: Eppure mi sembra che in questo film sia cambiato qualcosa… anche se poi i cambiamenti non esistono,
poiché tutto cambia e tutto sembra non cambiare… Ma credo che ci sia stato un cambiamento nel cinema (e qui torniamo alla psicoanalisi), nel senso che il film ha un corpo. Quindi ha anche un inconscio. E trovo che in Dreamers ci sia una fusione tra l’inconscio del film e il pubblico. E’ come se le dicessi che il suo corpo funziona come un inconscio, che sono la stessa cosa. Guardando Dreamers penso di aver capito che il corpo è l’inconscio, e che in questo modo (parlo per me, non ne faccio una regola generale) c’è un inconscio che salta à pié pari la fase razionale: si passa dall’oscurità dell’inconscio all’oscurità del corpo. C’è come un’unione, una fusione. E quello che succede nel film, e credo che per questo si tratti di un film allegro.

 

Costellazioni

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( E’ uscito nelle scorse settimane presso Einaudi Costellazioni . Le parole di Walter Benjamin si tratta di un’opera curata da Andrea Pinotti che presenta 45 voci per descrivere i termini chiave dell’opera di Benjamin. Questo lavoro è particolarmente significativo perché, come ricorda Pinotti nella presentazione del volume, la natura ibrida e trasversale a diversi campi del pensiero di Benjamin ha attirato lettori della sua opera provenienti da diversi ambiti disciplinari; così si offre a tutti i lettori uno strumento di raccordo nell’approccio al lavoro dell’autore berlinese, particolarmente utile per il non specialista. I testi sono stati scritti, oltre che dal curatore, da Maurizio Guerri, Giovanni Gurisatti, Stefano Marchesoni e Antonio Somaini. Riproduco qui la voce ‘esperienza’ redatta da Stefano Marchesoni, g.m.)

 

Esperienza

Il concetto di esperienza (Erfahrung) si può considerare come il filo d’Arianna che permette di orientarsi nella labirintica produzione benjaminiana. Già nel 1913 il breve articolo «Esperienza» (OC I, 164-66) polemizzava, in nome della gioventù contro la retorica degli adulti benpensanti, inclini a svalutare «in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di dolci cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria» (OC I, 164). Ma è il saggio Sul programma della filosofia futura (1918; OC I, 329-41) a porre le basi, attraverso un serrato confronto con Kant, per la «fondazione gnoseologica di un concetto superiore di esperienza» (OC I, 331). L’esperienza su cui si interroga Kant è criticata da Benjamin come «un’esperienza ridotta in certo modo al punto zero, al significato minimo» (330), che tradisce «la cecità religiosa e storica dell’illuminismo» (331). Allo scopo di superare i limiti angusti di questa concezione, Benjamin assegna alla filosofia futura il compito di superare il dualismo soggetto-oggetto come «relazione fra due entità metafisiche» (334). Invece di appiattire il piano dell’esperienza su quello della coscienza empirica e «di un Io individuale psicosomatico» (333), Benjamin mira a una «coscienza gnoseologica pura (trascendentale)» (ibid.), che si configura come «sfera della neutralità totale rispetto ai concetti “oggetto” e “soggetto”» (334). Così ripensata, l’esperienza non è più ristretta all’ambito delle scienze naturali, ma si apre alla storia, includendo «anche la religione» (ibid.), nonché «arte, giurisprudenza e storia» (337). Fondamentale è inoltre la consapevolezza che «ogni conoscenza filosofica trova la sua espressione esclusivamente nella  lingua» (338), intesa da Benjamin come il medium «non solo della conoscenza, ma anche di un’esperienza che tiene conto della propria singolarità e temporalità» (Weber 2008, 165).

In seguito Benjamin si impegnerà a realizzare il progetto di una filosofia dell’esperienza, abbandonando però ogni velleità sistematica, per privilegiare invece la duttilità dello stile saggistico. Se già gli scritti degli anni Venti illuminano l’esperienza nella concretezza del suo divenire storico – si pensi alla descrizione della melanconia nel Dramma barocco tedesco (1928; OC II, 176-95) o al «Viaggio attraverso l’inflazione tedesca» in Strada a senso unico (1928; OC II, 417-22) –, con l’inizio del lavoro sui passages la ricerca di Benjamin si va precisando nel senso di una «storia originaria [Urgeschichte] del XIX secolo» (I «Passages di Parigi», 1927-29; OC IX, 946) che da un lato rievoca, attraverso il montaggio di innumerevoli citazioni, i diversi modi in cui l’esperienza si declinava in quell’epoca, dall’altro tenta di rammemorare quel passato per rendere possibile un risveglio che è a sua volta un’esperienza genuinamente politica.

Tra i frutti di questa ricerca spicca la teoria dell’esperienza esposta in Su alcuni motivi in Baudelaire (1939; AC 163-202). Qui Benjamin rigetta il culto dell’esperienza vissuta (Erlebnis) che accomunava la filosofia della vita (Lebensphilosophie) con la fenomenologia e con il misticismo di Buber (1909). Mentre il termine Erfahrung rinvia a un verbo che – similmente al latino experiri – significa «passare attraverso» ed è connesso «con una costellazione di significati che implicano l’idea di viaggio» (Tagliapietra 2017, 75), il sostantivo Erlebnis, entrato nell’uso solo dalla seconda metà dell’Ottocento (cfr. Gadamer 1960, 86-98), rimanda immediatamente alla sfera della vita (Leben) e viene generalmente tradotto con la perifrasi «esperienza vissuta». Ebbene, Benjamin interpreta l’ossessione per l’Erlebnis, nata nel contesto del genere biografico (cfr. Dilthey 1905), come «un fatto sintomatico»: come il tentativo di «impossessarsi della “vera” esperienza [Erfahrung], in contrasto con quella che si deposita nella vita regolata e denaturata delle masse civilizzate» (AC 164).

Va ricordato che già nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe (1924-25; OC I, 523-89) si poteva leggere una durissima polemica contro il ricorso al concetto di Erlebnis da parte di quei critici che, come Friedrich Gundolf (1916), miravano ad «esporre il divenire dell’opera nel poeta in base a una schematica essenza personale e a una vuota o inafferrabile esperienza di vita [Erleben]» (OC I, 549). Nel saggio su Baudelaire tale polemica si approfondisce attraverso l’elaborazione di una teoria dell’esperienza che prende le mosse dalla tesi di Bergson (1896) secondo cui la struttura della memoria (Gedächtnis) è «decisiva per la struttura filosofica dell’esperienza» (AC 164). Accanto alla memoria, l’altro elemento costitutivo dell’esperienza è la tradizione: «L’esperienza è un fatto di tradizione, nella vita collettiva come in quella privata. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria» (AC 164).

A differenza dell’Erlebnis, intesa come un vissuto che colpisce (come uno choc) il soggetto, provocando quella che Simmel aveva chiamato «intensificazione della vita nervosa» (1903, 36), l’Erfahrung presuppone un’accumulazione di dati in larga misura inconsapevole. Perciò il passato, sedimentatosi inconsapevolmente, è accessibile solo al ricordo involontario (mémoire involontaire), teorizzato da Proust sulla base della sua «critica immanente a Bergson» (AC 165). Benjamin traccia quindi una feconda analogia tra la concezione proustiana e l’ipotesi freudiana secondo cui «parte integrante della mémoire involontaire può diventare solo ciò che non è stato “vissuto” [erlebt] espressamente e consapevolmente, ciò che non è stato, insomma, un’“esperienza vissuta”» (AC 168). Ne consegue che mentre il vissuto, legato a un evento, ci inchioda al presente, l’esperienza si rivela solo a posteriori (nachträglich), nel ricordo involontario e nella narrazione. La poesia di Baudelaire viene così interpretata come il grandioso tentativo di fare dello choc un oggetto poetico, e quindi un’esperienza: «Baudelaire ha posto l’esperienza dello choc [Chockerfahrung] al centro stesso del suo lavoro artistico» (AC 170-71).

Benché non si stanchi di diagnosticare «l’atrofia progressiva dell’esperienza» (AC 166) in seno alla metropoli capitalistica, Benjamin evita tuttavia di cadere in atteggiamenti nostalgici, come dimostra il breve scritto Esperienza e povertà (1933; AC 364-69), una perentoria apologia della «povertà di esperienza [Erfahrungsarmut]» (AC 365). Invece di cercare nella mitizzazione dell’Erlebnis un improbabile antidoto alla modernità, Benjamin, preso atto del fatto che ormai «le quotazioni dell’esperienza sono cadute» (AC 364), scorge nella nuova povertà di esperienza l’occasione «per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie»: «A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco» (AC 365). Il barbaro appare qui affine al Carattere distruttivo, il quale «conosce solo una parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia» (1931; OC IV, 521) e «cancella perfino le tracce della distruzione» (522).

Se l’opera di Benjamin si può leggere come una dettagliata mappatura delle diverse modalità in cui si declina storicamente l’esperienza, ciò è dovuto al fatto che «invece di volere padroneggiare attraverso la filosofia l’esperienza – sia quella dell’arte, della religione, del linguaggio o della città – Benjamin permette all’esperienza di mettere alla prova i limiti della filosofia» (Caygill 1998, XIII).

Tra coloro che negli ultimi decenni hanno indagato, da prospettive diverse, intorno alle trasformazioni dell’esperienza nella modernità vanno ricordati Giorgio Agamben (1978a), Marshall Berman (1982), Hartmut Rosa (2013) e Peter Sloterdijk (2009).

 

Maria Pia Quintavalla – Prose da Vitae

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Un caro diario di questi anni

Caro Diario,
questo diario è un miracolo. L’ho baciato preso in braccio, vedendolo .
(Era specchio di me o del sé delle altre?). Era vivente.
Le tecnologie malate, anche loro, si sono accanite a ritardare i primi contatti, e poi l’approdo: è tornato a casa, mio come un ulisse. In attesa di ripartire entro le mura di Milano, mi hanno detto.
Un’altra Circe che si frapponeva, la cascata di avvenimenti degli ultimi mesi, mi ha gettata a terra più volte. Come tacere della morte di mio padre, i modi in cui saputolo… e tutto assieme, sangue con lacrime, nella città nativa e nella città presente.
Proprio per questo, ho deciso: che il quaderno mi salvi dalla fibrillazione della cronaca, mi porti con sé mi insegni.
Ho sempre tenuto un diario, più d’uno ai tempi dell’analisi, quando scrivere i sogni sembrava il primo compito del giorno. Oggi mi torna, come messaggero di altre vite, bussa discreto, dice,
Siamo noi – le voci, il tempo attuale, storie della storia, stai in ascolto.
Della sua culla, “dondola una gondola piano nel divenire/ feto di un fiatare breve”, dico in versi.

Il venerdì santo, prima di Pasqua, mio padre è tornato a visitarmi in sogno: dicono sia difficile sognarli subito dopo la loro partenza, se non perché chiamati dal nostro desiderio, e avevo forte il bisogno di incontrarlo; ero ad Istanbul, sul canale del Bosforo, e là mi sono ricordata, lui stava seduto in cucina nella sua casa e mi sorrideva, posando la mano sulla testa di mia figlia, che disegnava. Mentre mi guarda negli occhi, ecco li abbassa, io grido, Ma allora non sei partito affatto, sei ancora qui fra noi, e sei tornato, babbo!
Lui abbassa giù a lato gli occhi e li china, fugge via.
Così, di profilo, come uscendo, è tornato nel silenzio da cui viene.
Mi sveglio, sono scossa nel profondo: penso che sia un dono grandissimo, questa visita. La mattina è già sabato di veglia pasquale, anche se qui cantano i muezzin molte volte al giorno, con una voce che intona i versi del Corano, ma la fede è medesima alla nostra.

Oggi a Milano, sola e satura di domande, mi sono sentita bagnare fino alle radici dalla nudità.
Senza le donne, corale collettivo visibile e di sfondo, la mia vita è più solitaria di anni fa. Esse esistono dentro me, sempre; ma siamo cresciute, dunque niente più arco teso della giovinezza?
Altre cose, fili, testimonianze crude sottili, della vita quotidiana che è voraginosa.
Dai libri, dai blog, da immagini inedite ecco che tornano, in amicizie rare e preziose, patti; silenziose telefonate notturne, rapinose visite, o al cinema.
Gite dove non c’è bisogno di parlare. Perché mi mancano, allora, le stagioni totali?
Non ho accettato le diaspore le dipartite, anche lì il tema della separazione che mi taglia in due…Una me bambina da sgridare, dunque.
Di danze e vite condivise dove abitavamo, dove parlavamo ” di quel tempo o zolla / non più colonizzato/ e dedito a riempire di sé sito, ogni ..silenzio innato” ( scrivo in Estranea canzone), fuori dalla durezza sociale dei deposti patriarcali, dove le distanze appaiono protette.
E quanto dura ancora nei nostri cuori, come ha germogliato.
Oggi ho con me una giovane fanciulla in fiore, che suona clarinetto, disegna che è un incanto, da quando usa le mani; è un torello, si chiama Sara, mia figlia Sarabella come chiamavo lei piccola. Tolsi la h finale, poiché non volevo segnarla con mitologie di sua madre: la storia di noi marrane, probabile e incerta, di terra castigliana, uno dei miti di iniziazione con cui battezzare le nostre innumeri “diversità”. Oggi credo siano nomi universali, buoni per tutte e tutti.

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Lavoro, lavoro (Mi piace lavorare)…

Mi piace lavorare”, ehm sì certo che mi piace lavorare, anzi si può dire io dico che non ho fatto altro nella vita, sai quando s’intende che hai cominciato a diciott’anni eh sì, giù di lì, in quell’età della vita in cui gli altri vanno solo a ballare, in giro a divertirsi, pomiciare. Invece, eccoti qui: con la divisa da maestra. Con trenta bambini piccoli da accudire, istruire, intanto fioccano le riunioni, gli extra, non hai più tempo per vivere per studiare, allora che fai, ecco: abbandoni l’università, anzi fai finta che è inevitabile, che lo fai da convinta, e per sei anni, chi ti ha più visto agli esami? Poi continui con gli impegni, ti dici, ma mica deve cambiare del tutto la mia vita solo perché lavoro, no.
E prosegui imperterrita: viaggi, hai il tuo amore a Napoli, bene è durato sette anni, hai le riunioni politiche a Milano, magari leggere riposanti, come in Via Dogana, no? Ci vai e basta, non importa se il fiato ti manca, sia perché si fumano ancora le vecchie Pack, sia perché il giorno dopo, anziché riprenderti dal boccheggiare prendi la cuccetta notturna per Napoli, e via!

Poi, la università la occhieggi sempre, sai che lì vicino c’è Bologna, con i suoi giri universitari chiusi, però ci vai, di relazioni di lavoro tenti di allacciarne, ma solo il sabato e la domenica. Poi pensi: che quella domanda di borsa di studio per Parigi, perché non dovresti farla: per laurearti hai dovuto cadere per davvero, ingessarti, sempre vero, avere l’onore delle aspettative per salute, per potere infilarti dieci mesi a letto, e scrivere scrivere, studiare.
Intanto che lui da là, di Napoli, aspetta che tu lavori sempre, ma pazienza, tu lo sai fare bene, Appena puoi torni al lavoro. Poi le cose fra te e lui iniziano a girare sempre peggio, in breve dopo i sette anni vi siete lasciati, allora tu cosa fai?
Riprendi il treno dei compiti e scadenze, te ne dai sempre di nuove, così ti tieni attiva, lontana dai serpenti che sparlano di te, e fai finta. Di crederle avvincenti, ti ci butti, studi per vincere il concorso direttivo, oramai la china paterna è di seguire, te l’hanno imposto senza tu lo cercassi, le sue orme. E lo fai, ingoiando il mugugno, intanto la leader storica del movimento femminile non ti chiede più perché non vieni a trovarmi, che potrei insegnarti come vincere la borsa di studio a Ginevra.
Però a Milano ci vai, non prima di avere fondato la casa editrice nuova, con la nuova amica e lì pubblichi, anzi fai pubblicare: per primo il fidanzato, così non sbagli a sentirti a pari con la coscienza, che tanto sai che tu conti sempre molto dopo gli altri, poi le scelte agionate: pubblicare Rosselli, Vicinelli eccetera. Ma poi infine te ne vai davvero a Milano, se Dio vuole, perché il concorso l’hai vinto davvero e sei fuori dalle scatole della famiglia, CHE C’HA MESSO TRENT’ANNI A DEMONIZZARTI CONVINCENDOTI CHE NE AVEVA UNA BUONA totalità di ragioni a trovarti una strega, e bruciarti ogni volta che ti rivedeva.
Ci vai, lo vinci, trovi casa, vicino alla Ripa Ticinese, in affitto, anzi affittacamere, da un signore siculo che ti spia in camicia da notte la mattina, quando fai la colazione, prima di andare a fare per l’ultimo anno la maestrina, e poi la direttrice, ma lì i tuoi si sono finalmente decisi a farti acquistare la casa, sennò c’era quell’uomo di mezzo.
Allora nella casa nuova, e tua, con un uomo giusto al fianco, con l’analisi a lato, e con le amiche che scrivono, oppure con te sola, eccoti qui finalmente ad iniziare la tua storia; di vita di donna, nuova, e tua.
Che insegna dirige scrive organizza ma soprattutto che può anche e finalmente scrivere.
L’autorizzazione, A VIVERE AD ESSERE QUELLA CHE VOLEVI.
IL lavoro diventano i lavori, tanti, a milioni, ma a te piace moltiplicare le responsabilità, organizzare creare: eventi soprattutto, relazioni, farli parlare con te, ad alta voce fra di loro, i poeti, gli intellettuali; farsi e farli AMARE, SCONTRARSI, PENSARE, CONTRADDIRSI.

TUTTO QUESTO TI ACCENDE DI PENSIERI NUOVI, e ti stanca anche infinitamente. Poi, cominciano ad entrare in relazione nella tua vita anche loro, le donne tue somiglianti: Eccole là, spuntare come menadi prima del movimento, poi le donne in poesia italiane, come sorelle ginestre, ginecei ambulanti.
Una invenzione pura. Nessuna meno di una artista desidera confrontare la propria SEMPRE DISCUSSA grandezza con le altre, ma tu lo fai ci credi te lo imponi, lo fai credere alle altre.
Sai lo sguardo che affida valorizza la solenne confusione tra questione femminile e lavoro poetico? Bene questo pasticcio sublime ti intrica appassiona, fa sognare e fa correre la mente in quanto aura, atmosfera, rivendicazione dopo una negritudine, rifonda etica, è scum!
Ti fa nascere parole, idee, confini. Ti insegnerà confini.
Anche se è una tra altre, metafora di altre sintesi viventi, di altri destini che si sono incrociati in quel pugno di anni italiani, mani che si toccano sodali, voglia di rompere amnesie. Sole corrente, contro la corrente.
Poi, furono gli anni della onnipotenza a fare da padroni: ideare, organizzare e curare festivals nazionali, chi te lo fece fare? Ma perché ti piaceva da morire, era coniugare il sogno al sogno, la tua vita al fare creare relazioni anche letterarie nuove, o ti illudevi. A partire da te, da dove ti eri trovata a nascere, da quale fianco della vita.
Però, ti dici, è rischioso: sono tante grandezze sovraesposte, non si rischia di confonderle?
Ma è per eccesso del silenzio che le precede, forse. In un universale vero, fianco a fianco sarebbero stati sempre uomini e donne, artiste con artisti.
Ma storceranno il naso diranno, è ghetto, è offensivo. Pretendono dipendono, ti reclamano poi si eclissano, preferiscono la cosa tradizionale, dove c’è autorizzazione normativa, realtà istituzionale, ti sono però devote poi oppositive, poi tradiscono si sentono, loro, di tradire qualcosa che ha a che vedere con l’ordine costituito, il proprio nome e posto riconosciuto, dato. Ma si divertono anche, e te lo dicono scrivono, corrono al pensiero della successiva antologia ed invito, se lo prendono e come, quello spazio a lato, quell’antefatto mai goduto. Delle singole e delle estranee, come le chiamava la Woolf.
Le analisi non mancano, anche se non disegnano una mappa critica soddisfacente, ma non la volevi, ne avevi parlato anche con Porta, niente “alternativa” all’universo letterario, semmai alla parte mancante muta, il pathos che sostiene, le idee corali di un gruppo intellettuale; sei sempre tu però a tenerle a mente, non ti faranno lavorare in gruppo anche perché c’è fuga, già paura, diaspora.

E sul lavoro- lavoro? Perdi la voce, la serenità, ti attaccano dentro e fuori la scuola, sei andata al Costanzo, non dovevi: esibire il tuo status di operatrice donna sola, intellettuale che ama lavorare, ma soltanto nella libertà di non renderne conto,( non sei efficiente e non ti aggiorni sul mestiere, non ti era mai piaciuto fare il burocrate perché non vi eri nata), allora, che fai? Ti dimetti dal ruolo direttivo, nessuno ti aiuta a trovare fughe in posti più rilassanti, dei comandi, ad esempio, fuori dalla “medina” permanente. Ti mancano le conoscenze, le raccomandazioni.
Sogni, incauta di metterti in proprio, sola e calma, a scrivere. Da sola, in casa. Già. Prima che si inventino le figure del free lance.
Come in un racconto della Bachmann, dove la donna che rifiuta il codice di prestazione si fa sorprendere semi addormentata a letto, ma emergendo da continuo sonno si finge in lucido tempismo, di condurre affari “come se” fosse all’esterno, nella realtà, per strada in ufficio, o sotto la pioggia camminando, telefona al suo uomo, impersona la vita normale.
Non volevi soltanto ribellarti però, dopo poco assaporato il letto accidioso, vuoi davvero tuffarti nel regno dei free lance, nel campo della scrittura creativa per farne un lavoro vero. Nell’anno del pre pensionamento ti butti nella disperata ricerca di inventare di trovare, allora; e per tre anni si moltiplicano fioriscono scuole, corsi, seminari dove insegni, dove torni e insegni ancora, poi rilanci: e sempre a leggere e scrivere poesia, piuttosto che l’italiano scritto. Ai futuri laureandi ti lasciano condurre corsi istituzionali.
A volte ti pare sia davvero prestigioso, come fossi una normalmente inserita, non una fuggitiva, un’irregolare, come sei.
E ti lagni, come di ostracismo generazionale, del fatto che non hai più un posto fisso, non l’hai più voluto, ma lo hai pure snobbato ignorando la legge che, di ogni ambiente fa una catena di servitù concrete, se appena esci dal suo giro, ne esci.. Così col posto fisso, con le relazioni non coltivate prima, anche perché la famiglia a furia di anatemi, non ti ha insegnato affatto la pazienza, e l’ambizione, del perseguire un lavoro voluto, e che ti soddisfa, tuo.
Al bando eri, e al bando tu scappavi, circumnavigavi, al massimo trasgredivi, ti credevi libera.
Ad esempio non ti consentono più, dopo che sei andata in pensione, di curare quelle belle dispense sull’insegnamento di poesia tramite le rubriche per la scuola dell’obbligo, che per anni ti avevano appassionato. Le avevi create tu, l’ultimo poeta presentato, alla Fabbri, per i piccoli della scuola dell’obbligo: erano stati tra gli italiani, Vittorio Sereni, ed Antonio Porta..
Poi, la parte più bella viene, quando ti inventi mestieri nuovi, meticciati: come conciliare la retorica o gli incipit e topos della prosa occidentale ai futuri copy, come insegnare ad ingegneri, anziani, studenti, donne, le peculiarità dello scrivere in poesia e in prosa.
Inventi corsi e te li fai pagare, la domanda pareggia la offerta. Circolano idee, sono gli anni ottanta e novanta, iniziali.
A volte pullulano le offerte di lavoro, a volte inesistono. Per mesi non riesci a tirare il fiato, le ore del giorno e delle settimane non ti bastano a respirare, oppure il contrario, vivi in accidia e paranoia, perché nessuno più ti chiama.

Hai soltanto brevi scorci notturni o ritagli sui metro, per scrivere. La vita irregolare la danneggia la incalza con disgrazie, occasioni, raptus. Di nascosto di fretta sotto dettatura, la nascondi fra quarte di copertina e biglietti di metro; la mattina le ritrovi tra le pagine di libri e quaderni le parole, che saltellano come raganelle e non sai come imbrigliarle.
Le fai aspettare. Tasti gli estremi. Ti fermi, pensi di oggettivare.
Oppure pensi che ti eleggeranno amica, in benevolenza a quel vento nuovo, se ti arriva quel vento nuovo, oggi ne era entrato dalla finestra una brezza, hai provato a fermarlo con le mani.
Si è posato, come un passerotto invernale. Ti diceva cose leggere e care.
Come ti avrebbe avvertita, sai stare alla perfezione così, ore ed ore, ne sei condotta dal cerchio di parole. Poi, a sera, altre persone entrano, e sbattono le porte, portano parole cattive e cattivi pensieri, le tensioni il cerchio inutile e malvagio del litigio, maledicente cronico.
I bambini invece hanno un buon odore. E si ricaricano con un nulla. Ti baciano e ti stringono le mani. Ti ispirano la vita, la motivano dal nulla.

Oggi, una mattina come le altre. Mi alzo e prendo il solito caffè, stavolta al ginseng.
Sara è già a scuola, ci è andata col suo papi. Ha dieci anni, quasi, fa la quarta ancora.
In pigiama resterò a lungo perché nessuno, pochi, mi telefonano per i lavori.
Eccoti nella Milano del precariato e dei non luoghi a rimuginare inutili sogni, se in Emilia tu staresti meglio, è chiaro che ci stai meglio, ma per vivere soltanto cioè inspirare luoghi chiese bellezza e natura viva, e curve collinari che non vedi perché nessuno ti accompagna, ma allora ne scrivi, essa ti fa ricordare, respirare passeggiare, nel mondo case come radici sostenere, tua madre intanto è morta, però, sette anni prima, e tua figlia era ancora treenne. Ma era da una vita che la ricostruivi, ora ce l’hai dentro in pace ti ci è entrata, e riposa.
E’ il padre l’osso ottuso ancora, che rimane a testimone del divieto a essere amata ad essere accettata in santa pace. (Mai avuto), non ti puoi illudere che con tutto farai pace, anche se ne avresti un gran bisogno, se ne avresti.
Ma alla metà mattina ecco i planing del giorno prima, del mese prima: inevasi. E le telefonate e l’invio stampa, perché l’hai scordato perché lo rimandi, cosa fanno quei libri buttati da (anni, mesi?) sotto al letto, solo perché non vuoi ( puoi) rispondere, e quei testi ammassati, pronti sì, lo dici tu, né editing né revisione, fuffa di polvere di cacca di gatto che piagnucola in cucina, ma al telefono ci vai pimpante, suadente, la cadenza si fa fresca emiliana, o lombarda, ma sorridi o annuisci, speri chiedi e non trovi o cerchi aspetti ascolti, taci e rimbomba, c’è un tale traffico lì sotto, perché la lamentela cresce allarmante non ce la fai più a dormire, a sedare, a staccare neanche all’alba neppure con le colazioni con latte e biscottini, e sedativi all’inizio dici beh, solo dieci gocce, ma dopo un’ora non le sai più, hai bisogno di spegnere gli interruttori e il rumore là fuori sbatte, motorette e ragazzini con gli orari happy hour ormai perenni da precari della fame, ma tutti trendy tutti per bene e noiosissimi eleganti che se la tirano, solo perché lavorano o ci aspirano ne parlano, ma era così Milano un tempo quando ci arrivasti, no, che non la era: brutalizzata la legge economica che impera e detta una legge sola, Mangia o muori, venditi e bene sei siete un esercito di giovani,variegati schiavi di questo mondo, modo che è solo del lavoro; come il giovane Carletto Marx aveva raccontato, mondo di merci balordamente sì, qua sotto casa mia, solo anoressiche top modelle e top manager ingurgitano gli happy hour del mezzodì di notte, l’happy hour è serale, ma sarà al stessa sbobba di spaghetti scotti e polpettine di cane, mah, chi sa com’è fatta la gente di oggi siamo mutati, eccome, eccoti lì alla finestra a riconciliarti il sonno, perché non se ne cura lui, ma neanche tu ti curi anzi, col vizio di curare tutti eccoti qui a rammendo, a free lance, a tedium vitae, a scartabellare appuntamenti, ma quelli di medici e analisti prevalgono troppo, è di lavoro vero che vorresti vivere.
Quello retribuito, come piaceva al nostro mix errabondo popolo erratico ed ebreo, non è così, ogni giorno lavorare allontana la morte, il tedio e i cattivi pensiero, ora basta.
Aspetta di riordinare meglio gli armadi le librerie, che tanto non lo farai. Da sola, hai detto non ce la fai.

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Ma sola sei – sempre, anzi più che mai quando ritornano a casa i familiari, allora gridano o corrono, pretendono e tu sei tra il nervoso e inebetito vorresti anche tu l’attenzione, ma la voce che esce è stridula poco credibile, ridono vedendoti col maglione a rovescio e l’aria inochita, ma forse ti stanno chiedendo hai preso quelle brutte pillole per dormire? la casa la figlia i mestieri il telefono la scrittura parcheggiata lì sotto, fra la fuffa arrivare come l’armata a cavallo fare capolino, tu sorridi tieni i due cordless in mano.
Alla sera stai zitta però hai la testa vuota un ronzio al cervello ti appresti a fuggire di nuovo nasconderti, non ti trovano così, nessuno mai.

Solo a notte ti premi sotto al cuore dove pulsa dove non tace dove brilla. Ma è stanchezza o è euforia, è angoscia che cosa è che ti fa sentire l’operaia della casa miniera dove custodisci nascondi menti tradisci taci ti torci le dita perché in nessun posto vorresti essere tranne lì, non ci vorresti ma potresti, le tue idee si accavallano confondono e chiudono ti mancano.
Scappare, lo so. Le donne che non mettevano la testa nel forno volavano dentro ai fiumi all’alba, o si lasciavano appendere come palloncini dopo avere scritto gli ultimi versi col carbone, come sogni. E’ là, da quei balconi, dove appesi calavano i vivi, le loro parole come da palcoscenico come dal suo teatro, ecco la soccorritrice notte, avvistarsi silenziosa, psst, psst, a zampette di gatto passerotti passetti passeggiare dentro al cranio leggeri e innocui, leggeri e innocui, “i sogni i sempreverdi.”
5)All’indomani del venerdì’ di passione prese il coraggio, si cambiò uscì comprò un tailleurino nuovo inforcò gli occhiali si decise: doveva lavorare. Seriamente e fisso, così la figlia i problemi forse per un po’ si fermano. Allora, il planing! Cercalo, poi riciclarsi progettarsi, collocare.
Mi piace lavorare? sì mi piace mi piace.

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Un corpus nuovo di leggi splendide

Leggendarie leggi furono promulgate nelle fortezza sopra Parma, dal giovane marchese Manfredino dei Pallavicino che, appena quindicenne e già denominato“ il pio”, giunto a dimora e reggenza,promulgò subito specialmente le buone leggi per drenare l’acqua dei fiumi e dei laghi sottostanti, tramutandoli in energia.

L’energia veniva fatta discendere dall’alto delle colline bucate dai girasoli,
lungo il corso del torrente verde lucente del Baganza, per poi dividersi nella ruota che di lì a poco si fermava, esaudendo energia infinita in canzoni, di multilingue razze.
Eppure Parma la bella era colpita là lontano, quasi ogni anno da terremoti sempre più frequenti, ed anche il Duomo ne era stato ferito a morte. “La peste nera” poi, com’era stata chiamata, non cessava di chiamare vittime alle sue porte.
Nuove case in sassi e mattoni fiorivano nei borghi, dopo le case in legno e paglia, “l’aria che rende liberi”, parmense, attraeva sempre più gente e la popolazione si moltiplicava.
Il fossato che circondava Cò di ponte oltre il torrente fu allargato fino a barriera Santa Croce, poi si allungò ad est di Barriera Repubblica e a sud, fino a sfiorare Borgo Felino.
Il torrente dove Manfredino Pelavicino aveva amato sostare, nelle prime scorribande giovanili, erano ancora passerelle.

Iniziò così in quel tempo, la leggenda del vento riparatore:
verso sera con lo spirare del vento, la ruota incominciava a girare e spandeva nel corpo della vallata innumeri profumi e calmi, dai campi d’erba medica e di fieno tagliato.
Dalle colline, quelle brevi colline, si annunciava uno schiudersi rantolante e festoso delle case, dalle cinte murarie basse, a cintura.
All’imbrunire, nessuna notizia aveva raggiunto ancora la contrada di Ramorino. Fu così che si propagò la leggenda del vento riparatore (che inutilmente andava) tra città e campagna, ogni giorno in cerca di messaggi pacifici e di sognare rivincite contro la contrada di Parma.
Vento che doveva portare con sé il suo nome, pieno di voci estranee alla guerra, di trovatori di donne e di bambini, in quella lingua dura dei vinti.
“Per creare mi sono distrutto”, affermava volando a bassa quota lo spirito del tempo (dei venti), che muoveva la ruota della macchina mulino,da lui promossa a simbolo del reame.
“E per creare non ho più potuto dipingere: queste campagne, le luci basse giù in pianura, le file bianche di strade divaricate a “u ”, la nebbia porosa piovuta da matrice caliginosa a fontana, che usciva dal buio verso sera, o all’alba.
Ed ora aspetto, aspetto di sapere dalla bocca della gente del paese, nelle donne curve da faticosa cura della prole, con le ciabatte spaiate sotto il tavolo, in quale terra vogliano vivere in che regno, e pace”. Dei loro figli pronti a rubar soldi, a nottate brave sottratte alla cura dei vecchi, intorno al desco serale, e pronti alla truffa, senza potersi aspettare da loro più nulla di buono.

“Sono stato un altro, per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza):
e mi sveglio ora in bocca al ponte, affacciato sul fiume, su questo rudere che stende poi stabilmente la sua ombra e defluisce, dall’alto monito e baluardo, castello di un dio sognato.
Ma la villa lontana mi è sconosciuta, le strade nuove e le malattie senza rimedio. Aspetto dunque, affacciandomi sul ponte, che passi la verità e che io mi ristabilisca sul fittizio.
Così come lavano il mio corpo, dovremmo lavare il destino”.
Per pulizia – pensava – e guardava la villa là lontana, quei bagliori sensuali del divieto.
E in quel momento la villa diventò grande e minacciosa, e dominata da ottuso spirito ferino: la bella Parma, dicevano gli amanti cavalieri della notte.
“La belle!”, chiudeva tardi il dito nel libro, Manfredo, la sera.
Come parlasse di un’amata lasciata a sorpresa. Ma la forza del vento la dileguava e per sempre confidando per lui, ne spostava i confini: dal letto del fiume e nella piccola Ramorano, indicando lo stemma alto come una campanella offuscata. Nel suo nome, la valle scandagliava.
Si ripeteva sempre l’eterno duello tra la città del “crepacuore”, nome dell’antica villa guelfa parmense e la vicina ghibellina Salso.
Come fare volare quelle canzoni allora, recitate e narrate, di volgo in volgo ma non trascritte, se non poteva più trasmetterle, da amanuense musico, dedito alla scrittura?

Un corpus nuovo di leggi splendide
fu pensato da lui nelle notti piene di una luna bianca in chiarore sopra la vallata, un corpus nuovo di leggi splendide per il popolo che doveva riprendere coraggio, e annunciare così umanissime speranze al mondo, fuori dalle fazioni intrise di un’offesa senza più legge umana.
La prima legge, chiamata del cantore naturale, denominava più potente e fortunato, prediletto del sovrano, colui che avesse inventato canzoni somiglianti al mormorare del fiume in correnti.
Cantore della natura, ma in una lingua umana che sapesse imitare alla bisogna il fischio degli uccelli, o il ringhio dei lupi alle porte della villa, o i silenti flauti dei pesci, presi prede dalle correnti del fiume.
La seconda legge, o della misericordia, che la discendenza garantiva nome e patrimonio anche ai figli naturali, ma per eletti meriti di prodigalità, verso poveri o vecchi.
La terza, o dei medicamenta, che giovani e donne potessero rivestirsi in mestieri, sempre nelle contrade del Baganza, Soragna e Busseto, per quei particolari poteri che già possedevano, come quelli di curare e di far tornare a sorridere, di insegnare gli alfabeti in volgare e il cantare, oltre che in chiesa, nella pubblica piazza, e di non esser più denominati streghe o stregoni.
La quarta legge, della guerra all’iniquità, che fossero proibiti e solennemente castigati tutti quegli atti di iniquità palese verso gli inermi e le persone sofferenti, nello spirito o nel corpo.
La quinta, della beneficenza: che il pubblico denaro o le private ricchezze potessero equamente essere distribuite ai poveri, nel grave bisogno seguìto a guerre o carestie, secondo ordine d’età e di povertà, così come già i francescani e altre congreghe avevano praticato.
La sesta legge, o della pace, che la rivalità con Parma ormai cessasse e venisse dichiarata scaduta in eterno.
La settima, o del ravvedimento, che la gloria di Dio si potesse cantarla anche nei quotidiani ed umili mestieri, come espressione del pentimento dei peccati o dei delitti al posto della decapitazione, e come pubblico esempio di virtù.
Con questo decalogo scritto, ancora caldo di penna e con la pena nel suo cuore, sopra il letto sfatto, si addormentava tranquillo dopo le notti insonni, nell’alto del felice castello di Ravarano, il marchese pio Pallavicino detto da tutti, Manfredino il poeta. Il proponimento nato dalla contemplazione dell’oscillare della ruota e dalla visione del vento riparatore, era affidato a quelle amate carte, esili nelle segrete.

La teoria dei quattro elementi non era bastata a giungere in soccorso, ma ricercava figurazioni allegoriche che decantasse il suo sogno, diffondere il bene sulla terra, traducendo dal moto delle ruote nuove leggi terrene.
Forse nel sogno alchemico era celata una legge che parlasse della trasformazione segreta del cuore dell’uomo verso la pace. Ma la visione sempre più cristallizzata gli procurava immagini su immagini e canzoni mute, senza vi si scorgesse il segreto principio della natura duplice dell’uomo, dove corpo e spirito volgono insieme, secondo lo spirare del pensiero.
Fu in quegli anni che, nelle campagne parmigiane si riprese ad udire il grido dei frati flagellanti, poi dei nuovi francescani, “Penitentiagite ! Penitentiagite!” Oh, pentitevi!

Ci sono ruote pensava, che l’acqua fa girare, e questo evento produce preghiera,
che rende stabile l’universo. L’unico compito dell’uomo è di far sì che le ruote continuino a girare, perché se si fermassero e cessasse il loro influsso benefico, l’universo cadrebbe preda del caos.
Se il mistero del verbo fatto carne restava muto, era perché mancava l’esperienza dell’amore con Dio, e quest’esperienza doveva sortire dal dogma trinitario per nuove voci. Tale Guglielma di Boemia, a Milano stava predicando con le stesse parole, senza conoscersi gli uni, le altre.
Cercava nuove liturgie, che il moto della ruota potesse sostituire le preghiere degli umani, poiché essi non erano capaci di salvarsi da soli. E che tali ruote divenissero motivo di raduno e i preghiera.
Fu così che lo si vide divenire vecchio e solo, alla ricerca di un’illuminazione.
Mancavano tre anni alla sua morte, ed egli quietamente la attendeva; e mancavano tre leggi al compimento del decalogo affinché volgesse al fine la sua esistenza nelle tavole del bene, leggi nuove per il popolo in così forte mutazione.
Un corpus solum piccolo e segreto, spinse il pio Manfedi a cercare quei principi di non dividere quello che, dall’anima separato, essa rimane: solamente corpo, e materia. E così gli ultimi, araldici, comandamenti furono un bel giorno stellati a fuoco, davanti agli occhi aperti in pieno giorno, quando sentì afferrarsi al collo da una mano che lo ghermiva in largo giro di vento, e sussurrando piano per mano di lui, scriveva
l’ottava legge, o dell’umiltà: che il cuore stesso dell’essere tragga sua intima ispirazione nel volere essere, non per sé medesimi soltanto, quale volontà di potenza terrena, ma oltre sé nel voler bene all’altro, nell’amarlo a fondo, come precipuo del mistero trinitario, ispirato dall’amor materno femminile, come sarà scritto nello Speculum simplicium animarum, di tale Margherita Porete;
la nona legge, o della semplicità: che non si attenda più a creare società terrene ad alcun fine, là dove il corpo non collabori a specchiare in sé il compito delle anime semplici, e che la costituzione d’ordini sociali si proponga come predicazione e adempimento del Nuovo Regno;
la decima legge, o dell’armonia universale: che dette Società, in Comuni e Corporazioni diventino il crisma dell’armonia stellare conclusasi in Cristo, assumendo su di sé il disegno delle braccia spalancate e quelle del corpo ruotante, poiché tale ruota spinge in basso la concupiscenza del corpo corrotto e dei vizi capitali, e in alto gli aneliti dello spirito alla pace.

Spesso la gente aveva visto passeggiare quasi correndo, a testa bassa sul letto del Baganza, Manfredi e il frate, a mani chiuse dietro la schiena; alzare le mani al cielo, saltando sui suoi piedi con fare giullaresco, e Manfredi trasportato dalla carnalità di lui, sognare del congiungimento tra le gioie corporali e quelle spirituali, già covato negli occhi ma affidato ad albe di canzoni, e preghiere,
che sarebbe vissuto nel “corpus solum” di leggi splendide che ora brulicavano più chiare nella mente
Tragedia nella bufera, ultimo atto.
“ Nella chiesa di Fugazzolo, il 13 gennaio 2002 si sono ricordati quattro ragazzi morti assiderati nell’anno 1921, mentre tornavano alle loro case per trascorrervi il Natale, che smarrirono la strada. Nella notte la bufera non ebbe pietà per loro.
Erano partiti da Ravarano per recarsi a Graiana dove avevano la famiglia, due maschi ed una femmina di 12, 16 e 18 anni ed un cugino di 12 anni.
Giunti in località “la Vecchia” sopra Fugazzolo, morirono nel gelo travolti dalla bufera: era la notte della vigilia di natale e furono ritrovati soltanto il 13 gennaio 1922.
Ora i corpi sono sepolti nel cimitero di Fugazzolo.”
Si dice ancora oggi, nella rinata valle del Baganza, che il vento riparatore, con la morte di Fra Gherardo e una volta abbandonata la ruota a se stessa, avesse mutilato i suoi denti e impedito a sé di girare spingendola poi sotto la terra, come voragine-vortice che, nelle notti di pioggia o di neve attraeva chi ardisse posarvi sopra i piedi, calpestandola.
Sequestrate le leggi, interrotto nella ruota il moto del vento, e bruciati gli ultimi seguaci dell’amato Segalello, la riscoperta di tali leggi sarebbe passata attraverso un evento catartico espiatorio. Nel sacrificio forte, di vite umane e innocenti di fratelli impediti nel raggiungere, la notte della Natività, le loro famiglie.
Si narra anche che, entro la ruota sprofondata dormano ancora, come in sigilli astrali, i quattro amici formando un’aperta stella carnale, a compimento del corpo magico più tardi sognato, e disegnato, da Leonardo da Vinci.

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Nord , sud

Un ramo di limone sì, era stato con un ramo di limone che se n’era tornata al nord, a Milano, dove viveva. Mentre girava la testa e si sporgeva verso il finestrino, per salutarlo e stringergli le mani, ma piangeva, e non poteva inviargli baci con la mano, lui rideva invece, rincorrendo per gioco l’automobile che la portava via, sapeva già come invitarla a quella lunga danza del cuore, cui si accennavano – i primi passi.
Quel ramo invece glielo aveva donato E., un giovane napoletano, dopo tre giorni d’amore improvviso, un’avventura, lei avrebbe pensato per disfarsene subito, mentre commentava con l’amica che glielo aveva presentato, ma scacciava le lacrime.
Aveva così conosciuto Napoli, prima mitica poi carnale, per la prima volta nella vita, “Alta ci accolse Napoli…” aveva aperto un incipit di poesia, scritta anni dopo, “palazzi come chiese sopra giardini…”.
Napoli era anche la patria adottata del cuore, così somigliante agli struggenti colori che scorrevano già negli occhi, fin dall’infanzia, quando sua madre, originaria di Castiglia, ne parlava strozzandosi la voce in lacrime che annegavano silenziose nelle alte pianure del nord, dove a soffiare era la noia indifferente dei giorni, scanditi dai ritmi sonnolenti del lavoro, da orari ricevuti e dal coprirsi dei corpi.

In quei rapidi giorni, tutta una terra mediterranea dorata, pulviscolare e aspra, sonora e ardente di odori fino alla nausea, le era entrata negli occhi; come un’eco forse della Spagna materna, da suoi racconti giovanili e mozzati, sul pericolo da lei vissuto in amori, e addii napoletani.
Ma intanto ora, negli occhi, come un nastro a moviola, lei ripeteva a ritroso t u t t o il rotolo di immagini trattenute che si liberava, si dibatteva, fuoriuscendo all’aperto: da Capodimonte collinare e austera, dove dormivano lei ed E., lussureggiante, calma nelle passeggiate come un monastero, ai Camaldoli boscosi sopra la villa, giù giù fino a Montecalvario, dove appesi sfilavano i vivi.
Il monastero di santa Chiara, masticato nell’ombra, e l’improvviso ritorno al traffico impazzito del Vomero o di Piazza Plebiscito, al planare ampio e scolpito del Maschio Angioino, al mare aperto il dolce e silenziato mare, con le braccia aperte come una madre spalancata.
Dalle pendici verdi e chiare sotto al Vesuvio, alla costa del litorale addensata di vita e luci, un golfo della vita, poi gli antri di Cuma intravisti mentre nasceva il loro gioco, tutto domande e sguardi, fino all’apertura greca del lago di Averno, navigato divorando insieme le fave fresche che lui ti aveva portato nelle mani; poi l’emozione di rovine, in sogno, ad Ercolano e Pompei, e la navigazione a Panza, sotto le sorgenti solforose, per ripartire fino ai fiori bianchi di Procida addormentata sul porticciolo povero, per terminare in coda, dopo le tre pomeridiane, a mangiare pesce fresco a Pozzuoli.

1

Fino alle ultime immagini del rito quasi nuziale, dove tutto sarebbe incendiato, a Capo Miseno, loro due coricati, sugli scogli a contare le navi avvistate, figurarle come navi dei rivoluzionari russi del 1905; e poi la sera, di corsa dopo il primo arreso bacio, a consacrare l’amore nella visione di un film, come stregati riderne incoscienti, sulla didascalia: “Le giovani generazioni sono attratte dallo zucchero”, dove giovani innamorati, e nudi, Pierre Clementi tra i protagonisti, nuotavano si amavano, immersi nella cioccolata.
Un bagno pulviscolare nell’oro, una immersione dei sensi, stordente da fare venire meno la ragione, erano stati quei dieci giorni per gli occhi, per l’udito.
Ed ora passava al cupo dolore della perdita, mentre riandava alla bellezza sfrenata, a quell’allegria vitale colorata, che le teneva aperta la carne e spalancati gli occhi, a batticuore ne bagnava le viscere fino al tremare dei polsi, e le cambiava la voce gli accenti della lingua in sentimento, come la madre spagnola, le aveva insegnato cantandole canzoni, commuovendola.
La catastrofe ora, mentre il paesaggio autostradale, dopo gli ultimi pini marittimi tra il Lazio e la Toscana, cedeva il passo collinare vario ai più severi monti dell’Appennino, e prima di inoltrarsi nella lunga pianura padana, ecco ora – stava per perdere tutto questo, tranne che nelle mani in quel ramo aggrappato a lei, pungente acerba e aspra soledad che si spandeva, nell’abitacolo dell’auto.
L’amica aveva smesso di parlarle, essendosi accorta che non le aveva procurato un’innocua e piacevole ospitalità, ma innescato qualcosa di somigliante al duro viaggio, e ignoto, che ci attende nella prima storia d’amore.

Quindici giorni dopo, quando non aspettava e non chiedeva, non spiava più la luce del telefono, arrivò la prima lettera che chiudeva con un giuramento: “settecento chilometri non basteranno a dividerci, ti amo”; e con le mani, nel lacerare la busta confusa, spaventata anche, si trovava a scuola dove insegnava e aveva lasciato fuori i bambini, in giardino per rileggerla, e baciarla con la bocca, riudire bene le parole, ma era ancora soltanto febbre, un incubo un sogno all’aperto che non si svelava. Lui sarebbe salito dopo una settimana, installandosi a casa sua, di prepotenza e senza più badare a giorno né notte, essi vivendo ed amandosi esclusivamente di notte.
“Nous entrerons aux splendides villes”, era la loro lettura poetica manifesto.
Anche se lei, di giorno, doveva lavorare.
Quando tornava all’una, sempre affaticata dai suoi trenta bambini in età scolare, lo trovava, da poco alzato, che stava cucinando per lei, specialmente baccalà, ma più spesso assorto che filosofava, o le parlava dell’ultimo libro letto, usava prenderli in prestito alla biblioteca comunale della Guanda.
Lei assentiva, vergognandosi della sua vita monotona, meravigliandosi lui non se ne avvedesse.
Abitava sola da anni, dopo che aveva dovuto allontanarsi precocemente dalla famiglia.

2

A volte, quando uscivano a passeggio, lui iniziava a recitarle versi di Fortini, o di Pasolini, e amava deridere i gesti dei suoi conterranei, “il gesto attento, (come le scrisse nelle numerose lettere durante le separazioni), della socialdemocrazia”.
Poiché si sentiva di una razza eletta superiore, ed anche con gli amici parmensi, tendeva a non dare loro troppa confidenza, quando non voleva sedurli subito con lo sfoggio di citazioni e di una esperienza di vita che appariva subito cosmopolita, come quella buona, napoletana, con un’acuta ironia che lei non trovava imbarazzante, anche se un poco snob, leggera, da intellettuale.
Iniziarono i turni crudeli per vedersi, strappati al riposo, alle ferie, a finte malattie.
Spesso, quando non resistevano, si incontravano a Firenze, dandosi appuntamento a S. Maria Novella, più volte, a Roma dove E. era ospite dei brillanti redattori de “Il Male”.
Allora il mondo era continuo viaggio autostradale, ma l’innamoramento richiedeva letti e case più stanziali. Iniziò a mettere le amiche davanti al fatto compiuto di dovere allargare la casa, e le convivenze, fino ad allora femminili, spiegando loro che non poteva che venire a vivere da lei, E., quando saliva a Parma.
I lunghi inverni in cui lei sarebbe discesa a Napoli, erano segnati dalla lotta che intraprendeva contro il freddo, ma non osava parlargliene, o farlo pesare. Riempiva la valigia di ogni tipo di maglioni e collant di lana, e di aspirine. La bronchite la raggiungeva a volte, ma non era importante.

Abitarono a tratti, a Capodimonte, per poi fissarsi a Montesanto, dove lui divideva l’appartamento con un compagno medico, dai gusti raffinati, sottile, olivastro e schivo; la sua fidanzata, pittrice, prese a bene volerla. Ma E. lasciava grandiosi cesti della biancheria da lavare, inevasi, o non ricordava di fare la spesa, si comportava cioè sempre come un gran signore.
Le sue riunioni segrete, nel gruppo dell’autonomia operaia, erano nobilitate da letture colte e raffinate: Kleist, De Quincey, Blake, Foucoult, Derrida, e Nietsche, come si conveniva, allora, alla giovane intellighentia della sinistra.
Peraltro, lei aveva già adocchiato, e da qualche tempo consacrato a sé altre maestre: Luce Irigaray dal folgorante “Speculum”, dopo De Beauvoir, o Julia Kristeva. Ma sotto, preferendo a loro, i poeti, come Dickinson, Rosselli e Vicinelli, in questo scontrandosi con la formazione trontiana e negriana delle amiche di lui, napoletane, dedite a tristi gruppi femministi sul salario al lavoro domestico.
La sera, uscendo all’aria tiepida e satura dei vicoli, non si accorgevano, è vero, di quanto il sogno già si mescolasse, in silenzio, ad imminenti drammi della società civile e della miseria, italiane.
Tracolli di civiltà, dopo che di generazione, sarebbero entrati a forza, senza poterlo noi impedire, nelle esistenze di tutti. La meglio gioventù, o la meglio crudeltà, come fu detto.

3

Spesso ci si sarebbe chiesto chi avrebbe vinto, tra la socialdemocrazie del nord, come lui scherzava, o il respiro ansante e ciclico della terra del sud, dove ci amavamo.
Una mattina vennero a svegliarci, poiché si seppe che Pier Paolo Pasolini era stato ucciso.
Ricordo che dal letto, quasi nudi, lui iniziò a commentarlo agli amici. Cercavamo spiegazioni a tutto, non avremmo certo smesso di farlo in quella terribile mattina.
Era chiaramente un delitto politico, ma era di più, tutti ci colpiva, così sentimmo. Iniziò a recitarne i versi, a spiegarli agli amici. Fummo in lutto a lungo.
Per giorni e giorni non si parlò d’altro. Eravamo turbati.
Anche nei concerti pubblici, tristi avvisaglie di violenza entravano con i motivi musicali, di forza ci svegliavano costringendoci ad alzare il bavero, a chinare il viso, e ripararci dal vento.
Licola, e poi Parco Lambro, a Milano, dove avrei visto e toccato con mano lo spettacolo del rovesciarsi di un concerto nell’orrore, dal paradiso occasionale del lisergico di un popolo di ragazzini, all’alzarsi improvviso di un esercito di guerra fatta con le mani, con la vita, e il sangue.
Scappavamo in costume da bagno, senza capire.

Poi venne la bufera del servizio militare.
Né sapevo con quali guai antichi mi sarei battuta (non ero, non volevo – ancora, essere stirpe di drago).
Prima dell’esilio del servizio militare, tre viaggi ci avrebbero unito.
Nella Lisbona dei garofani, di Otelo De Carvalho, nelle isole Eolie visitate nel suo punto più selvaggio a Filicudi, e sullo Sciliar, in un Natale tristissimo e pieno di presagi per l’imminente partenza.
Il fatto che sempre sud e nord si mescolassero, nei nostri sogni e nella vita come sfondo scenografico alla nostra storia, rendeva difficile, negli iniziali anni della relazione, scommettere quale dei due – luoghi e destino – avrebbe vinto, mi dicevo; perché il corpo tirava verso l’insondato sud del cuore, ma la sua testa era infallibilmente nordica, nel vizio intellettuale.
Dal profilo alla Strinberg, come avrei pensato in notti inquiete, in cui l’aria oracolare e rigida di lui, che spiavo nel sonno, mi incuteva soggezione.
Troppo genio, mi dicevano le amiche, ed io per svincolarmi e mostrare che non ne ero soggiogata, mi ribellavo a parole, e nei fatti, iniziando una serie di contenziosi con lui per scagionarmi dell’essere già rapita e imbambolata, dall’amore.
Il sesso tra noi era quotidiano, e attraversato da fantasiosi, estasiati modi e mondi, i nostri, che dilagando sul presente, gettavano la loro ombra donchisciottesca su ogni piccola cosa.
Una felina e franca, delicata sensualità sembrava ovvia da sempre nostra, e piena del sognare ardente, panico, come la giovinezza vuole.
Un po’ invasati dal guardare in alto, hidalghi sul punto di sbarcare dalla luna o di salpare dal presente, mai abbastanza in fuga, per noi.
L’orgoglio di un’età giovanile che si sarebbe eternizzata nell’epoca, in un’aura collettiva che da sacrale dionisiaca trapassava al duro intransigente della mente, e l’ostracismo delle rispettive famiglie, assenti o ostili, era il rinforzo a coalizzarci verso il cielo, sdegnando forse altri passi, della pietà terrena.

4

Le amiche non ci chiedevano più dove sarebbe andata a finire questa storia: poiché lunga e aggirante, come il serpente della conoscenza, ci avrebbe seguito per l’arco della giovinezza.
La ripresa degli esami universitari, per me, la loro conclusione fino alla laurea, furono slalom nel canyon estenuante di studio e di lavoro, turni notturni, aspettative per salute, e cordate di donne che, in volontaria sorellanza, traversavano intanto come via lattea la mia vita, entrandovi di forza a vivere, comandandomi, insinuandosi e combattendo, come una repubblica indipendente e felice, delirante e legiferante su ogni cosa.
La mia vergogna nel nascondere quando fossi in realtà perduta, e bisognosa d’esserlo, per amore, doveva essere celata. La normalità, una pagina vergognosa.
Simpatie solidali, odio amore e convivenze, vicinanze e ideologie, amori saffici, vissuti come il verbo. Il sud, ancora una volta, mi avrebbe salvato, poiché la prima amica con cui abitai a lungo, e felicemente, era una donna del sud.
Dal pensiero e riserbo passionali, della terra di Puglia. E piena di una dolente e dolce, molto affettiva dignità; ci rispettammo, spontaneamente.
Fu comprensiva della mia condizione solitaria, e in balia del bisogno; insieme, appena i nostri fidanzati si allontanavano, ascoltavamo le musiche preferite, o si andava a concerti, anteprime teatrali, gustando come due studentesse, la libertà di singole e sorelle, senza cedere alla stoltezza.
A Natale con i rispettivi fidanzati, allestivamo un meraviglioso presepe napoletano costruito con veri angioli e pastori in gesso dipinti, del settecento napoletano.
Ci sostenemmo mentre tiravano arie di guerra.

Il servizio militare di lui, puntualmente venne, come un tornado.
Prima nei battaglioni punitivi a Capo Teulada, in isolamento, poi in quelli istriani di Udine, dove lui arrivò, insieme al terremoto. La reazione di E., per non impazzire fu di esasperare la segregazione del tutto: non avremmo più dovuto vederci né sentirci, scriverci o telefonarci, mi annunciò, con la consueta calma. Per non soffrire di contraddizioni, mi disse in un lucido delirio.
Ma io tenevo a lui le mani, contorcendole, e non si uccidono così anche i cavalli?
Quell’enorme, tutto quel fuoco, che ci legava ardeva nella carne e spirito, e niente più sarebbe esistito? Esisteva, ma lui avrebbe, e lo fece, rispedito al mittente: telegrammi le lettere ogni missiva.
Cominciò un lento impazzimento, che da lui a me, avrebbe contagiato.
L’amore che chiedevo, ridivenne rabbia, cocente umiliazione, senso di abbandono, ribellione, senso di angoscia, disperazione.
Gli amici che avrei ripreso a guardare, senza più scelta, luoghi dove aggrapparsi.
Un inverno, tutti capelli come la mia energia presero a cadere, ed io giravo con grandi foulards per nascondermi.
Un mese arrivò dalla Sardegna un pacchettino: conteneva una collana fatta a mano da lui di grandi conchiglie raccolte dal deserto, così sembravano padiglioni di orecchie del mare, cucite con robusto filo doppio bianco e grezzo. Poi uno scialle di lana a scacchi, rosso, blu e bianco.
Così, prima del suo secondo trasferimento a Udine si riannodava il filo, ed io vivevo, ancora.

5

Il disperato bisogno di rivederci, appena mi fu concesso, in una Venezia invernale, disfatta dietro angoli e portoni, al primo tocco, il desiderio nostro che si consumava, mi rendeva incinta.
In solitudine, e sapendo di non avere scelta, avrei abortito a ventitré anni, dall’uomo di cui ero follemente innamorata, ma che rifiutava, come l’ideologia gli predicava, il lavoro.
Mentre l’aspettavo lungo le scale di casa, annunciandolo con gioia unica, in abitino in fiorami di lana pre maman, le mammane erano già al lavoro, con la preparazione al valium, e io no, che non volevo, avrei gridato, accompagnata da un’amica, tutto il tempo.
Un dolore che mi schiacciò.
Tutto quel pozzo di abbandono e di dolore avrei dimenticato, finita questa prova forse, se non fosse iniziato il fatidico settantasette.

Avevamo sgomberato la soffitta, spesso E. saliva a studiare, o a meditare mi diceva, su un abbaino vicino al solaio, e vedeva le rondini fare il loro nido fra i comignoli, sui tetti.
Li disegnava in ghirigori strani, a matita, quei voli che sulla carta tornavano a segnare rotte, rivivere segreta africa, e lontananze. Tornava assorto, muto.

Non dicevamo ogni pensiero, ma si scorgevano come ombre lievi tra le pieghe della fronte.
Il delitto Moro, dopo le prime sparatorie ad altezza d’uomo a Roma, dove fu immortalato il gesto del ragazzino dal volto coperto e dalla P38 stretta in pugno, stava preparandosi, sancendo in me domande tra le più angosciose, sulla follia del labirinto dove era finito, o stava morendo di malattia mortale, il movimento iniziato nel ‘68.
Se tutto era concluso, e non per mano nostra ma fatale, se colpa così grave era stata consumata, perché non ripartire da un’altra, completamente nuova, città?
Provai a rilanciare la sfida: Milano era per me, per scelta di scrittura, che volevo ad ogni costo sganciare oramai dal nero della storia.
Ma per lui era Napoli, radice buia della pancia dove sentiva di dovere tornare come un profeta sconfitto, non ancora sconfessato, per proteggere, così credeva, i più piccoli, i terribili fratelli “indiani metropolitani”. E il castigo della storia attendeva..
Nessuna trattativa sembrò interessargli, il suo volto rimaneva tagliente sconosciuto, nel momento delle scelte, e qualcosa come un ordine duro della mente, me ne impediva l’accesso.
Si consumava lento e inesorabile quel nostro splendido di vita viaggio, dove “ si fecero unghie da inverni e spostamenti”, quando “la Bellezza ci sciolse la testa”.

E. prese ad appassionarsi, negli ultimi anni a letture dadaiste, leggeva molto Pound, volle stilare il manifesto de “la poesia idraulica” preparava mostre di arte povera, e le prime letture poetiche al Circolo Malombra; io, lavoravo per una nascente casa editrice, aperta dalla nuova amica, eventi che ci scoprirono diversie divisi.
Lui, aristocratico, e sperduto nel mondo letterario che non frequentava.
Io, in sordina, ma in attesa di uno sguardo che mi riconoscesse come poeta, lo avrei trovato, più tardi, in Adriano Spatola.

6

Cambiava spesso dimora E, non volendo più pesare sulla convivenza a tre, dove io lo avevo imposto; non legava più con nessun gruppo, se non con un amico alla volta, dove si fermava a dormire.
Si era fatto irritabile, scontroso, e silenzioso.
Mi apostrofava, sempre più spesso, con il dito alzato: Voi, voi che non potete più capire, additando una famiglia fantasmatica sociale alle mie spalle, voi nordici (e già traditori) sembrava accusare.
La passione sessuale si era piegata al vento avverso.
Cominciai a parlargli di un viaggio in America, che mi era stato proposto dall’amica, e che sarebbe coinciso con il mio compleanno dei trent’anni.
Speravo forse di obbligarlo a voltare la testa, dove tirava l’aria del cambiamento ormai avvistato, che vicino a noi toccava, correva. Un viaggio dove avrei letto con l’esattezza di un veggente quale futuro ci attendeva. ( Era stata studiata la tappa iniziale al Naropa University, dove conoscere i fratelli maggiori beatnik, e molto altro).
O di fargli intendere la necessità di una svolta anche fra noi, decidendo di rimetterci insieme ma per costruire qualcos’altro dalle tragiche illusioni cadute, un progetto di vita incentrato anche sulla comune passione per la scrittura.
O il destino, Dio solo sa quale, si sarebbe incaricato di mostrarci.
Ma la passione delle idee, l’ideologica indelebile visione della vita che si era costruito, più forte della vita stessa, gli faceva dire di no, con la testa. No, col cuore.
Non Milano. No ad altre letture del futuro.
Lui, mi chiedeva forse di temporeggiare? Non lo feci.

Due mesi dopo, in volo, dopo altri tristi tradimenti consumati, sentivo che un vento diverso mi chiedeva, nel pensiero e nel cuore, di ripensare la mia vita altrove.
Al trentesimo anno, con presentimento chiaro, avrei rivisto in terra americana le fratellanze i fili della vita, che fino a ieri ci avevano legati a un comune destino, allentarsi sciogliersi volare, via e lasciare affiorare la trama di un’esistenza nuova sconosciuta, poi pur sempre mia.
Il ritorno, nel settembre del 1982 sanciva tutto questo.
Mi ero invaghita di qualcuno, accettandone un incantesimo breve; lui, più seriamente innamorato, di una giovane donna di Napoli, legata al teatro e alla politica, della sua terra.
Con apostrofe e ammonimenti me ne confermava, dopo il racconto anticipatomi da amici, e togliendomi il bicchiere dalla mano che stringevo, Voi – tornava a minacciarmi – voi che non potrete mutare, sapete vivere soltanto nella socialdemocrazia!

Le volte, tutte quelle in cui ci saremmo rivisti, dove lo strazio o la passione risgorgava, come mai fosse stata troncata, avrei trovato le sue parole sempre più dure, inchiodate alla terra di Napoli, una fedeltà di cui, per il mio nord, non sarei stata all’altezza.
E le prime immagini di noi, a Positano, o di noi sull’Appennino emiliano, e di noi ancora in terra di nessuno, nel centro Italia o Europa in viaggio, mi risuonavano alle spalle come una campanella all’orizzonte, “dal basso tunnel promesse / i vivi altrove.”
“So come feci, tolsi / il cielo chiaro del mattino / dal suo mattino, presi il cipresso / dal suo cielo,
c o s ì che lo conobbi / i muri cantavano le lodi.”
Ed io, d’altronde, “devo parlarti della vite / e dell’ulivo / perché non li hai più visti”

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Montenera Lama, di China.


(Biografia immaginaria)

Nacqui il tredici dicembre del millesettecentocinquantasei, nel ghetto di Colorno, vicino agli alloggiamenti reali della corte di don Ferdinando dei Borbone di Spagna, e il mio nome fu scelto dalle cugine, più ricche e potenti, di mia madre China. Fui infanta fortunata, perché nascendo nel mese di dicembre, a causa del freddo intenso che si vive nella bassa padana, fui affidata alle cure della grande segnora curandera, che faceva la balia a corte, e le prime luci e colori furono quelli della magnificenza della corte del re.
Don Ferdinando amava proteggere e circondarsi di una moltitudine di fedeli cortigiani, perché divenissero con lui la “clara llama”, come ebbe a proclamare un giorno parlando di tutto il popolo di Corte, dai ciambellani ai giardinieri ai cuochi, ai soldati alle dame di compagnia, dai precettori ai farmacisti del regno, dove altri ebrei e marrani, ormai cattolici praticanti, convivevano ricordando sempre i tempi della pacifica Spagna da dove erano venuti, Toledo e le terre della Castiglia, portando con sé, oltre quei pochi beni: vestiti, libri, strumenti d’oro e di laboratorio, stoffe, fogli di musica, i testi sacri della Cabala, e antichi strumenti per fare musica. E triste andalusa memoria negli occhi, di colline vulcaniche al sole, e di cicogne intente.
Mia madre China, potevo vederla nel sabato e, durante la settimana, nelle mattine in cui cantava alla Messa nella cappella della reggia di Colorno. Era donna di incomparabile bellezza, carnale e gioiosa nel cuore, dalle mani danzanti con noi bambini. Cantava per la regina nel coro della cappella reale o cuciva qualche costume per le recite teatrali delle festività. La sua voce era canto e la sua pelle suonava melodie speziate, il seno pieno e morbido odorava di avena, le mani erano piccole come i piedi, il naso deciso e altero, una piega improvvisa le serrava le labbra, a volte.
Mio padre non lo ricordo prima dei quattro, sei anni di vita, ma m’insegnò a camminare e a scrivere, spesso io lo chiamavo con nomi materni femminili a causa della precoce separazione dal corpo materno. Lo ricordo vicino alle prime istruzioni del precettore o ai riti, pochi e confusi dopo l’apertura del ghetto e la pubblica conversione.
Ci riunivamo, a volte, alle altre famiglie di marrani, capitati a vivere in quella contrada pacifica dove mio padre l’aveva sposata subito,assimilando gli usi religiosi e segreti della mamma in quella terra del fiume, dove la gente rideva e ballava con musiche all’aperto, un poco come noi, in Castiglia. Un giorno di questi, in occasione del Séder pasquale, China e Pietro sedevano con le sorelle, più vicini a me, raccontandoci la bellissima storia della fuga d’Egitto, sotto ai sette candelabri puntuti e, dondolandosi a lungo sulle sedie, riuscivano ad intonare certe nenie tristi e soavi da farci addormentare quasi tremanti, annientate da un vento semplice e profondo, che ci era proprio.
Dove soffiasse a poco ci serviva sapere, ma che era lì, a portata di mano, pronto a riprenderci in cammino, se un giorno avessimo ricominciato ad andarcene per il mondo. Viaggiare. Mia madre parlava e rideva ancora con noi nella sua lingua, ma alla presenza di estranei si affrettava a parlare uno stentato italiano, un po’ latino, come quello che in chiesa era cantato nelle messe domenicali.
Musica, poesia, diari di viaggio del fratelli Joseph e Pietro; storie di botanica e di erbe, antiche nenie, e libri stellari dove ogni lettera dell’alfabeto aveva pagine e pagine di fioriture ed ogni figlio battezzato della famiglia dei Lama ebbe nome dalle prime dieci lettere, come le dieci Sefirot, dell’alfabeto.
L’amicizia tra il nonno Pietro e GianBattista Bodoni, nella generazione successiva, sarebbe divenuta leggenda per noi ebrei di Parma, vanto e gloria dell’amicizia nostra con quel popolo, celebrate nell’amore della scrittura.
Ma il tempo danzava in fretta e mi ritrovai ragazzina, dalle trecce nere e gli occhi silenziosi come China, e le mani non si congiungevano più in preghiera. Conobbi l’amore e la gelosia, i torti ricevuti li rifeci, così le grandi tempeste dell’amore e piansi. Incomparabile e perduta, piansi senza rendere conto alle stelle del mio nome tradito e delle braccia chiuse.
Altre volte erano giovani sconosciuti sotto le mie finestre, a improvvisare serenate struggenti e dure, ma il tempo passava e gli editti francesi sopraggiunti alla dominazione spagnola mi portarono via dal padre e dalla dolce terra di Parma soleggiata. Tante lacrime piansi, ma il no dato a una piccola marrana rimase insondabile, non me ne interrogai più e partii.

La villa di Mediolano non parve così differente dalla piccola Parma, agli inizi, ma scintillante di promesse e sola e fiera, nella sua necessità di capitale. Quel duomo verticale e duro, quei vescovi, i primi proclami di nuovo contro l’usura e il prestito ai poveri colpirono quella parte di noi che là era salita per fare fortuna, e ci scontrammo con la durezza dei Gonzaga.
A nulla erano valse le lettere di don Ferdinando che ci aveva raccomandato come valenti uomini di corte, gli zii dottori in medicina, il nonno materno musico, con noi scappati per fare fortuna. Fummo arrestati e presi prigionieri, processati e costretti dopo pubblica abiura ad andarcene: chi a Ferrara, chi a Firenze. Parma sarebbe stata per un lungo periodo interdetta ai più di noi, e dimenticata.
Ma in fondo al cuore, quella zampa rosso bordata nera in campo azzurro dello stemma alto dei Lama che narrava “Transibo”, sarebbe stata l’unica bussola del ricordo del re Don Ferdinando di Spagna, che ci aveva reso nobili e amici del re.
Dell’infanta rimangono testimonianze di un ritratto da bambina, vestita di bianco e pizzo al battesimo, e delle canzoni da lei scritte e numerate coi titoli: “Nel viale semi spento”, “La luna che ride ancora”, tracce di una memoria da lei stessa sognata, della terra di Spagna.

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Che queste pagine siano “prose”, o brani di romanzi, o segmenti di viaggi, di ricordi, di passioni vissute, di sperimentazioni fallite e poi lungamente e affettuosamente gestite dalla memoria, poco importa. Siamo di fronte ad un libro composito che non soffre comunque di fronte ad un possibile disegno di romanzo vissuto e di formazione, dove i due termini si sovrappongono perfettamente. Maria Pia Quintavalla giunge ai termini della propria storia con lo sparire e il riaffiorare dei ricordi, in un’atmosfera autobiografica che, se da un lato ricorda certe pagine di Anna Maria Ortese, dall’altra governa una scompigliata e irrefrenabile vena poetica, risucchiante il diario e gli amori vissuti (quelli letterari e non letterari), i viaggi e le soste, i desideri, una profonda e consapevole voluttà di vivere e di viversi, i rapporti familiari e infine una segreta pietà verso cose, luoghi e persone che il passare degli anni ha rivitalizzato fino alla fiamma dell’identificazione intera. Chiamare “prose” queste pagine è, dunque, una palese limitazione. Andrebbe bene, semmai, la definizione di prose di romanzo, là dove i due termini letterari si compendiano nel registro interno della confessione, in un alternarsi di voci (quelle lette e quelle solo ascoltate) che vanno, a un dipresso, da Fortini a Porta, da Zanzotto alla Dickinson, alla Rosselli alla Pozzi alla Valduga. Una bella confusione – dirà il curioso lettore. Sì, certamente, confusione: ma nel senso del come ci si accorge dei venti che girano intorno a noi, delle parole che mutano di timbro e di calore persuasivo e dei gesti che ti colpiscono e ti accarezzano.
Una vita intensa, quella di Maria Pia, già così ampiamente documentata sul versante poetico, persino – a tratti – invasata da una contemplazione furiosa, se è vero che “Troppo genio, mi dicevano le amiche, e io per svincolarmi e mostrare che non ero soggiogata, mi ribellavo a parole, e nei fatti, iniziando una serie di contenziosi con lui per scagionarmi dell’essere già rapita, e imbambolata dall’amore”. Ecco: il centro delle varie vicende sta in questa parola magica che accompagna l’autrice lungo tutto il corso del libro, cioè della confessione: dal ghetto di Colorno a Milano, da Parma a Milano, da Napoli ancora a Parma e alla sua provincia. Andare e tornare, quindi, che tesse un fitto velo di Penelope fatto e disfatto dentro lo stringente e intrigante struttura della poesia, dei posti e dei personaggi, Poiché questo libro è fatto di personaggi veri, anzi verissimi: il padre, la madre, i giovani amati, lasciati e ritrovati, i poeti soprattutto (uomini e donne) amici e nemici allo stesso tempo, fidenti e diffidenti, appassionati e indifferenti. Un “tutto” che precipita sul lettore occupandone ogni interesse, ora favola, ora esaltazione, ora rimpianto, ora irrazionale furore che si snoda dentro la storia degli ultimi decenni, libro di memoria che illumina il presente riconducendolo alla sua vera realtà: la “vita di una donna”.

GIUSEPPE MARCHETTI

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Biografia

Maria Pia Quintavalla è nata a Parma, vive a Milano. Libri: Cantare semplice (1984, Tam Tam Geiger), Lettere giovani (1990, Campanotto), Il Cantare (1991, Campanotto), Le Moradas (1996, Empiria), Estranea (canzone) (2000, Piero Manni, prefazione di Andrea Zanzotto ) Corpus solum, (2002, Archivi del ‘900), Album feriale ( 2005, Archinto ), Selected poems, Gradiva N.Y. 2008, China, (2010, Effigie), I Compianti( Effigie 2013), Vitae, (2017, La Vita felice, 2017). Tra le antologie italiane: Trent’anni di novecento (a cura di A.Bertoni, 2005, Book). Numerosi i premi, finalista più volte al Viareggio. Dal 1985 cura Donne in poesia, e omonime antologie. (Presidenza Comune Milano 1988, Campanotto 1992 ), Le Silenziose ( Book City2013, 2015, 2017a Milano ) Muse, Autori, Resurrezioni (Casa della cultura Milano dal 2015, e continua). Ha curato: Bambini in rima / La poesia nella scuola dell’obbligo (Atti su Alfabeta 1987). Collabora a: Lettere, Università agli studi di Milano e di Parma con laboratori di scrittura. Tradotta in numerose lingue.

Nelle terre esterne. Geografie, paesaggi, scritture

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di Matteo Meschiari

[Abbiamo chiesto al geoantropolgo Matteo Meschiari di presentare ai lettori di Nazione indiana il suo libro, appena uscito per i tipi dell’editore Mucchi, con prefazione di Andrea Cortellessa. La citazione d’apertura è tratta dall’Introduzione]

«…i testi letterari, per quanto siano le cristallizzazioni di un io in un’epoca data, restano in ogni caso degli etnotesti, dei documenti spontanei che registrano, nella storia individuale e collettiva, i maggiori “fare spazio” dell’uomo, Dasein, Umwelt e Weltanschauung, cioè modi, strategie e narrazioni del suo stare al mondo nel mondo. Il testo letterario che affronta problemi di spazio può essere considerato insomma come un’etnogeografia, che mescola risorse interpretative individuali e coordinate ermeneutiche e culturali di un soggetto e di un gruppo. In altre parole, all’intersezione tra libertà di azione del singolo (agency) e normatività culturale (condivisa, criticata, subita), il testo letterario si candida come un documento in grado di fotografare, nel loro farsi e nella loro criticità, dei modelli esplorativi dello spazio, delle cartografie verbali, degli esercizi di lettura terrestre. È appunto la loro natura liminale, tra il liscio e lo striato, tra l’intuitivo e lo strutturato, tra l’individuale e il sociale, che rende i paesaggi verbali un terreno di studio privilegiato, non per scrivere una storia del paesaggio in letteratura o una storia paesaggistica della letteratura, ma per analizzare in termini geografici la crescita e la crisi della ragione paesaggistica. Che cosa bisogna cercare, allora, in un testo geoletterario?»

Esistevano già molti libri, anche importanti, su paesaggio e letteratura, su geografia e letteratura, su ecologia e letteratura. Il vettore ermeneutico, in genere, è quello che muove dal contributo di altre discipline per aiutare il critico letterario e l’italianista a farsi un’idea sull’opera di un dato autore. Meno frequentemente accade il contrario, cioè quando la produzione di un dato autore viene interrogata per illustrare dinamiche extra-letterarie, in ambiti disciplinari diversi, come ad esempio la geografia e l’antropologia. Certo, il beneficio interdisciplinare è sempre a due sensi, e in questo libro m’interessava ragionare su alcuni autori, anche molto studiati, per esplorare il loro sguardo sul paesaggio, e contemporaneamente provare a capire qualcosa di più sul paesaggio in generale, cioè come e perché Homo sapiens abbia “inventato” il paesaggio, abbia ragionato in termini paesaggistici, abbia paesaggificato il pensiero. Per questo ho confrontato due “zone sensibili”, diverse e in qualche misura complementari, la Liguria (Sbarbaro, Calvino, Biamonti) e la Lombardia (Manzoni, Stoppani, Gadda) e ho provato a verificare se le specificità ambientali delle due regioni avevano una corrispondenza nella reinvenzione letteraria delle stesse. Ho usato in partenza due modelli, in realtà due ipotesi di lavoro, per la Liguria la metafora deleuziana del rizoma e per la Lombardia il corema, una modellizzazione dello spazio che passa attraverso una rielaborazione intellettuale più accentuata, più orientata a leggere una struttura (più o meno) ordinata nella realtà. Ma si trattava di un semplice punto di partenza, che nasceva da una facile intuizione: da un lato la “linea ligustica” e la tendenza a rappresentare il paesaggio come un luogo da attraversare con il corpo, “ricostruito” a livello verbale per enfatizzare una dimensione esperienziale (fisica, mentale) dello spazio; dall’altro una vocazione allo sguardo cartografico, all’impegno cosmografico, con un paesaggio che tende a diventare una specie di metonimia/metafora del mondo.

I risultati che ho ottenuto, adottando ove possibile la critica delle varianti di Gianfranco Contini e comunque la critica stilistica di Leo Spitzer, sono in parte coerenti a questa doppia modalità dello sguardo, ma il risultato a monte, quello più generale, è stato riconoscere e descrivere delle strategie di rappresentazione dello spazio che aiutano Homo geographicus ad addomesticare il mondo, a procurare un’immagine articolata del mondo in grado di compensare il disorientamento e il senso di esposizione di fronte alla sua vastità. Infine, con questo libro, volevo cercare una risposta a una preoccupazione più personale, più politica, direi. L’impoverimento lessicale, l’incapacità descrittiva dell’uomo di fronte alla complessità del paesaggio, cioè del mondo, è forse una causa dell’impoverimento percettivo di fronte alla varietà e alla diversità delle cose. Una deriva pericolosissima, mi sembra. In questo senso, studiare autori molto significativi per la loro capacità di “scavo” spaziale, significava per me riappropriarsi di un lessico paesaggistico, di modalità descrittive paesaggistiche altrimenti atrofizzate.

E in un contesto sociale in cui le dinamiche di potere sembrano mirare all’appiattimento culturale, all’estinzione dell’occhio critico, all’impoverimento della parola e dello sguardo, continuare a ragionare sul paesaggio, sui suoi modi, sulle sue rappresentazioni, sul suo potere ermeneutico e cognitivo, significa per me fare resistenza politica in senso stretto.

 

La presunta innocenza delle cose. Appunti sull’opera di Elfriede Jelinek

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di Lavinia Mannelli

Solo da pochi giorni i lettori italiani possono trovare in libreria un nuovo grande romanzo di Elfriede Jelinek, autrice austriaca insignita nel 2004 di un molto discusso Premio Nobel per la Letteratura. Gli esclusi,[1] pubblicato ora per La nave di Teseo, è in realtà un testo del lontano 1980; il terzo in ordine di tempo uscito dalla penna della scrittrice e già denso di alcuni interessanti stilemi che qui tenterò di raccontare in breve.

Come in tutti gli altri romanzi, infatti, anche negli Esclusi la scrittura della Jelinek si fa lingua della realtà, violenta e scostante come l’istinto del peggiore degli animali sociali; strascico opalescente che sorvola, copre e disvela i segreti e le nevrosi degli oggetti del suo stesso racconto, se li ricama addosso, fittamente e confusamente, e alla fine se ne libera. Come una nuvola minacciosa che si trovi a passare sopra l’acqua di un lago cristallino, così la lingua dei suoi romanzi descrive la realtà su cui si trascina specchiandovisi e allo stesso tempo alterandola; come in una valanga di neve vecchia, appesantita ulteriormente da quella nuova e sottile, così di pagina in pagina alla voce narrante si ammassano e aggrovigliano i molteplici atti della tragedia del mondo: sentimenti contraddittori e ambigui, un voyeurismo morboso e la paura nevrotica di essere abbandonati e di abbandonare, illusioni e stereotipi, vittime e carnefici.

Attraversata da una forte inquietudine,[2] a seconda del libro e del momento del racconto, la voce del narratore è una prima persona, singolare e plurale; è o non è Elfriede Jelinek; è la specie umana, un uomo o una donna, uno per volta o tutti insieme, ma è anche la casa, il lago o la montagna, la fabbrica o un padre padrone. Si rivolge a un tu, a un lui o lei, voi, noi; i suoi destinatari sono anche l’oggetto della narrazione, identità imprecisabili se non di volta in volta e che hanno molto di quell’universale tipico di cui si è occupata certa tradizione marxista cara all’autrice.

Questo sistema di riferimento politico è anche ciò che permette di scongiurare una polifonia distratta e inconsistente, distante dalla realtà che è invece quella – lucidamente abbozzata – di una Vienna dei postriboli e del Prater, ma anche degli ultimi concerti da camera e di veementi dibattiti sull’umore di un brano di Schubert (La pianista); di una fabbrica di proprietà di un marito padrone dall’insaziabile e perverso appetito sessuale (La voglia), o di un’altra fabbrica ancora, abitata, questa, da corpi di donne che cuciono reggiseni mentre la società cuce loro addosso desideri normalizzanti di famiglia, denaro, sesso e maternità (Le amanti); o di un lago acquitrinoso, cimitero di vittime che si sono consegnate spontaneamente, e per timore di se stesse, al proprio aguzzino (Voracità). Questo realismo feroce, questa critica a una società che appiana i conflitti, nasconde gli scheletri e le mostruosità, schiaccia il vario e libero intrecciarsi di destini umani, viene espresso mediante un narratore che non è solo osservatore onnisciente, ma anche uno sguardo reificatore che degrada ogni relazione umana a un rapporto tra cose, merci in rapida scadenza.

Il problema è il seguente: è possibile descrivere un paesaggio acquatico come questo lago senza conoscerne davvero la lingua? Io mi ribello contro l’innocenza che quest’acqua ostenta pubblicamente. (Voracità, p. 68)[3]

Come il lago d’acqua torbida in Voracità, ogni cosa è un’immagine solo apparentemente innocente: occorre sempre andare dietro le cose, vale a dire decostruire la realtà per mostrarne la colpevolezza.

Questa realtà, io la faccio ogni volta per così dire a pezzi, come se separassi a strappi le tende di un sipario, per rabbia contro il testo che c’è dietro (da un’intervista a Renata Caruzzi)[4]

Sommersi e condannati

Se ogni cosa è colpevole, nemmeno tra gli uomini esiste l’innocenza.

Tra i complici più problematici di questa realtà da decostruire, le donne fanno la parte ingrata delle oppresse consenzienti, quando non addirittura dei kapo: sono le caricature delle versioni più stereotipiche di se stesse, più fraintese di quanto non faccia già il mondo maschilista in cui vivono. Di loro si racconta – con un fastidio e un disagio più o meno percepibili – di come si lascino trattare come un corpo, una casa (precisamente la loro, nel libro Voracità), una parete piena di porte, interstizi, angoli su cui inveire e fare violenza (ancora nella Voglia, ma anche nell’ultimo Gli esclusi). Si dice che sentono di dover essere punite (come su contraddittoria richiesta nel capolavoro La pianista, ma anche, ancora, in Voracità e Le amanti), preferibilmente da uomini che ogni volta approfittano della loro debolezza e di cui poi finiscono, ogni volta, per innamorarsi morbosamente.

Ossessionate dal proprio corpo tanto da dimenticarsi, ma quasi per atto mancato, di questioni ben più grandi di loro («ora se [i gruppi femministi, ndr] trascorreranno veramente i prossimi dieci anni a occuparsi del proprio corpo, gli uomini domineranno il mondo per ulteriori dieci anni», dice l’autrice fuori dall’invenzione romanzesca);[5] prive di una responsabilità politica di qualsiasi tipo, se non addirittura dipendenti, anche economicamente, dal marito o dal padre (solo nelle Amanti le protagoniste hanno un lavoro, ma di produzione, e che è il risultato di un appiattimento e di uno svuotamento dell’uguaglianza dei sessi, mentre nella Pianista si tratta di un lavoro d’elezione, precisione e cultura, ma non organico e funzionale alla società); prive anche – come tutti, del resto – della capacità di riconoscere, domandare e domandarsi il piacere, le donne si tolgono di mezzo da sole dal discorso pubblico così come dalla vita, e lo fanno per mancanza di strumenti e concrete possibilità, e quindi per forza di cose per omologazione al sistema maschilista, servilismo masochistico da cui non sanno liberarsi.

Le donne in questo paese servono solo da contorno alla carne degli uomini, non le invidio affatto. (La voglia, p.92)[6]

se qualcuno ha un destino, è un uomo. Se qualcuno riceve un destino, è una donna. (Le amanti, p. 13)[7]

nel corso degli anni, si è stabilito così un ciclo naturale: nasci, attacchi, sei presa in moglie, stacchi, hai una figlia, casalinga o commessa, per lo più casalinga, la figlia attacca, la mamma crepa, la figlia viene presa in moglie, stacca, salta giù dal trampolino, anche lei ha un’altra figlia, […] (ivi, p. 21)

È proprio questo spostamento ironico della voce che permette di addomesticare più facilmente una realtà che, nel caso delle donne, è spesso un sistema patriarcale soffocante e una serie di luoghi comuni castranti. Lo stesso linguaggio sprezzante e disturbante, però, osserva e descrive – anche a distanza di poche righe – ogni altro personaggio del racconto (uomo, donna, cosa) che il narratore incontri per la strada della sua storia.

[…] è proprio questo che piace all’uomo: che la gente, intrappolata nei lacci del suo amore, scorra tranquilla e dimentica di se stessa come il tempo dentro l’appartamento, in attesa del suo ritorno (La voglia, p. 29)

Quest’uomo sembra quasi sedotto all’idea di ingrandire da solo il proprio coso in tutta la sua lunghezza (…). Che razza di principio attivo, di semidio (Dio aiutaci) capace di ingigantirsi e di beatificarsi da sé, senza per questo venir appeso come un santo martire! Che uomo! (ivi, p. 151)

Ogni cosa viene parodizzata attraverso la voce di un narratore che vuole, insomma, mostrarsi vistosamente per quel che è: inattendibile (secondo la celebre riflessione di Booth); e così,  suggerendo apertamente la mancanza di un possibile ulteriore punto di vista (che sarebbe quello dell’autore implicito, evocato soltanto), a essere stimolato è il giudizio critico del lettore nei confronti del narratore, della storia che sta leggendo e magari di se stesso.

I nuovi demoni: Gli esclusi

Anche negli Esclusi l’autrice cerca un’intesa segreta con il lettore: anzi, grazie a una lingua più semplice, rispetto almeno ai romanzi successivi, qui è forse più facile ottenerla.

I protagonisti del libro sono quattro ragazzi di diciotto anni: i gemelli Witkowski, Rainer e Anna, Hans Sepp e Sophie Pachhofen. Di loro conosciamo subito i nomi, le occupazioni principali (i fratelli e Sophie sono studenti del liceo, mentre Hans è operaio); i pensieri, la vocazione teppistica, anzi violenta, e anche la precisa identità sociale, culturale, economica; i luoghi in cui sono vissuti e di cui si vergognano, che ripudiano o in cui semplicemente fluttuano; i ricordi, i conflitti, i rimorsi di famiglia e le aspirazioni, le nevrosi, gli amori.

Le loro azioni e i loro pensieri sono sempre avviluppati gli uni agli altri, come non era nell’opera cronologicamente precedente, Le amanti, del 1975, i cui capitoli erano sapientemente orchestrati in modo tale da raccontare, uno per volta, salvo qualche eccezione, i destini delle due ragazze protagoniste; e come sarà sempre meno nei romanzi successivi. Negli Esclusi, invece, tutto è mescolato, stretto in un unico piccolo pugno (quello del narratore), ma anche in una fitta rete di violenze psicologiche e fisiche con cui i ragazzi stessi si legano morbosamente gli uni agli altri. In particolare, quelle di Rainer ricordano le mosse subdole e ricattatorie con cui il grande burattinaio dei Demoni, Pëtr Verchovenskij, si adopera per coinvolgere lo scostante Nikolaj Stavrògin nelle attività terroristiche della sua cinquina. Oltre a questo, poi, la natura delle azioni dei quattro ragazzi austriaci avrebbe qualcosa di vagamente paragonabile all’incendio appiccato o ai delitti di varia natura raccontati nel romanzo di Dostoevskij, se non fosse che i personaggi della Jelinek sono ancora più disperati, sembrano ancora più bisognosi di credere che quel vago e violento disprezzo sia l’unico modo di conquistarsi un posto nel mondo, ma anche allo stesso tempo di disprezzarlo ancora di più.

A rendere più leggibile questo intrico di destini e compulsioni, uno stratagemma tanto semplice quanto efficace: come in una didascalia teatrale al contrario, il nome di chi sta agendo o pensando viene segnalato alla fine del suo discorso, riportato come indiretto libero, e messo tra parentesi.

Non esiste folla in cui possiamo nasconderci, perché in qualunque posto ci troviamo, noi ci distinguiamo dalla massa (Anna). Noi non dobbiamo affatto nasconderci, dobbiamo agire alla luce del sole, perché solo così possiamo affermare apertamente i nostri principi di violenza contro tutto e tutti (Rainer). Idiota (Hans). (Gli esclusi, p. 10)

Quello che conta è picchiare, con o senza odio (Anna). Non hai capito un bel niente, le risponde Rainer con un tono di superiorità.
Merda (Hans), intendendo, con questa espressione volgare, che gli si è strappata la camicia. (ivi, p. 12)

Questa scrittura così precisamente referenziale che attraversa tutto il romanzo con varia intensità, tuttavia, non elimina affatto l’evocazione del sentimento e del raziocinio ottenuta tramite la continua e sospettosa rappresentazione caricaturale delle cose e dei personaggi, o quello sguardo di traverso – obliquo, tagliente, perennemente ambiguo – sul mondo e sulle cose che abbiamo osservato prima, di sfuggita, in altre opere. Nemmeno negli Esclusi, infatti, la voce narrante è imparziale e semplicemente onnisciente: qualche fulgida espressione improvvisa sguscia via anche da questa morsa impassibile della storia; qualcosa fa comunque sorgere nel lettore un dubbio sulla posizione della voce narrante e, dunque, sull’attendibilità delle ragioni del personaggio in cui il narratore momentaneamente si incarna, e da cui istintivamente si allontana.

È una brutalità contro una persona indifesa e di conseguenza un’azione del tutto inutile, dichiara Sophie tirando per i capelli l’uomo che giace a terra tutto spelacchiato. (ivi, p. 9)

Anna ha in sé una tale rabbia – generata, senza dubbio, da un conflitto generazionale – che le verrebbe voglia di fracassare anche le vetrine illuminate di questa via di negozi, l’orgoglio di Vienna. (ivi, p. 11)

Una donna vuole sempre avere qualcosa ficcato dentro di sé, a meno che non partorisca un bambino […]. Questa è l’immagine che Rainer ha della donna. (ivi, p. 37)

[…] ma quell’idiota, come sempre, fa un movimento maldestro […] (ivi, p. 124)

L’incongruenza logica nella prima citazione, per esempio, o il senza dubbio della seconda, o quella precisazione quasi comica in coda alla perentoria dichiarazione di un personaggio che teme terribilmente il ridicolo (Rainer più degli altri, forse, è un classico tipo dostoevskiano) e che però, proprio per questo, si irrigidisce su posizioni che non sa e non può mantenere; tutti questi, ecco, sono la cifra vera del romanzo, segnali della miseria in cui viviamo e delle angoscianti prigioni e semplificazioni contro cui anche noi ogni giorno lottiamo.

Quanto più si tratta di pensieri e azioni, poi, che denunciano una condizione profondamente tragica dell’esistenza dei quattro ragazzi, e tanto più sottilmente l’autrice oscilla tra un tono parodico, che è comunque segnale di un simpatetico distacco, e un accorato e istintivo bisogno di prendere tutto davvero molto sul serio, creando un corto circuito logico che solo un tono comico e affettuoso può comprendere senza contraddizioni.

Abbiamo bisogno di una norma universalmente valida, per godere veramente dei nostri eccessi. Siamo dei mostri, anche se ci camuffiamo da borghesi. Siamo i figli della borghesia, ma non resteremo intrappolati lì dentro. Interiormente siamo consumati da cattive azioni, all’esterno siamo degli studenti che vanno al liceo. (ivi, p. 67)

Dentro di sé Rainer si è già completamente staccato da questa famiglia, fuori di sé si staccherà da lei aggredendo e rapinando persone innocenti. (ivi, p. 194)

Anche in questo libro, insomma, l’autrice cerca di stimolare la nostra riflessione e non solo la nostra compassione. Il problema dei quattro ragazzi non è solo individuale e di destino personale: sono tutti personaggi giovani e già miserabili; esclusi dalla società non soltanto a causa delle loro stesse patologie, e che per questo vivono un conflitto profondo anche con la società in cui si sono trovati a nascere. Contro questo determinismo inumano che non comprendono e non li tocca o non li accoglie, tentano in ogni modo di reagire, oscillando tra la disperazione e il comico, il sesso, il furto, la violenza fuori controllo e il piccolo scherzo terroristico, innocente e quasi giusto, in modi che hanno a che fare direttamente con noi lettori e con il mondo in cui vogliamo vivere (anche noi, europei del dopo Auschwitz).

Lo studio minuzioso della preda

Anna e Rainer Witkowski, figli di un ex ufficiale invalido delle SS e di una donna docile e sottomessa, umiliata giornalmente sia dal marito sia dai figli, sono infatti patologicamente ormai distanti dalla natura viva dei loro coetanei, coi quali non sanno interagire: li ammorbano con discussioni filosofiche su Camus, Sartre e Sade, Bataille e Cocteau, ma loro, i compagni di scuola, sanno per istinto che i due gemelli si fanno troppi problemi, che sono alienati a causa della loro visione aristocratica del mondo inculcata dai disagi della madre e che, banalmente, “non hanno mai preso un cazzo o una fica tra le mani” (ivi, p. 24).

In questo loro mondo sono già crollati “i valori dell’autorità e della patria potestà” (ivi, p. 42) (insomma il potere del Padre sui figli), ma non ancora quello del Padre sulla Madre: allora il padre, ormai zoppo, mentre rivendica ancora con fervore la propria militanza politica nei ranghi delle SS (siamo nella Vienna della fine degli anni Cinquanta), sfoga sadicamente la propria frustrazione sulla moglie. “Basta dirle che il suo corpo assomiglia sempre di più a un pezzo di formaggio ammuffito” (ibidem), si dice da solo il Padre, oppure fotografarla in pose pornografiche che deformano – oltre che la sua sensualità – la sua stessa dignità.

Il mio occhio di fotografo dilettante mi dice che ancora una volta non ti sei lavata i capelli, come ti avevo ordinato di fare. Devono assomigliare alla seta e non a un cespuglio arruffato. (ivi, p. 19)

Hans, invece, che è stato educato con più sobrietà e concretezza rispetto ai gemelli Witkowski, capisce facilmente l’artificiosità dei gemelli e dice: “Io sono molto più vicino alla natura, sono sempre al passo con i tempi” (ivi, p. 30). Intanto, però, questo stare al passo coi tempi si concretizza nella sua condizione di giovane operaio che non si riconosce nel partito socialista dei genitori: figlio di un padre morto sulla scala della morte a Mauthausen e il cui ritratto viene evocato più di una volta dalla madre, disperata e inorridita dalla mancata ribellione del figlio ai suoi oppressori, la sua infatuazione per la ricca ed evanescente Sophie è il simbolo della sconfitta di ogni resistenza al nazismo o, che è lo stesso, nel libro, al sistema dei consumi, al modello culturale e manageriale americano, all’individualismo e all’arrivismo privo di scrupoli; tutto in virtù di un molto vago e confuso concetto di libertà (come gli fa prontamente notare la madre).

Almeno gli è stata risparmiata la mediocrità della vita di tutti i giorni, pensa il figlio, che vive perennemente nel pericolo di sprofondare in questa mediocrità, ma farà tutto il possibile perché ciò non accada. Una vita breve e intensa e poi, forse, una morte breve e intensa. Voglio vivere tutto intensamente, anche se dovesse durare poco. Si è giovani una volta sola, e io sono giovane adesso. (ivi, p. 100)

I due personaggi femminili principali, Anna e Sophie, poi, vengono sottoposti a quello che è stato giustamente definito un animalesco “studio minuzioso della preda”.[8] Entrambe vittime di una percezione della propria femminilità comunque nevrotica (ostentata e frustrata una, sfuggente e quasi rimossa l’altra), Anna agisce sul suo corpo come su una superficie bianca da macchiare ossessivamente: per questo (non riuscendo a sporcare o anche solo a toccare Sophie) “tenta di deflorarsi da sola” (ivi, p. 27).[9] Con le compagne, poi, vive un rapporto esclusivamente di invidia, mediato solo da acidi filosofemi attraverso i quali tenta di nascondere – e anche conservare gelosamente, però – la propria inadeguatezza alla vita.

Si rode dall’invidia ogni volta che vede una compagna di classe indossare un tailleur nuovo […] o scarpe nuove con il tacco alto. In quelle circostanze, però, le uniche parole che le escono di bocca sono: mi viene da vomitare quando vedo ragazze bardate in quel modo. Loro e quegli stupidi stracci, sono superficiali, non hanno niente in testa (ivi., p. 11).

Di Sophie, invece, “che fa parte di quei figli di ricchi lasciati a se stessi e al loro benessere” (ivi, p. 9), si dice che è quel bianco incontaminato e incontaminabile, che “nell’immagine che ha di se stessa, è fatta di vetro, di porcellana scintillante, oppure, meglio ancora, di acciaio inossidabile” (ivi, p. 55), oppure che è come una “superficie liscia, che invita all’attacco, ma sulla quale si scivola sempre” (ivi, pp. 55-6): un personaggio che ha sempre fretta di andare da un’altra parte, che non può mai restare più di qualche minuto presente concretamente nella pagina del libro. A proposito di Sophie, vengono in mente alcuni versi di Sylvia Plath (autrice cara all’austriaca) e quella sua dolorosa sensazione di carta velina che tenta in ogni modo di soffocare.[10] Il sintomo che denuncia questo personaggio (come altri femminili) della Jelinek è proprio questa perdita collettiva di spessore, disancoramento dalla realtà; una leggerezza o, peggio ancora, un alleggerimento, che ci trasforma in figurine abbozzate di un affresco senza più colore e prospettiva. Tuttavia, è proprio per il suo algido distacco da tutto e da tutti e per una sua apparenza di malleabilità assoluta che Hans e Rainer (ma a suo modo anche Anna: odiandola) si innamorano di lei, ed è per la sua estrema prevedibilità che finirà per farsi scegliere dal temperamento forte e ingenuo dell’operaio, anziché dai giochetti di dominio e sudditanza del poeta decaduto, Rainer, che poi ne impazzirà; proprio per la sua esistenza solo allusa, ma sempre superficialmente accomodante, la scuola la preferirà ad Anna come borsista per un anno negli Stati Uniti (ciò che getterà sull’altra una coltre ancora più spessa e morbosa di mutismo e invisibilità).

Sophie sembra insomma il personaggio più innocuo, quello trascinato, più che coinvolto, nella serie di aggressioni progettate e compiute dal quartetto ma, proprio la sua incorporeità e distanza dalla realtà le rendono facile anche le scelte più terribili: alla fine del romanzo, per una sua gelida iniziativa – cittadina poco partecipe al di sopra di ogni sospetto – quasi con eleganza una bomba esploderà nella palestra della scuola.

Nessuna sorpresa, però, ci coglie alla fine del libro, nemmeno per le ultime azioni veramente demoniache di Rainer, perché sapevamo fin dall’inizio di questa storia che i protagonisti erano quattro mostri depravati e che, purtroppo, forse non avevano neppure molta scelta: la prima volta che li incontriamo stanno già compiendo una delle aggressioni che nel libro vengono evocate e considerate immanenti alla realtà.

Nessuno scandalo, poi, anche perché la voce selvaggia e cinica che ci ha guidati in questa storia ce l’ha detto fin dall’inizio che il mondo è un lago d’acqua torbida e melmosa; che la realtà in cui viviamo e che quotidianamente scegliamo di costruire è un banale buco in mezzo alle placide colline austriache, attorno a cui ci siamo adoperati in qualche modo e che però no, contrariamente a quello che si può credere, non è possibile farne altri (di buchi, di laghi, di mondi) qualche metro più in là.

L’acqua è così presuntuosa, non ci si può far proprio niente. È dunque meglio lasciarla in preda al suo squilibrio, no? Se il lago è andato, possiamo sempre costruircene un altro lì vicino, esatto, proprio lì accanto, no meglio laggiù. Che ne pensate? Molti saranno contrari. A monte, se si continua, c’è lo sbarramento della centrale elettrica locale, lì proprio non è possibile. È un posto dove l’acqua deve lavorare e non ha tempo per giocare e fare sport. E non ci rimettiamo certo a fare un altro buco nel mondo con la dinamite tanto per divertirci, o mi sbaglio? (Voracità, p. 80)

[1] Elfriede Jelinek, Gli esclusi, Milano, La nave di Teseo, 2018.

[2] A proposito di questo aspetto, qui si parla giustamente di polifonia discorde.

[3] Elfriede Jelinek, Voracità, Milano, Frassinelli, 2005.

[4] In Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek, intervista realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), Monaco, 2005. Il brano è citato qui.

[5] In mamas pfirsiche, frauen und literatur 9/10, 1978, p. 174 (il brano è citato qui).

[6] Elfriede Jelinek, La voglia, Milano, Frassinelli, 2004.

[7] Ead., Le amanti, Milano, Frassinelli, 2004.

[8] Qui.

[9] I lettori italiani scoprono solo ora da dove venga quella scena del film di Haneke, La pianista (tratto dall’omonimo romanzo della Jelinek), in cui Erika Kohut compie esattamente gli stessi gesti e gli stessi errori della giovane Anna. Solo che, ad aspettare fuori dal bagno la prima c’è la madre, che si accorge subito che qualcosa nella figlia è sfuggita al suo controllo; mentre ad accogliere la ragazza, meno maldestra di Erika, c’è la sbiadita figura di Sophie.

[10] Come si legge nella poesia Cut:“I have taken a pill to kill / The thin / Papery feeling” (cit. in Sylvia Plath, Poesie, Milano, Mondadori, 2002, pp. 688-691).

Il “fine” di Carlo Emilio Gadda

4

di Giovanni Palmieri

Un titolo tra metafisica ed etica

 

In principio fu un’inchiesta di “Solaria” sulle tendenze degli scrittori con-temporanei promossa dalla rivista a partire dal numero di luglio-agosto 1931 con un intervento di Giansiro Ferrata intitolato A proposito di tendenze.[1] In seguito, nel fascicolo di settembre-ottobre dello stesso anno, Elio Vittorini partecipava al referendum solariano con uno scritto dal titolo Tendo al diario intimo.[2] Nel dicembre del 1931 fu la volta di Gadda che intititolerà il suo intervento Tendo al mio fine[3] con un evidente richiamo ironico al titolo di Vittorini. Richiesto di rispondere ad un’inchiesta, di cui probabilmente non condivideva il tema di tipo giornalistico, Gadda risponde dunque polemicamente con un titolo quasi tautologico. Ma il testo che segue questo titolo non è, come vedremo, per nulla tautologico… Del resto, è Gadda stesso in nota a segnalare l’ambiguità semantica tra il significato di «fine» come finalità e quello di «fine» come morte (RR I, 122).

Nel 1934, mutandone la funzione ma senza varianti di rilievo (se si esclude l’aggiunta delle note), Gadda ripubblicherà Tendo al mio fine come prosa di carattere proemiale nel Castello di Udine (RR I, 119-123). Anche qui, però, il testo mantiene il suo iniziale e decisivo carattere di autodafè poetico.

Il diffusissimo sintagma «tendere al Fine» o «al proprio Fine» proviene dal lessico teologico e ancora oggi indica la doverosa tendenza del fedele verso Dio, principio e fine di nostra vita. A cominciare da Agostino ma soprattutto nella Summa teologica (2 pt. I-II, 1) di Tommaso, si tratta in particolare di una tensione verso quel «fine ultimo» che è l’eternità in Dio. Ovviamente la speculazione teologica, soprattutto quella tomista, proviene a sua volta dalla rilettura cristiana di Aristotele. Parlando infatti del concetto di limite nella Metafisica (V, 17), il filosofo afferma:

 

Si dice «limite»

[…]

il fine di ciascuna cosa (appunto questo è il punto di arrivo del movimento o dell’azione, e non già il punto di partenza, quantunque talvolta siano limiti tutti e due, ossia tanto ciò da cui prende inizio il movimento, quanto ciò verso cui esso tende, vale a dire la causa finale)[4]

 

 

Anche la vita, come cosa o sostanza, si muove inevitabilmente verso il suo fine, cioè la sua fine. Non è dunque la morte che raggiunge la vita, ma è la vita che sin dal suo inizio si muove verso una morte che già con-tiene come proprio limite o fine. Se escludiamo, per un momento, il significato di «fine» come obiettivo poetico, è alla Metafisica di Aristotele che Gadda pensa quando risponde all’inchiesta di “Solaria”, o meglio è a quella teleologia biologico-evoluzionistica che in Aristotele ha alcuni suoi presupposti e che tanto appassionava Gadda. Si legga in tal senso il seguente passaggio tratto dalla Cognizione:

 

Ma il tessuto della collettività, un po’ dappertutto forse, nel mondo, e nel Maradagal più che altrove, conosce una felice attitudine a smemorarsi, almeno di quando in quando, del fine imperativo cui sottosta il diuturno lavoro delle cellule. Si smagliano allora, nella compattezza del tessuto, i caritatevoli strappi dell’eccezione. La finalità etica e la carnale benevolenza verso la creatura umana danno contrastanti richiami. Se ha ragione quest’altra, una nuova serie di fatti ha inizio, scaturita come germoglio, e poi ramo, dal palo teleologico (RR II, 573. Miei i corsivi). 

 

 

Non a caso Gadda chiuderà Tendo al mio fine proprio con un riferimento alla morte intesa in senso biologico: «Crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia» (RR I, 122). E la nota a «lassitudine» dice: «Lassitudine: è una interpretazione biologica della morte» (RR I, 123). Il passo citato della Cognizione rende evidente anche un altro significato del termine «fine», cioè quello di finalità etica. Nella Meditazione milanese vi è addirittura un intero capitolo dedicato ai Fini (SVP, 776-792) in cui, attraverso una specie di formula, Gadda afferma che «gli n tendono agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero, gli n+1 non esisterebbero già (SVP, 783). L’io dell’uomo (n) tende dunque ad accrescere uno stato di fatto con un valore supplementare a cui non è ancora pervenuto e che non può preventivamente conoscere. È anche per questo che la vita si «devolve profonda» (RR I, 119) e insondabile. Ed è per quest’ordine di ragioni e non per genericità che Gadda ha scritto Tendo al mio fine senza specificare di quale fine si trattasse.

 

Un testo pensato da subito come proemio d’un futuro libro?  

 

È inevitabile constatare che nell’articolo solariano erano stati anticipati come possibili narrativi temi o motivi che saranno poi effettivamente sviluppati in alcune prose del Castello di Udine. Dato che l’articolo risale al dicembre del 1931, è evidente che certi temi narrativi erano già comparsi in scritti che Gadda aveva pubblicato in precedenza (è il caso della Crociera mediterranea)[5] mentre  altri potrebbero semplicemente essere stati previsti e poi  inseriti in seguito in altri testi.

Vediamo. Gadda dice infatti, a mo’ d’esempio, che nella sua opera: «I soldati, se non aranno male ai piedi, faranno la guerra» (RR I,  120) e così anticipa tutte le prose di guerra della prima parte del Castello di Udine. Analogamente scrive che «Altri disegneranno e costruiranno fortezze, come il Sangallo, o messer Michele Sanmichele, o il Buonarroti» (RR I, 121). E nella sosta crocieristica a Zara, di cui si parla nelle prose della Crociera mediterranea, lo scrit­tore ha proprio ammirato e descritto la splendida Porta di Terraferma del Sanmicheli. Andiamo avanti: loderò – dice sempre Gadda –  «il villa­no (e gli farò il verso e il canto) che recide il pàmpano all’uve» (RR I,  121). E qui, caso o non caso, non può non venire in mente La festa dell’uva a Marino (RR I, 233-244). Più oltre nel suo programma narrativo (che come nel Castello di Udine prevede un’alternanza di guerra e pace), Gadda preannuncia: «farò vedere su nave grandissimi commodori» (RR I, 121) come accadrà effettivamente nella Crociera mediterranea dove tra i protagonisti ci sarà anche il transatlanti­co «Conte Rosso». Ancora: «con me saranno li animi piegati ad amare, sofferire e indurire» (RR I, 121), scrive Gadda e qui viene in mente La fidanzata di Elio (RR I, 225-232). Infine possiamo leggere «se qualche mal odore torcerà lo stomaco a qualcheduno delli eroi, manderemo per sali ed aròmi» (RR I, 121). Allusione questa alla puzza di piedi che è motivo non marginale del Fontanone a Monto­rio. (RR I, 255-264).

Se queste coincidenze tematiche non fossero casuali, allora bisognereb-be supporre che scrivendo Tendo al mio fine nel dicembre del 1931 Gad-da avesse già in animo di ripubblicare l’articolo come prosa introduttiva d’una sua futura raccolta.

 

Dentro al testo

 

La« prefazione malvagia, fatta apposta per irritare l’Areopago» – così Gadda definirà il suo testo in una lettera a Carocci –[6] appare al lettore come un magico nastro di Moebius in cui la faccia critica della dichiarazione di poetica e la faccia creativa della messa alla prova di tale dichiarazione s’invertono continuamente. Non si tratta però di una voluta ambiguità ma di una precisa tecnica che ci rivela che la scrittura narrativa di Gadda sarà sempre sorretta da una riflessione critica o filosofica. Di fatto quell’articolo per “Solaria”, poi proemio del Castello di Udine, diverrà un principio di condotta poetica che sarà possibile ritrovare in quasi tutto Gadda. Analizziamolo in questo senso.

Il testo è costituito interamente da un elenco ragionato di propositi letterari. Il catalogo, incernierato su robuste riprese anaforiche («Tendo a», «Lodarò»), è però vivacizzato internamente da esempi e amplifi-cazioni e il motivo dominante del contrasto tra bene e male, guerra e pace, sublime e volgare, registro lirico-aulico e registro grottesco-reali-stico è presente in tutto il testo. Così com’è onnipresente la nota di sofferenza autobiografica che culmina nel finale. Non però dove Gadda allude alla morte ma piuttosto dove scrive «Seguiterò il mio cammino solitario […] e una grata sarà il termine de’ pochi miei passi (RR I, 122). Se, come ha detto all’inizio, la sua vita è un’immonda prigione, allora una grata sarà il limite della sua azione nel mondo.

Tre appaiono le tematiche dominanti, sapientemente intrecciate nell’articolo: per ordine e importanza, la prima (gnoseologica) è la tendenza alla deformazione dei temi.

 

Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti (RR I, 119 )

Era ed è la legge che custodisce ed impone l’inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica (RR I, 119 ).

 

 

La seconda tematica (etica) riguarda la tendenza a rappresentare tutti gli aspetti della vita, anche quelli meno edificanti. Lo spirito e la carne, la pace e la guerra, il sogno e la realtà e il bene e il male saranno veridicamente tutti rappresentati. Si tratta di un’esigenza onestà intellettuale e di verità. L’Areopago della letteratura dovrà farsene una ragione!

 

Sarò il poeta del bene e della virtù e il famiglio dell’ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco: messi il grifo e le zampe dentro e sotto dal cùmulo della gianda, dirà la sua cupida e sensual fame con le vèntole balbe degli orecchi e immane gaudio di tutto il cilindro del corpo. E fremirà nel suo codino cavaturaccioli (RR I, 119).

 

La terza tematica (autobiografica) attiene agli angoscianti limiti esistenziali dentro a cui Gadda è costretto a vivere, a scrivere e a lasciare il suo segno di sangue. Non a caso nella prima nota a Tendo al mio fine, il commentatore fittizio del Castello di Udine dirà dell’autore : «Il Ns. […] devolve la pagina ad espressione lir[ica] della propria amarezza» (RR I, 122).

 

Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla […] (RR I, 119 )

 

Tendo a dare di questa devoluzione [la vita che scorre] un segno, tenue e forse indeci-frato algoritmo in sul marmoreo muro della legge, della virtù e dell’inutilità veneranda […]. Quella che le cantatrici e i loro aiuti sogliono chiamare la vita è stata per me una immonda prigione: la mia giovinezza, secondo il detto del poeta, una tenebrosa tem-pesta; e quello che sogliono chiamare il bene, è stato il muro del carcere e la bontà della tomba. (RR I, 119 )

 

 

In un certo senso è stato Gadda stesso in questo testo a parlarci per primo, e in modo esemplare, della sua poetica antipocrita e del suo stile “espressionista” giocato sulla deformazione tematica, sui contrasti tonali e sulle contaminazioni di generi, linguaggi e registri. Qui a livello grafico-fonetico possiamo osservare tutta una serie di apocopi arcaicizzanti di preposizioni come a’ per ai, ne’ per nei, de’ per dei e anche alcune preposizioni senza ellissi come della Italia. Parimenti arcaiche o latinizzanti saranno alcune grafie come miaulare, satisfare, lodarò, armiragli per ammiragli, discriverò, il fummo, imagini ecc., oppure l’uso di articoli arcaici come li scrittori, li eroi ecc. Frequente è anche l’uso di morfemi arcaico-toscani come arà, chiamorno per chiamarono, proponermi per propormi ecc. Ma una leggera toscanizazione (vezzo amato da Gadda), implicitamente ironica, si fa sentire in quasi tutto il testo.

Il lessico oscilla tra molti aulicismi (devoluzione, grifo, pampano, germini, boreal, mescerò, fiata, musici, spica, lassitudine ecc.) e rari  plebeismi ( femmine  […] sgravate, bagasce).

La sintassi, di volta in volta paratattica per enumerazione o ipotattica per accumulazione, trova in diffusissime microanafore la sua struttura ritmica portante. Il passaggio comico-grottesco del «porco in braco», prima citato, sarà interamente sotto al segno di Dante. Non solo per la definizione suina degli iracondi in Inferno (VIII, 50) ma anche per la bella metafora «vèntole balbe degli orecchi» dove l’aggettivo balbe per balbuzienti è di ascendenza dantesca. Il contrasto più ravvicinato tra sublime e umile, articolato in due parti, si trova però poco dopo:

 

 

Conterò sogni e chimère, come, sospinta dal vèspero, si deforma la rosea nube del cielo: e conterò li sputi e catarri de’ cittadini nostri e saranno per avventura passato trenta nel quadro d’un piede. Discriverò architetture, colonne e finestre e talora sospingerò l’ardire mio e la fantasiosa vena infino a imaginare che le serrande chiùdino e le maniglie servino a chiudere (RR I, 121)

 

Se al di qua del testo, la tensione permanente verso un fine o una meta rivela in Gadda la sua ansia di perfezionismo e dunque la tendenza al non finito, all’inconcluso, al di là del testo tale tensione appare come il desiderio di varcare tutti i confini, oltrepassando la dimensione umana per approdare infine ad un altrove metafisico.

 

 

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

RR I = Carlo Emilio Gadda, Romanzi e racconti I, a cura di Raffaella Rodondi , Guido Lucchini ed Emilio Manzotti, Garzanti, Milano 1988

RR II = Carlo Emilio Gadda, Romanzi e racconti II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella e Raffaella Rodondi, Garzanti, Milano 1989

SVP = Carlo Emilio Gadda, Scritti vari e postumi, a cura di Andrea Silvestri, Claudio Vela, Dante Isella, Paola Italia e Giorgio Pinotti, Garzanti, Milano 1993

 

NOTE

[1] Giansiro Ferrata, A proposito di tendenze, in “Solaria”, VI, n. 7-8, 1931, pp. 52-54.

[2] Elio Vittorini, Tendo al diario intimo, in “Solaria”, VI, n. 9-10, 1931, pp. 48-51.

[3] Carlo Emilio Gadda, Tendo al mio fine, in “Solaria”, VI, n. 12, 1931, pp. 46-51.

[4] Aristotele, Metafisica, tr. it e cura di Antonio Russo, Laterza, Bari 1973, p. 156. Miei i corsivi.

[5] Su “L’Ambrosiano” Gadda ha pubblicato Tirreno in crociera (1 agosto 1931), Dal Golfo all’Etna (6 agosto 1931), Tripolitania in torpedone (13 agosto 1931), Sabbia di Tripoli (21 agosto 1931) e Approdo alle Zattere (24 agosto 1931).

[6] In Lettere a Solaria, a cura di Giuliano Manacorda, Ed. Riuniti, Roma 1979, p. 507.

Il paese degli uomini umidi (e una prefazione di Adrian N. Bravi)

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Il paese degli uomini umidi è situato dietro il sole, in un angolo del mondo sbiadito dall’oblio.
Vuoto e desolato dorme il suo metafisico male di abulia sotto un’eterna cappa di muschio verniciato da poco e fresco di rugiada.
Rugiada: lacrima versata da un ricordo che respira nella buia alcova dell’anima come una farfalla di luce.
Nessuna geografia contiene il profilo del paese degli uomini umidi, perché il paese degli uomini umidi è uno stato dell’anima. Uno stato di tristezza senza rimedio dove i giorni appendono manifesti di noia e le ore dicono con la loro monotonia che la vita non vale la pena di essere vissuta.
Terra senza orizzonte: paese degli esiliati, dei poveri diavoli ai quali il mondo ha voltato la faccia. Persino il sole…
Complice del destino, che con un vento tragico ha spazzato via il baluginare dell’ultima speranza, il sole gli ha voltato le sue spalle ombrose, negandogli la profilassi spirituale dei suoi raggi.
L’allegria è straniera nel paese degli uomini umidi, di quelli che hanno smarrito l’intatto serpeggiare della risata nel labirinto del dolore.
Da quando è morta mia madre ho iniziato ad appuntarmi medaglie di amarezza per ottenere la cittadinanza nel paese degli uomini umidi.
Sul confine della gioventù ho abbandonato il contrabbando di ingenuità e mi sono tuffato nell’acqua benedetta sulla cui superficie si rifletteva la mia infanzia.
Prima ero un cittadino del mondo che si rinnova. Adesso sono un abitante della pozzanghera dimenticata. Del paese indifferente, della terra degli uomini umidi.
La mia tristezza è autentica. E questo vale molto. Più ancora oggi, che il mondo si intristisce quando glielo ordina il calendario.
Ora che le stelle si frantumano contro l’angustia che mi impicca l’anima, ascolto sorpreso il faticoso sospiro di un ricordo.
Perché io un ricordo ce l’ho. L’ho esibito come un passaporto per diventare inquilino nel paese degli uomini umidi.

 

NdR: il racconto che precede è contenuto nel volume “Letti da un soldo” pubblicata da poco da Arkadia nella collana Xamaica 2, nella traduzione di Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani, con una postfazione di Luigi Marfè; il volume comprende tutti i racconti della raccolta “Camas desde un peso”, e una selezione da “El alma de las cosas inanimadas” e da “La rueda del mulino mal pintado”;

qui di seguito la prefazione di Adrian N. Bravi:

 

Durante gli anni Venti a Buenos Aires inizia un processo inedito di ristrutturazione e di ripensamento sociale. Sono gli anni in cui la città vive una crescita esponenziale della popolazione, in particolar modo dovuto alla migrazione. La periferia, quel fuori ampio e desolato, diventa più visibile; per certi aspetti, centrale e dominante rispetto al resto. È un processo iniziato alla fine del XIX secolo, ma nei primi del Novecento, in particolar modo dopo la Grande Guerra, subisce una grande intensificazione. Buenos Aires si trasforma in una città cosmopolita, cambia il profilo culturale e il tessuto urbano. La letteratura accoglie questo processo attraverso la lingua e le nuove estetiche che entrano nel panorama letterario. Nascono nuove poetiche e, allo stesso tempo, il suburbio, per conto suo, diventa lo scenario per eccellenza. Non più un’alterità che minaccia i costumi tradizionali, ma qualcosa che entra a far parte di un immaginario. Si potrebbe dire, scrive Beatriz Sarlo in Una modernità periferica, che «gli scrittori fondano il sobborgo a partire da particolari ibridazioni estetiche e ideologiche». Quindi, di conseguenza, prendono vita nuovi soggetti sociali: il migrante, il bordello, la malavita, i contrabbandieri, i vagabondi che dormono nei Letti da un soldo, come I cinque personaggi che Enrique González Tuñón descrive e affresca nel primo racconto che apre la raccolta.
In questi anni la città vede confrontarsi nello scenario letterario due gruppi contrapposti: Florida e Boedo (entrambi prendono il nome da due strade rappresentative: Florida, centrica, lussuosa e cosmopolita; Boedo, invece, è una strada di sobborghi, di boliches, notturna). Alvaro Yunque, uno degli scrittori più rappresentativi di Boedo scriveva: «Quelli di Boedo volevano trasformare il mondo, a quelli di Florida, bastava trasformare la letteratura. I primi erano rivoluzionari, gli ultimi, avanguardisti». Erano due modi di vedere e di percepire la città e le sue trasformazioni. Gli autori di Florida guardavano all’Europa e a tutti i movimenti di avanguardia; gli autori di Boedo, invece, avevano come riferimento sia la Russia di Dostoevskij che quella di Gor’kij e Maiakovskij. Uno cercava una nuova espressione letteraria e l’altro parlava il lunfardo.
In questo contesto sociale si inserisce Enrique González Tuñón, nato a Buenos Aires nel 1901 e morto prematuramente a 42 anni, fratello maggiore del poeta Raúl González Tuñón. È stato un narratore, un rinnovatore dello stile giornalistico, ha scritto per il teatro, ha scritto anche tanghi, tra cui Pa’l cambalache, registrato nel 1929 da Carlos Gardel. Il poeta César Tiempo, che era nato in Ucraina a inizio del ’900, ha detto di Enrique González Tuñón: «Preferirà circondarsi di ladri e di teppisti, dormire in alberghi orribili, quando ha un peso per il letto, o nei banchi delle piazze; cantare la Tosca nei più improbabili caseifici, visitare le compravendita dove si trafficano i vestiti dei cadaveri e, abbandonato da ogni pietà, sognare, dalle profondità dei porcili – come gli eremiti posseduti dal demonio – con la gloria fatta donna o viceversa». Basterebbe questa descrizione per poterlo immaginare come un personaggio uscito da un romanzo di Roberto Arlt o come un iconoclasta della bohème di Buenos Aires, con i tratti di un anarchico romantico. A metà degli anni Venti si era affermato nel panorama letterario porteño e nel 1927 il giovane Borges aveva recensito con entusiasmo il secondo libro pubblicato da Enrique González Tuñón, L’anima delle cose inanimate.
Letti da un soldo esce nel 1932 da Manuel Gleizer, un emigrato russo che nel 1922 aveva fondato una casa editrice, la quale aveva pubblicato molti libri importanti, tra cui L’idioma degli argentini di Borges (prima di quella data Gleizer vendeva biglietti della lotteria a Villa Crespo, vicino al fiume Maldonado che stabiliva uno dei limiti della città). Letti da un soldo è uno dei libri più riusciti di Enrique González Tuñón ed è una fortuna che oggi veda la luce in quest’ottima traduzione. È composto da cinque racconti che si intrecciano tra di loro, di ispirazione dostoevskiana (tenendo conto che le traduzioni spagnole dei romanzi russi hanno fornito sistemi di riferimenti agli scrittori rioplatensi di quell’epoca). Racconta la storia di cinque cialtroni che dividono una stanza in un tugurio di Buenos Aires chiamato “La Pignatta Misteriosa”, sottosuolo di una città che accoglie i marginati a un centesimo. Si tratta di una sorta di locanda evocata anche dal fratello Raúl e da altri scrittori dell’epoca. Un luogo dove molti intellettuali, che non appartenevano a quell’ambiente, potevano incontrare i marginati del bassofondo porteño.
Enrique González Tuñón ha nei confronti di questi personaggi uno sguardo privo di ogni sorta di giudizio, come quando introduce Il Mancino, uno dei cinque coinquilini: «Verso sera lasciava il ricovero e, con le mani nelle tasche di un soprabito nocciola, andava a piazzarsi all’angolo tra Corrientes e Talcahuano, o all’angolo tra Victoria e Salta, in attesa di un cliente disposto a strapagare la cocaina che lui e la Nucha avevano tagliato col bicarbonato». Il disagio sociale diventa il filo conduttore di tutte queste storie, in cui la vita è sempre in bilico e ogni giorno tocca lottare contro la miseria nella fatale ricerca di un piatto di zuppa o di un bicchiere di vino. La prematura morte di Enrique González Tuñón, però, ha contribuito a far dimenticare un po’ la sua opera, quella dello scrittore che conosceva meglio di chiunque la intimità della città, i suoi infiniti segreti e le storie che oggi fanno parte di quella mitologia che abbiamo imparato ad amare nel tempo.

Lo stanzone

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di Andrea Inglese

[Questo testo mi è stato commissionato da The FLR (The Florentin Literary Review) per il numero 4 dedicato al tema del “paesaggio”. Sono inclusi nel numero anche testi di Francesco Targhetta, Azzurra D’Agostino, Giampaolo Simi, Ruska Jorjoliani.]

 

non sembrerebbe, ma

è l’albero cinese, del paradiso, comincia qui,

Pietro Tripodo, poeta e traduttore

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(Lo scorso 8 novembre si è tenuto presso la Società Dante Alighieri, a Roma, il convegno “Altre visioni”. Pietro Tripodo poeta e traduttore. Riportiamo tre interventi dalla giornata: Roberta Alviti, Pietro Tripodo traduce Antonio Machado; Michele D’Ascenzo, Pietro Tripodo e la musica: il suono e il tempo; Tarcisio Tarquini, I perciatellini di Pietro.

Tripodo è nato a Roma nel 1948; nella stessa città ha vissuto, lavorato ed è prematuramente scomparso nel 1999; la maggior parte della sua produzione poetica ha visto la luce negli anni Novanta del secolo scorso e molti dei suoi testi sono stati pubblicati su riviste quali Poesia e Altri argomenti. Il suo libro di poesie, Altre visioni, fu pubblicato dalla casa editrice Rotundo, nel 1991, in una collana diretta da Arnaldo Colasanti; nel 2007 la raccolta è stato ripubblicata, a cura di Raffaele Manica, per i tipi di Donzelli, insieme al secondo volume di poesie di Tripodo, Vampe del tempo, la cui prima edizione era stata pubblicata nel 1998 dalle Edizioni Il Bulino. Tra i lavori traduttivi, ricordiamo una versione latina de Le Cimetière marin di Paul Valéry, una versione italiana di Rusticus, di Angelo Poliziano; Tripodo ha curato anche edizioni e traduzioni di Georg Trakl, Callimaco, Catullo, Shakespeare e di Arnaut Daniel).

 

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Pietro Tripodo: sedici “rifacimenti” da Machado
di Roberta Alviti

Le prime tredici traduzioni appartengono a Soledades, galerías y otros poemas (1899-1907), la prima raccolta pubblicata da Machado, la raccolta più intimista nella produzione del sivigliano; dei tre testi restanti, uno fa parte di Juan de Mairena (1936), una sorta di zibaldone filosofico che raccoglie “sentencias, donaires, apuntes y recuerdos de un profesor apócrifo”, dell’eteronimo Juan de Mairena, mentre le altre due sono state pubblicate postume in diverse sedi. In un volume delle edizioni del Bulino di Sergio Pandolfini, con un’incisione di Enrico Pulsoni e con la curatela di Roberta Alviti, di cui pubblichiamo la nota introduttiva

Antonio Machado è uno dei poeti spagnoli che, insieme a Federico García Lorca, ha goduto di maggior fortuna nell’ispanistica italiana del secondo Novecento, successo che è testimoniato dall’ampia bibliografia critica e dal gran numero di traduzioni delle sue opere; vale la pena ricordare quelle di Oreste Macrì, pioniere degli studi machadiani in Italia, Claudio Rendina, Francesco Tentori Montalto e Giovanni Caravaggi.

Erano sconosciute, invece, le traduzioni del poeta sivigliano realizzate da Pietro Tripodo, il quale affiancò costantemente alla creazione di testi poetici propri l’attività di traduzione; sono state, infatti, recentemente rinvenuti nelle carte di Tripodo sedici “rifacimenti”, la cui prima stesura potrebbe risalire alla metà degli anni Settanta, che il poeta prematuramente scomparso realizzò a partire da testi machadiani. Secondo testimonianze di parenti e amici, infatti, proprio in quell’epoca Tripodo cominciò a leggere le poesie del poeta sivigliano.

Dei sedici testi selezionati da Tripodo per la traduzione i primi tredici appartengono a Soledades, galerías y otros poemas (1899-1907), la prima raccolta pubblicata da Machado, raccolta che risente delle suggestioni moderniste della poesia dell’epoca e si caratterizza senz’altro per essere la più intimista nella produzione del sivigliano; dei tre testi restanti, uno fa parte di Juan de Mairena (1936), una sorta di zibaldone filosofico che raccoglie “sentencias, donaires, apuntes y recuerdos de un profesor apócrifo”, dell’eteronimo Juan de Mairena, mentre le altre due sono state pubblicate postume in diverse sedi. In ogni caso, Tripodo mostra una predilezione per testi nei quali si esaltano temi quali l’amore per la natura, il ricordo, la nostalgia di affetti, tempi e luoghi dell’infanzia, considerata un territorio inaccessibile e perduto per sempre.

Le traduzioni presentate in questo volume, nel solco della strategia traduttiva di Pietro Tripodo, sono il frutto di un attento lavorio, di scavo filologico, interpretazione e appropriazione dei testi machadiani, lavorio la cui ratio risiede nell’intenzionalità di riprodurre almeno l’andamento ritmico del testo originale, nella varia misura dei versi e, nella disposizione strofica. Al contempo, Tripodo lavora tenendo ben presente una frase di Pannwitz che pose come exerga alla traduzione italiana di Arnaut Daniel: “Il traduttore deve lasciar scuotere e sommuovere la sua lingua da quella straniera. Deve risalire agli ultimi elementi della lingua stessa; egli deve allargare e approfondire la propria lingua mediante quella straniera”.

Nelle versioni italiane di Tripodo, infatti, pur nell’assoluto rispetto dell’aspetto semantico, si assiste alla decostruzione, all’esplosione e la conseguente ricomposizione del tessuto sintattico degli originali, operazioni audaci che tuttavia preservano prodigiosamente l’architettura formale del testo, sia dal punto di vista ritmico che metrico-rimico. Sono, infatti, mantenute nella totalità dei casi le misure versali e le strutture strofiche: l’unico sonetto, nella sua declinazione modernista, con rima alternata nelle quartine, è riproposto in una compagine identica dal punto di vista metrico e rimico; allo stesso modo, vengono mantenuti i versi alessandrini, riproposti nelle varie combinazioni: a rima baciata, alternata e abbracciata; le silvas e le silvas-romance, per le quali si rinuncia alla riproduzione della rima assonanzata nei versi pari, vengono riprodotte nell’alternanza di endecasillabi e settenari del modello strofico spagnolo. Va inoltre segnalato che nei “rifacimenti” di Tripodo vengono esaltate le risonanze gongorine e barocche delle poesie machadiane, che risultano quasi sempre attenuate in esercizi traduttivi precedenti e successivi.

Questi esercizi traduttivi corrispondono in pieno, dunque, al modus traducendi di Tripodo, che secondo Pier Vincenzo Mengaldo predilige la linea “spaesante, che unisce la lingua di arrivo a quella di partenza”, nel senso che ricalca molto della versione originale, ricreando una nuova lingua, sostituendo lo spagnolo con uno spagnolo raffinato innovativo e al tempo stesso costellato di richiami a un registro linguistico fin de siecle.

 

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Pietro Tripodo e la musica: il suono e il ritmo
di Michele D’Ascenzo

A proposito di cinque composizioni, di cui due multimediali, su suoi testi, scritte dai compositori Fabio Agostini, Antonio D’Antò, Luca Salvadori, Antonio Poce, Giampiero Gemini e Valerio Murat per una serata che il Conservatorio di Frosinone dedicò al Poeta.

Non avendo conosciuto personalmente Pietro Tripodo, ho tentato di avvicinarmi a lui e alla sua poesia attraverso il linguaggio che mi è più familiare, quello musicale. Ho quindi incentrato la mia relazione sui rapporti, diretti e indiretti, tra la sua poesia e la musica, di cui si potrà rendere conto solo sommariamente in questo breve intervento. Nell’ottobre 2014, in occasione di un evento in ricordo del poeta, vennero presentate presso il Conservatorio di Frosinone cinque composizioni su suoi testi, di cui due sono lavori multimediali, scritte dai compositori Fabio Agostini, Antonio D’Antò, Luca Salvadori, Antonio Poce, Giampiero Gemini e Valerio Murat. Vorrei partire da queste composizioni, che in modo diverso evidenziano gli aspetti musicali che Pietro Tripodo affrontò direttamente nei suoi componimenti. Da questo punto di vista, come vedremo, la traduzione musicale si rendeva quasi inevitabile. Tutti i brani sono composti sui testi di “Vampe del tempo”, tranne una, di Luca Salvadori, che invece mette in musica uno dei rifacimenti da Arnaut Daniel.

Quasi tutte le opere amplificano il testo poetico, auscultano la parola, attraverso numerosi effetti di eco ottenuti dall’iterazione di frammenti allitteranti oppure dotati di un ritmo preciso. Le composizioni permettono così la piena manifestazione degli aspetti musicali: questi, allo stato germinale nella poesia, fioriscono nella musica. Questa lettura del testo, pur nel sostanziale mantenimento della forma data da Tripodo, consente all’interno di una singola performance di “tornare indietro”, di isolare e ripetere delle componenti e di comprenderle più profondamente.

A tal proposito, Emanuele Trevi, in “Non so vivere altrove. Ricordo di Pietro Tripodo” (in «Nuovi Argomenti», n. 6, aprile-giugno 1999), rintraccia la causa della generale disaffezione dei lettori contemporanei alla poesia proprio nell’incapacità di leggerla, essendo abituati ad una lettura orizzontale, irreversibile e non verticale, ruminante del testo poetico. Queste composizioni favoriscono quindi la seconda tipologia di lettura, di più: se ne ricava una lettura – si direbbe – tridimensionale delle poesie di provenienza che già si caratterizzano per una plasticità fonica ben riconoscibile. Nel processo di riproduzione quanto più fedele della realtà che intende rappresentare, Tripodo ricerca la parola poetica in un percorso diretto all’esattezza sonora e semantica.

Lo storico dell’arte Bernard Berenson in “Estetica, Etica e Storia nelle arti della rappresentazione visiva” definisce un concetto cardine del suo pensiero, i “valori tattili”, che «si trovano nelle rappresentazioni di oggetti solidi allorché questi non sono semplicemente imitati (non importa con quanta veridicità) ma presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarli, rendersi conto della loro resistenza potenziale, misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno». Credo che queste parole si possano ben riferire alla poesia di Tripodo: la sua plasticità consente agli oggetti descritti di presentarsi come esistenti, anche fonicamente: essi vibrano e risuonano nella parola. Il suono fa acquistare loro volume tanto da avere l’impressione di “poter girare intorno” alle poesie come intorno ad una scultura.

L’incessante lavoro di Tripodo sui suoi testi è una conferma della concreta e precisa ricerca fonica e le bozze lasciateci su futuri e probabili sviluppi delle poesie testimoniano, anche nel caso di interventi poi cassati, l’indirizzo del poeta. Qualche esempio tra i tanti: in “Fiorisca di veneri una strada”, al verso 5, “deserto” viene sostituito con “petraia”, termine che crea anche una forte allitterazione con il seguente “primavera”, quasi a voler tradurre nel linguaggio non soltanto l’aridità del precedente “deserto”, ma anche la solidità spigolosa della “petraia”, un luogo inospitale alla fioritura primaverile. In «Smuove e diverte gli ori delle spighe» il “frottar di ali” (verso 2) viene sostituito con “frullar” cosicché il movimento rappresentato del “frullar d’ali” si viene a materializzare nel suono. Le poesie che subiscono variazioni più radicali presentano spesso nuove disposizioni delle parole che favoriscono la vicinanza di quei termini fonicamente affini, in modo da ottenere una partitura più ricca. Ad esempio, nella nuova versione di «Il suo volto è il disegno degli evi»Tripodo introduce numerose coppie allitteranti non contemplate precedentemente: “esisteva / e moriva” (vv. 2-3) diventa “sfioriva / e fioriva”, “vivente / corpo” (vv. 5-6) diventa “corpo caldo”, e si notino i nuovi versi “tronfio trofeo che lietasse legittimo / seconda vita su secondo capo”.

Da questi e da numerosi altri esempi del laboratorio di Tripodo emerge in modo ancor più evidente l’attenzione per la selezione del linguaggio anche in ragione del suo aspetto fonico. I “valori tattili” qui si configurano come valori uditivi, che servono alla resa realistica degli oggetti rappresentati perché siano riconosciuti e percepiti come reali, ancora vivi e vibranti nella poesia e così veramente “salvati” dall’azione distruttrice del tempo, dalle “vampe del tempo”. Appare ancora più significativo l’insistere di Tripodo stesso sulla vitalità delle parole che corrispondono alle cose e sul loro vibrare, nel saggio su “Gioco a nascondere” di Lucio Piccolo (luglio-settembre 1996 di Nuovi Argomenti). Tra i passaggi più rilevanti in tal senso, parlando della poesia di Piccolo, ma in fondo anche di sé stesso: «quella particolare interiorizzazione e accensione che possono essere date solo da chi ha famigliarità e esperienza profonda, e appunto tremante, di quelle cose come reali»,o più avanti «una forma, cioè, che ricorda D’Annunzio: ma con l’aggiunta di quella vibrazione, di quel tremore di cui si diceva», o ancora«le parole di Piccolo sono vive, perché strette alle cose. […] C’è l’esperienza assidua (aristocratica, ma anche umile, tremante) degli oggetti: delle cose che vitalmente e a tutto tondo corrispondono alle parole, non importa se quotidiane o letterarie». La vitalità delle parole, la loro vibrazione, il loro risuonare sono stati dunque un fertile punto di partenza per i compositori: la traduzione musicale delle poesie di Tripodo era inevitabile.

Luca Salvadori, invece, affronta questa sonorità in un altro modo: non fa ricorso agli effetti di eco, ma lavora con i timbri strumentali, cercando così di riprodurre in musica le caratteristiche della parola. Nella sua composizione, intitolata “Per lei faccio suono e rima”, impiega il clavicembalo, il cui suono metallico, per certi versi aspro, è affine alla lingua particolarissima che Tripodo crea nella mimesi di quella di A. Daniel. Quest’opera, che tra l’altro è la più fedele dal punto di vista formale (viene mantenuta la divisione strofica che trova perfetta rispondenza negli episodi musicali), è programmaticamente un’operazione di traduzione ulteriore: se ovviamente ogni brano è una traduzione nel linguaggio musicale, quest’ultima lo è in modo specifico, essendo intenzione del compositore compiere in musica la stessa operazione poetica. Il dialogo di un antico con un moderno si ritrova nell’accostamento di uno strumento antico, il clavicembalo, ad andamenti armonici moderni, di derivazione jazzistica, dando così testimonianza di quello sperimentalismo ludico che è un’altra componente importante della poesia di Tripodo.

Tornando alla sua musicalità, questa si manifesta dunque da una parte nell’elemento sonoro della parola e dall’altra in quello metrico-ritmico. L’elemento ritmico viene evidenziato maggiormente nei due lavori multimediali: “Fino all’ultimo fuoco” di Antonio Poce e Giampiero Gemini e “Un profumo che non so definire” di Antonio Poce e Valerio Murat. In queste opere il ritmo viene evidenziato mediante l’utilizzazione di note ribattuteche conferiscono una serrata concitazione o attraverso l’uso di pause interposte tra frammenti di testo, i quali vengono alle volte organizzati in versi riprodotti visualmente. Viene evocato anche lo scorrere del tempo: frequenti sono le immagini degli ingranaggi implacabili di un orologio. La musica rende manifesta la tensione sotterranea delle poesie: l’impressione di calma razionale e compostezza dei testi nasconde la percezione del tempo erosivo.

Qui poeta e musicisti si incontrano dunque in un altro territorio importante: la dimensione del tempo. Tripodo è un poeta che affronta il tema tradizionale del tempo che fugge e la conseguente missione della poesia eternatrice della memoria di cose ed eventi. Ma affronta altresì, e meticolosamente, la metrica e il ritmo, ovvero la misura del tempo e la sua organizzazione. Le esigenze ritmiche e metriche in Tripodo sono importanti tanto da condizionare anche delle scelte sintattiche. Gli iperbati, le inversioni, così come anadiplosi ed epanadiplosi presenti nei testi o verso cui si indirizza la ricerca variantistica (si leggano anche in questo caso le varianti lasciate nel file del suo computer) contribuiscono a creare una densa partitura musicale e ritmica. La professionalità e la severa disciplina nell’esercizio della metrica, la volontà di pianificare e orchestrare il ritmo, il tempo e le pause sembrano quasi essere un ulteriore tentativo, sul piano formale, di fronteggiare il tempo che fugge: affrontarlo non solo come contenuto, ma affrontarlo anche “fisicamente”. Il suo rigore scientifico non lascia dubbi sulla capitale importanza che riveste nel suo sistema poetico. Risulta chiaro che qualsiasi ricerca formale, sia essa sonora o metrica e ritmica, sia tanto importante quanto funzionale, e nasca dalla reale e scottante esperienza del tempo, traslato e cristallizzato nel ritmo organizzato della poesia.

 

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I perciatellini di Pietro
di Tarcisio Tarquini

“Pietro e Alatri”, un ricordo sulle amicizie e sulle riviste che Tripodo “frequentò”  nella cittadina ciociara, dove per alcuni anni operò una piccola casa editrice che pubblicò un testo raro di Giuseppe Gioachino Belli, una rivista dell’avanguardia artistica che dedicò un numero speciale a Pizzuto, con tanto di inediti, e un libro di saggi su Tommaso Landolfi

Pietro cominciò a frequentare Alatri, dove si sarebbe costruito una fitta rete di amici ed estimatori, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando incontrò a Roma, al collegio del Nazareno, del cui istituto scolastico annesso furono ambedue istitutori, Raffaele Manica che me lo presentò. Non ricordo se lo incontrai per la prima volta ad Alatri o a Roma – in una trattoria nella quale discutemmo dello spessore più adeguato delle fettuccine e della nobiltà, per Pietro insuperabile, dei perciatellini del rinomato pastificio abruzzese di Fara San Martino. Ricordo questo particolare perché, riflettendo sulla nostra amicizia, quando ne erano potuti restare solo il ricordo e il vuoto, sono arrivato alla conclusione che l’oggetto delle conversazioni per Pietro non fosse mai innocente, casuale; e che lui piuttosto si ingegnava, al primo contatto, a  fermarsi su un argomento innocuo, che non facesse correre il rischio di discussioni troppo accese e da cui, anche il perdente della controversia dialettica, potesse ritirarsi senza danno e il rancore che avrebbero pregiudicato i rapporti successivi.

Pietro, inoltre, aveva una straordinaria capacità di intuire nell’altro quello che potesse essere di suo interesse, e di segnare così i confini e i contenuti del dialogo individuando quelli nel quale l’interlocutore si sentisse –  o potesse mostrarsi – sicuro delle sue competenze: era un modo, cerimonioso e circospetto insieme, di metterlo a suo agio, di dare prova di buona educazione, più che di circuirne l’affetto: di me sospetto avesse capito che non ero in grado di reggere, come pure mi sarebbe piaciuto e mi intestardivo a fare, i suoi ripetuti e sofisticati richiami alla “Cognizione del dolore” e al “Pasticciaccio”, o alle regole della versificazione classica, o ai tanti poeti d’ogni tempo e lingua che aveva letto e citava, e mi offriva un terreno di confronto incruento, dove le mie eventuali sconfitte argomentative (anche sull’intimo essere di perciatellini e fettuccine, di cui era esperto sul serio) potessero suonare – per via della coloritura di scherzo che ammettevano – meno perentorie, più accettabili.

Tutta la nostra amicizia si è fondata su questo equivoco, su questo gioco, ciò non ha impedito che sia stata forte e unica, così come forte e unica è stata l’amicizia che con ciascuno dei suoi amici egli ha saputo sviluppare: amicizie senza il rischio di smentite o delusioni, perché Pietro chiedeva e otteneva esattamente quello che ogni suo amico poteva offrirgli, rendendo tutti insostituibili nel suo universo reticolare di rapporti e proponendosi come insostituibile e centrale in quello di ciascuno di loro.

Alatri e il nostro giro di amici è stato importante per Pietro non solamente per il riconoscimento affettivo che ne ha saputo trarre: suoi amici sono stati, oltre a me e Raffaele, Gianni Fontana, Luca Salvadori, musicista che pubblicava le sue poesie su Dismisura, la rivista di cui dirò più avanti; un poco più discosto il poeta Elmerindo Fiore, anche lui componente della redazione di Dimisurae della rivista che la seguì, la Taverna di Auerbach su cui Pietro pubblicò alcune delle sue opere più significative e singolari. Ad Alatri poi, per un anno, insegnò nell’istituto magistrale Gualberto Alvino, filologo romano che Pietro già conosceva ma dalla cui permanenza e reciproca “interferenza” alatrina originò un numero della Taverna di Auerbach su Antonio Pizzuto, straordinario sia per la qualità scientifica sia per la corposa foliazione, che oltre a saggi di valore pubblicò inediti messi a disposizione di Gualberto da Maria Pizzuto, la figlia del grande scrittore.

Dismisura” era stata fondata nel 1972, il primo numero della “Taverna di Auerbach” è del 1987, l’una e l’altra ebbero come sede di ideazione e realizzazione tipografica Alatri (e la tipografia Tofani) e direttore Gianni Fontana, la prima in codirezione con Alfonso Cardamone, la seconda da solo (di questa io ebbi la direzione responsabile, ma solo ai fini delle norme sulla stampa).

Era inevitabile che Pietro trovasse in queste due riviste lo spazio per dare luce alle sue prove poetiche, alle sue traduzioni, alle sue ricerche critiche, particolarmente a queste ultime che sono di tutto rilievo anche se finora non hanno trovato la giusta attenzione, essendo state inevitabilmente oscurate dall’opera del poeta e traduttore – anche oggi nel pensare questo seminario si è finito con il trascurare il suo lavoro critico che, comunque, sembra sempre funzionale a trovare nuove quadrature per la sua opera diretta.

Pietro si presenta ai lettori di “Dismisura” per la prima volta sul numero che celebra il decennale della rivista e si intitola “sulla dismisura”. Una vera e propria opera smisurata è il testo che egli presenta, la traduzione in latino di alcune strofe del Cimitero Marino di Paul Valery, con una nota che – come ci ha raccontato Raffaele nel saggio che chiude la edizione da lui curata per Donzelli nel 2007 di “Altre visioni” – è solo una parte minima del ben più corposo lavoro che egli aveva preparato e che all’ultimo momento evidentemente aveva pensato di dover ancora migliorare e di dover perciò procrastinare rispetto alla scadenza della rivista. Nella nota, nella quale spiega di aver adottato nella traduzione il metro del decasillabo cesurato e ne cataloga le molteplici varianti, Pietro “chiede venia per tutte le omissioni” e si augura che presto “possa esservi un luogo” dove poter produrre “una fondata giustificazione dell’adozione di questo metro” alludendo a uno “scritto che è già quasi portato a termine”.

Nel fascicolo successivo della rivista (nn. 61/62, Il pozzo e il pendolo, settembre-dicembre 1982), troviamo un testo poetico di Pietro, “Paralogia regredita”, che è un ragionamento filosofico, un concatenarsi di illuminazioni di cui è forse impropria la lettura lineare, su tempo e movimento come agenti dell’agitarsi delle cose, della loro trasformazione e nel quale a me sembra di poter isolare qualche verso, qualche accoppiamento di parole, o forse solo qualche unità ritmica, che vivono in altri suoi componimenti o sono un tributo ad altri poeti. Ma questo meglio di me potrebbero dire persone con conoscenze più vaste e orecchio più esperto.

Quello che mi pare di poter affermare, invece, è che Pietro interpreta nel modo più giocoso e disinvolto lo spirito della rivista, la sua smodatezza programmatica, destinando ad essa suoi esercizi più azzardati: sperimentazioni che mai avrebbe distribuito altrove, eppure anche se si tratta di prove condotte in tutti i sensi ai margini dell’attività principale non riesce a evitare di approfondirne la portata con studi accurati che ne motivano il senso, e perciò mi sembrano di estrema utilità per avere una visione compiuta del suo stesso  lavorio poetico che, come rileva Raffaele, si prolungava ben oltre le edizioni che consideriamo definitive dei testi.

Su un numero di “Dismisura” (il 67/73 del dicembre 1984, La Gola e l’eco) Pietro pubblica la celebre traduzione del carme XI di Orazio, che ha avuto una grandissima fortuna: un rifacimento che ha l’autonomia di un testo primario e che, però, nello stesso tempo è la più fedele rappresentazione di un sentimento oraziano, quell’amara e quieta riflessione sull’esistenza, sulla giovinezza che passa, sull’amore, sulle cose perdute che lo avrebbe guidato in tutta la sua poesia, fino alla prova suprema di “Vampe del tempo”.

A metà degli anni ottanta, la redazione di Dismisura vive una polemica interna che provoca una scissione per effetto della quale nasce La Taverna di Auerbach, il cui primo numero, uscito recando la data dell’autunno 1987, ospita una sezione che, nelle intenzioni dei redattori e del direttore avrebbe dovuto ripetersi in ogni fascicolo, chiamata “il gioco del tradurre”: una scelta dettata certamente anche dall’entusiasmo che aveva suscitato l’esperimento della traduzione di due anni prima condotto da Pietro su “Dismisura”. Non a caso il primo testo proposto al rifacimento di poeti, filologi, semplici amanti della poesia, è ancora un carme di Orazio, quello del Soratte imbiancato di neve: Pietro non ne dà la traduzione completa ma rende conto dell’esito di più rifacimenti delle strofe iniziali e finali; rifacimenti che sembrano confermare ciò che Raffaele scrive nella breve nota esplicativa che presenta i componimenti là dove segnala che questo gioco del tradurre e del rifare, ciascuno con la sua sensibilità e il suo ritmo interiore, è innanzi tutto un ricercare l’Orazio che c’è in noi e quindi, potremmo aggiungere, un abbandonarsi a un processo creativo che non può mai appagarsi e si arricchisce della perizia artistica e della vita vissuta con cui siamo capaci di farlo lievitare e di volgerlo alla risposta dei nostri più radicali interrogativi. O magari solo per riproporre, in altri termini, le stesse domande. Detto per inciso, le “variazioni” presentate in quella “Taverna” sono tutte d’alto livello e aiutano davvero a rinnovare l’eco oraziana che portiamo dentro di noi, ciascuno a proprio modo; fra tutte vorrei ricordare la versione in lingua napoletana di Franco Cavallo, con quel suo incipit “Bello o’ Soratte, Taliarcuccio mio” che mi si rivelò, e ancora oggi mi pare, notevole.

Il numero successivo della “Taverna” è il già ricordato “speciale” su Antonio Pizzuto, con inediti dello scrittore siciliano, alcune lettere di Contini e tanti saggi che si presentano con paludamenti diversi ma tutti accomunati, almeno così mi sembra – da una vena antiaccademica, anche là dove hanno la maestosa andatura di studi filologici, quasi una sorta di tributo destinato più a Contini e al Pizzuto continiano che a Pizzuto stesso. Pietro scrive un saggio impegnato (che dedica a Gualberto Alvino), “Vox circumsiliens”, uno scritto che non provo nemmeno – tanto sarebbe arduo – a riassumere, il cui assunto di fondo è tutto nell’affermazione iniziale: “Non credo che Antonio Pizzuto promuovesse, di sé, una lettura consacrata al puro rimbombo dei significanti” e prosegue nella decifrazione dei significati e nell’illustrazione della metrica della pagina pizzutiana, contestando anche alcune notazioni che lo scrittore stesso aveva confidato in una famosa intervista raccolta in libro da Paola Peretti per le edizioni Lerici, con il titolo di “Pizzuto parla di Pizzuto” (un volume difficile a trovarsi per le vicissitudini della casa editrice ma assolutamente insostituibile).

Sempre di Pizzuto, ma questa volta come recensione al volume monografico precedente, Pietro scrive sul numero 5/8 della “Taverna” (Inverno 1989 – Inverno 1990), nello stesso fascicolo recensisce “Cuore” di Beppe Salvia, che fu il primo volume, datato 1988, di una collana di prosa e poesia dell’editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti e che ospitò tre anni più tardi l’esordio di Pietro con Altre Visioni; nella recensione egli non nasconde l’ammirazione per il poeta romano, tra i fondatori della rivista Braciall’inizio del decennio che si era allora appena concluso:” e quando leggo quelle sue cose – scrive – ho voglia di buttare tutto quello che ho scritto (…) E sempre, leggendolo, io scopro una Bellezza nuova, che mi sembra una Verità, ma vera, e di nuovo, in una nuova Storia”.

La “Taverna di Auerbach” veniva curata e stampata da una casa editrice di Alatri, Hetea editrice, che aveva delle ambizioni e in quegli anni contò numerose pubblicazioni, qualcuna rara: per esempio, in una collana diretta da Raffaele, “Munuscula”, venne stampato, per iniziativa e con la curatela di Marcello Teodonio, un epistolario di Giuseppe Gioachino Belli che raccontava di una sua convalescenza passata a Veroli, a pochi chilometri da Alatri, nel “paese degli antropofagi”. Ma sempre l’Hetea – e per questo il ricordo in questa sede è pertinente – pubblicò gli atti di un convegno su Tommaso Landolfi (“Landolfi libro per libro”), svoltosi nel dicembre del 1987 a Pico e a Frosinone, nel quale Pietro tenne una relazione sui due libri di poesia di Landolfi, “Viola di Morte” e “Il tradimento”. Si tratta di un contributo notevole che, rivelando tutte le diffidenze di Pietro per il Landolfi narratore ma anche la sua, in certo senso, sorpresa ammirazione per il meno noto Landolfi poeta, spiega molte cose sulla poetica dello stesso Pietro, sulla sua distanza da quel manierismo che sentiva gravare sulla sua poesia, come una sorta di pregiudizio o pericolo da cui intendeva liberarsi.

Ad Alatri, più tardi, nella primavera del 1998, si celebrò un omaggio a Pietro, con la presentazione – cui parteciparono insieme con noi, amici di Alatri, tanti altri amici accorsi da Roma – dei “Canti di scherno e d’amore” di Arnaut Daniel, una traduzione magistrale che – come scrive Paolo Canettieri nel suo ampio saggio introduttivo – “riflette in modo organico e complessivo l’impianto della poesia del miglior fabbro, tutta giocata com’è sulla lingua e sullo stile, in una simbiosi pressoché totale con il testo tradotto”.  Allora già conoscevamo tutti, Pietro per primo, la gravità del male che lo aveva colpito, ci illudevamo però che queste manifestazioni di stima e affetto, questo ragionare pubblico sulla sua poesia, cercandone le chiavi che l’avrebbero conservata oltre il tempo concessogli dal destino, potessero placare una sorta di senso di colpa che provavamo per non poter fare altro – noi tanto meno meritevoli e necessari di lui – che accompagnarlo in quell’ultima disperata traiettoria della sua vita segnalandolo come un maestro al di fuori della cerchia ristretta che tale già lo stimava.

Ancora quel sentimento mosse chi di noi – questa volta a Frosinone – organizzò, nel 2014 a quindici anni dalla morte, un suo ricordo – con contributi critici ma soprattutto con opere musicali composte per l’occasione (quelle di cui scrive   approfonditamente Michele D’Ascenzo) – nel Conservatorio Licinio Refice, un luogo della musica sempre attento – fin dalla costituzione e per volere del suo fondatore – all’intersezione tra le arti e alle sperimentazioni musicali più innovative.

Per quel convegno utilizzammo come immagine di copertina un ritratto di Pietro “senza occhiali” disegnato da un artista di Alatri, Mario Ritarossi, per una cartella che aveva messo insieme, nel 2004, i diversi dattiloscritti testimonianti i progressivi rifacimenti del Carme XI di Orazio, anch’essa pensata ad Alatri e stampata dallo stesso tipografo che era stato editore di “Dismisura” e della “Taverna di Auerbach”.

Come si vede, la tela di rapporti che unisce Pietro ad Alatri, nata per la provvidenziale casualità che aiuta le amicizie a manifestarsi e ci fa incontrare le persone che ci siano davvero indispensabili, è fitta, si è allargata e rafforzata per venti anni, anche a non voler considerare le tante occasioni private, le giornate passate con le nostre famiglie, i momenti memorabili come quando – proprio a conclusione della serata in cui presentammo la traduzione dell’Arnaut – visitammo insieme – pure io per la prima volta – un palazzo storico della nostra città che, chiuso e interdetto da anni, praticamente fu aperto dal proprietario per un atto di riguardo nei suoi confronti.

Non posso ritenere solo frutto di casualità, allora, che stasera sia stata Roberta Alviti a presentare le sue traduzioni inedite di Machado; Roberta, filologa e ispanista, è nata e vive ad Alatri, possiamo perciò considerarla una nuova amica di Pietro, il nodo più recente del suo legame con la città. Penso che questa coincidenza lo avrebbe incuriosito e non gli sarebbe dispiaciuta.

I poeti appartati: Anna Giuba

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Tre poesie

di

Anna Giuba

 

 

Ciclostile

Il vecchio feto rannicchiato

nel cofano rosso di una renault 4,

innescava riflessi condizionati,

compromessi di coscienze

annacquate dal terrore.

Un’iniziativa e un manifesto per Riace

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Si definiscono lavoratori della cultura.
Hanno scritto e firmato un Manifesto e sabato 17 e domenica 18 novembre si troveranno a Riace per vedere, capire e comprendere ciò che sta succedendo.

Manifesto:
La comunità dell’arte in Italia si schiera con Riace, simbolo di un’esperienza concreta di convivenza tra i popoli e di una comprensione, altrettanto concreta, della complessità del tempo che viviamo.

Tutti noi ci chiediamo cosa sia accaduto a quella cultura dell’inclusione e della convivenza che dal secondo dopoguerra per decenni abbiamo costruito tra molte difficoltà e contraddizioni, e con stupore scopriamo che alla fine del secondo decennio del nuovo millennio è diventato importante, anzi necessario, dichiararsi contro il razzismo, contro un’idea di nazione che si concentra sulla difesa dei propri confini fisici e culturali, ma anche per la difesa dei lavoratori e delle volontà delle comunità locali sempre più assoggettate alle regole di un’economia finanziaria globale.

Abbiamo fatto una gran perdita

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di Alberto Cellotto

Hotel La Selce, Monselice

Sabato 27 settembre sera

Cara Sara,

se vorrai rispondere, non chiedermi perché scrivo da un hotel poco distante da casa. A pensarci, tu non hai mai risposto in questi anni, hai solo scritto, parlandomi, e ti cerco ancora proprio per questa ragione. Mi sono messo in viaggio oggi, sono solo e rimarrò via qualche settimana. Ti avevo in mente poco fa, guidando, appena uscito dall’autostrada e con il piede ancora pesante sull’acceleratore, in quell’intervallo in cui il cielo rischiara e acquista profondità. Se è per questo, è già da stamattina che sei con me. Una luce umidiccia finiva su alcuni campi di pannocchie trebbiati (qui hanno già terminato da un pezzo, si vede). Ho abbassato tutti e quattro i finestrini per far arrivare l’odore dei tutoli, ma è stato inutile. Ora è tutto aperto il cielo e l’ottobre sa già colpire nel freddo della sera. Pensavo a quando il granturco è appena spuntato, verso maggio, a come la sua crescita esplosiva coincida per me con il passo dell’estate, sin da quando da piccolo, con una piccola carriola arancione, si spargeva il concime d’urea sulle file di piante ancora molto basse per dar terra e poi con la solcatrice si tracciavano le vie d’acqua che sarebbero servite per l’irrigazione a scorrimento. Se un campo era invece destinato all’irrigazione a pioggia, diventava il teatro di getti violenti, arcobaleni, linee di tubi sempre nuove. Quel che si doveva fare era allungare o accorciare la gittata. Quante volte mi sono nascosto tra le piante del granturco cresciute per aspettare l’arrivo dell’acqua schiumosa, di un topo morto annegato e per osservare come s’interrompeva lo scorrimento per qualche secondo, finché aveva riempito una larga fessura della terra arida. Ci sono ancora delle strade che corrono tra campi esclusi dalla nuova monocoltura del Prosecco. In pochi giorni la crescita del granturco le trasforma in trincee provvisorie. Con lentezza, giorno dopo giorno, le viste e gli orizzonti mutano e nei giorni torridi, se ci passi accanto, l’aria manca: è bloccata ogni circolazione. Poi torna tutto come prima, con la trebbiatura: le trincee ridiventano strade, tutto si livella e si fissa di nuovo. Tra poco proverò a dormire e sarà strana questa prima notte. Io dormo sempre a pancia in su, quasi mai di lato e non riesco proprio a mettermi a pancia sotto perché la schiena si infastidisce a causa della strana conformazione del mio torace. Ci sono dei risvegli che rimangono incompleti, soprattutto in estate. Quando capitano riesco a malapena ad avere coscienza delle finestre aperte e di quello che arriva da lì: passano poche macchine, avverto gli uccelli che saranno presto lungo il corso dell’acqua a bere da una lanca odorosa di pesce. Di solito è proprio a questo punto che mi stritola un dolore lancinante: è come essere al mondo ma richiamato in tempi che affondano in una preistoria. Allora incomincio, sempre nell’incompletezza di un risveglio, a essere presente in tanti tempi e so bene in che cosa si trasformano quei versi d’uccelli che sento arrivare da fuori, con le prime luci: nella visione dei miei antenati lontanissimi filtrati nelle ossa uno a uno. Fa male questo flusso di pensieri che non si placa e che mai dà avvisaglie, né da dove proviene, né su quando potrà finire. Tuttavia procura anche un piacere che non vorrei s’interrompesse quando arriva a solleticarmi. Credo che il piacere abbia a che fare con la materia e con quella membrana attraverso la quale qualcosa dei sogni s’infilerà nella giornata, per qualche ora al mattino soltanto. Però ho scoperto un trucco banale e adesso te lo svelo. Dovesse mai capitarti qualcosa di simile, provalo se il flusso diventa insopportabile: quelle volte che l’orrore supera il piacere riesco nel sonno a trovare l’impulso per alzare l’indice destro e sfiorare le creste iliache, quegli ossi che più sporgono da distesi. Così facendo, questo piacere divenuto orrore evapora all’istante. Non mi capita spesso e capita quasi sempre in estate. Vorrei che mi capitasse domattina su questo letto caldo. Ti ho sognata ieri notte e anche per questo sei nel tragitto di oggi. Ora non ricordo bene, ma so che ho fatto fatica ad arrivare a sera. Per tutto il mattino, mettendo poche cose nella valigia con le rotelle e giocando a carte coi bambini, mi ha preso la nostalgia di poterti salutare e parlare. Nel sogno c’erano molte statue in pietra, alcune senza braccia e ammuffite, stagni, piccole foglie cadute. Adesso, dopo aver scritto a un amico, mi rendo conto che tutta quell’amarezza della prima metà della giornata è lava di un vulcano che si è essiccata in poche ore. Se tu fossi qui ora ci saluteremmo soltanto e ognuno andrebbe per la propria strada. Magari avremmo potuto cenare sui colli. Mi domando che cosa ti piace mangiare adesso o se metti ancora il limone anche dove proprio non ci va. E sono certo che questo accadrebbe dopo un pomeriggio in cui non avrei fatto altro che aspettarti, camminando avanti e indietro la stradina fuori dall’albergo, per riacciuffare una frase che riguarda noi e quella stagione nostra. C’è una foto in una rivista pubblicitaria qui in camera. Ritrae da vicino una vecchia sella di bicicletta, in cuoio e mezza sfondata. In bici accadono le più grandi intuizioni sull’essere vivi, ma io sono ora in viaggio con l’auto.

Martino

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Hotel La Selce, Monselice

Sabato 27 settembre sera tarda

Gentile signora Halima,

sono Martino, il padre della bambina in classe con suo figlio. All’ultima riunione, quando ho riaccompagnato a casa lei e un altro genitore sorpresi da quel temporale che ha allagato mezzo paese, mi sono rimaste impresse alcune sue parole arrivate dopo la timidezza e l’imbarazzo iniziali di trovarsi nella stessa auto. Mi raccontava delle molte trasferte di lavoro di suo marito, della solitudine che non le pesa e delle vostre percezioni di noi. Il tono era distaccato, ma era quello di chi vorrebbe parlare della Storia, di come la percepiamo e come ce la raccontiamo. Con voi intendeva gli abitanti del paese, quelli che vivono lì da molto tempo insomma. (Non le ho detto che non è il mio caso, ma mi sono sentito comunque radunato in quel suo voi.) Ricordo bene il disprezzo con cui si riferiva alle scene che vedete attraverso le vetrate delle pizzerie, soprattutto il sabato o la domenica a cena, alle nostre festicciole. Lei ha ragione, e non perché io creda che sia giusto disprezzare questi momenti delle famiglie fuori casa, in una delle tante pizzerie o ristoranti della sterminata pianura. Il mondo è pieno di questioni mal calate nel reale e questa potrebbe essere una, tuttavia io trovo che lei abbia ragione a notare qualcosa di grottesco in queste scene, perché in quello che lei vede e disprezza leggo l’incapacità di tanti fra noi di entrare in una quotidianità (dica pure una settimanalità, se preferisce) diversa da quella che abbiamo ereditato, di immaginarci capaci di un lavoro utile, di incidere in una qualche polpa, prima di tutto politica. Certo, i miei e suoi coetanei hanno abitudini diverse da quelle dei genitori o dei nonni, ma siamo rimasti prigionieri della loro e della nostra immagine, impoverendola solo di colore, aumentandola di contrasto e archiviando tutto in nuovi improbabili generi di racconto. Con questa foto ci siamo abituati a descriverci. C’è stato poi un momento in cui ha detto che il confine che porta all’odio, a farsi saltare in aria in mezzo a una folla, è un muretto friabile (non ricordo le parole esatte, che non erano queste, ma l’immagine che mi è rimasta è quella dei muretti che si sbriciolano). Quasi per tranquillizzarmi ha subito aggiunto che è qualcosa che non la riguarda, tuttavia ha voluto avvertirmi che l’odio nasce sempre per un particolare di fastidio che si cementa e diventa mastodontico. Non sono d’accordo con lei: per me l’odio nasce come un’indulgenza non richiesta, verso di sé, gli altri o un’idea. Le scrivo da un viaggio appena cominciato. Mi auguro di non averla infastidita con questa lettera, che invierò senza conoscere il numero di casa (il postino non sbaglierà). Poco fa è uscita dalla porta della camera accanto una signora che le assomiglia moltissimo e allora mi è tornato in mente quel breve tragitto in auto sotto la pioggia fredda, il grande cellulare irradiante che teneva in mano e che io vedevo come uno scudo di luce frapposto a sua difesa. Oggi in autostrada pioveva circa come quel giorno. Ricordo che dopo un tuono lei ha sorriso. C’è un ultimo episodio su cui vorrei tornare. Riguarda quella volta in cui vi salutammo mentre eravate a cena nella pizzeria vicino all’ufficio postale e noi siamo passati di là per un asporto. I bambini si sono messi a conversare, io e mia moglie abbiamo scambiato qualche parola con suo marito. Ricorda quello che ci siamo detti? Abbiamo parlato dei mattini che a volte, soprattutto in estate, più che a un inizio, assomigliano alla fine della giornata precedente.
I migliori saluti.

Martino Dossi

* * *

Hotel Italia, Cortona

Sabato 11 ottobre pomeriggio (forse sera)

Caro Lucio,

senti questa: giorni fa a colazione ho fatto due chiacchiere con un signore assai distinto. Lui era molto ben vestito, io invece mi faccio bastare le poche cose che ho messo in valigia. Ricordo però di aver percepito netta la differenza d’abito, a un tratto. Stava leggendo un libro e aveva notato che tiravo gli occhi per capire di che libro si trattasse. Voltandosi di poco mi ha mostrato la copertina, sorriso e spiegato che preferisce di gran lunga la prosa in prima persona, sebbene costringa per forza a un narratore sempre in vita. Alzandosi per prendere un secondo caffè, ha voluto accertarsi che afferrassi bene il fatto che un racconto in prima persona non potrà contemplare la morte della voce narrante, a meno che post mortem non vi sia un avvicendamento tra prima persona singolare e un’altra persona, o che questa prima persona passi a raccontare un’altra storia, sia l’oltrevita o una nuova finzione, con un titolo diverso. Mi pareva che qualcosa in quel pensiero lo turbasse molto, così come ero certo che quel rovello lo ingannasse. Tuttavia, in giornate così colme di sole com’era quella, due uomini che ragionano a colazione in un albergo assomigliano a cavalieri zoppi, forti e immuni quanto basta per non farsi trapassare da qualsiasi pensiero troppo profondo o duraturo. Mi ha comunque colpito il suo discorrere, unito al suo aspetto e ogni tanto ritorna il ricordo delle sue parole come un tarlo. Ci eravamo anche dati appuntamento per un aperitivo nel tardo pomeriggio, ma non si è presentato. I portieri mi hanno poi detto che era partito nel primo pomeriggio.

A presto.

Martino

 

Abbiamo fatto una gran perdita è un libro epistolare pubblicato da Oèdipus Edizioni. Qui il blog dedicato all’opera:

https://abbiamofattounagranperdita.blogspot.com/

Lettere dall’assenza #2

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di Mariasole Ariot

 

Cara J.,

la coltre di nebbia che ha piegato il cielo mi scava le ossa, sono mature per la semina, come quando ci siamo incontrate, e tu danzavi sopra le mie corde. Un canto muto, una sirena.
Abbiamo camminato lungo la scia delle lumache, e tu disegnavi cerchi nell’aria, gettavi i drappi colorati facendoli roteare appena più in alto del collo: ricordi la scena della pista da ballo?

Oggi è un giorno senza parole, cerco di deglutire la poca saliva rimasta, ma non esce che uno sputo, un gorgoglio avanzato a forza. Le mani sono di creta, provo il disgusto delle frasi troncate, di questi arti incandescenti, di questa pasta madre che non fa madre, che non fa niente. A volte, ritornando sugli eventi, ho un’immagine di te, J., che cerca di annotare le ultime note del diario notturno: una spia rossa illuminava la tua attesa, il microchip impiantato nell’utero, questo figlio che non arriva, i preti senza croce, le infermierine del piano interrato.
Mi dicevi: è un campo, ho un deserto nella testa, e io ti innaffiavo senza speranza.

Non c’è che il dolore per quegli attimi scuri, per la peste che ci appestava, per i liquidi scuri iniettati a tradimento.
Eppure, nell’angolo liscio da cui ti scrivo, posso vedere a distanza il tuo occhio puntato nella direzione del vento, la tua Nigeria, la tua macchina corporale ancora tesa nel vuoto.
Raccontami dell’uomo malato, raccontami del sangue, delle particelle inumane della terra che non ti apparteneva, quella in cui ci siamo incontrate e il nero masticava ogni odore, i sette peccati capitali. Raccontami della tua zona, dei territori che hai navigato, della casa, delle tue chiese appese al muro della stanza.

I mancati appuntamenti sono assenze da ricordare, spremute nella memoria dei nostri secoli minori, delle parti piccole, delle macerie. Io sono il gambo secco della tua pelle, l’inflorescenza immatura, tu sei la donna d’ambra, l’ugola nera.

Ho un gufo che preme al centro del cranio, è un ricordo notturno, un’esclamazione finita dove l’intero mondo carpiva i parchi, o le foreste, o i canili dell’ombra.
Le delusioni sono contemplate insieme, non esiste separazione. Il verde che ti ho regalato quando ci siamo salutate è una città. Dimmi della tua, raccontami cosa ne hai fatto: se dici prato e il cielo cade, se decanta un assoluto.

Come ti penso, quanto ti prego, quanto mi cade dalle mani, quanto dolore, quanto il tuo viso, come il tuo corpo, quanto mi manca il passaggio della luna, quanta cancrena, quanto rispondi. Mi metto nella posizione degli appena nati, i cuccioli che hai nutrito prima degli altri, con la bocca spalancata attendo una risposta. Scatto con il diaframma un taglio di luce – e tu sei lì, affacciata ancora alla finestra umida della febbre.

Mi hai detto: attendi, ho risposto che ai risultati non c’è vigilanza, che il nudo della festa che abbiamo conosciuto non ha risposta: ha solo questa donna inginocchiata, come siamo tutti a terra a mangiare i resti, le briciole cadute dal tavolo.

Tu parlami del tempo, della luna, parlami della terra.

Tua, sempre, S.

La sfacciata ( bagatella della fortuna)

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di Giorgio Mascitelli

Talvolta Guido della Veloira indugia davanti alle agenzie per le scommesse sulle partite e sulle corse o davanti alle ricevitorie del Lotto e gli prende in cuore il pizzicorio di tentare la fortuna. E’ normale che sia così, a tutti capita almeno una volta di giocare o di voler giocare e, se non diventa un vizio, non c’è nulla di male.

Ma poi una voce interiore, tipo voce della coscienza, lo esorta o addirittura lo redarguisce a non sprecare così le proprie risorse guadagnate con il sudore della fronte, quand’anche si trattasse solo di due o tre euri.  La voce della coscienza o chi per essa prosegue ricordandogli allora che ogni cammino di successo è frutto di saggia prudenza, osservazione razionale dei fenomeni e soprattutto di un’accorta programmazione, attività nelle quali la fortuna non ha né deve avere alcun ruolo. E se non fosse così, dovrebbe esserlo perché la fortuna non può giocare un ruolo simbolico  in società in perenne trasformazione, piene di occasioni,  nelle quali si ottiene successo per via dei propri indiscutibili oggettivi meriti; la fortuna può diventare imperatrice del mondo  solo là dove si nasce in una posizione e in quella si resta. E se la realtà oppone resistenza a questo ideale, non bisogna rassegnarsi a credere alla fortuna, ma solo alla fuga dei cervelli.

Poi nelle questione della fortuna vi è sempre da scontare l’improvvidenza umana: tutti tra i colleghi di Guido della Veloira conoscono e si tramandano la storia di Landolfo Ruffolo che risale addirittura ai tempi del Totocalcio.  A quel tempo spesso gruppi di amici o di colleghi si mettevano insieme per giocare dei sistemi al Totacalcio ( delle schedine speciali che aumentavano considerevolmente le probabilità di vincita) tanto più costosi quanto più efficaci, in modo di dividere il peso economico dell’impresa; così anche Landolfo e cinque altri colleghi erano soliti trovarsi in un bar il venerdì pomeriggio all’uscita del lavoro e lì chi prendeva il crodino, chi il bianchino, chi il grappino ( non era stata ancora istituita la convenzione dell’happy hour) si discuteva animatamente sui pronostici delle partire per circa mezz’ora e, raggiunta l’unanimità o la maggioranza su tutte le partite, si mandava qualcuno a giocare la schedina. Quel maledetto venerdì fu incaricato Landolfo di compilare la schedina, ma egli non convinto del pronostico scelto per un Sambenedettese-Cesena  all’ultimo sua sponte senza consultare gli altri cambiò la previsione.  La domenica risultò che la schedina che avrebbe dovuto essere giocata da Landolfo aveva fatto tredici e Landolfo si negò alle telefonate dei colleghi e non si presentò al lavoro all’indomani. I colleghi di Landolfo dapprincipio sospettarono una fuga per non dividere i soldi della vincita, ma quando scoprirono il vero, beh sarebbe stato meglio per Landolfo che avesse effettivamente tentato di scappare con il premio.

La storia di Landolfo è a suo modo educativa perché ci istruisce magistralmente sul fatto che chi crede nella fortuna crede anche nell’iniziativa umana improvvisata e pertanto nei suoi errori. Oggi viviamo in un’epoca in cui il caso è stato virtualmente abolito dall’algoritmo e le scelte sono sempre prese con il calcolo razionale;  così giocare d’azzardo più che un disdicevole vizio è diventato un osceno anacronismo. La fortuna non è più imperatrice del mondo e, anche se lo fosse, nessuno se ne accorgerebbe perché hanno eliminato le insegne del suo potere come se si fosse trattato delle statue di Lenin in un paese desovietizzato.  Nessuno, nessuno che si rispetti, può citare impunemente la fortuna, affermare pubblicamente di affidarsi alla fortuna costituirebbe uno scandalo d’una gravità impensata nel nostro mondo o perlomeno nelle sue articolazioni più ufficiali.  E così, per fortuna, la fortuna diventa sfacciata nel senso etimologico di ‘priva di faccia’ nel nostro tempo semplicemente perché nessuno è in grado riconoscere il suo volto e, anche se lo riconoscesse, non potrebbe più raccontarlo.

Non che Guido della Veloira pensi a tutte queste cose, semplicemente non entra nell’agenzia di scommesse trattenuto da quella voce interiore, che è un misto di raccomandazioni avite e avanzi dell’etica del lavoro.No, Guido della Veloira non entra in quel luogo di perdizione. E’ oggettivamente meglio di no, giacché le persone serie al giorno d’oggi agiscono altrimenti in tutti i paesi più progrediti. Per esempio affidano i loro risparmi a fondi d’investimento che navigano con perspicacia i mari dei mercati finanziari con le più moderne bussole algoritmiche che mente umana abbia mai escogitato.

( l’immagine è Art Art Art D10  di Natale Galli)

Più dolore, più violenza in questa città

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di Carola Susani

Non so se ho tenuto bene il conto. Il Baobab ha subito a mia memoria 22 sgomberi. Perché allora esiste ancora? Perché dopo il primo sgombero – quello della struttura di via Cupa – è diventato un’altra cosa, una organizzazione agile e leggera che dà aiuto, l’aiuto base, minimo, una tenda, sacco a pelo, coperte, abiti, cibo, relazione, a chi non ha dove andare, gente che arriva, perché la gente arriva ancora, gente ricacciata indietro dai paesi europei, gente che non ha più la tutela umanitaria e così via. Volontari, sostenuti nel tempo dalla solidarietà diffusa, dalle persone comuni, dalle pizzerie, ai supermercati, sono riusciti in questi anni a dare pasti ogni giorno, a proporre visite guidate, corsi, aiuto a stendere curriculum, ma sono riusciti anche a giocare a calcio, a correre maratone, ad ascoltare musica insieme. Moltissimi passati dal Baobab hanno trovato la loro strada, in Italia o all’estero, è un posto dove si sta per un tempo limitato, un posto di transito. Chi ci passa dirà magari: ma è spaventoso, gente senza un tetto, nelle tende, esposta alle piogge torrenziali, e poi al freddo. È vero, non è un posto dove desidereresti vivere. Ma le istituzioni che dovrebbero trovare posti migliori, tetti e possibilità, non lo fanno, non l’hanno fatto finora e sempre meno vogliono farlo. Il Baobab permette di trovare una socialità, non lascia le persone preda inerme dei pericoli della città, vittima dei delinquenti, senza speranza, con l’unica strada possibile per sfangare la giornata la delinquenza; permette persino di fare piani, visto che almeno non devi pensare ogni giorno a dove andrai a dormire. Avere la possibilità di fare piani, è la condizione per uscire dalla povertà, senza non puoi. Il Baobab è stato sgomberato. Come sempre le tende e gli oggetti del campo sono stati distrutti. Ma allora perché ne parlo al presente? Perché il Baobab è inevitabile, finché ci sarà gente che ha bisogno, ci sarà grazie a Dio gente che aiuta chi ha bisogno. Nessuno riuscirà a farci smettere; ormai abbiamo esperienza. Il Baobab aiuta a contenere il disagio, evita la violenza, rende più sicura la città. Se il Baobab non ci fosse, il dolore e la violenza sarebbero maggiori. Ce n’è già tanto, non si combatte rendendolo più atroce, ma risolvendo i problemi delle persone: il tetto, la socialità, il lavoro, la cultura, la possibilità di fare piani, la speranza. Chi sgombera il Baobab vuole evidentemente più dolore e più violenza in questa città.