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Home Blog Pagina 148

Brasilia: il doppio sogno di Franz Krauspenhaar (no spoiler)

Di
daniele ventre
-
28 Febbraio 2018
0

di Domenico Lombardini

Accingendomi a scrivere alcune ipotesi di lavoro intorno all’ultimo lavoro di Franz Krauspenhaar (Brasilia, Castelvecchi) emerge evidente la natura proteiforme dell’opera. Romanzo distopico, è stato detto; scrittura in cui si risentono, chiare, le letture “preferite” del nostro: Kafka, Lovecraft, Houellebecq, tra gli altri. Tutto vero ma parziale. C’è di più. Il protagonista, Ernesto, chiamato dal padre in Brasile per l’ultimo saluto (al padre rimane poco da vivere), apprende una verità terribile sul conto del genitore, un segreto che getta retrospettivamente un’ombra malefica su tutta la sua vita, perché sui figli cadrà sempre la colpa dei padri. Ma qual è la colpa del padre, quale il suo terribile segreto?

Si parla, nel romanzo, di un’organizzazione occulta, un Grande Oriente dedito al traviamento delle masse attraverso l’uso di messaggi subliminali. Si parla di esperimenti, ma poco si dice sulla loro intima natura, gli effetti, la verità ultima. A differenza dei romanzi distopici, tuttavia, in cui il protagonista si scopre catapultato e immerso in un mondo altro e alieno ma ben delineato e definito nella narrazione, in Brasilia non si ha mai reale contezza se ciò che l’autore sta descrivendo sia cosa reale o onirica, esperienza o figurazione, fatto o reminiscenza, e il mondo che fa da sfondo al racconto non è mai a fuoco ma piuttosto immerso in una spessa caligine. Qui è la natura proteiforme, cangiante dell’opera: la realtà dei personaggi è continuamente decentrata, infondata, sfumata, sempre a cavallo tra la realtà e qualcosa che sta di là da questa, che non è finzione ma piuttosto sogno, mimesi di una realtà di cui si intuisce la natura ma della quale non si ha vera esperienza ma, appunto, intuizione.

Si sta quindi in uno stato di sospensione narrativa: il racconto prosegue, la prosa continua, ma non se ne capisce la direzione, l’approdo. Anche il tratteggio caratteriale ed emotivo dei personaggi appare talvolta scontornato, talaltra troppo netto. L’amore di Ernesto per la madre morta suicida durante la sua infanzia appare a un tempo sincero e naïf, l’attrazione sessuale per una giovane donna, Denise, ricalca gli stilemi forse un po’ triti della classica infatuazione maschile per un bel corpo, il rapporto col padre improntato alla abituale, difficile e nevrotica relazione edipica. Eppure, nonostante quel tanto di abbozzato e digrossato, il racconto mantiene imperturbabile la sua tenuta narrativa: tout se tient. Questo è il piccolo miracolo di Brasilia.

La storia è sempre sul punto di rivelare finalmente qualcosa di definitivo, ma ciò non accade mai, neppure alla fine. È un sogno che non si scioglie mai nella veglia e una veglia che non cede definitivamente al sogno. Si sta tra i due mondi in uno stato di continua esitazione, non optando definitivamente né per uno né per l’altro. È come se l’autore volesse suggerirci che nulla ci fonda né che possiamo trovare requie al dolore in un accesso di coscienza ipertrofica o, al contrario, di sogno o deliquio. Forse proprio questo vuole suggerirci Franz Krauspenhaar: come in Doppio sogno di Arthur Schnitzler, ma meglio in Eyes wide shut di Stanley Kubrick, il defatigante sforzo di razionalizzare o, al contrario, di perdersi definitivamente nel sogno non approda a nulla, piuttosto siamo chiamati a farci abitatori mai stanziali di entrambi i mondi, perché, come scrisse Edgar Allan Poe, “All that we see or seem / Is but a dream within a dream”.

Elegia

Di
davide orecchio
-
27 Febbraio 2018
0

di Davide Franchetto

La vide affacciarsi in cortile dalla porta della cucina. Aveva già addosso il cappotto e l’ombrello in mano, le scarpe buone ai piedi, quelle nere con un po’ di tacco che la facevano brontolare per le caviglie gonfie e rimpiangere le ciabatte e la cucina. Lui tirò un ultimo calcio al pallone che rimbalzò contro la rete di cinta e ricadde nella gigantesca pozzanghera che da poche ore s’era allargata dal centro del cortile fino ai suoi confini. Dal pollaio le anatre spingevano il becco tra le maglie delle gabbie e starnazzavano di desiderio.

“Ti prenderai un accidente!” Gli urlò.

Succedeva che la nonna lo chiamasse ad accompagnarla nelle sere in cui sua madre restava assopita sul divano e il nonno brillo davanti al televisore. Non erano molte le occasioni per le quali si prendesse un pensiero dopo che s’era fatto buio: passare la notte accanto a un malato, portare le condoglianze alla famiglia di un defunto, una messa di trigesima.

“Lavati le mani, guarda come sei sporco”. Gli disse.

S’infilò la giacca e fuori casa lei lo prese sottobraccio per condividere l’ombrello. Camminarono lungo le vie scure e gialle della luce che dai lampioni sgocciolava sull’asfalto. Più giù, alle cascine, era buio e a fare strada era la memoria, era il fosso pieno d’acqua che s’affacciava sullo sterrato, sbordava sulla ghiaia dei vialetti e gonfiava il legno dei portoni.

Dentro non c’era più posto e uno sciame si stringeva sull’uscio, contro i muri, tutt’intorno al perimetro del cortile: si scontravano le stecche degli ombrelli, si sussurravano scuse, uno, distratto, aveva scalciato un vaso di gerani lasciato a prendere pioggia: ora i petali viola spuntavano come vecchie promesse tra i cocci e le zolle. Lui e la nonna avevano conquistato una spanna di muro sul fondo, al riparo sotto uno spiovente di coppi centenari e ora lei lo teneva stretto a sé, lo cingeva al petto stringendolo contro il suo. Lui riconosceva l’odore di muffa del cappotto, affondava la faccia nella manica coprendosi fin sopra il naso. Quando erano arrivati qualcuno s’era girato a guardarli e nessuno per salutare. Una donna gli era venuta incontro, una vecchia alta e dal passo deciso con certi occhi grifagni che avevano artigliato sua nonna.

“Sei matta!” Le aveva detto. E per quanto sottovoce dopo tutti avevano bisbigliato qualcosa.

Lei non aveva risposto. Lui aveva guardato la donna e morso la manica del cappotto.

Cominciò la preghiera.

“Metti bene le mani, come ti hanno insegnato”. Lui giunse le mani all’altezza del petto e chiuse gli occhi godendosi il tepore della stretta di lei. Li riaprì subito immaginandosi che tutti lo stessero guardando, ma le rare occhiate non erano per lui, e chi le lanciava inciampava nelle orazioni per spettegolare con la vicina che annuiva e non guardava.

“Credo!” Non conosceva quella preghiera, faceva eco alle beghine che gracchiavano per prime e comandavano tutti gli altri. Lo rassicurava che anche la nonna la borbottasse, come un ricordo che si dice ma non si è sicuri di avere.

“Padre!” Si fecero più forti le voci di tutti e la sua con le altre. Scandiva bene le lodi e si guardava intorno. Sentì l’abbaiare dei cani e lo schiocco delle catene sul cemento arrivare dal lato opposto della cascina; vide sbucare in cortile un bastardino basso e grasso, un pezzato dalle zampe curve che prese ad annusare i piedi dei fedeli uno ad uno. Quando fu il suo turno disobbedì e allungò una mano verso il muso, quello l’annusò accompagnando un lento scodinzolio, lui sorrise sentendosi inumidire le dita.

“Angela”. Alzò la testa seguendo una voce poco più in alto, di fianco a sua nonna e vicina al suo orecchio. Continuando a sussurrare l’Ave Maria lei voltò lo sguardo verso la donna.

“Angela”, ripeté l’altra. Aveva un tono dolce e più che chiamare pareva stupirsi per qualcosa che le fosse apparso lì in mezzo al cortile: le ali stese sul cappotto bagnato.

“Teresa”

“Ma perché sei venuta?”

“A pregare”. Rispose Angela.

Teresa rimase al loro fianco a rimandare indietro le occhiatacce che ancora osavano. Lui appoggiò la testa al petto della nonna, continuò ad andare dietro alle preghiere, sbadigliò, seguì con lo sguardo il cane che dopo aver annusato tutti i presenti si era affacciato sulla porta di casa, era stato scacciato ed era tornato nel cortile ad annusare la terra e i ciuffi d’erba che sbocciavano dalle crepe del calcestruzzo. A torturare i vermi che la pioggia chiamava fuori.

“Amen”.

La folla si distese, si riaprirono gli ombrelli, ci furono nuovi saluti e i crocchi delle beghine e le voci ora alte degli uomini. In molti si misero in coda per le condoglianze e sua nonna e lui dietro tutti gli altri.

“Angela, vai a casa”. La supplicò Teresa.

Ma lei niente, un passo dietro il nipote e la mano sulla sua spalla. Avvicinandosi all’ingresso si cominciava a vedere il buio dentro e si sentivano i sospiri che lo attraversavano.

“Angela, andiamo a casa”.

Lui si fermò, si voltò verso la nonna.

“Torniamo a casa”. Le disse e cercò di sembrare annoiato, di non mostrare paura. Lei gli diede un’altra carezza.

“Salutiamo e poi torniamo a casa”

“Non vorrai mica”, sbottò Teresa.

“E’ grande”.

Superarono la soglia e fecero due passi in corridoio. C’erano persone che andavano e venivano da una stanza sul fondo, e qualcuno che entrava in un’altra stanza lì vicino. Si sentivano le giaculatorie sommesse di chi credeva di non aver pregato abbastanza, e gli uomini dalle donne si distinguevano dall’odore: La calce, la terra e la canfora.

Si avvicinò a loro una donna, quella di prima o un’altra con la stessa faccia. La nonna lo strinse più forte sulle spalle e lo spostò di due passi avanti, che quella si piantasse lì e non si permettesse oltre.

“Non credere eh!” Gracchiò la donna, e le sfuggì un gesto col braccio, uno schiaffo all’aria nera. L’indice indicava la stanza sul fondo. “Con tuo nipote. Senza cognizione!” E di nuovo sottovoce abbastanza da farsi sentire.

“Basta!” Saltò su Teresa.

“Non la faccio mica andare”

“Solo un momento”, disse Angela “E andiamo via”.

Lui si girò verso la nonna. La voce non era la solita ma di preghiera. Vera, non come prima. La donna imprecò, sollevò lo sguardo al soffitto o al cielo che erano ormai la stessa notte. A quel dio che aveva fatto buio.

“Vieni”. Disse Angela passando avanti.

Aspettarono che una coppia finisse l’ultima Ave Maria e consegnasse un bacio dalla punta delle dita sulla sponda della bara. Angela chinò il viso accanto a quello del nipote.

“Pensa che sta dormendo”. Gli disse all’orecchio.

Teresa entrò per prima, si fece il segno della croce, farfugliò la preghiera e come gli altri consegnò il bacio. Poi tornò sulla porta e rimase di guardia. La camera era illuminata da due grandi candele che spiccavano dai candelabri sistemati ai lati della bara, lì accanto una sedia per sostenere la notte di veglia. La luce delle fiammelle svelava la tinta porpora delle tende, sbuffava contro la vecchia credenza grande una parete. Dalle vetrine sbirciavano le statuette in gesso: una Madonna, gli angeli paffuti, un vecchio abbracciato a una damigiana, la fotografia incorniciata di una coppia d’anziani, quella di due giovani in bianco e nero.

“Non fa paura, sta dormendo”. Ripeté Angela.

Lui strusciò una caviglia contro l’altra, serrò cosce e ginocchia e s’ingobbì un poco per trattenere una scoreggia. Si fece coraggio, pensò agli amici: -Ho visto un morto. Dal vero. – Avrebbe raccontato.

Angela s’accostò alla bara, appoggiò entrambe le mani sulla sponda come per tenersi su: le caviglie gonfie, le scarpe.

“Vuoi vedere?” Gli chiese.

S’avvicinò alla nonna. A passi pesanti e attenti, sulla graniglia che i passi di tutti gli altri prima avevano reso scivolosa. Un paciocco di terra e pioggia.

Un morto vero.

Angela gli strinse la mano.

“Non fa mica paura”.

Lui si sporse oltre il bordo della cassa e guardò: era sdraiato un uomo in giacca e cravatta. Quasi calvo come tutti i vecchi, con la faccia di una cera grigiastra e le rughe stirate che lo facevano dieci anni più giovane di quanto fosse stato. Gli ricordava certi zii al Barbera conosciuti di scorcio alle cerimonie di famiglia. Uomini sottili come steli e sempre in silenzio, che ci fosse da far festa o stare abbottonati.

Non gli faceva paura.

Angela diede una carezza alla salma e si sedette sulla sedia.

“Diciamone ancora una”. Disse, e attaccò con un Ave Maria quando lui aveva già cominciato con un Padre.

Poi Angela rimase seduta a guardarsi le mani grosse, lentigginose, le unghie grigie. Teresa si scostò dalla soglia e le andò vicino.

“Andiamo Angela, dai”

“Un minuto”

“Ti guardano già male”

“Anche prima”.

Teresa rimase in piedi, in silenzio per dovere e rigida d’impazienza.

“Non ti fa nemmeno più piangere”. Disse.

“Gli somiglia”

“Chi?” Chiese Teresa.

Angela sollevò una mano verso il nipote.

“Shhht”. La riprese Teresa come prima coi pettegoli.

Lui stava ancora osservando il morto, fiero di non avere paura, quando aveva colto quel gesto con la mano: dal grembo a lui. E più d’averla vista l’aveva sentita. E Teresa che l’aveva zittita allo stesso modo di sua nonna quando lui si permetteva: col sibilo tra i denti e lo sguardo che minacciava se l’avessi fatta vergognare ancora.

“Andiamo su”, Teresa si chinò su Angela, allungò le braccia come volesse sollevarla.

“E’ abbastanza”. Disse.

Lui spiò sua nonna: aveva mezza faccia tirata da una smorfia, l’altra metà nascosta dal palmo della mano.

“L’ha fatto ancora una volta”. La sentì piangere.

Gli prese di nuovo il mal di pancia, di nuovo dovette serrare le gambe per paura di farsela addosso. A chi somigliava? A quella faccia lucida, gelida di sicuro, che per farla sembrare meno morta l’avevano fatta di cera? Angela si alzò dalla sedia, poggiò ancora la mano sul bordo della cassa ma non ci furono più preghiere e nemmeno un bacio. Guardò la salma e disse qualcosa: tre parole, non di più, che nessuno riuscì a sentire. Gli si avvicinò e lo prese per mano. Lui continuava ad osservare il vecchio: quel naso un po’ a becco, le orecchie piccole, le labbra, pallide ora, e sottili, le mani in pace sul ventre ma con le dita d’ossa storte da anni di vanga o piccone. Il vestito buono per tutte le occasioni di un paio di misure più largo. Era suo nonno o suo padre, o uno zio, un cugino dimenticato. Era tutte le generazioni di uomini ingobbiti sulla terra di Fruttuaria. Era lui. Teresa si affacciò sull’uscio e guardò in corridoio. Non c’erano altri ad aspettare. Si voltò ancora una volta verso la bara, si segnò e fece strada verso l’uscita. Angela dovette strattonarlo per portarlo via. Dalla stanza a margine del corridoio si affacciarono due cornacchie, una voce di donna da dentro sbraitò: “Sciò, sciò!”. Gli ultimi arrivati a portare le condoglianze si scostarono di un poco al loro passaggio.

In cortile i fedeli si accomiatavano, scuotevano il capo fingendo stupore per quella morte inattesa, chiedevano a dio pace per l’estinto e l’eternità che gli toccava davanti e quaggiù per gli anni, sempre pochi avrebbero giurato, che restavano loro. Si davano la buonanotte. Aveva smesso di piovere. Teresa si fermò accanto al muro sul fondo, fece per dire qualcosa, sbuffò, sollevò una mano e diede una carezza sulla guancia di Angela. Lui sentì il tocco della mano di Teresa nella mano di sua nonna che piano s’apriva e lo liberava. Fece due passi indietro e guardò verso la casa: s’era accesa una luce dietro le tende della finestra al piano di sopra, oltre la porta ancora aperta sul cortile e in fondo al corridoio lo tentavano i fuochi fatui delle candele. Si accorse di qualcosa che puntava contro la sua caviglia, abbassò gli occhi e vide il cane che lo annusava attento come se tra le pieghe dei suoi pantaloni potesse nascondersi chissà quale tesoro. Il cane sollevò il muso e scodinzolò. Come prima lui allungò la mano per sentire il naso freddo contro le nocche, poi batté i palmi sulle cosce e il cane si mise su due zampe. La coda a mulinello. Lui fece un salto all’indietro e lo chiamò di nuovo battendo le mani e il cane saltò in avanti e abbaiò.

“Shhhhtt!” Fece lui preoccupato ma lo richiamò a sé e presero a rincorrersi e a fermarsi di colpo, una carezza una grattata sotto il collo, quando qualcuno gli passava accanto. Guardò verso sua nonna che rimaneva accanto a Teresa: le parole che forse si dicevano, i gesti lenti che le accompagnavano. Sembravano due ragazze goffe e grasse cacciate dalla festa. O due streghe. Corse fino al cancello e si fermò, il cane lo seguì. Lo chiamò ancora e insieme superarono il vialetto d’ingresso e si fermarono a margine dello sterrato. Era buio da non vedersi i piedi un metro più in basso, la via un pantano, il fosso che ruggiva, minacciava di disastrare i campi. Il cane puntò il naso verso la notte, le orecchie dritte, il corpo teso in un’eccitazione tutta diversa da quella del gioco.

“Che c’è? Che hai visto?”

E il cane già s’anneriva verso la boscaglia.

“Vieni qui, torna qui!” Voleva convincerlo e non si permetteva di gridare.

“Vieni qui!”

Lo rincorse nel prato e a ogni passo si voltava verso la cascina.

“Torna qui”. Piagnucolava e si spingeva verso gli bosco e il buio dove faceva più spavento.

“Ehi quiiiii!“ E batteva le mani sulle ginocchia.

Si rannicchiò. Le mani che reggevano la testa, coprivano le orecchie.

“Vieni qui”. Pregava convinto adesso.

Sentì un abbaio, alzò il capo, scorse una sagoma, chiazze di pelo bianco, un muso, uno scodinzolio venirgli incontro.

“Qui, qui”. Quando il cane gli fu vicino gli accarezzò la testa, la schiena, si impiastrò le mani di pioggia fango e foglie. Il cane ansava, la lingua pendeva da un lato, sollevò le zampe si appoggiò alle sue ginocchia e gli leccò la faccia.

“Bravo, stai bravo”, gli disse ridendo e intanto lo stringeva a sé con entrambe le braccia.

“Non so nemmeno come ti chiami”.

Il cane smise di colpo di leccarlo, voltò il muso e puntò di nuovo verso il sottobosco. Lui lo strinse più forte.

“Che c’è? Cosa vedi? Stai qui eh. Stai qui”.

Ma intanto fissava verso lo stesso punto dove il buio avanzava avvolgendo i fusti gobbi dei castagni: i rami scheletrici sulle cime e quelli ancora vigorosi più in basso; copriva lo strepito degli insetti e il gorgogliare sazio della terra. Guardò verso la cascina: due sagome, di donne certo, erano ferme sul vialetto. Poi guardò di nuovo verso il buio e gli sembrò più vicino.

“Andiamo”. Disse.

A prescindere dai numeri – note a margine della violenza

Di
mariasole ariot
-
26 Febbraio 2018
4

di Mariasole Ariot

In de Jouvenel si legge: “un uomo si sente più uomo quando riesce a imporre se stesso e a fare degli altri strumenti della sua volontà”, cosa che gli procura un “piacere senza confronti”.

L’8 gennaio 2018, a 40 anni di distanza dall’uccisione di tre militanti di Fronte della Gioventù, Casa Pound organizza una manifestazione a Roma. Lo striscione aperto, Onore ai camerati caduti. Sfilano lungo le vie in silenzio rigoroso, assoluto, il silenzio che serve a non far parlare troppo di sé ma abbastanza da arrivare negli occhi e nelle bocche di chi vede. Saluti romani, teste dritte, petti impettiti. Il corteo si ferma e si dichiara PRESENTE.

In quell’occasione, in molti sottolineano l’esasperazione delle cifre: la foto del corteo passa di mano in mano, di bocca in bocca, vorticando tra chi si dice preoccupato e chi viveziona la realtà per risalire alla “vera verità” della grandezza del corteo, una verità numerica.

Io dico: a prescindere dai numeri.

A prescindere dalla possibilità di una foto ritoccata: conta che sia stato quel che è stato – che il violento abbia spazio, trovi territorio, confini per sconfinare.

E nel silenzio, in questo cortocircuito di silenzio, la violenza – detta e agita – prolifera.

Non abbiamo voluto vedere il troppo che già c’era, ma il nostro compito è di vedere prima: si diceva in fondo dicono solo al lupo al lupo.

Ma il lupo c’è, morde anche quando ulula.

Nel giorno immediatamente successivo alla morte di Pamela Mastropietro, in tv comincia lo sciacallaggio emotivo: gli intervistati non perdono l’occasione del pretesto per ricordare che quanto è accaduto era prevedibile. Prevedibile perché la presunta mano che ha fatto a pezzi il corpo non è una mano qualunque, nemmeno quella di un folle criminale, è una mano che sulla mano porta mani di altri, degli altri che un certo estremismo vuole ridurre a cenere.

Le parole di uno psichiatra molto presente nei media, Alessandro Meluzzi:

“questa ragazza non era un’eroinomane cronica […] , era una ragazza con delle fragilità, con dei comportamenti tossicofilici […] e che per una drammatica circostanza della sorte, incontra quanto di più mostruoso oggi stia calpestando il suolo italiano.

Nessuno poteva immaginare che sulla sua strada non trovasse un normale spacciatore di eroina ma trovasse una situazione di mostruosa ritualità – perché di questo si tratta – che purtroppo popola oggi il mondo della mafia nigeriana che sta progressivamente controllando il meracato degli stupefacenti in Italia. Rivolgerei anche un appello anche a coloro che oggi si ritrovano nella drammatica situazione di dipendere dal mercato: sappiate che il mercato a cui vi rivolgete è un mercato che potrebbe offrivi oltre alla droga , che è un mostro, un mostro ancora più terribile della droga“.

Non stiamo tornando indietro: stiamo andando avanti malissimo, velocizzati da quel che viene detto e da quello che non viene detto : il problema più rilevante.

Non si parla di fascismo, non si parla di razzismo, non si parla di violenza, di odio razziale, di xenofobia. Quando lo si fa, la parola è in sordina.

E il popolo va mantenuto in una condizione di sordità, come andasse scaraventato fuori dalla storia, tenuto ai margini, ammaestrato da chi racconta narrazioni che pacifichino l’esistenza.

“Estrema fonte di potere è tutti contro uno, estrema forma di violenza è uno contro tutti. E quest’ultima non è mai possibile senza strumenti” – scriveva la Arendt.

Ma non stanno forse dando i media, le parole che scorrono nelle testate dei giornali, questi stessi strumenti di cui la violenza ha bisogno? Non hanno forse dato i media quegli strumenti di cui Traini aveva bisogno?

Se la violenza compare “dove il potere è scosso”, significa che siamo in una situazione in cui il potere è muto ma per sottrazione, un potere muto e sordo, che cede di fronte al reale. Esiste un potere che si scuote e che scuote, che omette non per proteggere ma per non creare allarmismo.

L’allarme invece va detto, va urlato.

Noi abbiamo il dovere di allarmare, il dovere di dire ciò che non si vuole dire, di aprire le maglie della storia e infilarci la testa, il corpo, mettere le mani dove non si vorrebbe venissero affondate. Abbiamo il dovere di dire, di dichiarare, di non sottrarci, di non fare passi indietro: abbiamo il dovere di avanzare in direzione contraria, denunciare il denunciabile, estrarre le parole che non vengono dette, farlo non solo nella dimensione dell’anti, ma nel respiro dell’adesso, del cosa fare, del possibile. A prescindere dai numeri, a prescindere dalla quantità.

Interférences # 16 / Jean-Patrice Courtois: da “Imballaggi”

Di
andrea inglese
-
26 Febbraio 2018
0

[Dal sito alfabeta2,  rubrica Interférences : interventi di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture.]

Traduzione di Gabriele Stera

Nota di Andrea Inglese

 

 

Ogni sorta di cose fanno le cose che arrivano a una sorta d’esistenza. L’infinito si muove per l’opaco centrale, dove gli adulti, appena lo sono, e i bambini per primi si tuffano tutti vestiti formando insieme il menù del giorno. Vivono al centro d’innumerevoli dormizioni di firme accumulate senza repertorio che valga.

Continua

Per Giulia Niccolai e per Tonino Taiuti: due pezzi di teatro

Di
daniele ventre
-
25 Febbraio 2018
2

di Eugenio Lucrezi

Teatro di scena, come quello de “Il fiato delle branchie”, monologo chiestomi da Tonino Taiuti per “Verso il mare”, vertiginosa prova d’artista da lui stesso diretta e interpretata che ha esordito lo scorso ottobre a Caserta, in una produzione del Teatro Civico 14. Nello spettacolo il nostro suona, rumoreggia, danza, dipinge, canta e recita versi e pezzi di teatro di Shakespeare e Dylan Thomas, di Francesco Cangiullo e Achille Campanile, di Igor Esposito e del sottoscritto. Taiuti, attore premiatissimo che tuttavia non vediamo sulle scene quanto vorremmo, è un campione del teatro napoletano più interessante, quello che si tiene audacemente in bilico tra tradizione e avanguardia.

Teatro della mente cosmica, come quello dello ”Sgambetto del lama”, che è resoconto di una narrazione divertita sì, ma serissima, resa da Giulia Niccolai dopo che è intervenuta ferita e acciaccata per una caduta accidentale, ma non troppo, all’ultima edizione milanese della rassegna “Tu se sai dire dillo”, organizzata da Biagio Cepollaro in onore di Giuliano Mesa. La poeta, che è monaca buddista, ha raccontato che il suo Lama si diverte, sì, a farle dei tiri mancini quando ritiene, il più delle volte imperscrutabilmente, che se lo meriti: ma che tutte le volte, benevolmente, la salva dalle peggiori conseguenze.

Niccolai e Taiuti sono due cascatori sicuri: ciascuno sulla propria, incertissima, scena.

Il fiato delle branchie

Io so’ caduto a mare e me so’ fatt’…
pesce, pe’ non murì.
Non mi ricordo, ad essere sincero,
si m’hann’ spinto, si so’ scivolato…
forse sono inciampato, o forse, invece,
mi sono – dio non voglia! – suicidato.
Ad ogni modo, è stato quel che è stato:
il risultato è che mi son trovato
nel pelago profondo, consegnato
ad una tomba oscura, separato
dall’aria trasparente che respirano
i miei polmoni da quando sono nato.
In quei momenti gelidi, annaspando,
non ho avuto la calma di pensare,
di ripercorrere le tappe evolutive
che in un battibaleno hanno portato
il pesce che già fui, e poi l’anfibio,
e il mammifero acquatico che a fatica,
ma in tempi – a dire il breve – brevi assai,
riuscì alla fine a conquistare il suolo;
… tuttavia conservando, com’è noto,
la potestà di respirare in acqua
per tutto il tempo della gestazione:
periodo decisivo, lo sappiamo,
ai fini della crescita, e pertanto,
dello sviluppo della personalità:
tanto che invece del cristiano detto,
che ci rammenta come ciascheduno,
nato da polvere, polvere ritorna,
sarebbe ben più saggio ricordare
che pesci fummo e pesci ancora siamo.
Ma torno all’incidente: non ho tempo,
mentre sprofondo e mi sento soffocare,
di divagare, pensando: mare! mare!
addò o sole, a’a staggione, côce ò ssale
‘e ppucchiacchelle ‘e mare acopp’a réna…
Sprofondo. Tengo il fiato. Ma pe’ quanto?
Già vedo, laggiù in fondo, preoccupati,
ll’uocchie, a decine, de’ purpe poverielle,
scamazzate int’a rena, bumbardate,
na notte appress’ a’n ata, da ‘e llampare…
… scacciate al buio dall’ uocchie d’o ciclope…
Spauràto, ‘i vveco, spauràti pure lloro.
Me ‘uardano ch’affogo e ‘i ssento dìcere:
povero mézo’ purp, sbrindellato…
chissà qua’ pescecane l’ha strazzato
tutte ‘e rranfe mancante…
Ormai sto in agonia. Provo a nuotare,
ma na mano pesante, aret’ e rin’,
mi spinge inesorabile all’ingiù.
Annanz’all’uocchie se para nu delfino.
Fratello – dice – ma te sì scurdato?
Comm’è ca sì rimasto senza fiato?
Io m’attaccava, tale e quale a te,
a’a zezzenella… te vo’ dà na mossa?
Nuota! Saglimm’! … e ghiamm’a respirà!
Fràte, ‘n ci ‘a faccio … ‘o dico scunsulato.
‘A fera se ne va. Véne nu scuorfano
serafico e assai brutto, accussì gruosso
ca si tenesse famme me staccasse
‘a capa cu ‘nu muorzo, e bonanotte.
Ma nun têne appetito, e mi sorride.
Sono oramai sul fondo limaccioso.
Scappano ‘e purpe, in lacrime per me.
Mi lascio andare, mi dico: sono andato.
Ma sorride lo scorfano, e mi dice:
Frate cugino, vott’ o mare a dint’!
Fà nu bell’ respiro! Nun sì muorto.
Ma non ti accorgi che sei appena nato?
Eseguo e subito … il cuore si fa calmo.
Incredulo, resuscito dal fango.
Nuoto tra i purpi, che fanno carosello.
Il fiato delle branchie è ritornato,
o scuorfano me dà nu colp’e coda.
Ghiamm’! – mi dice l’amico per le squame,
viene! te porto add’o’ ll’acqua è fina,
ccà stamm’ ‘int’ e lliquame, dint’ o puorto,
post inadatto per te che sei risorto!
Lo seguo incuriosito e già mi chiedo
come potrei cavarmela se un giorno
dovessi ricadere in su, nell’aria,
per una spinta, chessò, per un inciampo,
o in conseguenza di un malsano gesto…
Ma sono appena nato, è da coglione
affliggermi in pensieri così cupi…
nun ce voglio penzà. Nuoto felice.

* * *

Lo sgambetto del Lama

Non ti sei rotto il naso
(Che pure era presente),
Il pavimento è un cielo,
Un soffitto speciale.
Sangui che in te s’insanguano,
Non ti sei rotto un dente,
Per non chiedere niente,
Ti porti sulla soglia
Di un tuo viaggio spaziale.

Solo una piroetta,
Una spinta gentile,
L’amore cattivissimo,
Da un Altrove sottile,
Comanda al tuo bastone,
che è una piuma flessibile,
di farti lo sgambetto.

Il balletto che segue,
Arabesco nell’aria,
Dura soltanto un attimo.

Meticolosamente,
Nell’ordine perfetto
Di molecole sveglie
Guidate attentamente,
Tu atterri sul tuo duro
Marmo, arrendevolmente.

È la dura lezione
Che il tuo Lama birbone
T’impartisce ridendo.

La impari a perfezione,
Tu, plurima esistente,
Tu, morta ripetente,
Angiolo senza inganni,
Sorvegliata speciale,
Vaso di molti affetti
Rigorosi e imperfetti.

Ammaccata, tu ridi,
grata per l’attenzione.
Ma forse volentieri
Tireresti l’orecchio
Al tuo Lama birbone.

Tre risposte allo specchio (quand’è storto)

Di
jamila mascat
-
24 Febbraio 2018
0

di Danilo Laccetti

Foto di Suzanne Saroff
 

Però, suonare così bene e nello stesso tempo sapere 

che non hai nessuno intorno capace di apprezzarti 

Čechov, Tre sorelle

 

Postilla pacifica e necessaria

Diritta, coerente, rispettosa vorremmo l’immagine di noi che negli altri si riflette, così come l’abbiamo vista riflessa nei nostri occhi per tanto tempo. Ciononostante a un dato momento, per impreviste, maligne occorrenze, l’immagine si fa storta né si dà verso di mutarle postura; eccola curva, non lineare, deforme, perciò sbagliata, non corrispondente alla costruzione, alla perseverata pianificazione del nostro io (in verità di tutti gli io che stratificano silenziosi; ignari, noi, di imprendibili sovrapposizioni, dissolvenze così capricciose). L’aspettativa, spesso le ripetute aspettative, mancate più volte, dapprima cercano giustificazione. Ma se gli specchi perdurano storti, la frustrazione così conglomerata, quanto più s’agglutina intensa sull’oggetto desiderato che procura dolore, tanto più accresce la sua massa critica; la sofferta mancanza ha bisogno di sfogare gli umori costipati da questa insistente sordità dell’immagine, cerca riscatto. L’immagine storta, non più forzatamente emendabile, viene fatta innocua, rimossa, esiliata; se questo oscuramento non basta, l’immagine va distrutta e tale distruzione può concretizzarsi contro il suo proprietario, reo confesso d’impotentia generandi, conclamanta incapacità d’aver prodotto l’io desiderato, ovvero l’ostilità trova degno avversario nell’oscuro manovratore di quell’immagine, qualcuno che, nascosto dietro il nostro specchio, quello specchio avrebbe deturpato, procurandoci la disfatta: un usurpatore, infiltrato strisciante nella nostra vita, ne ha fatto scempio.

Gli infiniti modi di oscurare l’immagine storta, facendo nebbia attorno ad essa, precario e labile proponimento a volte, talvolta superlativa capacità di intrappolarsi a vita in quelle medesime nebbie, pertengono al teatro del grottesco, la comicità trasuda malinconie drammatiche; quelle esemplari di un monsieur Jourdain di molieriana memoria, per citarne una: pur di diventare ciò che solo la nascita gli avrebbe consentito, cioè nobile, calpesta patrimonio e affetti, tanto che la messinscena finale lo saluta soddisfatto e ingannato, cieco e felice, assolutamente non rinsavito a petto dei suoi “fratelli” Orgon e Argan, salvati dalle loro manie. Eloquentissima rappresentazione, quanto mai contemporanea, di un’ambizione scomposta e frenetica: voler essere a tutti costi ciò che non sei stato “capace” di diventare.

Ma la supponente autodeterminazione di quella stessa voce interiore, che si pronuncia non convocata, cerca sovente il teatro del tragico come palcoscenico acconcio per il riscatto: vendicarsi contro il proprietario o contro l’usurpatore, due modalità piuttosto complementari per attestare il proprio ego, sebbene in articulo mortis.

Rimane una terza, assai faticosa risposta per l’io ferito a morte, desideroso di vendetta; impone l’esercizio dell’adattamento, del radicale, progressivo, spesso repentino, cambio di prospettiva.

Prima: cette Psyché qui palpitait des ailes

Alla metà del secolo decimonono il biancore della mussolina incantesimò le dame del bel mondo parigino: così Manet ritrae Suzanne, sua moglie, nel dipinto La lettura, abbracciata dalla vaporosa purezza di questa stoffa, bianco nel bianco del divano, dei tendaggi. Anni dopo il pittore collocò alle spalle della donna, in un oscuro che tanto richiama i famosi suoi neri, il figlio, intento a leggere qualcosa da un libro; figurazione di un perturbante chiaroscuro, antitetico alla luce di quella stoffa, che tutto di sé irradia.

In Avatar di Gautier, quando ha luogo la sfortunata confessione d’amore di Octave de Saville,  la bella contessa lituana Praskovie Labinska viene rappresentata sola, stesa sul canapé di giunco: una ninfa marina immersa dans l’éclume blanche d’un ample peignoir de mussoline des Indes; la candida vestaglia di mussolina, bianca immagine ritagliata dentro la cornice esotica, lussureggiante del giglio rosso di Firenze (più tardi teatro di un’altra passione amorosa romanzata da Anatole France).

Per Octave il mancato ottenimento del suo desiderio si trasforma in ossessione maniacale; lo spinge ad accettare la proposta del dottor Balthazar Cherbonneau: per virtù magiche trasmigra nel corpo del suo “rivale”, legittimo marito della contessa. La traslatio animae non sortisce effetto; gli occhi, gli occhi infuocati d’amore di Octave sono troppo distanti dal sereno, sicuro amore del conte Olaf; nel duello fra i due, Octave ha la possibilità di uccidere il “nemico”, carcerato in quel corpo, il suo, che tanto oramai odia, un odio che travalica l’ostilità verso il marito della contessa. Non lo fa; anzi chiede al dottore di ripristinare l’ordine delle cose. Al momento di migrare di nuovo nel suo corpo, è proprio un’esitazione di questo moderno alchimista, pris de pitié, a decidere la sua fuga; l’anima, una “Psiche dalle ali che palpitano”, sale sempre più in alto, nulla oramai potendo il severo richiamo del suo incantatore; petite lueur tremblotante, piccola tremante luce, sguscia dalla finestra, svanisce. L’evasione dalla prigione di quel corpo, contenitore d’un io che ha fallito il suo desiderio, fa coincidere la libertà con la morte, l’affermazione di sé si dà per annullamento, l’ego svaporando si determina. Tale il disprezzo per questa immagine storta, tanto lontana da quella auspicata; nemica saldata alla propria pelle, quasi calamita funesta, fatale compagna, sicaria congenita. Che il dottor Cherbonneau, commosso e forse anche spaventato, si reincarni in Octave, donandogli una seconda vita, non esprime una vera speranza di rinascita; è sostituzione di intelligenze, supremazia di ingegno che si perpetua: esercizio portentoso di chi domina le altrui vite. Quella, la vita di Octave, ha creduto di mancare il suo destino, disperando di riformularlo in qualche modo; la coscienza distorta d’essere una vittima innocente ha causato il resto.

Seconda: Malek-adel redivivo

Nel 1872 sono trascorsi dieci anni da Padri e figli, romanzo che segna per Turgenev l’interruzione provvisoria della sua carriera letteraria, di sicuro il punto apicale della felicità narrativa, avviata anni prima con le Memorie di un cacciatore; le feroci critiche dei giovani, la rottura dei rapporti con illustri intellettuali dell’epoca gettano l’autore in uno stato di profondo scoramento, spegnendo i suoi ultimi anni in una produzione spesso fiacca e tendenziosa. In un contesto simile decide di aggiungere nuovi racconti alla sua raccolta d’esordio, per l’appunto quelle Memorie, il cui clamore ai tempi lo consacrò un maestro del realismo russo. I pezzi passano da ventidue a venticinque e tra quelli aggiunti ce n’è uno: La fine di Čertopchanov.

Il personaggio spicca per una certa fattura donchisciottesca: s’aggira, fra i boschi e le forre, la sua malinconica figura con accanto l’immancabile “Sancho”: un delizioso cliens della steppa, Nedopjusckin, ritratto dall’autore con pregnante empatia. Lui, Čertopchanov, rientra nella galleria dei padroni oramai decaduti, ma severamente nostalgici del bel tempo che fu; la servitù della gleba sarà abolita pochi anni dopo e Turgenev tratteggia con nettezza, talvolta impietosa, questi feudatari al tramonto. Nel racconto aggiunto assistiamo alla sua progressiva rovina, non tanto economica quanto morale: prima la giovane sposa, una zingara, lo abbandona, agìta dalle sue furie nomadiche, poi muore Nedopjusckin. Solo e sempre più amareggiato Čertopchanov, in virtù del bel gesto di salvare un ebreo da un pogrom, riceve da lui, a un prezzo irrisorio, un meraviglioso purosangue: un grigio pomellato chiamato Malek-Adel.

Questo esemplare magnifico per il protagonista diventa motivo di riscatto, proiezione rigenerata di sé. Una notte, però, il cavallo viene rubato; Čertopchanov non si rassegna alla disperazione e decide di partire per ritrovarlo. Trascorso un anno di ricerca in tutti i mercati russi, torna vittorioso.

Eppure, giorno dopo giorno, il Malek-Adel redivivo manifesta sempre più qualcosa di cariato; un logorìo lento, inarrestabile cova dentro Čertopchanov, perché quel cavallo non ha le stesse movenze, i medesimi pregi dell’altro. L’oscuramento dell’immagine storta, così lungamente perpetrato, viene talvolta squarciato da lampi di lucidità; finché il rovello cessa grazie a un diacono del paese che, incontrandoli, nota una verità lapallisiana: come può un grigio pomellato dopo un anno non aver ancora imbiancato il suo manto? Il cavallo montato da Čertopchanov è ancora interamente grigio. Quello dunque non è Malek-Adel; quello è solo un impostore. Meglio: un usurpatore.

Allo svelamento consegue il disprezzo per l’immagine storta; fin quando una notte Čertopchanov, sorretto e sospinto da una solenne ubriacatura, conduce il falso Malek-Adel nella campagna, in mano la pistola. Sta per ucciderlo, esita; lo sprona giù per un dirupo. Incamminato sulla via del ritorno, qualcosa lo tocca sulla schiena: il muso del cavallo. Quell’immagine, sua figurazione, sua creatura, reclama di esistere: il proprietario pensa di liberarsene uccidendola. Lo fa, ma poche settimane dopo Čertopchanov, consumato da una malattia fulminea, che lo smagrisce e gli toglie la parola, si spegne, orribilmente trasfigurato.

Terza: alla fonte di Urdar

La principessa Brambilla di Hoffmann inscena un carnevale romano quale sommo ministro del fantastico, mai disgiunto, però, da quella nota d’ironia che è il sigillo più profondamente autentico dell’autore. Giglio Fava, scadente attorucolo, sprofonda in un oscuramento della sua immagine storta grazie al mago e ciarlatano Celionati, che gli fa credere d’essere l’oggetto d’amore della principessa Brambilla, mentre il giovane, licenziato dal teatro Argentina, fa parlare di sé la città per le sue stramberie; anche l’innamorata di Giglio, la sartina Giacinta, è sulla bocca di tutti: avrebbe fatto girare la testa niente meno che a un principe. Il racconto, trascorsi alcuni mirabolanti capovolgimenti, transitando attraverso una sarabanda di svelamenti e pittoresche fantasticherie, si conclude con un happy end: finito il carnevale i due innamorati tornano ad essere quello che erano e per quello che sono si amano. Celionati si rivela per il principe Pistoia, gran cerimoniere di questo vorticoso putiferio.

Esiste, però, un breve inserto narrativo, carico di intense sfumature allegoriche: nel Caffè Greco, dove Giglio si reca per gustare un piatto di maccheroni, viene avviato il racconto del malinconico re di Urdar Ofioch, cui non riesce a donare un sorriso neppure la sua fin troppo gaia sposa, la regina Liris; per giunta i due finiscono per addormentarsi d’un sonno profondissimo. Ma il mago Ermodio, al suo ritorno da Atlantide, dona agli abitanti di Urdar una fonte, la quale possiede una virtù: riflette l’immagine, ma capovolta. I sovrani, risvegliati, corrono a specchiarsi nella fonte per primi e, trovatisi così deformati, finalmente riescono a sorridere proprio davanti a quel loro io rovesciato, quell’immagine storta. Ma, sobillati dai filosofi, che predicano come disdicevole guardare se stessi a testa in giù, gli abitanti di Urdar iniziano a gettare immondizie nel lago, tanto da trasformarlo in una palude graveolente. Intanto i due sovrani muoiono e il popolo chiede soccorso di nuovo a Ermodio; nascerà, egli preconizza, la nuova regina di Urdar dallo stagno. Così avverrà: la regina Mistilis, il cui linguaggio, dapprincio incomprensibile, grazie al mago tornerà a farsi comprendere.

Quando, passato il carnevale, il principe Pistoia, alias Celionati, rimette in sesto la realtà riconsegnando i due giovani al loro amore “ordinario”, nel suo discorso d’addio cita di nuovo la fonte di Urdar. In un luogo la paragona allo specchio deformante del teatro, all’incanto e al disincanto generati dal palcoscenico; poi si congeda con una fin troppo scoperta chiarificazione (cap. VIII, trad. Laura Bocci):

(…) Sono venuto e verrò qui sempre nell’ora fatale del vostro riconoscimento, per confortarmi insieme con voi al pensiero che dobbiamo considerare ricchi e felici noi stessi e tutti coloro ai quali è riuscito di guardare la vita, se stessi e tutto il loro essere nel meraviglioso specchio solare del lago di Urdar e di riconoscervisi.

“L’ora fatale del riconoscimento”; quando accetti di “conoscerti di nuovo”, di tornare a conoscerti. Dinanzi alla propria immagine storta il popolo di Urdar reagisce rabbioso, vuole intorbidarla, cerca di oscurare quell’immagine; al pari dello sventurato Octave de Saville, quando si affida all’incantesimo del dottor Cherbonneau, o come Čertopchanov, fintantoché si convince di aver recuperato il suo Malek-Adel. Svelata quell’immagine, caduto il velo dagli occhi, tre risposte si danno davanti a quello specchio deformante: distruggere l’immagine, cercare il colpevole di tale deformazione, sorridere; il sorriso di chi si riconosce e riconoscendosi rinasce, poiché, conformato alla mutevole morfologia dell’esperienza, cammina accanto a se stesso, unica guida sovrana, secondo l’intera lezione di Montaigne, l’esperienza medesima. Esperienza come sperimentazione costante di sé; una laicissima esplorazione. Esplorazione da intendersi fino all’ultima istanza, cioè profanazione di qualsivoglia idolo interno, che  nel tempo ci siamo andati costruendo; per dirla stirnerianamente, tradirsi ripetutamente è il cardine della vera conoscenza di sé. Perché solo tradendoci ci “consegnamo” davvero a noi stessi interamente.

 

Foto di Suzanne Saroff

 

La fine dell’acqua

Di
francesca fiorletta
-
23 Febbraio 2018
0

di Vincenzo Corraro

Verso la fine di agosto, quando già l’estate precipitava in un vortice di luce avanzata, Miro Brunetti pensò bene che era venuto il tempo di ratificare il passato. Tenne la cosa in gran segreto ancora per alcuni giorni, e invece che stare lì a vagare per i boschi fissando con gli occhi ormai saputi l’algoritmo degli uccelli in volo o a fiutare nell’aria l’odore asprigno di rosa canina dei caprioli in amore (era un anno che si trascinava tra le montagne e dal velario di quei dirupi, con le spalle alla roccia, sentendosi protetto, sentinellava gradasso il bosco vagliandone minuziosamente, da competente, ogni respiro: acquattato e calmo come una bestia in fuga nella vegetazione fittissima, si teneva lontano da certe minacce che persino i carabinieri di R. gli avevano preannunciato serie tanto da dissuaderlo dal farsi vedere in giro, per un bel po’), si decise a scendere al casolare e tornare diritto da Piera, scusarsi una volta per sempre, portarla a mangiare una pizza e dirle com’era il fatto. Ma fin quando avesse avuto negli occhi solo cielo e il riflesso del sole sulla lastra bocciardata della falesia, quella faccia livida di rancore a stento contenuto poteva dirsi tranquilla e piena di fiducia tra le balze delle rocce che l’infallibile crudezza di popolo aveva segnato per sempre come l’Abisso del Diavolo.

Continua

Le buone maniere

Di
francesca matteoni
-
22 Febbraio 2018
2

di Marco Simonelli


 
A tavola

“E fra voi due chi è che fa la donna?”

Ce lo chiede verso il dolce
dopo un primo con le arselle
e un secondo a base di branzino.

Per lui è naturale chiederlo.
A tavola, si sa
la confidenza aumenta.

Pare scortese glissare e non rispondere
e certo non è il caso di discutere,
tentare di spiegargli che due uomini

dispongono di modi più creativi
per divertirsi a letto.
Così gli raccontiamo

questo nostro segreto inconfessabile,
arcana metamorfosi notturna
sempre pronta a mutarci in qualcos’altro:

di come il seno cresca e il pene cada,
della voce che s’alza d’un’ottava,
di come bestiali ci accoppiamo

– animali feroci come gli uomini –
per poi tornare a correre ululando
alla mannara faccia della luna.

***
Sul lettino

Tre volte a settimana salgo le sue scale
senza mai incontrare anima viva.

Lui m’aspetta in piedi, al pianerottolo
col viso di chi attende un incidente.

Mi saluta stringendomi la mano
dopodiché il rito operatorio

si ripete identico a se stesso.
E mentre io mi sdraio sul lettino

lui richiude la porta della stanza
e prende posto dietro, scomparendo.

La prima volta è stato imbarazzante
non avevo idea di come comportarmi.

“Verbalizzi un qualsiasi pensiero”
suggerisce, “cercando, se riesce

di limitare al minimo la mole di scempiaggini
che ognuno si racconta per seguitare a vivere”

Un fascio luminoso mi esce dalla bocca
proietto alla parete i super8

di gite al mare, feste e compleanni.
Col tempo siamo entrati in confidenza

guardiamo horror, porno e gli snuff-movie.
Ogni tanto mi fa delle domande:

di chi era la mano col coltello?
a chi appartiene quel pene in erezione?

ed è proprio sicuro che la salma
non provasse un sottilissimo piacere?

Ma per il resto, tace. Lo sa fare benissimo.
Sa farlo così bene che lo pago.

“Pensi a me come ad una prostituta.
Per un’ora può farmi ciò che vuole”.

“Può piangere, strillare ed insultarmi
può lanciare anatemi ed accidenti –

sacrileghi o blasfemi, non importa:
accoglieremo tutti a braccia aperte”.

Una volta scoccato il termine dell’ora
scattiamo in piedi entrambi; premuroso

lui mi scorta di nuovo al pianerottolo
e scendo più leggero per le scale

fino all’angusto portone dell’ingresso
da cui sguscio infine all’aria aperta

fuori, fuori, coperto di placenta.

***

Il fumatore

Dopo il caffè ma prima dell’amaro
potrà sgattaiolare sul balcone
per soddisfare il proprio orrendo vizio.
Chiederà il permesso ai commensali
e si congederà rammaricandosi
con l’aria di chi cerca una toilette.
Imparerà ben presto a riconoscere
le facce solitarie dei cortili,
il livido richiamo verso il vuoto
in agguato da sotto le ringhiere.
Aspirerà veloce la sua cenere
fingendo di trovarsi lì per caso.
Nasconderà la cicca indifferente
fra i gerani appassiti dentro un vaso.

Poesie tratte da: Le buone maniere (Valigie Rosse, 2018)

Da Genova a Istanbul

Di
giacomo sartori
-
21 Febbraio 2018
1

di Marino Magliani

Genova. La città da cui si può solo partire, forse perché sembra non accogliere, con i suoi imbuti stretti e le sue fungaie di palazzi rosi dal salso, e soprattutto con subito dietro le montagne. Strana città, Genova, le cui comunità di emigranti hanno trovato il loro spazio nel centro storico e non nelle periferie. È da questa città che viaggiano le storie umane di Sesso apocalisse a Istanbul (Giunti, 2018). Giona Castelli, poco più che cinquantenne, affascinante libraio, e perdedor, ha dovuto chiudere la sua libreria (guarda caso situata nel centro storico di Genova) che aveva messo su in gioventù con l’aiuto del padre avvocato perché quel figlio non “sapeva fare altro”. In effetti è vero, ma quel mestiere di libraio, in seguito, Giona Castelli l’ha saputo fare come pochi. Fin quando la crisi non gli ha rosicchiato gli affari e il capitale e Giona non riesce a salvare nulla. Deve vendere persino la casa. Non gli rimane molto. È il crollo dei sogni, “ il crollo delle sue Torri Gemelle”, ci racconta un io narrante del quale sapremo ben poco. Avesse una famiglia, una madre… E questa ce l’ha ma è una madre cui manca il cuore di madre.  E sull’aspetto materno, sulle madri che mancano, in questa nota che prova a far conoscere la mineralità e l’umanità del romanzo di Giuseppe Conte, torneremo.
Il personaggio femminile è Veronica, Vero, una donna molto bella e sensuale, colta, divoratrice di libri. Vero è una ricca ereditiera, famiglia di armatori, sposata a un noto nome della politica nazionale, un senatore. Qualche anno prima del viaggio a Istanbul con Giona (viaggiano separatamente perché lei è una donna sposata e troppo in vista) ha conosciuto il nostro libraio nella sua libreria, e in mezzo alle pile di libri prende corpo il loro rapporto, che all’inizio è pura attrazione fisica e poi diventa qualcosa di importante. Vero non è una donna modello, bella fuori e dentro (alta se porta i tacchi e lo stesso alta se se li toglie), ma una donna piena di passioni e contraddizioni, di fantasia, di ossessioni. Una donna vera, si direbbe, figlia del nostro tempo. Ci si chiede come sia possibile che una donna libera e ricca non prenda le distanze da quel senatore che a letto, tra loro due, ha messo la politica, la corruzione, gli affari. Un figlio? Ecco sì, un po’ il motivo per cui non divorzia dev’essere questo rampollo che dopo l’università se ne sta sulle coste occidentali americane a studiare surf come i suoi antenati hanno studiato commercio marittimo. Ma viene sempre il dubbio che lei, Vero, non voglia salvare questo matrimonio neppure per quel figlio di cui si ricorda in poche occasioni. Perché Vero è questo, pulsione, vita, gentilezza, e nello stesso tempo dominio. È un piano di lettura molto interessante questo del carattere di Vero e dei personaggi. Vero non è bella e perdente come Giona, ma come lui è vera, è il vizio dell’occidente. Ha l’arroganza e la bassa soglia persino di rinfacciare pubblicamente a Giona che che lo sta mantenendo durante questo soggiorno a Istanbul. E tutto ciò che non vuol perdere da quel matrimonio, a parte i soldi che già possiede, è il potere.
E nel crovevia di civiltà che è Istanbul Giona e Vero si amano, si concedono e si divorano come se il mondo e la vita finissero dopo aver trascorso laggiù quel fine settimana. Assieme conoscono la città  e assieme incontrano il vecchio amico di scuola di Giona, Giuseppe Maria, “Ritz” raffinatissimo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, che ama Luca, un giovane prete.
Ma prima di tutto questo, c’è un giorno che è quello dell’attesa. Vero arriverà l’indomani e oggi, da solo, Giona, si trova a Istanbul e incontra lo scrittore turco Ilhan Durcan, parecchio famoso, (l’ha conosciuto nella sua libreria a Genova anni prima) il quale è in compagnia di Khaled Nejim, scrittore di Tangeri che si trova a Istanbul su invito dell’Università. I tre bevono in un caffè, parlano di mondo e di piaceri, e quando escono vengono avvicinati da uno spettro, il quale apparentemente di spettrale ha solo una bocca piena di denti guasti, e in realtà è l’elemento che senza volerlo scatenerà l’Apocalisse. Tutto, compreso il giorno di attesa, si consuma dunque in un fine settimana, ed è il tempo che, come direbbe Roberto Arlt, contiene l’infanzia del pianeta.
Ma torniamo a Genova. Genova personaggio. Perché è da lì che è partita anche un’altra storia. C’è un solco, specie di costone invaso dalla luce e di fronte la più nera ombra. È un’idea che prende corpo fin dall’inizio della narrazione e si chiude solo alla fine, nel sangue.
Anzi non può chiudersi. Il sole gira e ciò che sembrava all’opaco la mattina, il pomeriggio è nella luce.
Anche il terzo grande personaggio – l’altra storia – è partito alla ricerca di qualcosa. Ha diversi nomi, e a noi interesserà come lo Sconosciuto. Si tratta di una giovane vita tagliuzzata dalla solitudine e dalla disperazione, dall’odio. Una madre con la quale vive sottomettessa dal suo nuovo compagno che la fa prostituire. E lo Sconosciuto è abbastanza grande per rendersene conto. Un padre biologico che se ne va di malattia ma col quale per colpa della nuova compagna di lui, lo Sconosciuto non riesce a legare, neanche quando a quel padre resta più poco. Segue il vuoto, e assieme al vuoto un tentativo di affidarsi a un’idea di purezza dalla quale punire il mondo, e vendicarsi di quel mondo. E quel tentativo passa per Istanbul. Ma quale vita può rimettere dignità in un progetto di sola morte? Il terzo personaggio è dunque una vittima e sceglierà per sé un futuro da torturatore della vita altrui. Mentre la limousine dall’aeroporto di Istanbul porta Vero verso l’albergo di lusso dove la aspetta Giona, lo Sconosciuto, questo ragazzo tormentato che non riesce a salvarsi e che è già diventato spietato assassino, attraversa la strada. Stridio. Urla, la limousine non riesce a frenare in tempo. Vero scende e chiede allo Sconosciuto se si è fatto male. L’apocalisse inizia su quel marciapiede.
Questo libro ha una struttura perfetta, si gioca in quota per alcune pagine, e quando l’areo su cui vola Giona Castelli si cala su Istanbul il lettore sbarca che possiede già una dose equilibratissima di dati. Per il resto sarà la curiosità a muoverlo. E man mano che si addentra nella di vita di Istanbul – gioia e infezione – la capacità del narratore dilata le immagini, ne deforma alcune e ne aggiunge altre, l’acqua del torrente perde se stessa nelle anse e rotola verso la pianura con altra liquidità, fango, vita e morte.
C’è infine qualcosa che proietta oltre la narrazione, è qualcosa che l’autore affronta da sempre (dico da sempre perché è dagli anni settanta che Giuseppe Conte parla di natura e dignità quando la moda era ben altra), in poesia e narrativa. Qualcosa su cui lavora in Liguria, scagliandosi contro gli usurpatori di quella riga di vallate che crollano in mare, e qualcosa che  compie altrove, dentro e fuori dell’Europa, accanto a intellettuali arabi liberi come Adonis. E’ un’aria di libertà che si respira anche in queste pagine e ce n’è bisogno.

Sonata per pianoforte e vento n. 1

Di
davide orecchio
-
20 Febbraio 2018
2

di Alessio Mosca

Sappiamo che la loro promiscuità era tale che il concetto di paternità e maternità non esisteva.

I bambini assumevano il cognome dalla canzone che i genitori ascoltavano durante il concepimento e non appena venuti al mondo erano assegnati alla comunità cui erano destinati.

Lì venivano cresciuti fino alla maturità sessuale, dopodiché erano considerati adulti.

Jörg Alba-chiara, Amina Wake-me-up-before-you-go-go, Vasiliy Rhapsody-in-blue.

Già dalla fecondazione la canzone determinava lo sviluppo e la personalità del bambino, funzionava come un segno zodiacale e per tutta la vita avrebbe influenzato la sua sfera emozionale e comportamentale. La musicologia aveva sostituito la psicologia, i melomani erano i nuovi astrologi.

I figli dei canti gregoriani avevano più tendenza alla psicopatia, i glam-rock mostravano labilità e spiccata empatia, i funky-house presentavano tratti narcisistici. Questo generalmente.

Pare che talvolta i figli di Rachmaninov sognassero di un pianeta dove il vento era una forma di vita. L’aria calda saliva mentre la fredda si abbassava generando una brezza che soffiava tirando su la polvere della landa. Durante il suo tragitto la brezza scaldava nuova aria aiutata dall’attrito e dal calore di una stella che non era altro che il loro sole. La rotazione del pianeta dava l’ultima spinta, così, nel torpore della scia di un vento che moriva, l’aria tornava a salire e un nuovo soffio nasceva, figlio della terra, della stella, delle pressioni atmosferiche ma soprattutto della brezza iniziale da cui aveva ereditato il respiro e la consistenza.

A volte due venti si incontravano e le loro correnti si deviavano leggermente cambiando direzione, si evolvevano.

Altre volte si fondevano in un’unica raffica e il vento che ne nasceva era diverso e uguale a entrambi e anche questo era un modo di fare l’amore.

Al centro dell’inverno

Di
biagio cepollaro
-
19 Febbraio 2018
0

Biagio Cepollaro,Kun,2008-Ibrido digitale

di Biagio Cepollaro

 

Da Al centro dell’inverno (2013-2017)

 

*

il corpo nell’occhio del crollo d’Occidente imbandisce

con scrupolo la cena: vino rosso che conta i suoi anni

e pesce che ha risalito la corrente. il nutrimento comune

è una festa e a cantare l’inno di gloria è il desiderio

di mescolarsi alla luce che radente si stende sul tavolo

 

*

il corpo non sa se o da dove si avvisterà

il primo tratto della speranza: l’Occidente

avvitato su se stesso inizia la sua implosione

dividendosi all’interno. la forma che nel tempo

si è data per lo scambio ha portato l’intera

specie all’estinzione. ma invece di frenare

sull’orlo del precipizio sembra accelerare

 

*

il corpo ai margini del crollo d’Occidente misura a spanne

la distanza dalla sua fine e conta di cogliere gli ultimi

bagliori dell’epoca che è stata: fantasie distopiche fioriscono

al cinema e nei sogni un’ansia collettiva che non può

essere detta fa tenere il capo chino e trattenere il fiato

 

*

il corpo ora sa che in suo potere vi è solo

la parola da formulare: nella sua bocca

prende forma rotonda un concentrato di pensiero

e passione l’uno nell’altra fusi

in una posizione. il dire è significare il mondo

non descriverlo né raccontarlo: che il senso

si dice e si misura nell’ascolto di chi resta

 

*

il corpo attende l’autunno come la scossa che smuove

la smemoratezza. il caldo ha fatto dei pensieri vapore

e l’acqua ha dominato come l’ombra il campo dei desideri

ora è un tornare lento a sé un riprendere forma dell’espressione

e del moto. l’azione qual sia ha il sapore buono dei risvegli

 

*

il corpo nell’afa fatica a respirare: l’aria mossa

dai ventilatori è solo aria che si sposta. resta

la stessa la condizione come quella d’Occidente

preso dalla favola della “crescita” senza fine

e senza senso e dal controllo di massa sul dissenso

 

*

il corpo ai margini del crollo d’Occidente desidera

mettere in salvo i manufatti di parole da cui un giorno

forse l’umanità potrà ripartire. così fu per l’antico

Medio Evo così è per questo nuovo: in salvo le parole

ancora potranno risuonare alla fine della prossima notte

 

*

il corpo ai margini della speranza d’Occidente si chiede

come accade che d’improvviso la folla dei corpi sottomessi

possa ribellarsi e riscattare le attuali vittime della forza

come si diffonde il virus benefico che renda intollerabile

il comando spingendo corpi inerti a prodigiosi moti

 

*

il corpo ora vede come tutte le espressioni che scorrono

sugli schermi si mescolano con bocche eguali

anche se diversi sono i palati e diversi i denti: nessuno

vieta di parlare anzi a tutti l’incoraggiamento a dire

è il modo questo per sgretolare l’Occidente che s’infutura

in uno stagno sempre presente da cui non si può uscire

 

*

il corpo ai margini della fine della speranza d’Occidente

ha poche parole da mettere in salvo nel palmo di una mano

la luce che contagia alla giusta distanza del sole dal pianeta

l’euforia animale che si diffonde sulle scale della metropolitana

il centro di una festa che risuona di voci dalla casa di fronte

e il fervore della notte che sale lentamente fino a sfociare

 

*

il corpo ha fatto del dire il sogno del suo ritmo: il nero

sullo sfondo e intorno da sempre ha richiesto un raggio

di piacere e presenza un antidoto buono a fare di poco

un mondo: la forma dell’arte è niente senza questo

discernimento: la lotta sulla terra è fare del giorno cielo

 

Nota

Al centro dell’inverno è in corso di pubblicazione presso L’arcolaio. E’ il terzo libro della trilogia Il poema delle qualità , dopo Le qualità (La camera verde, Roma, 2012) e La curva del giorno (L’arcolaio,Forlì,2014). Per una video registrazione del Prologo e di altri versi si può cliccare qui .e qui  Pagine dedicate alla trilogia si possono trovare qui e  qui L’immagine è Kun, 2008, una stampa digitale con intervento a mano successivo.

sequenza_nun

Di
renata morresi
-
18 Febbraio 2018
0

di Claudio Salvi

sequenza d’ordine cronologico

 

*

parola mano
(sia
sia
preme
per
per
me)

 

Continua

La caduta dei murazzi: Enrico Remmert

Di
francesco forlani
-
17 Febbraio 2018
1

Nota 

di

Francesco Forlani

(Articolo pubblicato sull’ultimo numero di Focus)

 

Nella prefazione alle Chroniques pubblicata nel ‘62 Giono entra a gamba tesa sul nouveau roman: “Per sbarazzarsi di Omero, ci dicono, bisognerà raccontare l’Odissea invertendo l’ordine della storia e con voce da balbuziente”. E che due palle, sembra lasciarsi sfuggire l’autore dell’Ussaro sui tetti. Ci sono in italia non pochi narratori, alla Jean Giono, che per questa loro prerogativa, di credere ancora alle storie, di saperle raccontare ma soprattutto ascoltarle, vengono sistematicamente ignorati dalla critica dotta, alta, quella tutta dedita a sparare cànoni anno dopo anno, in nome delle loro cricche e dei loro sodali, a difesa di quell’ultimo baluardo della scrittura che per lo più viene definita letteratura di ricerca. Dall’altra parte non è che poi vada meglio con il regime delle classifiche dei più venduti dove non si capisce se quel venduti sta per libri acquistati o autori venduti alla grande causa della paccottiglia dei generi, in genere poliziesco o fantasy. Di Enrico Remmert possiamo dire una cosa con certezza: a differenza di molti suoi contemporanei che sembrano libro dopo libro, anche due all’anno, scrivere sempre e soltanto della stessa storia, lui ne pubblica uno ogni quattro anni, e non un libro che assomigli all’altro. Nonostante il gran numero di lettori, le traduzioni in molti paesi, perfino alcuni critici italiani si sono concentrati sull’officina letteraria di Remmert, esaltandone la maîtrise delle tecniche narrative, fino ad attribuirgli nella scrittura un grado di consapevolezza, quella gradazione che in molti gli riconosciamo nel difficile campo degli alcolici. Per quanto lusinghiere e giuste esse siano, a mio avviso tali critiche sembrano nonostante tutto perdere di vista la vera vocazione del suo autore: un talento smisurato nel raccontare storie.

À mon avis, celui qui écrit un livre raconte une histoire, un point c’est tout., aveva scritto sempre Jean Giono nei primi anni del dopoguerra, tirando in ballo i cantastorie arabi capaci di tenere banco davanti ai passanti e intrattenerli fino alla fine del racconto. Quanti scrittori dei nostri giorni raccoglierebbero il guanto di sfida gettato dal maestro per mostrarsi capaci di mettersi a raccontare storie, in un angolo di strada qualunque? Enrico Remmert sì e ne ho le prove.

Questa premessa mi è necessaria per far capire perché definire una raccolta di racconti La guerra dei Murazzi, da poco pubblicato da Marsilio, sarebbe fare un torto grandissimo alla natura di quest’opera poiché si tratta di storie. Punto. Otto progetti per la costruzione di una nuvola, Havana 3 a.m, Baal, e la Guerra dei Murazzi, sono quattro storie attraversate da un solo interrogativo formulato dall’autore stesso nella prima di esse, quella che dà il titolo al libro: Perché trovavo che ci fosse qualcosa di magnetico nella violenza, come una droga?

Questo si chiede Manu, barista di uno dei luoghi in cui si sta rifacendo la storia delle notti torinesi, protagonista del primo racconto, ma anche di quell’ incredibile epoca dei murazzi a Torino. Quello che non riusciamo a capire è se la ragazza questa domanda la stia facendo all’io narrante, al proprio creatore e dunque come ascoltatrice o a sé stessa. Certo è che la descrizione nelle prime pagine dello scontro tra hooligans e una banda di quartiere magrebina, superiore per numero ma non addestrata, ti coinvolge nella minuziosa descrizione del campo di battaglia- quei famosi controviali di Torino che nessun italiano al mondo potrà mai capire. E ti immedesimi a a tal punto in quella prospettiva, le due ragazze assistono da un balcone agli eventi, che la visuale da cui tutto si genera si sovrappone all’occhio del lettore come se si fosse dentro a una pagina dell’arte della guerra o di certe riproduzioni della battaglia di Waterloo che si possono vedere al Musée de l’Armée a Parigi. Non aveva forse scritto. Sun Tzu che “Fondamentale in tutte le guerre è lo stratagemma”? Senza voler qui rivelare i dettagli di ogni singola storia dove la trama è un semplice incidente di percorso nello svelamento del senso che il lettore compirà davvero solo alla lettura, quello che colpisce è la leggerezza con cui i giochi si fanno attraverso l’elemento tattico e dunque razionale, in tutte e quattro le storie. Se c’è una traccia che potrebbe servire nella comprensione dell’estetica di Remmert questa va sicuramente trovata tra le lezioni americane di Italo Calvino e in particolare la prima, dedicata alla leggerezza. Come non mettere in relazione infatti questa prima immagine degli hooligans, rapidi, impercettibili, con una delle ultime, l’annegamento nel Po davanti ai Murazzi di Abdellah? Come non scorgervi infatti l’opposizione tra leggerezza dei gesti e delle fughe nel primo, e pesantezza di un corpo che annega in mezzo a una festa in grado di annientare ogni residuo di razionalità, di umanità e permettere ai tanti testimoni di assistere alla morte di un uomo senza coglierne la gravità, il peso, appunto.

“La letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere. » è la formulazione di Calvino che a mio avviso corrisponde a pieno con quanto le quattro storie della Guerra dei Murazzi ci vogliono dire. La scrittura di Enrico Remmert vi opera allora come un crittografo implacabile nel generare storie da dettagli a volte insignificanti, da quadri astratti del vivere comune. C’è una scena particolarmente forte secondo me in cui la protagonista, Manu, descrive i volti nascosti tra le piastrelle del bagno.

“Io e Nenne avevamo un bagno tutto tappezzato di piastrelline azzurre di due centimetri di lato, tipo tessere di un mosaico ma smaltate su varie sfumature e perciò ognuna diversa dall’altra, e quando facevo pipì fissavo il pavimento cercando di trovare in certe singole piastrelline una sagoma che mi ricordasse qualcosa, un po’ come leggere le nuvole ma in scala molto più piccola.” Per ognuno dei personaggi di queste storie possiamo dire che è come se cercassero nella storia dell’altro, quella di un intero paese, Cuba e delle sue leggende, di un cane dai tratti infernali di Cerbero o di un parrucchiere giapponese, la propria indecifrabile storia, la natura stessa del suo esistere.

La parola storia, del resto, ricorre per ben sessantadue volte nel libro a conferma di quanto si legge nella citazione posta ad esergo nella prima pagina.

Ci hanno mandato via perché non conoscono le nostre storie. 

BELINDA, JOY E FAITH, profughe respinte a Gorino nell’ottobre 2016

Se allora vogliamo che restino, che rimanga davvero qualcosa, alla fine, una sola è la condizione perché ciò accada ed è raccontare storie, conoscerle, ma soprattutto farsele raccontare perfino quando ci verrebbe da dire con Manu:

E sapete quelli che vi raccontano la loro incredibile storia e alla fine vi dicono: ma io non mi sono mai perso d’animo? Ecco, io sono di quegli altri, sono di quelli che invece alla fine si sono persi.

Il mio ’68

Di
helena janeczek
-
16 Febbraio 2018
0

di Andrea Rényi

Nel primo numero del 2018 dello storico settimanale Élet és Irodalom (Vita e Letteratura) il giornalista ungherese István Váncsa (1949) tira le somme non prive d’ironia, del Sessantotto in salsa magiara: “Lo spirito più libero e il naturale ottimismo in qualche modo si sono infiltrati anche da noi, perciò ritenevamo i mamelucchi del regime dei cretini, e loro ogni tanto si rendevano conto di essere considerati dei cretini, quindi le loro facce tonte rispecchiavano incertezza, e nei momenti peggiori sghignazzavano imbarazzati.

Continua

Una lettera a Norbert Conrad Kaser

Di
giacomo sartori
-
15 Febbraio 2018
0

di Roberta Dapunt

A settembre dell’anno scorso è stato presentato a Brunico un libro che raccoglie i versi tradotti in italiano di Norbert Conrad Kaser, poeta dell’Alto Adige, enfant terrible di un territorio che non gli ha voluto bene, perché in balìa della sua voce poetica che graffiava profondamente tutto ciò che toccava. Norbert C. Kaser ha toccato tutto, luoghi, abitanti, lingue, società, politica e chiesa. Ma di più ancora, ha toccato sé stesso senza compromessi e senza riguardo. Ci ha lasciato un patrimonio di sensibilità che ora possiamo custodire anche in lingua nazionale. Sono state dette cose buone alla presentazione di questo libro, alcune troppo buone. Anzi non buone, perché troppo benigne e angeliche per norber c. kaser che da lui sappiamo, va scritto con la minuscola.

rancore mi cresce nel ventre.
L’inizio è senza maiuscola, in contrapposizione con il giusto, il corretto. kaser appunto. Che non era corretto. Lui non corrispondeva. Non aveva relazione di convenienza, di somiglianza, di conformità o di luogo, di tempo. Mi sono servita del vocabolario per quest’ultima frase, perché mi sembra, che la voce corrispondere raccolga l’opposto delle qualità del poeta kaser. Che sì, sono qualità dei pochi. E ora ce l’abbiamo anche in italiano questa figura provvista di buona controcorrente, avversa a ogni forma di conformismo e tristemente  succube e dominante di sé stessa. Perché Norbert è morto, è morto giovane e in compagnia solo dei suoi versi. Splendidi versi che ai miei occhi non sono affatto tinti di tanti colori com’è stato detto, di uno però certamente. Ché sì, le dimensioni sue, tra doti d’intelligenza e dolorosa mancanza volitiva, hanno fatto arrossare il volto di non pochi lettori. Direi quindi che il colorito della pelle più rosso del normale, è il colore conveniente nel quale norbert c. kaser ha immerso i suoi versi. Lo trovo magnifico. Il resto è profonda solitudine, condizione amara di una tristizia morbosa. Ma le sue poesie, le sue lettere, i vari testi in prosa! Mi auguro che il lettore lo accolga così com’era. È stato espresso il desiderio di liberarlo dal suo personaggio. Non facciamolo. La vita di un poeta è il patrimonio sul quale i versi di ogni sua poesia sono messi insieme, pezzo per pezzo. Grazie alphabeta, grazie Werner Menapace per la benfatta traduzione.

A norbert c. kaser ho scritto una lettera soltanto. Ero bambina quando è morto. Probabilmente gliene avrei scritte molte di più se non fosse stato così.

Fortezza, 27 agosto 2009
(prova di risposta a norbert c. kaser,  Brixner Rede, 27. August 1969)

Alla letteratura sudtirolese, a quella altoatesina
in questo tripudio di onorificenze, decorazioni concesse in segno d’onore,
al cittadino senza potere che dice ciò che ritiene importante.
Alla letteratura scritta per il mondo senza commemorazione patriottica,
io quarant’anni dopo mi chiedo quale timbro la tua voce, kaser,
affideresti alle parole importune, oggi,
Du unverträglicher Geselle, scriviamo ora.

E ti rispondo con scrittura italiana, da pensiero ladino, da lettura di te risolta in tedesco.

Noi che abituati a pensare per generazioni, pronunciatori instancabili di ricorrenze,
se tu sapessi quale lontananza
dagli abiti tirolesi e piume di gallo forcello
e camici immacolati e merletti intorno ai passi delle sfilate.
Eppure io confesso. Amo tuttavia le processioni,
solennità disinvolte tra i prati a rafforzare la fede,
consegnando stagionati gonfaloni al vento
che in ogni estate guardo da una lontana finestra. Sedotta,
finché il passo lento religioso si risolve tra le case. Il mio domicilio.

Io che sono ladina, che non sono italiana, che sono figlia illegittima di quest’Italia,
che ne violento ogni giorno la lingua e compro il pane in tedesco.
Falso desinare il mio. Ipocrita,
ogni giorno a pasturare con indifferente lingua.
Eppure i versi, a loro non importa l’inchiostro versato,
importa a loro invece la terra impropria che pesto,
poiché non so a chi appartengo, eppure erede di un popolo fermo,
mentalità sedentaria, che abbiamo fissato i chiodi per vendere ladina persino la cena
e sul tavolo ormai abbiamo lasciato un limitato spazio alla modestia, all’umiltà.

Ottuso norbert, tu parli di esilio eppure non esiste condizione esule più triste di questa.

 

Ricordo volentieri di avere avuto una ghirlanda
e aver camminato nelle processioni.
E vestita a festa ascoltavo
i fiati trionfare in chiesa,
di lato i santi hanno visto il mio stupore.

Non conosco fuga, non ho mai ripiegato le mie radici,
ma qui, dentro i paesi delle mie genti conosciute,
dentro questo tempio dei valori educati
e delle molte solitudini, vicine di casa,
io sono in esilio.
In mezzo agli alberi, dentro l’erba, sotto i fiori,
io sono la zolla staccata dei campi coltivati.

Questo luogo ha partorito la mia vita
e la mia storia non ripeterà più tale giorno.
E come manca il tempo dentro i rosari, sono assente,
dal gesto umile delle mie genti inginocchiate.

 

Ora io caro norbert, ho raccontato  un giorno all’ospedale il mio male di vivere,
l’ho raccontato in dialetto pusterese e chi ascoltava, per gentilezza mi riponeva domande
dentro a una grammatica poco frequentata. Italiano di scuola,
poche ore alla settimana per giustificare una cittadinanza non voluta,
aggiungo, non meritata.

Assurdo conversare il nostro, rimane il male di vivere
per un colloquio irrisolto per forma e tonalità.

E dunque, giovane kaser, alla letteratura sudtirolese, a quella altoatesina
va il merito di essere ciò che è per natura, un nome composto di lingue diverse.
Nostra letteratura è il melo, il suo ramo d’innesto,
la pianta in sviluppo sul callo cicatriziale di un’ibrida alleanza politica.
Kein schöner Land, noi siamo chimera alpina.

E tu caro norbert, parlavi di letteratura che nessuno sa, non in questo luogo bizzarro.
Porgimi l’orecchio, ho da dirti che Prima Letteratura è la mia quotidianità,
baraonda di pensieri da depositare lentamente negli scaffali delle lingue.

Roberta Dapunt

 

NdR: qui, sempre su Nazione Indiana, si parla dell’antologia “rancore mi cresce nel ventre.” del poeta

Costruire antifascismo oltre l’emergenza

Di
andrea inglese
-
14 Febbraio 2018
2

 

di Gaia Benzi

Siamo messi più o meno così: negli scorsi anni di fascismo si parlava come di una cosa morta e sepolta, l’antifascismo sembrava essere superfluo e fuori moda, e dominava la retorica degli “opposti estremismi”; oggi le imprese fascioxenofobe dei militanti di estrema destra hanno conquistato le prime pagine dei giornali, con un effetto cassa di risonanza che non si capisce quanto sia voluto, e quindi criminale, e quanto sia solo incosciente idiozia. Il dibattito pubblico è schiacciato sugli ultimi eventi, che si pretende abbiano impresso il segno del paradigma. Tutto sembra essere, come al solito, un’emergenza: l’emergenza democratica, l’emergenza fascista, la conseguente emergenza antifascista. E noi scivoliamo, ancora una volta, lungo la china politica e comunicativa che ci impone il carosello elettorale, e che ormai dovremmo conoscere bene.

Ma il neofascismo non è mai stato un’emergenza: è un fenomeno presente da anni e da anni denunciato, con costanza, da pochi. Trattarlo come tale rischia solo di dare vita ad analisi sbagliate che, se da un lato ingigantiscono il problema, dall’altro non arrivano a comprendere come e dove esattamente il neofascismo stia davvero mettendo radici. Siamo stati chiamati a prendere parte, e ci siamo riscoperti partigiani; ma per costruire argini alla barbarie, forse, la prima cosa da fare è proprio rifiutare la logica emergenziale di questa chiamata, non accontentarci più di rispondere agli stimoli esterni e iniziare ad elaborare, invece, strategie di lungo corso.

Parto da me e dalla mia esperienza, mettendo sul piatto qualche spunto di riflessione. Sono nata e cresciuta e attualmente vivo in uno dei quartieri apparentemente più neri di Roma, l’Appio Latino, scenario che ha fatto da sfondo alla famosa, lugubre e annuale sfilata commemorativa di Acca Larentia il 7 gennaio, con tanto di saluto romano a congedo. Quando esco dal portone sono circondata da svastiche e celtiche e scritte in fasciofont, prodotto delle sezioni dei vari partitucoli neofascisti della zona. E ogni giorno provo, in questo scenario di svastiche e celtiche, a fare politica insieme ad altre e altri, parlando di accoglienza, mutualismo e solidarietà. Forse come curriculum non è granché, ma un paio di cose mi sento di dirle.

Innanzitutto, ci tengo a dire che, persino nelle loro roccaforti, i fascisti veri e propri, cioè i militanti delle sezioni dei partitini fascisti, sono ancora pochi. Sempre troppi, certo, ma ancora pochi. I loro asset principali sono i soldi e il tempo da perdere, oltre a una notevole dose di fanatismo. Se oggi vediamo aumentare i loro simpatizzanti è perché da almeno dieci anni stanno investendo con ampiezza di mezzi principalmente in due settori: la legittimazione culturale, e il reclutamento dei giovani. Un lavorio costante, sottotraccia, che ha saputo fiutare il vento nero dell’Europa di questi anni e spera ora di cavalcarlo, cosciente che la destra, anche estrema, è elemento appetibile soprattutto per le nuove generazioni: l’unica facile alternativa di ribellione in un panorama dove ogni alternativa sembra aver cessato di esistere. Un decennio – o forse di più: un ventennio, un trentennio – in cui nel frattempo la sinistra istituzionale scompariva e quella di movimento veniva massacrata in tutti i modi possibili e immaginabili, e ridotta a un lumicino.

E così, mentre l’antifascismo era sempre meno attrattivo, sempre più appannaggio di gruppi ristretti “ancorati al passato”, e veniva delegittimato nel discorso pubblico, il fascismo diventava cool, e al giorno d’oggi può capitare di sentirsi dire da uomini e donne di sedicente sinistra (intellettuali, giornalisti, persino scrittori) che “questa cosa se la fanno i centri sociali non mi interessa, se la fa CasaPound sì”. Ormai il fascismo è “di moda”, come scrive giustamente Raimo su Internazionale.

Ma anche se apparentemente ripuliti, anche se ancora attualmente pochi, i fascisti restano comunque pericolosi. Non sto qui a fare l’elenco delle aggressioni degli ultimi anni, che fortunatamente sta circolando da giorni nella mediosfera italiana – e che ogni tanto sarebbe carino fosse ripreso pure dai giornalisti che ospitano questi “democratici figuri” nei loro studi. Mi limito, ancora una volta, a ciò che conosco, all’Appio Latino, dal quale partivano le macchine cariche di minorenni dirette verso i quartieri multietnici di Roma per i cosiddetti banglatour, veri e propri riti di iniziazione fascista. I banglatour sarebbero i pestaggi collettivi, avvenuti a partire dal 2013, di immigrati provenienti dal Bangladesh, individuati sulla base di criteri etnici, scelti in quanto poco robusti e poco inclini alla reazione fisica e alla denuncia. A dimostrazione del fatto che le aggressioni su base etnica non sono cosa recente, e anzi vanno avanti indisturbate da tempo: la punta di un iceberg fatto di intimidazioni quotidiane, in particolare tra le studentesse e gli studenti delle medie superiori, tra le straniere, i neri, le trans, i “diversi” di ogni sorta.

A un quadro siffatto va aggiunto il clima del paese, dove il lessico e la postura fasciste sono ormai sfacciatamente sdoganate, e la xenofobia è diventata senso comune. Un clima alimentato ad arte dai nostri governanti, che nel fomentare le destre e i loro argomenti trovano un facile espediente per deviare la rabbia sociale. Ed è in virtù di questo clima se ora i fascisti, noti vigliacchi, si sentono legittimati ad alzare la testa.

Un doppio binario che, pur con i suoi intrecci e la sua complessità, va tenuto ben presente da chi pratica l’antifascismo. Sorgono manifestazioni di protesta dopo anni di silenzio – e che si diffondano e si moltiplichino ogni giorno di più. Con la consapevolezza, però, che l’antifascismo tradizionalmente inteso come contrapposizione diretta e scontro frontale potrebbe non essere più sufficiente.

Me ne accorgo quando incontro le persone per strada, durante i banchetti o la distribuzione di volantini, e cerco di instaurare con loro un dialogo fatto in verità soprattutto d’ascolto. Ogni volta c’è chi si ferma a chiacchierare, a inveire, chi si lamenta, chi ti manda affanculo, ma comunque si finisce a parlare, e ogni volta mi rendo conto con rammarico che le parole d’ordine dell’antifascismo fanno riferimento a una tradizione politica che, per varie ragioni, non esiste più. Per questo anche le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, “d’impatto”, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come “guerra tra bande”. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno.

In generale, il limite più grande sul quale sento di fare serena autocritica riguarda la natura stessa della risposta antifascista, che sempre più spesso si configura come rincorsa sui loro temi, presa di parola ex-post, viene cioè dopo qualcosa che i fascisti fanno, nel tentativo di recuperare il terreno perso mentre continuavamo a dividerci in micropartiti e aree politiche, indebolendo così le nostre stesse file. Tenendo a mente il doppio binario di cui sopra, e il fatto incontrovertibile che le manifestazioni prima o poi finiscono, e bisogna tornare a casa, mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi.

Una volta ho sentito dire da un compagno molto più in gamba ed esperto di me che “se vuoi fare antifascismo nel quartiere, apri una palestra popolare”. Molte realtà nate dal basso riescono ad operare in contesti difficili (leggi: periferie abbandonate a se stesse, territori dell’estrema destra, territori di mafia) perché interpretano l’antifascismo su un piano sociale e culturale – che poi è lo stesso piano su cui stanno investendo loro. Le iniziative di piazza – e i pranzi meticci, gli incontri pubblici, le passeggiate della memoria, i forum partecipati, le assemblee aperte, e chi più ne ha più ne metta – hanno quasi sempre al centro i bisogni di chi abita il territorio in cui si svolgono, e aspirano a coinvolgere le persone normali, non politicizzate. L’obiettivo è quello, a partire dai problemi e dalle necessità comuni, di ribaltare il discorso delle destre, e individuare cause diverse da quelle propagandate solitamente (gli immigrati, ad esempio, come fonte di ogni male). In queste occasioni magari non ci si pone esplicitamente contro i fascisti, ma ci si batte per qualcos’altro, e si mettono in circolo anticorpi al fascismo dando spazio ad altri modi di vedere il mondo.

Soprattutto – e forse è questo l’aspetto più importante – sono momenti in cui si riprende parola apertamente e pubblicamente, e si fanno emergere le alternative al discorso culturale fascista o ur-fascista che già ci sono, esistono e operano quotidianamente. Alternative molto più presenti e diffuse delle strutture fasciste, e che a differenza di queste non trovano mai spazio sui mezzi d’informazione mainstream.

Sono un’intercapedine nel discorso pubblico razzista e frammentato, spesso allergico a qualunque proposta portata avanti su base identitaria di contrapposizione frontale al fascismo e alle destre. Sono tentativi di parlare alle persone e di far parlare le persone tra loro, costringendole a incontrarsi per strada, coinvolgendo anche chi crede che i migranti ci levino il lavoro e i soldi, chi pensa che siano un problema concreto, chi straparla di degrado e sicurezza ed è completamente imbevuto della retorica dominante – in una parola: chi non la pensa come noi. È una zona grigia dove ci si sporcano le mani spesso e volentieri, e pezzo dopo pezzo si prova a erodere, come la goccia che scava la roccia, il consenso culturale delle destre.

Credo che, di fronte ai recenti fatti, sia ancora più impellente la necessità di allargare il fronte dell’antifascismo ed elaborare nuove strategie per arginare la barbarie. È un lavoro ancora tutto da fare, e da estendere a quelle categorie – le studentesse e gli studenti, gli uomini e le donne immigrate – che oggi sono vittime privilegiate delle azioni fasciste, per strappare pezzo a pezzo, territorio dopo territorio, con un processo costante e capillare di ricostruzione del tessuto sociale, il terreno culturale imbevuto di solitudine, disagio e intolleranza in cui le destre e i fascisti scorrazzano indisturbati. Costruire, più che distruggere, sembra essere oggi la sfida dell’antifascismo.

 

PS: Nell’Appio Latino, quartier generale di Forza Nuova, ultimamente colonizzato anche da Blocco Studentesco – propaggine giovanile di Casa Pound, negli ultimi trent’anni la destra ha sempre perso le elezioni. Giusto per dire che le apparenze a volte ingannano, e i margini per costruire una resistenza alla barbarie ancora ci sono. Solo, non vanno sprecati.

 

*

 

Gaia Benzi è dottoressa di ricerca in Italianistica e attivista di Scup – Sport e Cultura Popolare. Ha scritto per Micromega, CheFare e Dinamopress.

[Foto: stella in onore del partigiano Paolo Morettini, situata sul Monte Tancia in Sabina, luogo della sua ultima battaglia.]

Due fratelli

Di
mariasole ariot
-
14 Febbraio 2018
1

di Monica Pezzella

La perrera è un cunicolo scuro. Come la gola umida e tortuosa di una grotta, a un certo punto si snoda in due corridoi perpendicolari a un’anticamera quadrata e vuota. Questa stanza ha i muri lisci e lucenti simili a scaglie di metallo e, negli angoli in alto, grate lunghe e strette, spesso intasate da polveri vecchie e ragnatele. Ai tempi in cui la perrera fu costruita, dovevano servire a fare entrare l’aria e lasciare uscire un poco di puzze ed esalazioni malate. È probabile però che già allora dalle sbarre non filtrasse che un vento pesante, carico di ceneri e suoni otturati, proveniente dai carretti e dal forno alle spalle del cubo di pietra.

Dentro, non c’è un posto migliore o peggiore di un altro. Le gabbie sono tutte uguali, perché all’interno non c’è nulla, disposte una di fianco all’altra lungo i corridoi in modo da occupare tutto lo spazio a disposizione. La perrera è come un alveare. Nelle celle tutto ciò che cambia – e cambia a gran ritmo – sono gli inquilini. Vengono, chissà da dove, e se ne vanno, tutti nello stesso posto. Non molto lontano.

In una delle gabbie del lato sud, quelle di fronte all’entrata, da pochi giorni ci sono due nuovi ospiti. Nel viso hanno qualcosa dello spinone e il pelo è duro come stoppa, di un grigio antracite, venuto fuori dal confuso mescolarsi di ciuffi bianchi e neri. Due fratelli.

Santo Ramirez si sveglia tutti i giorni alle cinque del mattino. Non abita troppo lontano dalla perrera. A quell’ora il giorno è ancora sbiadito, qualsiasi sia la stagione, e attraverso gli spiragli delle finestre in legno non di rado si ha l’impressione di scorgere la bocca del forno nel cielo viola, dietro gli strascichi di nubi. Ma è tutta un’immaginazione. L’inceneritore della perrera è una struttura bassa e tozza, un cubo, fatto a immagine e somiglianza della prigione, con una sola, grande bocca scorrevole e cigolante di lamiere. Lo stridìo della porta nel binario è l’ultimo suono vivo, ogni venerdì mattina. E il primo che Santo percepisce dopo essersi tolto i tappi dalle orecchie.

Santo Ramirez lavora alla perrera da tre anni e quattro mesi. I due fratelli arrivano giusto allo scoccare del suo quarantesimo mese di lavoro, in una giornataccia color seppia di fine ottobre.

La prima regola della perrera è “un cane per cella”, ma due celle vuote quel giorno non ci sono, perciò i due spinoni finiscono insieme nella stessa gabbia, ad annusare l’aria stantia con le barbe una di fianco all’altra infilate tra le sbarre.

Dopo aver chiuso la porta della cella, Santo strappa un foglio giallo e umido che per una notte è rimasto affisso su una sottilissima striscia di muro tra quella gabbia e la gabbia adiacente. Sul foglio c’è scritto: “In famiglia”. Significa che qualcuno è venuto a prendere l’inquilino precedente, liberando giusto un posto per i due fratelli. E per fortuna è giovedì, perché se l’indomani arrivasse il furgoncino con altri cani Santo non saprebbe dove metterli.

È sempre così. Sempre si arriva al venerdì, giorno dei forni, con un sovraffollamento.

Santo Ramirez ha sistemato uno sgabello in legno smangiato contro l’unico fazzoletto di muro libero. Le sbarre delle gabbie tappezzano lo sghembo cubo della perrera come carta da parati, ma il lembo di muro dove Santo ha messo il suo sedile è coperto solo da uno spugnoso strato di muffe, di cui può sentire distintamente l’odore. Gli si attacca al di dietro della camicia e resta infiltrato nelle fibre anche dopo il secondo lavaggio. È l’unico posto libero e Santo è un uomo che si accontenta. Lì seduto può vedere l’uscio che si schiude e si dilata man mano che Abdón ci spinge dentro la gabbia mobile. È una gabbia stretta e lunga, che scorre sopra ruote male oleate e fa un rumore come solo all’inferno. È la gabbia che serve a portare fuori i cani. Ogni venerdì mattina.

Santo rispetta sempre il rito, da tutti e tre gli anni e da tutti e quattro i mesi di perrera. Se ne sta lì sullo sgabello e aspetta che Abdón prenda la gabbia mobile dal deposito e la trascini sferragliando lungo il corridoio. Poi si comincia, in senso orario. Sui fogli attaccati alle sbarre sono indicati i giorni di permanenza di ciascun cane. Mentre percorrono il loro giro nel perimetro quadrangolare, Santo e Abdón si basano su ciò che c’è scritto sui fogli. Se c’è scritto “cinque” o addirittura “sette”, allora il cane va preso.

Qualche cane oppone resistenza e cerca riparo in un angolo giù in fondo, pur sapendo che ripari non ve ne sono. La maggior parte, però, è contenta di uscire, memore dei bagordi della sera prima. Questi ultimi non creano problemi. Con quegli altri bisogna usare il cappio.

Continua

Anni luce

Di
francesca fiorletta
-
13 Febbraio 2018
1

di Francesca Fiorletta

Ecco, con buona approssimazione ho allora compreso cos’è il tiro completo della vita, l’accumulo, il grano messo via nel corso delle stagioni. “Venticinque anni e sembra ieri”, come dicono i malati di nostalgia, e come ovviamente non dirò io.

“Anni luce”, di Andrea Pomella, esce in questi giorni per Add editore, nella collana Incendi, curata da Fabio Geda. E t’incendia sul serio.

Quell’avverbio, ovviamente, è scritto in corsivo, sembrerebbe lasciato lì en passant, e invece così non è. Ovviamente questo non è un libro di memorie, non è un libro di autofiction, non è una storia completamente fantastica, non è un romanzo generazionale, non è un saggio sulla musica grunge, non è il diario ormai non più segreto perché dato alle stampe dell’autore. 

Continua

Sud. Bocca. Grovigli

Di
davide orecchio
-
12 Febbraio 2018
0

di Valentina Formisano

Odio toccare il cibo con le mani.

Sporcarmi oltre il necessario.

Mostrare come mangio.

Ma oggi papà ha fatto le linguine coi polipi.

C’è qualcosa di atavico in questo celenterato a pezzi nel pentolone.

Il sugo è scuro, quasi violaceo, una consistenza acquosa che sa più di brodo che di salsa. È eccitante, quasi volgare.

C’è una pentola apposta a casa mia per preparare il polpo. Una terracotta smaltata. Il coperchio affonda sulle teste degli animali che si arrendono ai bollori.

Carta forno che sbuca dai bordi. È così da quando ho memoria, non può essere altrimenti.

Polipi: animali da congelare affinché le loro carni si sfibrino e siano tenere in bocca. Cotture prolungate in cocci a fuoco lento. Bestie che non si concedono facilmente, pescate di fiocina, battute a violenza, si arricciano a fatica, più ardue degli scogli ai quali s’aggrappano.

Il piatto è enorme e nonostante la ridotta capienza del mio stomaco non lascio che poche ventose morte e qualche pelle di pomodoro.

Ritorno a essere un animale del sud: forchetta che arrotola più del dovuto e dalla bocca un ricciolo capriccioso sbuca, non lo riesco a infilare subito dentro, mi vince, non lo governo, come se fosse ancora vivo, mi sporca un po’ la guancia. Oh…!

Pepe: spezia vietata. Ce la mettiamo quella polvere nera io e papà, come due ladri, di nascosto, come un segreto per essere complici io e lui, portatori di Verità intenti a beffare l’autorità. Ma mamma ci vede lo stesso, fa una brutta faccia. Non dice niente.

Si torna alle origini, nei modi, nelle sensazioni viscerali, nella voracità con cui a questa tavola oggi si consuma il pranzo.

Mi sento nella scena degli spaghetti al nero di seppia del film Via Castellana Bandiera. Una scodella immonda al centro della tavola da cui attingono in tanti: padroni di casa e ospiti si trascinano scie nere in piatti di plastica e mangiano come se stessero partecipando a una guerra. Sporchi in volto, con arie feroci; bambini completamente imbrattati. Il boss di quartiere adesso appare come un lattante dimenticato dalla maestra, con la vergogna spalmata in faccia e i denti neri; un sorriso marcio (invero è marcio da molto tempo prima del pasto). Non c’è dialogo in questa lunga scena ma solo uno sferragliare di posate e rumori di saliva, risucchi e lingue che leccano quella tinta plumbea che fa spavento. Così come in Fuocoammare dove un adulto mangia come fosse un bambino e un bambino impugna la forchetta come un vecchio di tremila anni: succhiano gli spaghetti e sembrano mostri marini, cannibali, divoratori della propria stessa specie. Non vedo l’ora che questa scena termini. Disgustosa. Infinita. Eppure è la prima che mi torna in mente. Lampedusa: c’è qualcosa di intoccabile. Allora comprendo e li lascio mangiare, disgustata e allo stesso tempo benevola. Ho capito.

Un sud magico e ne ho memoria anch’io.

Cento anni fa c’erano i miei zii che mangiavano frutti di mare crudi. Li prendevano dalla grande ciotola piena d’acqua. Li vedevo consumare quell’atto osceno in mezzo a tutti noi, a capo della tavola a cui mangiavano vecchi, donne, bambini. Nonna era l’unica femmina ammessa a quel rito: come una sacerdotessa, per privilegio d’anagrafe, assieme ai più valenti tra gli uomini adulti beveva molluschi dai loro gusci. Succhiavano bestie rosse, molli, purificate dal rito del limone che disinfetta, organismi ancora viventi e mi sono sempre chiesta dove avessero gli occhi quelle masse informi: erano pur sempre animali eppure non mi sembrava affatto.

La natura demoniaca delle creature del mare.

Giallo di Napoli, grigio, bianco lattiginoso, bave, filamenti, schizzi, rumori e ingoi. Erano in pochi a poterlo fare. Serve lo stomaco forte. Una volta mio zio ha preso il tifo.

Certe cose hanno una valenza sessuale. Lo capisci dal modo in cui si mangiano. A quel tavolo, ogni domenica si compiva un baccanale.

Come vorrei essere grande anche io. Sacerdotessa anche io. Vorrei essere ammessa a quella mensa. Ma è evidente: sarò ancora una bambina fino a che non saprò ingoiare molluschi crudi senza vomitare e senza essere tradita da viscere delicate.

Un giorno provai le ostriche. Sembrava di leccare uno scoglio sul quale avesse appena pisciato qualcuno. Decisi di poterne fare a meno e tornai a sedere dal lato del tavolo di quelli che non contano niente.

Adesso il sud è lontano. È lontano anni e chilometri. Nel frattempo ho imparato a prendere il numero giusto di maccheroni, a bere dal cucchiaio senza rumore, masticare a bocca chiusa, a non mettere pane dove non ci vuole. Ho imparato l’eleganza.

Ma oggi è domenica, papà ha fatto le linguine con i polipi.

Ho ingurgitato zampe, sono tornata acqua del Golfo di Napoli, urla nei mercati ittici alle cinque del mattino. Sono tornata chi non sono stata mai, ma il cibo mi chiama, chiama a scendere a patti con la dignità.

E il tovagliolo ripiegato a triangolo su questa tavola è la sola, unica traccia di un’umanità ancora non del tutto dimenticata. Nonostante i polipi, nonostante i miei avi. Nonostante.

***

Nota critica di Antonella Falco
Il cibo come elemento ancestrale. Come rito tribale. Come ritorno alle origini – richiamo di un Sud che si perde nel mito – regressione ai primordi della civiltà. Cultura che antecede la cultura. Il cibo come trionfo dei sensi, carnalità sfrenata, pulsione erotica. Lessico famigliare del pasto, fenomenologia della voracità, antico baccanale del gusto. C’è tutto questo in Sud. Bocca. Grovigli di Valentina Formisano, giovane e poliedrica autrice di origine campana che coniuga la passione per la scrittura con un’intensa attività artistica. Trasferitasi nelle Marche all’età di undici anni, si laurea nel 2013 all’Accademia di Belle Arti di Macerata, per poi trasferirsi a Firenze nel 2016 in seguito al conseguimento di una borsa di studio presso la Fondazione Il Bisonte. Centro internazionale per lo studio dell’arte grafica, dove si specializza nelle tecniche di incisione. I disegni e le xilografie di Valentina Formisano rivelano un talento fuori dal comune ed una personalità anticonformista: la sapiente perizia tecnica, sorprendente in un’artista ancora molto giovane, trova espressione in soggetti non convenzionali, lontani dalle fredde esercitazioni accademiche. C’è vita pulsante nelle opere di Formisano e questo vale tanto per la produzione grafica quanto per quella letteraria. Lo si evince chiaramente nel racconto citato, in cui spicca il contrasto tra l’incipit asettico: ‹‹Odio toccare il cibo con le mani. Sporcarmi oltre il necessario. Mostrare come mangio›› e l’explicit che a partire dal verbo ‹‹ingurgitare›› denota una compromissione con la materia, uno “sporcarsi le mani” e con essi l’accettazione di una storia, di un passato, di una tradizione di cui, infine, ci si riconosce come ultimo anello: ‹‹Ho ingurgitato zampe, sono tornata acqua del Golfo di Napoli, urla nei mercati ittici alle cinque del mattino. Sono tornata chi non sono stata mai ma il cibo mi chiama, mi chiama a scendere a patti con la dignità. E il tovagliolo ripiegato a triangolo su questa tavola è la sola, unica traccia di un’umanità ancora non del tutto dimenticata››. In mezzo vi è la descrizione di quello che un antropologo culturale definirebbe in termini di ritualità e trasmissione di memorie e modelli culturali: ‹‹c’è qualcosa di atavico in questo celenterato a pezzi nel pentolone››. Ma vi è anche il corpo, in tutta la sua consistenza materica, nella sua visceralità, nella sua ferina e a tratti oscena ingordigia. Il corpo di chi mangia e il corpo di chi è mangiato: il loro fondersi nelle bocche avide da cui spuntano piccoli tentacoli ribelli, ‹‹riccioli capricciosi›› che non si riesce a ‹‹infilare subito dentro›› e sporcano di sugo le guance. È quasi una scena pornografica, un amplesso fagocitante, in cui ripugnanza e deliquio orgiastico si fondono assieme, a ribadire ancora una volta il legame antico tra cibo e sesso. Non è un caso che nelle orge dionisiache dell’antica Grecia le baccanti giungessero al culmine dell’eccitazione parossistica addentando vivo o mangiando crudo un cerbiatto, assimilato alla figura di Dioniso. Ogni rito orgiastico è anche una celebrazione misterica: la carnalità trascende se stessa, il corpo immolato e divorato si transustanzia in qualcosa di ulteriore. D’altra parte consumare insieme il medesimo cibo è un atto che affratella, un rituale di comunione, che sancisce la permanenza nel tempo della famiglia intesa come entità metastorica. Il vitalismo insito nella convivialità a tratti truce del racconto partecipa del binomio indissolubile di eros e thanatos e lo conduce ad una sintesi che è pura esaltazione dell’esistere, accettazione della tragicità della vita ma non della sua finitezza, sullo sfondo di un Sud ‹‹magico›› che continua a chiamarci dal gorgo del tempo.

Gli zoccoletti rossi

Di
Giorgio Mascitelli
-
10 Febbraio 2018
0

di Marina Massenz

Nella penombra della stanza, rilassata sul letto, ripensava al loro ultimo viaggio. Erano stati in un paese lontano, un paese d’Oriente.

Un giorno si trovavano in riva al mare; Peter giocava con altri bambini, a tratti si immergeva con maschera e tubo, poi ricompariva. Era da poco passato il maltempo, l’acqua da torbida andava riacquistando la sua trasparenza, il sole spandeva sulla scena una luce inesorabile. Lei era distesa sulla sabbia, ma ad un tratto avvertì un improvviso pericolo; forse i pescecani si stavano avvicinando alla riva, al largo il mare era ancora scuro e burrascoso. Le rive scendevano in quel punto in modo particolare; dolcemente all’inizio, formando delle pozze in cui ai bambini piaceva giocare; poi, poco più in là, improvvisamente, il fondale cadeva a strapiombo, l’acqua acquistava un colore blu intenso che alludeva a grandi profondità.

Si alzò inorridita; vedeva, come se il suo sguardo fosse improvvisamente capace di sondare tali abissi marini, le sagome affilate dei pescecani avvicinarsi, prepararsi al loro balzo felino sui piccoli umani. Allora chiamò a gran voce “Peter, Peter…”, ma Peter quando esplorava non sentiva nulla. Si protese quindi in avanti, distese il braccio il più possibile, il suo corpo si allungò fino a coprire la distanza che la separava dal bambino, l’afferrò per una spalla e lo tirò sulla spiaggia accanto a sé.

In quel momento, arrivò Paul; disse, venite, ho trovato due persone che possono essere per noi ottime guide. Si diressero insieme verso di loro; molto cordiali, l’uomo e la donna pareva conoscessero assai bene il paese. Di fronte alla barca, sulla quale  fino a quel momento era previsto che salissero, lei e Paul provarono entrambi una certa esitazione, un sottile timore; infatti le nuove guide li avevano invitati a seguirle per un’altra strada. Chiese a Paul: “Sei sicuro che abbiamo preso tutto, che non abbiamo scordato nulla?”. Ma dopo poco si tranquillizzò, vedendo che l’imbarcazione sulla quale avevano riposto tanta fiducia altro non era che una tozza scatola di lamiera, per giunta tutta chiusa, senza finestre, che avanzava sull’acqua senza alcuna eleganza.

Loro, invece, avrebbero proseguito diversamente; strane imbarcazioni, in verità… Si accomodarono; la coppia che li guidava in una, Paul e Peter in un’altra. Erano grosse ceste galleggianti. Lei si sistemò ridendo nella borsa di paglia che portava ogni giorno al mare.  Emergeva la sua testa, che osservava il panorama, le braccia, che poggiavano sui manici della borsa, e le gambe, che facevano dondolare gli zoccoletti rossi ad un pelo dall’acqua. Iniziarono il loro viaggio in tutta allegria; le leggere imbarcazioni venivano trasportate dalla corrente per una sorta di via secondaria, una strada di canali verdi e luminosi per i quali si procedeva senza alcuno sforzo.

A tratti lei rideva, perché a volte la cesta girava su se stessa, tirata in un carosello di gorghi leggeri, poi riprendeva il suo percorso ondeggiando come su una giostra.

Mentre le altre due piccole imbarcazioni avevano già toccato la riva, ancora giocava; un’onda le accarezzò il piede, afferrò uno zoccoletto… lo vide affondare lentamente. Si allontanava sempre più, perché nel frattempo l’acqua stava portandola verso terra. Allora si mise a remare con le braccia contro corrente, presa dall’urgenza di riavere la sua calzatura; dopo un po’ di resistenza, il fiumiciattolo cedette alla sua insistenza e

mentre lei affondava il braccio, fattosi di nuovo lungo lungo, la lasciò raccogliere lo zoccoletto. Se lo rimise e subito dopo saltò a terra, dove gli altri la stavano aspettando. Camminavano davanti a lei, che nuda osservava il suo corpo muoversi nel passo elastico, poi vide il suo ventre piatto e il pube. Si fermò affascinata; i peli del pube erano diventati piccoli arbusti, che portavano infiorescenze di diversi colori.

Il giallo, il verde, il rosso  riverberavano luminosi in quel punto del suo corpo.

Chiamò Paul, gli chiese di guardarla; egli si fermò, la osservò e disse che era molto bella ma avrebbe visto meglio dopo. Paul ha paura di perdere le guide, pensò. In effetti le loro guide e Peter tra di loro camminavano veloci avanti. Paul affrettò subito il passo per raggiungerli.

Lei invece si attardò ancora un attimo; si girò verso il fiume, lo guardò con amore, un po’ dispiaciuta di non aver regalato il suo zoccoletto ai gorghi divertenti che lo volevano. Ma non poteva donare a nessuno le sue chiavi segrete.

 

È morto Jack Ketchum

Di
francesca matteoni
-
9 Febbraio 2018
5
Jack Ketchum

di Viola Di Grado

Jack Ketchum

Tra le morti di Ursula Le Guin e Dolores O’Riordan, giustamente celebrate in una marea di articoli, in Italia abbiamo dimenticato la morte di Jack Ketchum. Scrittore controverso, definito da Stephen King “l’uomo più spaventoso d’America”, le sue storie estreme e sinistramente vicine alle storture dell’attualità hanno ispirato un gran numero di film, tra cui The Girl Next Door, la storia vera di Sylvia Lykens, la sedicenne che nel ’65 venne torturata a morte da un intero vicinato.

Appena ho letto della morte di Ketchum, il 29 gennaio, ho contattato il suo consulente management, Turner Mojica, per esprimergli il mio dispiacere. L’avevo conosciuto nel 2011: mi aveva proposto di tradurre The Woman, l’opera più cruda e originale di Ketchum, che a Sundance – nella sua omonima trasposizione cinematografica – ha provocato un’orchestra di grugniti moralistici e indotto alla fuga buona parte dell’audience. Il progetto è poi sfumato: il romanzo, purtroppo, non esiste ancora in italiano.

Io e Turner non parlavamo da anni, ma ricordavo i suoi modi delicati e la passione esuberante con cui si occupava delle opere di Ketchum. Quando gli ho scritto era ancora sconvolto,  stava per prendere un aereo per incontrare la moglie di lui, mi chiese trafelato se volevo leggere, ed eventualmente tradurre, quello che aveva scritto di petto in ricordo di Ketchum, che per lui era stato come un padre.

Mentre leggo il memoriale ritorno con la mente a The Woman, il libro che dovevo tradurre. La trama è questa: un padre di famiglia dal temperamento fascista trova nel bosco una donna selvaggia e la cattura, decidendo di “civilizzarla”, ma in realtà ciò che fa fino alla fine – insieme al figlio adolescente, che lo emula con disastrosa precisione – è abusare di lei in tutti i modi possibili. Il romanzo ruota intorno a una doppia narrazione: in primo piano la violenza esplicita, lampante, dell’uomo su questa donna catturata, e in sottofondo, più sfocata, appena intellegibile, la violenza dei piccoli gesti quotidiani all’interno del microcosmo familiare.

È facile stroncare questo libro: la violenza fa arricciare il naso, accapponare la pelle, soprattutto se a subirla è una donna. Allora si grida al sessismo, alla misoginia, come se invece una delle conseguenze logiche di una società educata alla parità di genere non dovesse essere proprio la libertà di usufrutto creativo di simboli e personaggi al di là del genere, soprattutto se dietro il marasma degli abusi alla protagonista risiede una serissima critica al sessimo ancora dilagante.

In The Woman la violenza è il mezzo eletto per raccontare senza metafore buoniste i danni collaterali di una cultura, la nostra, dove la donna è ancora educata a sottostimare il disagio causato dai gesti di prevaricazione maschili: a conviverci, ad adattarsi alla violenza domestica e sociale di matrice patriarcale come acqua che prende la forma di una brocca.

The Woman

Le vere protagoniste sono infatti la moglie e la figlia del sadico. Belle, casalinga costantemente intenta ad accontentare il marito e contenere i suoi moti di rabbia, che sente l’obbedienza come una vocazione femminile e la sottomissione come il male minore necessario a sventare il pericolo di una violenza maggiore e definitiva. E Peggy, la figlia adolescente chiusa in un silenzio infuso di paura, terrorizzata dal confronto con il padre e dal rendere partecipe gli altri di ciò che accade in quella casa: lei stessa, in uno spazio eliso dal racconto, ha subito un terribile abuso.

La violenza della storia principale serve proprio da lente d’ingrandimento per la violenza della storia secondaria, altrimenti invisibile. Come a dire: bisogna davvero arrivare a uno stupro, a torture fisiche, o addirittura a un femminicidio, perché la violenza contro una donna sia riconoscibile e dunque arginabile? Ci mancano davvero gli strumenti per discernere i conflitti familiari dalla violenza sistematica, unilaterale?

La “woman” del titolo non è in realtà una donna specifica (non è la selvaggia strappata alla natura, né la moglie rimbecillita dal panico, né la figlia preda di innominate sofferenze) bensì la donna come costrutto sociale, come evidenza terribile di un mondo in cui ancora c’è quasi sempre bisogno che il gesto violento provochi un danno eclatante per riconoscere la brutalità e mettersi al riparo. Per fortuna, sul finale, la donna cosiddetta “selvaggia” si vendica e porta con sé dalla casa malefica Peggy e la sorellina più piccola, tenendole per mano.

Di seguito il ricordo di Ketchum scritto da Turner Mojica:

Conobbi Dallas Mayr – questo il suo vero nome – in una riunione di ex alunni dell’Emerson College. Lo spinsero via da un gruppo di ammiratori, per lo più donne, e me lo presentarono. Bevemmo entrambi lo stesso scotch, Dewars con ghiaccio, e io bevvi il suo Winston, il che in seguito sarebbe diventato un nostro rituale. Sentimmo di conoscerci da tempo e il resto della festa scomparve nel nulla. Il giorno dopo ci incontrammo alle 4:30 in quello che lui battezzò “Il Meeting” nell’allora World Café nell’Upper West Side, non lontano da dove viveva. Sapevo già che sarei andato a vivere vicino a lui.

Quando mi stabilii a Manhattan da Boston non molto tempo dopo la laurea, il Meeting divenne parte della mia vita. Scrittori, artisti, attori, intellettuali e operai mescolati nel frizzante flusso di gente del Lincoln Center e degli ABC Studios lì vicino. Dallas mi guidò come Caronte attraverso le sue acque. Gli uomini e le donne che partecipavano diventarono la mia famiglia allargata. Nei primi anni non lessi nessuno dei libri di Dallas, non erano poi così facili da trovare. Finché non mi capitò di imbattermi in “Joyride” da Barnes&Noble. Dovevo fare qualcosa: ce n’erano solo due copie. Decisi di preparare la sua prima cartella stampa. Mi immersi in un tesoro di materiale custodito nel suo appartamento di Broadway, dove conobbi sua moglie Paula e i loro gatti. Lanciai la sua prima grande festa letteraria da Nell’s per “The Girl Next Door”. Quell’evento fu l’inizio delle nostre promozioni congiunte, che per me erano solo scuse per bere, fumare, parlare e ridere insieme. Incontrò ogni amore della mia vita, fu testimone di ogni rottura, vide le mie numerose discese all’inferno. Fu lui il responsabile del mio trasferimento in Italia. “Vai” – mi disse – “esci da qui e spingiti fino in Grecia”.

Mangiammo, bevemmo, fumammo e viaggiammo insieme in dozzine di città in Italia, da Milano alla Costiera Amalfitana, all’isola di Malta e alle spiagge della Costa Rica dove mi trasferii dopo tredici anni in Italia. Diventai quello che definì il suo “idiot bastard son”, da una canzone di Frank Zappa. Indossavo quel distintivo con orgoglio.

Gli mandai un biglietto per farmi visita a Playa Tamarindo per un consulto su una sceneggiatura che stavo scrivendo. Era pallido e aveva un’aria fragile, i suoi occhi erano grigi e non del blu penetrante a cui ero abituato. La sua andatura era lenta ma sorrideva nel dolore. Il caldo gli faceva bene. Era di umore migliore. Il suo cancro in seguito si dissipò.

Lo riportai in Costa Rica per ulteriori lavori sulla sceneggiatura, ma il vero motivo era trascorrere il suo compleanno insieme. Fuggì dall’inverno di New York e fu felice dei nostri progressi.

Mi sentivo pieno di gratitudine ma sopraffatto dal suo cancro che era tornato. Pareva meno grave dell’ultimo, ma sentivo che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto vivo. Durante quel viaggio mi sbriciolai gradualmente e sviluppai quello che lui chiamò “febbre del fiasco”, un terrore nervoso di fallire che per me equivaleva a deluderlo. Ingurgitai una moltitudine di pillole, sciacquandole con bottiglie di scotch, mi prese il male dell’anima, ma Dallas mi guarì. Sapeva che stavo soffrendo. La paura di perderlo era insopportabile. Mi era più caro di mio padre.

“È morto. Sono morto.” Steso sull’amaca, guardo il Pacifico. Scorro Spotify e metto su Tom Waits, “Sins of the Father”, chiudo gli occhi. La musica svanisce mentre percorro i cinquanta passi fino alla spiaggia di Playa Marbella, in Costa Rica. Non sento il calore del sole o della sabbia o il chiacchiericcio degli uccelli. Sono sordo alle iguane che sibilano contro di me e alle onde che mi martellano mentre nuoto. Mio padre era un’anima generosa e gentile, mi ha insegnato cose che non esistono nei libri. Stephen King lo ha definito “un archetipo” e lo era davvero. Altre cinquanta bracciate e mi guardo indietro verso la riva, trattengo il respiro e affondo nella corrente. Mentre vado sott’acqua sento le sue risate. Resto a bocca aperta per poi tornare a riva a stendermi sfinito sulla spiaggia, ridendo. Sento Dallas lì con me sulla sabbia e quest’ondata di ricordi mi riempie di gioia.

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