Home Blog Pagina 153

Per Alessandro Leogrande

0

Domenica 1 luglio 2012.
Siamo nell’ex convento dei Cappuccini di Mesagne. È il secondo e ultimo giorno della Terza festa di Nazione Indiana.
La cittadina che ci ospita porta ancora il lutto per Melissa Bassi, la studentessa uccisa il 19 maggio da una bomba fatta esplodere vicino all’ingresso della scuola a Brindisi, ferendo altre sei compagne scese dallo stesso autobus. A causa della presenza della SCO e al fatto che il bersaglio è un istituto dedicato a Francesca Morvillo Falcone, sulle prime si è pensato alla pista mafiosa. Invece quella strage è un atto di terrorismo individuale.
«Beninteso, “individuale” non è automaticamente sinonimo di “folle”. Potrebbe segnare invece l’irrompere di forme di terrorismo nichilistico-individuale nel nostro paese, un tipo di terrorismo nord-americano o nord-europeo. Si pensi ad esempio a Breivik, l’autore della strage di Utoya, o alla vicenda narrata nel bellissimo libro dello scrittore svedese Gellert Tamas, “L’uomo laser” (Iperborea): si racconta la biografia di un “uomo della porta accanto” che inizia a sparare con un fucile munito di mirino laser contro gli immigrati, colpendo una quindicina di vittime individuate a caso.» Alessandro Leogrande lo scrive a pochi giorni dall’attentato sul Corriere del Mezzogiorno.
Alessandro accetta dunque di passare un pomeriggio con noi “indiani” a Mesagne per ragionare insieme delle molte cose di cui si è occupato: le trasformazioni della Puglia, del Sud e dell’Italia, le mafie, l’inadeguatezza mediatica, la fame di un complesso realismo che impronta il lavoro di molti Narratori degli Anni Zero, inclusi nell’antologia curata da Andrea Cortellessa.
Nella sala c’è l’attenzione di un piccolo convegno, visto che non siamo in tanti. Colpa anche di una grave svista nel far cadere la “Festa di Nazione Indiana” proprio su quel fine settimana. C’è la finale degli Europei con l’Italia che, dopo aver sconfitto la favoritissima Germania, deve giocare contro la Spagna.
Alessandro Leogrande ama il calcio. Lo conosce benissimo, si muove con agio straordinario negli annali di campionati lontani nel tempo e nello spazio. Nel 2010 ha curato un’antologia per “Minimum Fax” intitolata Ogni maledetta domenica.
La domenica sera del 1° luglio 2012 la Nazionale perde 4 a O nello stadio olimpico di Kiev.
Noi a Mesagne siamo tutti nel cortile dell’ex-convento, con gli occhi fissi sul muro che ci serve da sfuocato, improvvisato maxi-schermo. Ci siamo organizzati con pizza e birra come un qualsiasi gruppo di amici o di parenti. È bello ricordarlo così, che s’infervora per un tiro sbagliato, ancora in mezzo a noi, Alessandro Leogrande.
 
Alessandro Leogrande su Nazione Indiana
 

Da Lavoro da fare, VII

0

di Biagio Cepollaro

VII

al ruotare del pianeta l’aria

anche questa volta acquista

in dolcezza: anche quest ‘anno

ci sorprende come un dono

 

si disse che guardato dalla fine

solo l’amore è cosa che val la pena

di realizzare e con ciò non s’intendeva

una situazione ma il modo globale

di fare mondo -dentro standoci- e

in ogni cosa da fare -facendola

 

ma quando tutto questo sta

nel palmo di una mano

ogni cosa mostra suo nome

e sopra tutto oltre la mano

c’è il nulla dell’esser già

passati altrove o in niente

 

è così difficile tollerare questa vista

contare con le dita di cosa è fatta

poi la propria vita

e

nome

per nome

avere coscienza

di questo passare: è la malinconia

che si accompagna all’intensità

del desiderio che quando è sano

ha sempre inizio e fine

 

noi –diceva saggia- andiamo

in giro da sempre a chiedere

l’essere da qualcuno

dall’inizio

dal primo sguardo

a fuoco

di neonato oltre il primo

riconoscimento

a fiuto

e la completezza che cerchiamo

nel darci da fare o nello stare

fermi lasciando avvicinare

è cosa che sfugge in breve:

ogni giorno daccapo cerchiamo

il ciclo al suo ritorno quell’attimo

solo che poggia a terra il piede

e sembra senza peso per potere

andare

 

*

e insomma ora che fare? la scomparsa

dei racconti del mondo in una dittatura

mondiale ci lascia l’uso

solo di una parola

lunga come dura la nostra vita: sarebbe

altrimenti restata sullo sfondo ma ora

è l’unica da svolgere così come di un giorno

si racconta dall’alba

alla notte il farsi

e il disfarsi

di inezie

 

–come il Tao

che chiedeva come può la durata

di farfalla saperne di stagioni

così noi con la storia –

 

(nel Paese

occupato non collaborare con nemico

è ricerca di un’altra lingua pur sempre

parlando nella propria pur sempre

restando comuni –anche se di comunità

privi)

 

siamo in attesa di quel che accade

e forse per questo

stiamo accadendo: ci difendiamo

poco e senza riassumerci

in un motto

avanziamo: le cose

possono anche all’improvviso

avere un nome

nuovo

oppure tranquille

persistere in una loro

faticosa

scorrevolezza

 

di qui il disagio quando si sta

in mezzo a gente

che fa progetti

che fa e non si capisce

per cosa e perché

come uno che manca

per troppa presenza

come uno che non sa

vuota la natura di quella

presenza

 

*

diciamo che siamo stanchi

dei teatrini altrui

e nostri

che piuttosto ce ne stiamo

buoni e zitti

da qualche parte

come chi abituato

a lottare

in un campo

un bel giorno scopre

che il campo

non c’è più

-che questo è accaduto:

la poesia nel Paese

occupato

come in genere la rosa

dei simboli in cui

dice di sé

la vita

non c’è più: ancora

si scrive e si pensa

ancora si fa arte

ma da un’altra parte

(una volta si rifugiavano

sulle montagne

preparando imboscate

ora si sparisce nei monitor

e il bosco è salvaschermo )

 

NOTA

Da Lavoro da fare (2002-2005), Dot.com Press, Milano,2017.

L’immagine, Ibrido digitale n.3, 2008  di Biagio Cepollaro, funge da copertina del libro.

Qui viene pubblicata la parte VII del poemetto che consta di otto parti e un prologo. Lavoro da fare uscì come e-book nel 2006 con la postfazione di Florinda Fusco. L’edizione cartacea del 2017 comprende, oltre all’originaria postfazione, anche i contributi critici di Giuliano Mesa e di Andrea Inglese. Il saggio di quest’ultimo , diviso in due parti, è rintracciabile  qui  e qui. Reazioni, interventi e video relativi al poemetto sono raccolti qui e qui.

Il tramite e il filtro – Sulle erotomaculae di Sonia Caporossi

1

di Enzo Campi

In linea di massima e per quel che mi riguarda, basterebbe dire che quest’opera è costituita da una serie di poesie erotiche o, se preferite, aggiungere un’etichetta di genere: «omoerotiche», e il discorso sarebbe già chiuso. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Non tanto per lo specifico dell’opera di cui qui si vagheggia, ma per il «genere» che, nella maggior parte dei casi, rasenta i territori del risibile e del grottesco. Non è facile destreggiarsi dignitosamente in quest’ambito. Scrivere una «buona» poesia erotica è un po’ come scrivere una «buona» poesia comica. È difficile, tremendamente difficile. Per questo il prodotto che ne viene fuori è spesso scadente, o comunque dozzinale e scontato. Credo che chiunque pratichi questo genere debba chiedersi come sia possibile evitare questa incombenza. Ma vista l’eccedente presenza-a-sé che pervade l’opera, credo che non sia stata questa una delle preoccupazioni dell’autrice, quella cioè di trovare una risoluzione a questa eventualità. Comunque, partendo anche da questi presupposti, si potrebbe aggiungere un plusvalore all’impostazione formale e grafica con cui l’opera si presenta a noi. Perché si tratta, a tutti gli effetti, di una scelta. Le dichiarazioni dell’autrice in tal senso non lasciano adito a dubbi. Si tratta di una raccolta di poesie concepite in un arco temporale piuttosto ampio, compreso tar il 1986 e il 2015, e la cui forma originaria era quella di una versificazione piana e distesa, ovvero lineare. Il corpus testuale originario di queste poesie non prevedeva l’uso di diversi formati, caratteri, dimensioni, l’avvicendarsi, quasi furioso, di corsivi, tondi, grassetti, il ricorso ad apici, pedici, parole barrate, delocalizzazioni spaziali e quant’altro concorre alla forma definitiva che è stata poi fissata sulle pagine. Solo dopo aver deciso di farne un libro le liriche originarie hanno subito una trasformazione, per così dire, sperimentale, avvicinandosi a quello che è stato, da molti, definito come una sorta di manierismo futurista. Ma, al di là di una certa predisposizione intenzionale dell’autrice e di una vicinanza alla fenomenologia visiva futurista, non credo che l’etichetta sia calzante, non completamente almeno. Dico questo almeno per due ragioni. La prima consiste nel fatto che le parole in libertà futuriste non avevano un’impronta lirica e queste poesie, checché se ne dica, sono essenzialmente liriche. La seconda è che il ricorso ad espedienti grafici comunque conserva un andamento ordinato, lineare, decisamente consequenziale, e quindi non entra in un regime di stretta parentela con i vortici tipografici delle parole in libertà futuriste. Certo, se andiamo a soffermarci sulle minime differenze strutturali di costruzione grafico-spaziale possiamo anche trovare testi contenenti passaggi più affini alla strutturazione futurista (p. 57, 58, 62, 104, 133, 138, ecc.). Ma le eccezioni più evidenti sono più che altro di tipo calligrammatico, un po’ alla Apollinaire tanto per capirci, come ad esempio nella poesia denominata “Lacrime” (p.35). E anche altrove, il dispositivo para-calligrammatico si rende funzionale spezzettando una singola parola nelle lettere che la compongono e imprimendola sulla pagina in verticale dall’alto verso il basso, in un processo sinonimico tra concetto e risoluzione grafica, come ad evidenziare, per esempio, una caduta (“colante”, p.141; “pioggia”, p.123; “lacrimare”, p.99, e via dicendo). Del futurismo, classicamente inteso, resta comunque un’eco idealizzata, persiste cioè una vicinanza elettiva, forse rivolta a spiazzare il lettore attraverso una messa in scena egotica/dispotica (di cui vedremo meglio più avanti).
Detto questo si abbisogna di una ripartenza.

“Dove fu così, devo venire”.

La citazione è di Freud, citazione che vado a ri-definire in: “Dove fu così, devo (av)venire”. Mi sembra evidente che la «venuta» cui si accenna abbia almeno una doppia valenza, e che l’avvenimento o, se preferite, l’avvento possa istradarsi lungo diversi e contorti sentieri. Si dice che i sentieri debbano essere battuti, ovvero: praticati. Ma qui c’è la volontà preminente di battersi e di praticarsi nel tentativo di conferire logica formale e ordine concettuale alla venuta e all’avvenimento (“e quando ti sento cercarmi / le mani nella brezza immobile vaganti nel vago di un soffio / la guazza immota di sperma colato / rapprende in saliva alchemica / i nostri frementi e pulsanti torrenti di linfa e parole” [p.59]). E ciò avviene propriamente «a posteriori» , si potrebbe dire col senno di poi. Quindi il nostro “dove fu così” va identificato in quel tempo che è già stato vissuto ma che continua a caratterizzare sia il presente che l’a venire. Tutto ciò che, in arte e in letteratura, rinvia ad un a venire è comunque sintomatico di una progettualità. Ed è così che le singole lettere o le singole parole sono divise in blocchi concettuali dove il significato risiede a monte e il significante invece si configura, a valle, anche a livello prevalentemente visivo.

Perché ho citato Freud?

In quest’opera non si dà un punto d’arrivo, non un solo punto d’arrivo almeno. Sarebbe buona norma quindi concentrarsi sul punto di partenza. Il mio personale punto di partenza consiste in un lapsus che si potrebbe definire freudiano. Quando a Maggio del 2016 presentai quest’opera, in uno degli eventi del Festival Bologna in Lettere, citai testualmente «eteromaculae» invece che «erotomaculae». Comprenderete che, in un’opera dove viene celebrato e idealizzato l’amore saffico, pronunciare la parola “etero” rappresenti una sorta di contraddizione in termini. Ma, al di là dell’aneddotica, non credo che Freud possa assumere il ruolo di referente dell’opera. Forse, con una leggera forzatura, si potrebbe tirare in ballo Lacan, ma solo nei termini del «godimento» del soggetto scrivente verso l’oggetto attraverso il quale si estende o, se preferite (tanto per restare in ottica lacaniana), si estroietta. Il soggetto scrivente è naturalmente l’autrice (con tutte le accezioni di presenza/assenza/essenza che qualcuno potrebbe conferirle) e l’oggetto estroiettato è l’opera che induce l’autrice al godimento. Qui si tratta di «gettare» qualcosa. La gettata di Caporossi, con buona pace di Heidegger prima e Derrida poi, non rappresenta necessariamente un atto liberatorio ma un tentativo d’edificazione. Non tanto l’edificazione di una struttura (che comunque c’è) quanto l’edificazione di una consapevolezza comportamentale, per quanto non ci sia psicoanalisi che possa tenere le redini di una poesia erotica o omoerotica, così come non ci sono un inconscio o un subconscio da far riaffiorare, non necessariamente almeno. Il nostro “dove fu così” è già «venuto» e si è già consolidato.

Come districarsi allora in questa res extensa che erotomaculae mette al lavoro?
O meglio quali sono gli aspetti da evidenziare senza cadere nel tranello freudiano del “dove fu così”?

Si abbisognerebbe, forse, di un’altra «venuta», della venuta dell’altro che guarda da fuori. Un occhio esterno che dovrebbe indagare per poter argomentare, o quantomeno congetturare. E qui c’è da stare attenti a non trasformare l’atto dell’occhio esterno in una pratica voyeuristica, cosa che potrebbe intrigare un Bataille o un Klossowki ma che non sarebbe funzionale alla creazione di un «mezzo differenziale» che sveli, che porti all’aperto, che es-tenda le valenze significanti dell’Eros qui praticato e idealizzato come modus vivendi (“fibrilla il mio impavido peritoneo / sento che danza nell’etere in fiamme / il nostro sacro amor greco di sole” [p.56]).

Di quest’opera, o meglio del suo senso complessivo e della sua particolare ed eccedente «messa in forma grafica» conosciamo i pensieri e le opinioni profuse dall’autrice nel corso delle presentazioni pubbliche e nelle dichiarazioni programmatiche fino ad arrivare a qualche recensione e interviste presenti in rete. Sarebbe quindi pressoché inutile ri-proporre gli aspetti-chiave della strutturazione dell’opera, dalla rivendicazione di una matrice futurista (su cui comunque ho già puntualizzato) ai riferimenti più o meno espliciti a certi canoni della poesia greca antica, dell’elegia latina e del dolce stil novo, dalla presenza fantasmatica di Saffo alle chiare dissertazioni filosofiche su un’esserci che, per quanto sembri consolidato, è sempre da ricercare, e via dicendo.
Per evitare quindi di risultare prolissi e ripetitivi ci toccherà concentrarci su qualcosa di altro e provare ad entrare nelle pieghe di questo diktat sovrastrutturato.
Ci troviamo di fronte ad una serie di esperienze vissute da donna a donna, e consumate quindi con una serie di donne. Il regime è essenzialmente al plurale. Se ognuna di queste donne dovesse essere considerata come una musa ispiratrice: (“come fai a non capire che sei un essere divino / che la materia che ti compone è il punto zero del cielo” [p.101]), ci troveremo al cospetto di una serie di muse. Nell’impossibilità di citare tutti i passaggi significativi che pervadono l’opera, solo un’altra occorrenza che mi sembra, in tal senso, esemplare: “tu aggiungi forma all’informe / come il calco di un riflesso diamantato che rivela accecando […] tu aggiungi parole ai pensieri / modelli le onde proteiformi delle maree cerebrali […] tu aggiungi vita alla vita / tu aggiungi amore all’amore” (p.65).
Con buona pace di Foucault, quella della musa al singolare sarebbe una “linea di soggettivazione” (così come evidenziava Deleuze: “un processo, una produzione di soggettività” [Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Trad. Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 2007, p.17]) perché è fruibile solo dal soggetto scrivente, o quantomeno è destinata a rifluire verso il mittente. E anche la musa di turno vivrebbe la stessa situazione idealizzata in quanto «filtro» per un avvento corporeo e «tramite» per la messa in scena del sé scrivente.
La musa, al singolare, produce Eros solo nell’univocità e nella presunta immanenza di una specifica e limitata temporalità che ad essa è riferita e che con essa è vissuta. Ma non si tratta di una vera e propria produzione, perché l’Eros può darsi solo in un regime di serialità.
L’Eros, in quanto concetto universale (sebbene proiettato verso una continua ri-definizione e, come vedremo più avanti, verso il costante spostamento del suo centro), non può riferirsi ad una particolarità specifica. Se così fosse sarebbe errato chiamarlo Eros perché si ridurrebbe ad un semplice rapporto tra un uno e un altro. L’Eros è, in sé e fuori di sé, plurale.
In una diversa accezione o, se preferite, in una diversa terminologia, un’occorrenza esemplare sarebbe quella di conferire all’Eros una plusvalenza artistica. Come fa giustamente notare Nancy, la musa al singolare non potrebbe esistere perché rappresenterebbe l’arte stessa e non il mondo plurale delle arti (Cfr. Jean-Luc Nancy, Le Muse, Trad. Chiara Tartarini, Diabasis, Reggio Emilia, 2006).
Ci si potrebbe avvicinare così ad una definizione di Eros come arte, o meglio: come un insieme di arti (vista la molteplicità intrinseca della sua essenza). E sembra proprio che l’autrice sia orientata in tal senso, che cerchi cioè di conferire a quest’opera in particolare e all’Eros in generale una plusvalenza artistica: “poesia è il vomito di un istante / l’alleggerirsi scabro di succhi gastroenterici / un dito immerso nell’egolatria / della Musa di turno, / nei suoi affreschi vaginali” (p.8).
Scrivendo “della Musa di turno” è proprio l’autrice a predisporsi in un regime al plurale. Sottintende cioè la presenza/essenza di più muse, e quindi di una serialità. Se si considera che si tratta del testo introduttivo (e quindi di una dichiarazione programmatica) e che il titolo recita: “La funzione postmoderna dell’arte”, il circolo sarebbe già chiuso e determinato. Inoltre, se fossi costretto a puntualizzare, nella poesia denominata “Le figlie di Mnemosine” (pp.28-29), che è, forse, il momento dove l’autrice trova il più alto e intenso valore lirico di tutta l’opera, e che rappresenta un vero e proprio inno, oserei dire giubilante, all’Eros, l’autrice dicevo, attraverso il filtro e il tramite delle figlie di Mnemosine, ovvero delle «nove muse», certifica inoppugnabilmente la pluralità della pratica che contraddistingue l’opera.
Ma l’arte non si nutre di sola liricità o di quelle che l’autrice definisce “prospettive emozionali”. Bisogna fare i conti anche e soprattutto con la carne (non a caso l’autrice, in una intervista presente in rete, dichiara: “Erotomaculae è un libro ancor prima che scritto, pensato in carne e sangue. La sostanza materica che trasuda dalle sue pagine è composta dagli umori irriverenti del corpo e del sesso. È l’istinto omoerotico allo stato condensato, raggrumato, rappreso”), ovvero con la prospettiva materica e con il movimento dei corpi; nel nostro caso specifico anche con il movimento conferito alla scrittura, ai corpi della scrittura.
Difatti talvolta Caporossi sovverte, categoricamente, la lezione di Adorno sulla “discrezione” (“il movimento dei momenti posti in posizione discreta l’uno rispetto all’altro, nel quale l’arte consiste” [T. W. Adorno, Teoria estetica, cura E. De Angelis, Einaudi, Torino, 1975, p.259.]). In molti dei passaggi dell’opera non viene contemplata nessuna tipologia di “discrezione”. La descrizione, drammatizzata, dei corpi al lavoro è, spesso, decisamente sfacciata, quindi esposta ed esibita: “una lucida follia dell’intelletto sopperisce / alla mancanza delle mie unghie morsicate / ti penetra nel culo ti passa tra gli orecchi / ti distrugge la fica come un batocchio tritacarne / il tuo clito in calore mi squarta la pelle dell’anima (p.14)”. I corpi, nel porsi l’uno accanto all’altro, eccedono qualsiasi tipo di discrezione. L’accostamento, per usare le parole dell’autrice, deve accadere e cadere su una linea di pensiero, carne, sperma, amnio, sangue. Devi dirsi e agirsi. Difatti c’è una sacralità, per certi versi, quasi teatrale, o comunque teatralizzata.
Non a caso il riferimento alla caverna platonica è volutamente ambiguo e polivalente. C’è la caverna, casa-di-sé o dell’esserci, ma anche il «filtro» dove il regista Platone con l’escamotage visivo-concettuale delle ombre muove, da sapiente burattinaio, la propria macchina desiderante (il teatrino della vita) usando come «tramite» l’inconsapevolezza dei suoi personali burattini. A questa prima caverna si oppone la “caverna pubica” (p.24) caporossiana, che riprende da Platone solo l’idea che all’interno debba esserci, per così dire, una certa «animazione», che qualcosa (che sia solo un’idealizzazione, una sensazione o la reale tattilità di un corpo poco importa) produca un movimento volto a caratterizzare e ri-definire, per così dire, la messa a nudo dei corpi nel tempio della vita. E l’antiplatonismo, cui talvolta fa riferimento l’autrice in sede critico-esplicativa, è direttamente riferibile, per quel che mi riguarda, anche al fatto di essere lei stessa regista consapevole della propria caverna. Per la norma, non scritta, che due diversi registi non possano avere un punto di vista e una risoluzione comune, Caporossi deve definirsi antiplatonica, perché le sue ombre animate non sono quelle di Platone (passaggi come questi: “Aiutami se puoi / perché Platone ha aperto gli occhi stamattina e dal soffitto / traspariva l’idea di una caverna senza luce” [p.80]; “languo disamorata nella mia maschera virile / canto epicedi tantrici al funerale di Platone”[p.138], possono ritornare utili in tal senso).
Ma, d’altro canto, è conscia del fatto che si può «(av)venire» partendo dal “dove fu così”. In buona sostanza si tratta di assimilare e dimenticare, per poi poterne scrivere e drammatizzare. Per questo la «gettata» caporossiana potrebbe consistere essenzialmente nell’edificazione di una casa-caverna-struttura dove «agitare» e mettere in movimento il lavoro di tutta una vita in senso globale e non una semplice giustapposizione di attimi intensi vissuti e consumati tra un uno e un altro. Come se l’urgenza fosse quella di un vissuto da rivendicare, da un lato attraverso la trasmissione di dati sensibili, e dall’altro lato attraverso la drammatizzazione di un cortocircuito tra corpo e arte, ma anche tra il corpo proprio dell’arte e l’arte del corpo.
Il fatto che l’Eros sia anche una pratica artistica per molti potrebbe essere una cosa abbastanza scontata, ma solitamente (sconfessando la sua pluralità di base) si dà e si consuma nel privato. Renderlo pubblico, cioè estenderlo verso un fuori generalizzato conferisce, al di là dei risultati, un’intenzione artistica.
Ed è anche per questo che si abbisogna di un «tramite» e di un «filtro».
Nel corso di questa disamina abbiamo già incontrato qualche filtro e qualche tramite (l’accostamento oppositivo/riconciliativo tra classicismo e sperimentazione; l’estroiezione di un’anteriorità intesa come flusso e godimento; la produzione di soggettività differita nell’altro, le muse da usare e in cui usarsi, ecc.) e altri ne incontreremo che, seppur diversi tra loro, ci condurranno comunque verso una sola parola: «corpo».
Siamo alla presenza di un linguaggio performativo e insieme informativo, che compie realmente delle azioni e che ci informa su quello che accade (“e il mondo delle api si sveglia, e quello degli amanti va a dormire / ma vibra ancora nelle nostre viscere violente e scarnificate / dal rito d’una lussuriosa dignità l’evacuazione / il latte cagliato e rappreso del nostro istinto animale / di un supremo godimento interinale / conseguito / soddisfatto / e poi sfinito” [p.60]).
Partendo da questi presupposti si potrebbe anche ricercare un «codice», una sorta di scansione ricorrente attraverso i cui termini ri-considerare i singoli elementi in una vera e propria griglia concettuale. Ci toccherebbe quindi stabilire delle frequenze lungo le quali sia possibile trasmettere dati sensibili. Consideriamo queste frequenze come «linee di frattura» e insieme di rinsaldamento. Le terminologie più ricorrenti vanno ad identificarsi in una sorta di tavola dei comandamenti: rosso, silenzio, sangue, amnio, sperma, linfa, latte, fuoco, fonte, fiato, clitoride, spruzzo, umore, lacrime, labbra, ecc.
Ora, se consideriamo ognuno di questi termini come una parola d’ordine, come quelle che Nancy definiva “medaglie verbali”, noteremo che nel decorso del flusso testuale alcuni contesti sono costruiti in uno schema circolare e concentrico, il cui scopo potrebbe essere quello di rifluire proprio verso quella determinata parola d’ordine, verso quella determinata “medaglia verbale”. E questo avviene non solo in un singolo testo ma anche a distanza, come se fosse necessario dislocarsi da corpo a corpo, da testo a testo, rincorrendo i marchi distintivi del proprio status.
Un corpo che agisce e subisce, che dispensa e riceve, che incarna ed escarna sia il soggetto che l’oggetto, un corpo che si fa tramite e filtro sia delle azioni compiute che di quelle mancate, un corpo idealizzato e verificato sia nel cominciamento che nella fine (“là dove affondano le mie labbra / come agnelle spaurite dal coltello del Vate / come due pagine dello stesso libro / che si chiudono per sempre // sulla parola fine” [p.13]).
Nel nostro caso specifico, per estensione del concetto (e tenendo conto che anche le “linee di soggettività” possiedono comunque punti di fuga), la musa al singolare potrebbe essere considerata un Eros idealizzato come pratica salvifica incarnata in sé, e le muse al plurale rappresenterebbero invece l’escarnazione dell’Eros verso altri sé.
Ma risulterebbe comunque semplificativo e riduttivo.
Sarebbe difatti utile affermare che l’incarnazione potrebbe consistere anche nell’atto di toccare l’altro al solo scopo di toccarsi. E già questo sarebbe un primo aspetto sacrificale. Si sacrifica l’altro per sacrificare se stesso proprio nel ritorno-a-sé, anche a costo di fallire nell’intenzione primaria (“E quando abbiamo finito / mi sento ancora più sola. / Consapevole / di non esserti penetrata sotto la pelle. // In tutta l’estensione del tuo corpo, // in tutta la profondità del tuo pensiero. / Avendo fallito / a un solo passo / dal permutare identità. // Avendo perso l’occasione / dell’abbaglio metamorfico / che avrebbe fuso il nostro plasma / in un unico risultato” [pp. 40-41]).
Certo, stiamo parlando di eccedenze, ma per l’autrice sembrerebbe che l’aspetto dell’eccedenza (riconducibile, per certi versi, a quello che altrove è stato definito, di volta in volta, “neo massimalismo” o “realtà aumentata”) sia determinante a definire il suo status.
Per Bataille l’erotismo, in quanto sacrificio, è anche vita mescolata alla morte (“Scoppierei a piangere, / ti abbraccerei fino a farti morire / mentre soffoco di lacrime / sangue animale raggrumato // umore cristallino di ogni vano desiderio” [p.37]). Qui invece – nonostante la citazione, che è comunque idealizzata in una coloritura metaforica – si sostiene, sottotraccia, che l’erotismo sia invece «vita che eccede la vita».
Valga come esempio la poesia “Nel Segno” (p.20) che riporto per intero, la cui chiusa, sempre espressa attraverso metafora, non rappresenta altro che un inno alla “morte che muore”, ovvero alla vita che vive: “nel segno che incide la carne dei polsi / nel prisma iridato che incarna i tuoi occhi // nel battito esangue del fiato che muore / squassando un delirio che affoga parole // io sento il mio istinto assetato di gioco / io vedo il mio fiato forgiato nel fuoco // un significato pretende ben poco / ed altro da sé non ha di che dire // la tua sacra fame mi nutre nel cuore / strappandomi a morsi pietosi il dolore // mi salvi ogni giorno di grazia e calore / io ora contemplo la morte che muore”.
O almeno questo è quello che l’autrice trasmette attraverso quella che si potrebbe definire una gettata di carne (“le tue grandi labbra traboccano bocche di mille baccanti”; “seno bianco di latte fluido di calcio”; “la guazza immota di sperma colato”, [rispettivamente p. 16-25-59]), una sorta di rivelazione illimitata della carne, proprio perché differenziata da corpo a corpo, da musa a musa.
Abbiamo quindi messo a fuoco due diversi aspetti di questo sacrum facere. Naturalmente, una vita che eccede la vita è già, in sé, un atto sacrale e sacrificale, vuoi solo perché ritualizzato. In ogni rito c’è, per così dire, una componente divina (l’allusione all’acqua santa [p. 52] o la presenza ricorrente di un Cristo-Dio [p. 84, 87, 90, 93, 101, ecc.] lavorano in tal senso, per quanto l’uso sia comunque metaforizzato), o meglio una idealizzazione «con» il divino (“io / croce di Cristo fatta carbone da camino / cerco le stimmate sulle mie mani rattrappite” [p.80]).
Nell’usare l’altro per un ritorno-a-sé ci si pone come su di un piedistallo. Ma non è oro tutto quello che luccica. Difatti l’identificazione con il divino (si consideri anche l’accezione più estrema di tale pratica che consisterebbe nella divinizzazione del proprio ego) porta anche ad una perdita-di-sé. E può accadere che in questa perdita prenda consistenza la rivalsa dell’altro, cioè che avvenga un’inversione di ruoli, o che comunque prenda vita e forma un regime di «consegna» dall’uno all’altro e viceversa (“ed io / io / io, solo un giovane Tiresia non ancora accecato dal Sole / ti invoco, amica dei giorni e delle notti // tu mi possiedi, // tu mi hai completamente avvinta” [p.70]).
La pluralità che inneggiamo ad emblema di questa disamina contempla, anche e soprattutto, un regime di riconciliazione, o comunque di compresenza dei contrari. La sacralità dell’atto con cui ci si consegna alla perdita-di-sé nell’altro o all’acquisizione della perdita dell’altro in sé, rappresenta a tutti gli effetti un sacrificio o, se volete, una sorta di divinizzazione (del resto tra l’eccedenza e la trascendenza il passo è breve). Bisognerebbe forse insistere sul «divenire divino», perché tale pratica, se sublimata e quindi vissuta e consumata in un regime d’«intensità», porta alla definizione di uno status d’intoccabilità (lo vedremo meglio più avanti). Potrebbe sembrare un paradosso: una pratica basata, anche e soprattutto, sul «toccare» porta all’intoccabilità. Ma è ciò che può realmente accadere: la sublimazione rende l’artefice intoccabile, e quindi divino. Ci si pone su un piedistallo idealizzato dal quale sia possibile spiccare il salto non verso l’indivisibilità tra morte e vita ma verso la divisibilità del mondo della vita che eccede se stessa creando una dimensione altra in cui è l’Eros a dettare le norme comportamentali.
Che morte e vita rappresentino la totalità dell’essere è cosa indubbia, ma l’erotismo si consuma nella vita proprio vivendola. Ed è proprio questo, per certi versi, il vero aspetto sacrale e sacrificale, quasi religioso, dell’Eros.
Facendo il verso a Bataille, e con le dovute precauzioni, si potrebbe parlare dell’erotismo come “esperienza interiore” dall’aspetto religioso, ma che prescinde da qualsiasi religione precostituita per rivolgersi solo al sacrum facere, ovvero al rituale in cui rivelare i misteri dell’Eros.
L’aspetto sacrale, in quest’opera, si dà attraverso più dispositivi di disvelamento. Per amor di brevità ne enunciamo solo alcuni: la continuità (che è anche ripetibilità, sebbene di volta in volta differenziata), la risonanza (propria del «contatto»), la ridondanza (relativa all’apparato formale), il pervertimento.
Se il pervertimento (si tenga presente l’accezione di tale termine che Barthes conferiva a Bataille) rappresenta anche un rovesciamento o un ribaltamento, la perversione (l’allitterazione ci rinvia automaticamente ad una famiglia etimologica comune), che in esso è inscritta (vi invito a considerare anche accezioni quali per il verso, per il verso giusto, per una [diversa] versione) può permetterci di addentrarci nei meandri di una messa-in-scena o, se preferite, di una certa ob-scenità di fondo.
Secondo la lezione di Carmelo Bene l’osceno è il fuori scena, ciò che si conduce verso la totale estromissione dall’azione. Ma l’ob-scenità di Caporossi non sembra ricercare una vera e propria estromissione, anzi sembra così presente a se stessa che il condursi verso la scena-di-sé potrebbe portarci a ri-definire il concetto di Eros.
“Ob” nella lingua latina è una preposizione e significa “tendere a”, condursi verso”, “porsi di fronte”, in buona sostanza ricercare un «con» o definirsi in un «con». Se mi concedete una forzatura, nella lingua tedesca “ob” è una congiunzione. Significa “se”. Il “se” fa scendere in campo un’ipotesi (che comunque presuppone un antefatto, un qualcosa che viene prima e che potrebbe condizionare l’a venire) ma è la sua natura di congiunzione a rientrare, di diritto, nel nostro specifico.
Questo è uno dei conflitti irrisolvibili che più avanti ci condurranno verso l’intoccabile: da un lato un’eccessiva e ostentata presenza-a-sé (“… e l’impegno di portarmi sempre / questo calvario addosso / questa fellatio esausta delle mie pagine bianche / alla punta fallocentrica polipale / -venature d’inchiostro a filo d’aria- / del mio cosmico, sfottuto, bastardissimo E / G / O” [p.23]) e dall’altro lato la predisposizione ad una congiunzione con un altro (“leccami le ferite / prima che me le bagni il cielo / e poi, / crudemente riposa / il flusso sanguigno / perché io poi ne beva ancora e ancora” [p.26]).
A questo punto, e in tal senso, la scena dell’Eros caporossiano potrebbe anche istradarsi verso la condivisione di un fuori scena come eccedenza della presenza-a-sé «filtrata» da un altro, dalla congiunzione con un altro.
Ma, al di là di eventuali presupposizioni con-giuntive con il «filtro», con l’altro, comunque ciò che resta è la scena. La scena è ciò che viene prima del porsi fuori scena, è l’ipotesi che potrebbe condizionare il risultato finale. Una scena condivisa, ma vissuta nella divisione – e mi si scusi l’iperbole – con il «con». Per puntualizzare un’accezione di questo concetto a pag. 87 possiamo leggere “io temo // la mia conoscenza a te, a voi // la mia conoscenza a me stessa/o / fugge come la lepre sull’orlo del baratro / fugge come presenze benigne nel calderone delle streghe // lègami ti prego ad una immagine di me // fammi restare immobile in un giudizio, in un pensiero”.
Come a dire che non si può sottovalutare l’ipotesi che la congiunzione e la condivisione usino il «filtro» dell’altro per un ritorno – di volta in volta differenziato – alla presenza-di-sé. E questo non è un paradosso, ma ciò che essenzialmente cade e si fissa su queste pagine, anche attraverso il «tramite» di una messa-in-forma, decisamente eccedente, che esalta e consolida la congiunzione di una divisione ri-definita nella pluralità degli espedienti grafici, nel «divenire molteplice» dell’ego scrivente e nell’avvicendamento delle muse.
Ora, depositiamo il ritorno-a-sé nelle pieghe del sottotesto e proviamo ad allargare il raggio d’azione.
Entrambe le categorie, toccarsi e toccare, si offrono come trampolini di lancio verso innumerevoli estensioni. Limitiamoci a considerarle come «tramite» e «filtro» verso l’intoccabile. Non pensate al solito paradosso linguistico da cui attingere linfa vitale o all’aporia del gesto che si ritrae proprio mentre si dà. Non si tratta di questo, non solo di questo almeno (perché comunque in un regime di pluralità anche aspetti cosiddetti secondari conducono alla definizione di un concetto). Colui che dà, che tocca, il toccante, è a sua volta toccato (anche indirettamente se volete) da colui che riceve il tocco. È la natura stessa del contatto tra due corpi ad esprimere e consolidare questo assioma. Così facendo, il gesto originario del toccante perde il suo valore di assolutezza proprio perché è toccato mentre tocca. Ed è in questo preciso momento che si verifica l’intoccabilità. Nel momento in cui si verifica il contatto il nostro toccare si accresce di un significante aggiuntivo e relativo (si legga anche relazionabile) che vanifica il primo significante, quello assoluto. In tal senso, il toccante non tocca il toccato e il toccato non riceve il tocco del toccante. Eppure entrambi si toccano nel contatto. Il contatto sarebbe quindi l’intoccabilità che si verifica solo rinunciando ad una estensione univoca e assoluta da un uno a un altro, solo traslando verso un’estensione biunivoca e relativa tra l’uno e l’altro.
Cosa significa tutto ciò?
Che l’Eros ha bisogno, sia nella sua incarnazione che nella sua escarnazione, di un regime di «complicità», di una sorta di comunione d’intenti, di una forte predisposizione a toccare l’intoccabile, o meglio ad appropriarsi dell’intoccabile dell’altro.
Se ciò avviene si dà Eros.
Così abbiamo già visto, questo aspetto – mettendo a morte il valore assoluto – rappresenta a tutti gli effetti un sacrificio. Osando e forzando, si potrebbe dire che l’intoccabile rappresenti la sacralizzazione dell’Eros attraverso la sublimazione di un contatto sovradeterminato.
Ma oltre al reciproco toccarsi bisognerebbe considerare anche il reciproco sentirsi. Ed è qui che la musa del corpo, della carne, delle viscere lascia il posto alla musa dell’anima, del pensiero. La corporeità cede il passo alla cerebralità.
Per chiudere questa triade ci tocca anche accennare al reciproco vedersi e considerare l’occhio come quell’organo che può toccare, idealmente, il profondo.
Toccarsi, sentirsi, vedersi sono le tre componenti essenziali, direi fenomenologiche e genetiche, dell’Eros. Componenti intersoggettive e plurali, linee intercomunicanti, piani sovrapposti e interagenti. Potrebbero addirittura essere considerate come un unico insieme. Una sequenza come questa “Eros le guarda avvolte di peccato / concludere le braccia e stringersi le mani / sentendo dentro a sé nell’atto di fuggire / il divino urlo di gioia che invoca il suo nome (p.28; i corsivi sono miei)” è esemplare, in quanto la «reciprocità» viene formalizzata proprio nella nostra triade: vedersi, toccarsi, sentirsi; senza tener conto del fatto che l’”atto di fuggire” possa rientrare nel concetto dell’intoccabilità.
Ma, naturalmente, in ogni insieme che si rispetti non bisogna sottovalutare i sotto-insiemi che esso comprende. Al di là della componente del ritorno-a-sé che abbiamo messo a riposo nelle pieghe, ma che rimane comunque sempre attiva sottotraccia, i sotto-insiemi mettono al lavoro l’intoccabilità, l’inascoltabilità e l’inguardabilità, ovvero le fenomenologie che alimentano l’insieme primario rendendolo suscettibile di deviazioni dalla strada maestra e facendo in modo che esso non possa mai definirsi in una assolutezza.
In una diversa terminologia queste fenomenologie, questi sotto-insiemi potrebbero essere definiti distanze. Si tratterebbe quindi di attingere qualcosa dall’altro nella distanza che intercorre tra un corpo e l’altro (“L’unica cosa che voglio / ora / è esitare sulla danza delle tue labbra” [p.41; il corsivo è mio]). Che sia la possibilità di toccarsi o l’intoccabilità, che sia la dedizione verso l’altro o il ritorno-a-sé poco importa. Ciò che conta è per l’appunto la distanza.
Ecco: la distanza è toccabile.
La carne (che non è il corpo, non solo almeno, e questo è proprio l’autrice ad affermarlo) pratica questa distanza, si pratica in questa distanza che è il luogo della «chiamata» all’altro.
Giunti a questo punto, ci toccherebbe aggiungere una quarta categoria ai nostri «imperativi relativi»: il reciproco chiamarsi lungo una linea elettrica, fibrillante che precede il contatto. Qualora fosse necessario puntualizzare con un’altra occorrenza, l’esitazione che sottintende il desiderio e che formalizza la distanza viene ribadita poco più avanti (p.63): “segretamente godere / esitare sulla porta e guardarti ridere”. Ed è attraverso questa linea che vengono trasmessi i dati sensibili dell’Eros. Si può toccare l’Eros prima di incontrarsi con l’intoccabilità dell’altro. Questa linea può essere, al contempo, sia fisica che cerebrale, sia carnale che elettiva. Non ci sono limiti alle possibili combinazioni dei due aspetti (al di là della presenza, come già evidenziato, dei sotto-insiemi) e anzi è proprio nel proiettarsi verso il limite e nel situarsi al limite che si dà Eros.
Non dimentichiamo la correlazione eros-morte enunciata da Bataille che può essere non condivisibile ma che comunque, in sede teorica, è determinante in quanto punto di non ritorno (per quanto Bataille considerasse la morte come “segno di vita” e come “apertura sull’illimitato”). Ma eros=morte significa, sempre e comunque, la morte dell’Eros. Questo concetto individua così il limite dell’Eros. Ma il limite al singolare, in quanto unicità e assolutezza, non rientra nelle nostre linee di pensiero. Bisogna lavorare sui limiti al plurale e considerare i diversi aspetti della reciprocità come l’entrata in campo di una sorta di «concorso di colpa» (beninteso: provate a conferire un’accezione positiva a questa enunciazione, magari trasformandola in «concorso di merito») ove possa avvenire una riconciliazione tra i contrari, tra il tramite e il filtro, tra il toccarsi e l’intoccabilità e soprattutto tra il ritorno-a-sé del toccante e quello del toccato.
Questo concorso di colpa viaggia ancora una volta all’interno di una distanza, quella intercorrente tra l’incarnazione e l’escarnazione che in apertura abbiamo provato a definire, ma che andrebbe di volta in volta ri-definita, vuoi solo per il continuo avvicendarsi delle muse e per il peso che le «distinzioni» formali conferiscono all’opera.
Difatti c’è una organizzazione della forma che risponde a canoni precisi. Questa organizzazione diventa espressiva di un senso a priori, o meglio di una scelta di campo orientata verso quella che si potrebbe definire «distinzione». I vari elementi formali si distinguono gli uni dagli altri nelle varianti tipografiche attraverso le quali si estendono, ma anche nella ri-definizione contestuale delle cosiddette “medaglie verbali”.
Tra un’estensione orizzontale della scrittura e dei segni che la trasfigurano e l’erezione verticale di un significante, talvolta esibito nella sua nudità e crudità, talaltra solo accennato o celato nel sottotesto o nelle pieghe (si potrebbe dire anche nelle fibre nervose della struttura testuale, così giusto per rinsaldare una certa corporeità da cui risulta comunque difficile distaccarsi), in questa doppia linearità, dicevo, si situa e si sistematizza un regime d’enunciazioni sorprendentemente omogenee.
Per quanto eccedenti nella forma che si slancia e si distende, esse sono finalizzate ad una funzionalità quasi rassicurante, ad una progressione che incide sì, ma senza ferire. Non ci sono evidenti lacerazioni o crepe insanabili. Anzi, sembra quasi che l’autrice operi per suture e accorpamenti più che per tagli e disgiunzioni.
All’organizzazione della forma si aggiunge quindi un’organizzazione del testo attraverso ordini semantici e stratificazioni concettuali, anche facendo ricorso a semplici enunciazioni informative (quelle più evidenti risiedono nei titoli attribuiti alle diverse sezioni che compongono l’opera, ma ci si potrebbe sfinire nell’elencare tutti gli indicatori intertestuali che operano in tal senso), il tutto sistematizzato in quella che è la tematica centrale, in quell’Eros che però è sempre (dis)impegnato a spostare il suo centro.
In poche parole la centralità dell’opera risiede in un «centro in fuga».
Al di là degli evidenti registri d’immanenza, se in quest’opera vengono messi al lavoro anche registri di trascendenza, ebbene: essi sono da ricercarsi proprio in questo «centro in fuga», ovvero: nella ricerca – continua e vitale – di un centro da conquistare e in cui situarsi per mescolare le proprie linee di soggettività con quelle dell’altro, anche a rischio di creare delle linee di frattura tra il toccante e il toccato, anche a rischio di generare unità traumatiche nell’enunciazione linguistica di tali fratture. Beninteso, le unità traumatiche non devono essere considerate come un aspetto negativo, in quanto frutto di una scelta ben precisa.
Credo che si possano rilevare almeno due categorie di unità traumatiche. La prima è relativa all’uso di termini inusuali in poesia, quali ad esempio: autoconcupirsi, polipale, ambiforme, biancobracciute, terramaricolo, compossibile, rimbrotto, sinoptiche, criptomelodia, e via dicendo. Checché se ne dica questi sono, a tutti gli effetti, termini cacofonici e anti-lirici. La seconda categoria invece è riferibile allo spostamento dell’Eros verso un’accezione porno-grafica, e ciò è dovuto proprio alla strutturazione grafica e formale.
Se il porno è l’eccedenza dell’Eros in quanto atto esteso, esibito e ripetuto, la grafia attraverso la quale questo Eros si mette al lavoro eccedendo la sua natura, estendendosi verso un fuori, esibendosi come scena-di-sé e ripetendosi, è a tutti gli effetti «porno-grafia».
Si dilata e si contrae. Si fonde, si auto-cancella, si gonfia e si sgonfia. È insieme estesa e invaginata, si protende verso l’alto e poi sprofonda, talvolta sembra quasi imitare i movimenti del coito.
È porno-grafica in quanto esposta alla visione-di-sé.
È visibilmente impegnata ad articolarsi e disarticolarsi, come se fosse alla ricerca della giusta posizione in cui fissare la propria estroiezione. Posizione sulla pagina e posizione corporea. Ma, lo sappiamo, ogni posizione è, in sé e fuori di sé, una deposizione, in quanto trasferimento da un corpo all’altro, in quanto passaggio dalla pratica erotica intima alla visione pubblica della pratica intima.
Checché se ne dica, un atto erotico esibito in pubblico (esposto e deposto in pubblico) è comunque pornografico, una poesia erotica esibita in pubblico (anche solo e semplicemente fissata sulla pagina) è allo stesso modo pornografica.
Se la posizione è un «filtro», la deposizione è il «tramite», attraverso il quale il gesto si estromette da sé per divenire altro-da-sé, per esibirsi nell’eccedenza. In tale ottica l’Eros si trasferisce nel porno attraverso una grafia visibilmente eccedente. Sebbene semplificando e riducendo, cercherò di puntualizzare. La messa in grafia, la porno-grafia di quest’opera ri-organizza il dettato poetico in una sovrastruttura che trascende la struttura originaria. La prima struttura è quella che tende e si conduce all’eros. La seconda struttura trascende l’eros divenendo porno-grafica. Compie l’atto, esibisce l’atto e si esibisce nell’atto. Caporossi crea quindi un piano di correlazione tra i corpi umani e i corpi della scrittura mettendo in campo diverse linee di forza e tentando di operare in quella che abbiamo definito riconciliazione dei contrari.
Come avviene ciò?
Attraverso la creazione di quadri viventi.
Quest’opera, da un certo punto di vista, è costituita proprio da una successione di quadri in esposizione. Si tratta di una vera e propria mostra, classicamente intesa, con tanto di vernissage (“baciando l’epidermide dei miei pensieri sacri / dispersi in nubi amorfe / nel deserto del tuo grembo / restiamo qui, penombre nebulari / impiccate un tempo al giogo del dolore / che ora lecca le ferite dell’interiorità / cercando avidamente, nei sogni silenziosi, / le muta ambiguità di grida sconosciute” [p.11]) e finissage (“sei il giglio che colsi nel fiume che scorre incessante nel greto / sei il senso del mio lancinante non-senso in etereo vagare / sei il sogno che venne una notte e all’alba non volle svanire / sei l’estasi enfatica e santa di un brivido che ancora mi scuote” [p.143]). Senza dimenticare l’evento performativo che si posiziona e si depone nel mezzo, che scandisce le ripetizioni e le differenze spazio-temporali e psico-fisiche del farsi scena come avvento-di-sé.
Questo aspetto del ritorno-a-sé trova anche altre connotazioni specifiche, magari un po’ forzate, ma di cui bisognerebbe comunque tener conto nella possibile impossibilità di incorniciare la raffigurazione dell’Eros, ovvero di conferirgli dei margini all’interno dei quali contenerlo e definirlo. La forma più alta, o più estrema, del ritorno-a-sé consisterebbe nel praticare l’Eros con se stessi. Fare sesso con se stessi, ovvero: masturbarsi.
Al di là del fatto che una delle poesie dell’opera reca come titolo proprio “Masturbazione” (p.19), è questa una fenomenologia in cui il toccante e il toccato, escludendo l’altro, coincidono nello stesso corpo o, se volete, nel pensiero e nell’idea di un corpo che basta a se stesso (non a caso la masturbazione viene definita dall’autrice con il termine “autoconcupirsi”).
Sulla falsariga di questa presunta autosufficienza si potrebbe aggiungere un’altra connotazione, quella dell’androginia (si vedano i chiari riferimenti alle pp. 24 e 90). Secondo i principi dell’orfismo, Eros nasce doppio (Eros-Phanès), metà uomo, metà donna. In sede teorica, in quanto due riunito in uno, non avrebbe bisogno di un altro per realizzare la propria scena erotica e per consumarsi nella propria scena erotica.
Ci sono però altri due aspetti sacrificali di cui bisognerebbe tener conto, e che vertono sulla «mancanza», una mancanza che è propria di entrambe le connotazioni. La mancanza non è tanto quella dell’altro ma il rovesciamento (ricordate il pervertimento di cui si accennava in apertura?) dell’unico vero elemento che permette all’Eros di esistere, ovvero: il «centro in fuga».
Nell’essere un corpo che si basta-da-sé, il centro rinuncia alla fuga e rientra in sé. Continua comunque a moltiplicarsi ma lo fa attraverso un’introiezione e non attraverso un’estroiezione. In tal senso sia la masturbazione che l’androginia corrispondono ad una «invaginazione» della scena erotica.
Ma è anche vero che – estendendo il concetto, e solo per puntualizzare la compresenza o l’accostamento dei contrari – l’uno del ritorno-a-sé funge da trampolino di lancio per la connotazione dell’ennesima pluralità. Se l’idealizzazione dell’androginia trasla sui piani della congiunzione con l’altro, la pratica del trasferimento della sfera erotica non avviene più da donna a donna, ma da una androginia ad una donna (almeno per il momento). Non a caso, se l’autrice afferma: “leccami baciami ama l’uomo che c’è in me” (p.26), vuol dire che non ci sono più solo due corpi a calcare la scena dell’Eros, perché almeno uno dei due corpi è due riunito in uno. Ancora una volta, quindi, siamo alla presenza di un regime al plurale.
Secondo le lezione spinoziane, l’incontro (ocursus) tra due aspetti, due corpi, due cose, due entità produce comunque una terza identità risultante dalla fusione delle prime due. Sempre in sede teorica, l’incontro tra un uno e un altro potrebbe produrre l’Eros e questo, come abbiamo già visto, può avvenire anche attraverso l’appropriazione dell’intoccabilità dell’altro o attraverso la pratica in cui ci si consegna all’altro.
Cioè i due corpi distribuiscono il proprio peso erotico per generare e mantenere una sorta di equilibrio. In tal senso l’Eros potrebbe essere identificato anche come un equilibrio condiviso tra le parti. Ma nel caso di un’androginia comune ad entrambe le parti in causa (che sia idealizzata e/o latente poco importa) come potremo orientarci?
I due corpi anatomici, in questa eventualità, sarebbero formati da quattro essenze, e risulterebbe comunque difficile determinarne peso ed equilibrio. Quando l’autrice, invitando l’altro ad amare l’uomo che è in lei, quando cioè si pone e si offre attraverso la sua componente maschile, non è sicura che l’altro (che è comunque una donna) accetti l’invito con la sua componente femminile. Potrebbe invece darsi anch’essa nella sua componente maschile. Allora l’ocursus non sarebbe più consumato da «donna a donna» ma da «uomo a uomo».
Sempre ricorrendo a Spinoza, in tal caso l’affettività diverrebbe affezione, e la presenza si nutrirebbe dell’essenza, o meglio di una delle essenze dell’altro. E mi sembra piuttosto evidente che il significato (o uno dei significati) della parola “ambiforme”, che l’autrice declina più volte nell’opera, viaggi proprio a cavallo di questa linea di ambiguità e molteplicità.
Ne converrete, la nostra situazione al plurale diventa sempre più complessa e intricata, vuoi solo perché gli atti, performativi e informativi, si moltiplicano a vista d’occhio, accrescendo le accezioni del loro porsi in scena.
La sfida di ogni performance (esposizione, esibizione) è quella di mettere in movimento i dati. In tale ottica, al di là dei gusti soggettivi, l’opera si direbbe riuscita, soprattutto nella veicolazione di un significato globale. Ma la catena dei significanti (quelli sotto-traccia e quelli sovrastrutturati), quelli che precedono i significati, resta comunque volutamente «aperta».
La porno-grafia della sua messa in scena aiuta non poco a confondere e sovradeterminare quello che Derrida avrebbe definito “il tessuto della traccia”.
È questo è un bene. Conferisce all’opera un valore aggiunto e le consente di non esaurirsi dopo la lettura.
Attraverso l’uso del segno, attraverso l’abuso di una traccia, di un’impronta, di un marchio, le poesie – un tempo lineari – vengono ri-configurate e quindi ri-materializzate. È inutile negarlo, siamo alla presenza di un corpo ri-modellato. Il corpo nuovo viene qui presentato, ostentato, installato, messo in piazza, gettato in un «aperto» a cui è possibile accedere con relativa semplicità.
Ecco, la soluzione formale consente un accesso agevolato alla sfera erotica, al contesto saffico, all’idealizzazione di una continuità comportamentale, all’apologia di una contiguità tra il tramite e il filtro, tra le muse come corpi da toccare e le muse come anime con cui condividere non il gesto fine a se stesso ma l’idea stessa dell’eros come eccedenza dei singoli atti (“leccami la sostanza, la forma tu già la possiedi” [p.14]).
Per questo bisogna sovradeterminare la scena, ovvero: porsi fuori scena, ovvero ancora: creare una linea di intercomunicazione tra il fare-scena-di-sé e l’idealizzazione di un modus vivendi in cui l’eros corporeo e cerebrale non può fare a meno della porno-grafia della scrittura che si concede il lusso di traslarlo verso un fuori-di-sé.
E se anche ciò avvenisse vanificando l’ordine oggettivo che dovrebbe ricevere il messaggio e ritornando all’ordine soggettivo che invia il messaggio, sarebbe comunque irrilevante, perché ciò che qui conta è quel fantomatico, plurisignificante «centro in fuga» che non può esimersi di riaprire le danze ad ogni virata di rotta.
In tale ottica non sarebbe una forzatura declinare l’espressione io+tu=io.
La confusione dell’io e del tu, del soggetto agente/scrivente e dell’oggetto che funge da filtro e tramite è prevalentemente indirizzata verso una realizzazione egotica, e quindi dispotica. L’io ordina e dispone, sceglie sempre la carta più alta per illudersi di poter vincere la partita.
Ma la vera partita che qui si gioca non è quella tra l’io e il tu, bensì quella tra l’io e l’eros. Una partita dove l’io è comunque destinato a soccombere. Il toccante non potrà mai essere “discreto” in senso adorniano, anzi sarà costretto a divenire, in un certo senso, isterico. Ed è proprio per questo che il tessuto delle tracce formali (la porno-grafia enunciativa) è riconducibile a quella che Deleuze e Guattari chiamavano “isteria dei segni”: “[…] il segno salta da un cerchio all’altro spostando continuamente il centro e al tempo stesso non cessa di riferirsi ad esso (la metafora o isteria dei segni) […]” (Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille piani, vol.1, p.169, Treccani, Roma, 1987).
Riferendoci a quanto già detto, il centro a cui le enunciazioni ritornano è prevalentemente (ma non esclusivamente) il toccante e non il toccato. Le muse si avvicendano, si sostituiscono. Solo l’eros sopravvive al massacro e perpetua l’estasi sacrificale attraverso linee di fuga, il cui compito non è propriamente quello di correre a perdifiato verso un nuovo punto d’arrivo, ma quello di una ri-proposizione differenziata dell’identico. E l’identico qui non è l’io che basta a se stesso ma l’io deterritorializzato nell’eros. Un eros che, per definizione, non può bastarsi né bastare.
E in tutto ciò dov’è finito il toccato?
Qual è la sua funzione specifica?
È possibile che tutte le reciprocità del toccarsi, sentirsi, vedersi siano solo delle favole?
Come districarsi in tutta questa carne al fuoco?
Non ci sono soluzioni assolute da prendere come assioma. Non ci sono soluzioni relative alla portata di tutti. Del resto ciò che conta non è il praticante ma ciò che si pratica.
L’unico che continua a lavorare è lui: l’Eros.

© Enzo Campi (Reggio Emilia – Novembre 2016)

Era mia madre

0

 di Gianni Biondillo

 

Iaia Caputo, Era mia madre, Feltrinelli, 166 pagine

I rapporti fra Alice e sua madre non sono dei migliori. La prima è una ballerina che vive un’esistenza precaria a Parigi, la seconda è una grecista napoletana, docente universitaria ora in pensione. La madre ha nel suo passato una vita di lotte politiche, di emancipazione sociale e di genere, la figlia sente la rabbia di appartenere alla prima generazione che vivrà in condizioni peggiori di quella che l’ha preceduta.

C’è rabbia, c’è tensione, c’è incomprensione. Ma sono madre e figlia. Questo legame resta indissolubile. E verrà compreso appieno da Alice quando, all’inizio del romanzo, vedrà accasciarsi a terra la madre colta da un malore che la ridurrà al coma. Alice è perduta. Decide di riportare a Napoli la madre per le cure, aspettando l’inevitabile fine. E così, giorno dopo giorno, tornando sui luoghi della sua infanzia, scoprirà quanto poco credeva di sapere di quella donna.

Era mia madre è un romanzo che cerca l’impossibile compito di far dialogare due generazioni in apparenza vicine ma nei fatti attraversate da una frattura epocale insanabile. Tutto il futuro che la generazione precedente ha voluto conquistare è il presente scippato a quella che le è succeduta. Ma durante il coma di sua madre Alice scoprirà che quella donna forte, volitiva, tetragona, aveva altrettante fragilità e debolezze, così simili alle sue. Ché se non si può cercare un dialogo fra generazioni lo si può trovare fra legami che sono più profondi.

La scrittura di Iaia Caputo in questo senso è fatta di movimenti tellurici a basso impatto. Mai colpi di scena rocamboleschi, ma un continuo, incessante bradisismo sentimentale. Questo comporta un controllo della frase ferreo, ineccepibile. Fra nonne, madri e figlie a tutto tondo, le figure maschili appaiono come inconsistenti, egotiche, puerili. Incapaci di sondare l’abisso che c’è in ognuno di noi.

(pubblicato precedentemente su Cooperazione n° 30 del 26 luglio 2016)

La domenica perenne

8

di Mariasole Ariot

 

And should I then presume?
               And how should I begin?
T.S.Eliot

 

 

[Eric Satie – Gnossienne no.1]

Quando il tempo si ferma, si contrae lo spazio in un grumo denso e solido modificato solo dal suono delle campane. Non è un giorno di festa, non è domenica, non è il ricordo dei morti: è solo, semplicemente, un arresto cardiaco che traccia una linea netta sulla fronte.
Siamo saliti sulla montagna più alta per osservare il lago da vicino: gelido, plastificato, una concavità che si trasforma in escrescenza muta come gli animali che ci fanno il giro attorno, e sopra, e beccano la pelle mordicchiandola appena appena.

Ho sognato un agnellino, si chiamava Anacleto, l’ho trovato nel bosco alle tre del mattino. Poi, mi sono svegliata.

Seduti attorno al grande territorio generato dal lago, non avevamo lanterne né fiammiferi per accendere un fuoco. Abbiamo così deciso per congelarci insieme, riparandoci dal vento del nord, con le teste bucate dagli eventi. A volte siamo contenitori, a volte siamo contenuti – e non ce ne accorgiamo. Io sono il tuo contenitore, sono la tasca delle tue frasi accese, tu sei ciò che contengo, un brivido molle, un’assenza in forma di presenza. Tutto quello che non ci diciamo, lo trasformiamo nel linguaggio dei segni: una mano rotea davanti alle fosse degli occhi, un dito indica il petto, poi la sinistra e la destra scoppiano dilatando il mondo.
Significa dire: tutto ciò che abbiamo coricato dentro,  sta per esplodere.

Abbiamo portato con noi dei vecchi manichini, ci serviranno come totem per gli animali delle alture, se riuscissimo a confondere la pelle con il silicone, forse potremmo salvarci, fare della finta una direzione d’intento, disorientare i disorientati. Eppure, ti chiedo: non siamo noi, i primi esserini a essere senza bussola?

Il tempo continua a fermarsi, sono passati tre mesi e ancora sembra estate.
La verità è che non ci siamo mai detti nulla.

Nel secondo sogno è arrivato un uomo arancione, ha cercato di rubare Anacleto, l’ha venduto come fosse un porcospino e ha minacciato di non farmi passare al di là del dirupo.Se è possibile svegliarsi da un sogno, non è possibile svegliarsi dalla veglia.

Così ci siamo divisi. Tu hai portato le bende per fasciarti i piedi, io quelle per oscurare gli occhi. Vedere è uno strazio, un senso troppo acuto che cade da fuori nella gola, e poi scivola all’interno della cassa toracica, brivida gli organi, li mescola uno a uno, scalciano, si spostano, si aggrappano alla carne viva. E’ l’inferno del corpo, quello che ti raccontavo quando restavamo seduti sulla muraglia.

Hai ancora freddo? Le tue gambe possono muoversi?

Se dire non è scrivere, se scrivere non è ancora dire, cosa resta di questo tempo, di questo spazio rallentato in cui le informazioni passano piano tra nervo e nervo, nella camera del cervello? Il filo che avevano cucito alla nascita, come un cordone, collegava la nuca alla mano, permetteva il fluire dell’inchiostro sulla riga, appena fuori dall’unghia.
Ora il polso è gonfio, il liquido che cova all’interno è bloccato: non esce più niente.

Nel terzo sogno il gatto mi ha indicato la zona dei morti . Le due sagome giganti come statue ridevano sul piedistallo. Sant’Antonio da Padova, e uno sconosciuto. Il Santo si è chinato, mi ha detto: abbiamo poco tempo (i morti durano poco) – e ci siamo avvicinati alla cripta.

“Vedi la donna dipinta?” “Sì, la vedo”
“Anamorfosi. Da questo punto puoi vederle i seni, dall’alto il viso, da sotto non vedi niente”
“Come posso vederla intera?” “L’intero non esiste”
“Perché ci sono questi segni blu?” “Un corpo violato. Sono i graffi del re: anno 1215”:

E’ tornato sul piedistallo, ha riso, mi sono accerchiata di dolore. Il gatto traghettatore ha riattraversato la strada, l’ho seguito.
La voce dei morti non è mai abbastanza.

Ora non ci sono più mani: non c’è più il tu che fa di noi un noi. La montagna ci sorveglia – tu nella tua recrudescenza, io nella mia postazione immobile.
Sono costretta a rifugiarmi nella caverna, a mettere pezzi di carne sui bulbi: vedere, ora, significherebbe accecarsi.
Può un bambino fermare il tempo fino a quando il tempo non dà più segni di vita? Può il mondo non avere più mondo? Può lo spazio contrarsi in una coda di verme?

I bambini sanno nascondersi dal temporale. Noi ci limitiamo a dire: piove.

Da “Sedute in piedi”

0

di Giulia Scuro

.

Ventottesima ora di lavoro

Dottoressa, come le ho già più volte
detto, pur con le molte
divagazioni del caso
io sono preoccupata per il mio naso.
Ho paura che la sua sporgenza
sia uno sfoggio di esistenza
e che al vederlo chi è di fronte
pensi a lui come ad un ponte
nella mia direzione,
fatto di binari olfattivi,
alla portata dei suoi incisivi.
Dottoressa, è un delirio
o solo fervida immaginazione?
Mi rassicuri, mi comprenda,
alle prese con l’ammenda
mi sprofondo nelle suole.

La pura superficie

1

di Mario De Santis

“Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti”. Ci accoglie alla fine della prima poesia, questo verso che dice già nettamente qual è uno dei cardini del nuovo libro di Guido Mazzoni. Anche il titolo, La pura superficie, circoscrive un’idea del mondo che i testi, senza aspirare a conoscerlo, tuttavia inquadrano. Usare questo termine preso dalla fotografia o dal cinema serve per dire come lo sguardo del poeta si sposti assieme alle cose che accadono, facendosi cosa esso stesso, e diventi straniante fino ad osservare “la propria vita che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie”.

Calumet Voltaire della Festa Indiana: Afrodite e Immanuel

1

di Antonio Sparzani

come certo ricordate da quanto detto qui, Wolfgang Pauli, il luminare della fisica del secolo scorso, era in ottimi rapporti, oltre che con Carl Gustav Jung, con la sua più stretta collaboratrice, Marie-Louise von Franz. In occasione del trentasettesimo compleanno di lei, il 4 gennaio 1952, le invia, come testimonianza di affetto e di vicinanza, un breve dialogo da lui scritto dieci anni prima, quando si trovava a Princeton, negli USA, per sfuggire ai molti pericoli della guerra che devastava l’Europa. Questo dialogo è stato letto, al Calumet Voltaire del 28 ottobre scorso a Fano, dal sottoscritto, nella veste di Immanuel e dall’indiana Orsola Puecher nella veste di Afrodite. Il testo è il seguente:

La lotta dei generi — Una commedia filosofica

Afrodite e Kant

Afrodite: vorrei anzitutto scusarmi di ricorrere all’aiuto delle parole per comunicare emozioni. Sarebbe certo più gradevole se io impiegassi a tale scopo soltanto carezze; ma ciò, a parte un piccolo numero di casi, non sarebbe gradevole per me. Per questo adopero parole per rendere accessibili le mie emozioni ai pensatori, i quali hanno emozioni così indifferenziate e fanciullesche che, senza carezze e senza parole, non sono in grado di indovinare le mie. . Indubbiamente le parole non sono che razionalizzazioni delle emozioni. Ci fu pur chi, in modo infantile e incosciente, disse “in principio era il verbo” e anche “cogito ergo sum”, mentre all’inizio vi erano naturalmente le emozioni, altrimenti mai sarebbero state trovate le parole e “amo, ergo sum”, e soprattutto mai sarebbero nati i pensatori.

Immanuel: ma v’è pur tuttavia l’ampio campo della scienza, con i suoi metodi classificatori, con gli esperimenti e la logica!

Afrodite: questa è l’eccezione che conferma la mia regola. I metodi scientifici possono essere usati solo nel ristretto dominio in cui non esistono le emozioni umane. La logica è sempre la stessa, sia che a Lei un certo oggetto piaccia o non piaccia, sia che io parli di una piccola mosca o dell’intero cosmo. I metodi scientifici possono anche essere razionalizzazioni di immaginazioni intuitive, ma questo a me non interessa. Quel che invece mi interessa è la loro indipendenza dal valore degli oggetti. In questo piccolo dominio – che mi diletta assai come passatempo, per prendermi un po’ di ferie dalle mie emozioni, cioè dalla vita vera – ci sono espressioni così straordinarie come vero e falso. A parte questa piccola eccezione, che Lei ha appena definito come un ampio campo, non esiste alcuna verità oggettiva.

Immanuel: Satana, Anticristo, non indurmi in tentazione! Non c’è dunque alcun criterio oggettivo per il bene e il male? I dieci comandamenti non sono una verità oggettiva? Non vi è alcuno scritto per il sistema della morale?

Afrodite: Vi sono certo scritti di questo tipo, ma si tratta di razionalizzazioni di emozioni. Ad esempio sta scritto “tu non ucciderai”. Questa è appunto una razionalizzazione dell’esperienza emotiva elementare della “cattiva coscienza” che gli uomini si sono costruiti dopo aver ucciso altri uomini. Queste parole, così scritte, sono necessarie per pensatori baby con emozioni deboli o per uomini malati che sarebbe bene rinchiudere in ospedali piuttosto che in prigione, ma certo non per adulti con sane, chiare e profonde emozioni.

Immanuel: Lei dunque mi spinge in un dominio di completo soggettivismo in materia di fede e di morale. Secondo quanto Lei afferma non avrebbe assolutamente alcun senso la domanda “Perché il signor X non crede in un Dio personale?” oppure “perché la signorina Y è così nazionalista?” Così come nell’ambito dell’amore tra persone non ha alcun senso chiedere “perché la signorina X non ama il signor Y?” Tutto quello che Lei ha dire su questo è che certe parole suscitano certe emozioni in alcuni uomini, mentre ne suscitano altre, o nessuna, in uomini diversi. Se le emozioni di qualcuno non sono sensibili al quinto comandamento “tu non ucciderai”, non ci si può fare proprio niente. La grande idea diventa ora “soltanto” una razionalizzazione che non raggiunge più il suo scopo di riprodurre e guidare le emozioni. “Il signor X non è più guidato dal quinto comandamento, egli ucciderà”. “Nella nazione A le canzoni nazionali richiamano, in grandi raduni di folla, emozioni tali da spingere la nazione ad intraprendere una guerra contro la nazione B.” “Il signor X non può soffrire la comunità e si rifiuta di partecipare alla guerra”. Sono sicuramente tutte realtà emotive semplici e loro razionalizzazioni, proprio come “la signorina X si innamora del signor Y”. Soltanto i pensatori baby si chiedono perché.
Comincio a disperarmi: ciò non avrebbe dunque nulla a che fare con una verità oggettiva, perché riguarda solo sentimenti; devo prendere tutte queste reazioni emotive come semplici dati di fatto. Ci sono soltanto amore, odio ed emozioni, indipendenti e libere, ci possono essere ragioni che li motivano, ma non hanno alcun interesse. Non c’è alcuna responsabilità morale, non c’è nessuno spirito santo!
Tutto questo non mi soddisfa, sento proprio di dissociarmene!

Afrodite: Povero pazzo, non ho mai detto che le emozioni siano libere e indipendenti, anche se nego che esse siano direttamente influenzate dalle idee. I filosofi sensisti dicevano “nihil est in intellectu, quod non antea fuerit in sensu”. Mentre io dico “nihil est in intellectu, quod non antea fuerit in corde”. Le emozioni non sono mai isolate, così come Lei le ha descritte. C’è un legame segreto tra tutte le emozioni del mondo, anche se non viene percepito. Per questo le emozioni sono influenzate da altre emozioni e hanno una vita propria. Esse sviluppano una loro tendenza interna a crescere e a propagarsi, come le piante. Perciò devo far di tutto per unificare, e rafforzare, emozioni diverse, e devo impiegare qualsiasi mezzo per raggiungere questo scopo. La musica, la poesia, lo spirito – e persino Lei. Ammetto che La sto usando, tuttavia non creda di essere altro che uno strumento per tale fine. Lo chiami pure “crescita della coscienza” se vuole, ma non si dimentichi che la coscienza non consiste soltanto di parole, idee e pensieri. Ogni emozione che sia abbastanza chiara, intensa e profonda, di per sé fa crescere la coscienza, senza parole.

Immanuel: Sono ben lieto di vedere che anche una donna usa la logica, e che Lei mi usa. Ma ho ancora molte difficoltà a proposito del soggettivismo morale e le sue terribili conseguenze come la guerra, la fame e la povertà. Abbiamo bisogno di un sistema morale valido in generale, come i dieci comandamenti.

Afrodite: dapprima sono stata rinchiusa nella famiglia e nelle chiese, poi nei libri di filosofia e infine si è cercato di comperarmi per la mia utilità. Ho bisogno del male, della guerra e delle catastrofi per essere liberata. Finché rimango rinchiusa tutto andrà avanti sempre così e le Sue razionalizzazioni saranno inutili.

Immanuel: soltanto in assenza dello spirito Lei non sarà mai liberata ed avrà sempre bisogno di me, così come io avrò bisogno di Lei. Lei stessa è soltanto uno strumento per raggiungere scopi lontani e sconosciuti. Perciò sempre ci saranno amore, matrimoni e bambini. Questi sempre chiederanno “perché?” e “che cosa venne prima, il pensiero o l’emozione?”, il che mi ricorda l’antica scherzosa domanda “viene prima l’uovo o la gallina?”. Quello che davvero venne prima fu qualcosa che era tanto pensiero quanto emozione, e anche intuizione e sentimento, qualcosa da cui origina la radice della vita e dove nascita e morte sono un tutt’uno. Se abbiamo una sufficiente intensità e ci spingiamo a questa profondità, ciascuno a suo modo, Lei vedrà che io sono un’immagine dentro di Lei, così come io vidi che Lei è un’immagine dentro di me. È questo lo scopo del vero matrimonio e ne è anche la causa prima, perché a tale livello di profondità scopo e causa prima sono la stessa cosa. E l’intera morale è racchiusa nella coscienza che ciascuno è un’immagine all’interno di chiunque altro. È vero che questa immagine è soltanto una razionalizzazione della vita, ma è anche vero che la vita è soltanto la realizzazione di un’immagine.

Afrodite e Immanuel: E così per sempre nei secoli!

Note per una critica futura

15

di Biagio Cepollaro

La critica come “esperienza di lettura”.

[Nel 2006 scrissi alcune note nell’intento di mettere a fuoco ciò che per me era l’atto della critica come atto di lettura. Sono apparse poi sulla rivista Atelier, Numero 46, giugno 2007. Tale scritto ha dato  il titolo ai Quaderni di critica letteraria che curai con Andrea Inglese tra il 2007 e il 2010 e che si possono leggere qui.

Ripropongo qui, come materiali, gli undici punti che inviai come stimolo iniziale  agli invitati alla serata dedicata al tema della critica di Tu se sai dire dillo  2014. B.C.]

1.

Cosa vuol dire, leggendo della poesia, fare poi della critica? Cosa vuol dire oggi, in un tempo in cui il testo come entità semiologica, tende ad avere diverso statuto, incalzato dall’oralità secondaria (Walter Ong) della telematica e dall’utilizzo di altri media, diversi dal libro, con relative implicazioni?

Paradossalmente l’esteriorizzazione a cui sembra richiamare il mutamento del paesaggio tecnologico, invita, può invitare, ad una concentrazione maggiore sull’atto di lettura (a monitor, su foglio appena uscito dalla stampante, su pagina densa di libro)…

2.

Le dimensioni a cui un testo poetico allude, il crocevia di informazioni in cui consiste, anche quando si irrigidisce in una pretesa autoreferenziale, anche quando esibisce la sua letterarietà come un luogo atemporale e impermeabile, sono troppo presenti perché sia possibile ignorarle.

Certo, vi sono testi che indicano questa molteplicità di attraversamenti, altri testi che addirittura mimano il caotico sovrapporsi di informazioni, ma il punto è sempre, per chi legge, riuscire ad individuare il punto di vista, la posizione, il contributo di intelligenza che non è calco ma fattura originale dell’autore. Perché dall’altra parte del testo c’è un autore: qualcuno che ha ridotto la molteplicità ad una serie di scelte discrete: ha scelto per noi un lessico, una sintassi, una ritmica. Oppure si può dire che da queste cose è stato scelto. Se si dice in questo secondo modo, la ragione sta nel fatto che si sottolinea la parte non consapevole dell’agire artistico.  Dunque alla fine il paradosso di un agire non consapevole capace di questi attraversamenti molteplici …

E allora da dove origina uno stile piuttosto che un altro? Una selezione lessicale, sintattica, ritmica, piuttosto che un’altra? Il critico dovrebbe, tra l’altro, forse mostrare proprio la necessità di questa riduzione (la configurazione formale): in questa sottrazione di possibilità, tra l’altro, sta il segreto dell’efficacia di quella allusione alla molteplicità di dimensioni …

3.

Le convenzioni letterarie, e in genere, le strutture che permangono nel tempo, riconoscibili socialmente come arte, le fondamenta antropologiche della poesia, sopravvivono attraverso i secoli e le tecnologie, mutando continuamente, non solo nell’utilizzo dei materiali ma anche nelle funzioni.

E così da un certo punto di vista l’oralità primaria delle epoche prima dell’invenzione della scrittura e della stampa, e l’oralità secondaria indotta dalle nuove tecnologie, non spostano nulla di fondamentale per quel che concerne il ‘fenomeno di lunga durata’ che è l’arte o la poesia, in questo caso. Eppure le convenzioni di volta in volta devono essere animate per poter vivere; il rito continuamente deve rinnovarsi come esperienza di qualcuno, anzi come esperienza di più di uno …

Ed è da questo lato, dal lato di chi rinnova il rito, dal lato delle sue concrete circostanze storiche peculiari, che la nostra attenzione si sposta, quando si formula la domanda intorno al leggere, cioè all’uso concreto della poesia.

La critica è innanzitutto un atto di lettura che attualizza, in senso letterale, una ritualità dell’immaginazione e del pensiero. Ma i modi dell’immaginazione e del pensiero sono sempre legati a contesti peculiari: forse è proprio questo lo specifico di una critica che  riemerge come bisogno, bisogno di tratteggiare delle peculiarità .

Chi fa la poesia sente oscuramente che i modi della critica, cioè i modi della lettura, devono rinnovarsi nel rinnovarsi dei contesti … Ogni atto di lettura ripercorre le scelte, le prospettive complessive a partire dalle quali le selezioni (lessicali, sintattiche, ritmiche, metriche etc.) si sono realizzate. Questi punti di vista si ancorano alla radice doppia del dentro e del fuori, della molteplicità degli attraversamenti e delle scelte compiute: tutto ciò va ripercorso accettandone le sollecitazioni, amplificando questo o quell’aspetto dell’insieme.

Rispondere a tali sollecitazioni (di immaginazione e pensiero) significa leggere, ricostruire il punto di vista, significa interpretare: aggiungere una chiave al mazzo delle esperienze possibili.

4.

L’atto di lettura del critico, nella sua imprevedibilità di esperienza, resta comunque un gesto disciplinato. Innanzitutto diventano assai problematiche le classificazioni che veicolano, in modo più o meno implicito, delle ipostatizzazioni e delle ontologizzazioni del testo. Le classificazioni nascono soprattutto dall’esigenza economica di produrre dei segni che abbiano funzione distintiva, ma l’atto di lettura come ‘esperienza di qualcuno, anzi come esperienza di più di uno’, come si diceva nella Nota 3, segue non una logica dell’economia ma una logica della moltiplicazione e dell’amplificazione semantica per risonanza.

Non si tratta, leggendo, di ridurre i molti all’uno ma al contrario di moltiplicare la prodigiosa sintesi in cui consiste il testo, nella molteplicità degli esiti possibili: la ritualità dell’immaginazione e del pensiero è, tra l’altro, proprio questo rispondere del lettore, questo ripercorrere, a partire dalla configurazione formale del testo, le scelte e gli esiti possibili di quelle scelte. Leggere è insomma un lasciar risuonare una chiave provando ad aprire altre porte, già comprese nel testo,  ma ancora silenti. In questo senso il testo importa soprattutto per quel che non dice, non perché non l’avrebbe mai detto, ma perché ciò che ha detto attendeva il lettore per poter esser ascoltato, per risuonare. Ecco perché in una poesia, precisa nella sua configurazione formale, ogni elemento è semantizzato.

5.

In un certo senso la critica negativa non ha motivo di esserci. L’atto di lettura è promessa di esperienza  e l’esperienza che si ritiene non valida, non significativa, è un’esperienza interrotta, morta al suo nascere, come un passo che non segue l’altro. Il critico non ha motivi per censurare, semplicemente smette di leggere. Censurare comporta un passaggio dal piano dell’esperienza della lettura a quello delle razionalizzanti ipostasi del gusto. Questo è il nodo che permette all’ideologia di sostituirsi all’atto di lettura finendo per adulterare l’intero processo.

L’atto ‘positivo’ del critico, come  lasciar risuonare una chiave provando ad aprire altre porte, non abbisogna di sostegni esterni, ideologici, gli strumenti di cui fa uso sono subordinati all’esperienza che va facendo, così come scarponi, corde, e altro necessitano a chi va per monti.

Alla fine della lettura ci sarà ancora il testo e la sua moltiplicazione, la risposta, l’attualizzazione di possibili sensi, mentre nel caso della critica negativa, della censura, il testo non c’è più e vi sono soltanto ribaditi i punti di partenza del critico, le sue convinzioni più o meno sclerotiche, i suoi fantasmi identitari.

L’ascolto di chi legge è già un rispondere se leggere è appunto riattivazione di una ritualità dell’immaginazione e del pensiero.

L’atto di lettura, insomma, o avviene o non avviene. L’esperienza o avviene o non avviene. Ma se non avviene non vi sarà nulla da dire, così come degli innumerevoli eventi di una giornata nessuno fa cenno perché ritenuti non pertinenti.

Il punto non è stabilire, leggendo, dei valori, e delle relazioni tra valori, ma leggere, appunto. La materia del testo in qualche caso non ci abbandona dopo la lettura, noi continuiamo a parlare la nostra lingua ma, in modo appena percettibile, questa , dopo l’esperienza della lettura, risuona diversa.

Quando si dice banalmente che la lettura arricchisce non ci si riferisce a dei contenuti ma all’ampiezza dei toni e delle tonalità di cui siamo capaci . L’esperienza della lettura, come ogni altra esperienza, in misura diversa, coinvolge simultaneamente i livelli mentali, emotivi e fisici: il lettore dovrebbe in questo caso, dopo la lettura, ritrovare in sé un’ampiezza di spettro del pensare, del sentire e dell’immaginare, accresciuta e approfondita.

6.

Il nuovo non è costitutivo del testo ma dell’esperienza che del testo si fa.

Si possono leggere molte volte gli stessi libri perché ogni volta quei libri sono nuovi nell’interazione con il lettore. Il nuovo non è categoria ontologica ma relativa all’esperienza di qualcuno … D’altra parte l’esperienza perché sia tale è sempre nuova.

L’ideologia moderna dell’avanguardia trova uno dei suoi fondamenti nell’ontologizzazione del nuovo così come l’ideologia postmoderna lo trova nella sua negazione. Anche qui alla concretezza delle relazioni, dagli esiti sempre imprevedibili, si è sostituita l’astratta identità di un’ ipostasi.

Quindi il nuovo non sembra ridursi ad un oggetto ma sembra piuttosto essere una relazione di volta in volta imprevedibile.

Tale aggettivo non andrebbe mai sostantivato, reso sostanza: vuol dire cose diverse di volta in volta in contesti diversi. Per un lettore non dovrebbe porsi tale questione: la lettura non cerca il nuovo perché essa stessa in quanto esperienza di qualcuno, se davvero è tale, se davvero riesce a riattivare una ritualità dell’immaginazione e del pensiero, è sempre nuova.

7.

Il detto ‘si fa ciò che si è’, riferito all’arte, può anche voler dire che leggere è sempre un leggere tra le righe. L’extratestuale coincide con ciò che traspare tra le righe, non come qualcosa di estraneo al testo ma come qualcosa che sembra averlo generato; alla fine della lettura sarà il suo senso, anzi, un suo senso. La scelta lessicale, la voce che cova nelle relazioni fonosimboliche, l’intero impianto retorico sono la materia del senso e dei sensi da ricostruire, da ripercorrere.

Le porte che la lettura dovrà aprire sono le porte che alludono all’esperienza dell’autore che la prodigiosa sintesi del testo racchiude, socchiuse.

Più accosto è il movimento della lettura ai passi che il testo compie, più si avvicina il momento in cui si profila il senso, cioè l’esperienza di uno tende a diventare l’esperienza di un altro.

Ricostruire il punto di vista significa interpretare: non abbiamo mai di fronte ciò che un autore è ma sempre ciò che un autore ha fatto. Eppure ciò che ha fatto lo possiamo interpretare leggendo tra le righe ciò che lui è. Credevamo di esserci appiattiti sulle parole del testo, sul testo come insieme di parole, e ci ritroviamo, invece, con un possibile distillato di umana esperienza.

8.

Una poesia, alla lettura, innanzitutto consiste in un insieme di parole collocate e collegate in modo tale da essere riconosciute come poesia, appunto. Il Poetico costituisce l’orizzonte d’attesa della poesia anche se spesso quando la Poesia viene riconosciuta, il Poetico è costretto a riconfigurarsi.

La tautologia che lega Poesia e Poetico non è statica ma continuamente si trasforma al suo interno. Ciò che ieri, in molti casi, aveva funzione politico-religiosa, oggi ha funzione estetica.

Ma si potrebbe anche notare come molta della produzione estetica attuale (non certamente poetica per questione di mancata diffusione, ma massmediale) ha funzione politica e mitologica.  Su questa ultima condizione si è spesso in passato concentrata la critica della cultura, essa stessa, come si è detto, ipostatizzante.

La presunta separatezza della sfera estetica da quella morale, psicologica, religiosa, economica e politica, alimenta uno di quei pregiudizi che hanno caricato la stessa sfera dell’arte di tutto il peso di queste mutilazioni. L’egotismo dell’artista potrebbe essere considerato anche come una conseguenza di questo sovraccarico, quasi a compensazione e a risarcimento della frattura.

La ricerca del nuovo del moderno si è così concentrata, per lo più, sulle parole e sul modo di collocarle e collegarle, più che sul nuovo come una relazione di volta in volta imprevedibile, come una qualità dell’esperienza non mutilata, non relegata alla sfera estetica, salvo il rovesciamento puro e semplice delle poetiche nelle ideologie.

Le avanguardie storiche, tra l’altro, hanno preparato il terreno per ciò che sarebbe diventata l’estetizzazione della vita e della politica: la vita, o meglio, le rappresentazioni della vita, come opera d’arte. L’universo massmediale ha potenziato tecnologicamente in modo esponenziale la forza e la pervasività di queste rappresentazioni, riducendo e standardizzando ma anche offrendo, in qualche caso, stimoli alla ricerca artistica, dal momento che spesso un nuovo medium retroagisce su quello precedente.

Una lettura che legga tra le righe tende a ricomporre ciò che è stato diviso: la logica della moltiplicazione e dell’amplificazione semantica per risonanza aprirà le porte che il Poetico costituito, nella separatezza della sfera dell’arte, tende  a lasciar chiuse.

Leggere tra le righe potrebbe voler dire allora ricondurre il testo alla sua potenzialità morale, psicologica, politica…

9.

Se bisogna essere qualcosa per fare qualcosa, ciò vale anche per il lettore. Un lettore potrà aprire solo le porte del testo di cui in qualche modo, anche solo per un presentimento, aveva la chiave. Conoscere qui è più che mai riconoscere. E la gratitudine del lettore, ad esperienza compiuta, è propriamente riconoscenza.

La chiave in questione non è soprattutto nozione stilistico-retorica. Tale modo di intendere i prerequisiti del lettore sono da ascrivere a quella concezione romantico-avanguardista-postmoderna della separatezza sostanziale dell’arte. La chiave in questione appartiene piuttosto a quel percorso inverso che dalla separatezza porta alla reintegrazione: il leggere tra le righe. Reintegrazione non è altro che ricostruzione di una prospettiva, aggiungere una chiave al mazzo delle esperienze possibili, ricondurre il testo alla sua potenzialità morale, psicologica, politica …, appunto.

Il cosiddetto godimento estetico può essere considerato come un effetto collaterale di questa reintegrazione che è, insieme, cognitiva, emotiva e, in una certa misura, fisica.

Le fondamenta antropologiche della poesia, ciò che della poesia e dell’arte fa fenomeni di ‘lunga durata’, si ritrovano proprio in questo carattere di reintegrazione simbolica. La lettura che si limita all’ analisi stilistico-retorica spesso finisce con ipostatizzare le convenzioni letterarie, rendendo il testo simile ad un feticcio, mentre, come si è detto nella Nota 3, ‘le convenzioni di volta in volta devono essere animate per poter vivere; il rito continuamente deve rinnovarsi come esperienza di qualcuno, anzi come esperienza di più di uno …’

10.

Ricondurre il testo alla sua potenzialità morale, psicologica, politica, tenderebbe a radicare l’atto della lettura nelle fondamenta antropologiche della poesia, riconoscendole pienamente.

Il testo si presta alla lettura come una voce che parla ai molti anche se in pochi o pochissimi ascoltano. Ciò vuol dire che il significato sociale della poesia è costitutivo, non contingente. Ed è puramente una questione quantitativa la cerchia dei lettori potenziali o reali, dal momento che sul piano della qualità, e quindi anche della qualità dell’umana esperienza, i lettori per un testo sono sempre e, sin dall’inizio, una possibilità indefinita nello spazio e nel tempo.

A fronte della reintegrazione simbolica dei piani molteplici dell’esperienza umana, massima promessa che l’arte condivide con ogni ritualità dell’immaginazione e del pensiero, le persistenze egotiche di matrice romantica, relative alla confusione tra individualismo proprietario borghese ed epopea dell’Io, possono anche passare in secondo piano. Così come le lamentazioni sempre pronte a richiedere risarcimenti in termini di fama, se non di danaro, sembrano fraintendere il carattere sociale costitutivo della poesia e dell’arte. Perdendo il senso e il gusto della festa, resta, in non pochi casi, solo l’accumulo dell’amarezza: ciò è davvero un peccato.

11.

Dunque sembra che potremmo scegliere di confrontare, tra le tante, due strade che qui con chiarezza si scorgono: una è quella dell’ estetizzazione della lettura (insistenza sulla separatezza del testo con rischio di asfissia autoreferenziale o sulla classificazione che fa, dei termini distintivi, delle categorie interpretative non sempre rispettose della pecularietà dei testi), l’altra, quella della reintegrazione, che si è chiamata lettura come attualizzazione della ritualità dell’immaginazione e del pensiero che punti alla potenzialità morale, psicologica, politica del testo attraverso la moltiplicazione e l’amplificazione semantica per risonanza.

Nel primo caso l’analisi, più o meno compiutamente testuale, in definitiva ci dirà: ‘il testo si tiene in piedi così e così’, A=A, la classificazione ci dirà:‘questo testo rientra nella categoria,  inventata ad hoc, di testi che hanno le medesime caratteristiche’ e se introduce anche relazioni di valore ci dirà: ‘questo testo è migliore di quest’altro’, A>B, oppure A<B, in caso contrario.

Nel secondo caso, quello della reintegrazione, la lettura, nella sua imprevedibilità di esperienza, nella consapevolezza della molteplice possibilità degli esiti, presuppone che ‘il testo dica qualcosa e lo dica in questo modo’.

Il qualcosa che il testo dice, nell’atto della lettura, è proprio una potenzialità del suo senso, alla cui attuazione concorrono tutti i suoi elementi formali, insieme e grazie, a ciò che il lettore fa leggendo tra le righe: aprire le porte del testo di cui in qualche modo, anche solo per un presentimento, aveva la chiave.

 

Lo spettro dell’amore ossessivo torna a visitarci nell’ultimo romanzo di Emiliano Gucci

0

di Federico Di Vita

Avete presente Lady Midnight di Leonard Coen? La canzone parte con l’ossessiva richiesta di un innamorato (Whatever you give me, I seem to need so much more) cui risponde la sfida della donna (Just win me or lose me / It is this that the darkness is for), per concludersi col perfetto ribaltamento delle parti quando, nell’ultima strofa, è la signora a implorare l’amante (You’ve won me, you’ve won me, my lord), chiudendo un cerchio di desiderio febbrile, in quella che è una sintesi mirabile di uno dei grandi classici della letteratura: la furia d’amore, la fuga, l’inseguimento, il ritorno disperato – del resto a teorizzare che tanta parte delle nostre lettere sia giocata su questo schema è stato Denis de Rougemont ne L’Amore e l’occidente – e basti pensare alla figura di Elena di Troia per capire quanta ragione avesse… in ogni caso, pare che l’antico pozzo non abbia alcuna intenzione di prosciugarsi, e il gorgo dell’amore, usurato ma divorante, continua a far scaturire varianti. L’ultima in cui mi è capitato di imbattermi è la storia raccontata in Voi due senza di me di Emiliano Gucci (Feltrinelli, 222 pp, 16 euro), la cui vicenda è tutta tesa a colmare le distanze createsi in venti anni di lontananza – e di pensiero costante, rimorso, nostalgia – tra Marta e Michele, un tempo coppia invincibile il cui rapporto si è spezzato in seguito a un evento drammatico.

 

Si capisce subito, sin dal titolo, che a raccontare la storia è il figlio dei due, mai chiamato per nome, morto giovanissimo a causa di una disattenzione (o forse qualcosa di peggio) di Marta, mentre Michele si era allontanato dopo un momento di tensione. La morte del fanciullo, così come fecero le sue urla disperate di poppante, sembrano segnare più profondamente la donna, che regge meno lo stress emotivo esplorando spazi di disperazione sconosciuti, l’insonnia le incrina una diga profonda. Michele appare sin dall’inizio più ossessionato invece da lei, da Marta, e dalla purezza del loro irripetibile amore, che anche a distanza di tempo non ha mai smesso di apparire come una Stella polare a cui tendere, alla quale tornare con l’idea (impossibile?) di farla rivivere. La brama cieca di ritorno di Michele fa venire in mente quella della Lupa di Giovanni Verga, alimentata (come a tratti il protagonista del romanzo di Gucci) da una brama erotica cieca e totalizzante.

 

In Voi due senza di me la brace del sentimento brucia sotto le ceneri dei due vecchi amanti, certi amori non si schiodano dalla mente di chi li ha vissuti, di più, dalla tattile memoria del corpo, dagli automatismi animaleschi. Ma è ripetibile l’amore dei vent’anni? Michele vuole credere di sì e per questo torna – a dieci anni di distanza – a cercare Marta, non aveva mai smesso di seguirla, di informarsi su di lei, con derive a tratti da stalker, da maniaco. Ma anche Marta non l’aveva mai dimenticato, e come accade in Lady Midnight anche questo romanzo è costruito attorno a un ribaltamento, articolato nelle due giornate – a distanza di dieci anni l’una dall’altra – nella prima delle quali a cercare l’altro è Michele, mentre nella seconda è Marta a tornare. La specularità anche qui è perfetta: nella prima occasione era Marta a essersi costruita una nuova vita, nella seconda è Michele, che a quel punto ha addirittura un altro figlio.

 

Se parlo di alcuni dettagli della trama lo faccio perché il romanzo di Gucci non vive di questi elementi (gli incidenti della vita dei due protagonisti sono comuni, e tolto il tragico innesco, anzi compreso pure quello, perfino banali – come è giusto che sia: sono in scena sentimenti assoluti in una danza di archetipi millenaria), a tenerlo su sono la delicatezza dello scavo psicologico, la finezza linguistica (esempio: il titolo dei capitoli è costituito dall’attacco della prima frase, in un modo che rimanda alla Vita Nuova di Dante), e le impennate liriche – che si dispiegano in una prosa di cui l’autore non perde mai il controllo –, tra queste vale la pena ricordare almeno le pagine laceranti eppure lievi in cui Michele tenta di riconquistare Marta. Colpisce l’equilibrio che Gucci riesce a mantenere tra la violenza di alcune scene (una rissa tra cani, il ricordo degli ultimi istanti del figlio, il suicidio di un vecchio amico) e la costante felicità del linguaggio, che in un libro giocato tutto sulla dinamica sentimentale non scade mai nel melenso.

 

Gucci ambienta il romanzo a Firenze (tra le boutique del centro e i paesini dell’hinterland), uno sfondo che gioca un ruolo marginale, a volte si ha la sensazione che l’autore vorrebbe caricarlo di significati maggiori ma che poi si trattenga di fronte alla consapevolezza che uno scenario così già visto non possa in fondo ambire, in una storia come questa, che ad un ruolo da fondale di cartapesta. Per sottolineare l’eccezionalità degli incontri allora l’autore ricorre a un altro sistema, è l’aria stessa a colorarsi in modo eccezionale: nella prima occasione di un azzurro soprannaturale, “come ormai non si vede più”, e nella seconda del bianco di un’abbondante nevicata. Queste figure atmosferiche sono di tutto il romanzo forse l’elemento che mi ha convinto meno: la straordinarietà degli incontri e la potenza degli spettri chiamati in causa era tale da non necessitare di null’altro che della sua viscerale potenza (questa evocata magistralmente lungo tutta la tessitura) per continuare, ancora una volta, a far vibrare nel cuore del lettore corde antiche e tremendamente sensibili.

L’originale di Zanotti

0

di Francesca Fiorletta

Anch’io, come tutti, ho il mio elenco di cose che mi fanno paura: la solitudine, poniamo, e gli incendi, i ragni troppo grossi e le stanze troppo piccole, le strade di campagna e i televisori accesi la notte, i sogni di animali compositi e quelli di bambine bionde. Ma niente, davvero niente, mi fa più paura delle nuvole. 

Leggere Paolo Zanotti è come fare una passeggiata fra le nuvole; a tratti possono risultare gonfie, pericolosamente dense e persino lugubri, cinerine, che sembra quasi di non riuscire più a cogliere la fine del cammino, lo spiraglio di sollievo che può regalarti anche solo un caldo raggio di sole, quando appare all’improvviso.
A volte, invece, quelle amiche nemiche nuvole – descritte dallo stesso Zanotti come “dei parallelepipedi più pesanti e artificiali delle automobili” – sanno farsi sfumate, leggiadre e affascinanti, irresistibilmente cristalline come la prosa avvolgente di questa raccolta di racconti. 

Il mondo nuovo

0

di Marina Massenz

Appena toccammo terra, uscendo da una valigia aperta alla dogana, capimmo di essere nel Nuovo Mondo. Dal nostro primo punto d’osservazione, una rientranza del bordo del marciapiede, vedevamo infatti marciare una serrata flottiglia di scarpe da ginnastica. Tutti si muovevano sportivamente.

Con la nostra struttura, fatta solo di scheletro, un asse centrale e diverse ramificazioni trasversali, non ci sarebbe stato facile passare all’operazione “metamorfosi”, così insita nella nostra natura e che sempre ci aveva aiutato in simili situazioni. Camuffarci da scarpe da ginnastica sarebbe stato impossibile anche per noi. Ci suggerì la soluzione la panoramica locale vista dal marciapiede che adottammo come secondo punto di osservazione. La passeggiata mostrava maggior varietà e a suggerirci la soluzione adatta ci apparvero dei sandali. Neri, come noi, con un listello centrale e vari trasversali, erano la forma già in voga in questo Nuovo Mondo che più si avvicinava alle nostre possibilità. Non ci restava quindi che creare quella materia bianco-rosata che univa un listello all’altro e al resto dell’essere in movimento. Attivammo le nostre particolari risorse, senza troppa difficoltà, diventando la forma compiuta adeguata a questo nuovo ambiente e ci mettemmo in moto allegramente lungo il marciapiede, mischiandoci alla flottiglia multicolore. Dai battelli che solcavano il fiume Hudson giungeva ad intermittenza il suono delle sirene, come proveniente dallo sfiatatoio di un immenso polmone rauco.

 

 

Il sogno politico di un’azione poetica: su “Sonnologie”

0

di Gianluca Garrapa

(Se ti pare di scorgere una qualche opacità nella lettura delle poesie di Sonnologie, tale difficoltà di intendere immediatamente le immagini di questa scrittura, è da ascriversi al soggetto-cittadino stesso che ne ritrae in scrittura-contro-politica l’operazione politica della dissocietà del mediale quando cerca di colonizzare l’inconscio con savoir faire subliminale.)

Sonnologie è l’ultima raccolta poetica di Lidia Riviello, postfazione di Emanuele Zinato, edita del 2016 per Zona contemporanea.

Sonnologie, i cui versi qui compaiono in corsivo, procede con un andamento onirico e racconta il plagio globale e l’asservimento mentale dell’individuo comune alla violenza subliminale del sistema socio-politico. La scrittura è un vero e proprio esercizio mentale che pare dire: vedi? È questa la lingua dei sogni indotti dal capitalismo che respiri.

Auto-antologia-6. Giovanna Frene

1

di Giovanna Frene

 

Castore e Polluce, in prospettiva aerea

L’ultima fioritura del corpo sarà                      eterea.

 

Il semprenero sempreverde sbuca e fiorendo                      fiorisce

e s’addice alla sua sorte che il virgulto adduca la sua                      morte.

 

Ma qui quale pietra serba il nome e come nel suo                   progressivo

inceneritosi decedere fissare nell’aria la perenne                      memoria

tra astri alternativamente semprevivi                    sempremorti?

 

La visione veduta offusca la ragione e ovunque                      semina

cecità: per i due occhi spenti insieme, per i due volti gemelli     schiantati

non esiste ulteriore fioritura di mura neppure nel                      vento:

la prima semina fiorì in orbite in orbite fiorì il                      lampo.

 

Se il seme non muore non può nascere la                      pianta

[se noi non moriamo non possiamo essere                      seppelliti]

senza la cassa-bacello nessun                      tempo

di attesa legherebbe i vivi ai                      morti

perché cresca la pianta che non                      muore

il tempo della sospensione deve essere ogni volta                      seminato.

 

Se l’ultima semina seminò l’etere                      fiorito

e non un sasso cancellò l’anonimato stellare del                      fiore

qui rinvigorisce il puro ramo del domani al                      sonno

alterno [eterno, sempreverde, semprescuro,                      inferiore]

e sotto la cenere lo stesso sentimento ovale di un                      momento

scaglia al cielo ingenerato un infuocato furore                      divino.

 

La disapprovazione del germoglio, il consenso del                      seme:

più vicino alla sua lontananza insedia la materia l’orto                 sfiorito:

il tempo corporale fiorendo                      sfiorirà:

la terra schizzata in alto e il prato profondamente                      spostato:

e l’azione carnale totalmente votata alla                      ustione:

il seme bruciato prima della fruttificazione                      apparente:

Nonpenso Nonfaccio & dunque [Corp.]                      Nonsono

 

Risplende lassù nel sonno il                      cielo

anzi è un’orbita vasta per sempre                incandescente

prematura fioritura nell’alto                      osanna            nell’alto

osama os-oris – –

 

(In memoria dell’11 settembre 2001)

Da: Sara Laughs, D’If 2007

 


 

Giovanni dalle bande nere

…la sua propagazione non è l’opera di un istante, non

di qualcuno: che salvaguardia la tecnica e la scarsezza

di merce, lo scopo, indebolisce il mezzo; l’arma contro chi spara è puntata

scarica, solo se chi poi è colpito non si sposta per primo in avanti; si muore

per cancrena, per leggerezza di campo, di corazza, cavalli piccoli; vinti solo dal vinto.

 

si aprono i piedi immacolati delle nuove propagazioni come cammini

da registrare, parti di tre, disarmati: necessario negare il sopra, se sotto; necessaria

se dopo, l’abrasione; dire al monumento che se saldo, crolla, se crollato,

resiste al dispaccio finale che risolve il vuoto come “perché”:

 

è stato risposto che per salvare, perché lo serva e lo salvi, si rivolge

alla fonte della perdita, all’io non concesso, al fine respiro

dello strumento invocato, che precipita

con le mani, non se ritratte, o non volendo; servendosi:

 

come in terra, i nostri nemici sono

piccoli vermi, inermi schegge di colubrina sullo spessore, e sempre

nello stesso gioco non conta non poter vedere, prima che volere;

il cambiare le cose in prospettiva, come invenzione, postazione, circonferenze di età:

 

cerchi la gamba tra le gambe e non la vedi,

nome sottomesso a leggi, da sé vinta,

in sé corrosa.

Da: Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011

 


 

Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità

 ovunque andassi, la gente mi considerava un debole

(Gavrilo Princip)

I.

se anche andassi per una valle oscura, non temerei alcun bene, perché tu sei con me:

se anche andassi a ritroso, ritroverei il corpo esploso, la pallottola

per l’eternità, una pura paternità in prospettiva: in somma, un impero centrale

 

II.

…un proiettile non va esattamente dove si vuole: ma due su due sono un bivio

perfetto, imboccato a ritroso come per difetto, o per eccesso di zelo:

si spinge indietro la macchina fino al punto esatto del suo non-ritorno

 

III.

…devi vivere per i nostri figli: non sembra vero che il ritroso si ripresenti per caso, aspetto

di un gesto grave, vista la fragilità, che afferra al petto, non il posto accanto, vuoto

il vuoto, sussurrato nella corsa del corteo pasquale di famiglia, che ha i suoi Decreti

 [solenni, le sue Astuzie

 

IV.

come la storia: dobbiamo ricominciare tutto daccapo! il ritroso, il secco, lo sconcerto dei

[fiori

raccolto con stizza da chi si accorge che non si tratta di una tabacchiera, torna

indietro per cercare di smettere il calcolare, ma in un tempo incalcolabile

 

V.

…un tipico esempio della barbarie balcanica (…) ma in città non c’è alcun segno di lutto:

un tipico esempio della barbarie viennese, o più che altro europea, ovunque

ci sia musica, nessuno piange a ritroso per più di un quarto d’ora, da sempre

 

VI.

come sempre vivere attentamente in perenne mobilitazione, anzi

pensare finalmente a un’eredità biologica senz’altro fondamento,

dove un riformato non riformi mai davvero il mondo, ma solo sempre lo finisca

 

Liquefazione – Sestina bizantina

…essere in sé quello che si è costruito, e allo stesso tempo

galleggiare in superficie. buio come un pugno, dai piccoli padri

 

presenti, sempre presente il carro del vincitore, la discesa

strategica con le armi degli altri, tutte o poco

 

per volta, l’invisibile forma un monolite stridente

con la sconfitta, e la rigetta diritta a Ovest come

 

occasione per rispedire indietro le insegne del principio

“Orienta la spada sul seme della vicina distruzione”

 

: detronizzato il diminutivo, e prima destabilizzano

ancora il vuoto infiltrando l’ignoto, e altro, e in alto

 

si perda il gioco universale di unire ciò che l’uomo ha diviso

smembrando piuttosto il mondo che il suo potere

 

 

Stenditi a terra – Sestina di Crimea

 

tutto ciò che si sapeva

rimarrà come eredità

…come spesso gli uomini singolarmente intelligenti, aveva un numero limitato di idee,

un numero limitato di supposizioni, per ogni singolo soldato steso a terra:

rifare il campo di battaglia, se non si può proprio tutta la guerra, girare

al largo da queste vere carogne repellenti, ricreare da vicino se non il morbo

del vero, il vaccino del veritiero: fare la carogna per intero, in sostanza,

dare la notizia non della mattanza, ma della “bellavista”:

vedi che il braccio non sia fuori retta con la testa rotta, assesta

il colpo definitivo al cavallo centrale, centra la vera carne

malata, prima che infetta: una degenerazione veramente battagliera

di una schiera di inermi frantumati, a sfondo perduto, una quinta di fondamento

per una storia fotografica del genere umano davvero alla mano:

quella che raccolto ora, sanguigna, dal bordo della scena

 

[Su come nell’Ottocento si ricreavano a posteriori i campi di battaglia per fotografarli]

Da: Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca Editore 2015

 


 

Canzoni all’Italia

PEOMA / PEUMA / PIUMA

(Canzone all’Italia)

 

in memoria di mio padre

1.

… e mi vedo davanti il Peoma nel mezzo tra Gorizia e il Sabotino e un punto molto battuto da vari mesi di lotta su questo punto di terreno è tutto fracassato

… e mi rivedo davanti il Peoma, solo un nome farneticato da popoli interi, ancora

per poco, un discorso alla lettera abbagliante, vomere che rivolto lo sguardo alla terra

lo rivolge dalla terra al cielo, lettera abbagliante ogni notte, battuta, ribattuta

rivolta ossessione senza oggetto, e tra poco senza soggetto, valloncello

scherzoso, esploso            (“grida al vento il mio tormento”)

 

2.

… Il Peoma è una collina davanti a noi vecchia posizione del nemico e perduta da lui tempo fa e vinta da noi per un po di tempo ma dovemo pur noi lasciarla perché tempestati

di fronte e dai fianchi dal piombo nemico

… ma dovendo pur noi lasciarla, questa vita, sotto il fuoco di una giusta sineddoche

sconosciuta, ma dovendo pur noi posizionare l’arredo cerebrale ai piedi di Sua Maestà

[lo Stivale,

ma dovendo pur noi specie durante la la note lottare di spesso, ma senza la detta

[conversione,

dispesso balzare da l’ignuda trincea allo squillo della patria intrusione: beata ci fu questa

[lunga dormita

che al turista commuove la vita: si sconta vivendo            (“grato…ricovero di guerra…

[sotto terra“)

 

… Questa collina costo 20 miliaia di uomini nelle lotte molto sono la sopra la terra si consumano col tempo.

… si consumano “Col tempo” (Giorgio da Castelfranco), si accampano fin dentro le nostre

[narici, secondo

ordini impartiti dall’alto, si trapiantano più favorevoli al terreno, si dissodano

da soli il riscatto, l’unico sepolto, il giusto campo comprato per molto, si diventano ciò

[che sono

oltre la forma, oltre si dissemina la franca sostanza sopra la terra, sopra

la terra si sta forti a petto ignudo, senza scudo

senza

 

In questi giorni piccoli gruppi di soldati vanno a prendere fucili e baionette nel Peoma e davanti le nostre trincee 400 500 metri dove vi si trovano parechie miliaia di cadaveri, ogni fucile viene dato un compenso vi si trovano pure armi tedesche.

… vi si trovano parecchie miliaia di fucili e di baionette, da recuperare: una vera metafisica

del risparmiare, questa prodotta su sé stessa dalla pancia gonfia

del produttore, bugonia di patrii pensieri liquefatti sul terreno osceno, pronti all’uso, il

[prossimo

sempre a servizio del consumatore, consumati nel successivo servizio, già serviti

parechie miliaia di volte            (“pure se per quel dì solo di fede il fante si nutrì“)

 

 

… I cadaveri non si possono sepellire per il loro numero e il nemico non ci permette il tempo sono già putrefatti e un enorme odore vi si trova da non poter respirare, vi sono bersaglieri 9-12:

per il loro numero, senza permesso, occorrerebbe un giorno illimitato: tutte le strade

sboccano in nera putredine, al sogno del non-nato restituito al fato, a noi

che di memoria presto perimmo, o di salubrità dell’aria che tira,

ma pallottole, da non poter proprio respirare, così che vi posa sicura tranquilla

l’aquila vigilante: ci solleverà la fatica i confini le orbite vuote

 

6.

… Fanteria 33 36 carabinieri, granatieri e tedeschi, quando si tocca per levarci la baionetta si stacca mezzo il corpo, vi sono teste bracia gambe qua e là

… come se fosse una metafora, quando si tocca il linguaggio per levarci la baionetta

si frantuma mezzo il corpo: anche dopo questo non si dovrebbe più scrivere “poesia”:

[che cos’è che non

va nel corpo putrefatto del testo che non lascia recuperare l’acumine, il nesso,

il senso così severo del finire? di nuovo grida al vento

il mio scontento e dormirò in mezzo al campo, teste bracia gambe qua e là sui prati

 

(dopo Ruysch)

… un campo di cadaveri, non ce palmo di terreno che non sia battuto e non ce metro che non vi sia ferro e piombo…

: l’accorgersi del morire fu la nostra vera conquista, non come

un sonno santo e beato scivolammo nel passato della vita, ma fretta

della fine ci penetrò e un sentimento grandissimo ci squassò da dentro:

per fortuna un campo di cadaveri ha pure il suo quarto d’ora di celebrità

parlante, e tu passante ricorda che noi soffrimmo nel morire,

e che ci fu tremendo il corpo all’apparir del vero spirito

esalato, e vedemmo il piacere minato saltare in aria, per aria

qui non rimane niente altro che una sola voce, voce che grida

nel deserto di chi conobbe l’esser morto come certo smembramento

o appallottolamento frontale, o lume che sale per le scale in lontananza

covando non so quale ignota nullità, sicuro sogno,

o vita, istesso nervo battuto e ribattuto

 

8.

(“Tutte le batterie un solo ardore

Tutte le volontà un nervo istesso”

D’Annunzio)

Non c’è niente di lugubre nei soldati che muoiono in guerra, se non il fatto che è la Patria che li manda a morire. Forse è solo la Patria ad essere lugubre

 

snervante

 

[Pubblicata il 19 settembre 2016 in www.atelierpoesia.it]

____________

NOTA AL TESTO

La località Piuma (anche Peuma o Peoma) è una collinetta di fronte a Gorizia che fu teatro di sanguinosi combattimenti nel 1916; in termini bellici, viene inquadrata sul Fronte del medio Isonzo, tra il Podgora e Oslavia. Notizie dettagliate su tale località si trovano in più passi del diario di guerra di Giuseppe Bof, Ritorno a quei giorni (Istresco, Treviso 2015), vissuto a Crespano del Grappa (TV) e ivi morto nel 1971; le citazioni lunghe che attraversano la poesia sono tratte da questo volumetto. Ogni gruppo di versi cita, in chiusura, deformandole, alcune delle epigrafi originariamente presenti nel Cimitero Militare di Redipuglia sul Colle Sant’Elia, ora dismesso, risalente agli anni Venti e precedente l’attuale Sacrario; le epigrafi furono scritte da Giannino Antona-Traversi Grismondi, Fausto Salvatori e Gabriele D’Annunzio. La messa in scena della guerra è qui puramente allegorica; tuttavia, vero è che “Resterà una eterna memoria della presente guerra”: è bene ricordare che così il fante Giuseppe Bof, nella piccolezza della sua singola biografia, aveva colto la portata dell’evento di cui era testimone.

 

2.

Contro-futuro arcaico

 

“Sappia che non siamo in tempo di pace. E lei è un militare.”

(Guido Morselli, Contro-passato prossimo)

 

I.

…si giunge a Vallerisce le granate piovono tuti sono partiti

un attacco feroce e impegnato sul Podgora.

Piove sulle trincee come piove sul mio cuore, su le cicatrici

fastose del passato: piove sul fango raggrumato dei sangui dei non-nati:

piove sui corpi devastati, sulla gora del versante sgranato, la grana della foce

recita litanie nere in lastre più nere: mira: Isonzo: mare

 

II.

…poi si parte in armi e lungo la via si trovano dei caduti

un nostro tenente e steso sformato nella palta un altro compagno…

poi si parte per un futuro più arcaico del passato, spinti da furenti

precettori impastati nella palta da cui tutto promana: le Mani

di Dio, l’Uomo, il Figlio dell’Uomo, l’altro figlio dell’uomo, quello

assassino tra le urne elettorali, per cui “balzeremo anche noi di sotto terra”

 

III.

…altri feriti sincontra la lotta continua il nemico avea già sfondata la prima trincea

facendo parecchi prigionieri del 116° e venendo fino al posto di medicazione…

…io non credea mirare un’avea in tanto spasimo, nel teatro delle operazioni:

io non volea l’opera lirica in bocca al primo villano che s’arrovella sul Carso:

ma in un futuro ricomposto come puzzle da un Pollock, bilancia alla mano,

cosa peserà il Tempo su i fasti della Storia crionizzata?

 

[Pubblicata il 22 dicembre 2016 nel “Corriere della Sera” ]

NOTA AL TESTO

Ogni strofa inizia con le parole, in corsivo, di Giuseppe Bof, un soldato semi-colto della Grande Guerra, autore di un taccuino pubblicato dall’Istresco nel 2015, Ritorno a quei giorni. Diario di guerra. L’unica citazione tra virgolette è tratta da un’epigrafe del vecchio cimitero militare di Redipuglia, sito sul Colle Sant’Elia.)


Autopresentazione

In un suo recente volume, Abbiamo ancora bisogno della storia?, Serge Gruzinski si pone l’interrogativo capitale del senso della storia in un mondo globalizzato e appiattito sull’apparente assoluto presente della Rete. Il problema che si pone è duplice, perché in realtà alla globalizzazione stanno facendo ovunque contrappeso molteplici spinte locali e localiste, e di contro la Rete stessa va a configurarsi come una implementazione della capacità umana di memorizzare (casomai, il problema è la sovrabbondanza di informazioni che la macchina processa senza intelligenza, e che invece all’uomo processante potrebbe causare una cecità mnemonica, tale da non poter fissare i dati in oggetti mnemonici, e dunque non avere paradossalmente un passato culturale, ma solo individuale). La proposta “aperta” suggerita da Gruzinski è paradossalmente anacronistica, e prende il suo slancio dalla prima mondializzazione europea, che lo storico fa risalire al XVI secolo, l’epoca della scoperta del Nuovo Mondo: una volta progressivamente liberata dalla distorsione eurocentrica della storiografia moderna, si tratta appunto di reinquadrare (in modo da osservare le “aggregazioni che si formano e si disarticolano sul pianeta in differenti momenti della sua storia”) e di riconnettere (a partire anche dalle stesse fonti)  elementi tra loro eterogenei, sia in senso sincronico, che in senso diacronico. Per certi versi, il compito del poeta oggi non è dissimile da quello dello storico, posto che la domanda potrebbe essere “Abbiamo ancora bisogno della poesia?”: la tradizione è inalienabile rispetto a qualsiasi tentativo di scrittura, ma bisogna rifondare non solo l’idea di tradizione, ma anche la sua sostanza (cosa e come si va a reinquadrare, cosa e come si va a riconnettere); con questo bagaglio, lo sguardo del poeta sulla contemporaneità non potrà che essere più profondo e duraturo, e specialmente sarà in grado di superare la semplice categoria del “poetico”.

L’allegoria è uno dei modi del dire che permette di fare delle connessioni a focalizzazione indiretta, e allo stesso tempo, superando la forza dell’analogia, di stabilire delle inquadrature con oggetti multipli; permette, infatti, di attuare procedimenti simili a quelli che lo storico Carlo Ginzburg racconta nel primo dei saggi del libro Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, dal titolo Memoria e istanza. Su una coppa d’argento dorato (Anversa, 1530 circa). Partendo dall’acquisizione in campo iconologico delle “formule del phatos” di Aby Warburg, Ginzuburg ricostruisce, partendo dalle prime testimonianze scritte dell’incontro degli europei con il Nuovo Mondo, la vera storia che il fregio di rilievi di una Coppa d’argento dorato, conservata ad Anversa, racconta: oltre ad essere un manufatto-palinsesto di epoca gotica e rinascimentale, le sue scene rappresentano uomini, animali, piante, edifici del Nuovo Mondo, ma in una formula rinascimentale (e questo tra l’altro permette allo storico non solo di datare la coppa, ma di stabilirne il probabile esecutore e la finalità per cui fu realizzata), la quale trova nell’oggetto rappresentato la libertà di esprimere “sul piano del linguaggio gestuale l’intera gamma delle emozioni”, quelle che durante il Rinascimento non sarebbe stato conveniente, né possibile, esprimere; si tratta insomma di selvaggi rappresentati in una “lingua visiva” che si rifà principalmente alle incisioni Mantegna e Pollaiolo, ma anche a maestri tedeschi. L’analisi di un manufatto artistico porta infine lo storico a riflettere sui concetti di memoria culturale, sociale e individuale, che sempre si intrecciano e si mediano a vicenda: nel caso della Coppa, la memoria culturale da un lato viene usata per ridurre la distanza geografica e la novità, tanto da rendere famigliare il Nuovo Mondo, mentre dall’altro crea la distanza mitologica per coprire la ferocia della conquista europea. Quindi, ciò che la memoria individuale avvicina, la memoria sociale allontana.

Il mio avvicinamento alla sfera dell’allegoria non è avvenuto all’inizio, in realtà, in riferimento alla mia poesia, ma in ambito critico, durante la stesura della mia Tesi di Laurea sulla poesia del primo Zanzotto (A che valse? e Dietro il paesaggio), che avevo letto in un’ottica completamente figurata; questo mi aveva dunque permesso di concludere che nel mondo emblematico del giovane poeta la storia, e la sua violenza, fosse in realtà del tutto centrale nel suo orizzonte poetico, più ancora del paesaggio, che diventava sfondo degli elementi allegorici. Di questa storia, sia sociale che individuale, emergevano tutta la loro crudezza traumatica i due elementi cardine: la morte delle due sorelline, gemelle, e la furia della Seconda guerra mondiale. Proprio partendo dal concetto di trauma, mi è perciò più facile a questo punto ricostruire a posteriori e a ritroso come è concresciuta in me, più o meno coscientemente, l’esigenza di spostare il mio dire sulla storia, fino a pensare di poter interamente fare una poesia della storia. Se il primo fattore è riconducibile a un impegno critico, il secondo è riconducibile a un elemento individuale, ovvero il fatto che i miei due nonni parteciparono alla Prima guerra mondiale, e in particolare quello paterno combatté sul Monte Grappa, ai cui piedi risiedo. Quando ero piccola, la presenza in casa del nonno, che io ricordo buono ma ombroso, un po’ mi intimoriva, perché sapevo che aveva combattuto in guerra ed ero terrorizzata all’idea che avesse ucciso degli uomini. L’ombra traumatica che mio nonno aveva dentro di sé è riemersa in me, e alla mia coscienza come mia, solo due anni fa, quando ormai avevo già scritto più di un libro con una focalizzazione storica, ma stavo lavorando a Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, e poi avrei iniziato a scrivere le Canzoni all’Italia, a cui sto lavorando, dopo aver appunto trascorso un luglio caldissimo sul Carso nella zona del Basso Isonzo (tra l’altro proprio in occasione delle ricorrenze delle prime grandi “spallate”), luoghi dove tuttavia mio nonno non aveva combattuto, essendo un alpino. Ora, tornando a ciò che Ginzburg ha suggerito attraverso la Coppa di Anversa, e insieme anche ai procedimenti indicati da Gruzinski: come ho già scritto altrove, il trauma può essere considerato la causa scatenante della mia visione allegorica; non solo la Storia diventa allegoria della mia personale storia, ma i meccanismi della sua rappresentazione sono derivati da fonti di vario genere, e specialmente i fatti vengono tradotti con altri fatti, e le immagini emblematiche si fanno carico di esporre con diverse lingue visive dimensioni emotive diverse, spesso censurate dalla stessa cultura. Lo stile è solo la porzione di mondo che si è riusciti a intuire e memorizzare.


Nota biografica

Giovanna Frene, poeta e studiosa, è nata ad Asolo (TV) il 16 dicembre 1968; vive a Crespano del Grappa (TV), e talvolta altrove.

Ha pubblicato: Immagine di voce, Facchin 1999; Spostamento. Poemetto per la memoria, Lietocolle 2000 (Premio Montano, 2002); Datità, postfazione di A. Zanzotto, Manni 2001; Stato apparente, Lietocolle 2004; Sara Laughs, D’If 2007 (Premio Mazzacurati-Russo 2006); Il noto, il nuovo, con traduzione inglese, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca editore 2015. Ha curato il prosimetron Orfeo è morto. Lettere intorno un’amica uguale (Lietocolle 2002), di Federica Marte.

Ha pubblicato poesie in riviste italiane e straniere, come “Paragone”, “Il Verri”,

“Anterem”, “Poesia”, “Gradiva”, “Atelier”, “Italian Poetry Review” (New York, 2010), “Aufgabe” (New York, 2009); e più volte nei blog di “Nuovi Argomenti”, “Nazione Indiana”, “Atelier”, “Poesia 2.0” e nel blog di poesia della Rai.

È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Nuovi Poeti italiani 6, a cura di G. Rosadini, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, a cura di V. Ostuni, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, a cura di J. Calahan e R. Palumbo Mosca, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Sossella Editore 2005.

È tradotta in antologie di poesia italiana statunitensi, argentine, inglesi e spagnole.

Come studiosa e critica, ha pubblicato saggi e recensioni in volumi e riviste.

Attualmente svolge un Dottorato in Storia della Lingua a Losanna, con il prof. Lorenzo Tomasin, occupandosi della lingua poetica di Metastasio.

 


[Auto-antologie prosegue con Giovanna Frene e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco TomadaVincenzo FrungilloFrancesco FilìaViola AmarelliEugenio LucreziRenata Morresi e Gianni Montieri. Una mia lettura critica dei testi poetici di Giovanna Frene si può leggere qui. B.C.]

Era la guerra

0

di Fabio Chiusi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come ti avvero
nulla. Come ti posseggo
nel nostro cercarci oltre le frasi
è forse una gura che brilla
oltre noi, è forse una voglia
irraggiungibile, una veduta:
potresti domani avere pace?
Oppure non servirebbe a contenerla, materia
che si nutre di te; di questo, purtroppo, ho parlato
e non risponde una voce, non di questo scaffale
dispongo, me ne addoloro: non posso inverarlo.
Ma se siamo desiderio e preghiera,
se miserabili e possenti per tutta la potenza delle mani
appresa da chi con altre, più forti,
ha violato il possibile
lascia sia vero il riposo, vera
la benedizione.

Festival delle metropoli

0

Il Festival delle Metropoli è un festival di narrazione urbana itinerante che attraverserà Milano nei 4 giorni di BookCity. Un viaggio alla scoperta della città, dei suoi luoghi e delle sue storie.
Saranno 6 itinerari (di cui i primi due dedicati alle scuole) in 4 giorni, da percorrere a piedi attraverso racconti, letture, incontri, performance, proiezioni, musiche.
Dal 16 al 19 novembre, scrittori, artisti, giornalisti saranno chiamati a raccontare una storia on the road insieme ai cittadini-narratori conosciuti con “Una strada una storia”, il tour di incontri che abbiamo realizzato presso associazioni, cortili e biblioteche dei quartieri milanesi. Al centro dei racconti ci saranno una via, un quartiere, un aneddoto, un ricordo – sia esso letterario, personale, storico, musicale, architettonico – che riguarda la città.
Per saperne ancora di più, visita il sito festivaldellemetropoli.org e la pagina Facebook.

Ecco i link peri iscriversi ai diversi itinerari (esclusi quelli dedicati alle scuole):

Venerdì 17 Novembre – h 15:45
Visioni milanesi
dal QT8 a Dergano, fra visioni urbane e cinematografiche
Mappa del trek:
https://goo.gl/h16WsN
Iscrizione
http://bit.ly/2zoMrnt

Sabato 18 Novembre – h 08:45
Fiere e mercati
Dal confine di Milano alla nuova centralità di CityLife
Mappa del trek:
https://goo.gl/fHFZGD
Iscrizione 
http://bit.ly/2zq8TwI

Sabato 18 Novembre – h 14:45
Una città per cantare
Da Bisceglie all’ex Ansaldo a passo di musica
Mappa del trek:
https://goo.gl/7DaG74
Iscrizione 
http://bit.ly/2heS117

Domenica 19 Novembre – h 08:45
L’invasione pacifica
La “calata degli barbari” dal parco Nord alle porte della città storica
Mappa del trek:
https://goo.gl/g64iyL
Iscrizione
http://bit.ly/2zoDvyH

La partecipazione è gratuita previa iscrizione.

—————

Festival delle Metropoli è un progetto di Trekking ItaliaSentieri_Metropolitani e Clinc che si articola in tre azioni: la prima, conclusa la scorsa settimana, è una raccolta di storie nei quartieri Niguarda, Padova, Corvetto, Giambellino, Lorenteggio, QT8 e Gallaratese; la seconda è un calendario di itinerari che attraverseranno questi quartieri durante Bookcity; la terza è la restituzione di tutte le storie raccolte sul sito e sull’app di Sentieri Metropolitani che idealmente diverranno un museo immateriale della memoria metropolitana.

Il progetto Festival delle Metropoli – le città narrate, è promosso dal Comune di Milano con il contributo di BookCityMMCOOP Lombardia e AKU.
Media partner: AbitareRadio Popolare

Proust contro Cocteau

1

[È uscito per Archinto Proust contro Cocteau di Claude Arnaud (trad. di Anna Morpugo); pubblico qualche estratto del capitolo intitolato L’incontro, ringraziando l’autore e l’editore. ot]

di Claude Arnaud

Cocteau non ha mai saputo dove avesse visto Proust per la prima volta. Era stato forse in rue de Bellechasse, a casa di Mme Daudet, vedova dell’autore delle Lettres de mon moulin? Nella residenza di parc Monceau dell’acquerellista Madeleine Lemaire, «la donna che ha creato il maggior numero di rose dopo Dio», dove s’incontrano pittori e aristocratici? In quella di Marie Scheikévitch che riunisce il fior fiore della cultura o, come sembra più probabile, da Mme Straus, vedova del compositore della Carmen?

A meno che sia successo sui divanetti rossi di Larue, il ristorante dove si cenava dopo uno spettacolo, prima di finire da chez Maxim’s…

I baffi neri già attraversavano il viso olivastro di Proust, tra il suo sguardo di gazzella e il suo sorriso stanco. Ma aveva i capelli a spazzola o la riga in mezzo? Era ancora glabro e pallido «come un uovo di Pasqua» o aveva già quella strana barba nera che lo faceva assomigliare alla salma del presidente Carnot? («La metteva e la levava con la rapidità dei fantasisti di provincia quando imitano gli uomini di Stato», dirà Cocteau.) Divenuto nel frattempo la memoria dell’ambiente che cominciava a descrivere, Proust sembrava occupare retrospettivamente con la sua presenza ogni salotto.

Si era alla fine del 1909 o agli inizi del 1910, questo perlomeno sembra certo. Cocteau aveva ventun anni, Proust quasi quaranta. L’incontro deve essere sembrato loro naturale quanto ovvio, visto che né l’uno né l’altro ha ritenuto utile descriverlo. Probabilmente le parole piene di ammirazione di Reynaldo Hahn, il musicista più amato dai salotti, e le confidenze di Lucien Daudet, figlio di Alphonse, che erano le persone più vicine a Proust, avevano dato a quest’ultimo l’impressione di conoscere già Cocteau: ne avevano tanto vantato la prontezza intellettuale, la disinvoltura sociale e il tatto nell’esercitare l’impertinenza!

Entrambi ammirati in egual misura, Hahn e Daudet figlio già trattano «il piccolo Marcel» con le attenzioni dovute al genio ancora lontano dall’essere tale, agli occhi di Parigi. Che importa se la musica del primo è già suonata ben oltre i confini dell’Europa e se l’eccentricità del secondo spinge regolarmente Proust a dirsi influenzato dal suo stile? Sono loro a celebrarlo in una città che continua a vedere in lui un semplice cronista mondano fatto per descrivere all’infinito le feste del conte di Montesquiou sul «Figaro», o uno di quei fortunati dilettanti assai più bravi a commentare l’opera degli altri che a produrne una propria.

Malgrado due anni prima Proust abbia annunciato pubblicamente di volersi dedicare alla scrittura e abbia pubblicato le poesie, i pastiches e ritratti dei Plaisirs et les jours, non è stato convincente. È da così tanto tempo che parla del suo work in progress – è al suo terzo tentativo – che la cerchia di Mme Cocteau arriva a dubitare dell’esistenza stessa di questa grande opera, vedendovi null’altro che un pretesto per interminabili telefonate e altre inopportune inchieste genealogiche. Quando non riduce Proust a uno snob che ostenta insopportabili pretese letterarie per potersi infiltrare nel loro mondo.

Fu probabilmente Lucien Daudet a presentargli Cocteau, dopo essersi fatto cantore precoce dei suoi talenti e avergli offerto quel po’ di fiducia in se stesso che ancora gli mancava. Ritenendo che il suo ambiente fosse migliore di quello di Proust, figlio di un’ebrea che grazie al matrimonio con un professore di medicina cattolico si era «ripulita» fino a un certo punto, Daudet aveva presentato il ragazzo che aveva undici anni meno di lui senza risparmiarsi. Meno complicato oltre che meno gaffeur, con un gusto più sicuro rispetto a Proust, che si accontenta di mobili orrendi e di un abbigliamento approssimativo, Cocteau era stato subito ricevuto nel salotto di sua madre. Per quanto il luogo fosse rimasto immutato dalla morte di Alphonse Daudet, la risonanza di Tartarin de Tarascon e del Petit Chose continuava ad attrarvi il fior fiore dei vecchi letterati, e il giovane Cocteau vi aveva presto ottenuto la propria investitura. Impaziente di diventare un personaggio, oltre che un poeta, si era messo a rivaleggiare con Lucien Daudet, quell’amico squisito dal quale prenderà l’abitudine di sottolineare le frasi alzando l’indice, come il San Giovanni Battista di Leonardo, quasi le sue visioni folgoranti gli venissero dal cielo.

Ora, Proust ha sempre apprezzato l’intelligenza sintetica, la sensibilità esacerbata e il discernimento letterario di «quel bel giovane con i capelli arricciati, inamidato, impomatato, imbellettato e incipriato» come lo descrive Jules Renard. Abbastanza acuto da influenzare le opinioni di un ambiente di cui padroneggia perfettamente gli ingranaggi, Daudet figlio, tuttavia, non si mette troppo in vista. Per quanto Proust lo incoraggi a scrivere, ritenendolo assai più dotato di sé, raramente avverte l’esigenza di pubblicare. Privo di ambizioni, a dispetto di un reale talento come pittore – allievo di Whistler, lascerà un eccellente ritratto di Montesquiou – sperpera i suoi doni come fosse un nababbo. Dal momento che ogni forma di impegno interiore minaccerebbe quel distacco aristocratico che egli intende opporre a tutto, questo giovane ricercato preferisce circondarsi di persone «che lo fanno dannare», salvo poi «morire di noia» quando non ha più speranza di incontrarne qualcuna. «Gli uomini che vedete sono eroi, ierofanti, semidèi, donne, fate, principesse, sante», aveva proclamato il Sâr Péladan ai visitatori del sesto salon della Rose-Croix del 1897: se la nascita avesse consentito a Lucien Daudet la fortuna di essere tra loro, sarebbe stato appagato. Vittima di quell’«eccesso di un gusto da proprietario terriero, magari dilettante del giardinaggio» di cui Proust, dopo averlo amato invano, parlerà con quel suo affetto perverso, si accontenta di reggere il leggiadro ombrellino dell’ottantaseienne Eugénie, vedova di Napoleone III…

Proust era appassionatamente andato in cerca del giovane Lucien Daudet, dei suoi grandi occhi castani e delle sue lunghe ciglia, del suo senso dell’assurdo e delle sue doti di imitatore. Comunicando con eguale snobismo masochista – «Quando ceno fuori amo stare a capotavola, è la prova che sono a casa di gente per bene», dice Daudet –, condividono incontenibili esplosioni di risa notturne, che li elettrizzano e li lasciano estenuati. Dal momento che Daudet desiderava solo i ragazzi del popolo, la frustrazione aveva finito per esaurire le attese di Proust, ma la complicità era sopravvissuta alla delusione.

[…]

Il clamore suscitato dai Ballets Russes funse da catalizzatore all’incontro. Scoprendo Nijinsky e Karsavina alla prova generale delle Danze polovesiane del principe Igor insieme a Lucien Daudet, Cocteau tesse ovunque le lodi di questa troupe giunta dalle steppe. Conquistato dall’eccitazione suscitata dai russi, che paragona all’elettricità che circondava l’affaire Dreyfus, Proust fa dei balletti di Djagilev, popolati di sultani e di etère, l’espressione ultima dei sogni orientali della sua galassia amicale. Con le sue arie da principe persiano, Cocteau conferisce un ultimo tocco asiatico al profilo da emiro di Daudet-il-piccolo o ai modi da «ragià vestito all’europea» che assume lo stesso Proust quando, sotto la barba nera, indossa i suoi sparati bianchi.

L’entusiasmo di Cocteau si volge dapprima a Nijinsky al quale Proust preferisce la Karsavina, che riaccompagna nella notte, «livido, educato e timido come un fantasma». Ma entrambi subiscono il fascino esercitato dalla personalità feudale di Djagilev, con le sue sonore risate, i suoi intrighi bizantini, i suoi mostruosi rancori. Baritono mancato e musicista abortito, l’impresario riesce a imporre a tutti la propria volontà con esplosioni di collera degne di Ivan il Terribile. Con un sadismo che sfocia nella comicità, Djagilev finisce per imporsi come un oggetto di scherzosa venerazione. 
Convinto com’è che ogni essere sia animato da un fuoco sacro, Proust continua a interpretare la Parigi di Haussmann alla luce degli antichi miti. Nelle duchesse del Faubourg, vede divinità mascherate degne della regina di Saba, e negli energumeni delle Halles nei quali a volte s’imbatte all’alba, vede lontani eredi di Ercole, con le loro clave insanguinate. Ma gli piace anche disfarsi di questi eccessi, come del ricordo della propria ossequiosità pubblica, dissezionando questo campionario umano con quella crudeltà tinta di derisione tipica della cultura omosessuale dell’epoca.

Con una buffoneria capace di «far piangere un pezzo di marmo», a detta del loro amico Jacques Porel, anche Cocteau si diverte a mettere in ridicolo i vertici della società che insieme incensano nei salotti. Una volta consumato il «delitto», il loro massimo piacere consiste nel risuscitare le vittime con imitazioni ancora più feroci, così da garantirsi un controllo «postumo» su questi modelli dilaganti, come farà Proust trasformandoli in metafore letterarie superiori. A meno che non sia Lucien Daudet, che imita il suo amico Marcel in modo esemplare, a contraffare a sua volta quest’ultimo quando imita Djagilev…

Proust agiva di fronte a un nuovo interlocutore come di fronte a un estraneo, a detta di Lucien Daudet. Si sforzava di capirlo, poi si metteva a parlare la sua lingua, per evitare di umiliarlo. Dal momento che questa lingua in generale era più rozza della sua, imparava presto a padroneggiarla. Ma Cocteau si avvale del suo stesso genere di idiomi e le sue espressioni sorprendenti lo affascinano. La sua «conversazione piena di trovate» riesce a scatenare quelle risate che lui trattiene con la mano, prima di imbrattarsene la barba, scoppiando a ridere come «dietro il ventaglio di una donna», Cocteau dixit. Questi momenti di ilarità lo aiutano ad attraversare la notte, unico luogo ormai che abita con un piacere garantito, quando non lo riportano ai giorni in cui credeva ancora nella vita. Giudicando Cocteau «intelligente e dotato in modo davvero notevole», vanta a tutti l’estensione dei suoi doni e la presa dei suoi occhi «ammalianti». Non sono così numerosi, gli scrittori divertenti; Proust e Cocteau ebbero subito la fortuna di suscitare l’uno nell’altro il riso fino alle lacrime.

[…]

 

OT GALLERY (una retrospettiva # 2)

0

MOSTRE TEMPORANEE

 

a cura di Massimiliano Manganelli

 

La stanza è interamente occupata da un enorme lavabo nel quale scorre continuamente l’acqua, da un rubinetto altrettanto enorme. Si esce solo attraverso lo scarico.

Dolore minimo

2

di Giovanna Cristina Vivinetto

 

La prima perdita furono le mani.
Mi lasciò il tocco ingenuo
che si addentrava nelle cose, le scopriva
con piglio bambino – le plasmava.
Erano mani che non sapevano
ritrarsi: mani di dodici anni,
mani di figli che tendono al cono
di luce – che non sanno ancora
giungersi in preghiera.
Mani profonde – come laghi
in cui nessuno verrebbe a cercare,
mani silenti come vecchi scrigni
chiusi – mani inviolate.

La prima scoperta furono le mani.
Ricevetti un tocco adulto che sa
esattamente dove posarsi – mani
ampie e concave di una madre
che si accosta alla soglia ad aspettare;
mani di legno e di fiori
di ciliegio – mani che rinascono.
Mani che sanno aggrapparsi anche
all’esatta consistenza del nulla.

***

La seconda perdita fu la luce.
La malattia mi tolse la vista
dei campi abbacinati dal sole,
la trama arsa e viva dei litorali
siciliani dei miei tredici anni.
Passai quegli anni tra i fili
di panni stesi divorati dal sole,
vasi sbriciolati di terracotta
dove steli di basilico e lavanda
si inerpicavano verso la linea
del cielo – quasi a raggiungerla,
a toccarla. La luce era tutto.

La seconda scoperta fu la luce.
Non la luce che accende i terrazzi
né quella che assottiglia le strisce
di costa, ma la luce delle case
al tramonto – che si mischia all’ombra,
la luce setacciata dall’intreccio
dei rami e quella che si schiarisce
a fatica dopo un temporale
– dopo un grave malanno.
Conquistai la luce intatta dei corpi
vergini – delle fonti d’acqua
perenni che nessuno sa.

 

***

La terza perdita fu il perdono.
Avrei voluto scusarmi per i toni
accesi verso il tuo non comprendere,
la rara gentilezza dei miei
quattordici anni quando parlavi
senza premesse. Ma la colpa
non era di nessuno: non era tua
che mi indicavi il corpo e mi dicevi
di stare attenta, che non sarebbe stato
facile – non era mia che non riuscivo
a perdonare il tuo insinuarti
maternamente tra pelle e nervi
a scovare tutte le incertezze, gli stalli
che a quel tempo non avevo.

La terza scoperta fu il perdono.
Quando fui grande abbastanza
per capire cosa volesse dire
essere madre, un perdono tondo
e commosso provai per te, e provai
per le altre donne-bambine come me
e lo provai per me, che tenevo
fino a quel punto il filo rosso dell’infanzia
e da un giorno all’altro, adultamente,
non tenevo più.

 

*Le tre poesie sono tratte dal libro Dolore minimo in uscita il prossimo aprile nella collana Lyra giovani (diretta da Franco Buffoni) per l’editore Interlinea

 

Suttaterra – Orazio Labbate

1

SUTTATERRA

Estratto dal nuovo romanzo di Orazio Labbate

(Tunué Edizioni, novembre 2017)

II

Gemevano le alte foglie del campo di granturco mentre il vento le sfregava come se dovessero scintillare per la nascita di un fuoco. Nelle campagne di Milton le magie si consumavano da sempre, sullo sfondo di sempre eguali e indifferenti cosmi. La casa dei Buscemi, squallida eppure maestosa, in un singolare stile vittoriano, si sollevava su due piani. Nerastra e beffarda, innalzava i suoi mattoni scuri arrivando fin quasi ad alterare il confine delle nuvole. L’edificio che le faceva da contraltare, al di là del loro campo, pareva invece cambiare densità al crepuscolo. Era una bianca e lignea chiesa, all’origine metodista, sulla quale risaltava un tetto grigio scuro e screziato, come sopravvissuto a un incendio, da cui svettava uno stretto campanile assommitato da una nera croce di ferro. Quando il sole tramontava, il biancore della facciata della chiesa veniva ferito da una luce che la faceva simile a pelle umana ustionata, arrostita. Scampanava, la struttura religiosa: l’officio apparteneva a Dale Murray, pastore di antiche origini irlandesi, grasso e altissimo, con una manciata di peli punicei sulla testa, i cui occhi verdicci erano gonfi come nodi di un albero marcio. Contava l’uomo settant’anni di vita. Al rintocco della melodia, quando la campana veniva vibrata attraverso le sue mani robuste e ulcerate, si scagliava la liturgia religiosa dei venti e dei verbi. Il suono si abbatteva nelle ampie stanze dei Buscemi. Faceva fischiare le croci appese nel soggiorno, rigonfiava le pareti e scollava la carta da parati ricamata di temi romantici e poi sbatteva sulla grande foto di famiglia incorniciata. Ogni sera Dale Murray soleva conversare a distanza col predicatore Razziddu Buscemi, affinché quest’ultimo sempre si ricordasse di sfaldare la ragione nel suo sonno: sfasciare le impalcature celesti, scannare gli agnelli sacri belanti tra le polveri del Sinai, svestire il figlio di Dio. Abbandonata la campana, il pastore imboccava un megafono e rivolgendosi al padre di Giuseppe cominciava a vociare: “Razziddu! Razziddu! Colui che hanno inchiodato è l’uomo della croce: il Signore dei Puci vivente! Allegro guardò coloro che gli fecero violenza. Egli sapeva che siamo nati ciechi. Egli aveva le nostre facce e altre ne esigerà! Confessatevi! Rendetegli la carne! Che il fuoco dello Spirito Santo riduca a spoglie i vostri cuori immondi e vi protegga!”.

Prima che la sera violasse l’arida strada verso il campo di granturco e i passeri divenissero corvi con la tenebra, il robusto prete concludeva il suo salmo. Così dal campanile, prendendo a poco a poco aria sufficiente, e mentre slargava la bocca tirando fuori i denti dal becco dello strumento, il pastore faceva un passo in avanti e si palesava agli occhi dell’avvocato fattosi predicatore.

“Giuseppe, Giuseppe…”, diceva quello al figlio. “Sei l’annunciatore. Hai sentito? Dobbiamo affrettarci! Con il volto lattescente, il Cristo oscilla il suo riflesso su di noi, come un demone mirabolante. Ci riguarda le anime, il Figlio di Dio, attraverso lo Spirito Santo. Tese le sue membra sulla croce e poi le distese per incatenarsi. Perciò, bada, è gobbo. Il mio Cristo di Butera, il Signore dei Puci, avresti dovuto vederlo, vasapacchio schifoso! Aveva oscure stelle sopra il suo mantello blu e clamoroso avvelenerebbe chiunque non sia pronto a sfuggire dal suo lavacro. Lo incendiai, sai, quel mostro che infestava Butera. Ma a nulla valse. Ascoltami! Solo la Madre può trascinare in basso la connessione delle sue ossa appuntite!”, così farneticava furiosamente l’anziano al figlio mentre figgeva oltre la finestra della sua camera da letto, con l’indice e il medio, il gran buio incombente sul campo. Giuseppe sedeva dolente sul giaciglio di Razziddu ché il padre gli stritolava frattanto il braccio, e il giovane poteva recitare solo scongiuri e rimescolare a voce bassa paroline da ventriloquo: “Padre stai parlando della stessa Signora che riposa sui muri della mia stanza? Padre… come devo procedere nel salvarmi?”. “Come osi chiedermelo? Non è tempo, maledetto! Non è tempo… siamo spiriti disorientati. Viviamo nell’imminenza degli scandali del Figlio e della Madre”, rispondeva Razziddu assaporando qualcosa nell’aria, con gli occhi che saettavano da sinistra a destra, rievocando immagini distorte della sua giovinezza sognata. Poi, quando si faceva notte, da quel fondo di buio definitivo che assimila noi tutti, lo lasciava finalmente in pace e per entrambi arrivava il momento del sonno, ma nelle loro camere c’era un castigo immanifesto.

La stanza di Giuseppe aveva le pareti di gesso bianco prive d’ogni ornamento. Si stagliava soltanto in capo allo squallido lettino un poster mal stampato, coi colori tutti sgranati, della patrona di Gela, la Madonna dell’Alemanna. Lungo un modesto tavolo in legno d’acero riposavano la misera plastica di un rosario mariano e un santino, anch’esso raffigurante la Madonna gelese. Una Bibbia invece sembrava fluttuare ché si trovava al limite dello spigolo di un marcio comodino attaccato al giaciglio. Dal tavolo, nottetempo, il ragazzo sollevava una candela, e subito si rischiarava il poster dell’Immacolata.

“Guarda verso l’alto o ripiega lo sguardo al Cristo infante?”, sussurrava Giuseppe a un tempo estasiato e terrorizzato da quella truce donna di Dio. Poi, più vicino al volto di carne scura, s’accertava che la Madre di Cristo non avesse denti aguzzi e nella testa non abitassero corna. Nel continuo volgere del mondo notturno sentiva parlare nel sonno il padre. Allora si dirigeva a piccoli passi al cospetto del grande letto matrimoniale, ai cui piedi stava aperta, sventolando, una copia dello Uniform Commercial Code. Una camera che mai accoglieva la madre Rosa, la quale a tali ore era solita girare ossessivamente per tutta l’abitazione, come una strega ammattita che infesta le case diroccate.

“Mi trascina lungo il deserto. Indossa un nero cappello. Il capo soffre la croce. Sanguina. Ha la faccia di sua madre. Sotto la testa ci sono… ci sono… spine della sacra corona. La faccia della Madre… ride. Le guance si arricciano all’insù fino alle orecchie. Tira a sé il mio piede. Si gira…”, borbottava cose del genere Razziddu composto nel letto, e di tanto in tanto spalancava gli occhi, ma in realtà continuava a dormire. Il vento che penetrava dagli interstizi delle larghe finestre del corridoio suonava come un miagolio. La camera del vecchio era, in quel buio infinito, un grosso mare in cui il giovane si sentiva annegare. Era già nel sangue di Razziddu Buscemi l’incominciamento della mortificazione del figlio. Lo aveva allevato nell’odio contro la religione del Signore, ma col tempo il vecchio si era istupidito e incattivito, si era fatto bilioso e poi nuovamente religioso, bigotto, posseduto da una fede oscura che lo portava addirittura a predicare in giro per Milton: e ora, quel figlio cresciuto nella diffidenza per gl’idoli, lo nutriva invece perfidamente con i suoi freschi esorcismi mariani. Il legno laccato che sfavillava a contatto con la luce della luna incorniciava il giaciglio dell’avvocato fattosi predicatore, adornato di un Cristo bambino in plastica, ciondolante al muro. Sul mobile della grande specchiera campeggiavano parecchie foto famigliari intorno a una, più grande: nell’argento annerito della cornice lui, il figlio e la moglie si stringevano un anno prima in occasione di una lontana festa.

Razziddu fissava l’obiettivo. Era vestito di un lucido completo nero interrotto da un paio di rossi stivali da cowboy. I baffi bianchi dell’uomo salivano ritti alle occhiaie come a sorreggere le orbite spente di umanità. A braccetto, la moglie Rosa sulla quale ricadeva un abito in misera stoffa a tema floreale: vecchia larva denutrita dalla faccia allo stomaco, quasi incassatosi a comprimere le costole tanto era magra. Della sua fresca bellezza giovanile era rimasta in foto solo una lievissima ricordanza, rintracciabile nell’ologramma che brillava nei ghiacci immensi dei suoi occhi blu. In disparte ma in piedi, alla destra del padre, Giuseppe sfidava la sembianza ordinata di Razziddu indossando un giubbotto in pelle su cui, nel lato sinistro del petto, sporgeva un simbolo ricamato nella forma di una croce di falsi brillanti. Poi una maglietta bianca sulla quale era stampata l’icona di una cantante dai capelli biondo ossigenato, il volto che simulava beffardamente l’estasi di una santa; portava infine un paio di stivali di cuoio la cui punta d’argento scintillava. I jeans di lui si strappavano alle ginocchia; i capelli invece erano tirati all’indietro e sorretti da una massa di gelatina scintillante.

Quando il padre nel sonno smetteva di parlare e si acquietava, dritto e rigido, le mascelle tirate, il figlio ogni volta sperava che fosse morto. E ogni volta Razziddu Buscemi alzava e sgonfiava il mantice dei polmoni. Una volta destatosi la punizione avrebbe avuto di nuovo inizio. A volte, nella notte, il giovane prendeva una torcia elettrica e usciva sotto la luce di cenere della luna, per andare a rifugiarsi dentro la grossa cuccia di Marty, il loro husky. In compagnia della bestia, in mezzo a quel tepore penetrante che si trasferisce all’uomo quando un animale lo compatisce, conversava col cane schiarendogli il muso con la torcia. “Dimmi, quando arriverà l’Angelo a sterminare papà?”, diceva alle fauci dell’animale che nel chiarore artificiale non comprendeva e invece abbaiava come a mendicare altri alfabeti. “Se non muore, allora preferirei morire a mia volta, piuttosto che ritornare dalla Madonna.” Con la pronuncia di quel nome, sgravatosi il cielo del fardello delle tenebre e annunciando l’alba, ecco comparire sulla soglia di casa Razziddu.

“Dove sei figliolo? È tempo di pregare! Vieni qui, picciddu mio!”, diceva ad alta voce mentre il gelo di quell’ora pareva cementare il suo fiato. Ogni volta il padre lo stanava rannicchiato nella cuccia, facendosi luce con una candela sacramentale che lo rendeva pallido come un Re Magio alla vista del figlio di Dio. “No. Ti prego. No. Non voglio!”, diceva Giuseppe e il cane ringhiava in direzione di Razziddu e verso ciò che presentiva attorno alle forme dell’uomo. Fanno così gli animali quando sanno dei demoni, epperò sfugge loro la forza del simbolo per scacciarli, giacché non possono reggere nessuna cosa. Zampe hanno e polvere di zampe offriranno al Diavolo. Lo tirava fuori per i capelli e il ragazzo si rotolava come bestiame avviato al mattatoio, e il padre allora si voltava ridendo e raschiava quella terra trascinandovi il figlio.

Gli stivali, indossati sulla camicia da notte, battevano sulle pietre che punteggiavano il cortile come gli zoccoli del Diavolo. “Padre perché? Perché?”, e intanto tossiva ché la bocca aperta veniva a riempirsi della terra che Razziddu camminando rialzava in spire polverose. Alle soglie del portico sollevava in braccio Giuseppe. Poi con ferocia gli strappava il pigiama di flanella di dosso e nudo lo genufletteva dinanzi all’edicola votiva scavata sulla sinistra della porta d’ingresso della casa. L’edicola conteneva una Madonna dell’Alemanna in porcellana su cui Razziddu aveva sottolineato più volte le occhiaie con un pennarello rosso, a significare lacrime di sangue. “Prega, adesso, che Lei ti accolga, come ha fatto il figlio. Fatti accettare. Prega. Dille che puoi ficcarti nel suo grembo”, diceva il padre a Giuseppe che si dibatteva. E ancora Razziddu diceva: “Ripeti questo: Ave Maria, colma di grazia, che il Signore morda il tuo seno e da esso io mi possa allattare finché nutrito del tuo latte e del tuo sangue io acceda al regno più radioso. Amen. Ripeti questo, maledetto!”.

E non si placava finché Giuseppe non ripeteva. Poi c’era da scendere al rifugio, un buco nel terreno con una rozza scala scavata nella terra, che si apriva in una soffocante stanza di cemento, realizzato da Razziddu paventando l’apocalisse nucleare. Lì, nella camera sotterranea, si trovava un minuscolo altare su cui spiccava un’ulteriore statua della Vergine. Le pareti erano dipinte di corna che riempivano, piccole, minuscole, grandi, grosse, la faccia della Madonna dell’Alemanna.

Nel contempo, in quella caverna stretta dove si trovavano pochi scaffali colmi di taniche d’acqua e scatolette di carne secca, bambolotti col sangue disegnato sulla fronte a pennarello imitavano la figura di Gesù con la corona di spine.

Diceva il padre: “I nostri corpi sono assemblee. Chiudi gli occhi e raccogli le tenebre per poi espellerle nel ventre della Donna”. Mentre il figlio a occhi chiusi piangeva, le lacrime baluginavano al tocco della luce della candela del padre e cadevano sul pavimento in lamiera, componendo vertici di triangoli sulla zigrinatura.

Quei giorni avvelenati continuavano a trascorrere anno dopo anno, senza che mai giungesse alcunché a lavarne il sangue. Anzi si rinnovavano persino nel regno conchiuso di Dio quando, durante la messa domenicale officiata dal pastore Murray, la Saint Mary’s accoglieva anche i sermoni di Razziddu Buscemi. Lassù, nei pressi del tabernacolo, reggendo il leggio svestiva i panni di avvocato della contea e gridava, come invasato: “Sono ormai un mucchio di ossa indecifrabili i nostri corpi. Cosa aspettate, cari fratelli? Orsù, cercate di erigere nelle vostre case la soluzione perché dappertutto i morti ci stanno accoltellando le carni. Qui ad avere un coltello carne ce n’è. Ognuno di noi cuoce il figlio di Dio dentro di sé. Dovete capire come interpretarlo e grazie a chi. Ripetete con me: Sì! Sì! Lo volete? Sì! Sì! Sacrificherete? Sì! Sì!”. I fedeli all’inizio lo scrutavano perplessi, ma dopo qualche anno avevano cominciato a farci l’abitudine e a gridare con lui “Sì! Sì! Osanna!” facendogli brillare gli occhi di scintille porporine.

La Saint Mary’s era povera di finimenti. Sedie e sedili, null’altro. La riempivano di identità le persone. Contadini magri. A volte le loro bestie. Donne grassocce. Bambini tenuti a stecchetto. Dalla sommità del campanile cadevano e superavano le vetrate gli astri, ridotti a nervi sottili. Preso poi il posto di Razziddu, Dale Murray ultimava il rito. Imboccava le ostie alle fauci di quella platea, di quella gente di Milton che si incamminava compatta verso le sue mani che grondavano sudore stantio.

Durante una di quelle sere di ritorno da messa, a Giuseppe, giunto al culmine del suo tormento, venne l’idea di dedicarsi alla dominazione della morte. Così, pensò, avrebbe forse potuto alleviare il dolore irreligioso della sua vita. Aveva ventisette anni, tempi giusti per divenire impresario di pompe funebri. Quando lo annunciò, nel padre sopraggiunse la collera come se fosse stato seminato olio di fuoco in mezzo al suo cuore di grano avariato. Così Razziddu percosse Giuseppe. Lo fece con la cinghia, nel punto stesso in cui gli fu data la notizia, al centro del campo di granturco, durante la raccolta estiva. Il nerbo e la fibbia incisero il petto ignudo del figlio. Gli scavarono pure la pelle del volto, mentre si torceva all’insù la carne della cinghia assieme alla carne del ragazzo. Da lì venne il taglio che porta Giuseppe ora sotto i soli. Razziddu alla fine gli sputò sulle ferite, a sigillare col disprezzo la rivelazione di avere in casa un futuro beccamorto.

Ma quegli anni, o dannose cerimonie, si mostrarono in parte buoni al ragazzo. Nel lavoro trovò consolazione, e conquistò inoltre l’amore. In un anno di lavoro incessante aveva fondato la Buscemi’s Funeral Home: l’ufficio era nel soggiorno, il garage era usato per costruire e levigare le bare, mentre la camera per l’imbalsamazione aveva dovuto metterla in cantina, giacché il padre gli aveva proibito l’uso del rifugio antiatomico. Un anno ancora dopo, l’agenzia di pompe funebri poteva dirsi ben avviata, se non fiorente. Fu allora che una donna dalla chioma chiara e arruffata sbucò un giorno dalla fitta piantagione. Correva come se una bufera stesse per travolgerla da un momento all’altro ed era ricoperta, soltanto lei, di una luce lunare vagolante. L’astro non irradiava più, se non dintorno alla donna, che si avvicinava come fuoco opalino preparato dalle sante iscrizioni. Santa era la carne, e ricapitolata la pelle di lei smagliava. Come informata di un prodigio essa veniva a sconvolgere le sue sorti: non c’era dubbio, per come abbatteva tremante le ombre della sera.

“Salve. Può aiutarmi?”, furono le parole tuttavia prosaiche che rivolse ansante a Giuseppe. “Che cosa le è successo, signorina?”, rispondeva il ragazzo pulendosi intanto le mani sulla sua nera giacca da beccamorto. Sfregava su di essa la formalina con cui aveva eternato i defunti. Quando la guardò negli occhi, il suo cuore ne fu accecato.

“Mi chiamo Maria, sono la figlia dei Boccadifuoco… Ho l’auto in panne, laggiù, lungo la strada”, diceva la ragazza riprendendo fiato il più possibile. Conosceva Giuseppe quel nome, proferito a volte da suo padre. Immigrati come lui, gelesi di origine. Lamentava il fatto che non venissero mai in chiesa. Neanche una volta però aveva parlato di una figlia.

“Io sono Giuseppe Buscemi… Piacere… piacere di conoscerla. Vuole… un bicchiere d’acqua? Venga, entriamo un attimo in ufficio, cioè in casa…”, rispondeva, scoprendosi a stringerle il polso. E mentre quella beveva e gli sorrideva, la fissava.

Intanto, le stelle cadevano a sassate, rigando il buio e ustionando il tetto della Saint Mary’s.

 

 

Orazio Labbate (Butera, 1985). Ha esordito nel 2014 con Lo Scuru (Tunué), a cui sono seguiti la Piccola enciclopedia dei mostri e i racconti di Stelle Ossee. Torna al romanzo con Suttaterra.

Per una ricezione politica del romanzo storico

6

di Giorgio Mascitelli

La ricca produzione di romanzi storici, non raramente di buona qualità, ma soprattutto molto impegnati sul piano del rigore documentario nella ricostruzione dei soggetti trattati, sembra riflettere una marcata volontà di reazione a quello stato di cose descritto da Fredric Jameson in base al quale vivremmo in una nuova fase storica nella quale “siamo condannati a indagare la Storia per mezzo delle immagini e dei simulacri pop di quella storia, che come tale resta irraggiungibile per sempre” ( F.Jameson Postmodernismo, trad.it., Roma 2007, p.42). In questo senso è rappresentativo di un atteggiamento e di una preoccupazione diffusi quanto scrive William T. Vollmann, nell’introdurre le note esplicative delle fonti usate per il suo romanzo Europe central: “Questi racconti si fondano su fatti storici, ma con un rigore inferiore rispetto alla serie dei Seven dreams. Il mio fine, in questo caso, era quello di scrivere una serie di parabole su alcuni famosi, famigerati o anonimi attori morali europei osservati nei momenti di importanti decisioni. I personaggi che compaiono in questo libro sono, in gran parte, realmente esistiti. Ho svolto ricerche sulle loro biografie con tutta la cura di cui sono capace, ma la mia resta pur sempre un’opera di narrativa” ( op.cit., trad.it, Milano, 2010, p.963). In queste righe il lettore italiano non faticherà a trovare analogie con gli scrupoli, o forse sarebbe meglio dire le ossessioni, manzoniani nell’impostare il proprio rapporto con la materia storica, eppure il bisogno di Vollmann di fondare la validità letteraria delle sue parabole sul suo rigore storiografico non risponde solo alle esigenze di una poetica individuale. Infatti quanto scrive Vollmann esplicitamente è la premessa implicita di molti romanzi contemporanei e tale circostanza mi sembra che indichi innanzi tutto un tentativo di sottrarsi a quella condanna a cui si riferiva Jameson.

In realtà questa preoccupazione sembra essere una fisiologica presa di coscienza critica di alcuni dati del panorama culturale contemporaneo (  basti pensare a tutta  un’ambigua produzione di docufiction e di storie romanzate che dall’ambito del puro intrattenimento tendono progressivamente a presentarsi con pretese di impegno storico ed estetico) ed è naturalmente sempre positivo quando la letteratura mette in discussione i valori ideologici prevalenti. Sappiamo bene che il rapporto della cultura dominante del nostro tempo con la storia è una visione caleidoscopica in cui i fatti del passato non sono collocati lungo linee interpretative unitarie, ma appaiono come singole scenette, edificanti o meno, di una sorta di onnipresente wunderkammer, le quali, invece di allacciare fili di continuità con il passato, diventano optional iconografici per adornare un eterno presente immutabile nelle sue autorappresentazioni ed esternazioni ideologiche. E’ la cosiddetta condizione postmoderna, ma è anche in concreto l’esperienza che noi facciamo quotidianamente con il flusso di immagini e notizie con cui la rete ci inonda. Benché questa esperienza del flusso non sia affatto un elemento ineluttabile né una conseguenza neutrale dell’innovazione tecnologica, ma sia innanzi tutto un modo di percepirsi e rappresentarsi di una società in cui gli spazi di azione pubblica sono bloccati, la rete favorisce questa percezione della storia e della storicità come wunderkammer, in cui per così dire ogni avvenimento ha il suo link, in ragione delle sue caratteristiche comunicative; bisogna tuttavia aver chiaro che essa nasce per motivi storici, culturali e ideologici indipendenti dalle sviluppo del web.

A questo proposito è indicativo l’annuncio dello scrittore inglese Howard Jacobson, del quale mi capitò di occuparmi alcuni anni or sono ( cfr. G. Mascitelli Riscrivere la storia in Alfabeta2, 22/9/2013), della pubblicazione di una nuova versione de Il mercante di Venezia depurato da tutti gli elementi antisemiti. Questa ansia di riscrittura della storia, pur dettata da nobili motivi civili in questo caso, è un tipico esempio di come la costellazione culturale contemporanea abbia timore della propria storicità e avverta il bisogno di riorganizzare il passato e le sue opere entro i rassicuranti criteri del presente, fenomeno che a sua volta riflette una percezione della storia come repertorio da cui trarre ad hoc immagini ed exempla secondo le necessità delle circostanze.

D’altra parte la storia alla borsa dei valori epistemologici, e di conseguenza politici, attuali non gode esattamente di buona salute: il vento dell’utilitarismo e del neopositivismo che muove da quelle autentiche corazzate del sapere contemporaneo che sono le università statunitensi, le maggiori delle quali hanno ormai un bilancio superiore a quello dell’istruzione pubblica di un paese europeo di medie dimensioni, ha decretato che la conoscenza storica è inutile, improduttiva e non scientifica. Si potrà obiettare che non c’è nulla di nuovo in queste idee, che erano già tipiche dell’età vittoriana, ma sicuramente i mezzi economici, mediatici e tecnologici per realizzarle, ossia renderle credibili, oggi disponibili non si sono mai visti prima.

In un contesto di questo genere lo scrivere romanzi storici appare come una scelta in controtendenza rispetto alle coordinate della cultura contemporanea dominante ed è perciò comprensibile che molti scrittori fondino il loro lavoro sul rigore del dato storico. Questa ricerca di una piena attendibilità è ovviamente il sintomo della serietà di uno scrittore e come tale deve essere salutata, ma vi è un rischio che si nasconde in questo approccio. Il rischio è quello di pensare che l’evocazione meticolosa di un passato e la ricostruzione di una realtà storica siano di per sé garanzie sufficienti per fondare esteticamente il senso di un romanzo storico; si tratta però di un’illusione perché “il ‘reale’ in letteratura e nell’arte in genere, è piuttosto un ‘effetto di realtà’, che si basa largamente su convenzioni; tant’è vero che ciò che appare ‘realistico’ in un’epoca può non apparirlo in un’epoca successiva, o che l’effetto di realismo può essere raggiunto in modi molto diversi” (P.D’Angelo Le nevrosi di Manzoni, Bologna, 2013, p.202). Il romanzo storico, infatti, non può limitarsi a essere una storiografia diversamente raccontata, ma trova il suo significato più profondo nelle capacità di annodare fili tra un determinato passato e un determinato presente in nome di un’idea, individuale o collettiva in questo contesto non importa, di vita ed esperienza umane. In questo senso il romanzo storico trova il suo epicentro letterario e morale nella capacità di evocare implicitamente vite o mondi o società possibili e nel contempo di approcciarsi criticamente al presente tramite una vicenda passata, insomma per sintetizzare il suo carattere principale è quello di affrontare il passato a partire da una certa idea del presente.

Il panorama che ho sommariamente tratteggiato sopra non incide soltanto sugli autori, ma influenza fortemente anche il pubblico. Bisogna infatti tenere conto che il romanzo storico è tra tutti i sottogeneri letterari quello nel quale la ricezione gioca un ruolo molto forte nel determinare il significato di ogni opera. Il fatto che esso lavori su una materia di pubblico dominio, che ha una dimensione naturalmente collettiva, mette in gioco il rapporto dei lettori con essa più di quanto accade con testi di altro genere. In questo senso, semplificando un po’, si può affermare che la storia di questo genere ci ha consegnato varie forme di ricezione delle opere, a volte nemmeno ricercate programmaticamente dagli autori, le più importanti delle quali sono quelle che potremmo chiamare monumentale, comunitaria e politica.

Nella prima l’argomento storico favorisce la sacralizzazione di un passato come fondamento e limite invalicabile di una società. Il passato opera sul presente nel segno di un’esemplarità e di un’irripetibilità che rende però possibile la vita adesso, una vita migliore di solito, e che è fonte di giudizio sui fatti attuali. E’ l’antica historia magistra vitae dei Romani. Lo scrittore qui “usa la storia come mezzo contro la rassegnazione” (F.W.Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad.it, Milano 1983, p.17) e segue la fede nella capacità dell’umanità di creare, se non l’eterno, il duraturo. Vi è dichiaratamente un intento del genere nel romanzo di Vollmann citato prima, per esempio, ma la sua realizzazione non dipende che in minima parte dalla volontà e dalle capacità dello scrittore perché esso può essere realizzato solo in virtù di una postura culturale del pubblico disponibile ad accogliere e validare un simile fondamento.

La ricezione comunitaria, che è la più direttamente connessa con il Romanticismo, opera nel presente in nome di un passato negato o disatteso: essa raccoglie un’eredità non riscossa da parte di una comunità a partire dalla quale scuote o meglio contesta lo stato di cose presenti. In alcuni casi finisce con l’avere una funzione mitopoietica o, più precisamente, di invenzione della tradizione o, al contrario, una funzione critica di riscoperta della verità negata e, cosa più inquietante, talvolta entrambe le funzioni. In questo tipo di ricezione gioca un ruolo decisivo la cura storica dell’autore dell’opera nel rendere certi particolari e aspetti delle vicende trattate, ma è nel contempo quella che più dipende dagli orientamenti culturali e ideali del pubblico. Vale la pena di ricordare che in anni recenti è stato Spike Lee, con il film Miracolo a Sant’Anna ( 2008), a  riproporre un’opera che favorisse quasi programmaticamente una ricezione comunitaria per ricordare le pratiche discriminatorie subite dai soldati di colore della 92ma divisione Buffalo durante il secondo conflitto mondiale. Tuttavia le polemiche sorte con l‘ANPI e numerosi spettatori italiani in relazione al modo in cui la strage di Sant’Anna di Stazzema veniva rievocata nel film ( ossia come rappresaglia nazista per azioni partigiane e non come azione precedentemente pianificata) rivelano che il potenziale mitopoietico di un’opera storica tende potenzialmente a sollevare una sorta di conflitto delle ricezioni con altre comunità, anche se in questo caso specifico vi fu forse una mancanza di scrupolo nella stesura della sceneggiatura. Mi sembra  però certo che la ricezione comunitaria tende a favorire la percezione di un’identità comunitaria che si contrappone ad altre.

Caratteristica della ricezione politica è, invece, quella di trovare nel passato un paradigma e una matrice del presente. Il passato diventa un esempio non nel senso morale quanto come modello in negativo di un’operatività o di una logica del potere e in positivo dell’opposizione a esso. La distanza temporale è, per così dire, abolita perché c’è nel passato qualcosa che è ancora attivo e agisce. Lo sguardo del lettore trova allora una genealogia dello stato di cose presenti oppure una parte di passato che non passa perché coincide con il presente. Il testo allora interroga il lettore chiedendogli di prendere partito rispetto alla realtà che vive e di farsi carico della parte non pacificata della storia narrata.  Quando per esempio ne Il cimitero di Praga Eco o meglio l’agente segreto che è l’io narrante del romanzo racconta le circostanze dell’attentato mortale a Ippolito Nievo, tutta la serie di strane morti che costellano la vita pubblica italiane fino a oggi è riassunta esemplarmente senza bisogno di essere citata, almeno agli occhi di chi non si è ancora rassegnato all’impunità di queste morti.

Come dicevo sopra, tutte queste forme di ricezione dei romanzi storici sono in crisi a causa del contesto generale, ma è in particolare quella politica a subire maggiormente i danni di questa situazione. Ciò si spiega con la crisi della politica, dove con questa espressione non intendo la crisi in cui versa il ceto politico professionale in buona parte dei paesi occidentali, ma il processo di depoliticizzazione radicale che attraversa le nostre vite. Questo processo si configura come una perdita di cittadinanza o, se si preferisce, come un diventar passivi nell’esercizio delle nostre prerogative politiche a causa del predominio dell’economia. E’ quello che Daniele Giglioli ha chiamato stato di minorità e “che si riflette nel rimpianto evidente con cui gli autori anche i più giovani guardano alla storia spietata del Novecento” ( D.Giglioli, Stato di minorità, Roma-Bari, 2015, p.8). Il Novecento evidentemente viene visto con nostalgia perché era un tempo in cui era possibile, pur con mille contraddizioni, essere attivi.

Ora questa nostalgia, che fotografa d’altra parte una situazione oggettiva, cela in sé un rischio e una potenzialità positiva: quanto al rischio è abbastanza agevole indicarlo nelle serie difficoltà o addirittura incapacità a stabilire un rapporto con il presente, che non sia quello meramente nostalgico dettato dal desiderio di evadere da un mondo che per il resto sembra aver chiuso qualsiasi via di fuga possibile. Questo rischio è particolarmente alto perché insito innanzi tutto non nel lavoro degli scrittori, ma nella ricezione dei loro testi ( ecco perché insistevo tanto nell’affermare che le forme tradizionali di ricezione sono tutte in crisi) da parte del pubblico. Questo significa allora che gli scrittori si trovano a lavorare in condizioni di isolamento culturale e che possono contare solo sulle loro individualità per evitare lo scacco di un mancato rapporto con il presente, che a sua volta minaccia la pregnanza e il significato stesso delle opere.

La potenzialità positiva è che questa nostalgia possa evolvere in altri sentimenti più produttivi, anche magari rabbiosi, ma che consentano di giungere di nuovo a una critica del presente tramite quella del passato. Personalmente sono convinto che questo potrebbe essere un fattore culturalmente importante per un pubblico che   vive appunto una deriva come quella che ho evocato sopra. Arrivo ad affermare che il romanzo storico può svolgere un effetto positivo nell’innestare processi di presa di coscienza che contribuiscano a ripoliticizzare la cultura e quindi la società. E’ per questo che penso che la questione del romanzo storico sia oggi cruciale, anche se complessa.

Certo non mi nascondo che a fronte del fatto che gli autori si trovino oggi a operare in un crinale così pericoloso, disseminato di trappole postmoderne, l’unica contributo che posso portare è quello di un po’ di ottimismo della volontà. Sarà forse poco, ma dati i tempi che ci troviamo a vivere, non abbattersi, pur restando consapevoli della situazione, mi sembra un elemento prezioso e un incitamento sufficiente per proseguire.

( questo intervento è stato scritto e poi letto nell’ambito del convegno World Wide Web, tenutosi a Bolzano l’8-9 settembre scorsi, g.m.)