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Il paesaggio pensato di Mario Giacomelli Intervista con Arturo Carlo Quintavalle

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di Corrado Benigni

«Quante cose col passare degli anni si dimenticano…Ma ricorderò tutta la vita Mario Giacomelli che arrivava dalla sua Senigallia a lasciarmi una busta rossa con le sue fotografie. La sua delicatezza e gentilezza. Giacomelli era un uomo schivo, umile, generoso, che quasi mai raccontava di sé. Per lui parlavano le sue fotografie». Così Arturo Carlo Quintavalle, già professore di Storia dell’arte medievale all’Università di Parma, tra i primi in Italia a scoprire il talento di Mario Giacomelli, ricorda il grande fotografo. Nel 1980 ha curato la prima importante monografia analitica sul maestro marchigiano, in occasione della grande mostra al Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma. Come scrisse allora nel saggio introduttivo del volume: «L’intera fotografia di Giacomelli si può leggere, trascrivere come autoanalisi come e forse molto più di tante altre, e se si dovesse indicare per essa una valenza, o almeno una valenza emergente, questa pare essere forse l’angoscia, e la pulsione di morte unita insieme ad un mitico sogno, quello della memoria che, come ogni ricordo, è appunto amore».

Tra i temi trattati dal fotografo marchigiano, quello del paesaggio è stato senz’altro il più importante, un motivo che ha percorso dall’inizio alla fine il suo lavoro. «L’opera di Giacomelli ha segnato in modo decisivo il formarsi di un nuovo approccio nei confronti della fotografia di paesaggio», spiega Quintavalle.

Quando e come vi siete conosciuti?

Negli anni Settanta, un periodo in cui io facevo la spola tra l’Italia e le università americane, dove ero già stato nel 1964 alla University of Chicago. Un tecnico della fotografia, mio collaboratore all’università, Rienzo Losi, che andava in vacanza in un campeggio delle Marche, mi disse che era diretto da un bravo fotografo e che dovevo assolutamente conoscerlo. Io, in quegli anni, ancora non sapevo chi fosse. Così un giorno è venuto a Parma per mostrarmi le sue fotografie. Mi sono accorto subito che erano foto di alta qualità e da lì è cominciato un rapporto che è durato negli anni, fino a fare la mostra allo CSAC nel 1980. In quell’occasione ho curato un importante volume sulla sua opera, dove sono stati ripubblicati molti testi sul fotografo, fra cui quelli di John Szarkowski, Nathan Lyons, Giuseppe Turroni. Io stesso ho introdotto la mostra e ho costruito una scheda sui diversi nodi delle opere. Penso che quel volume possa ancora oggi essere utile, l’ho realizzato dialogando con il fotografo. I miei incontri con Giacomelli si sono prolungati nel tempo, anche dopo la fine della mostra, lui era molto schivo, ma sempre generoso, arrivava, magari quando tornava da Milano, lasciava la busta rossa con le foto da donare allo CSAC e poi partiva, magari salutandomi soltanto davanti alla porta dell’aula dove facevo lezione.

Cosa la colpì di Giacomelli?

Aveva un bello sguardo, era una persona dolce con una bella stretta di mano e uno sguardo ironico. Non era un teorico della fotografia e tantomeno disquisiva sul bello, credo avesse però una forte cultura storico-artistica, almeno sull’arte contemporanea. Certo quando scorreva con me le fotografie che mi portava, non le spiegava mai, né sul piano tecnico e nemmeno sulle scelte di taglio, di temi, o altro. Parlando diverse volte ho capito che, ad esempio per il paesaggio, lui intendeva modellarlo e quindi suggeriva ai contadini di scavare i solchi col trattore in determinati luoghi e secondo un disegno preciso, insomma una Land Art in chiave marchigiana. Ma la spiegazione di quelle scelte, di quelle rappresentazioni del paesaggio nasce dal suo dialogo con Alberto Burri, con cui deve avere avuto scambi e comunque una diretta conoscenza delle opere. Insomma Giacomelli era tutto fuorché una persona estranea al dibattito culturale.

Perché, secondo lei, era così restio a parlare del proprio lavoro?

Innanzi tutto per pudore. Aveva sì la consapevolezza di essere un grande e originale fotografo, ma non come altri che misteriosamente a quel tempo erano professionalmente forse più affermati di lui. Certo ogni sua fotografia era costruita. In alcune ricerche tarde era sua abitudine portare con sé degli oggetti, dei frammenti del mondo contadino che poi disponeva negli spazi che intendeva riprendere. Il suo era uno sguardo attento agli spazi, al modellarsi del paesaggio ma anche ai frammenti, ai dettagli più minuti, aveva un profondo senso della materia e della sua durata. E aveva una forte attenzione alle persone, come si comprende bene dai ritratti. Pensando al paesaggio, quel progetto di disegno dei solchi, e la scelta delle riprese dall’alto, magari dall’aereo, e poi la decisione di tagliare le foto in un certo modo e di controtipare i negativi per aumentare i contrasti ed eliminare molti dei grigi, tutto questo era una scelta consapevole che fa, di supposte fotografie realistiche immagini di totale invenzione. Giacomelli certo non legge le sue Marche o l’Appennino centroitaliano come un paesaggio da cartolina, si trasforma invece in progettista di una ricerca, di un’arte che ripensa un territorio. Insomma una diversa idea, una land art che penetra nel profondo della storia, come dicevo, legata a un diverso senso della materia e della sua durata.

Eppure lui non si sentiva vicino alla Land Art…

Vero. Se noi adoperiamo i catrami, le muffe, i gobbi, le cuciture, i sacchi di Burri, abbiamo una chiave di linguaggio per capire il senso della materia e la costruzione di Giacomelli; bisogna però considerare che le fotografie si costruiscono con un progetto mentale. Giacomelli lavorava in camera oscura in maniera incredibile, controtipava i negativi per indurirli. Rielaborava molto le immagini in laboratorio; in questo modo le fotografie che stampava avevano una forte incidenza sul piano della scrittura, della grafia. Il modo di stampare di Giacomelli mi ha sempre ricordato il lavoro di Giovanni Battista Piranesi, i suoi numerosi passaggi sulla lastra prima di arrivare all’immagine finale, all’ultimo ‘stato’ dell’incisione. Questo discorso non c’entra con la Land Art, ma ha a che fare con la scrittura, la grafia e l’accento delle sue fotografie. I fotografi, anche se in apparenza non hanno una formazione accademica, hanno sensibilità e cultura precisa e conoscono molto di più di quello che la gente, guardando i loro scatti, riesce a intendere: dietro il lavoro di Giacomelli si sente l’attenzione a Burri, ma anche a Castellani e a Lucio Fontana.

Che importanza ha il tema del paesaggio nell’opera di Giacomelli?

In Giacomelli, ripeto, il paesaggio è progettato, costruito, nulla è lasciato al caso. Le sue fotografie sono sempre delle scene vuote, con rarissime figure, costruite con grande rigore. Nei suoi paesaggi c’è grande attenzione per l’ordine geometrico. Se dovessi pensare e spiegare Giacomelli come un inventore di immagini, direi a uno studente di approfondire Mondrian o Malevič, l’astrazione, e poi di guardare come quelle griglie finiscono nelle cosiddette foto ‘di natura’ di questo autore. Se non si fa questo non si possono comprendere le sue immagini. Nelle foto di Giacomelli non c’è la contemplazione o il patetismo dell’Informale, e nemmeno sublimazione, ma durezza. Proprio nei paesaggi c’è una cattiveria, in qualche maniera un pessimismo nel considerare le cose. Sono un racconto di vita e hanno il senso di un testamento.

Le serie dei Paesaggi in che rapporto stanno con il ciclo del Motivo suggerito dal taglio dell’albero?

Credo che il taglio dell’albero, con le immagini delle concrezioni, della scorza, a volte delle radici, sia un discorso sul tempo inteso come durata, come storia, proprio come nella serie dei Paesaggi. Poi si potrebbe fare un’interpretazione autobiografica, ritrovando in esso la metafora della vecchiaia, della morte, della paura. Lui aveva una consapevolezza precisa e viveva confrontandosi molte volte con la fine. Viveva la durata della vita e rappresentava l’albero come angoscia della morte. D’altronde in pittura l’albero isolato è da sempre una rappresentazione autobiografica palese.

Nelle nature di Giacomelli, pur in assenza di presenze umane dirette, forte è la componente antropomorfa, spesso come proiezione del suo sguardo, della sua immaginazione.

Nella sequenza dell’albero tagliato, abbattuto, ferito, scorticato, ritroviamo lui. L’isolamento dell’albero, il suo taglio, è una proiezione autobiografica dell’autore. Ci sono fotografi che si raccontano e parlano fin troppo e altri che parlano pochissimo, come Giacomelli. Il paesaggio ha invece soprattutto a che fare con la figura della madre, una terra madre, appunto, una figura femminile. Potremmo interpretare il paesaggio di Giacomelli come interpretiamo quello di Giorgione. Nella Venere di Dresda il paesaggio sul fondo del quadro corrisponde all’articolazione del nudo di donna in primo piano. O, ancora, certi paesaggi di Giacomelli ricordano quelli del tardo Giovanni Bellini; l’idea insomma di un paesaggio che si fa figura.

Nelle colline e nei pendii che fotografa c’è anche una componente sensuale.

Proprio la sensualità è una chiave per capire i paesaggi di Giacomelli. Lui ha uno sguardo sensuale su queste curve della terra, delle colline, vede, forse evoca, forme femminili. Coglie in questi paesaggi da un lato la dolcezza, la sensualità, dall’altro l’angoscia. Eros e thanatos, potremmo dire.

Come uno scrittore fa con un racconto, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine, Giacomelli ha costruito vere e proprie narrazioni per immagini. Per questo le sue fotografie dei paesaggi risultano così organiche pur essendo state scattate in anni diversi.

È così. La dimensione, il contrasto, la sequenza delle fotografie è esattamente questo. Per Giacomelli era importante la scelta del ritmo e del senso narrativo che dava a ogni ciclo. In generale la chiave per comprendere le fotografie di Giacomelli è leggere le sue immagini come pagine di un diario, diario di un rapporto fra un grande autore che, attraverso le fotografie, racconta le sue ossessioni, le sue angosce, le sue paure. I grandi paesaggi di Giacomelli sono densi di paura, di un senso di morte durissimo, come molti quadri di Burri. Naturalmente Giacomelli era una figura veramente generosa, aperta, ma non direi solare. Solo a lui poteva venire in mente di realizzare fotografie come quelle di Verrà la morte e avrà i suoi occhi. Qui la pelle dei vecchi è corrotta come le terre dei paesaggi che lui fotografa.

Dalle fotografie di Giacomelli si intuisce la sua straordinaria immaginazione analogica, come forma di pensiero e di sguardo sul mondo.

Io credo che lui riconoscesse nel naturale come l’esistenza di un corpo e credo percepisse e considerasse le colline come corpi fisici, corpi da “vestire” con un aratro, un trattore, corpi da mascherare con delle coltivazioni, corpi che avevano una precisa esistenza. La sua formazione letteraria non era vicina a Montale o Saba, piuttosto poteva evocare certe poesie di Giovanni Pascoli, le Myricae, soprattutto, ovvero Cesare Pavese, in particolare il Pavese de La luna e i falò. La sua opera è tutta tesa a raccontare un’ossessione di morte ma anche la memoria di un paesaggio amato. Tuttavia la sua cultura era attenta soprattutto alla ricerca figurativa, ho detto di Burri e Fontana, ma conosceva a fondo anche l’astrazione, quella storica, indispensabile per capire l’impaginazione, la struttura delle sue opere. Giacomelli si lega comunque piuttosto alla ricerca di Paul Klee che a quella di Max Bill o di Josef Albers. Non era vicino a Morlotti, a Birolli o a Cassinari, che pure raccontavano altri paesaggi; il loro, infatti, è un paesaggio evocato, pensato attraverso Cézanne ma scomposto, corroso dalla matrice Informale. Quello fotografato da Giacomelli è invece un paesaggio vissuto, amato, stratificato di memorie dell’arte ma anche segnato dal dramma, dalla denuncia di una solitudine, dalla sconsolata consapevolezza della fine.

MSQ→AMS→PAR #4

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di Andrea Inglese, Barbara Philipp, Aleksei Shinkarenko

Quarto episodio, di cinque. In versione italiana, primo, secondo e terzo. In versione francese sul sito amico Remue.net, premier, deuxième e troisième. Sulla natura del progetto, leggere in coda al pezzo.

Di colpo mi rendo conto che si tratta piuttosto di un’atmosfera poliziesca, voglio dire la mia esperienza, la mia vita assume questo tono, questi colori di poliziesco, pensavo di avere una vita tranquilla, e invece no, la situazione è tesa,

L’ironia socratica

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di Emanuela Monti

La scala di pietra si arrampicava ripida nell’oscurità, tra le pareti del palazzo. Salii al secondo piano e suonai il campanello. La porta si aprì senza preavviso, senza che avessi avuto modo di percepire i passi del maestro di yoga. Mentre mi stringeva la mano, intimidito dall’ondata di luce dell’appartamento e dalla postura ieratica di Andrea, abbassai lo sguardo e vidi che era a piedi nudi. Il profumo di incenso invase il pianerottolo e mi stordì. Proprio in quel momento incrociai il blu oltremare negli occhi di una ragazza che mi sgusciava accanto lungo le scale, mentre Andrea diceva: “Bonjour, Charlotte. Tu viens?”
“Pas aujourd’hui. Un de ces jours”
Uno di questi giorni che cosa? Uno di quei giorni avrebbe accettato l’invito a cena di Andrea? L’avrebbe accompagnato a una mostra sull’arte orientale? Avrebbero passeggiato a piedi nudi lungo una spiaggia? Li immaginai in tutte queste situazioni, in un atteggiamento di intimità contenuta, preludio di un’altra intimità, ben più sfrenata, e provai un moto d’invidia.
Invece, uno di quei giorni, un paio di settimane dopo, Charlotte arrivò, silenziosa come una gatta. Scivolò al mio fianco e si sdraiò su un telo di spugna a righe bianche e blu, ricordo della sua Camargue. Tra un asana e l’altro percepivo il suo respiro ritmato e tranquillo, come quello di una bambina persa nei suoi sogni.
Anche Charlotte, invece, era attenta ai miei movimenti. Con la coda dell’occhio mi guardava mentre assumevo la posizione del cobra o quella della locusta o quando mi rilassavo nell’asana del loto.
Me lo disse pochi giorni dopo. Non era tipo da mettere tempo in mezzo. Né da farsi intimorire dalla differenza d’età. Anzi, la consapevolezza di essere tanto più giovane di me le dava una baldanza che non si permetteva con i coetanei.
Aveva un’aria delicata, ma negli occhi grandi e cupi, blu oltremare, c’era qualcosa di torbido, qualcosa che mi faceva pensare a una prostituta bambina nell’Indocina della Duras. Come se quegli occhi avessero visto del mondo assai più di quanto si convenga alle ragazze della sua età.
Eppure, quando mi disse che appena mi aveva incontrato sul pianerottolo, il giorno della mia prima lezione di yoga, aveva sentito che ero l’uomo a cui era destinata, che ero quello che aveva sognato fin dall’infanzia, sembrava una ragazzina trasparente e romantica, le cui illusioni non fossero mai state infrante. Mi disse che avevo il profilo nobile e lo sguardo aperto di un filosofo greco. “Staresti bene sulla copertina di un libro di filosofia. Le studentesse si appassionerebbero subito alla filosofia, a partire dai presocratici. Per me le immagini sui libri sono sempre state fondamentali. La geografia, per esempio, non mi è mai piaciuta, perché sul mio libro delle elementari c’era Cristoforo Colombo e Cristoforo Colombo era brutto.”
Non mi pareva che Cristoforo Colombo fosse particolarmente brutto, ma il giudizio di Charlotte era insindacabile. Non c’era nessuno che potesse farle cambiare idea quando si faceva un’opinione su qualcosa. Ma, dopotutto, al momento non mi dispiaceva che fosse così. Mi pareva una garanzia a mio vantaggio: avrebbe conservato la convinzione che io avessi il profilo nobile e lo sguardo aperto di un filosofo greco e che fossi l’uomo a cui era destinata. Ma, se era vero che nessuno poteva farle cambiare idea, Charlotte poteva comunque cambiare idea, seguendo un misterioso processo interiore, innescato dalla sua istintività.
Cominciai a intuire che non era affatto trasparente, e tantomeno stabile, quando scoprii che era bulimica.
Era riuscita a tenermelo nascosto per diversi mesi, nonostante passasse molto tempo in bagno e lasciasse scrosciare l’acqua della doccia per decine di minuti, per coprire il rumore dei conati di vomito.
Ma dal momento in cui lo scoprii mi legai ancora di più a lei. Volevo salvare la mia bambina. La volevo strappare al demone dell’istinto, liberarla dall’incapacità di governare l’impulso a ingurgitare più di quanto il suo organismo potesse tollerare, spinta dall’illusione di riempire il vuoto che aveva dentro.
Pensavo che sarei riuscito a guarirla abituandola alla disciplina. E cominciai dallo studio. La convinsi a iscriversi all’università e ogni pomeriggio lo dedicavo allo studio, insieme a lei. Mi guardava ammirata, nella veste di un filosofo greco che spaziava in tutti i campi del sapere e usava a piene mani il metodo socratico.
Ma come levatrice dovevo valere piuttosto poco, perché la maieutica applicata a Charlotte sortì ben pochi risultati. Alla soglia di ogni esame Charlotte si ingozzava fino a scoppiare e poi passava la notte in bagno a vomitare. Così, puntualmente, mancava l’appello dell’esame. Ora non si prendeva neppure più la briga di far scrosciare l’acqua della doccia. Anzi, pareva che i suoi conati di vomito fossero un tributo dovuto a me, perché le perdonassi a priori l’esame mancato.
Dopo qualche mese abbandonai il metodo socratico e l’ironia. Diventai un maestro meno flessibile e cominciai ad assumere un tono cattedratico.
Mi dicevo che anche in questo Charlotte andava disciplinata. Doveva capire e rispettare le gerarchie. “Troppa confidenza tra il maestro e l’allievo porta a una confusione di ruoli controproducente”, mi dicevo.
Ma quel tardivo rigore funzionava ancora meno del metodo socratico. Il blu oltremare negli occhi di Charlotte si faceva via via più cupo e mandava bagliori di odio.
Mi guardava come una figlia adolescente guarda un padre autoritario. E come una figlia adolescente usava la mancanza di senso di responsabilità per punirmi. Sempre più spesso rientrava in ritardo dai suoi giri misteriosi per la città e non si presentava alle lezioni.
Sentii che la stavo perdendo e, nel tentativo disperato di legarla a me in modo definitivo, decisi di sposarla. Anzi, dato che aveva appena diciannove anni, andai a chiederla in sposa.
Feci finta di non vedere le lagune oscure, dai riflessi di ghiaccio, della Camargue, che somigliavano tanto agli occhi di Charlotte, quando si facevano più cupi. Sorvolai sulla frase di suo padre: “si tu veux la damnation, tu peux l’avoir” e comunque, se mi veniva in mente, mi rassicuravo pensando che l’aveva pronunciata ridendo. E poi Charlotte in quei giorni in famiglia era deliziosa con me. Mi presentava orgogliosa ai parenti e agli amici e la fierezza traboccava dai suoi occhi, fino a tingersi di sfida, quando mi stava al fianco di fronte a suo padre.
Durante il viaggio di ritorno era come se Charlotte fosse già la mia sposa, mentre passavamo tra le distese di lavanda della Provenza, in una primavera brillante.
Eravamo felici e avevamo dimenticato ogni attrito per via dello studio.
Se l’avessi lasciata in pace forse avremmo conservato quella felicità. Ma la volevo salvare. E appena tornati a casa, dopo che ci fummo sposati, ricominciai con lo studio e con il tentativo di disciplinarla.
Così Charlotte prese a ritardare sempre di più. Non tornava neppure per cena, a volte. E appena la rimproveravo, lei, con un gesto di difesa ormai automatico, spalancava il frigorifero e si metteva a mangiare come una furia.
Smisi di proporle le sedute di studio. Smisi anche di rimproverarla perché vagabondava per la città e non rientrava per cena. Ma la notte, puntualmente, si rannicchiava al mio fianco.
Finchè una sera non tornò. Alle due di notte non era ancora rientrata. La cercai dappertutto. Telefonai a parenti ed amici. Chiamai i carabinieri. Nessuno sapeva nulla.
Aspettai come un lupo in gabbia per tutta la notte e finalmente, all’alba, Charlotte mi telefonò.
Aveva una voce strana. La voce di una bambina. “Ora torno a casa. Sto bene”, mi disse.
Feci appena in tempo a farle una domanda: “Sei stata con un altro? C’è un altro?”
“Oui”, pigolò.
Oui. Una sillaba fatta tutta di vocali, un suono dolce e mieloso che deflagrò come una cannonata, un lamento acutissimo, un grido di dolore insostenibile, dentro di me.
A quel suono seguirono le valigie fatte in fretta e furia, una boccetta del suo profumo che scagliai contro le piastrelle del bagno, il rumore di una macchina che la portava via.
Non la vidi quella macchina. Non vidi chi la portava via. Solo qualche anno dopo seppi che da quel giorno in poi Charlotte aveva vissuto felice con un ragazzo appena più giovane di lei, che lavorava come apprendista dall’idraulico. Era guarita dalla bulimia e si era laureata a pieni voti, con una tesi sull’ironia socratica.

L’Atlante delle emozioni umane

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Brighton beach _ John Constable
Brighton beach _ John Constable

È uscito per UTET l’Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith, tradotto da Violetta Bellocchio. Ne propongo qualche voce, ringraziando l’editore. [ot]

Ambiguofobia

Emozione inventata dallo scrittore americano David Foster Wallace per descrivere il disagio che si prova nel concedere spazio all’interpretazione altrui. Per esempio: «La sua ricetta ambiguofoba per il vitello allo yogurt consisteva in sette pagine e quattro disegni schematici».
Si veda anche alla voce: paranoia.

l’Appel du vide

State camminando sul sentiero accanto a una scogliera e di colpo siete invasi da un terribile bisogno: saltare giù. Un treno rapido sfreccia nella vostra direzione, e voi scoppiate dal desiderio di correre e lanciarvi sui binari. Si parla spesso della paura delle altezze, ma in verità le ansie che si possono provare di fronte a un precipizio non hanno tanto a che fare con una possibile caduta, quanto con lo spaventoso impulso a saltare giù… In una scena della Donna che visse due volte (1958), quello che immobilizza James Stewart mentre insegue l’aspirante suicida Kim Novak su per le scale traballanti del campanile non è un attacco di vertigini. Con un abile trucco cinematografico, Alfred Hitchcock spinge in primo piano il pozzo delle scale, e questo rende il punto di fuga molto seducente. La vera paura di James Stewart in quella scena è arrendersi e saltare.
I francesi hanno una parola per questo terrificante impulso: l’appel du vide, “il richiamo del vuoto”. Forse è un pessimo scherzo che ci fa la nostra mente, una specie di test il cui scopo è ricordarci quanto vicino a noi sia il pericolo. Ma soprattutto, come notava Jean-Paul Sartre, l’appel du vide ci trasmette la snervante agitazione del non essere in grado di fidarci dei nostri stessi istinti. E la paura che le nostre emozioni, con i loro perfidi impulsi irrazionali, possano essere capaci di portarci molto, molto fuori strada.
Si veda anche alle voci: ilinx; perversione; terrore.

nutrire delle Aspettative

«“Aspettate e vedrete” disse Nonna. Le luci si spensero, da sotto il sipario brillò una luce. Quel momento mi piacque allora e mi sarebbe poi sempre piaciuto più di tutti gli altri, quando le luci si spengono, il palcoscenico si accende e sai che sta per compiersi un prodigio. Non importa se poi quello che segue rovina tutto; l’aspettativa in sé è sempre pura.
 La speranza del viaggio supera la gioia dell’arrivo, come diceva sempre lo Zio Perry. Io, poi, ho sempre preferito i preliminari. Be’, non proprio sempre
Angela Carter, Figlie sagge

Aspettarsi qualcosa significa commettere un minuscolo furto di piacere. Consumare in maniera avventata una gioia di cui non si è ancora in possesso.
In Inghilterra, fino alla metà dell’Ottocento, un’aspettativa era una somma di denaro spesa prima di essere stata guadagnata: un anticipo sulla dote nuziale, o sulla paga della settimana successiva. Alcune emozioni portano con sé una traccia della loro origine legata al clima o al paesaggio. Il concetto di aspettativa, invece, è fortemente radicato nella storia dell’economia e del denaro.
Forse è questo lieve tocco di scandalo («Non chiedere né dare danaro a prestito!», ammoniva Polonio nell’Amleto) che fa sì che alcuni adulti pongano limiti rigidi alle aspettative dei loro figli. O forse lo fanno solo perché sanno fin troppo bene quali siano gli effetti della delusione. Un conto è attendere con interesse un evento. Ma assaporare nei dettagli più vividi quello che accadrà quando si alzerà il sipario, non è cosa adatta ai deboli di cuore. «In una deliziosa agonia di aspettative», scrive Angela Carter, le sorelle sapevano che presto il sipario si sarebbe aperto, «e allora, e allora… chissà di quali meravigliosi segreti ci avrebbe reso partecipi».
«Aspettate e vedrete.»

il desiderio di Scomparire

A New York c’è un uomo che aiuta gli altri a scomparire. Potrebbe creare per voi una nuova identità. Coprire le vostre tracce con un accurato depistaggio elettronico. E poi vi manderebbe per la vostra strada con un telefono prepagato e un biglietto ferroviario di sola andata – pagato in contanti, è chiaro.
È un’offerta piuttosto allettante. Chi, presto o tardi, non ha mai sentito quell’impulso di svanire nel nulla? Quando un ammasso di aspettative e delusioni si avvicina sempre di più a noi, quando la Claustrofobia dei debiti e dei doveri ci mozza il respiro, la prospettiva di scappare via è seducente. Nella piéce teatrale The Mercy Seat di Neil LaBute, il protagonista Ben si trova davanti alla «possibilità di… cancellare completamente il passato» l’11 settembre del 2001. Se ne stava rintanato in un appartamento con la sua amante quando entrambi avrebbero dovuto essere al lavoro in un ufficio alle Torri gemelle. Ora potrebbero cominciare una nuova vita insieme, ufficialmente morti e senza alcuna colpa.
Per molti di noi rimane una semplice fantasia, questa, troppo clamorosa per poter anche solo pensarci. Eppure, una volta ogni tanto, per sfida, ci provate lo stesso. Perdete la metropolitana apposta; rinviate il momento di mettere il telefono in carica. Vi rubate qualche minuto di solitudine pura, e in quei momenti avete la sensazione di essere liberi da tutto; e riuscite a intravedere che cosa sarebbe essere davvero padroni di voi stessi.
Si veda anche alle voci: solitudine; spaesamento; wanderlust.

un Sentimento formale

A volte le esperienze più dolorose ci lasciano stranamente freddi e un poco “meccanici”. La poetessa Emily Dickinson lo definiva “un sentimento formale”; il cuore sembra rigido e indifferente, le emozioni circospette e cerimoniose. «Questa è l’ora di piombo», scriveva Dickinson. Ma, ci rassicura lei, passerà anche questa. Prima c’è «il gelo», scriveva; «poi lo stupore – poi l’abbandono».
Si veda anche alle voci: Lutto; tristezza.

Radio days

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London Still Calling

di

Mirco Salvadori

 

 

 

 

 

Lascio la Laguna, mi inoltro nella provincia vicentina e raggiungo Rosà, un piccolo paese alle porte di Bassano del Grappa.

Con un breve reading, immergendomi in un luogo un tempo famigliare, reso alieno dai tanti anni trascorsi lontano dalle strobo, dai banchi mixer e dal danzante sudore, aprirò la porta al passato. Sarò cerimoniere di un rito antico, nero come il vinile che dona il nome alla mia storica meta. Mentre viaggio seleziono i miei pensieri, apro i file dei ricordi ed estraggo un momento zippato e catalogato da decine di anni nel profondo dei miei scassati ingranaggi mnemònici.

Mi ritrovo a percorrere lo stesso tragitto in vaporetto: San Marcuola/Piazzale Roma, appostato nell’unico spazio vitale disponibile di fianco alla cabina di pilotaggio, lí dove nessuno puó travolgerti con l’insulto del braccio teso che sorregge una lancia munita di offensivo cellulare innestato sulla punta, a due centimetri dal tuo volto.

 

 

 

Delle rimembranze: inverno 1979. I file man mano si aprono e torno a quel giorno di 37 anni or sono. Ricordo bene cosa tenevo in mano durante quel tragitto in vaporetto. Lo tenevo bene in vista quel disco con la copertina che urlava London Calling! La usavo al pari di uno striscione durante una delle tante manifestazioni che normalmente frequentavo, ci credevo. Ostentavo la reliquia sfidando chiunque a guardarla, anche solo di sbieco. Chi osava soffermare lo sguardo sulla foto dell’incazzato Paul Simonon in azione riceveva il mio sguardo di disprezzo: che ti guardi, mezze maniche! Lo tenevo stretto sul petto, ero l’unico su quel mezzo pubblico che sapesse cos’era rivolta, rabbia, voglia di rock. Avevo 23 anni e mi sentivo fiero, giovane, sicuro. Quello dell’imberbe stupidità era un territorio a me sconosciuto.

 

 

Guido mentre l’insana e improbabile melodia degli Autechre mi aiuta a rafforzare con tagliente lucidità la visione che torna a quel giorno, suggerendomi sommessamente un pensiero: era tutta una finzione, per me allora era impossibile comprenderlo ma tutta quella boria nascondeva solo una veritá; ero già vecchio e in ritardo. In ritardo sul punk, sull’indie rock , sulla rivoluzione. Ero un vecchio ventitrenne inquieto che stringeva tra le mani un doppio lp per giovani incazzati la cui copertina rendeva omaggio ad un ancor più vecchio e morto eroe, sommerso di lustrini e frange nei suoi bianchi completi da bianco d’America. Nel 1979 la mia consapevolezza era decisamente basica.

 

 

 

Parcheggio ed entro, scendo quegli scalini un tempo superati con fatica cercando di trattenere un carro con sopra due pesantissime casse cariche di dischi. Penetro lungo la navata di questo vecchio tempio dove ben poco è cambiato o forse tutto, chissà. Dovrei chiederlo al buon Lallo, sempre seduto a guardia della sua creatura nel botteghino all’entrata ma lo trovo appoggiato al banco del bar che mi guarda curioso: quando ho sentito il tuo nome mi son chiesto se eri veramente tu quel Salvadori che avrebbe letto stasera, lo stesso della radio, quello delle feste dark, hai idea quanti anni sono trascorsi? Un sorriso gli circonda il viso, un sorriso nel quale mi perdo per qualche istante, avvolto nella densa nebbia della commozione.

 

 

 

La voglia di tornare nel buio quadrato, dietro al banco mixer mi assale, una voglia mista di curiosità malata e pesante consapevolezza del tempo trascorso. Seguo l’insostituibile guida nel limbo di una discoteca un tempo mio paradiso privato. Charlie Out Cazale, divino Virgilio che ancora vigila con aria disincantata sul giovane girone danzante, lo fa dall’alto del suo mai esausto antico elettrodomestico che usa la malìa del Tango come gas refrigerante. Tutto è scomparso, non esiste più la confusione d’un tempo: i dischi dimenticati dal resident dj di turno, il paio di cuffie rotte, i mille bicchieri di plastica testimoni dei mille drinks bevuti, il grande mixer e gli insostituibili giradischi. Tutto è volato via assieme alle stagioni che si sono ininterrottamente alternate per oltre trent’anni. Il furioso vento giunto da un futuro allora remoto ha portato con sé la fredda professionalità di due lettori cd, miseri immobili simulacri rilucenti spie che brillano intermittenti, come invisibili lucciole sospese nel calare della notte.

 

Lascio la postazione di mixaggio e torno al bar mentre i giovani volti d’un tempo, trasformati dallo scorrere degli anni incrociano il mio sguardo. Mi appoggio al bancone stringendo in mano un ritrovato Cuba libre, un tempo il primo di una lunga serie che al pari dei catarifrangenti lungo l’autostrada, segnavano il percorso da qui fino all’alba. Tra poco salirò sul piccolo palco di fronte alla pista da ballo, con il mio raffazzonato reading aprirò le porte al rock, quello da anni elegantemente indossato da Renato Abate in arte Garbo.

 

Ci siamo salutati poco fa al ristorante, ritrovati dopo un primo incontro veloce a Verona qualche anno addietro. Guardo il buon vecchio new waver cercando di immaginare cosa possono vedere i suoi occhi, dietro quelle ampie lenti. Non ci conosciamo affatto, se non per via di qualche recensione e intervista dedicate a lui e ai suoi dischi, i pochi ancora rimasti di un’era per me lontana, i pochi che ancora riesco ad ascoltare senza cambiare traccia dopo il primo riff. Non siamo in amicizia ma sento di condividere la stessa provenienza. Apparteniamo al medesimo mondo antico, un luogo che ho lasciato tempo fa, lo stesso che ancora lo accoglie e forse protegge.

 

Passo al secondo drink ed entro nel backstage scambiando qualche parola di rito; sono un ospite di passaggio, viandante senza amici nè legami giunto da un luogo lontano, anima in pena che si fermerà il tempo necessario a capire dove realmente si trova. Ora mi nutro di strane sillogi che odorano di silicio, penetro nei circuiti indefiniti dei numeri e galleggio in assenza di peso nello spazio che si crea tra il silenzio e il suono che produce. Al ritmo delle pelli preferisco quello dei tasti del laptop, allo scalmanato fragore elettrico abdico, nascondendo le tracce della mia fuga dentro scie di purezza elettronica. Sono un ascoltatore che corre costantemente avanti, felice di perdersi in luoghi nei quali sentirsi ancora capaci di attendere con stupore lo scorrere della puntina sul prossimo solco.

 

 

Alberto Milani, bravissimo chitarrista del gruppo di supporto inizia il suo improvvisato carpet sonoro sul quale tra poco inizierò a stendere la mia storia colorata di nero, nero fitto come il colore di quei capelli e di quelle unghie che ancora abitano il mio ricordo. Sarà un breve racconto per celebrare gli anni del fulgore oscuro, quel lasso di tempo racchiuso nel trattino che unisce il post al punk. Una recita più volte interpretata nella vita e sul foglio di carta:

 

Agli Amici che ci hanno lasciato.

Ai new wavers con i quali ho condiviso lunghi tratti di cammino.

Alle donne e agli uomini di oggi che, un disco nero corvino tra le mani, sorridono ancora inquieti ma colmi di esperienza e di Vita …

 

Leggo mentre la mano serra il microfono in una morsa dolorosa, leggo mentre la chitarra incalza il mio raccontare, leggo davanti ad un mare in tempesta che spuma e si infrange contro il banco del bar, un oceano di ondate che urlano e ridono, flutti incontrollabili di giovani vite distanti anni luce da quanto sto volontariamente disperdendo attraverso l’amplificazione del mio raccontare. Forse qualcuno anche mi percepisce, penso mentre leggo, qualcuno che rispetta le regole dell’ascolto, qualcuno che ha vissuto con me quel periodo, qualcuno che c’era e comprende la lingua con la quale mi esprimo. Il basso incalza la chitarra, la mia storia volge alla fine mente goffamente mi inchino davanti al lieve e sempre atteso applauso.

 

Serata di full immersion nel suono d’un tempo, questa. Eccolo lì, in pieno open act a precedere con la sua band il live di Garbo. Il ricordo del Valente amante dell’art decò mi coglie di sorpresa. Un altro superstite di ere remote trascorse seduti sugli scalini della Fenice. Punk, new wavers, new romantics, freaks e ragazzi comuni seduti tutti sugli scalini di un gran teatro delle arti nel quale solo pochi riusciranno in seguito ad entrare. Eccolo interpretare il ruolo del frontman suo malgrado intonso, candido nella sua assenza di alcol e droghe che lo trasformano in attore tenero ed elegantemente educato, dietro un microfono abituato all’urlo sporco di rabbia.

 

La sua intenzione di morir giovane è meravigliosamente fallita, è riuscito ad indispettire il tormento che forse ancora alberga lì dentro, nelle sue più intime fibre. Un fidato cubino pericolosamente appoggiato sul synth alla sua destra, il principe dell’avanguardia musicale italiana anni ’80, colorata di inconfondibile elettro-rock, si offre al suo pubblico. Lo fa naturalmente sapendo di avere alle spalle una band decisamente preparata e affiatata. Garbo distribuisce le sue ultime manciate di dolci rêveries e testi impossibili da scordare. Da abile frequentatore di palchi sa come ammaliare il suo pubblico giocando la carta del paternalismo da viveur sfoderato con furba ironia nelle lunghe pause tra una canzone e l’altra. Avvolge e affascina le ragazze degli anni ’80 che lo imitano cantando a squarciagola tutte le sue canzoni, scende dal palco e con timbro di voce inconfondibile coinvolge una platea con la quale interagisce e si diverte. Siamo ben lontani dall’icona androgina, lontani da Berlino e da quella classica domanda che tutti ora iniziano a porgli. Lontani dalla morte e dalla fredda determinazione romantica di un’epoca che si prendeva troppo sul serio. Assisto in disparte alla performance di un grande entertainer che non riesco più a collocare nel tempo, le immagini mi giungono al rallentatore. Dove siamo esattamente ora tu ed io Renato? Che ci facciamo in questo luogo che, diciamocelo, non ci appartiene più. Alza il volume, sintonizzati su Radioclima e aiutami a fermare questa noia che va, aiutami a capire una volta per tutte quanti anni ho, quanto pesa il tempo che ci portiamo appresso. Il rock preme, aumenta il suo battito e sfonda la barriera di contraddizioni che mi tiene in bilico tra i due mondi nei quali da sempre mi dibatto. Mi unisco al coro imprimendo al mio comportamento un’improvvisa e non prevista accelerazione mainstream. Ora canto, canto con te Renato e chi se ne fotte se qualcuno passando mi vedrà intonare “…e dentro a quel letto mi sento protetto dal tempo che esplode e chiede di me!”.

 

 

Mi avvio verso l’uscita girando le spalle a quell’attimo di tempo ancora sospeso sulle note di On The Radio, un omaggio al Bianco Duca. Una canzone nata nella Berlino…dove tutto andava bene. Parole che profumano di radio e di stelle tra le quali Bowie ora si muove con tutta l’agilità dell’esperto astronauta. Avvio il motore e guardando di sfuggita lo specchio retrovisore scorgo l’espressione sicura di uno sguardo convinto; Londra chiama e lo farà per molto tempo ancora.

 

CREDITI FOTOGRAFICI – LUCREZIA PEGORARO               **esclusa la foto 1

 

La Punta della Lingua Poesia Festival

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12^ edizione

Ancona e Parco del Conero

2-9 luglio 2017

 

 

> domenica 2 luglio

Bologna (e ovunque)

ore 16.00 Facebook Poetry 9^ edizione

Sfida di poesia online aperta a tutti

a cura di ZooPalco

Gioco dadaista con versi estratti a caso, happening con oltre cento poeti in collegamento da tutto il mondo e certamen elettronico, la Facebook Poetry è il primo e unico concorso italiano di poesia pensato direttamente per la rete e condotto online. Dopo Roma e Firenze, quest’anno sarà condotto da Bologna. Le regole sono le solite: dati il primo e l’ultimo verso e una lunghezza massima di 10, produrre in massimo 40 minuti un testo per l’occasione e scegliere, tutti insieme, quello più riuscito. La Punta della Lingua è su Facebook e aspetta i vostri like.

 

> lunedì 3 luglio

Portonovo| Chiesa S. Maria

ore 18.00 Inaugurazione del Festival

Saluti dell’Organizzazione e delle Autorità

 

ore 18.30 Poeti in viaggio (con Roma Marche Linee)

Presentazione del progetto di collaborazione tra La Punta della Lingua, con le suggestioni e le sintesi linguistiche messe a disposizione da alcuni degli ospiti del Festival, e Roma Marche Linee, un’azienda che investe in versi.

Con letture dei testi commissionati per l’occasione.

 

ore 18.45 Poeti da antologia

Letture di Antonella Anedda e Giampiero Neri

Interventi musicali di Marta Collica (voce e chitarra) e Rachel Maio (violoncello)

In collaborazione con Italia Nostra e Hotel La Fonte

Duo d’eccezione, Antonella Anedda e Giampiero Neri sono fra i maestri più riconosciuti della poesia italiana contemporanea.

Poetessa, saggista e studiosa di letteratura, Anedda incunea la verticalità della lirica nel passo disteso della prosa. I suoi libri sono tradotti in varie lingue e hanno ottenuto molti riconoscimenti, fra cui il Premio Viareggio per Salva con nome.

Ricordi del naturalista francese Jean-Henri Fabre, trovati da giovane nella biblioteca paterna, hanno segnato il destino di Giampiero Neri, poeta capace di osservare con lo stesso sguardo da entomologo la natura e l’uomo, ovvero il Teatro naturale che dà il titolo a uno dei suoi libri più amati. Fedele alla sua poetica di essenzialità e rigore e a quella, paradossale, di oggettività e straniamento, anche l’ultima recentissima fatica Via provinciale, che riconferma la centralità dell’esperienza di Neri nella poesia italiana del secondo Novecento e oltre.

Con interventi musicali sospesi tra blues e soundscapes di Marta Collica, catanese di Berlino, già collaboratrice di Hugo Race e John Parish, accompagnata dalla violoncellista australiana Rachel Maio

 

Portonovo| Ristorante Da Giacchetti

ore 20.00 Cena a buffet

 

Portonovo| Chiesa S. Maria

ore 21.30  My Name is Swan

Performance audiovisiva di Jan Noble

Poeta inglese, Noble gira l’Europa con i suoi reading ed è stato registrato dal leggendario produttore Craig Leon negli studi di Abbey Road. Il film tratto da My Name is Swan sarà presentato all’East End Film Festival di Londra quest’estate.

ore 22.00 Poesie che si capiscono cosa dicono

Recital di Tiziano Scarpa

Oltre che saggista e narratore Premio Strega per il romanzo Stabat mater nel 2009, Tiziano Scarpa è anche poeta-performer. Fra i suoi libri di poesie ricordiamo Covers nelle galassie oggi come oggi e Groppi d’amore nella scuraglia, pubblicati da Einaudi, e, per i tipi di Gallucci, la favola in versi Un amico spaventoso, con le illustrazioni di Maria Gianola.

 

> martedì 4 luglio

Ancona | Terrazza Hotel SeePort

ore 18.00 Trent’anni di Poesia e 33.333 versi greci

Il direttore della gloriosa rivista «Poesia», Nicola Crocetti, incontra il pubblico per raccontare i trent’anni della sua creatura e della sua opera di traduttore dal greco. Per l’occasione gli spettatori potranno ascoltare sue traduzioni della colossale Odissea di Nikos Kazantzakis.

In collaborazione con GGF Group

 

ore 19.00 Omaggio a Bob Dylan

Incontro con Alessandro Carrera (traduttore del Premio Nobel alla Letteratura) e Nicola Crocetti (editore e direttore rivista «Poesia»)

In collaborazione con GGF Group

A pochi mesi dall’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura, La Punta della Lingua rende omaggio al più grande poeta in musica del mondo, menestrello della Beat Generation, al centro di un dibattito planetario sull’opportunità del riconoscimento. Il suo traduttore e massimo esperto in Italia, Alessandro Carrera, ne discuterà con Nicola Crocetti, proseguendo un dialogo iniziato su «Poesia», e interpreterà dal vivo brani di Dylan da lui tradotti.

 

Ancona | Terrazza Hotel SeePort

ore 20.00 Buffet

 

Ancona | Arena Cinema Lazzaretto

ore 21.30 No Direction Home

di Martin Scorsese

In collaborazione con Arci Ancona

Proiezione del film documentario che il grande cineasta italo-americano ha dedicato a Bob Dylan nel 2005. Con materiali rari e testimonianze inedite, un omaggio appassionato al folksinger divenuto rockstar e oggi Premio Nobel per la Letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana».

Introduce Alessandro Carrera

 

> mercoledì 5 luglio

Portonovo | Hotel Emilia

ore 18.45 Poesia del nostro tempo

Presentazione di Argo Annuario di Poesia 2016 con il poeta macedone Jovica Ivanovski e la poetessa in dialetto Franca Grisoni. Conduce Franca Mancinelli.

Poeta di Skopje, Jovica Ivanovski ha incontrato la poesia negli anni Ottanta grazie alle canzoni rock. Membro dell’Associazione degli Scrittori Indipendenti della Macedonia, è autore di dodici raccolte poetiche. I suoi versi sono stati tradotti in più di quindici lingue e in italiano sull’Annuario.

Grisoni è una delle più rappresentative poetesse italiane. Le sue poesie in dialetto lombardo, nella varietà sirmionese, sono capaci di piegare la lingua locale all’introspezione, con grande maturità formale e musicalità.

 

Portonovo | Hotel Emilia

ore 20.00 Cena a buffet

 

Portonovo | Hotel Emilia

ore 21.30 Cesare Basile in Concerto

In collaborazione con AMAT

Cantautore catanese, all’inizio degli anni Novanta con la sua band Quartered Shadows Basile si trasferisce in Germania, dove apre concerti di gruppi come i Nirvana. Dal Duemila, rientrato in Italia, si dedica alla musica d’autore, collaborando con Hugo Race, Roy Paci, John Parish, Massimo Volume, Afterhours e altri. Nel 2013 ottiene la Targa Tenco per il miglior album in dialetto con il disco omonimo Cesare Basile. Del 2017 l’ultimo album U fujutu su nesci chi fa? in cui l’autore recupera, con piglio underground, un rapporto privilegiato con la cultura siciliana e la poesia degli ultimi e degli sconfitti.

 

> giovedì 6 luglio

Ancona | Casa di Reclusione Barcaglione

ore 15.00 Ora d’Aria Poetry Slam

La poesia entra in carcere con un Poetry Slam fra campioni locali e nazionali e la partecipazione di uno dei ristretti dell’istituto. Con giuria popolare composta dalla platea dei detenuti. Gara valida per il campionato nazionale 2017-2018 della Lips. Con Alessandro Burbank, Francesca Gironi, Riccardo Iachini, Andrea Mazzanti, Giacomo Sandron, Enrico Suppa. MCee: Luigi Socci

Evento riservato a invito

In collaborazione con Garante per i diritti dei detenuti delle Marche

 

Ancona | Forte Altavilla

ore 19.00 Poesia africana

Lettura di poesia dall’Africa a cura dell’Associazione Leggio.

In collaborazione con Festa per la libertà dei popoli

 

ore 21.30 Poetry Slam dei nuovi italiani | Sfida all’ultimo verso

Con: Alessandro BurbankNicolas Alejandro Cunial, Jonida Prifti, Julian Zhara + 2 poeti da selezionare con Open Call  

MCee: Giacomo Sandron & friend

In collaborazione con Festa per la libertà dei popoli e Libreria Feltrinelli Ancona

Torna l’amichevole disfida in versi del Poetry Slam, quest’anno intonato ai valori della Festa per la Libertà dei Popoli che lo ospita. Perché anche per tenere in esercizio e in buona salute la lingua della poesia, l’apporto degli italiani di prima e seconda generazione ci sembra necessario. Gara aperta a poeti italiani di origini straniere. Per partecipare contattaci al sito www.lapuntadellalingua.it o dalla nostra pagina facebook.

Tre minuti a testa, testi propri, niente musica né elementi scenici. La giuria, rigorosamente estratta a sorte fra il pubblico, decreterà il vincitore della serata. La gara è valida per i campionati nazionali 2017-2018 della LIPS (Lega Italiana Poetry Slam).

 

ore 23.00 Poetry Ethno Party

PJ luigisocci

In collaborazione con Festa per la libertà dei popoli

In linea con le ultimissime tendenze dei club nordeuropei, La Punta della Lingua ripropone la festa ibrida del Poetry Party, fra world music, dance, etnica, hip hop e poesia del Novecento, per ballare al ritmo di Antonin Artaud, Allen Ginsberg, William Burroughs, Amelia Rosselli, Aldo Nove e compagnia poetante.

 

> venerdì 7 luglio

Portonovo | Parco Hotel La Fonte

ore 18.45 Bruciare tutto

Walter Siti presenta il suo nuovo romanzo Bruciare tutto.

In collaborazione con Coop Alleanza 3.0 e GGF Group

Romanziere, saggista, docente di Letteratura italiana, Siti ha insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila. È il curatore delle opere complete di Pier Paolo Pasolini e, dal 2013, il direttore di Granta Italia. Con il romanzo Resistere non serve a niente ha vinto il Premio Strega nel 2013. L’uscita di Bruciare tutto ha scatenato una lunga polemica, sollevata da Michela Marzano per il tema della pedofilia dei preti trattato nel romanzo.

 

Portonovo | Parco Hotel La Fonte

ore 20.00 Cena a buffet

 

Portonovo | Parco Hotel La Fonte

ore 21.30 Poesia quotidiana

Interventi dei critici letterari dei maggiori quotidiani italiani: Paolo Febbraro (Il Sole 24Ore), Roberto Galaverni (Corriere della Sera), Massimo Natale (Il Manifesto), Walter Siti (La Repubblica).

Modera Valerio Cuccaroni

In collaborazione con Coop Alleanza 3.0 e GGF Group

Critico letterario e saggista, Galaverni scrive per quotidiani e riviste, ha pubblicato i saggi Il poeta è un cavaliere jedi Dopo la poesia.

Poeta e saggista, redattore poi curatore del miliare Annuario critico di poesia fondato da Manacorda, Febbraro ha pubblicato monografie su Palazzeschi, Saba, Primo Levi e sulla figura dell’estraneo dai Greci al Novecento.

Docente di Letteratura italiana all’Università di Verona, Natale ha pubblicato monografie su Leopardi, Zanzotto e sul coro tragico. Collabora con «Alias», inserto culturale del quotidiano «Il Manifesto».

La passione per la poesia di Siti è scaturita, da ultimo, nella raccolta La voce verticale. 52 liriche per un anno, articoli scritti nel 2015 per il quotidiano «La Repubblica» e dedicati a poesie di tutti i tempi, dall’antica lirica greca alla contemporaneità, attraverso il misticismo medievale e il barocco seicentesco, il simbolismo e oltre.

 

> sabato 8 luglio

Recanati Poesia in trasferta. Destinazione Leopardi

In collaborazione con Casa Leopardi, Centro Studi Leopardiani, Comune di Recanati, Coop Alleanza 3.0

 

Recanati | Casa Leopardi

ore 10.00 Visita della Casa e della Biblioteca leopardiana

 

Recanati | Centro Studi Leopardiani

ore 11.00 Leopardi scritto a mano – Viaggio negli autografi leopardiani a cura di Massimo Natale

 

ore 11.45 Il poeta e la sua mensa – Memorie e sapori nella vita e nell’opera di Giacomo Leopardi a cura di Tommaso Lucchetti

Recanati | Osteria Via Leopardi

 

ore 12.30 Buffet “leopardiano”

con menù ispirato allo Zibaldone e ad altri scritti del Poeta

 

Coppo di Sirolo-Monte Conero

ore 18.30 Escursione poetica

 

Partenza Bar del Coppo

Una passeggiata tra le bellezze e i sentieri del Parco del Conero, passando per la cosiddetta “lunare” fino alle cave di Monte Colombo. Con pause di letture e ascolto. Con Paolo Febbraro, Francesca Genti, Paolo Gentiluomo Francesca Matteoni

si raccomandano calzature comode

durata: 2 h circa

 

> domenica 9 luglio

Portonovo | Agriturismo Accipicchia

La Punta della Linguaccia

In collaborazione con Ombudsman Marche

 

ore 10.30 La mia casa è il mondo

Laboratorio di poesia per bambini da 6 a 11 anni a cura di Francesca Matteoni

Parole, poesia, immaginazione per dire dove si abita e dove si vorrebbe abitare, come è fatta la nostra casa ideale, chi ci accompagna nel crescere e nel costruire e cosa vediamo quando la porta si apre sul fuori.

 

ore 12.00 Poeti in classe

Presentazione del libro di poesie per bambini Poeti in classe, a cura di Evelina De Signoribus, nuova pubblicazione della collana “La Punta della Lingua” (ed. Italic Pequod, 2017). Che per  riportare l’attenzione sulla poesia si debba “ripartire dalla scuola” lo si dice e ripete da sempre come un mantra. Il festival prova a farlo con 25 poeti italiani di oggi che raccontano la magia del loro primo incontro con la poesia, dedicando ai giovani lettori un proprio testo inedito. Ognuno a suo modo, nella più eclettica delle antologie possibili, dedicata ad infanti giovani e meno giovani.

Con Evelina De SignoribusFrancesca Genti, Paolo Gentiluomo, Francesca Matteoni, Natalia Paci ed altri poeti antologizzati.

 

ore 13.00 Buffet

 

Ancona | Lazzabaretto

ore 21.00 Le Marche della Poesia (Slam)

Letture-performance di Francesca Gironi e Andrea Mazzanti con presentazione dei loro libri Abbattere i costi Il pubblico ludibrio

Per continuare la mappatura (in continua evoluzione) della poesia marchigiana, il focus di quest’anno è rivolto a poeti che hanno fatto dell’oralità il proprio mezzo espressivo distintivo

 

*

 

 

Il programma potrebbe subire modifiche, in caso di maltempo gli eventi all’aperto si svolgeranno al chiuso, controllare il sito www.lapuntadellalingua.it

Gli eventi sono a ingresso gratuito, tranne:

-proiezioni cinematografiche I’m your man e No Direction Home (ingresso € 4)

-concerto Cesare Basile (ingresso € 8, per prenotarsi: AMAT, tel. 071.2072439 da lunedì a venerdì, 16-20 oppure sul luogo dell’evento un’ora prima del concerto)

-ingresso Casa Leopardi € 5

-pasti:

Da Giacchetti € 15, posti limitati, prenotazioni baiadellapoesia@gmail.com (entro venerdì 30 giugno)

SeePort Hotel € 15, posti limitati, prenotazioni 071.9715100, eventi@seeporthotel.com

Hotel Emilia € 15 posti limitati, prenotazioni 071.801145

Hotel La Fonte € 15 posti limitati, prenotazioni 071.801470

Osteria Via Leopardi € 15, prenotazioni baiadellapoesia@gmail.com (entro giovedì 6 luglio)

Agriturismo Accipicchia € 7 (bambini fino a 11 anni), € 15 (adulti), posti limitati, prenotazioni 071.2139069

 

Prezzi convenzionati in hotel e sconti del 20%, scaricando l’apposito coupon dal sito, in ristoranti e stabilimenti di Ancona e Portonovo per “Gli amici e le amiche della Punta della Lingua”.

*

La Punta della Lingua 2017

Direzione artistica: Luigi Socci e Valerio Cuccaroni

co-organizzazione: Nie Wiem | Comune di Ancona  con il contributo di: Regione Marche | Comune di Ancona | La Mole

main sponsor: Coop Alleanza 3.0 sponsor: Angelini | Roma Marche Linee con il patrocinio di: Accademia di Romania | Insitutul Cultural Roman | Mibact | Comune di Recanati | Parco del Conero in collaborazione con: AMAT | Casa Leopardi | Centro Studi Leopardiani | Festa per la libertà dei popoli | GGF GROUP | Hotel Emilia | Hotel Excelsior La Fonte | Hotel Seeport |Italia Nostra | Lega Italiana Poetry Slam LIPS | Ombudsman Marche
partner tecnici: Trivago | Agriturismo Accipicchia | Arci Ancona | Associazione Leggio | B&B Camera con vista | B&B Casa Lella | B&B Zaratan | Consorzio La Baia di Portonovo – Stabilimento balneare e Ristorante Da Emilia – Ristorante Il laghetto da Marcello – Ristorante Il Molo – Ristorante Pesci Fuor d’Acqua – Stabilimento balneare Franco – Stabilimento balneare Il molo beach | Grand Hotel Palace | Ristorante Da Giacchetti | Ristorante La Capannina |  Stabilimento balneare Bonetti | Hotel Della Rosa | Libreria Feltrinelli Ancona | Osteria Strabacco | Pepe lab | Zoopalco media partner nazionali: Rai Radio 3 | SkyArte HD media partner locali: èTV | Radio Arancia Network | Argo | Corriere Proposte | Cronache Ancona | Urlo

 

 

Prove d’ascolto #9 – Alessandra Greco

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_da studi inediti (2012/2016) fondati su ragionamenti inerenti l’udito, la vista e la liquidità_2016

 

 

I.

 

 

 

(25 decibel è un sussurro)

 

le stelle cadono   dell’inchiostro  lo stilo meticoloso    cadono sulla pelle  come punti vuoti  la porta si chiude come una grande croce    le strutture hanno domini complementari    la stella neve    la neve manifesta    tutto in perfettissimo silenzio    quando è il segno che hai paura di morire    cosa dicevi?   vieni nel mio buio più profondo    le stelle cadono dentro uno spazio bianco    non  c’è  alcuna  sovrapposizione    cadono in scie   fanno un piccolo lago   di  lisci   ami     a lato  la testa  l’anello  l’universo    gocce acustiche tenute  in un’unica perla    parole discontinue   rescissioni    secondo    settimo   primo  terzo  taglio   affondi      però  tutti di ammirazione e di affezione    in direzioni  invertite e polari     abbacinanti   e seduttrici   che era buia la notte che tu mi chiedevi  se andava tutto bene   in onde   ai bordi dei foglietti temporali    preparando oltre l’insidia   quelle stelle morenti    e un netto concorso di luci    la chioma scintillante degli alberi  in aprile    o come si apre un fiore  secondo consonanze    l’albero genealogico occupa un foglio   e le spiegazioni gli altri due   senza guardare  fa osservare: le radici continuano a crescere   viste da un’altra angolazione     il naufragio della voce nell’aria    lo smisurato ingrandire dei suoni nei luoghi chiusi   il vetro poroso tempo dentro un cannone   la dimensione degli spazi in questi astri contenuti   quindicesima  notomia di un suono all’orecchio

 

 

II.

 

 

 

(scrizione che il cervello sia uno spazio geografico e architetturale)

 

lla piccola sfenoide incisura del rostro lacrimale the female nude drawing faces & expressions ove scorrere diluito ipermnesico medizin und plastik nervo che si fa cristallo sfera sul labbro superiore e al di sopra degli angoli boccali diradare et de la duplicité monstrueuse avec planches coloriées de anditu et olfactu borgo spinae praeparate cerea campo cutaneo di proiezione di tutti i centri remoti icones oculi humani il punto alla sera non viene all’esterno ma solo al mattino trascina rariora artifiziale e le sue pareti dilatano e si restringono matutinus occorre pensare alleanza in astri organorum fabrica autem catoptrum microcosmicum de lactibus sive lacteis venis microcosmi in laminis aereis et ecce foramen unum in pariet liquido ostendens l’impulso a correre dei venti pone davanti questa immagine lembi di fondo della ragione un circolo in un più grande circolo svanire in plain view parola in ordine suffuso in start ci sono lacrime nelle cose fin dove continua corr

 

in questo modo la sua rapidità diventa normale da uno spazio vuoto nel quale siamo svegli

 

 

 

III.

 

 

 

(giorno#X)

 

il livello strada risplende    le schegge dell’asfalto sono bagnate di pioggia   infatti fuma splendente vapori iris     come quando emette con le labbra     un respiro    e sospirando si intensificano   le sofisticate luci delle griglie di viaggio del segnale di velocità/modifica# il ritrovo#    la funzione della vita tendenzia/sintesi#    in atmosfera tutta contenuta   attraverso  dietro luna  all’interno parato     un lembo del lenzuolo avanza dal letto   una sorta di immagine fuori campo   un suono fuori campo    che passa dietro la testa  e verticali distende   albedo   inis   candor   oris       dove il linguaggio si muoveva da solo

 

 

*

 

 

Nodi

 

 

 

     Contrario alla folgore che riceve l’istante, il silenzio sottomette il tempo.       

 

 

Un nodo, in generale, deve avere tre caratteristiche:

 

  • la semplicità di esecuzione,
  • una buona tenuta,
  • la possibilità di essere sciolto agevolmente.

 

 

i. (nodo Senneh)

 

 

 

  dicono che nel silenzio si nasconda sommessamente tutto ciò che è passato 1          

 

teleidoscopio   minuscola piccola ballata   un piccolo giro nel bosco  attraverso  praterie e ripidi sentieri    miniatura  fortificata  nel cuore     risolto     quando ha lasciato

 

allora il distacco   sul colore

l’image –  di quello che era prima – non corrisponde più alla sua descrizione

è un déjà vu

con moltiplicati rami  e campi gruppo   doppi

simula inquadrature di situazioni familiari     nodature

 

(contigue   al corpo  in modo da

formare angoli

di spola      sul retro verso della pelle)        –  l’apertura  si cangia   e si assorbe

 

focus   ponte     bocca di ponte     vetri elaborati    con rami e foglie dai bracci

si assemblano in forme simmetriche     variano con i movimenti   gli innesti

bello  della  figura  guardare  nella meraviglia  all’interno    nel posto dove

 

conserva il vertice angolare di caduta sul margine della rima

il riposo silenzioso di una cosa chiusa 2 

con continui slittamenti del ciclo    ritorni a elemento     astuzia

di una figura capovolta      riscritta completamente nel suo uso

 

ruota nell’epitelio pigmentato della retina  concava  in direzione opposta al cristallino

traiettorie a scomparsa a tessuti neri exibisce al fondo del tapetum nigrum con colori

 

quello che era prima  non è rigenerabile

colui che li ha creati riposa nell’orizzonte 3   in improvvisi crolli   sgranature da

dove  per inerzia    chiude il brano

 

il sistema   blocca  a margine   fra trama e sorriso      osserva se stesso

in minimi scatti   senza mai ripetersi   trascinando il bordo dell’elemento

 

ai fabbricanti di tappeti

 

il problema del  bordo  è trattato  con molta cura  e  spesso risolto  in maniera perfetta    il campo con motivi di alberi  e  giardini    il riquadro centrale  è un bacino con uccelli acquatici     il Sumach   per mutare i colori    onde si strappa il filo  e si lascia pendere sul rovescio    il Saph o “buono per tutti”  o  “preghiera per famiglia”   dove il campo è diviso in più nicchie   e   la fascia più larga dell’incorniciatura   è  cosparsa  di  fiorellini 4

 

 

 

ii. (luoghi con notevoli ampiezze di marea)

 

 

salve – sono b—–, habito in —– e cerco un lutiao di costituire
mi una piva e un —— (mouthpiece?) e ancie in piu per la mia
povera zampogna —- era molto maltratto e addesso in un condizione
molto ridotto.
salute – b—– 
5

 

in che sien fra loro concordi e somiglianti la luce e ‘l suono 6

 

la prima e seconda giornata di lunazione non contano

la terza indica il tempo [atmosferico]

se questo nella quarta e nella quinta giornata si mantiene come nella terza

allora quel tempo perdurerà fino alla prossima luna nuova 7

 

l’anello sparisce ancora quando il suo piano passa pel nostro occhio

poiché allora non vediamo che la sua grossezza

 

e sparisce pure quando il suo piano passa tra il sole e la terra

 

poiché in questo caso la sua faccia illuminata non è rivolta verso di noi

la terra avendo il tempo di incontrare altre due volte il piano degli anelli

la loro disparizione è doppia 8              è l’otre-caos      rimembra

 

e niun d’essi poter tremare altro che successivamente

e poterne  una parte standosi quieto il rimanente

 

trapassando da una regione   ad altra  condizione

seguendo la vibrazione dell’acqua percossa

talché sott’essa si oda chi parla fuor d’essa

 

come al passaggio gli armenti vengono all’aperto

 

alla maniera della muta vocalica     discordano    piegati al suono

 

appena catturati emettono suoni caratteristici e profondi

 

lo spazio entro il quale  possa volgersi intorno a se stessa  l’idea che

la voce una volta emessa non può più tornare indietro 9

 

sotto questa doppia sparizione si avverte    quasi prossima a indovinarne le forme

 

l’osservante vede in prossimità mutarsi i suoni in immagine

l’osservatore in azione   ruota    la  danza   si sdoppia   devia

nel passaggio che fa apparire tutte le fantasie

 

 

 

 

III. (45° seguendo con gli occhi il percorso)

 

 

 

possono dirsi coincidenti

 

dove la mancanza fa un velo  cesella    traiettorie dello sguardo   immagini interne

gioire per il giardino che è stato promesso 10

 

giorno dopo  estremità tendenti a

giorno dodici che chiude il ciclo     un bacino con uccelli acquatici

non odono  solo bisogno di appartenenza

proiettando le immagini del prisma poi su uno specchio   questo sembra infinito

 

l’acqua sale di livello da dieci a venti metri

la voce maschile scende di circa un’ottava

 

quella femminile di circa due toni

 

 

coloro che si occupano della definizione e misurazione del tempo ne sono a

 

conoscenza

 

parola penetra nella trama   –   permuta i colori

capace di ridurne gli echi    essa sta   nelle osservazioni    da parte a parte

separata dal visibile nell’andatura   poiché allora non vediamo che la sua grossezza

annodature    slegature    intervalli  di giro   –

 

quando traduce i moti che racchiudono i gesti    e fa di mille immagini   una  lacuna

e sott’essa si ode chi parla fuor d’essa    si odono i nomi e non si comprendono

grande arte di luce e ombre     si strappa il filo    si lascia pendere sul rovescio

 

il silenzio in cui compare il suono ricucito          il campo  diviso in più nicchie

nella quarta e nella quinta si mantiene come nella terza      oltre  la ripetizione

scioglie il nodo    a una velocità tale da illudersi che muove

 

è possibile camminare nel domitor 11   e niuna distanza poter tremare altro che  sovra passo

percorrerlo attentamente in tutta la sua magnificenza    rammentare

aperto in assenza di vertigine

deporvi la bocca    SE SEI  – CHE PARLA –   INSICURO DELLO SPAZIO

 

dire: (continua)

 

allora dissero (chi non le conosceva):  è un lampo – e – appartiene al diavolo.

 

 

*

 

 

 

IC 1101

 

 

– distanza da luce erosa –

 

ibridi strati aperti

 

 

 

i. pulvis et umbra

 

 

galassia s.f.: 

  1. (astr.) via lattea; estens. sistema stellare, sistema di stelle;
  2. fig. gruppo, circolo, ambiente, sfera, mondo, universo, insieme.

 

 

le terre emerse mutano  per attrazione e vergenza

a volte   la costa    isola  la terra e la assorbe

 

una zona d’ombra può  incontrarsi sovente sopra vento

 

quando slitta sulla misura dell’occhio

solo di un metro sul livello del mare

 

l’ombra di costa si fa intermittente

 

il complesso delle onde assume una morfologia

piatta su ampie distese

 

argilla  –  silt  –  sabbia fine

sabbia media  –  piccoli ciottoli

ciottoli  –  blocchi

 

distinti in silente

 

 

il controllo dell’indeterminato

 

modula approssimativamente la transizione

 

decelera in lievi seeing 1  con la rapidità del colpo di uno sparo

 

 

lungo le cotidali   l’ampiezza aumenta progressivamente

 

e i suoni possono essere percepiti come sensazione dolorosa

 

esiste una logica nella corsa all’obiettivo

 

esistono forze che non sono reali

 

scaffalature  –  sospeso  –  ancoraggio

pieghevole  –  scarico in ceste  –  folder  –  manichini

 

linee d’ombra ad arco e vortici     tracciano la mappa delle polveri visibili a latitudini galattiche

 

[ basse e intermedie

 

l’esistenza del modello partecipa dell’esistenza dell’oggetto come un’impronta

 

carichi sull’acqua – concentrazioni – traslazioni di reliquie – alcune scomparse – riconfigurazioni

 

 

ii. pulvis scintillans

 

l’impronta è l’alba di ogni immagine 2

 

il sole é sorto alle 6:15 ed é tramontato alle 18:26

esce dalla cicatrice di un mercantile

la luna é sorta dall’est (81º) alle 7:22 ed é tramontata all’ovest (282º) alle 20:36

si tagliano dagli arbori con taglienti e duri ferri

il coefficiente di maree é stato 106 (molto alto)

abbiamo avuto 12 ore e 11 minuti di sole

il tempo in cui la luna é stata visibile é stato di 13 ore e 14 minuti

è stata luna crescente

 

della terra tocchiamo con mano essere scabrosissima e aspra

la scelta   quasi inevitabile  di bruciare     a distanza da luce erosa   le tratte

ripetono                   i corpi si sfogliano   si dimagrano e cambiano

ripetono                    quasi che si avesse a scavare in qualche difficile sottosquadro di panni

la sponda   alta  una decina di metri         l’uso della rete per riportare

in grande       la Aprente 3  recitata sul capo

 

quindi stallano  mesi   in capanne lungo le pareti del porto

bruciare la propria identità   nei fogli identificativi    ha un bel corpo

sottovolto    e spinti direttamente dalla piena forza del fiato

marea   maris refluxus   recessus

perché la fiamma quel basso mare più leggera solcasse

e nel riflusso sedesse 4

i suoni invece di disperdersi verso l’alto   discendono

 

asse parallelo ai corridoi  –  asse relativo ai piani  –  vari interassi tra i corridoi

alternarsi di creste e solchi  –  frange d’interferenza  –  connessure

 

alcune impronte scompaiono da un’immagine all’altra   mentre ne compaiono di nuove  tra luce e luce

 

conchiglie – diatomee – ossa – fiori – gocce 5

 

 

 

 

 

iii. pulvis et ipecacuanhae opii 6

 

microgenerico: fenomeno: immigrazione clandestina

  dominio inerente virtualizzato: società

società macrogenerica: dimensione umana

 

 

la superficie si presenta suddivisa in zone chiare e scure

arco  –  arco a tenda  –  cappio  –  doppio cappio  –  occhio di pavone  –  spirale  –  misto 7

l’obiettivo del fondale è comunicare                                  le linee vanno come onde da un lato all’altro

una rete di preghiera  sfrangiata che raccoglie attraverso punti focali          come l’arco ma con un

[ tralcio crescente nel mezzo

ricoperta da uno spesso strato di sottilissima polvere      le linee partono da un lato e rientrano nel

[ mezzo dello stesso

strato che ha una profondità di circa dieci metri           come il cappio ma con due cappi interni che

 

[ vanno in direzioni opposte

 

 

ricerca attraverso database fra oltre 51 milioni di passeggeri archiviati

 

cerca qualcuno:

 

il controllo viene effettuato alla perdita del punto focale
il controllo viene effettuato ma istantaneamente la finestra si chiude

 

per estensione si definisce ora serrata anche la corrispondente porzione della retina

dove la luce diventa un fatto elettrochimico          come il cappio ma con un piccolo cerchio nel

[ punto di svolta

un secondo lobo di marea rivolto in direzione opposta   per attrito col fondale    le linee formano una spirale

 

la linea di riva     e quindi il livello del mare    si muovono

e si muoveranno nel futuro con modalità diverse

da luogo a luogo   una zona d’ombra potrà circondare completamente la sorgente

e il suono venire deviato verso l’alto             punto di flesso 8                    composto con varie figure

 

per questo essere nel negativo di una doppia conformazione

la polvere nera e la polvere infume

si mostrerà a noi come una macchia luminosa      o potrà rimanere invisibile del tutto

 

se godono di una maggiore capacità di attrazione saranno posizionati alla fine del percorso – per  invogliare a percorrerlo tutto – scenografie a tema cambieranno ciclicamente – primo piano espositivo – fascia espositiva centrale – fondale espositivo 9 – perdite diffuse trascurabili imputabili a gocciolamenti

 

come il prototipo con l’icona  vi lasci  un’impronta       far sì che il modello si travasi nella copia

 

nulla di magico   come si vede   né in mare    né sulle superfici d’asfalto irregolari dei flussi

 

 

per questo e altri motivi di variazione invitiamo a far attenzione agli annunci   algia senza ritorno    mare

 

[ con la sua prospettiva invertita

 

 

 

*

 

 Riferimenti e note:

 

Nodi

 

1  “Dicono che nel silenzio …”, proverbio arabo.

2  “… il riposo silenzioso di una cosa chiusa …” , Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Giulio Einaudi Editore, 1967.

3 “Colui che li ha creati riposa nell’orizzonte…”, Inno al Sole di Akhenaton, scritto nella Tomba di AY.

4  “Il problema del  bordo  è trattato  con molta cura  e  spesso risolto  in maniera perfetta    il campo con motivi di alberi  e  giardini …”, http://www.treccani.it/enciclopedia/tappeto_%28Enciclopedia-Italiana%29/

 

“Salve – sono b—-, habito in —– e cerco…”, https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/zampognari/conversations/topics/166

 

6 “in che sien tra loro concordi… ”, Dizionario e bibliografia della musica, Peter Lichtenthal – 1836.

 

7 “La prima e seconda giornata di lunazione non contano …”, (Prima et seconda nihil, tertia indicat: quarta et quinta talis, tota luna æqualis), http://nuke.come-si-fa.it/Svago/Proverbi/Proverbilatini/tabid/1134/Default.aspx

 

8 “… l’anello sparisce ancora quando il suo piano passa pel nostro occhio, poiché allora non vediamo che la sua grossezza; e sparisce pure quando il suo piano passa tra il sole  e la terra, poiché in questo caso la sua faccia illuminata non è rivolta verso di noi … la terra avendo il tempo di incontrare altre due volte il piano degli anelli, la loro disparizione è doppia …”, Dizionario delle scienze matematiche pure ed applicate: 1: ABB-AZI. Pag 190.

 

9 “Nescit vox missa reverti”, la voce (qui nel senso di parola) una volta emessa non può più tornare indietro, (Orazio, Ars poetica, 390)

 

10 “Gioite per il giardino che vi è stato promesso”, (Corano XLI. Fussilat, 30-32)

 

11  Domitor, sarebbe il nome proposto per il cinematografo da Lumière, contrazione del latino dominator, che rispecchia i sogni e le suggestioni.

 

 

 

IC 1101

 IC 1101 è una galassia della costellazione della Vergine.

 

1 Seeing: capacità di vedere.

 

2 Léroy-Gourhan, cit. in A. Monaci Castagno (a cura di), Sacre impronte e oggetti “non fatti da mano d’uomo” nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale-Torino, 18-20 maggio 2010, Alessandria 2011 (a cura di), L’Archivio “Erik Peterson” all’Università di Torino, Alessandria 2010.

 

3 La Fatiha in arabo: الفاتحة , ‘al-fātiḥa’ costituisce la prima Sura del Corano (al-Fātiḥa vuol dire infatti “la Aprente”).

 

4 Sallustio e Tacito volgarizzati da fra B. da San Concordio e da Bernardo Davanzati, volume unico, Padova Tipografia della Minerva, 1841, pag. 81.

 

5  Ruggero Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Bollati Boringhieri, 1981, pag. 146.

 

6 Thomas Dover (1660-1742). La polvere di Dover era una medicina tradizionale utilizzata contro le sindromi da raffreddamento e la febbre. Era anche conosciuta con il nome di pulvis et ipecacuanhae opii. Non è più in uso nella medicina moderna.

 

7 Impronte digitali, classificazione.

 

Punto di flesso: (geom.) punctum flexus contrarii, il punto dove le due curve della linea sinuosa si incontrano.

Metodi e dimensioni di esposizione nel Visual Merchandising. https://storemanagement.wordpress.com/il-visual-merchandising/

 

 

 

***

 

 

Tra limite e totalità. Appunti sui testi Alessandro Greco

 

di Luigi Severi

 

 

Quindi l’ali sicure a l’aria porgo,
né temo intoppo di cristall’o vetro;
ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.

(G. Bruno)

 

Tanto più egli sarà dotto, quanto più si saprà ignorante.

(N. Cusano)

 

1. I testi di Alessandra Greco, offerti alle Prove d’ascolto 2015, sono excerpta da un lavoro sul mondo, nella sua accezione umana e più che umana. Espressione, questa, troppo spericolata, senza dubbio, per orecchie contemporanee, soprattutto di molti odierni poeti, troppo invischiati nell’antiretorica (in effetti ormai arciretorica) di poetiche del piccolo passo, involontariamente minimaliste (quando non minime): eppure, l’asciutta, e anzi scabra, vertigine universale che si ricava dalla lettura della Greco non ha nulla di retorico: viceversa, vibra asciuttamente di un coraggio conoscitivo tutto incardinato nella misura della scrittura, in una tecnica (di ascendenza modernista) scaturita da uno scatto di visione di cui i pochi testi regalatici in lettura danno un’idea parziale ma sicura.

La ragione di questa vertigine, di questo incanto freddo è nella capacità della Greco di partire dalla coscienza della provvisorietà euristica umana, sulla traiettoria Montaigne-Wittgenstein, per tentare, proprio dall’interno di queste sconnessure tutto sommato fruttuose, innesti sedimentari di una conoscenza pregressa e possibile, di tensione, imperfettamente bruniana, alla totalità. Proprio le continue fessurazioni che minano i testi della Greco, infatti, non solo teatralizzano le zone nere del linguaggio, ma anzi ne fanno scaturire, quasi fossero pause involontariamente associative, durevoli intenzioni di senso, radicate nella storia biologica dell’uomo, ovvero al di fuori del suo tempo linearmente ricostruibile (cioè della storia propriamente detta).

2. Per questo il primo testo della sequenza – a preludio dell’intera opera, nonché di questa scarna selezione – ha per titolo NT (nessun tempo). Si tratta in effetti di una vera e propria dichiarazione di poetica. Per la Greco, la dimensione in cui la scrittura si colloca è altra da coscienza, autocoscienza e storia: è nella zona comune a parola e oggetto, osservatore e osservato, quella zona cioè in cui essi «forse si incontrano e si dimenticano subito dopo», influenzandosi e confondendo i ruoli.

Non si tratta qui soltanto di un’idea di esperienza interiore come collisione e cooperazione esplosiva tra «non sapere» e «oggetto ignoto» (così Bataille, presente alla Greco); quanto di un’aspirazione a uno stato di conoscenza possibile, aperta a intermittenza (quasi per intervalla insaniae) su un mondo come interazione potente tra chi osserva e quel che è osservato, e anzi come intervento creativo del primo sul secondo: «oltre le porte vi sono possibilità che l’osservato si produca se l’osservatore lo compone».

Il punto di partenza, insomma, è un mondo modernamente svelato, giusta l’intuizione devastante di Heisenberg, tra principio di indeterminazione e idea di un travaso tra occhio dello scienziato e fenomeno descritto, spinta poi all’estrema conseguenza, sulla strada della cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”, di un radicamento dell’oggettività nella non-oggettività di chi osserva, e viceversa. La scrittura, come disposizione pura all’ascolto, può scattare proprio su questo displuvio teorico e, più ancora, immaginativo. Da una parte, calcando in senso negativo la dipendenza dell’oggetto dall’occhio di chi osserva, la festosa relativizzazione di ogni conoscenza, secondo una linea che da Pirrone conduce a Berkeley e all’idea dell’infinità degli universi (tanti quanti i punti di vista) di un fisico come Hugh Everett III; dall’altra, l’idea (tipica anch’essa della fisica quantistica) della dipendenza, e persino dell’indivisibilità qualitativa, tra particella osservata e occhio osservante, tra organico e inorganico, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande, secondo una linea che, stavolta, dal Timeo porta diritto alla «filosofia nova» nolana, cioè a quella corrispondenza reciproca di ogni parte dell’universo celebrata con toni febbricitanti (De la causa, principio et uno: «cossì ad una potenza attiva tanto di cose corporali quanto di cose incorporee […] corrisponde una potenza passiva tanto corporea quanto incorporea», ecc.).

Su questo piano si muove, come su uno sfondo azzerato eppure brulicante di tutto, la scrittura della Greco: l’interdipendenza tra ogni entità, vivente e non vivente, osservante e osservata, permette di scavalcare la misura carceraria del tempo, e di tentare una conoscenza altra, còlta per fili trasversali, umani solo in quanto extraumani.

3. Da qui il trittico di testi intitolato Nodi. Nella prima tavola (I: nodo Senneh), l’antica tecnica dell’annodatura del tappeto è atto concreto, ripetuto nel tempo («è un déjà vu») e intimo a infiniti luoghi familiari («simula inquadrature di situazioni familiari nodature»), ma anche allusione al testo stesso («dove per inerzia chiude il brano») e soprattutto alla struttura dell’occhio e all’azione del vedere («ruota nell’epitelio pigmentato della retina concava in direzione opposta al cristallino / […] exibisce al fondo del tapetum nigrum con colori»).

Questo sconfinamento dal tessuto manufatto, al testo verbale, al tessuto oculare, agisce sull’accostamento di frammenti eterogenei, da estratti dalla Treccani online, a un proverbio arabo sul valore del silenzio come rifugio del tempo, all’Inno al sole attribuito al faraone Akhenaton, alla complessità etimologica di “caleidoscopio”, sintesi di una percezione aperta e stupita («bello della figura guardare nella meraviglia all’interno   nel posto dove»). Osservazione, gesto, ars mechanica densa di narrazione, canto astronomico, e struttura biologica, composta nel tempo con muto e corale sforzo di generazioni: siamo immessi in luoghi con notevoli ampiezze di maree, come recita il titolo del secondo testo. In questo caso, ad annodarsi sulla pagina sono suggestioni e intuizioni e immagini legate a suono, luce, scorci astronomici, attraverso segmenti di voci tratte dal materiale (ancora una volta collettivo) di dizionari di primo Ottocento (il Peter Lichtenthal, per la musica; il Montferrier, per le Scienze matematiche pure ed applicate), la cui voce frammentata è posta in contatto con proverbi latini («la prima e la seconda giornata di lunazione non contano / la terza indica il tempo [atmosferico]») e con l’Ars poetica di Orazio («la voce una volta emessa non può tornare indietro»). Un territorio comune, questo, ad esseri e epoche, che ha per confini simbolici la percezione («in che sien fra loro concordi e somiglianti la luce e ’l suono», a apertura del testo) e lo scatenamento dell’immaginazione («nel passaggio che fa apparire tutte le fantasie», a chiusura del testo). Per questo nel terzo movimento (45° seguendo con gli occhi il percorso) il percorso è più decisamente umano: a partire dalle esplorazioni scientifico – immaginative («proiettando le immagini del prisma poi su uno specchio    questo sembra infinito»); attraverso l’immagine del tappeto, come regola di metamorfosi («annodature    slegature   intervalli di giro») o gioco di corrispondenze («il silenzio in cui compare il suono ricucito»); fino al risveglio del suono – parola, comprensione e creazione al tempo stesso («parola penetra nella trama – permuta i colori»). Rito di esplorazione della realtà, propria e altrui, attivato da sempre, anche di là dal significato comunicabile:

dire: (continua)

allora dissero (chi non le conosceva): è un lampo – e – appartiene al diavolo.

4. I tre testi della successiva sequenza, IC1101 – che è nome (come spiega la stessa autrice nelle note) di un’importante galassia, tanto vasta quanto debolmente luminosa per via della distanza – sembrerebbero essere animati da un percorso addirittura opposto rispetto ai Nodi: tanto questi vengono definiti da un piccolo intreccio umano, in cui si sovrappongono costanti più che umane; quanto quelli partono da indicibili enormità siderali, per associarvi minimi e ravvicinati movimenti di umanità. La sostanza di queste tre tavole testuali (pulvis et umbra, pulvis scintillans, pulvis et ipecacuanhae opii) non è, invece, troppo diversa: tanto più che la stessa galassia è quasi un vertiginoso intrico di materia (visibile o oscura) – «nodi quasi di stelle», come voleva Leopardi.

Così, alle voci di Orazio e Milton (se pulvis scintillans è tratto dalla storica traduzione latina di «A broad and ample road, whose dust is gold / And pavement stars»), si somma ancora una volta la voce comunitaria del dizionario, dalla Crusca del 1806 a Wikipedia. Viene dunque tracciata, ancora una volta, una vasta campitura, sempre però frammentaria, e non a caso all’insegna della traccia: dai dermatoglifi, a sabbie e sedimenti, a diari astronomici, a database («fra oltre 51 milioni di passeggeri archiviati / cerca qualcuno»). Tra scenari cosmici, disegnati con la freddezza del prelievo da testo scientifico, al lavorio delle maree, quel che rimane è l’immagine dell’impronta ovvero, a rovescio, l’impronta dell’immagine («l’impronta è l’alba dell’immagine»: così in epigrafe): tracce del visibile (del percettibile) si susseguono, si dissipano e si sommano, in un continuo scambio di segni e di resti che accomuna soggetto e oggetto («l’esistenza del modello partecipa dell’esistenza dell’oggetto come un’impronta»), entro un unico spazio vivente e metamorfico:

alcune impronte scompaiono da un’immagine all’altra   mentre ne compaiono di nuove   tra luce e luce

conchiglie – diatomee – ossa – fiori – gocce

Dal cuore stesso di una contraddizione viva, lo spazio tra osservatore e osservato, interazione e mutua creazione che forse è principio di esperienza e di immaginazione, forse del loro contrario («forse si incontrano e si dimenticano subito dopo    forse si produce un’immagine che / tuttavia non ricordano»), nasce una scrittura disposta a tracciare scorci di una «mappatura» (scrive l’autrice nella nota) potenzialmente assoluta.

5. La tensione conoscitiva che anima questo lavoro è, dunque, altissima. Per salti, nella scrittura possono accostarsi tracce di una rispondenza quasi ilozoista, di fisiologia totale, tra le parti del reale: dai legami segreti tra segni e luoghi in apparenza lontani tra loro («linee d’ombra ad arco e vortici tracciano la mappa delle polveri visibili a latitudini galattiche»); alle simmetrie tra la «geografia, lo spazio esterno» e la «geografia del corpo umano» (così ancora l’autrice). È un’idea, questa, continua nella nostra protomodernità, greca e medievale (il medioevo del Megacosmus et Microcosmus di Bernardo Silvestre), e nella nostra modernità, variamente telesiana o spinoziana. Ma quei «rapporti analogici» tra i diversi «aspetti della realtà», evocati alla base del suo lavoro dalla Greco, non hanno nulla a che fare con moderne (sebbene ugualmente utopiche, e persino politiche) Correspondances, quanto con certa preveggente poesia presocratica, quale il poema fisico di Empedocle: se non che la sapiente similitudine empedoclea è diventata, modernamente, scatto di accostamento tra materiali sedimentati quasi a caso, eppure in qualche modo pour cause, dentro un univoco, sebbene imperfetto, meccanismo di scrittura. L’esito impressiona per l’insegnamento che lascia: la tecnica della Greco sembra nascere dall’incontro di un Perì Physeos empedocleo travolto dal tempo, ed ereditato in frantumi; col lavoro su materiali esogeni e documentari di un Pound, ma senza la poundiana sintesi della melopea, troppo esplicitamente ricostruttiva per poter essere considerata affidabile.

In questo contrasto, tra impulso totale e distanza dal canto unificante, è la ragione stessa dell’opera. Da una parte, una fiducia nello scavo verticale della scrittura, alla ricerca di un senso forte, perché comune a molti uomini nel tempo, e perché di ampia visione; dall’altra, il limite necessario della provvisorietà, che frammenta il discorso sul nascere, lasciandolo allo stato di segnale, di traccia in avanti. Il che non sottrae, ma anzi aggiunge forza all’intenzione della scrittura: consapevolmente lontana da verità discorsive e da invenzioni melodiche, e invece costituita da prelievi, eco di altri, raramente riscritti, sempre accostati senza verifica, cioè in modo provvisorio ma aperto a una (a ogni) ricezione possibile. È apertura verso l’altro in ogni sua forma, secondo la via di un pensiero, antico e costante nella cultura umana, nutrito di slancio lato sensu scientifico – e capace di ricondurre all’umano, ma su basi nuove, di distacco fecondo:

deve poter mettere un riferimento    lasciare una giacca   un odore   una storia

allora potrebbe svegliarsi e sapere di aver fatto un sogno che lo riguarda molto da vicino

potrebbe parlarne

Reinventare la facoltà di seguire e di lasciare tracce, come in un sogno di conoscenza che allontani dall’ossessione necrofila della storia, vuol dire aprirsi («molto da vicino») all’alterità; seminare in modo liberatorio la propria piccola storia («lasciare una giacca un odore una storia»); per ricevere infine l’altrui, «che lo riguarda molto da vicino», come del resto ogni minima vicenda del mondo: così da tornare, finalmente, a «parlarne».

 

 

 

*

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti 

 

 

Il posto dei tigli

3

   di Claudia Bruno

Le mattine di giugno hanno un profumo tutto speciale, che sa di pistilli e cielo, foglie verdi e vento fresco sulle strade accaldate. È così che i tigli alla fine non si trattengono, e si lasciano sbocciare tra le foglie grappoli di fiori.

Non pensate che si possa restare indifferenti a questo incantesimo, no. I fiori di tiglio hanno un profumo inconfondibile, quello delle gioie nascoste, dei piaceri rimasti a lungo inascoltati. Il profumo delle attese segrete, degli imprevisti benaccolti. Un odore grato, a cui essere grati.

Luca Ricci. È fondamentale avere dei difetti

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di Stefano Gallerani 

In pochi mesi, nel 1925, Horacio Quiroga, scrittore uruguiano e tragico, stilò, sulle pagine del settimanale illustrato “El Hogar”, il Decalogo del perfecto cuentista, il Manual del perfecto cuentista e, infine, Los trucos del perfecto cuentista; tre sintetiche emanazioni di un magistero che, tutt’ora, fa di Quiroga uno dei massimi scrittori di racconti del novecento. Da Quiroga, Cortázar sviluppò l’idea della circolarità del racconto – o, più esattamente, della sua sfericità: un sentimento che, tenuto conto dell’intrusione nel racconto del suo autore, “deve preesistere in qualche modo all’atto di scrivere il racconto, come se il narratore, sottomesso dalla forma che adotta, si muovesse implicitamente in essa e la portasse alla sua tensione estrema, conducendola così esattamente alla perfezione della forma sferica”. Che a dirsi – e a citarsi – è facile ma in pratica è più complicato che risolvere un’equazione differenziale in cui la funzione incognita sia un rebus teologale.

Neanche fare, neanche vedere. Sul cinema di Magdalo Mussio

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di Giorgiomaria Cornelio

 

Per la casa editrice Quodlibet è stata pubblicata recentemente un’antologia di scritti critici dal titolo Marginalia, a cura di Paola Ballesi, che traversa l’opera di Magdalo Mussio sul filo d’un discorso pittorico.

Mussio è stato il poeta della memoria randagia, della memoria a non concludere, cioè di tinte, umori e timbri dati come incrostazioni, resti indecisi di senso: «in principio era la rovina». Non si tratta di indugiare nel conforto della catastrofe, di spacciarsi, cioè, ancora per spacciati, ma di disorbitare l’assunto comune, di dire: ci troviamo, come sempre, alla fine dei tempi. Così pure è il suo cinema: uno sforzo di raccogliere -attraverso stanze animate- un etimologiario di termini devoti all’origine eppure da sempre scomparsi ed evasi.

(Senza titolo di Magdalo Mussio)

 

Tre film, tra gli altri: Il potere del drago (1971), Il reale dissoluto (1972), Umanomeno (che nel 1973 vinse il Nastro d’Argento); tre violazioni assemblate in forma di fiaba o forse di riaffioramenti mitici «sul versante ghiacciato del ritmo».  Bisogna innanzitutto dire che Mussio fu collaboratore in Canada di Norman Mclaren, i cui lavori sono già pareti di segni, di antefatti obliterati e messi in circolo, in gioco, giocati e contesi allo stesso tempo con lo spazio vuoto e con la misura del suono (Blinkity Blank, del 1955).  «E Bisanzio è distrutta» tuona una voce ne Il potere del drago… eppure, non assistiamo ad uno statico scandagliare dei ruderi, ma piuttosto ad un pedinamento dell’enigma sismico della superficie, di cui s’affrontano soltanto le tracce e le tracce delle tracce, i rilievi e i numeri dimenticati.

Ancora sulla questione della profondità: ugualmente nel disegno e nello schizzo, il tratto è conteso tra la memoria e la mano. Derrida apre il suo La memoria di un cieco con un frammento di Diderot: «Scrivo senza vedere. Sono venuto, volevo baciarvi la mano. È la prima volta che scrivo nelle tenebre senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà leggete che vi amo».  Regno della scancellatura e della sopraffazione, ma anche fedeltà agli itinerari incerti: così come Cy Twombly dipingeva al buio o con la mano sinistra quadri visitati da memorie verbali, anche Mussio battezza nel suo cinema un elenco di inventari animati e sconnessi come preistoria degli oggetti: nominarli è chiarirne il carattere -di stampa, di riproduzione- affollato di imposture: corpo certo o il luogo di una perdita. Ma nominarli è anche e soprattutto porne la questione in essere, impuntarne il senso e l’eclissi. «Neanche fare, neanche vedere, per proprio riscuotere della vita superflua quel poco di chiarore che essa può pagare» scriveva Emilio Villa.

 

(Apollo di Cy Twombly)

 

Quelli di Mussio sono film colmi di ibridi fecondi, di ibridi inchiodati alle scenografie araldiche, alle macchine industriali o ancora a giostre ospitanti vicende del mito; sono, cioè, film di figure che continuamente si androginizzano, si danno (visitandosi di fotogramma in fotogramma) un nuovo appello: «(…) e si disse che la Terra è tutta torbida, e sotto di essa giace un altro continente» (Il reale dissoluto).  In questo senso (in questo succedersi di montaggi e verifiche incerte), l’intera opera di Mussio potrebbe essere percepita come un’unica grande riflessione attorno all’onnipresente movimento cinematografico delle cose (ecco perché una storia del cinema andrebbe fatta incominciare prima dei Lumière, come tra l’altro aveva già indicato Saint Pol Roux nel suo Cinema Vivente: «(…) la prima presentazione ebbe luogo presso Nabucodonosor. Una sera, sul muro del palazzo che faceva da schermo, si poté leggere in caratteri luminosi: Mane Thecel Phares. L’autore-proiezionista del film altri non era che Daniele dal profondo della fossa dei leoni. Poi vennero le lingue di fuoco. E di seguito, fino ai fratelli Lumière, dal nome così appropriato.»)

 

 

Opera del solco, di materia in lotta, di contesa e fedeltà sregolata verso il segno filmico, liturgia della distruzione e proposta d’etimo (coltivato e irrisolto), la grafica di Magdalo è una parentesi che instaura col cinema d’animazione una conversazione rimasta tutt’ora priva di approfondimento. Anche per questo urge uno studio che sappia vivificarne la misura, affinché il silenzio, come spesso Mussio ha ripetuto, «apprenda a non tradirsi nel tacere».

 

NOTA (2017-2020)

 

Mi pare sempre più evidente quanto già Mussio aveva avuto modo di affermare in un suo appunto del 1977, che qui cito:«[…] ho pubblicato, su Marcatrè, delle colonne di numeri, dall’alto in basso e da destra a sinistra, ebbene non so spiegarlo (ma forse è facilissimo per gli altri): è lì che la macchina da ripresa, il supporto/pellicola pienamente realizzato è chi guarda».

L’affermazione che la vera macchina da presa «è chi guarda» è un’ulteriore conferma di quanto si poteva comprendere proprio da un’attenta osservazione delle «colonne di numeri»: il cinema di Mussio sarebbe, prima ancora che una serie di cortometraggi, un qualcosa di interno al montaggio dei segni, e insieme un processo di accensione della percezione, un modo animare lo spazio ben teorizzato da Von Hildreband ne Il problema della Forma nell’arte figurativa (1893). Spiega Andrea Pinotti: «Per Hildreband, […] il movimento è ciò che permette l’articolazione del senso, è ciò che permette di connettere gli elementi disponibili nello spazio, è ciò che permette di formare l’oggetto […]. Per questo l’opera d’arte contiene sempre le indicazioni della mobilità, perché essa stessa è un suo prodotto e nello stesso tempo chiede al fruitore di mettere in movimento la propria attività percettiva che gli consente di comporre/scomporre l’immagine.»

Il cinema, dunque, come movimento percettivo: qualcosa di non fissabile in un’unica disciplina, ma piuttosto l’attentato che ogni disciplina ben “delimitata” rivolge contro se stessa.

 

 

Il rovescio della libertà

1

di Giorgio Mascitelli

Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Macerata, Quodlibet, 2017, € 22.

Sarebbe un vero peccato che la ricezione di questo libro di Massimo De Carolis restasse confinata agli addetti ai lavori del dibattito filosofico- politico contemporaneo non solo per i meriti di una scrittura chiara e  non priva di un rigore didascalico che non dà mai per scontati i concetti chiave su cui si fonda l’argomentazione, ma anche per le qualità, per così dire, cartografiche del testo: mi sembra infatti che questo saggio costituisca una vera e indispensabile mappa per orientarsi nella crisi politica, economica e di valori odierna.

Assunto di partenza di De Carolis è che il neoliberalismo non sia semplicemente una dottrina politica ed economica, ma un’ideologia complessiva che tende a rimodellare tutti gli ambiti dell’esistenza umana a partire da una certa antropologia, ossia da una certa idea dell’uomo e della sua natura, e a presentarsi come una tecnica di governo di ogni dimensione della vita. Non è un caso, infatti, che il testo fin dal sottotitolo si richiami a un concetto, il disagio della civiltà, estraneo alle categorie politico-economiche oggi in voga e tipico del pensiero filosofico umanistico e psicoanalitico. Coerentemente con questa premessa, la tesi che l’autore sviluppa “è che a spingere, ai nostri giorni, il neoliberalismo verso il suo inesorabile tramonto non siano le urgenze economiche o gli equilibri politici fluttuanti, ma principalmente la sua incapacità di riconoscere, capire e governare fino in fondo proprio la dimensione antropologica primaria che esso stesso ha contribuito a fare emergere.” ( p.16). In pratica il mondo che è stato generato da decenni di politiche neoliberali è totalmente ingovernabile e persino incomprensibile secondo quegli stessi metodi di governo.

L’idea cardine su cui è stata costruita questa operazione di governo è la catallassi: questa parola, coniata su un prestito dal greco da alcuni economisti neoliberisti, indica l’ordine spontaneo che nasce da una sorta di gioco di mercato a cui partecipano tutti i membri di una società nel perseguire i propri interessi individuali. Questo ordine non solo è superiore a quello prodotto da qualsiasi pianificazione politica ed economica, ma soprattutto non attiene soltanto alla sfera dello scambio economico. Infatti la catallassi investe tutto l’agire umano che, in sintesi, è improntata a una regola generale del do ut des, che funziona in tutti gli ambiti dell’agire sociale. In altre parole le regole di mercato non funzionano solo per l’economia, ma definiscono la stessa azione umana in ogni momento dell’esperienza sociale. E’ questa tra l’altro uno delle grandi differenze con il liberalismo classico, nel quale, per esempio, Adam Smith affiancava all’egoismo razionale del soggetto di mercato uno spazio in altri ambiti della vita per azioni determinate da sentimenti morali.

Il gioco della catallassi è, secondo i neoliberisti, l’unica possibilità per una società di resistere ai rischi di rifeudalizzazione, con questo termine viene indicata la tendenza da parte dello stato o di gruppi di potere privato di bloccare la libertà di scelta dei cittadini ottenendo di solito ubbidienza in cambio di protezione. Le politiche di governo devono pertanto contrastare questi rischi creando le condizioni nella società perché la catallassi possa operare. Queste politiche però devono per quanto possibile ridurre al minimo le decisioni, ossia l’atto politico vincolante per l’intera collettività, e invece, tramite una serie di provvedimenti amministrativi e di incentivi e l’introduzione di regole informali, in breve tramite quella che si chiama governance, favorire la scelta individuale.

Ovviamente De Carolis ha qui buon gioco a mostrare che la caratteristica essenziale della nostra società dopo trent’anni di governance neoliberista è proprio quella della rifeudalizzazione: dall’abnorme aumento di potere di gruppi privati in grado ormai di trattare i governi nazionali dall’alto in basso come ai tempi di Carlo il Temerario, alla sempre più frequente nascita di enclaves ormai non sottoposte alla legge fino al ritorno delle compagnie di ventura e dei signori della guerra nei paesi ‘salvati dalla dittatura’ dalle varie guerre umanitarie. Con un’analisi stringente e rigorosa De Carolis mostra come tale risultato non sia il prodotto di congiunture impreviste ma l’esito naturale delle teorie neoliberali. La catallassi infatti non è nient’altro che la semplificazione idealizzata delle condizioni in cui si svolge concretamente il gioco del mercato. Basti pensare a titolo d’esempio che la distinzione fondamentale in questa teoria tra ‘decisioni’, negative perché basate su un’imposizione di una volontà sovrana sugli individui, e ‘scelte’, positive in quanto espressione della creatività individuale che non vincola nessun altro, è nella realtà molto meno netta, dove le scelte di alcuni soggetti potenti si trasformano in vincoli per la libertà di scelta di molti subordinati e in definitiva in decisioni travestite da scelte. A questo proposito sono molto illuminanti le considerazioni che De Carolis dedica all’uso di metafore sportive da parte dei teorici neoliberali per illustrare l’azione della catallassi perché richiamano l’idea di una competizione paritetica retta da regole formalizzate e stabilite in precedenza quando nel quotidiano non esistono o quasi circostanze del genere.

Nonostante ogni giorno emerga sempre di più l’evidenza dello scacco del neoliberalismo nel gestire le grandi questioni del nostro tempo e in definitiva nel governare il disagio della civiltà, De Carolis rileva che esso ha ottenuto un grande successo antropologico nella modificazione della cultura diffusa che vede sempre più soggetti affidarsi al gioco della catallassi in ogni ambito della vita e a un’accettazione della prospettiva della atomizzazione della propria vita sociale. Il neoliberalismo ha ottenuto questo successo perché ha lavorato sul desiderio di riconoscimento individuale tramite la sua misurazione con un valore apparentemente oggettivo quale il denaro; in questo modo esso offre, tradotta in una forma misurabile e secolarizzata, l’idea calvinista del successo terreno come segno della benevolenza divina, che Max Weber considerò essere alla base dello spirito del capitalismo. Dunque sconfitta socioeconomica e successo antropologico del neoliberalismo sono due volti della stessa medaglia.

Incidentalmente  vorrei osservare che l’attacco alla cultura umanistica perché improduttiva a cui si  assiste oggi e le riforme della scuola, che mirano a liquidare qualsiasi funzione di formazione culturale della stessa, in un quadro del genere assumono un significato ben più profondo di quello comunemente attribuitogli: non si tratta semplicemente di un attacco ad articolazioni dello stato sociale, ma l’eliminazione di pericolose fonti di idee per una vita alternativa rispetto a quello dell’umanità atomizzata e dedita al gioco del mercato che il neoliberalismo prefigura.

Il libro di De Carolis si conclude con la constatazione che il tramonto del progetto neoliberista rende necessaria una nuova alleanza politica per governare le contraddizioni lasciate aperte. E proprio il ritorno della politica o meglio il ritorno di una dimensione politica nelle nostre vite  può essere il cammino di uscita da un processo di atomizzazione sociale ormai dominante, visto che l’ascesa del neoliberalismo  non sarebbe mai stata possibile senza il processo di radicale depoliticizzazione che ha investito il mondo occidentale nel suo complesso a partire dalla seconda metà degli anni settanta.

 

 

 

MSQ→AMS→PAR #3

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di Andrea Inglese, Barbara Philipp, Aleksei Shinkarenko

Terzo episodio, di cinque. I primi due in versione italiana, qui e qui. In versione francese sul sito amico Remue.net; qui e qui gli episodi precedenti. Sulla natura del progetto, leggere in coda al pezzo.

Ho finito davvero per incontrare qualcuno, alla fine, ma non chi mi aspettavo. Avevo in testa delle apparizioni un po’ esotiche, un po’ stravaganti, e già non pensavo più agli animali, a dirla tutto ne ho abbastanza degli animali. Non sono mai presenti, non gli si può dare fiducia.

Prove d’ascolto #8 – Marco Giovenale

0

da Oggettistica

 

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In sala d’attesa l’anziano avvocato minaccia l’anziana consorte con una cannuccia,

le ripete a bassa voce e educatamente, anodinamente, infinite volte, la parola “avanguardia”. Le dice impercettibilmente “avanguardia, avanguardia”, e la tocca con una punta di cannuccia, le tenta il braccio, delicatamente: “avanguardia, avanguardia”. È calmo, è disinteressato.

 

 

 

 

da Teatro di prima

 

 

1.

omnis sapientia a deo. dall’ospedale si esce con un bizzarro movimento a u intorno alla cancellata di perimetro. si tratta di dirigere il discorso / rendersi liberi dalla guerra. si tratta della debolezza di capire. si tratta di aggiungere le cose o di raggiungerle. è poco chiaro. comunque si tratta di far rientrare la carta nella tasca. la situazione cambia con la guerra, con l’inizio della guerra, con la continuazione della guerra, con la fine della guerra. la situazione cambia con il dopoguerra. cambia con la ricostruzione. la situazione cambia. la situazione cambia con la situazione.

 

 

2.

cancellatura iniziale. si tratta di tornare indietro di pochi anni. e di parlare lentamente per dare modo ai tecnici e agli storici di prendere appunti, vedere bene le bombe, le linee della contraerea. fare una cartina. sulla rete dei tubi, sulla rete di corridoi, si tratta di spostare dei segni di luogo, sempre più di lato, fino all’uscita dal campo ottico. cosa sono le mattine. cosa sono gli esiti delle piccole malattie dei piccoli animali. su uomini e cose. la situazione cambia dopo. la situazione cambia dopo le malattie dell’infanzia.

la situazione cambia dopo l’invenzione dell’alfabeto. infezione. la situazione è presa seriamente dai radiotelegrafisti. c’è un mormorio. è il mormorio delle foglie. è quello delle frequenze.

 

 

3.

dicono di dover iniziare. ogni inizio deve anche dare il quadro di quanto segue. le molle a spirale nell’orologio saltano fuori e svoltano per spiegare precisamente, più precisamente, il tracciato temporale. si tratta anche di capire la differenza. se scatti una fotografia stacchi l’orchestra dagli stalli, dall’incavo. il timbro non colpisce soltanto ma si sospende. stacca, cioè, va in alto. si tratta di capire se questa latenza a sua volta timbra e marca qualcosa, e cosa. ci si china sui blocchetti, non è ancora lo scatto (dell’orologio, della chiave) ma la latenza di tempo sottile prima. del prima dello scatto.

 

 

4.

è pieno di pezzi di scacchi. la scacchiera è gremita. tutte le caselle tranne una sono prese. i pezzi sono tutti cavalli, solo cavalli. si tratta di capire se ci sarà modo per tutti di muoversi, essendoci solo una casella utile. il treno continua a tardare nella spira. l’ekphrasis è interdetta perfino da prima, senza tacca per far leva sulle valve di sbloccaggio. le situazioni non sono mai trasparenti. il periodo di piombo procede da un periodo di piombo.

 

 

 

 

Il corpo del discorso (titolo da non usare)

 

 

Il quel. Il quel corpo perde frequenza.

Alla conferenza

alla casa del discorso.

Ci sono queste cose in città, segno di civiltà. Tutte le bombe lasciano buche. Il discorso bombardato ha lasciato una buca. Educatamente un vuoto.

E allora:

La comunità il comune il sindaco ci hanno fatto una casa dedicata. La casa del discorso.

In quella casa tengono i discorsi.

Bianca, delicata, Biancamaria spiega quanto era diverso negli anni passati, quaranta cinquant’anni fa. Diverso tutto, non solo il discorso, che c’era.

Con una voce che visita le baracche, i camion.

Scena. Non risponde, non ne rispondono, quando arriva arriva. Non lo si può stare mica ad aspettare, se anche lo aspettano, ripetono. Quando il corpo è pronto, cade. Se non cadesse sarebbe un segno. A ben guardare, in un altro senso, anche quando cade è un segno. Fa segno.

Ha un gran daffare col suo corpo. In corpo sano. In corpo minore. Dà anche dei cenni, non vorrebbe, sembra già eccessivo, dà i suoi cenni. Un po’ si trattiene un po’ no.

Quando sono passati gli anni, sono passati, inutile dire, che lo dica o no è così. Il corpo dà alcuni segnali. Invecchiando, ma anche non invecchiando, in una prospettiva diciamo sincronica, manda dei segnali. Si irrigidiscono dei punti. Si possono o devono ascoltare, decifrare, i segnali che il corpo manda. La parti del corpo si abituano. Si abituano gli alluci, alla stazione eretta. Si abitua il pollice, a contrastare le tensioni delle altre dita sbucciando l’arancia.

Digitando si altera tutto un fondale intorno, i pesci cambiano colore, è anche una cosa di clima, come si dice.

Crescono tutti come dei fiori, delle parti di parole.

Digitando smette, non sente più il corpo. Osservando l’acquario dalla spiaggia, o il mare dall’acquario, distingue. Sente come se stesse cadendo, a fondo, nel proprio petto, dice. Dice queste cose poco prima, poco prima di addormentarsi lasciando degli spazi tra le parole dopo. Gli spazi sono occupati dal corpo. Il corpo come l’acqua, come il come, si prende ingiustamente o giustamente tutto lo spazio disponibile, tutto lo spazio in assoluto. Per non dire che misura tutto quel che assoluto proprio non è, neanche a dirlo.

Ha corpo, si beve. Si lascia bere. Ha un corpo ben fatto, passa da un decennio all’altro. La disinvoltura del corpo. Un altro capitolo, un capitolo dell’emozionante situazione.

Prima di sposare la percezione del tempo al proprio riflesso, sposa quest’ultimo sempre a sguardi terzi, di altri ad altri. I corpi opachi, i corpi celesti.

Se lo ripete. I corpi opachi. Suona bene.

 

 

 

 

Sequenza

($TRING$)

 

 

I

È come se non se ne accorgesse
Come spinasse un salmone o due proprio più piano
Quanto sole prende su viale Libia
Come fa
Mi vede lui per primo mi chiama
Prendiamoci un caffè sto andando in posta
Da quel giorno
Come del resto sarebbe successo di non avere tempo
O ha tempo o lo trova in qualche modo
È per non accorgersi
E di scrivere
Inoltre
Leva le puntine dal muro, le righe di matita
Desquadra il foglio A3
Viene a trovare le commesse della Standa
Si attarda a distrarsi sui lavori del parcheggio
Sono andati via tutti

 

 

V

I vichinghi attaccano le coste
Dai mille ai tremila uomini
In Britannia si difendono come possono
Non tutte le leggende sono frutto di fantasia
Alcune grotte sono state affrescate in punti inaccessibili
30mila anni fa
Non è educato
La cappelliera non contiene più di un cappello
Se articolato
Ha fatto telefonare l’autista per vigliaccheria
Non ha coraggio di farlo lei
Sobilla le persone
Dice continuamente bugie
Ha mentito su tutto
Non si interessa della nostra salute
Non sa niente
Telefona solo quando le fa comodo
Per farci delle parti
Abbiamo dovuto mettere un avvocato
Iniziano molto presto
Si fortifica ovunque
Per evitare le razzie
Gli incendi dei villaggi
Nemmeno la caccia è più sicura
Abbiamo messo l’avvocato

 

 

XIII

Il tenente soffre perché tiene
L’utente quando usa
Usa dire così in società
Si batte moneta
Vicendevolmente incolpandosi
Che ci stanno a fare i poveri
A che serve la geografia

 

 

 

 

Cena in Chianti

(un fatto vero)

 

 

La famiglia incontrata è di quasi prima o quasi del prima
Della campagna di prima c’è rimasto poco
Più legno che plastica
Ci stanno i per la riserva
Ci va più legno coltivano i fagioli a casa il legno
Sbuffa che sta senza fumo dal camino
O ti ci invitano a casa mangia
Il cane fa il formaggio sul tavolo di cucina
Col muso fa il muso
Ti ci mangia del piatto lui nel piatto cane prima
Di mangiare mentre mangiate bava lo alita
Lo sèntiti alitarti nella mano quando gli dai
Lo zuccherino curvo, a C, ti bava la mano
Il palmo è un colare nelle posate dal brodo
Sul legno, nella scodella come mai non mangi
Non sentirti in imbarazzo fa il formaggio
Fa il cane mangia non fare complimenti
Mangia con noi

 

 

 

 

Contenuti

 

 

Non è vero che è senza contenuti. È pieno di contenuti. Hanno dovuto fare delle canaline per portarlo. Ha tutte delle grondaie intorno per quando i contenuti fuoriescono. Lo osservano da fuori, anzi, e anzi hanno paura che scoppi, tanto è pieno di contenuti. Addirittura incombono. Usano questo verbo, incombere. Si pigliano pure la briga, anzi l’incombenza, di inventariare i contenuti, con disperazione, proprio per il loro numero. L’aspetto quantitativo, come si dice, schiaccia l’aspetto qualitativo.

 

 

*

 

 

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

Gli anelli di Saturno

5

 traduzione di Alessandra Giannace

https://saturn.jpl.nasa.gov/science/rings/

Prima d’ora gli scienziati non avevano mai studiato la dimensione, la temperatura, la composizione e distribuzione degli anelli di Saturno, osservandole dall’orbita stessa del pianeta. La sonda Cassini è riuscita a catturare straordinarie interazioni tra le lune e gli anelli, a rilevare – degli stessi- la più bassa temperatura mai registrata finora, a scoprire che dalla luna Encelado si origina l’anello E del pianeta e, infine, ad osservare gli anelli durante l’equinozio, quando il Sole li colpisce direttamente sul bordo, rivelandone dettagli e caratteristiche mai visti prima.

 

Punti chiave:

 

  1. Le particelle che formano gli anelli di Saturno possono essere minuscole come un granello di sabbia o gigantesche come montagne.
  2. La sonda Cassini ha scoperto che i getti d’acqua che si osservano sulla superficie della luna Encelado forniscono la maggior parte del materiale che costituisce l’anello E, il più esterno degli anelli di Saturno.

3.Cassini ha osservato che gli anelli presentano tratti caratteristici chiamati “raggi”, i quali possono essere più lunghi del diametro della terra. Gli scienziati sostengono che siano formati da minuscole particelle ghiacciate tenute in sospensione da una carica elettrostatica, e che vivano soltanto poche ore.

  1. Durante l’equinozio di Saturno, la luce solare colpisce gli anelli sul bordo e di conseguenza essi proiettano lunghe ombre rivelatrici della presenza di ammassi grandi diversi chilometri.

 

5.In tutto il sistema solare, nessun altro pianeta ha gli anelli belli come quelli di Saturno: sono così estesi e luminosi da essere stati scoperti non appena i primi telescopi furono puntati al cielo.

Galileo Galilei fu il primo a scandagliare i cieli con un telescopio e ad assicurarsi lo status di gigante dell’astronomia scoprendo le quattro grandi lune di Giove, nel 1610. La distanza tra Saturno ed  il Sole è circa due volte quella tra Giove ed il Sole, eppure i suoi anelli sono cosi grandi e brillanti che Galileo li scoprì nello stesso anno in cui notò le quattro lune di Giove.

 

Cassini ha osservato che mentre alcune delle  lune di Saturno rubano particelle agli anelli, altre ne riversano all’interno.

 

Nei 400 anni trascorsi dalla scoperta di Galileo, gli anelli sono diventati la caratteristica più particolare e forse anche la più riconoscibile tra tutti i pianeti del Sistema solare. Da dieci anni, la sonda Cassini li studia più da vicino di quanto altre sonde abbiano mai fatto.

Insieme alle lune, gli anelli rappresentano la terza componente essenziale del sistema di Saturno;  spessi circa 10 metri, sono composti quasi interamente da miliardi (se non addirittura migliaia di miliardi) di blocchi di acqua ghiacciata, alcuni piccoli come un granello di sabbia, altri imponenti come montagne.

La missione della sonda Cassini ha contribuito a comprendere meglio alcuni dei comportamenti più strani degli anelli e ad osservarne di nuovi.

Poche altre attrattive, nel sistema solare, sono più straordinariamente belle del pallido Saturno abbracciato dalle ombre dei suoi maestosi anelli.

 Al fine di osservare meglio la dimensione, la composizione e la distribuzione delle particelle che formano gli anelli, la sonda Cassini ha studiato  il modo in cui la luce di una stella lontana cambia quando li attraversa e come anche la luce solare venga rifratta dagli stessi.

È stato scoperto che mentre alcune delle lune di Saturno sottraggono materiale agli anelli, altre lo convogliano all’interno.

La maggior parte del materiale che si trova nell’anello E – l’anello che si estende all’esterno dei più splendenti anelli principali- proviene dalla luna Encelado, la quale orbitando intorno al pianeta, rilascia particelle ghiacciate e gas. La sonda ha inoltre scoperto che molte delle lune di Saturno orbitano letteralmente negli anelli (alcune solo parzialmente) costituiti da particelle schizzate via dalle stesse lune in seguito agli impatti con micro meteoriti.

La sonda ha persino individuato tratti caratteristici a forma d’elica, spesso lunghi migliaia di chilometri, la cui comparsa era stata segnalata per la prima volta nel 2006. Le eliche si formano per via dell’influenza gravitazionale delle piccole lune – grumi composti dallo stesso materiale degli anelli e dal diametro di circa 1 chilometro – cosi chiamate poiché più piccole di una vera luna, ma più grandi di una singola particella degli anelli.

Le piccole lune scaraventano le particelle degli anelli centinaia di metri al di sopra e al di sotto degli stessi, formando così le caratteristiche eliche immortalate dalla sonda.

Queste particelle vengono sollevate nello stesso modo in cui una barca in movimento crea una scia dietro di sé: quelle più vicine a Saturno si muovono più velocemente delle piccole lune, mentre quelle più lontane si muovono più  lentamente rispetto alle stesse, e poiché l’interazione è gravitazionale, man mano che le piccole lune orbitano, formano scie. “È come se l’acqua intorno alla piccola luna si muovesse in due direzioni opposte” ha dichiarato Linda Spilker, una degli scienziati del progetto. Nonostante queste scie gravitazionali somiglino ad eliche, non ruotano.

L’11 Agosto 2009, Cassini è diventata la prima sonda a fornire agli scienziati una vista estremamente ravvicinata degli anelli di Saturno durante il suo equinozio.

 

 Un pianeta “sull’orlo”

 

Proprio come quello della Terra, l’asse di Saturno è inclinato. Per metà del suo anno, il pianeta “inanellato” è curvato verso il Sole che illumina, quindi, la superficie superiore degli anelli. Per l’altra metà, invece, Saturno si inclina all’indietro permettendo al Sole di illuminare il polo sud cosi come la superficie inferiore degli anelli. In questo modo, per due brevi periodi in ciascuna delle orbitazioni di Saturno attorno al Sole, il bordo degli anelli è rivolto direttamente ad esso. Questo fenomeno chiamato equinozio permette ai due emisferi del pianeta di ricevere la stessa quantità di luce per un breve periodo. Tuttavia, Saturno impiega trent’anni terrestri per compiere un giro intorno al Sole e, di conseguenza, l’equinozio si verifica ogni 15 anni. Così come un albero al tramonto proietta un’ombra molto più lunga della sua effettiva altezza, l’equinozio di Saturno produce ombre che ingigantiscono le caratteristiche peculiari degli anelli, altrimenti troppo piccole per essere studiate. “Volevamo vedere se gli anelli fossero irregolari – ha detto la Spilker – ma non lo sono”. Eppure la sonda ha osservato che gli anelli di Saturno sono molto meno regolari e levigati di quanto gli scienziati pensassero.

Anche gli innumerevoli ammassi di ghiaccio negli anelli proiettano ombre enormi sugli stessi; gli scienziati pensavano fossero lunghi solo alcuni metri, ma in realtà il più grande di questi ammassi si estende per  chilometri al di sopra delle circostanti particelle. Alcuni di questi grumi sono alti quanto le Montagne Rocciose.

Durante l’equinozio, e grazie ad uno spettrometro ad infrarossi, Cassini ha monitorato la temperatura degli anelli, utile a stabilire la composizione, la dimensione, la forma e tutte le altre caratteristiche delle particelle che li compongono. Poiché in quella fase del ciclo del pianeta,  il Sole colpiva direttamente il bordo e non la superficie degli anelli, la loro temperatura era la più bassa mai registrata prima d’ora. L’anello A, per esempio, si era raffreddato fino a -230 gradi C°.

Inoltre, approfittando sempre dell’equinozio, la sonda ha potuto osservare meglio alcuni fenomeni ancora poco conosciuti, come ad esempio, i cosiddetti “raggi”. Individuati per la prima volta nel 1980 dalla sonda Voyager, i raggi sono strutture radiali (simili a dita o spicchi) situate negli anelli, e che ruotando insieme ad essi, ricordano per l’appunto i raggi di una ruota.

I raggi sono dunque delle marcature radiali, quasi spettrali, scoperte 25 anni fa dalla sonda Voyager.

Si pensa siano composti da particelle sottilissime di ghiaccio spinte in alto sulla superficie dell’anello da una carica elettrostatica; il meccanismo è lo stesso che induce un palloncino carico di elettricità statica a far rizzare i capelli sulla nostra testa, ma su scala più imponente. I raggi possono misurare oltre 16,000 chilometri ed essere più grandi del diametro della Terra, ma nonostante la loro dimensione, appaiono e scompaiono molto velocemente: possono formarsi nel tempo che ci serve per fare colazione e sparire prima che sia ora di pranzo.

I raggi non sono stati avvistati per un lungo periodo che va dal 1998 al 2005, anno in cui la sonda Cassini è arrivata nell’orbita di Saturno, riuscendo ad immortalarli a 360° soltanto tre anni dopo. Le immagini sono state assemblate a formare un video.

Raggi, ammassi, eliche, piccole lune, anelli che formano lune e lune che formano anelli; non resta che domandarci come avrebbe reagito Galileo se avesse potuto osservare gli enigmatici anelli di Saturno cosi come la sonda Cassini, e il mondo intero, possono ora vederli.

 

 

 

Filosofi per lo ius soli

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[Un appello]

Ci rivolgiamo alle senatrici e ai senatori della Repubblica affinché venga approvata la legge che conceda finalmente la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati non solo per ius soli, ma anche – com’è giusto che sia – per ius culturae. È una legge di civiltà, che supera quel «diritto del sangue» che ancora prevale. Sono tanti gli adolescenti giunti nel nostro paese che, dopo aver frequentato le scuole italiane per anni, attendono un segno concreto di ospitalità. Occorre riconoscere i loro diritti, che sono anche i nostri. Non approvare questa legge sarebbe una sconfitta, prima ancora che per loro, per noi che ci definiamo «italiani», che veniamo dalla tradizione dell’umanismo, che non possiamo dimenticare l’esempio della «cittadinanza» romana, che vorremmo nel futuro prossimo avere più voce in Europa.

Remo Bodei, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito
Alessandro Dal Lago, Michela Marzano, Mauro Bonazzi, Adriana Cavarero, Salvatore Veca, Giacomo Marramao, Paolo Flores d’Arcais, Massimo Donà, Marta Fattori, Adriano Fabris, Nicola Panichi, Eugenio Mazzarella, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Caterina Resta, Piergiorgio Donatelli, Marcello Mustè, Simona Forti, Leonardo Caffo, Elettra Stimilli, Dario Gentili, Fabio Polidori, Luca Taddio, Leonardo Amoroso, Massimo Adinolfi, Davide Tarizzo, Laura Bazzicalupo, Massimo De Carolis, Giusy Strumiello, Gian Luigi Paltrinieri, Olivia Guaraldo, Giulio Giorello.

Una manifestazione per il diritto di cittadinanza, foto di Marco Merlini

La crisi della riproduzione e la formazione di un nuovo “proletariato ex lege”

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Intervista di Francesca Coin a Silvia Federici

Negli anni Settanta siete state le prime a parlare contro il lavoro domestico mostrando come il processo di accumulazione nelle fabbriche iniziasse sul corpo delle donne. Cosa è cambiato in questi anni?

Il lavoro gratuito è esploso, quello che noi vedevamo allora dall’angolatura specifica del lavoro domestico si è diffuso a tutta la società. In verità, se guardiamo alla storia del capitalismo vediamo che l’uso del lavoro non pagato è stato enorme. Se pensiamo al lavoro degli schiavi, al lavoro di riproduzione, al lavoro agricolo dai campesinos ai peones in condizioni di semi-schiavitù, ci rendiamo conto che il lavoro salariato è stato in realtà una minoranza circondata da un oceano di lavoro non pagato. Oggi questo oceano continua a crescere nelle forme di lavoro tradizionali ma anche in forme nuove, perché ora anche per accedere al lavoro salariato devi fare quantomeno una parte di lavoro non pagato. In Grecia mi hanno detto che ormai è necessario fare sei o sette mesi di lavoro non pagato nella speranza di trovare un lavoro pagato, quindi in varie situazioni si ripete la stessa dinamica: ti assumono a titolo gratuito, lavori sei o sette mesi e poi ti lasciano a casa. La coercizione del lavoro non pagato è ormai una pratica sempre più diffusa. Le scuole da questo punto di vista sono state le prime a servirsene. In questo caso è stata centrale l’idea dell’addestramento. Il training viene presentato come un beneficio per lo studente ma in verità lo spreme sin dai primi anni. L’età, infatti, si sta accorciando, si comincia a parlare di lavoro gratuito già nella high school. Nei giornali in questi giorni si parla molto di worker gig. Gig è un’espressione che viene dal mondo musicale dal jazz, una gig è un pezzo improvvisato, ora questo concetto viene applicato al mondo dell’impiego. Si tratta di prestazioni a chiamata senza alcuna garanzia che estendono il mo- dello Uber a tutti i settori, a indicare una precarizzazione della vita trasversale al mondo del lavoro che ha raggiunto livelli elevatissimi. Questo è importante dal punto di vista del femminismo, in parti- colare dal punto di vista di quelle femministe che consideravano l’ingresso nel lavoro salariato come una sorta di avanzamento o di emancipazione, mentre si prefigura sempre più come lavoro non pagato.

Tu avevi già indicato tempo fa come la crisi del fordismo fosse contraddistinta dal ripetersi di “crisi riproduttive” caratterizzate dall’erosione di tutte le sicurezze sociali. La trasformazione degli ultimi quarant’anni è stata quasi stupefacente, da questo punto di vista, perché da un lato ha reso sistema il lavoro non pagato e dall’altro ha tentato di renderlo invisibile attraverso un discorso colpevolizzante che attribuisce le cause dell’agonia sociale odierna a chi più ne fa le spese. Penso per esempio alla narrazione che produce e stigmatizza “i furbi del cartellino” – se ne parla in questi giorni – a nascondere lo smantellamento del welfare dietro il bisogno di disciplinare tutti quei soggetti che – si dice – “vivono alle spalle della società”. Che implicazioni ha tutto que- sto nelle relazioni sociali?

È il mondo sottosopra. Sino agli anni Settanta c’è stata una politica fordista – in verità si tratta di una politica che precede il fordismo e che si fonda sull’investimento da parte dello stato nella riproduzio- ne della forza lavoro. Si tratta di una concezione che culmina con il New Deal al fine di creare una forza lavoro più docile e più produttiva. alla fine dell’epoca fordista questa concezione salta. Dall’in- vestimento statale si è passati alla finanziarizzazione del lavoro di riproduzione, quello che una volta lo stato sussidiava oggi lo si deve pagare. una volta che il sussidio statale è stato eliminato, la riproduzione è diventata un momento di accumulazione. La rimozione dei sussidi ha costretto gli studenti a farsi carico di un debito enorme, quindi ci troviamo oggi con una popolazione studentesca fortemente indebitata prima ancora di entrare nel mondo del lavoro. Lo stesso è avvenuto nel campo della salute e nel campo dell’assistenza sociale, sopratutto per quanto riguarda l’assistenza agli anziani, il day-care e gli asili nido. Gli Stati uniti sono stati all’avanguardia di questo processo. Negli Stati uniti chi ha bisogno di assistenza deve pagare somme consistenti e i pochi assistenti sociali che sono rimasti sono oberati di lavoro. C’è stata una taylorizzazione del lavoro d’assistenza, in questi anni. Da un lato la spesa sociale è stata tagliata e dall’al- tro i servizi sono stati taylorizzati. Dunque oggi coloro che praticano l’assistenza sociale si trovano con un numero di utenti raddoppiato mentre aumenta anche il lavoro non pagato. Questa riduzione al mi- nimo dei servizi è al centro della crisi di riproduzione che stiamo vivendo. Si tratta di una crisi che colpisce anzitutto le donne, i bambini e gli anziani, con forme molto drammatiche. La situazione nelle nursing home, negli ospizi per gli anziani è preoccupante in quanto l’insufficienza di personale viene compensata con una continua medicalizzazione. I maltrattamenti nelle istituzioni di cura siano diffusi e continui. Gli anziani vengono spesso sedati e legati al letto. Non a caso il numero di suicidi tra loro è molto aumentato. L’uso dei farmaci è pratica comune anche tra i bambini nelle scuole al fine di costringerli a essere docili e disciplinati. Questo risvolto della crisi della riproduzione è il risultato del passaggio dalla spesa sociale al mercato. Ciò significa che devi assumerti il costo della riproduzione e in molti ambiti questo ha conseguenze letali per la popolazione. tu fai riferimento anche a un altro aspetto della crisi della riproduzione e cioé al public shaming – i rituali di svergognamento pubblico con cui si accusano i pochi che ancora godono di un minimo di sussidio statale di essere dei privilegiati e dei fraudolenti. Questi malcapitati vengono messi alla berlina e accusati di essere la causa dell’impoverimento del budget quasi fossero loro che dissestano l’economia. In Italia il public shaming ha raggiunto livelli vergognosi. Mi pare im- portante ribadire che si deve rifiutare con forza l’idea che il dissesto finanziario dello stato sia dovuto al misuso del sussidio statale, e dire che è una responsabilità diretta dello stato che in tanti casi costringe il proletariato alla criminalità. Ci stanno costringendo a essere criminali per sopravvivere perché hanno tagliato le forme di sussistenza e di accesso legale alla riproduzione in modo tanto drastico che non è possibile sopravvivere per grosse fasce della popolazione senza entrare nell’illegalità: senza vendere un po’ di droga, senza la prostituzione, l’assegno falso. È per questo che gli Stati uniti, il paese guida nell’applicazione del neo-liberalismo, è anche il paese guida per la creazione di una società carceraria, cioé di una società dove sistematicamente, come sistema di governo, si incarcera una grande parte della popolazione perché non è fonte di reddito e perché è vista come potenzialmente sovversiva e combattiva, come una popolazione che, essendo stata storicamente discriminata, può reclamare riparazioni per quello che gli è stato tolto. e quindi viene preventivamente incarcerata e esclusa da quelle poche vie legali che gli sono rimaste per la sopravvivenza, in un circolo vizioso e perverso. Marx sottolineava come lo sviluppo del capitalismo portasse alla formazione di un proletariato ex lege. potremmo dire che la formazione di un proletariato ex lege è al giorno d’oggi un fenomeno sistematica- mente perseguito a livello globale. Lo vediamo chiaramente nel caso dell’emigrazione. per sopravvivere è sempre più spesso necessario entrare nella illegalità e questo permette poi allo stato di intervenire con violenza sulla forza lavoro.

Stavo leggendo recentemente dei dati sulla Grecia che osservavano come lo smantellamento della spesa pubblica vada contro le donne due volte, la prima volta perché i tagli alla spesa sociale lasciano a casa anzitutto le donne assunte in modo predominante nei settori dell’assi- stenza sociale e la seconda perché i tagli costringono le donne a tornare a svolgere ruoli tradizionali di assistenza e di cura non pagati. Si diceva anche che la violenza sulle donne dovrebbe essere interpretata come cartina tornasole del clima di violenza sociale introdotto dalle politiche di austerità.

La violenza è enormemente aumentata in questi anni. È la violenza della guerra permanente. Ormai ogni pochi anni si distrugge un paese. Il mondo è sempre più un luogo di guerra e un sistema carcerario. La violenza capitalistica continua ad aumentare. Lo si vede dalla recrudescenza delle pene e dalla militarizzazione della vita. Oggi negli Stati uniti e in America Latina le polizie sono addestrate dai militari; gli Stati uniti hanno costruito carceri in tutto il mondo; le compagnie e le corporazioni hanno i loro eserciti privati e il numero delle guardie di sicurezza è in continuo aumento. Il modello della violenza sta plasmando la società e la soggettività a partire dalla soggettività maschile. Come sempre si tratta di processi che colpiscono anzitutto le donne. Di recente ho partecipato a un Forum sul femminicidio in Colombia in un porto del pacifico nella zona di buenaventura dove ci sono stati molti massacri. Lì si possono vedere molti dei fattori che contribuiscono a questa violenza. buenaventura è forse uno dei posti più belli del mondo. e’ una città sul pacifico in mezzo a una foresta tropicale meravigliosa ma recentemente contaminata a causa dell’estrazione dell’oro. Le acque e i fiumi che la popolazione usava per la propria riproduzione sono stati contaminati dal mercurio. Quindi ci sono continui scontri, perché la politica estratta porta allo sfruttamento e all’espulsione delle popolazioni locali. In questi luoghi la violenza, sopratutto la violenza contro le donne, serve a terrorizzare la popolazione. un’antropologa latino americana, Rita Segato, ha scritto un libro interessante a questo proposito. Lei parla di violenza-messaggio, di crudeltà pedagogica nel senso che uccidendo in forme atroci le donne, cioé persone inermi che non sono parte degli eserciti combattenti. Si avverte la popolazione che non può resistere all’espulsione perché si scontra con forze che non hanno pietà. uccidere le donne equivale a dare un messaggio di crudeltà incondizionata. Si deve aggiungere che le donne sono il motore della ripresa dell’economia globale. Negli anni Settanta il lavoro femminile ha riattivato la macchina economica. tradizionalmente le donne si confrontavano con la violenza nella sfera domestica, il marito attraverso la violenza disciplinava la moglie quando questa non compiva il suo lavoro domestico. Oggi le donne per poter sopravvivere devono spesso lavorare in luoghi dove sono particolarmente esposte alla violenza maschile. Si dice che le donne che emigrano dal Guatemala per gli Stati uniti prendano contraccettivi perché sono sicure che nel percorso uomini le stupreranno. Molte cercano forme di sopravvivenza vendendo cose nelle strade così che tutti i giorni si scontrano con la violenza e con la polizia. Il lavoro del sesso, il lavoro nelle maquilas – le nuove piantagioni in cui si lavora anche 14-16 ore al giorno – il lavoro delle venditrici ambulanti.. sono tutte occasioni di violenza. La violenza ha anche un effetto intimidatorio. previene o limita la possibilità di auto-organizzazione. La militarizzazione della vita fa sì che le donne si scontrino sempre più con uomini che lavorano con la violenza: il soldato, la guarda carceraria, la guardia di sicurezza. Questa militarizzazione ha un’influenza sulla soggettività e sui rapporti personali. Fanon scriveva che chi tortura tutto il giorno non può trasformarsi nel marito modello quando torna a casa, perché continuerà a risolvere i conflitti con le modalità a cui è abituato. Questo oggi lo vediamo in una società che è sempre più orientata alla guerra dove lo sfruttamento si regge sulla violenza diretta e questo ha sempre più influenza sui rapporti tra donne e uomini.

Negli anni Settanta mostravate come lo sfruttamento si fosse na- scosto nella soggettività, nella femminilità, naturalizzato e reso invisibile al punto che il lavoro delle donne veniva considerato una dote naturale. Trasformare quest’invisibilità in una lotta politica è stato fondamentale per mettere in evidenza la modalità con cui l’accumulazione avviene attraverso il corpo e sul corpo. Il nascondimento dello sfruttamento nella soggettività – penso al lavoro migrante e a La razza al lavoro di Anna Curcio e Miguel Mellino – viene dato talvolta come acquisito ma spesso mi appare, invece, un dato assai sfuggente. Penso all’idea di homo oeconomicus. Si fa ancora un ampio uso di questa categoria, dell’idea di libertà e dell’imprenditore di sé, eppure oggi l’imprenditore di sé non ha più sicurezze, l’unica sua assicurazione sul futuro è lavorare di più a costo ancor più basso, non è questo homo oeconomicus un’altra forma di sfruttamento presentata come emancipazione?

Questa dell’homo oeconomicus, della scelta e dell’auto-impiego, è un’ideologia del tutto neo-liberale. In realtà l’autonomia concessa dall’auto-impiego è limitatissima. Se da un lato l’irregimentazione della fabbrica dalle nove alle diciassette era una prigione è altrettanto una prigione non sapere se tra sei mesi tu potrai avere un reddito che ti permette di vivere, cosicché non hai alcuna possibilità di pianificare e di programmare. Di fatto non c’è niente di emancipatorio nel vivere con una instabilità continua, con l’ansia permanente di fronte alla precarizzazzione della vita. Bifo ne parlava in uno dei suoi libri. Diceva che la precarietà incide nei rapporti personali, crea personalità disposte a un certo opportunismo, costrette a coltivare rapporti sociali in funzione della sopravvivenza. Questo noi lo vediamo anche nei movimenti. Se una volta c’era una separazione netta tra il lavoro e la politica – la politica entrava nel lavoro quando lo si rifiutava ma il lavoro non era un impiego politico – adesso i confini si confondono, e ciò ha conseguenze negative, perché introduce forme di opportunismo nel politico e io credo che questo sia uno dei problemi maggiori che incontriamo oggi.

Lo scorso anno quando eri in Grecia parlavi degli spazi occupati e degli squat di Atene come esperienze importanti per sottrarre le condizioni della riproduzione al comando monetario. In questi anni ci sono state sperimentazioni molto ricche, forme collettive di esproprio nei supermercati, pratiche di auto-riduzione degli affitti e delle bollette, esperienze di riappropriazione della terra, creazione di circuiti economici alternativi capaci di usare la riproduzione come opportunità per liberare la vita dallo sfruttamento. In che modo si disfa questo comando monetario?

Si sfugge al comando del denaro anzitutto difendendo i nostri “beni comuni” e riappropriandosi del controllo e dell’uso della ter- ra, delle foreste, delle acque. Questa oggi è una delle lotte più impor- tanti che si danno nel mondo, e non a caso il capitalismo sta distruggendo intere regioni per assicurarsi che la loro ricchezza minerale non vada in altre mani. La lotta contro l’estrattivismo, così come contro la monocoltura, il transgenico, il controllo delle transnazionali sopra le sementi è al centro della politica dei movimenti sociali in America Latina come anche negli Stati uniti e in Canada. una delle lotte più forti oggi negli Stati uniti è la lotta dei Sioux contro la costruzione di un oleodotto che attraverserebbe il loro territorio connettendo il Dakota con l’Illinois. rappresentanti di popolazioni indigene, oltre a molti altri attivisti, stanno arrivando da varie par- ti del paese e dell’America Latina per bloccare questo progetto. e’ importante ribadire che queste lotte per la difesa dei beni comuni non sono mai puramente difensive. tutte creano “il comune”. Di- fendere la terra significa difendere anche la possibilità di controllare il territorio che è fondamentale per la costruzione dell’autonomia e dell’autogoverno. In area urbana gli squat e le reti di organizzazione che le donne creano nelle strade – perché oramai la riproduzione in molti paesi sempre più si sposta nelle strade – creano nuove for- me di sussistenza e solidarietà. Nelle favelas brasiliane o nelle villas argentine gli espulsi dalle zone rurali creano nuovi quartieri, nuovi accampamenti dove costruiscono case, orti, spazi per i bambini. Ho visitato una di queste “ville” in argentina, Villa retiro bis, dove ho incontrato donne che mi hanno fatto un’impressione enorme. Ho avuto la sensazione di qualche cosa di nuovo perché sono donne che vivono in una situazione in cui ogni istante della loro vita quotidiana diventa un momento di discussione politica. Il punto è che qui nien- te è dovuto, niente è garantito, tutto deve essere conquistato. tutto deve essere difeso. L’acqua, la luce devono essere contrattate con lo lo stato. però non si permette allo stato di organizzare la propria vita. Si lotta con lo stato per avere le sementi, per avere la luce gratis, per avere l’acqua potabile, per avere materiale per potere costruire la strada invece di avere solamente il fango e quindi è sempre una lot- ta continua. Queste donne stanno cercando di creare una loro vita, sono collegate tra loro, hanno creato la casa delle donne, dove ci sono anche spazi per assistenza preventiva. Gli hanno costruito un muro per separare la “villa” dal resto della città, per impedire altre appropriazioni e loro l’hanno distrutto, usano il teatro degli oppressi come forma di formazione politica, per instaurare un dibattito politi- co tra di loro, per affrontare certi problemi come può essere l’abuso sessuale in un modo anche divertente che invoglia le altre donne a partecipare. ecco, io non so se quanto sta avvenendo avrà la capacità di contrastare la macro-politica, ma so che qualcosa di nuovo sta avvenendo e dobbiamo partire da qui.

Tratta da:

Francesca Coin (a cura di), Salari rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuito, Verona, Ombre Corte, 2017, pp. 99-106.

Donne e uomini lontani, come corpi estranei

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di Domenico Talia

Sulla superficie di questo romanzo c’è la storia di una donna che cresce nell’estremo Sud, studia alla Cattolica a Milano e diventa giornalista perché le piace raccontare le vite della gente. Il racconto della vita di questa donna è però quasi un pretesto per incidere con un coltello affilato un solco profondo tra uomini e donne, tra due modi di vivere il mondo, tra due visioni che difficilmente in Corpo Estraneo (Rubbettino, 2017) trovano una pur minima sintesi. Annarosa Macrì ha scritto un romanzo femmina, dove gli uomini sono corpi estranei, incapaci di sincronizzare le loro vite con quelle delle donne. Un romanzo in cui i maschi non hanno scampo, sono costretti in un angolo e per loro non c’è redenzione. Ogni capitolo ha il nome di una donna, tranne il primo intitolato ad un medico il cui nome evoca un poeta, il professor Leopardi. Un medico che, dovendo curare Bianca, la protagonista, la esamina, l’analizza, la scruta anche all’interno con un sondino, senza avvertire quello che lei realmente sente, senza comprendere quanto lei si senta lontano da quel corpo che il medico deve e vuole curare.

Bianca è una ragazzina studiosa, un’universitaria secchiona che arriva alla Cattolica per studiare e finisce per trovarsi coinvolta nel ’68 milanese. Una giovane donna che vede i costumi sociali cambiare e che si trova a suo agio soltanto con le sue amiche. Bianca prova sempre a lasciare il suo uomo, vuole lasciare tutti gli uomini. Anche dopo essersi sposata, sente che il marito diventa per lei un corpo estraneo, anche il figlio che porta nel suo grembo, a volte, le sembra un corpo estraneo. L’unico uomo che ama, con il quale si sente pacificata, è suo padre, il quale muore quando lei è ancora ragazza e le lascia in eredità la grande passione del giornalismo.

Come quasi tutti i romanzi, anche questo è una scusa, neanche tanto nascosta, di raccontare le cose importanti della propria vita. La storia di una donna che fa i conti con gli uomini che ha incontrato nella sua esistenza. Tutti egoisti, ingombranti, silenziosi quando c’è da parlare e spendaccioni quando c’è da risparmiare. A volte nella narrazione di Annarosa Macrì, l’estraneità umana si unisce a quella geografica. Non soltanto i corpi sono estranei, sono estranei a Bianca anche i luoghi. Lei che lascia l’estremo Sud e arriva a Milano nel pensionato dell’Università Cattolica dove trova donne solidali ma anche tanta solitudine. Lei che si sente un piccolo corpo estraneo anche nella grande casa dei conti milanesi Grandi Rebecchi. Quando deve fare la “signorina” per il piccolo conte che deve accudire in un mondo ottocentesco, dove la pronuncia non perfetta di una vocale è sufficiente a farle perdere il lavoro.

All’interno del romanzo ci sono anche delle (apparentemente) piccole descrizioni che aprono squarci di vita illuminanti, come il racconto di Leopoldo Trieste che segue di nascosto Salvatore Quasimodo per le strade di Reggio Calabria e, in un giorno di pioggia, scopre che anche i poeti sono costretti ad usare l’ombrello quando piove. Come il racconto di un giovanissimo e tracagnotto Armando Verdiglione, collega di studi della protagonista a Milano, negli anni in cui non era ancora diventato l’allievo di Lacan e lo psicoterapeuta della Milano bene.

Un altro momento arioso del romanzo è il racconto del ’68 visto dall’interno della Cattolica, in una Milano travolta dalle occupazioni studentesche (“falce e martello, borghesi al macello”). Di Piazza Fontana con le sirene delle ambulanze che sono ferite lancinanti nelle orecchie di Bianca. Di Giorgio Bocca, giovane e bello, sempre presente nelle assemblee studentesche. Dei suoi appunti illeggibili che servivano a raccontare la protesta. Di Mario Capanna studente modello di filosofia, ospite del cattolicissimo Collegio Augustinianum, dal quale viene espulso quando diventa uno dei leader del movimento.

Insieme a queste vicende storiche, il romanzo evoca anche una teoria della solitudine. Non ci sono soltanto corpi estranei nella vita di Bianca. Il suo stesso corpo è estraneo ai suoi pensieri, a lei stessa. Bianca è una crisalide in un bozzolo in cui vive con disagio, che rifiuta. Il libro racconta anche di quando Bianca scopre di essersi ammalata e vive la malattia come vive gli altri dolori della vita, con lo stesso fastidio di quando si scoprono i parassiti su una pianta. Bianca rifiuta il suo corpo e rifiuta anche il male nel suo corpo. È costretta a malincuore a curarsi, ma sente la malattia come qualcosa di estraneo al suo essere, fuori dal suo orizzonte mentale. Ignora la malattia pensando ad altro, al suo lavoro di giornalista, alla passione del raccontare la vita degli altri, meglio se gli altri sono donne, come le badanti polacche con le quali fa un lungo viaggio fino a Lublino.

La questione più urgente che pone Corpo Estraneo è il difficile rapporto tra donne e uomini, che l’autrice illumina da un punto di osservazione femminile lasciando agli uomini piccoli ed angusti spazi di manovra. I tempi che viviamo registrano grandi trasformazioni nel rapporto tra i generi. Le cristallizzazioni di potere maschile si stanno sciogliendo sempre più velocemente e mentre le donne nel nostro tempo riempiono spazi sempre più grandi e prima negati, i rapporti si fanno più articolati e, soprattutto per gli uomini, la vita e le relazioni diventano sempre più complesse. Bianca su questa questione ha le idee abbastanza chiare e il romanzo della sua vita le narra con un linguaggio duro, onesto, facendo sentire al lettore la tensione e la passione di una donna ostinata e sincera, anche nelle piccole cose, perché come lei dice ad una delle sue tante amiche: “Tutto merita di essere raccontato, non ci sono vite banali, tutte le vite sono uniche se le guardi da vicino”.

Prove d’ascolto #7 – Niccolò Furri

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da: le colonnine infami (2012-2013)

 

gentile cliente ovvero da dove è partita la crisi nel 2007

IO SONO QUI. Geo-grafie di sé e dell’ambiente intorno a sé

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Progetto a cura di Emanuela Baldi, Francesca Campigli, Francesca Matteoni, Paola Papi, in collaborazione con Associazione Zappa! e Istituto Comprensivo Ugo Betti, con il patrocinio del Comune di Camerino.

IO SONO QUI è un progetto artistico-formativo rivolto a bambini e ragazzi tra i sei e i dodici anni, che si snoderà tra le strade e le piazze di Camerino tra Giugno e Luglio. Si compone di più interventi a carattere laboratoriale, con modalità esecutive e strumenti diversi, ma con una unica finalità: fare sperimentare ai partecipanti il mondo che li circonda e trovare in esso una dimensione di appartenenza e identità.

La proposta s’incentra sul valore dell’arte che trasforma grazie alla sua energia creativa, che permette di superare ostacoli e di convertire limiti in potenzialità ed ha come presupposto il principio che il mondo dipende da come lo guardo. Durante le attività verrà quindi presa in considerazione la relazione col reale, e la sua soggettività, in base alla qualità delle esperienze vissute e agli stimoli percepiti.

Accompagnati per 5 settimane in un  viaggio di presa di consapevolezza, dove il processo di apprendimento è mirato a esperire la creatività come strumento di libertà individuale e di rielaborazione del vissuto, gli studenti vivranno un’esperienza di consapevolezza a più livelli, emotivo/emozionale, intellettuale/didattico e fisico/performativo, in cui sperimenteranno attraverso diverse pratiche artistiche la propria capacità espressiva.

Il progetto è composto da 4 macro attività collegate tra loro: quattro laboratori con diversi registri espressivi, dalla scrittura al disegno, dal gesto performativo al disegno. In particolare: S-GUARDO, un percorso di educazione all’immagine attraverso la fotocamera; +SPAZIO, una esplorazione delle misure e dei concetti di spazio e tempo; ALICE IN 4 TEMPI, lettura e rielaborazione di un classico per immaginare nuovi scenari possibili; IMMAGINE CORPOREA, rielaborazione dell’ambiente che ci circonda attraverso l’empatia.

I partecipanti saranno protagonisti di un micro processo formativo sia individuale che collettivo, al termine del quale “torneranno a casa” con nuovi sguardi, nuovi valori, nuovi significati che convergono tutti in una ricerca verso il cuore delle cose, un essenziale, un riferimento valoriale da condividere con la collettività. Gli interventi faranno leva sulla curiosità dei bambini verso l’esplorazione, la scoperta e la conoscenza, passando attraverso l’osservazione del mondo che ci circonda, la relazione con i luoghi e il tempo, l’immaginazione di nuove possibilità, l’azione in empatia con l’altro, infine la crescita e la comunicazione del vissuto.

Il percorso si concluderà il 22 luglio, con un evento finale di restituzione pubblica, in cui i bambini e le bambine condurranno gli adulti attraverso l’esperienza vissuta. Tutto il processo sarà documentato ed i risultati saranno narrati in un video, una pubblicazione ed un piccolo percorso espositivo.

Il progetto è curato da uno staff di artisti e professionisti della formazione che condividono il valore evolutivo delle pratiche artistiche e riconoscono le arti come esperienze che trasformano, in particolare quando svolte in modo collettivo e partecipato. Le metodologie condivise dalle operatrici del progetto hanno carattere partecipato e sono volte al coinvolgimento dei vari soggetti all’interno di un processo formativo, creativo e artistico, tenendo conto delle varie caratteristiche dei partecipanti. In particolare si farà riferimento a un approccio learning by doing (imparare facendo) e alla condivisione delle pratiche proposte in una maniera trasversale e non giudicante, ma che accoglie le risposte di tutti alle varie proposte e che include così ognuno con le proprie attitudini e disponibilità a mettersi in gioco.

IO SONO QUI è uno dei progetti selezionati dal bando Progetti volti alla promozione di attività volte al recupero delle regolari attività scolastiche ed extrascolastiche nelle zone colpite dal terremoto, sostenuto da MIUR, IPSSEOA Costaggini Rieti, Ripartiamo dalla Scuola.

Info su pagina facebook IO SONO QUI

www.zappalab.com

iosonoqui.lab@gmail.com

Piero Melati – Giorni di mafia. Dal 1950 a oggi: quando, chi, come.

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Estratto dal nuovo libro di Piero Melati

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5 luglio 1950

La morte del bandito Giuliano

 

La notte tra il 4 e il 5 luglio del 1950 il cadavere di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, fu esibito alla stampa «giacente per terra e crivellato di colpi» nel cortile di una casa di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Era ritenuto il responsabile della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) in cui morirono undici persone (nove adulti e due bambini) e altre ventisette rimasero ferite (tre non sopravvissero). I lavoratori, in gran parte contadini, si erano riuniti in una gola di montagna tra i paesini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello per festeggiare la vittoria alle recenti elezioni regionali del Blocco del Popolo, sotto il simbolo «Torna Garibaldi». Furono falciati a colpi di mitra.

Fu la prima strage dell’Italia repubblicana. «Di sicuro c’è solo che è morto», scrisse sull’«Europeo» il giornalista Tommaso Besozzi in una inchiesta che smentiva la ricostruzione ufficiale, secondo cui Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. «Quel segreto è un buco nero della nostra storia, che ha autorizzato e legittimato altri segreti, altri buchi neri, facendo dell’Italia un paese dai molti buchi neri», ha scritto lo storico siciliano Francesco Renda.

Eppure, il bandito di Montelepre è il personaggio più biografato della Repubblica: gli sono stati anche dedicati 5 film e 3 musical. Quando, nel 1961, il regista Francesco Rosi realizzò l’opera cinematografica più famosa, ben 14 libri avevano preceduto la pellicola. Poi ne sono seguiti altri 37. Senza dimenticare le 15 edizioni discografiche, molte delle quali simili ai moderni corridos messicani dedicati alle gesta dei narcotrafficanti.

Storie, leggende, cronache, canzoni: eppure ancora oggi il caso Giuliano è un mistero. Non ne sappiamo più di quanto apprese, quel 5 luglio del ’50, lo scrittore americano Truman Capote. Capote era appena arrivato a Taormina, dove in una casa senza luce né acqua avrebbe scritto il suo secondo romanzo, L’arpa d’erba. Nel 1966 avrebbe poi pubblicato il suo libro più famoso, A sangue freddo, sul massacro di una famiglia nel paesino di Holcomb, in Kansas, un testo che ridusse per sempre la distanza tra letteratura e giornalismo.

Scrisse Capote: «Un pomeriggio ero appena arrivato in città quando incominciò a piovere. Non vidi anima viva finché arrivai dal tabaccaio. Si era raccolta una vera folla dove i giornali, con i titoli a caratteri cubitali, svolazzavano nella pioggia. Ragazzetti a capo scoperto se ne stavano immobili senza badare all’acqua, con le teste accostate, mentre un ragazzo un poco più grande, il dito puntato all’enorme fotografia di un uomo accasciato in un lago di sangue, leggeva ad alta voce: Giuliano è morto, ucciso a Castedduvitranu. Triste, triste, una vergogna, un peccato, dicevano i vecchi; i giovani non dicevano niente, ma due ragazze entrarono nel negozio, e quando uscirono avevano in mano copie della «Sicilia», un giornale con tutta la prima pagina presa da una gigantesca fotografia del bandito ucciso. Proteggendo i loro giornali dalla pioggia, le ragazze si allontanarono di corsa, tenendosi per mano, scivolando sulla strada lucente».

Di sicuro, allora come oggi, c’è solo che Giuliano era morto. Ucciso, magari, a sangue freddo. Dalla mafia.

 


 

 

Piero Melati, palermitano, per molti anni viceredattore capo de “Il Venerdì di Repubblica”, si occupa di attualità e cultura. Ha seguito per il giornale “L’Ora” di Palermo la guerra di mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Con “la Repubblica” ha aperto le redazioni locali di Napoli e Palermo ed è stato viceredattore capo della cronaca di Roma.