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Per Mario Lunetta

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di Francesco Muzzioli

Mario Lunetta ci ha lasciati il 6 luglio. Amico generoso, intellettuale lucido e impegnato, scrittore inventivo e prolificissimo in tutti i generi letterari, oltre che organizzatore infaticabile sul territorio romano, ora sta a noi rileggerlo e commentarlo come figura centrale nella letteratura di questi anni. Occorrerà ripartire dalle prime opere: così, per ricordarlo, ho scelto la poesia introduttiva della raccolta La presa di Palermo, uscita nel 1979; qui Mario è alla sua terza pubblicazione poetica ed è già tutto lui nel proporre in apertura una sorta di autoritratto contrassegnato da spirito polemico (e da spirito politico, senza nascondersi dietro un dito) e insieme da ironia e autoironia, non senza un avvertimento al narcisismo poetico che sta rialzando la testa («la propria biografia / vale un soldo bucato»). Si notino le inventive inversioni (la «corsa di galli» e la «zuffa di levrieri») e l’ossimoro del titolo, Ouverture chiusa: ecco come si presentata la poesia della contraddizione, per usare il titolo di una sua antologia, in quegli anni ancora a venire.

Echi ed echi ed echi . . .

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di Fabrizio Centofanti

Echi

Estrema terra appare in questa sera
il pensiero di te, la lontananza
infida, l’attimo della finitudine,
del sacro vuoto d’amore,
dell’ignoranza indomita di qualsivoglia
umore, attonita baldanza,
attratta, astrattamente indotta
dal nulla che ti affoga, ti ride
sulla faccia. Apprendimi, sollevami,
scarta la tovaglia che si arriccia,
stropiccia il cuore, con l’unica
voce che mi strappa al dolore,
all’umido biancore del ritorno.

Diabolos

Chi l’avrebbe mai detto che i sorrisi
sarebbero rimasti a mezza bocca,
che una prosa barocca
non avrebbe arginato la disfatta.
Quanto duro è il cammino
che ti sfratta il demonio dal salotto,
che smantella l’accrocco
che imbastisce di notte, sotto sotto.
Sfìlati dal tempo,
guàrdati dall’alto, come l’uomo
in coma, sul letto d’ospedale.
Appena giunge l’eco della Voce,
attàrdati un momento, non è il canto
del gallo, è la colomba
che allieta le fessure delle rocce,
la gazzella che salta, all’ombra
della croce.

Ritenta, sarai più fortunato

Mi chiedi perché questo, perché quello,
ti angosci, ti contorci, logori
il cervello per spremerne risposte
più improbabili. Tu stesso
sei convinto di perderti nell’onda
dei pensieri, nel rumore assordante
dell’assenza di luce. Non hai provato
a fermarti un istante,
a decidere di prendere e gettare
le abitudini malate,
a compiere l’atto che dà senso, a gustare
l’approdo, dopo tanto
navigare. Una sola cosa
ti manca: amare. Comincia
adesso, cambia
una volta per sempre
le note del tuo canto, attracca al porto
dove l’io riposa.

Volo velo

Di attendere, di credere, di apprendere,
tutto è precluso dal negare,
irridere ogni volta, declassare.
Tappeti volanti della gioia,
rapitela, intanto che si fonde
con l’entourage del diavolo
in cravatta, sottratta all’orbita sacrale
delle cose! Ruttate, vomitate
il vostro odio, da scaffale
ammuffito di mercato.
Alzatela più in alto, che si veda
la stolida vittoria, l’apparente
sconfitta della storia.

Fabrizio è uomo. sacerdote, laureato in lettere moderne e ha scritto su Calvino. E’ l’animatore del blog letterario La Poesia e lo Spirito. Ha pubblicato numerosi libri, alcuni più letterari, altri più vicini alla fede, tutti reperibili qui. Malgrado la mia molto scarsa propensione per la chiesa cattolica romana, personalmente lo stimo molto, come uomo, come amico e come scrittore, a.s.

da “Fermate”

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di Paolo Maccari

 

C’era una volta un ragazzo, aveva meno di vent’anni e gli sembrava di vivere da tanto perché aveva vividissimi nella memoria molti ricordi, e, in particolare, la scansione precisa degli avvenimenti e dei pensieri. Non faceva confusione. Anche i parenti, gli amici, chiunque avesse visto da sempre, sapeva collocarlo esattamente com’era al tempo dei diversi ricordi.

Il racconto dell’ancella

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di Francesca Fiorletta

Recentemente ripubblicato dall’ottima casa editrice Ponte alle Grazie, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood è un libro straniante, enigmatico e suggestivo, che analizza la condizione della donna in ogni tempo e luogo, e sotto vari punti di vista: reale e immaginario, antico e futuribile, politicizzato e tuttavia estremamente intimista.
Il tutto, giunge al lettore attraverso la voce semplice, mai ammiccante, di una protagonista tanto soave quanto sofferente, strappata alla sua (che diremmo anche nostra, attuale) vita routinaria e “normale”, e improvvisamente costretta in un ruolo ancillare – che evidentemente non le può appartenere, come non potrebbe appartenere a nessun essere umano, mai – dal drastico mutare dei tempi; tempi che sono sì, in questo caso, frutto di un’ispirazione che potremmo anche, per brevitas, definire “orwelliana”, ma che, pericolosamente, sembrano tuttavia assomigliare sempre di più ai nostri giorni in divenire, al presente progressivo col quale sempre più spesso ci ritroviamo a fare i conti, e certamente incarnano – quantomeno – il concretizzarsi delle nostre paure più profonde.

IO SONO QUI – Evento pubblico conclusivo

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Si conclude il 22 luglio l’esperienza di “IO SONO QUI. Geo-grafie del sé e dell’ambiente intorno a sé” progetto laboratoriale diretto ai bambini di Camerino di cui si può leggere QUI la descrizione. Per chi volesse seguirci su facebook, questa è la nostra pagina, con le foto, i video e i racconti settimanali: https://www.facebook.com/iosonoqui.lab/

 

Letteratura oltre i confini. Clouds over the Equator: A Forgotten History e Wings di Shirin Ramzanali Fazel

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di Simone Brioni

Dopo 23 anni dall’uscita del suo primo romanzo, Lontano da Mogadiscio (ne parlo qui: http://www.laurana.it/pdf/postfazione%20LdM_Brioni.pdf) – una pietra miliare per quanti si sono occupati della scrittura della migrazione e dell’eredità coloniale in Italia – escono due libri di Shirin Ramzanali Fazel in lingua inglese: Clouds over the Equator, la traduzione del secondo romanzo di Shirin, Nuvole sull’equatore (2010) e Wings, una raccolta di poesie. Questa intervista vuole presentare questi due lavori al pubblico italiano e parlare della sfida che la traduzione e l’autotraduzione pongono agli scrittori transnazionali ‘italiani’.

Posti a sedere

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di Luciano Mazziotta

 

in casa invece c’è quello che occorre.

tre facce due parlano e l’altra

li osserva. poi quella che osserva

inizia a parlare e l’una che prima

parlava si ferma che adesso

li osserva oppure si alza

si lava le mani girata

che allora non guarda.

                                   come se a turno

l’una o l’altra o quell’altra

dovesse star muta in un angolo.

tre facce due parlano e l’altra

dovesse fare la spia.

Terza promessa

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di Raffaele Mozzillo

Il Rosario sarà un’arma potentissima contro l’inferno,
eliminerà i vizi, libererà dal peccato, distruggerà le eresie

La polvere pizzica gli occhi quando scendono nel fosso a farsi di Marlboro di contrabbando e gassosa, però non li ferma, sono comunque lì a riempirsi i polmoni di merda e a gonfiarsi lo stomaco. Stanno imparando a ruttare, Mariarosaria è la meglio. Glieli fa in un orecchio all’improvviso, i rutti, e le lacrime gli vengono agli occhi per l’emozione. Quelli di Lello sfiatano un poco, ma nel complesso l’esecuzione è apprezzabile, almeno a guardare Mariarosaria e a come scoppia in un applauso a ogni sua esecuzione. Hanno provato a cambiare marca, ma non c’è stato niente da fare: gassosa Arnone è un’altra cosa.

Il soffio, la vita, racconti – di Claudio Masetta Milone

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Su “Il signor F. è morto in treno e altri racconti”

(Robin, 2017).

 

Breve premessa epistolare

 

Cara M.G.,

mi diverto anche io adesso,

ho letto e frugato fra le tue pagine o meglio righe,

frasi, parole;

Signor F. – signor M. personaggi, e poi luoghi definiti con ****

sono segni di luoghi infiniti, come scrivere “Catania centro” con un simbolo – un bersaglio? – (e insistere che è scritto: “centro”),

sorrido e mi sento ironico come le scarpe del senatore,

o mi credo uno specchio buio, come quello del gentile signor M.,

uno specchio che si rifiuta di riflettere, uno specchio pensante, mah! O la mia mente crea un pensiero adatto allo specchio, a ciò che io, tu, noi vogliamo vedere nello specchio ?

Mi tocco il naso per tastare, mentre leggo, se è enorme come quello della signora P., devastante sul mento, allora mi tocco il mento; lei che va in vacanza portandosi piccole borse etichettate alla moda per esserci. Piccolo marito al seguito per sentirsi (poco) protetta, che avventura, avere la fortuna di viaggiare con un dispettoso uomo morto…

 

Ed ecco cosa ne penso:

M.G. – Maria Greco – sa suscitare, attraverso stili brillanti e colta scrittura, uno sguardo nuovo sui comportamenti umani: un’ironia così determinata che sembra spietata e che tuttavia lascia scorrere sotterranea una vena di allegria. Ho detto proprio: “allegria”, sebbene, lo so, si tratti di umorismo… ma: quando il calzolaio-lettore si interroga invano – di fronte a lui, la professoressa imperturbabile che, lo sa bene, non gli risponderà – su quel suo strano figlio che traduce senza chiedersi cosa traduca e che studia Omero senza intendere, senza neanche immaginare di poter intendere cosa sia la guerra in Omero, e ancora, in “Ritratto di un senatore ideale”: quelle scarpe dispettose che saltellano di qua e di là e il figlio scemotto che le insegue col berretto (scarpe e berretto: manca “solo” l’uomo dalla testa ai piedi) non lasciano che si insinui tra gli umori del lettore, in mezzo al sottile umorismo, un pizzico di allegria? O esiste forse l’allegria pura? Senza malinconia ? Senza… diciamo pure amarezza?

Non è solo una digressione, l’allegria. Lo sa, la nostra autrice.

Volete che lo dimostri?

“Il signor F. è morto in treno”.

Accade in quel treno che un viaggiatore morto viaggi con il biglietto scaduto.

Scena assurdumoristicallegra (e così la cito – a modo mio -, la M.G.)

Ma più stravagante è ciò che accade intorno a lui: l’ordinario.

La donna superficiale chiacchiera amabilmente e gaiamente dei tempi del liceo e il controllore svolge il suo lavoro e la gente torna a sedersi. E che dire dell’avvocato così ligio e impeccabile, così triste nella sua perfezione giornaliera: “il posto, il mio posto prenotato…” che ingiustizia, occupato da un finto dormiente morto ( ironia lievemente tetra-allegra) e soprattutto, direi, io, sì proprio io che sto qui a scrivere quest’anomala recensione, e il lettore lì (qui) a leggerla… e tutti, insomma, vorrei timidamente ricordare, abbiamo un signor F. (o vogliamo chiamarlo signora Mor…) che ci guarda e pare prendersi gioco di noi. E che facciamo noi? Con allegra e rassegnata malinconia ammazziamo il tempo…

 

Breve epilogo epistolare

Cara scrittrice, farlo morire senza che si faccia notare, che colpo di genio, la morte che prende il suo tempo e che irride, come sempre, i vivi: “beato chi muore o beato chi resta?”

Posso permettermi di dirlo: beato chi legge!

E non dirò, come riteneva Bufalino, che si scrive per non pensare alla morte (ché poi: se uno per non pensare alla morte scrive di morte, non è questa la più allegra burla della vita? )

Vagoni treni traghettatori Caronte. Rive attese, di nuovo ombre: c’è un’età della vita dove la luce dà spazio alle ombre e però le ombre diventano più leggere, infiniti giochi a nascondere: c’è del magico nella vita o forse nel sogno della vita.

C’è un ravanello in frigo, una muffa evidenziata da un bordo verdastro scintillante per dire: ci sono anche io.

Il calcinaccio che vuole la sua parte in scena – e indica il famoso strappo del teatrino delle marionette – cadendo fra un atto e l’altro… e poi sdoppiarsi davanti a un piatto a cena.

Ma ecco la mia conclusione: “le due donne (Alcesti ed Euridice), se pure in preda alla disperazione, si abbandonarono insieme ad una risata fragorosa…”.

Questo è il gioco di cui sono capaci solo le donne, donne come te, cara M. G., questo è il compito anche della scrittura, questa è un’ironica grandezza. Una domanda farei alla tua Alcesti: se avesse acquisito nel suo cuore la consapevolezza che la vita è un soffio, la vita è soffio.

L’altra Cambridge. Un Massachussets quotidiano tra confessioni e traslochi

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di Eloisa Morra

Misi piede a Cambridge la prima volta per inseguire un amore; avevo da poco compiuto vent’anni, autunno inoltrato: foglie fradice affogavano il porch della casetta di East Cambridge condivisa con il figlio d’un rifugiato iraniano (con cui, ricordo, discutemmo a lungo sull’origine della pasta Alfredo) e con Brad, un ricercatore della Divinity School che passava il giorno a pensare a Adorno e Marx. L’inclinazione del pavimento della cucina rendeva affettare un avocado per l’insalata un’impresa ardita, e qua e là le pareti del soffitto rivelavano buchi: quando chiesi di cosa si trattasse mi venne risposto che in inverno i topi si infilavano nelle condotture alla ricerca di un cantuccio caldo, e chiunque fosse sano di mente teneva a portata di mano uno spray da passare nei muri per scampare all’invasione.

 

La primavera tarda ad arrivare

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  di Gianni Biondillo

Flavio Santi, La primavera tarda ad arrivare, Mondadori, 2016, 306 pagine

Ora che anche un ottimo poeta come Flavio Santi s’è messo a scrivere gialli, le certezze granitiche di una certa critica paludata che ragiona a compartimenti stagni inizieranno a vacillare. Io, ovviamente, non ci trovo nulla di strano che un poeta scriva un romanzo, per lo più “di genere”. Se esiste una peculiarità del “giallo” italiano sta nell’attenzione allo scenario dove muovere i personaggi piuttosto che alla macchina inesorabile della trama. Un’indagine, da noi, è soprattutto una scusa per raccontare un territorio. Santi lo ha fatto con le sue poesie dialettali e, in continuità, lo fa ora con La primavera tarda ad arrivare.

Protagonista del primo capitolo di quella che si prefigura già come una serie, è Drago Furlan. Poliziotto bonario, dall’indole contadina, che passa più tempo in osteria a chiacchierare con gli amici che in commissariato; quarantenne bamboccione, eterno fidanzato che vive ancora con la madre; tifoso accanito dell’Udinese e goloso seriale di frico e polenta. Drago non è esattamente il ritratto del ruvido sbirro contemporaneo. Per lui già andare a Udine è come perdersi in una metropoli. Un ispettore (neppure commissario) che non vede un morto da almeno vent’anni, passati in gran parte a coltivare pomodori. Fino ad oggi, fino al ritrovamento fortuito del cadavere di un anziano, freddato con un colpo di pistola in mezzo alla fronte.

Santi racconta l’indagine, e di conseguenza il Friuli, con una scrittura lieve, scanzonata, a tratti pop. Eppure mai superficiale. In realtà, sotto pelle, non ostante l’apparente leggerezza, tutto il libro appare come un accorato canto d’amore e di nostalgia. Furlan magia e beve di continuo come a stimolarci gusto e olfatto, sensi primari che ricollegano al territorio, ai suoi prodotti, alla sua storia millenaria. È come se Santi volesse farci tornare ad un Friuli che forse non esiste più. E che forse per questo continua ad esistere, nelle sue parole.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 9 del 1 marzo 2016)

p.s. questa recensione è dello scorso anno, nel frattempo è uscito un secondo volume dell’Ispettore Furlan: L’estate non perdona.

Glossopetrae / Tonguestones, di Simona Menicocci

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di Gianluca Garrapa

Azioni, eventi, la pragmatica della parola: in Glossopetrae, il nuovo lavoro di Simona Menicocci, la giuntura è fra linguaggio, materia inorganica, economia e relativa condizione umana: ogni azione umana (quasi) // o ogni evento naturale (quasi). Di cosa parliamo e come?

La ricerca di sistemare il balbettio poetico non è declinante, bensì aurorale. Non è la decadenza dell’indicibile, ma del ripetibile che traversa e scuote l’abitudine. Le prime pagine già raccontano di un viaggio che avverrà straniero rispetto al quotidiano e moribondo fissarsi della parola solita e solitaria, estraneo al lirismo morboso come allo sperimentalismo finalizzato all’ego-nomia dello scrivente. Qui ci sono le mani che scrivono in digitazioni interagendo la propria pelle con la terra che cade. Parrebbe astrattismo e invece è diversione dell’uguale: microdrammaturgia dell’atto e dell’evento.

Essendo l’uomo non animale all’uomo, lupus, ma humus, homo, terra: homo homini humus o homo homini homo. E che non si tratti di pura poetica astratta epigonale fine novecentesca, ma disamina linguistico-economica del dato umano in ambiente post-digitale e post-capitalistico, lo si evince da certi sintagmi-slogan: il tempo è denaro; un’economia basata sul debito.

C’è il rapporto dell’uomo con l’uomo, dunque, e dei corpi. Un conflitto storico e sociale che viene riletto e riscritto di traverso. Tra oggetti e tempo, tra atti ed evenienze. Gli strati della pelle, le vicissitudini degli anni sulla parola particolare del parlante, il sostrato linguistico: c’è una filologia della terra che è l’altra mano del discorso astratto del morfo, che si scinde, che diventa puro morfema, pietra, non ulteriormente frazionabile, senza perdere il limite della propria sensorialità, ma comunque dicibile, riscrivibile, sebbene con un po’ di difficoltà: la divisibilità della materia / la distinzione delle cose. Vengono in mente le parole di Francis Ponge, nelle ultime pagine de “Il partito preso delle cose”: il ciottolo non è cosa facile da ben definire. D’altra parte, il ciottolo sembrerebbe essere uno stadio avanzato della pietra, anzi, è la pietra nell’epoca in cui comincia per essa l’età della parola, sempre a estrapolare da Ponge: Glossopetrae. E tutto ciò potrebbe sembrare pura metafisica, laddove, invece, in Glossopetrae, un passaggio segna la differenza pragmatica di cosa e oggetto: cosa // deriva da causa // è costituito da frammenti di pelle, unghie e fibre di vestiti, dove oggetto: lusus culturæ #10: l’oggetto basta a se stesso…

 Il gioco della cultura si integra con l’inverso del gioco naturale: lusus naturæ #3: l’uomo non basta a se stesso. E… ma cosa è questo ‘lusus’? il lemma d’azione/evento appare, come impartito in un diagramma musicale, a strati/intervalli quasi regolari, o quanto meno tali da armonizzare il canto delle pietre parlanti in una partitura linguistica e segnica: lusus culturæ #1: glossare la pietra; ‘lusus’ deriva da ludus: ha vari significati secondo il contesto, la situazione: giocare, poetare, sprecare, suonare, imitare, a seconda dell’uso: lusus naturæ #1; lusus pecuniæ #1’economia basata sul debito; lusus laboris #1: chi parla lavora gratis; lusus historiæ #1: genius loculi; lusus temporis #1: esseri stati prima; lusus mathematicorum #1: glossare il numero; e d’altra parte l’ ‘usus’ della parola del contesto poetico di Glossopetrae pare imprescindibile se si considera che di questo lavoro poetico abbiamo anche alcune versioni video-musicali, con gli interventi sonori di Luca Venitucci, sul canale di Youtube: a dire l’aspetto pragmatico di questa poesia in cui, al dato della pietra, il nuovo della lingua non è solo pendant, ma faccia altra e d’altrove. Tema e rema. Trema: la composizione è fruibile come una passeggiata sul greto di un fiume, quando la consistenza del velo liquido storce, sdoppia e amplifica il letto sottostante di ciottoli, ghiaia, sabbia, e tutti i livelli della pietra: le polveri le farine le ceneri le sabbie / i detriti i resti i segni i talchi. Poi c’è il lusus culturæ #4: esseri parlanti / parlati: molto interessante scoprire che come la pietra inorganica è levigata dal tempo, così gli esseri parlanti sono parlati da ciò che pretendono essere proprio: il linguaggio. A dirla tutta, gli esseri sono consumati dalla lingua, dall’economia, oltreché dalla natura. Siamo pietrificati dalla lingua delle televisioni, dalla violenza di un idioma che non comprendiamo più. Impietriti dallo sfacelo linguistico: nello scavo ideale si arriva alla distruzione totale; ma non è solo la narrazione di una distruzione, questo antipoema è pure il costruire / il desiderio e l’opinione / a partire da uno spazio / che non è proprio. Da uno spazio che precede la parola, nell’interstizio che fa dell’oggetto una cosa, nella microscopia del minoritario e del maggioritario che individua le cose definitivamente in pericolo; le cose in situazione critica; le cose vulnerabili; le cose notevolmente in pericolo; elenchi di parole provenienti dal globo. Glossopetrae è anche un’indagine sul futuro: noi siamo come nani sulle spalle di giganti (colluvie), e (non) / possiamo vedere più cose e più lontano, nonostante siamo sollevati / e innalzati dalla loro gigantesca grandezza, dice in nota e a tradurre la didascalia a margine di un disegno.

Ma Glossopetrae è anche antropologia della lingua: in alcune lingue aborigene dell’Australia / il nome coincide ‘semplicemente’ / con il pronome dimostrativo / «questo», lingua che resiste, e considerazione del negativo: l’erosione della terra della lingua. È il mondo che abbiamo a portata di mano: coesistenza, competizione, scomparsa /// gli esseri di tipo moderno // impronte su strati di ceneri  / per la raccolta dei materiali, una sorta di meccanico pessimismo che non travolge del tutto e che lascia ampio spazio alla ricomparsa, la rivoluzione: i pavimenti stanno per cedere, ma lo spazio reale / esiste. Una musicalità cosmica che cerchia i ritorni delle verticalità-uomo: dopo parecchi secoli viene elevato un muro / confinario di proprietà / in epoca successiva il muro viene abbattuto / in epoche recenti i muri vengono ricostruiti.

 Che punteggiatura ha il mondo / che cosa è una punteggiatura: i buchi la bocca le fosse le falde ricorda l’affascinante teoria-pratica dello psicoanalista Sergio Finzi e delle sue “giunture” del sogno con le leggi di natura, azione umana parlante e evento naturale muto e mutevole: g) azioni di accumulo: muri, civiltà, crepacci / d) evento del crollo degli accumuli elencati e relativi linguaggi / economie, sono due dei cinque punti dello schermo della formazione, primo tentativo quasi ironico di matematizzare la glossopietra che anticipa quella sorta di gioco-mathema successivo: la formula è la seguente: // N = R* x fp x ne x fl x fi x fc x L dove: / N: è il numero di civiltà con le quali si può parlare / R*: è il tasso medio annuo con cui si sformano le lingue.

 Gioco, antropologia, una sottile metafisica dell’azione parlante, una genealogia dell’inorganico che si interpola elegantemente al fenomeno filologico, economico, etnico. Glossopetrae è un mosaico matematico e desiderante, splendido e ipnotico, che oltrepassa il tempo e lo spazio e si conclude coll’hic et nunc della pagina bianca: situazione attuale: il presente questo, l’ora della lettura che si sospende senza finire: come scrive nella postfazione Marco Giovenale: “E la generazione, e la storia, presente: questa, e i suoi segni attuali, ai quali rinvia il bianco sospensivo dell’ultima pagina.”

Dunque buona lettura, e buona audiovisione!

 

Glossopetrae / Tonguestones, Simona Menicocci, ikonaliber edizioni, 2016, pag. 90, € 12

Diario parigino 7: la “terrasse” parigina e l’abnegazione al godimento

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di Andrea Inglese

 

A Parigi non è che sia facile vivere e che la gente si diverta. Vivere in una capitale, in una grande metropoli europea, persino mondiale, in un centro culturale d’eccellenza, cosmopolita, brulicante d’iniziative erotiche inconsuete, di punti di vista inauditi sull’abbigliamento, di credenze su come rendere lo scorrimento del tempo più arioso e inebriante, impone una certa responsabilità, esige in ogni caso competenze, preparazione, allenamento. Non è come chi vive in una periferia qualsiasi, in mezzo ai grigi vialoni dell’anonimato, dedito solo a centri commerciali feroci e a manovre nei parcheggi sotterranei.

Sole di mezzanotte ( bagatella dell’apericena)

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di Giorgio Mascitelli

Quando Guido della Veloira vuole fare il figo, si mette gli occhiali da sole.

In sé non c’è nulla di male, viviamo in un’epoca di ampia tolleranza ed è un saggio piacere di attardarsi a giocare proprio quando la vita mette fretta; tuttavia da un punto di vista tecnico la questione è di tutt’altro genere perché bisogna ammettere che Guido della Veloira prova questo impulso con particolare intensità nelle ore crepuscolari, all’ora dell’apericena, insomma, e vi è forse una correlazione tra la propensione al consumo di detta forma d’intrattenimento alimentare e l’utilizzo degli occhiali da sole al tramonto o subito dopo.

Ora le scelte sono scelte e non si possono sindacare, ma poi bisogna notare che tanti fanno la scelta di Guido della Veloira e in sé non c’è nulla di male, un po’ di conformismo non ha mai ucciso nessuno, anzi la vita di tutti i giorni si svolge anche perché  c’è un pizzico di conformismo nella maggior parte delle cose che facciamo. Il problema risiede piuttosto nell’implicita convinzione di Guido della Veloira di compiere una scelta esclusiva quando indossa gli occhiali da sole all’ora dell’apericena. Questo significa, dovrebbe significare, perché ormai in questi giorni di luce breve non c’è più nulla di certo ( e i miei occhi invecchiano a vista d’occhio),  che c’è un problema di percezione di sé, il che costituisce senza alcun dubbio un inconveniente.  Per tutti è difficile riconoscere la propria esperienza come un’esperienza tra le altre, ma addirittura Guido la pensa come l’inevitabile prodotto di un’accorta programmazione e di scelte felici.

Questa storia delle scelte è un po’ come quando all’apericena  ci si sofferma a considerare con ponderazione se si vuole lo spritz con l’aperol o con il campari, senza ricordare che spesso sono più importanti il vino, la quantità d’acqua e, in definitiva, lo stato d’animo con cui si beve. In pratica l’unica scelta possibile occupa tutto lo spazio mentale così che non si veda il resto del campo. Del resto anche l’apericena, la sua oggettiva importanza nella vita moderna e in particolare l’apericena con gli occhiali da sole va considerata come un parziale risarcimento ( di cosa non occorre precisarlo qui perché i tempi non sono maturi).

L’inconveniente principale di chi trascorre l’apericena indossando occhiali scuri sono due. Il primo, davanti al buffet, è di faticare a distinguere le vivande, specie i vari tipi di pasta fredda, cosicché spesso non si sa ma si presume quel che si porta al  tavolo nel piatto; il secondo è di protendere il viso verso l’interlocutore come fa quello che procede in base a quanto sente. D’altra parte viviamo in un’epoca o quanto meno in quest’epoca  frequentiamo apericene in cui nessuno porta più l’orologio ma tutti sanno esattamente che ora è, così è possibile che chi porta gli occhiali da sole veda meglio degli altri.

Non si registrano scontri nell’afflusso ai tavoli imbanditi con le pietanze per l’apericena tra i portatori di occhiali da sole che evidentemente sanno muoversi con destrezza. Si è sviluppata tutta un’abilità nel leggere nella penombra causata dall’occhiale nero le dimensioni dei volumi e degli spazi; abilità invero tanto più commendevole quanto più superflua dal momento che basterebbe togliersi gli occhiali per vedere le cose nella loro vera luce. Ma essi non vogliono levarseli, nemmeno Guido della Veloira che pure avverte un brivido di dubbio: per desiderare di vedere le cose nella loro luce bisognerebbe che questa fosse almeno presentabile, non certo questa luce livida breve che adesso va per la maggiore. Insomma essi non vogliono levarseli ed è difficile dar loro torto. Piaccia o meno,  questa è la legge dell’apericene in cui ci tocca vivere.

Arginare l’odio

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di Valeria Rosini

Dirò prima di tutto che il libro di Monica Romano “Trans, storie di ragazze XY” (Mursia, 2015, 13 €) è leggibilissimo, scritto con un linguaggio semplice ed immediato, adatto anche per gli adolescenti, per i quali sarebbe una lettura importantissima. Ma è un libro essenziale anche per adulti acculturati che vogliano calarsi nelle complicazioni e nelle particolarità dell’esperienza di vita di una persona Trans. Un libro quindi, davvero, per tutti.
È in gran parte una narrazione in prima persona della protagonista, che si chiama Ilenia, e che ci accompagna dalla sua infanzia all’età adulta.  Il personaggio – si intuisce – dev’essere la sintesi di tante storie che si somigliano, ma mi sembra che ci sia molto dell’autrice, almeno nella parte in cui racconta di riuscire a vincere le sfide più difficili, rifiutando di ritirarsi dal mondo, proseguendo la scuola nonostante tutto, fino a riuscire a laurearsi e ad affermarsi nel mondo del lavoro. E questa non è cosa da poco.  Perché se è vero che abbiamo alcuni luminosi esempi di persone che ce l’hanno fatta ad essere accettate nel mondo ‘diurno’, quello del lavoro, delle relazioni sociali, della politica, dell’intellettualità, è ancora vero che la maggioranza delle persone che vivono questa condizione, vivono da prigioniere nel ‘mondo della notte’. Infatti, un implacabile circolo vizioso le stritola ancora troppo spesso, senza che riescano a trovare scampo. La derisione e il rifiuto sociale impediscono di finire la scuola, di trovare un lavoro, di avere amici.  Oggetti di bullismo e di esclusione, vivono una solitudine assoluta. Le famiglie che le cacciano di casa per nascondere la vergogna, insieme all’impossibilità di trovare fonti di sostentamento, e l’essere viste da tutti come viziose adatte solo ad eccitare le fantasie su di una sessualità perversa (non propria, ma altrui), finiscono quasi inesorabilmente per sospingerle nel circuito della prostituzione e spesso della droga per poterlo sopportare. “Ma le cose cambiano” ci dice, a più riprese, Monica Romano. E avverte soprattutto i giovani:  per quanto  infernale sia il presente, il futuro sarà migliore. Non perdetevelo!
Le pagine introduttive mostrano l’aspetto peggiore: il modo in cui gran parte dei giornalisti dipinge al pubblico lo stereotipo delle persone transessuali. Siamo nel 2009 e la scena è quella di due amiche di fronte ai servizi dei telegiornali che inseguono Brenda, la donna transessuale del caso Marrazzo (trovata poi morta nella sua casa, soffocata dal fumo di un incendio doloso il cui colpevole non sarà mai trovato, forse mai cercato). La aspettano sotto casa, la rincorrono nei giorni dello ‘scandalo’, si permettono di darle del tu e la chiamano al maschile. La nominano “Brendona” e il suo cognome non esiste, palesando tutta la morbosità da cui loro – i giornalisti – vengono irretiti, trasmettendola al pubblico. I titoli dei giornali non sono da meno, nemmeno per quel convenzionale, e magari un po’ ipocrita, rispetto che circonda chiunque di fronte alla morte: «Il viado Brenda ucciso da esalazioni di fumo», o  «Brenda: morto carbonizzato il travestito coinvolto nel caso Marrazzo». L’angoscia delle due amiche viene alla fine stemperata da una risata con cui concordano di avere un primato imbattibile: quello di essere indiscutibilmente le prime nella classifica degli esclusi. Gli omosessuali hanno ancora molti detrattori, ma sono tutelati e protetti da molti, e oggi hanno perfino una legge che ne tutela le unioni. Gli immigrati sono oggetto di paura, di rifiuto e di infinite contestazioni, ma godono della solidarietà dei movimenti di sinistra,  dei sindacati e della Chiesa. Solo i transessuali sono ancora oggetto di un odio che sembra non trovare argine, la loro condizione percepita come oscura e del tutto incomprensibile.
Si passa quindi alla narrazione in prima persona di un ragazzino che parla di sé al femminile – Ilenia, appunto –  e che sembra proprio non riuscire nemmeno a focalizzare il problema: sembra non riuscire a capire il perché di tanta aggressività, odio, disprezzo e violenza che su di lei si abbatte quotidianamente.  Andare a scuola è un incubo! Uno sprazzo di luce le sembra di intravvedere quando un compagno immigrato e nero diviene oggetto di un atto di bullismo: la lezione infatti si ferma. Gli insegnanti avviano un’altra lezione, contro il bullismo e le discriminazioni, per la tolleranza delle diversità e per l’accoglienza. Allora la nostra protagonista scrive in un tema tutto quello che subisce ogni giorno, ma la reazione non è la stessa. L’insegnante la prende da parte e, con molto imbarazzo, le dice che se si comportasse un po’ più da maschio, tutto questo non le succederebbe. Ilenia se ne dispera, eppure ci prova.  Va dal barbiere, si fa rasare i capelli,  cerca abiti più simili a quelli dei compagni maschi, prova e riprova allo specchio posture, modi di camminare, atteggiamenti.  Eppure le cose vanno ancor peggio.  Prima di tutto perché si sente malissimo (cosa sta facendo?  Si maschera?  Si traveste? Cerca di essere quello che non è?  E cosa è?).  E poi perché le provocazioni dei compagni, invece che attenuarsi, si aggravano.
In questo racconto quello che colpisce di più è che, nonostante tutto questo, Ilenia conserva l’amore per lo studio.  E’ sempre molto brava a scuola, sempre tra le prime della classe.  Questa, che è la migliore delle reazioni possibili, non è la più frequente. Per Ilenia sarà un elemento fondamentale della sua salvezza, insieme a molte altre cose che le succederanno più avanti, come gli incontri con persone a lei simili, e alla vita associativa che via via andrà sviluppando. Ma per la maggior parte delle persone – lo sa bene chi, come me, ha lavorato come psicoterapeuta – condizioni ambientali così avverse, così mirate a distruggere la stima di sé, impediscono reazioni positive e stimolano quelle di natura depressiva: fanno ritirare in se stessi, impediscono di esprimere anche le capacità che si possiedono e ciò finisce per confermare la disistima in se stessi e nel mondo, bloccando il futuro.
Se un messaggio viene da questa parte del libro direi che è questo, rivolto soprattutto ai ragazzi e alle ragazze:  se tutto intorno a voi va male, non mollate quello che vi piace e che potete fare in proprio, come leggere e studiare, o coltivare qualsiasi vostra capacità che vi dia soddisfazione, anche se nessuno ve la riconosce.  Perché, quando vi chiedete angosciosamente chi siete, lì trovate la vostra risposta.  O, almeno, una prima possibile risposta.  La seconda è che “col tempo le cose cambiano”.  Sono già cambiate moltissimo.
La solitudine si è ridotta.  Le possibilità di incontro moltiplicate.  La rete consente scoperte, informazioni, incontri un tempo impensabili.  Le associazioni di autoaiuto e di sostegno alla socialità e alla ricerca di una dimensione esistenziale vivibile si sono incalcolabilmente moltiplicate.  L’attività politica volta all’affermazione dei diritti è oggi alla luce del sole.  Già oggi, nulla è come prima. Nel libro si trovano poi informazioni sui graduali cambiamenti legislativi per la riattribuzione di genere all’anagrafe e per il cambio del nome sui documenti, cambiamenti che ci sono già stati e quelli che ancora si attendono. Si trovano informazioni sui cambiamenti già avvenuti nelle definizioni di questa condizione da parte della psichiatria, assestata oggi sulla quasi benevola definizione “disturbo della identità di genere” o “disforia di genere“, e di quello ancora atteso della cancellazione definitiva dall’elenco delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (come già avvenuto per l’omosessualità, definita oggi come “normale variante della sessualità umana“). Ci sono cenni di storia dei movimenti LGBT nel mondo, e qui in Italia.
Ed infine, appena accennata, anche la questione filosoficamente più complessa e forse più interessante, su cui molto accesamente si discute, all’interno del movimento, e si discuterà ancora:  l’adeguamento del corpo con ormoni e chirurgia – percorso lungo e sofferto, e difficile da realizzare davvero – risponde ad un vero proprio bisogno o si tratta ancora di sudditanza ad una visione binaria del mondo che vuole tutto incasellato nel maschile o nel femminile, senza vie di mezzo?  O non sarebbe meglio  che l’ambiente attorno si abitui sempre più a vedere persone la cui appartenenza di genere non è definita o stabile? Questa forse è la domanda delle domande.

 

NdR: Valeria Rosini è psicanalista

Valentino Zeichen, Le poesie più belle

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di Francesca Fiorletta

Fazi Editore pubblica Le poesie più belle di Valentino Zeichen, a un anno dalla sua scomparsa.
Di seguito, alcuni estratti.

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Come dirti ancora amore mio,
mia, mio, adesso
che gli aggettivi possessivi
sono istruiti di dubbi, svogliati
e disaffezionati alla proprietà
abbandonano la guardia e disertano
lasciando sguarniti i beni privati,
concedendosi solo al plurale.

MSQ→AMS→PAR #5

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di Andrea Inglese, Barbara Philipp, Aleksei Shinkarenko

Quinto episodio, di cinque. In versione italiana, primo, secondo, terzo e quarto. In versione francese sul sito amico Remue.net, premier, deuxième, troisième e quatrième. Sulla natura del progetto, leggere in coda al pezzo.

Quello che vedo, lo vedo bene, sì, almeno, è l’impressione che mi fa, tutto quello che vedo sembra buono,

Il bacio di Puig

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di Francesca Fiorletta

Recentemente le Edizioni SUR hanno ripubblicato “Il bacio della donna ragno”, un brillante e commuovente romanzo-dialogo dello scrittore argentino Manuel Puig, già tradotto da Angelo Morino, con la prefazione di Alan Pauls, tradotta da Martina Testa.
I due protagonisti, Valentín e Molina, sono due detenuti, alle prese coi piccoli grandi demoni della loro vita.
Di seguito, un estratto.

Chi come cosa Queer?

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Da dove viene il Queer e come nasce la Teoria Queer? Che cosa s’intende con i termini omonormatività e transnormatività? Cos’è l’omonazionalismo? Che rapporto intrattengono queste parole (o concetti  o etichette) con i movimenti LGBTQI+ contemporanei? Che ne è della sessualità queer? Cosa c’entra la teoria del gender? E perché di queer non ce n’è uno solo?

E’ uscito da poco per la casa editrice Mimesis un libro (assolutamente tascabile) intitolato Le teorie queerUn’introduzione che offre alcune risposte a queste domande e solleva molti altri interrogativi sulle tante anime del pensiero e del mondo queer. Ne pubblichiamo qui di seguito un estratto (§ 3.1, pp. 118-127). L’autore, Lorenzo Bernini, insegna Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Verona ed è direttore del centro Politesse – Politiche e Teorie della Sessualità. Ha scritto, tra le altre cose, Apocalissi queer: Elementi di teoria antisociale, Pisa: ETS 2014.

 

di Lorenzo Bernini

A partire dall’Ottocento, nella lingua inglese, il termine ‘queer’ viene utilizzato come epiteto dispregiativo contro le minoranze sessuali; dagli anni novanta del Novecento, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, se ne sono riappropriati provocatoriamente sia alcuni attivisti e attiviste, sia alcuni pensatori e pensatrici, per farne l’indicatore di un’identità politica. Ma già prima di questa risignificazione, esso aveva attraversato una storia di variazioni semantiche. L’inglese ‘queer’ deriva infatti dall’aggettivo germanico ‘quer’, che significa ‘trasversale’, ‘diagonale’, ‘obliquo’, e che a sua volta proviene dal verbo latino ‘torqueo’ (torcere, piegare, ma anche tormentare). ‘Queer’ può essere quindi considerato il contrario di ‘straight’, che vuol dire ‘dritto’, ‘retto’ e – dal momento che, in un regime di eterosessualità obbligatoria, l’eterosessualità è tradizionalmente associata alla rettitudine morale – anche ‘eterosessuale’. In italiano esso può essere tradotto con ‘storto’, ‘strano’, ‘strambo’, ‘bizzarro’, ‘bislacco’, ma equivale a insulti come ‘frocio’, ‘finocchio’, ‘culattone’, che in inglese possono però essere rivolti anche a una donna.

Indeterminatezza e versatilità tanto nella denotazione quanto nella connotazione permangono anche nel suo attuale uso teorico. Il fatto che ‘queer’ resti un significante fluttuante, non vuol dire però che esso sia un significante completamente vuoto, o aperto a qualsiasi significazione. Tanto nella teoria, quanto nei movimenti, esso fluttua infatti attorno a una serie di punti di ancoraggio politico che consistono non soltanto nel contrasto a sessismo, maschilismo, omofobia, transfobia, bifobia, ma anche nella critica del binarismo sessuale, dell’eteronormatività (l’«ideologia» dell’eterosessualità obbligatoria) e di quei dispositivi normativi che dagli anni duemila le teorie queer hanno iniziato ad analizzare con i concetti di ‘omonormatività’, ‘transnormatività’ e ‘omonazionalismo’. L’attivismo queer e il pensiero queer si differenziano dall’attivismo e dal pensiero lesbico, gay e transgender mainstream perché da un lato denunciano che anche i movimenti e le comunità delle minoranze sessuali producono al loro interno modelli normativi, meccanismi di esclusione, ordini gerarchici, e da un altro lato che l’integrazione delle minoranze sessuali nelle società neoliberali rischia di compiersi a spese di altre soggettività minoritarie.

La diffusione della sigla GLBT (gay, lesbiche, bisessuali, transgender, poi sostituita da LGBT) negli anni novanta, ad esempio, è avvenuta in concomitanza con l’emergere di campagne per la richiesta di diritti civili per le coppie omosessuali in cui, negli Stati Uniti e in Europa, hanno assunto particolare visibilità le coppie di gay, bianchi, benestanti, non soltanto normodotati e cisgender ma caratterizzati da un’espressione del genere maschile sufficientemente ‘virile’ – e in subordine le coppie di lesbiche bianche, benestanti, non soltanto normodotate e cisgender ma caratterizzate da un’espressione del genere femminile sufficientemente ‘femminile’.

Il concetto di omonormatività indica appunto, per cominciare, il processo attraverso cui le comunità e i movimenti LGBT, che avrebbero dovuto esprimere le istanze di tutte le minoranze sessuali indicate dall’acronimo, sono state per lo più rappresentate da un’immagine rispettabile e rassicurante dell’omosessualità, in primis maschile, che ha reso politicamente scorrette e quindi non più pubblicamente esprimibili altre espressioni dell’omosessualità, come l’effeminatezza gay e la mascolinità lesbica, o come la sperimentazione di stili di vita differenti dalla costruzione di un’unione affettiva stabile tra due partner, o ancora come la disabilità e la povertà delle persone LGBT, l’appartenenza di alcune di loro a classi subalterne, comunità razzializzate, movimenti antagonisti dell’ordine neoliberista. Il riconoscimento sociale dei gay e delle lesbiche è stato quindi ottenuto al prezzo di una parziale invisibilizzazione delle lesbiche, della rinuncia, da parte dei movimenti gay e lesbici, a rappresentare una parte dei gay e delle lesbiche, e soprattutto al prezzo di una presa di distanza dei movimenti gay e lesbici non soltanto dalla sinistra radicale, ma anche dai movimenti transgender e intersex – che paradossalmente è avvenuta aggiungendo una inefficace T (e più di recente, in alcuni casi, la I e persino la Q di queer) in coda alle altre lettere della sigla. Neppure i movimenti transgender e intersex/DSD sono del resto alieni da forme interne di normatività discriminatoria: in entrambi i casi, sono soprattutto persone bianche, normodotate, benestanti e colte a ottenere visibilità e a occupare ruoli di leadership. Nei movimenti transgender, inoltre, c’è chi parteggia per un’immagine rispettabile del/la buon/a cittadino/a produttivo/a transgender contro l’associazione tra trasgenderismo, immigrazione e lavoro sessuale, e chi rivendica lo statuto di ‘vero uomo’ o ‘vera donna’ perché esteticamente più somigliante agli standard cisgender ed eterosessuali del maschile e del femminile e/o perché si è sottoposto a intervento ai genitali. Anche nei movimenti intersex/DSD, infine, c’è chi preferisce presentarsi pubblicamente come soggetto di sesso maschile o femminile, cisgender ed eterosessuale, portatore di una delle diverse ‘sindromi’ che la medicina classifica come DSD (Disorders of Sexual Development), piuttosto che allearsi in quanto intersex con i movimenti LGBTQI. Tanto l’omonormatività, quanto la transnormatività, quanto ancora questi atteggiamenti espressi non solo da singoli, ma anche da gruppi intersex/DSD confliggono evidentemente con la critica del binarismo sessuale e dell’eterosessualità obbligatoria, e danno anzi sostegno, come afferma Lisa Duggan, alle «istituzioni eteronormative dominanti» (come il matrimonio). Slegando le rivendicazioni delle minoranze sessuale dalla critica delle ingiustizie causate dai processi di razzializzazione e dalle differenze di classe, essi alimentano inoltre un’interpretazione depoliticizzata e privatistica della sessualità, «ancorata alla domesticità e al consumo».

A questo occorre aggiungere che, dall’11 settembre 2001, i diritti delle minoranze sessuali (e in particolare i diritti dei gay bianchi, benestanti, cisgender di cui sopra) vengono sempre più spesso utilizzati da retoriche nazionaliste che contrappongono la cultura neoliberale nordamericana ed europea al resto del mondo, al fine di giustificare l’introduzione di politiche anti-islamiche e anti-immigrazione. Anche questo fenomeno, che Jasbir Puar ha chiamato ‘omonazionalismo’, è dunque rivelativo di come dell’integrazione delle minoranze sessuali nelle società eterosessuali e neoliberali facciano le spese non soltanto altre minoranze (gli islamici, i migranti, i soggetti meno abbienti, razzializzati, disabili e/o anticapitalisti), ma le minoranze sessuali stesse (le persone LGBTQI islamiche, migranti, meno abbienti, razzializzate, disabili e/o anticapitaliste).

I concetti di omonormatività, transnormatività e omonazionalismo sono dunque strumenti messi a punto dalle teorie queer contemporanee per esercitare una critica politica del desiderio di assimilazione delle minoranze sessuali. La storia di questa critica inizia però ben prima dell’elaborazione di questi concetti siano coniati, e anche prima della risignificazione del termine ‘queer’ in senso teorico-politico. Il motivo per cui, in questo libro, includerò impropriamente il costruttivismo di Foucault e il freudomarxismo di Mieli in una trattazione delle teorie queer, per quanto siano antecedenti all’introduzione dell’espressione ‘teorie queer’, è che, seppur con grandi differenze, i due autori non si limitano a chiedere l’integrazione delle minoranze sessuali nella società eterosessuale e neoliberale, ma contestano il funzionamento della società eterosessuale e neoliberale e mettono in discussione i criteri che separano le minoranze sessuali dalla maggioranza eterosessuale. Non soltanto il costruttivismo, ma anche il freudomarxismo problematizza il funzionamento della sessualità contemporanea, denaturalizza le categorie del sistema sesso-genere-orientamento sessuale e denuncia come, attraverso di esse, desideri e comportamenti sessuali siano controllati, disciplinati, subordinati a esigenze produttive e riproduttive. Entrambi possono essere quindi considerati a ragione ‘teorie queer’, per quanto siano precedenti all’avvento delle teorie queer propriamente intese. Quella che tra poco ricostruirò è però soltanto una delle genealogie possibili, accanto alla quale ne esistono altre…

Nitimur in vetitum: Tabù di Giordano Tedoldi

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di Alfredo Zucchi

Il romanzo nicciano è un genere a parte: una narrazione di pensiero, il cui motore ha a che vedere con la figura dell’eticità dei costumi – la morale, si usa dire semplificando, ma così facendo si riduce e si strozza la questione. Svetta tra i romanzi nicciani L’uomo senza qualità di Robert Musil.

Negli ultimi anni in Italia sono apparsi due notevoli romanzi nicciani: Contronatura di Massimiliano Parente e Tabù di Giordano Tedoldi, presentato da Tunué in occasione del trentesimo Salone del Libro di Torino. Mentre Parente in Contronatura prende la via cafonal,  la scelta di Tedoldi è più letteraria: affonda le radici nel genere del dramma borghese per piantarvi il seme della discordia –  per sfondare e attraversare il genere, appropriandosi, passo a passo, di forme e contenitori diversi (simbolismo, espressionismo, rappresentazione sacra). In qualche modo Tabù ripercorre, al suo interno, le stesse tappe che abbraccia il teatro di Strindberg (tra i nicciani della prima ora: non tedesco, non contaminato dal nazismo, non francese né esitenzialista – una rarità).

Le convenzioni narrative del dramma borghese (la lingua, i personaggi, il contesto, i conflitti) sposano alla perfezione il veleno che il narratore delle prime tre parti del romanzo, Piero Origo, ha nella lingua. Si adattano ai suoi fendenti, si lasciano martoriare. Il movimento (in discesa: è vera catabasi) che porta Piero da una casa borghese, dove scopa la moglie del suo migliore amico, alla rovina è vertiginoso. Piero è affilato come il rasoio di un Occam autolesionista[1]: il suo desiderio distrugge e ricrea; il suo pensiero non accetta mediazioni o consolazioni – davanti al dubbio supremo, non esita a colpire e colpirsi. Piero crea dubbi, fenditure, ferite in chi lo circonda – dubbi sui valori, sulle leggi che si ritengono inviolabili, sulla stessa desiderabilità del punto di vista normativo. È un personaggio col martello. La forma delle prime tre parti del romanzo è una grotta o uno scavo fino al cuore pulsante delle cose.

Ci sono tuttavia almeno due Nietzsche. Quello che Tedoldi interroga, e a cui attinge, è il Nietzsche novecentesco: apollineo e dionisiaco, anticristo, il Nietzsche di Bataille (noi senza paura/ tante aurore devono ancora risplendere). L’altro Nietzsche, quello del ventunesimo secolo – i cui pensieri speculativi vengono oggi ripresi e citati nel quadro della teoria dell’evoluzione, da fisici teorici nel contesto della meccanica quantistica – nessuno l’ha ancora interrogato in letteratura. E di fatto, proprio quando Tedoldi si allontana inesorabilmente dalla cornice del dramma borghese – non nei temi ma nella forma: dalla quarta parte in poi – il libro comincia a soffrire.  La prima avvisaglia è l’emergere dello strato metatestuale, prima sopito o innocuo (i cambi di voce, il libro che si fa oggetto e soggetto narrativo, l’improvviso tu al lettore, le false attribuzioni, la cifratura dei toponimi).

La seconda riguarda gli inserti fantastici. C’è modo e modo di interrogarsi su “cosa sia il reale” – l’indagine vorticosa, spiazzante, violenta e delicatissima della prima metà del libro, poggiata sulle basi salde del realismo letterario, fa spazio a una forza diversa nella seconda metà, una forza che proprio mentre impenna nel fantastico non riesce a prescindere dalla traccia della verosimiglianza: vuole una prova – per quanto inverosimile e tirata per i capelli essa sia – una prova dirimente. Sembra che nei passi finali, e in due svincoli decisivi, l’autore non sia riuscito a inventarsi di meglio, che abbia voluto, a ogni costo, costringere la storia in una direzione, quando forse quest’ultima intendeva prendere altre pieghe.

(Un anno fa, in un intervista via posta elettronica in occasione della ristampa di Io odio John Updike, quando ho citato una frase di Julio Cortázar in cui lo scrittore argentino indica una differenza ontologica tra forme narrative brevi e forme estese, Tedoldi ha risposto: «Il platonismo è una cosa seria, troppo seria per lasciarla in mano a Cortázar.» Mi pare invece che una dose del tunnel cortazariano avrebbe solo giovato alla chiusa di Tabù – in qualche modo, in narrativa, la chiusa di una testo, la sua possibilità e la sua esecuzione, è la prova ontologica).

 

Nonostante questi dubbi – questi strappi che costringono il lettore fuori dal flusso fino a quel momento impetuoso, irrefutabile del testo – anche nella seconda metà del libro si verificano momenti di puro rapimento. La voce del narratore principale delle parti 4-6, Padre Eusebio Kuhn – le sue esperienze, la sua moralità, la sua percezione distorta – immersa nella rovina di Piero, allarga ulteriormente lo spettro – se Piero può tutto e niente, vuole tutto e niente, il desiderio trattenuto e filtrato di Eusebio dona al libro la spinta essenziale del voyeurismo. L’intreccio tra i due personaggi rivela inoltre un altro tema nitzscheano fondamentale: l’amicizia virile. Un legame forte e debole allo stesso tempo, in cui, a differenza della relazione di Piero con Domenico, suo sedicente migliore amico, non si fugge il conflitto ma lo si cerca costantemente – in cui la serenità è una ricompensa, una rarità post bellum.

 

La capacità di Tabù  di soggiogare il lettore sta anche, forse soprattutto, nella precisione e profondità con cui Tedoldi descrive le dinamiche relazionali. Solo, tête-à-tête, trio, partouze: c’è tutto nel romanzo. C’è una capacità di penetrare i pensieri e le voglie di ognuno e di tutti, di giocare col binomio sacro oscenità-evidenza con maestria e naturalezza – un acume psicologico che ammalia, seduce e feconda come una serpe.  In questa traccia, in cui ogni gesto, ogni desiderio, è spontaneo e ipocrita insieme, spiccano le pagine sull’amore di Piero per Emilia, la moglie del suo migliore amico – l’amore a distanza, ormai ritualizzato, idolatria pura  e morte viva; allo stesso modo spicca il gesto fondatore della relazione tra Piero e Eusebio, principio primo dell’amicizia dionisiaca. E in realtà ognuno dei personaggi principali porta con sé un carattere unico e indimenticabile (Antonia l’amazzone, Dolly il furetto di dio, Marco il rosicone, Eva Kate Moss, Messabianca la Pura), possiede una forza che viene dalla riduzione delle variabili a un unico elemento essenziale. Questa riduzione agisce come un detonatore di conflitti atomici tra i personaggi – le esplosioni, a loro volta, lasciano strascichi perduranti, irreversibili.

 

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Tabù
Giordano Tedoldi

Latina, Tunué, 2017

  1. 360

 

 

 

[1] Occam autolesionista fa l’amore con gli animali: rappresentazione non-naturalista, fedele, di Nietzsche all’apice dell’euforia torinese.