
di Andrea Inglese
Cerchiamo di farci un’idea chiara almeno di questo, che questo è un messaggio, e come si studia un messaggio e come se ne parla, come va e viene, e l’emittente, e il disastro, e il ricevente.

di Andrea Inglese
Cerchiamo di farci un’idea chiara almeno di questo, che questo è un messaggio, e come si studia un messaggio e come se ne parla, come va e viene, e l’emittente, e il disastro, e il ricevente.
Megahertz stralunati e frequenze postdigitali
di
Mirco Salvadori
Febbraio 1976 – Diretta per l’inaugurazione di Radio Alice
Buongiorno. Lunedì 26 gennaio. Ieri nevicava. Stanotte c’era la luna e il 31 sarà piena. Siamo sotto il segno dell’acquario e i nati in questo giorno sono tendenzialmente azzurri, spiccata tendenza agli scioperi felici…E qui siamo sempre a radio Alice, nella nostra tana piena di esseri strani. Un quantitativo di megaertz di tipo acquario. Occhi un po’ stralunati e i nostri impianti sono sperimentali quanto noi.
…a seguire White Rabbit dei Jefferson Airplaine

Aprile 2017 – Live streaming USMA Radio
Guardo nello schermo del portatile, oltre il logo dell’emittente dell’Università degli Studi di San Marino scorgo le immagini filmate da Man Ray mentre il live streaming mi propone David Sylvian che dialoga con la tromba di Arve Henriksen. Navigo in assenza di peso e agisco creando multimedialità. Clicco sul podcast e alle diverse voci che già riempiono il mio percorso radiofonico si unisce quella di Bruno Munari in podcast, durante una sua lezione di design. Al pari di un dj mixo ciò che la rete mi rimanda, rimescolo le carte creando nuove realtà d’ascolto, artistiche ed invisibili strutture sonore che riempiono lo spazio fisico della stanza e quello indefinito del mio pensiero.

1976 – 2017, come si è evoluta la radio nel corso di questo lungo periodo? Questa breve disamina tenterà di descrivere il lungo percorso che ha trasformato la rivoluzionaria spontaneità di alcuni sperimentatori underground in efficace ricerca di contemporaneità espressiva. Lo spunto giunge da un incontro svoltosi nelle colline marchigiane, all’interno della residenza artistica SPRING ideata e curata da House Creative Agency nella cornice di Villa Tereze Holiday House and Creative Hub. Una giornata nella quale il compositore e musicista, regista e autore Roberto Paci Dalò, ha presentato il progetto USMA Radio di cui è direttore.

Ho scelto di scrivere queste poche righe immergendomi nell’ascolto della musica, una materia plasmabile, in continuo cambiamento, da sempre anima portante del palinsesto radiofonico. Ho deciso di farmi accompagnare dal suono per il mio costante rapporto con un elemento che radiofonicamente mi ha accompagnato per più decenni e tuttora è parte integrante del mio percorso. Userò musica e suono come mezzi attraverso i quali tentare un breve viaggio dentro il mondo delle frequenze modulate e del segnale in streaming.

White Rabbit: al tempo stesso nulla di più lisergico e materiale, testimone di un periodo di eccezionale fermento creativo. Un’emittente in prima linea come Radio Alice non poteva non iniziare le sue trasmissioni, durate ahimè ben poco, con un brano che non avesse lo stesso tenore. Mettersi davanti al microfono di una radio libera negli anni ’70 significava provocare, smuovere l’apatia e il perbenismo diffusi. Erano periodi tragicamente semplici, bastava girare di domenica in eskimo, indossando i soliti jeans sdruciti per sentire di appartenere ad un’altra realtà, quella alternativa, la stessa che si collegava costantemente con la propria piccola emittente di riferimento per ascoltare musica impossibile da trovare altrove. Il rock come colonna sonora costante con la quale imbastire tavole rotonde e discussioni politiche, il rock alternativo come unico comune denominatore per riconoscersi ed accettarsi, fidandosi l’uno dell’altro. Forse una delle poche nobili usanze tramandate nel corso del tempo: dimmi che ascolti e saprò chi sei.
Per decenni il mezzo radiofonico è stato usato con queste modalità, ciò che cambiava era la musica. Con il tempo però il rock subisce un mutamento, si trasforma in classico intrattenimento omologato. La voce suprema dell’antagonismo culturale di matrice popolare viene abbandonata dai più attenti ricercatori radiofonici che abbracciano altre forme sonore, in grado di rappresentare in modo più contemporaneo la continua e diffusa volontà di appartenenza altra. Nascono nuove trasmissioni sempre più specializzate: punk, new-wave, post-punk, indie-rock, industrial, programmi dedicati al suono elettronico e al suono di ricerca. Decine di nuovi segnali musicali iniziarono a fluire dagli altoparlanti di emittenti seguite da un pubblico che richiede sempre maggiori informazioni, ascoltatori che hanno sete di novità. La spinta data dal bisogno di controcultura stava scemando, l’esperienza dell’improvvisazione radiofonica si era trasformata in altro, l’ascolto si faceva più esigente e la conoscenza della materia trasmessa diventava basilare per un’emissione che fosse realmente degna di questo nome. Questo uno dei motivi per cui gran parte dei critici, degli artisti o dei curatori che si occupano di musica sulle pagine dei giornali e in rete, hanno avuto o hanno tutt’ora esperienza radiofonica.

Viviamo in un’epoca che solo in rari casi permette alla creatività di svilupparsi dentro canali non massificati. Ogni nuova esperienza artistica appartenente a qualche genere di sottocultura musicale appetibile viene subito trasfigurata e diffusa in modo virale attraverso milioni di clic. Un fenomeno che mette non poco in crisi coloro che da sempre ricercano unicità e possibile innovazione nell’ascolto. Un problema che porta con sé mancanza di produzione musicale intelligente, che sappia sorprendere. Da par loro, gran parte delle emittenti ‘antagoniste’ ancora in vita non riescono a sciogliere questo nodo, seguono pedissequamente un modello tardo-indie d’antan non riuscendo ad attraversare quella soglia che conduce dalla musica al suono.
Esistono però delle realtà che hanno compreso l’importanza di questo passaggio, iniziando a sperimentare un uso radiofonico non convenzionale.
Mi viene da citare Radio Papesse di Firenze, patrocinata dall’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, una web radio nella quale le emissioni si colorano di musica convenzionale ma anche e soprattutto di suono, quello dei talks e degli avvenimenti trasmessi in streaming o delle registrazioni dei soundscapers che collaborano con la webradio fiorentina. L’uso del mezzo radiofonico diventa ancor più ‘trasgressivo’ nel caso di USMA Radio, l’emittente dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino: “La radio non è solo la scatola dalla quale escono i suoni e le voci ma la radio è lo spazio, per questo abbiamo ideato un’emittente che è composta da una serie di cose non direttamente associabili all’idea che tutti abbiamo della radiofonia…”, così esordisce Paci Dalò nell’introduzione al talk marchigiano.

L’idea che sta alla base del progetto USMA Radio, così come di altre emittenti innovative sparse nel globo, si rifà al principio base della missione radiofonica, ovvero la trasmissione. Un’idea se vogliamo condivisa dal resto dell’antico mondo dei megahertz ma completamente mutata nella narrazione e nella messa in scena. Si parte dal concetto dell’universalità radiofonica: tutto può essere trasmesso, siamo tutti transmitters, la radio non è più un luogo preciso ma diventa il non luogo nel quale poter ascoltare suono e trasmetterlo. Con le e nuove tecnologie possiamo ‘fare radio’ da qualsiasi luogo attraverso l’uso di devices un tempo impensabili. Esistono applicazioni che permettono di creare e inviare trasmissioni attraverso un semplice smartphone, in questo modo si possono tessere reti di scambio a livello globale. Ecco quindi che la famosa barriera tra suono e musica viene abbattuta, oserei dire superata. Quel ‘transmission’ di curtisiana memoria che invitava a danzare con la radio, viene terribilmente ridimensionato dalle potenzialità sonore di un universo in pieno movimento, registrato magari a Mumbai e ascoltato in Groenlandia, in tempo reale. Il paesaggio sonoro, il soundscape stesso entra prepotentemente in gioco e ci aiuta a meglio comprendere i cambiamenti nello spazio che ci circonda.
In Italia esiste una rete di artisti che hanno deciso di mappare e campionare il territorio della penisola, questa associazione fa capo all’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori che si prefigge di promuovere la cultura del paesaggio sonoro usando i risultati ottenuti come base di scambio culturale tra varie realtà territoriali, compresa USMA Radio, attraverso la messa in onda delle performances sonore dei vari soundscapers.
“Accostarsi ad un territorio attraverso la pratica dell’ascolto implica una profonda immersione nelle situazioni, negli eventi, nelle storie, negli elementi che le raccontano. E’ un processo che richiama modalità di sentire che invitano ad espandere la ‘percezione del suono, includendo il suo continuum spazio-temporale e facendo esperienza della sua vastità e della sua complessità nella maniera più ampia possibile’…”. Così Pauline Oliveiros, teorica e storica ricercatrice musicale, fautrice del deep listening qui citata da Leandro Pisano nel suo testo dedicato agli spazi e ai territori nell’epoca postdigitale, quel Nuove Geografie del Suono – Meltemi Edizioni 2017, da molti adottato come testo guida per la comprensione del fenomeno culturale legato al mondo del field recording e alla sua conseguente elaborazione sonora.
Ecco quindi che la radio torna a svolgere il suo primario compito di informazione, aiuta a ‘sentire’ quanto ancora non è diffusamente conosciuto. Seleziona ascoltatori necessariamente e volutamente altri, quella minima parte di pubblico che inizia a percepire stanchezza nel consueto ascolto musicale, ma anche coloro che amano indagare nello spazio sconfinato che ancora si cela dietro i semplici circuiti di una radiolina a transistor.
Link Utili
http://www.archivioitalianopaesaggisonori.it/
http://www.terezehouse.com/
Minime
Minima ordinaria 1
1.
Bestie rosse, cocciniglie che rigano i davanzali, i muretti.
I rumori lenti, ruminati.
Sterpaglie e oltre, sulla riga di palazzine nuove, rivestite in cotto, sfocate.
2.
Bestie rosse, sterpaglie – cocciniglie. Affogano a pelo del marmo, nelle solcature dell’uso: per riaffiorare dopo, sparire ancora, tornare.
Le insegue con la punta della matita, ne schiaccia qualcuna. Macchia la mina.
3.
Gli hanno insegnato che i giochi cruenti, ammazzare gli insetti, le lucertole prese per la coda – lo spettacolo del corpo svuotato.
I muretti che piegano all’avanzare del sole – si venano di chiaro, velano, sembrano sparire.
4.
I sassi precipitano polvere, la sollevano, rotolano e chiocciano voci di vetro.
Le parole adulte che sono poche, divorate dal calore – gli hanno insegnato che mai, dritto con gli occhi, in direzione del sole.
L’acqua della fontana, a bere, nemmeno.
5.
Chioccola, perde acqua – poca. Si torce, brulica.
Osserva la pozza che si è formata intorno: un occhio terragno, grani e sabbia – lo guarda, lo finisce con il peso del piede, del corpo.
L’aiuola – dopo
6.
L’inseguimento delle farfalle che hanno arti di fango, il volo piccolo, pesante.
La foga delle mani, le foglie.
Non piange se inciampa – sterpaglie, o i cocci che bordano certi ritagli di terra, le radici degli alberi di agrumi.
La natura, gli hanno insegnato.
7.
Le palazzine sfocate, colore delle cocciniglie.
Le sbucciature vive, sulle ginocchia – la matita che serve a scalzare le croste di sangue duro, a far venire altro sangue.
LaEffe
1.
Che dire ‘confortarsi’: il racconto della vacanza e l’intreccio degli amici che fotografano o sono fotografati, sul telefonino, una moglie incinta e laureata e il marito che chissà, più a posto di così era difficile da immaginare.
2.
Eliminato il lato fasullo. Eliminato il profilo, la pancia e il mento che non vengono per niente bene.
La pasta e fagioli con le cozze, come la facevano in quel ristorantino sulla costa – una cena si potrebbe pure fare, insieme, e invitare S., magari, anche se lei si imbarazza, anche se lei rifiuta sempre.
3.
Dietro al tavolo, altro tavolo – essudati serali, drink, pozioni di arancia carota limone o alchimie sane.
Si sprecano in quanto a parole – essudati branchiali, labiali, a mani e corpi contratti, che si sacrificano per buona educazione.
4.
Si scelgono, per i più piccoli, giochi stimolanti e puzzle – la pila di best-sellers polizieschi, i libri sui saperi disparati: Tutti d’un fiato, a meno il venti per cento, per i più grandi.
5.
Hanno fissato con lei – dice che verrà direttamente al ristorante.
Si allontanano – altro tavolo e lì un editor che dà consigli su come fare, se il racconto lo si vuole pubblicare, mandare a una casa editrice grossa e poi sperare.
6.
La gentile clientela è avvertita che il bar sta per chiudere – si ritirano i bicchieri dai tavoli, si invitano quelli che ancora non lo hanno fatto a saldare.
Tutti d’un fiato: e gli Oscar: Ce n’è per tutti i gusti – Un uomo è ciò che legge, sconto speciale.
(E se anche non fosse, chi starebbe a sindacare che)
7.
Più che stereotipo, caso sociale: la scrittrice bulimica, con il taccuino aperto, che prende appunti e mangia patatine – non se ne vuole andare.
8.
Che dire ‘passare il tempo’ tra le ultime novità editoriali, sulle pagine stampate dal mercato, le trame rifinite come film di botteghino.
L’editor si appella alla vivacità della lingua, della narrazione. All’originalità del paese dove si svolge la vicenda – vanno via in tre, lui ultimo.
9.
Che se poi chi legge capisce chi è l’omicida, e lo capisce prima, e il plot rimane senza tensione.
Un quid galvanico: leggere, scrivere, far di conto – la bulimica che sul taccuino appunta che cosa, ora, nella geometria assennata dei tavoli pronti per domani mattina.
Intermezzo
1.
Che cos’è che cede, che scioglie dal limbo e lo fa altro, acido, aereo, arco.
Il domino, questo gioco profetico.
2.
Il topos è tornare dalla stanchezza al freddo lattescente delle mattonelle, delle cucine – ancora aureole di caffè alle tazzine, le macchinette sporche, le briciole.
Poi uova al tegamino che scivolano con attrito, l’orlo dell’albume brunito, il sale a grani – a fiore di decenza.
3.
Si stupiscono, e le voci hanno coro di filo elettrico, decorticato.
Dalla casa accanto preoccupazioni da notiziario – il domino, che procede per livellamenti al basso, lo schiocco e a seguire i tasselli che sfuggono per capriccio, per ostinazione.
4.
Per domani si danno sillabe in numero da quattro a sette – tre per l’ufficio e poi i pasti e il sonno, minzioni escluse, esclusi i cambi e il resto.
Immaginare il silenzio, il passo della notte espansa tanto da confonderla con quella che viene dopo – il gioco, masticare catrame su ritornelli da gole asincrone in sottofondo: i sogni d’oro, ecco.
5.
Uova al tegamino, un’insalata tiepida di frigo – le coste elastiche, la gomma, il gelo che ha strapazzato i bordi delle foglie.
Il topos, il telefono che squilla – chi dice perché deve dire, chi, che cosa
*
FRAMMENTI DI UN ASCOLTO CRITICO
Su Minime di Fiammetta Cirilli
Simona Menicocci
: la forma del frammento novecentesco (paratassi, costrutti nominali o verbali, disordine strutturale del testo dovuto a salti temporali, alogicità, sequenze scombinate, alterazione dei nessi abituali; continua tensione della lingua che forza le strutture normali di lessico e sintassi, mira alla densità e alla forza sintetica dei significati, punta sull’ellissi) viene reinterpretata e rideclinata da Fiammetta Cirilli per scandagliare e problematizzare le odierne possibilità d’uso di poesia, prosa, lingua e dei rapporti che queste forme, nella loro ibridazione, divergenza, instaurano con la società contemporanea.
: Minime è titolo tematico e rematico insieme, riferendosi al contempo alla forma delle frasi, minime appunto, e alle cose di cui le frasi parlano o a cui si riferiscono: quelle minime della vita quotidiana.
: INTRAMONDANO E INFRAORDINARIO
: il titolo del primo testo minima ordinaria, oltre a una funzione descrittiva, ha un effetto secondario connotativo per il modo in cui realizza la sua denotazione, un’eco che apporta «al testo la cauzione indiretta di un altro testo e il prestigio di una filiazione culturale.»[1] In questo caso il rimando è a Minima Moralia di T.W. Adorno. Il trapasso compiuto messo a tema è quindi da questioni morali minime a questioni ordinarie minime.
: l’impronta, l’eco, adorniana si può riscontrare anche sul piano formale del frammento stesso, inteso come “particolare che esprime negativamente la totalità”, come “forma aperta e priva di potere”, la cui caratteristica è quella di non partire da zero, ma di cominciare in medias res e, costitutivamente, di non pretendere all’esaustività e alla sistematicità.
: frammenti di prose, vere e proprie lasse, spesso ridotte a frasi minime, a volte nominali, iperconcentrate, ad alto tasso di connotazione; intermittenze, intervalli, in cui descrizioni di minima portata sociale e antropologica eludono una formulazione “positiva” di ciò che è vivente.
: gli interstizi sono, come le pause musicali, momenti del tessuto concettuale, dello sviluppo del senso.
: Fiammetta Cirilli usa il frammento non in quanto risultato mimetico della disgregazione della percezione, bensì come strumento di captazione e di applicazione di uno sguardo micrologico che seleziona e semantizza l’inesauribile superficie e profondità delle cose della vita.
: proprio Adorno prospettava la salvezza della metafisica solo nella sua capacità di riformularsi, di trapassare, in micrologia. Lo sguardo micrologico – desunto da Benjamin che, nella premessa a Il dramma barocco tedesco, ricordava programmaticamente: «il contenuto di verità può essere colto soltanto penetrando con estrema precisione i particolari di un certo stato di cose»[2] – deve occuparsi dei “minimi tratti intramondani”, è uno sguardo sul dettaglio e sull’apparentemente irrilevante:
«I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al criterio del concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente un esemplare»[3]
: accanto ad Adorno, minima ordinaria contiene l’eco dell’infra-ordinario di Perec: «quello che succede ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo? […] Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo. Forse si tratta di fondare finalmente la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà a cercare dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico.»
: vale anche per Minime quella “sociologia” della quotidianità che «non è un’analisi, ma soltanto un tentativo di descrizione e, più precisamente, descrizione di ciò che non si guarda mai perché vi si è, o si crede di esservi, troppo abituati e per il quale non esiste abitualmente discorso […] Si tratta di un decondizionamento: tentare di cogliere non ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma ciò che è al di sotto, l’infraordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità.»[4]
: ma a differenza dei testi di Perec, in Minime non c’è accumulo saturante, horror vacui, elencazione ossessiva, annotazione nevrotica, esaurimento del mondo per mezzo di un linguaggio che lo eccede, non sono presenti iperdescrizioni che derealizzano gli oggetti e gli eventi «come se il mondo rappresentato e quello fuori della cornice appartenessero allo stesso livello di realtà»[5], né alcuna narrativizzazione della descrizione.
: MINIMALISMO IPERCONNOTANTE
: ci sono invece ipodescrizioni esatte e icastiche, contrazioni narrative e diegesi brachilogiche che, spesso, alla chiusura preferiscono la sospensione, l’eco del senso, e che tendono antinarrativamente al regesto, all’indice; un economicità, un minimalismo di mezzi linguistici che riescono in un effetto iperconnotante, grazie a un linguaggio conciso, stringato, laconico eppure precisissimo, ellittico eppure limpidissimo, sommesso eppure chirurgico; la sintassi paratattica procede per strutture binarie o triadiche, o loro replicazioni simmetriche; il frequentissimo ma calibrato uso delle figure di suono – germinazioni fonetiche, paranomasie, annominazioni – testimonia l’uso fertile e sapiente di Fiammetta Cirilli dei caratteri sovrasegmentali, che contribuiscono al processo di significazione amplificando l’ordinaria significazione grammaticale, tendendo a eliminare i confini lessicali, questo perché la loro peculiare densità è extra-lessicale.
: microprose con tratti prettamente ‘poetici’ quindi, ma con differenti statuti, procedure, modi di trattare il reale, rispetto alla prosa lirica.
: Andrea Inglese notava come «la definitiva fuoriuscita dal canto lirico, ossia dal verso che scandisce pubblicamente un’articolazione espressiva intima e privata (invocazione, balbettio, monologo spezzato, nominazione, ecc.), non coincide semplicemente con l’abbandono di un repertorio di convenzioni, ma annuncia la sparizione di una forma di vita, quella che permetteva la costruzione e la difesa di un’intimità emotiva, onirica, meditativa, che oggi è materialmente sempre meno realizzabile»[6] e soprattutto che «la ricostituzione di una visione intima del mondo passi per un corpo a corpo con materiali che presentano una loro inerzia, una loro bruta fattualità, mai completamente riscattabile dalla forma.»[7]
: IL QUASI NIENTE: I DETTAGLI ESORBITANTI E INUTILI
: se nella forma narrativa classica, i particolari minimi «sembrano corrispondere a una specie di lusso della narrazione, prodiga al punto da dispensare dettagli “inutili” e da alzare di conseguenza, qua e là, il costo dell’informazione narrativa»[8], all’opposto i dettagli di Minime corrispondono a un’estrema economicità linguistica e risultano essere gli artefici della connotazione, dell’effetto di reale.
: ma «il realismo è soltanto frammentario, erratico, confinato ai dettagli, e il racconto più realistico che si possa immaginare si svolge secondo modi irrealistici). È quella che potremmo chiamare l’illusione referenziale. La verità di questa illusione è la seguente: soppresso dall’enunciazione realistica in quanto significato di denotazione, il “reale” vi ritorna come significato di connotazione: infatti, proprio nel momento in cui quei dettagli dovrebbero denotare il reale, non fanno altro, senza dirlo, che significarlo.»[9]
: Minime porta in primo piano, esclusivizza le pause, le microinterruzioni di una trama in cui l’incedere dei fatti si ferma, gli aspetti apparentemente marginali, trascurabili, le piccolezze, le sfumature, le minuzie, le distrazioni dal filo narrativo che spostano lo sguardo su un “quasi niente”, minimi eventi non determinanti, che non hanno la forza di far piegare il verso di una storia: le cose deboli. Qui il valore, la possibile valenza etico-politica di questa scrittura.
: calzante anche quanto analizzato da Marco Giovenale in un articolo su La lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal: una scrittura come «cattura dell’effimero (esperienze di senso còlte nell’insignificante) e non dello straordinario. […] l’occorrenza, il passaggio del senso (non diremmo la “bellezza”) si contrae in piccoli luoghi e oggetti di poco conto. Non “rivelatori”, semmai “rilevati”, affioranti, stagliati (in maniera e per ragioni impredicabili ma non inesistenti). […] L’insignificanza assume allora, come al voltarsi di un nastro di Moebius, un aspetto diverso. […] L’oggetto attira l’occhio ma ritira il senso al di sotto e al di fuori dell’eccezionalità che fino ad allora veniva attribuita agli eventi meritevoli di sguardo e cura da parte dell’artista»[10].
:
: IL SOGGETTO DISCONTINUO
: l’antinarratività vuol dire scarto dalla planimetria comunicativa della narrazione classica, distruzione della durata che è la connessione dell’esistenza.
: la diffrazione dell’istanza autoriale va di pari passo con la diffrazione della linearità temporale e sintattica, che attraverso rigore e parsimonia ottengono frammenti come frutto di un lavoro a togliere, del principio less is more come mezzo per produrre e proporre un ordine, uno sguardo, una soggettivazione differente, intermittente, lamellare, fatta di interruzioni, di vuoti, di lacune, di silenzi.
: tutto questo rende visibile un soggetto dell’enunciazione – e tale è anche la condizione del soggetto storico contemporaneo, costantemente interferito, orbato di una visione/esperienza unitaria/individuale, incapace o nolente rispetto alla costruzione di una narrazione unificante –, di cui non si danno tracce di intenzionalità, esso risulta quindi abraso, contemplativo, disseminato, è un soggetto discontinuo, lacunoso, captato da qualcosa di marginale o trasversale, ridotto a un’inoperosità che si attiva in relazione a particolari, direi neutri, stati di intensità del sensibile: oggetti, fenomeni, microsituazioni, microeventi quotidiani, banali, insignificanti, puntellati da inezie stranianti.
: «il neutro è il marginale, l’irrilevante, il futile, il dettaglio esorbitante e inutile, la digressione non solo nella scrittura ma nella vita stessa. È l’infunzionale, che si sottrae alla padronanza del soggetto, ed è ciò che dalle sue costruzioni, progetti ed esaltazioni fuoriesce, eccede e permane.»[11]
: tentando una proporzione ipotetica (usando/abusando uno stralcio di un saggio di Roland Barthes su alcuni fotogrammi di Ejzenštejn), se fotogramma : film = frammento : romanzo, allora Fiammetta Cirilli lavora contro «l’opinione corrente sul frammento: un sottoprodotto lontano dal romanzo, un campione, un mezzo di avviamento, un estratto pornografico e, tecnicamente, una riduzione dell’opera mediante la sottrazione di ciò che si considera l’essenza sacra del romanzo»[12]: la trama, “il plot”.
: proprio in questo saggio, Il terzo senso, Barthes suggeriva che «il problema attuale non è distruggere la narrazione, ma sovvertirla, dissociare la sovversione dalla distruzione»[13]: non cancellare il senso, ma far emergere da esso “il senso ottuso”. Distingueva infatti tre livelli di senso: quello della denotazione / comunicazione / informazione; quello della signification, della significazione afferente all’ordine simbolico che dà un senso obvie, ovvio; quello della signifiance, della significanza, del senso obtus, ottuso, «un terzo senso, evidente, erratico e ostinato»[14].
: l’obvie «è un senso che mi cerca, in quanto destinatario del messaggio, soggetto della lettura», è un senso intenzionale.
: «il senso ottuso è la contro-storia stessa; disseminata, reversibile, strettamente legata alla propria durata; è destinato a fondare (se lo si segue) una segmentazione totalmente diversa da quella dei piani, delle sequenza, dei sintagmi (tecnici o narrativi): una segmentazione inedita, contro-logica, e tuttavia “vera”.»[15]
: «infine il senso ottuso può essere visto come un accento, come la forma stessa di un’emergenza, di una piega (o meglio di una falsa piega), che contrassegna il pesante strato delle informazioni e delle significazioni. […] Questo accento (di cui si è mostrata la natura enfatica e nello stesso tempo ellittica) non procede nella direzione del senso, […] non indica neppure un altrove del senso (un altro contenuto, aggiunto al senso ovvio), ma lo elude – sovvertendo non il contenuto ma l’intera pratica del senso. Una nuova pratica, rara, affermata contro una pratica maggioritaria (quella della significazione): il senso ottuso appare fatalmente come un lusso, un dispendio senza scambio»[16].
: in Minime Fiammetta Cirilli lavora sugli accenti enfatici ed ellittici, su ciò che ha carattere discontinuo, frammentario, erratico, intermittente, ciò che è fatto di scarti, di rinvii, qualcosa di superfluo rispetto all’economia narrativa, un differimento, una deriva, un’escrescenza, una piega, non facendoli emergere, ma ostendendoli nella loro segmentazione e diffrazione – strutturando altrimenti il testo.
: (la cocciniglia, come il fotogramma, non è un campione, è una citazione: evoca l’intera natura, ma come tra virgolette. La cocciniglia “virgoletta” la natura.)
: NATURA VS MONDO
: il corpus complessivo dei testi configura una divisione del sensibile in due sfere: la natura e il mondo umano, culturale.
: «l’animale non-umano aderisce incondizionatamente al suo ambiente, vi è incastrato. Non vi è distanza tra l’organismo dell’animale e la sfera vitale in cui è incluso. E, senza una certa distanza, o disaderenza, è impossibile la rappresentazione del proprio habitat. L’eccessiva vicinanza impedisce la messa a fuoco, il rapporto tra sfondo e primo piano, l’isolamento di singoli enti estrapolati dal contesto. L’organismo animale, più che avere un ambiente, è l’ambiente in cui vive: per questo non se lo pone di fronte come oggetto di rappresentazione. Non potendo rappresentarselo, dell’ambiente non percepisce i limiti, la linea di confine.»[17]
: mentre l’ambiente è «l’habitat animale cui si è correlati in modo univoco, dettagliato e definitivo; il mondo è il contesto generico, sempre parzialmente indeterminato, all’interno del quale l’integrazione è instabile e l’adattamento precario.»[18]
: l’uomo non dispone di un ambiente, non ha una nicchia ecologica; ha solo mondo, contesto, pseudoambienti; è un essere disambientato, mondano, culturale.
: «la cultura – nel senso più largo del termine: lavoro, tecniche, ecc – è ciò che fa le veci di un ambiente per l’essere vivente che non ne ha uno proprio. La cultura è, dunque, una compensazione (innata, biologica) delle lacune dell’homo sapiens. La cultura costruisce degli pseudoambienti, ovvero dei contesti rassicurativi in cui i comportamenti diventano ripetitivi e prevedibili.»[19]
: in Minime tra mondo naturale – di cui fanno parte animali e bambini – e mondo umano, culturale, non si dà coesistenza, comunicazione, solo sguardi estranei al di qua di un vetro, di uno schermo diafano.
: inoltre, e pour cause, i segni culturali risultano assediati, aggrediti, seppur silenziosamente e impercettibilmente, da quelli naturali: «bestie rosse, cocciniglie che rigano i davanzali, i muretti»; «sterpaglie e oltre, sulla riga di palazzine nuove, rivestite in cotto, sfocate.»
: così si passa dall’ambiente senza uomo, ferino, bestiale e microscopico – viene a mancare però la natura leopardianamente ostile perché fertile di PMA, una sequenza di testi presente nell’antologia Exit 2013 – di minima ordinaria, all’uomo senza ambiente di LaEffe e Intermezzo.
: questa ripartizione duale si configura attorno ad alcune polarità (cromatiche, alimentari, esistenziali, ontologiche, anagrafiche, posturali, linguistiche, ecc.) che condensano il proprium del mondo cui afferiscono (umano vs naturale) in caratteri antipodici, che fanno dell’attrito e dell’antitesi uno dei moventi del testo, della costruzione del suo senso.
: l’attività nutritiva del mondo naturale è fatta di corpi, di sangue, sottesa di violenza predatoria; quella del mondo umano è fondata su cibi isteriliti, insapori, o dal sapore plastificato, di un metallico croccante e vuoto.
: forte importanza ha la gamma cromatica: il colore rosso domina simbolicamente e letteralmente il mondo naturale, assieme alla luce accecante, rovente e onnipervasiva del sole, che non ha il colore del bianco o del giallo ma quello del fuoco; i colori del mondo umano sono di contro il bianco, colore freddo e ospedaliero, il grigio degli arredi e della vita quotidiana, i colori opachi, pastello, spenti e smorti, lievi e fragili, sul punto di sparire.
: antitetici anche i modi di configurazione della temporalità: la lentezza geologica della natura e dei suoi abitanti che vivono (e uccidono) all’aria aperta; il dinamismo di chi disabita i luoghi, imprigionato all’interno di spazi chiusi illuminati artificialmente dalla «luce lattescente delle mattonelle».
: l’uomo adulto lavora, ma in Minime non lo si dà a vedere perché esso è sostanzialmente e costitutivamente inoperoso: le sue azioni, la sua prassi non creano né distruggono alcunché, il suo è un lavoro improduttivo, prestazionale, il cui unico plusvalore è la stanchezza. (Ma è anche vero che proprio sull’assenza di opera è incardinata la politicità del lavoro contemporaneo e dell’animale umano.)
: l’impotenza, giocata sul piano della prassi e dell’ontologia, – che peraltro soppianta la sterilità dei testi di PMA – si contrappone alla potenza e all’operosità della natura di cui i bambini fanno parte, con la loro energia infinibile; alle loro azioni produttive che creano o distruggono cioè trasformano costantemente, instancabilmente.
: il modus vivendi dell’animale umano – soggetto la cui alienazione è talmente assoluta da trapassare quasi in autismo – è fondato su una vuota routine quotidiana, fatta di gesti minimi, rituali da senescenza; quello naturale si compone di gioco infantile e lotta per la vita: azioni, pratiche i cui confini vengono sfumati, si compenetrano osmoticamente, fino quasi a coincidere nel loro essere entrambi euforici, spietati, senza regole, senza ratio, dominati dal caos, cui si contrappone l’istanza ordinatrice, raziocinante dell’uomo adulto che si espleta soprattutto nelle forme educative.
: l’insegnamento del linguaggio e attraverso il linguaggio sono le attività di raccordo, i tentativi di costruzione di un ponte comunicativo ed esperienziale, sebbene continuamente frustrato, tra la forma di vita prelinguistica e afasica del bambino e quella linguisticamente in declino – per potenza, efficacia, quantità, – dell’uomo adulto in minima ordinaria e intermezzo («chiocciano voci di vetro. Le parole adulte che sono poche, divorate dal calore»; «le voci hanno coro di filo elettrico, decorticato»; «per domani si danno sillabe in numero da quattro a sette» ; «ritornelli da gole asincrone in sottofondo» ; «chi dice perché deve dire, chi, che cosa»).
: l’educazione prospetta il passaggio dall’indifferenziato amorale, quindi naturale, alla differenziazione antropologica cioè l’approdo al programma della civiltà fondata sulla ratio. «Gli hanno insegnato che i giochi cruenti, ammazzare gli insetti, le lucertole prese per la coda – lo spettacolo del corpo svuotato.»; «gli hanno insegnato che mai, dritto con gli occhi, in direzione del sole.»; «La natura, gli hanno insegnato.»
: e questo fonda la qualità perturbante, non-familiare, degli oggetti sociali, quelli per cui si viene addestrati, che sono costitutivamente indomestici, non connaturati geneticamente, e delle relative pratiche di familiarizzazione e addestramento.
: ciò che dovrebbe logicamente perturbare – gli insetti, la violenza, il sangue, i corpi svuotati –, è ricoperto da un’atmosfera di fascinazione, quasi d’invidia (forse generata dalla percezione dell’inesistenza della morte, nelle sue connotazioni culturali umane, all’interno del mondo naturale); così come ciò che dovrebbe indisporre – la forasticità, la disobbedienza, la refrattarietà alla disciplinazione –, sembra anche profilarsi come modus vivendi non solo più autentico, bensì come l’unico che abbia veramente a che fare con la vita in senso proprio.
: INDUSTRIA DELLA COSCIENZA
: discorso in parte diverso per LaEffe, la cui anteriorità rispetto alle altre due sezioni determina la parziale disomogeneità con il minimalismo iperconnotativo e antinarrativo di quelle; qui infatti troviamo lasse più corpose, un piglio discorsivo più rapido, incalzante, che presenta scorci narrativi, bozzetti, schizzi rapidissimi e impietosi del ceto medio contemporaneo – con la messa in esponente della vacuità, dell’inconsistenza delle chiacchiere da bar, delle frasi e delle azioni preimpostate, di circostanza, ad alto tasso di formalizzazione svuotata dalla reiterazione d’uso comune, (versione linguistica della sterilità umana di PMA) –, e soprattutto della logica miope dell’industria culturale contemporanea fondata sui criteri di leggibilità/vendibilità – con particolare, quasi caustica, attenzione alla figura dell’editor – («un editor che dà consigli su come fare, se il racconto lo si vuole pubblicare, mandare a una casa editrice grossa e poi sperare.»; «8. Che dire ‘passare il tempo’ tra le ultime novità editoriali, sulle pagine stampate dal mercato, le trame rifinite come film di botteghino. L’editor si appella alla vivacità della lingua, della narrazione. All’originalità del paese dove si svolge la vicenda. 9. Che se poi chi legge capisce chi è l’omicida, e lo capisce prima, e il plot rimane senza tensione.»), in cui si ravvisa il disvelamento polemico e disilluso della sua vera natura:
: «il termine industria culturale “oltre a essere inadeguato, è frutto di un’illusione ottica”, peraltro consolatoria e gratificante per quegli intellettuali che se ne occupano e non se ne preoccupano. Non si tratta affatto di un’industria che produce, produrre non le interessa, “la preoccupa soltanto la mediazione derivata, secondaria e terziaria, del prodotto, la sua lenta instillazione”, e infine il suo stesso travestimento in “industria culturale” non è che uno dei mezzi che servono a farla apparire innocua e a nascondere le conseguenze davvero “culturali” del suo operare»[20]. Infatti essa «non ha ormai più a che fare con delle merci: libri e giornali, immagini e onde sonore, sono soltanto i sostrati materiali dei suoi prodotti […] i suoi prodotti sono assolutamente immateriali. Si fabbricano e somministrano alla gente non beni di consumo, ma contenuti di coscienza di ogni tipo, opinioni, giudizi e pregiudizi. […] L’industria della coscienza deve eternare i rapporti di potere, di qualsiasi tipo essi siano: deve indurre una coscienza da sfruttare»[21].
: in LaEffe la natura scompare, c’è lo spazio, ovviamente chiuso, di un luogo pubblico, un bar in cui varie figure umane anonime, ridotte a corpi parlanti, transitano, chiacchierano, contraddistinte da sintomi e patologie: «Si sprecano in quanto a parole – essudati branchiali, labiali, a mani e corpi contratti, che si sacrificano per buona educazione.», «Un quid galvanico: leggere, scrivere, far di conto – la bulimica che sul taccuino appunta che cosa, ora, nella geometria assennata dei tavoli pronti per domani mattina.»
: Fiammetta Cirilli non oppone alla continuità narrativa una presentificazione assoluta dell’evento, bensì rende visibile un “presente che crolla”, attraverso un distanziamento dal referente, da quello stesso reale o istanza di reale che viene bucata, scheggiata, pluralizzata, tracciando alcune delle sue manifestazioni e informazioni in una serie di radiografie o fotogrammi che ne mettono in evidenza la sua percezione larvata, delineando una cartografia non completabile, perché l’esperienza del mondo rimanda a un sovrasensibile inattingibile.
: tra le scritture contemporanee, quella di Fiammetta Cirilli è senza dubbio una delle più belle e dense di potenziale.
_______________________
[1] G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, p. 90.
[2] W. Benjamin, Dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971, p. 5.
[3] T.W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Donolo, 1970, p. 369.
[4] G. Perec, Conversazione con Jean-Marie Le Sidaner, trad. it. di Elio Grazioli, «Riga», n° 4, Milano, Marcos y Marcos, 1993, p. 91.
[5] I. Calvino, Perec. La vita istruzioni per l’uso, Milano, Rizzoli, 1994, S 1399.
[6] A. Inglese, http://www.nazioneindiana.com/2010/10/12/che-genere-di-discorso/
[7] Ibidem
[8] R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, p.158
[9] Ibidem
[10] M. Giovenale, https://www.alfabeta2.it/2015/04/19/gioco-e-radar-14-indeterminazioni-e-prose-di-due-autori-inattuali-prima-parte-hofmannsthal/
[11] A. Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico, Roma, Meltemi, 2007, p. 179.
[12] R. Barthes, Il terzo senso, in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, p. 59-60.
[13] Ib., p.57.
[14] (dove obvius significa: «che viene incontro» e obtusus: «che è smussato, di forma arrotondata»). R. Barthes, Il terzo senso, cit., p. 46.
[15] Ib., p. 56-57.
[16] Ib., p.56.
[17] P. Virno, Scienze sociali e natura umana: facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubettino, Soveria Mannelli, 2003, p.32.
[18] Ib., Parole con parole: poteri e limiti del linguaggio, Donzelli, Roma, 1995, p.70.
[19] Ib., Scienze sociali e natura umana, cit., p.37.
[20] H.M. Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza, Roma, Edizioni e/o, 1998, p.19-20.
[21] Ib., p. 9.
*
Giorgia Romagnoli


*
Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti
di Licia Ambu
La prima frase di Exit West fa sentire al sicuro.
In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò.
Tre righe e collochi la storia che stai per conoscere anni luce lontano da te. Perché un paese traboccante di rifugiati, con autobombe e sparatorie, in bilico tra guerra e pace, è qualcosa che tu vedi alla televisione, seduto comodo, ti dici, da spettatore.
Invece Exit West è lo stato dell’arte.
Anche il tuo.
Infatti, quello che pensi dopo aver finito Exit West, con buona probabilità tutto d’un fiato, è che hai in mano un libro che ti sta parlando di te: della tua geografia, della tua ansia e delle tue preghiere. Non in modo retorico. Non in maniera pedante. Non ti guarda dall’alto in basso, ma dritto negli occhi. Mohsin Hamid ti guarda dritto negli occhi quando scrive. E anche quando ti parla, mentre risponde alle domande durante un incontro in una libreria di Milano, ti guarda negli occhi.
In una città senza tratti particolari, Saeed e Nadia si incontrano in un’aula scolastica. Lui è timido, lei indipendente. Si conoscono, in qualche modo si parlano, e vorrebbero danzarsi intorno con cautela per un po’. Ma siccome la geografia è destino, sono costretti a scappare da una città assediata dal conflitto. Comincia così il loro pellegrinaggio per la sopravvivenza, in un paese in cui la guerra si porta via le persone e inverte il normale rapporto con le cose: le finestre fanno entrare la morte al posto della luce, i luoghi di sempre diventano pericolosi, e rumori nuovi e allarmanti cambiano il ritmo delle faccende quotidiane. È durante questo momento di disorientamento che si sparge la voce dell’esistenza di porte misteriose che istantaneamente conducono altrove. «Scrivo con una notevole quantità di realismo ma mi piace che ci sia sempre un dettaglio che non torna» spiega Hamid. «Un po’ come quando un bicchiere di vino o una notte con il cielo stellato ti permettono di sbloccare un potenziale vittima del realismo. Le porte non sono realisticamente accurate ma sono completamente reali, considerando che le distanze si stanno annullando, e mi hanno permesso di riassumere due o tre secoli di migrazioni in un anno». Su Lahore, la città in cui ha trascorso metà della sua vita, ha basato la città che descrive, il teatro di partenza per una storia che non si sofferma sulla parte più drammatica per i migranti: il viaggio. «Soffermarsi su questo aspetto non è altro che un alibi per poter sentire le persone diverse da noi, dal momento che io non ho dovuto strisciare sotto il filo spinato per entrare in America o attraversare il Mediterraneo su un canotto. L’enfasi sul viaggio è un modo per separarci, e la porta è un espediente per far venire meno questa distanza». Dunque il racconto di un movimento. Quello di chi si sposta ma anche quello di chi resta immobile. Per tutti quelli con la geografia in tregua, infatti, c’è da fare i conti con il panorama. All’unica signora ferma di tutto il romanzo si muove il contorno, e le basta uscire di casa per rendersi conto di essere rimasta da sola, nel suo pezzo di terra, per come le si è fissato nella testa. Dopo minuti, anni e stagioni, dalla sua postazione può solo ammirare un panorama completamente diverso, perché siamo tutti migranti attraverso il tempo. L’ansia furiosa di dover cambiare, la paura che il nostro mondo venga sconvolto ci rendono immobili. Invece Saeed e Nadia sono in movimento, un movimento obbligato ma anche fiducioso.
Il libro di Hamid è un libro di universali, di stesse barche e di infinite diversità che messe tutte insieme, alla fine, sono quello che abbiamo in comune: siamo uguali nell’essere diversi. Fa pensare al discrimine tra giusto o sbagliato quando diventa un elemento per giudicare, respingere o fare una guerra. Per dirne una: «Saeed è credente, su di lui la religione ha un influsso positivo che lo rende gentile e lo aiuta a cogliere la bellezza. Nadia non è credente ma anche lei, in modo diverso, nota la bellezza nella vita. È un errore pensare alla dimensione religiosa e a quella non religiosa come a due elementi in conflitto. La religione è importante per tantissime persone, pensiamo alla madre che perde un figlio a causa della guerra, poi magari lo sogna e ti dice che questo le ha dato conforto. Sarebbe folle, e poco umano, dirle che non ha senso. Perché mettere in dubbio questo elemento quando il sogno rappresenta un legame? Anche in tutto ciò che non è religioso ci sono dubbi e illusioni, io agisco pensando di avere libero arbitrio ma la scienza mi dice che una parte del mio cervello è fatta in modo da dirmi se mi piace la cioccolata o quella donna».
Apparentemente tutto questo potrebbe già bastare. Ma più si va avanti e più nascono domande, vorresti ricoprire Hamid e i libri e tutto il pomeriggio, di domande. Gli chiedono se la sua opera può considerarsi politica, risponde che tutto ciò che viene scritto ha una rilevanza politica e chi dice il contrario sta solo prendendo le distanze. «Nella narrativa c’è la preziosa possibilità di coinvolgere il lettore in una conversazione emotiva, chiedendogli cosa pensa, rilevando la sua posizione e i suoi sentimenti rispetto a qualcosa, in questo senso, la narrativa, ha un compito preciso dal punto di vista politico», e questo è precisamente quello che ha fatto con Exit West. La domanda più grande ce l’ha lui per noi. Ci chiede dove siamo e cosa pensiamo di fare. Lo chiede una voce estremamente intelligente, riuscendo nella magia di rendere la narrazione di una storia fatta di preoccupazione e guerra, un monito di fiducia, una letteratura lenitiva. La sua narrazione si sposta verso la possibilità: siamo in un guaio ma abbiamo il finale ancora in ballo «perché l’immaginazione narrativa ci libera dalla tirannia dell’era e dell’è per aprire la strada a ciò che potrebbe essere». Exit West è una preghiera laica per il nostro pianeta, un incantesimo come quello che può fare un mago, un prete, uno scrittore. Exit West è lo stato dell’arte, il preciso momento in cui siamo. E soprattutto una domanda fortissima.
Io e gli altri fabbricavamo ipotesi : cappi, lampadari caduti, specchi spaccati dalle piccole dita gonfie, un taglio, una metamorfosi. Gli avvelenatori passavano e ripasssavano davanti alla porta della stanza con velocità doppia, un andirivieni di tracce umane per prendersi cura della donna come ci si prende cura degli animali: metterla in una gabbia, legarla, aspettare che passasse la crisi, aspettarsi la seconda, la terza, una via d’uscita.

Le mandibole che crediamo di poter muovere sono ferme, non ammettono parole, non ammettono boccate d’aria : qui tutto è fumo e silenzio, il silenziatore degli organi, la fame. All’alba abbiamo visto la barella trasportarla nella camera oscura, scattare le foto per il mattino successivo e poi svilupparle nell’anticamera del cervello.
Quando cammino mi sento debole, ho i piedi piccoli, sono quasi un mollusco. Mi aggrappo alla roccia come una sirena senza coda, riduco le dimensioni : è necessario chinarsi per accendermi, muoversi lenti per abbracciarmi, abbassare le spalle, sono la nana del laboratorio che vive una vita senza vita. Qui tutto non è permesso, devo chiedere che mi allaccino i piedi alle braccia, devo disossarmi, prepararmi alla visita di chi non mi è caro, piangere perché tu te ne vai, consegnarti il bracciale portafortuna. Appenderesti questa fotografia per me? Sì. Il muro è secco, la colla non resiste.
Siamo noi la colla : non vedi bambina come siamo incollati a questo tremito?
Ancora, dalla stanza verde, vedevamo passare ossa di cani e piccole piante in fiore. Se era una morte doveva essere quella di una bambina – e invece non era morte, e invece non era bimba, e invece non era niente. Loro passavano e ripassavano le leggi che li avevano portati fino a lì. Formule chimiche, distanze di elettroni, apertura dei corpi, membra rotte, membra legate, legami tra neutrini. Noi aspettavamo nel cassetto : avevamo a disposizione lacci di scarpe, cordoncini e piccoli oggetti in miniatura. Ci sedevamo sui letti spiando l’irreparabile, immaginando le teste spaziare nel perimetro della consapevolezza. Noi eravamo noi, lei non c’era : in un altrove senza misura poteva finalmente dirsi salva.
Cos’è un corpo che si dimena se non un grido rivolto all’infinito?

Non abbiamo piedi per calpestare il mare, bambina. La felicità è solo una porta da cui osservare la vita dei mondi, degli astri nascenti, della luna piena. L’infelice è una fessura, la portiamo tra le gambe per nasconderla : andrebbe riportata alle origini, sopra il mento, andrebbe mostrata come una bocca. Piena o vuota poco importa. Noi siamo gli infelici senza gambe, tu sei una bambina dalle braccia lunghe. Hai visto quanto mondo c’è nel mondo? Quanto da queste grate è possibile vedere? Il riflesso della luce ci appartiene : basta un balzo fuori dal vetro per poterlo raccogliere, mettere in tasca e incastrarlo tra le costole. Questa è la zona fertile, bambina : la possibilità di un lago, il lago in un riflesso.
Riflettendo sulle cose morte abbiamo dedotto che non fosse un rito funebre ma piuttosto un appello : lei c’era ancora, e noi eravamo gli stupidi combattenti che attendevamo il via per poter fuggire dalla stanza al luogo buio del corridoio. Fabbricavamo armi con i pochi oggetti che nascondevamo dietro i cassetti : aprire un cassetto e non trovarci niente, ma dietro, tra la fine e la muraglia, dietro c’erano spille, oggetti appuntini, cordoncini, lamette, profumi pronti a rompersi per magazzinare il vetro prodotto. Ci piaceva dichiararci custodi di un arsenale invisibile pronto all’uso. Non lo usavamo mai.
M. era stata portata nell’ultima stanza, colle braccia legate alla ferraglia del letto. Il corpo in piena si dimenava come un fiume, traboccava oggetti da ogni parte. E noi, pronti all’attacco, non ci attaccavamo a niente. Restavamo aggrappati alle nostre particine da teatro : fare uno sguardo buffo, mettere una maschera sulla testa, danzare un balletto per i nuovi arrivati. Lei era legata, noi annegavamo.

Non partite senza di me. Il mio cuore è fragile ma pulsa come una stella remota, se mi dimeno è per raggiungere l’infinito, quello che non sapete, quello che non sappiamo. Mi è stato dato un corpo in miniatura, mi è stato chiesto di abitarlo : ma è possibile abitare un corpo estraneo attaccato e che rigetta? Guardate fuori : il possibile è questo noi che non abbiamo ancora avuto la capacità di pronunciare.

1.
just a little word
(una sorta di prologo per una serie di incontri)
i miss you guys muchly / bonjour les amis
nice walk at the park / mesdames et messieurs / je ne pense pas
c’est avec joie et fébrilité / c’est avec grand plaisir que
et c’est avec grand plaisir que / une erreur s’est glissée dans l’objet
stare dietro a tutto / gentile cliente / diciamo
hello
è molto difficile / cela dépend
et c’est avec grand plaisir que / une erreur s’est glissée dans l’objet
per una volta / anzi tre / le ultime opportunità di lavoro
envie de changer
inoltre / volevamo renderla partecipe di / dernier mais dernier
une erreur s’est glissée dans l’objet
rinnovati baci / en retard comme toujours mais là / super !
ci rifacciamo vivi dopo l’estate / eh
2.
volevo dire, dunque, che c’era una volta, dunque, un punto in movimento, e allora, il punto si spostava lungo la linea, se non lo sai, la linea è quella della costa e il punto è quello in cui comincia, sebbene il punto sia senza dubbio anche quello in cui finisce.
possiamo dire, infine, che il punto è anche tutta la linea, e che la costa, ovviamente, è solo un punto. ora, da quel punto, guarda.
le colline sono, da tutt’altra parte, sullo sfondo, da tutt’altra parte, ci immaginiamo, da tutt’altra parte, sempre con le spalle rivolte, da tutt’altra parte, verso di loro, da tutt’altra parte, come schienali e davanti, da tutt’altra parte, il mare. ora sei di fronte, spettatore.
i manifesti pubblicitari ti invitano ovunque a fuggire la città. da casa a lavoro ci sono sei minuti a piedi. da casa a lavoro ci sono: le scale di legno, un grande viale, file di alberi squadrati. tra te e il lavoro ci sono i turisti: in gruppi, a coppie, qualcuno da solo.
ognuno di loro è a un punto diverso del percorso turistico, ognuno col proprio andamento turistico, ognuno col proprio equipaggiamento turistico, per la pioggia o il caldo improvviso, ognuno con il proprio sguardo vagamente o esattamente turistico.
i manifesti pubblicitari ti invitano ovunque a fuggire la città. da casa a lavoro ogni volta un percorso, intorno agli zaini, contro le mappe, prima e dopo le fotografie.
i corridoi sovrapposti, vedi subito le frecce, i nomi dei capolinea, vedi subito l’angolo, subito, le macchie scure sul pavimento, vedi le scale. memorizza adesso il disegno della rete, fatti guidare. poi, quando è il momento, in un punto della città, alza gli occhi al rettangolo, ecco il colore:
3.
se si prende a un certo punto la luce
che c’è e poi si fa come quella che sta di là
nell’altra città se il marciapiede del grande viale
è come la bassa marea e il ritaglio dei tetti fa uguale rilievo
a passarci lo sguardo allora si svolta nel vicolo si sta
adesso dove prima figurava
il fondalino è azzurro molto brillante
il sale qualche varietà di vento tutto si sposta
a seconda del tempo ad esempio i villeggianti
con le stagioni le sedie a sdraio se è notte
il treno quando è l’ora ma adesso si sta fermi
si rilasciano le corde si prende il sole è uno
il momento nella punta delle V affilate
le cabine di legno in fila sul mare
il ripiano dove si mettono gli oggettini le
bomboniere gli angeli trasparenti tutto è
soprammobile (dovrebbe muoversi e invece proprio
non fa neanche un suono) tutto è così evidente è
rilevato col giallo fluorescente
quello è come questo dicono e anche esattamente
e adesso nei gesti seriali se si guardano
le mani nel mentre che dispongono e incartano e
chinando un poco la schiena dietro al vetro del bancone
l’esposizione della merce soffre del riflesso del viale
nei gesti del commesso ecco un paesaggio la dominante
di colore la posizione del corpo sopra al tavolo
vedere una finestra nello strato di confettura
mettere una bocca e il suo movimento
dentro al cesto tra le fragole le arance
sopra l’occhio mappare il prato
*
Una lettura per Super di Alessandra Cava
di Alessandra Greco
“Perché il mondo di cui sto parlando ha questo di diverso da altri possibili mondi, che uno sa sempre dove sono il levante e il ponente in tutte le ore di giorno e di notte, e allora comincio col dire che è verso mezzogiorno che io sto guardando, il che equivale a dire che sto con la faccia in direzione del mare, il che equivale a dire che volto al monte le spalle, perché è questa la posizione in cui io di solito sorprendo il me stesso che se ne sta all’interno di me stesso, anche quando il me stesso all’esterno è orientato in tutt’altro modo o non è affatto orientato come spesso succede, in quanto ogni orientamento comincia per me da quell’orientamento iniziale, che implica sempre l’avere sulla sinistra il levante e sulla destra il ponente, e solo a partire di lì posso situarmi in rapporto allo spazio, e verificare le proprietà dello spazio e delle sue dimensioni.”
La definizione etimologica di spettro (visibile), un passaggio da Dall’opaco di Italo Calvino [1], e una frase di Arakawa e Madeline Gins, i riferimenti per affrontare Super di Alessandra Cava come una “passeggiata cinematografica”, un transito in/tra livelli, oltre il modello ottico-geometrico di cinema (“the eyes alone would not supply the knowledge of space”, Reversible Destiny, Arakawa/Gins), in un paesaggio-passaggio (successione di sequenze in e attraverso le immagini) indessicale, tattile.
L’autrice indica Super come termine inerente “la parte superiore, esterna, e ancora, l’eccedere, l’andare oltre, rendere la dimensione tattile dello sguardo, la capacità delle cose stesse di diventare immagini e quindi zone delimitate di passaggio, mezzi per vedere”. A questo proposito l’immagine fotografica in apertura, “utile per ritrovare il punto di partenza, punto di passaggio da un luogo all’altro, da un testo all’altro” [2], presenta nell’inquadratura il telaio di un cartello pubblicitario, una cornice nella cornice, un vuoto aperto, un varco.
Il problema del passaggio, dalla presenza al superamento di una cornice (che la stessa autrice definisce come fastidiosa), è a mio avviso risolvibile in rapporto alla presenza dello spazio bianco.
La scrittura si svolge, in maniera molto pulita, dice in maniera delicata e netta. Quanto descritto potrebbe apparire come una carrellata scenografica, tuttavia si muove su differenti livelli grazie anche a questo bianco, ignoto spazio della mente, operando tagli e riemersioni, vuoti in texture (marea uguale rilievo), RISOLVEndo LA CORNICE, aprendola in un continuum tra scrittura e paesaggio.
Corrispondente al colore della mente, il bianco in Super si avvicina (anche se in modo diverso) al concetto di blank nel lavoro pittorico di Shūsaku Arakawa [3], come gradazione invisibile, capace di accogliere tutto lo spettro, e di popolarsi continuamente di immagini, sequenze, suoni, paesaggi, com’è il modo di procedere nella versione audio di Super (http://writing.upenn.edu/pennsound/x/Italiana.php).
In questo contesto la figura del flâneur (da Baudelaire a Benjamin) seguendo il corso delle vedute panoramiche (un vedutismo qui mai statico), diviene viaggiatore. Secondo quest’ottica del transito possono essere viste le figure dei turisti; gli stessi luoghi (ambienti urbani, spiaggia), le stesse consuetudini, non ultima la stessa flânerie nel tessuto urbano.
Lo sguardo tattile e cinetico, in articolazione spettatoriale con le architetture in movimento, prende a modello la geometria ottica e al tempo stesso si rende conto che tale modello non è sufficiente perché noi e ambiente, siamo entrambi ricettori e portatori di un’interfaccia comunicativa, una bidirezionalità nello scambio di informazioni – e nel corpo del testo (è interessante pertanto l’uso frequente dei connettivi testuali (congiunzioni, locuzioni) come ponti per unire in modo logico i diversi contenuti).
Il mondo osserva il mondo, attraverso l’occhio e la mente. Atto cognitivo, di comprensione mentale, e insieme atto di costruzione del mentale (consapevolezza della direzione, determinazione della posizione e rappresentazione) in una stretta relazione, nel lavoro di Alessandra Cava della scrittura con il reale: cartografia, mappatura di spazi, scrittura come origine, mappa cognitiva, geocritica come analisi interdisciplinare che privilegia lo spazio rispetto al tempo. Geografia in transito, dove l’ambiente (interno ed esterno) tratta l’informazione sensibile che perviene agli organi di senso, costruendosi nelle sue articolazioni e interazioni attraverso un certo ordine di rapporti mentali e di momenti di spazio testuali.
Per ripetizioni e attraversamenti, viene individuato un errore che si insinua nell’oggetto di questa osservazione (– une erreur s’est glissée dans l’object –); prima di tutto si dice che si tratta di … una sorta di prologo per una serie di incontri… per una volta / anzi tre … (ripetizioni), qualcosa si annuncia prima di farsi ambiente, glissa e infine torna per riportare in attività una diversa costruzione del vedere … sopra l’occhio mappare il prato … una superficie uniforme (verde come bianco), fatta di tutte le cose dell’umano.
Penso alla gerarchia intricata di Douglas Hofstadter, un sistema gerarchico di coscienza, in cui compare uno strano loop. Una gerarchia di livelli dove non vi è ben definito un più alto o un più basso gradino, e ciascuno dei quali è legato ad almeno un altro da qualche tipo di relazione. Una gerarchia “aggrovigliata” in cui l’osservatore muovendosi attraverso i livelli, torna infine al punto di partenza, cioè il livello originale (lo sguardo riprende a mappare). In Anelli nell’io, Hofstadter (2007) definisce un loop anomalo come: “ “strano anello” (…) non è un circuito fisico ma un loop astratto, in cui, nella serie di fasi c’è uno spostamento da un livello di astrazione (o struttura) ad un altro, avvertito come un movimento verso l’alto in una gerarchia, ma che in qualche modo nei successivi spostamenti risulta dar luogo ad un ciclo chiuso. Nonostante la sensazione di allontanarsi sempre più dalla propria origine, (…) si torna esattamente dove si era iniziato. In breve, uno strano loop è un ciclo di feedback paradossale di passaggio di livello.” (pp. 101-102) [4]. Forse, tuttavia, questa la cornice fastidiosa che si vuole superare, il limite del ciclo che si richiude in se stesso.
In Super (2.), … volevo dire, dunque … (al principio), il … punto in movimento … se non lo sai, … è … senza dubbio anche quello in cui (questo movimento) finisce. (un punto di passaggio da un luogo all’altro, da un testo all’altro, da una sequenza a un’altra) … possiamo dire, infine, che il punto è anche tutta la linea … la costa … è solo un punto.
Il punto è quello in cui comincia, il movimento dell’occhio (la linea d’azione in una ripresa cinematografica ad es.), un territorio.
… le colline sono, da tutt’altra parte … sullo sfondo … con le spalle rivolte … verso di loro … come schienali e davanti … il mare. ora sei di fronte, spettatore.
Infallibilmente il blank ritorna. Osservatore e osservato stanno in questa visione fatta di attraversamenti, passaggi-immagini, come momenti, istantanee in movimento. il punto, impossibile fuga.
… alza gli occhi al rettangolo … (e, prima nota di colore, o restituzione dello spettro): questo vuoto levità (blank) capace di toccare, di entrare incontatto, spazio visivo messo in mobilità che ha relazioni forti con il tatto (nel movimento, l’uno nasce nel campo dell’altro).
… i corridoi sovrapposti, vedi subito le frecce, i nomi dei capolinea. Nella velocità la resistenza al deterioramento dinamico delle lettere ha a che fare con la loro stessa intima geometria, col numero di tagli, interruzioni, densità delle appendici, aree chiuse (La trottola di Prometeo, Ruggero Pierantoni, p. 155) questa dimensione tattile, ancora una volta, dei caratteri, tagli anatomie, dello sguardo, nello sguardo … il momento nella punta delle V affilate …
(3.) …è come la bassa marea e il ritaglio dei tetti fa uguale rilievo … si sta / adesso dove prima figurava. tutto si sposta, è uno il momento e ancora, in uniformità il colore della mente riaffiora. Nell’attesa si dispone in fila …quello è come questo dicono … stare nel momento di un riflesso, nel momento di uno strano loop, il tempo ora tutto rallenta, la visione si guarda in filare, finire in … mani che dispongono e incartano … nell’unico momento in cui un corpo è paesaggio, un oggetto riflette … una dominante di colore … una posizione sua dentro, nella disposizione anche dei versi obliqua. Protetto, dal virare superiore dell’occhio, un corpo-sguardo che prevede lo spazio, riterritorializza entro gesti che si guardano, colori che possono essere netti. Una levità meno pesante la possibilità di entrare in momento, farsi simultaneamente passaggio e paesaggio, e testimoniare un cerchio di congiunture che desidera aprirsi, disposto in reale, per l’impossibilità di chiudersi ed esaurirsi semplicemente in se stesso.
Mi piacerebbe infine accostare, sconfinando un po’, l’intreccio di immagini in Super alla tecnica del décollage e campionamento visivo dello street artist parigino Thomas Schmitt [5], che lavora intervenendo sui manifesti pubblicitari.
Precise forme appaiono sotto i tagli del cutter.
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1 Calvino, Italo, Dall’opaco, in La strada di San Giovanni, Mondadori, Milano, 1995.
2 Da una conversazione con Alessandra Cava.
3 Arakawa, Shūsaku: pittore e architetto giapponese (Nagoya 1936-New York, USA, 2010). Trasferitosi presto a New York, l’artista ha assimilato, delle tendenze dell’avanguardia occidentale, idee e tecniche che ha saputo innestare, con visione personalissima, nel filone della tradizione figurativa del suo Paese. Della realtà quotidiana egli coglie soltanto l’aspetto “verbale”, le parole scritte, riportandone i caratteri, nella stesura sia calligrafica sia tipografica, nello spazio uniforme di superfici dipinte in grigio o in bianco. Ha partecipato a manifestazioni artistiche di grande importanza nel suo Paese, negli Stati Uniti e in Europa.
4 Hofstadter, Douglas, https://en.wikipedia.org/wiki/Strange_loop
5 Schmitt, Thomas, http://undergroundparis.org/paris-street-art-ambassador-thom-thom-exhibition-galerie-mathgoth
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5 panorami da super di Alessandra Cava
di Giulio Marzaioli





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Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti
[Seconda puntata dell’autore di Poesie Elettroniche sui formati digitali per leggere poesia. Una riflessione su cosa voglia dire oggi fare e leggere un ebook di poesia elettronica dal punto di vista delle specifiche. Leggi anche la prima puntata]
di Fabrizio Venerandi
Quando si parla di ebook oggi si parla di qualcosa la cui natura è ambigua: mentre tutti sappiamo cosa è un libro perché ne conosciamo le caratteristiche tecniche sommarie, l’ebook è un oggetto non solo virtuale, ma anche non formalizzato in maniera univoca.
L’ebook paga lo scotto di diversi peccati originari:
A questo si aggiunga la lotta tra i grossi player della distribuzione, ognuno con dispositivi, DRM (protezioni/vincoli), formati differenti.
Ad oggi i più diffusi formati per leggere ebook, ePub2, mobi (nella sua forma base e nell’evoluzione del kf8) non sono nati per fare letteratura elettronica. Non c’è possibilità di inserire codice eseguibile all’interno dell’ebook, ma solo di utilizzare sistemi di marcatura (X)HTML e fogli stile in CSS.
Mentre ePub2 è un formato aperto le cui specifiche sono disponibili online, mobi e kf8, formati oggi proprietari di Amazon, possono essere creati solo con programmi di Amazon e letti solo con applicazioni di Amazon.
Benché non siano nati per fare letteratura elettronica, anche con questi formati di base è possibile uscire dal giardino del libro lineare e progettare testi di hypertext fiction (o hypertext poetry). Ovvero sfruttare la marcatura per creare dei link tra le diverse parti del proprio ebook, proponendo al lettore un percorso di lettura variabile a seconda delle sue scelte.
L’hypertext fiction è stata alla base del lavoro che ho fatto con la collana delle polistorie dal 2010 ad oggi. L’ipertesto è uno strumento semplice che permette di avere sviluppi letterariamente molto interessanti e con una gamma espressiva molto più ampia di quello che generalmente si pensi. Nella mia esperienza, con soli cinque testi, siamo passati dall’ebook game di derivazione interactive fiction, a romanzi costruiti come libro game, fino ad opere in cui la struttura narrativa diventa un materiale di consultazione ipertestuale (esemplare da questo punto di vista Cuore à la coque di Mauro Mazzetti).
È corretto ricordare anche che l’hypertext fiction viene fatta in ebook nonostante gli ebook. Sia i formati, sia il supporto degli ebook reader degli elementi non lineari, non sono particolarmente attenti a questo tipo di sviluppo non libro. Nonostante, questo negli ultimi anni, sono cresciuti titoli che sfruttano questa modalità anche per un pubblico generalista, in genere nella più semplice modalità storia a bivio.
Il discorso cambia radicalmente con EPUB3, formato che permette di avere elementi multimediali al suo interno (video, audio e sincronizzazione testo/audio), visione reflow o fixed, marcatura HTML5 e soprattutto codice Javascript essenziale per creare testi di letteratura elettronica. Questo è il formato che ho scelto per la scrittura delle Poesie Elettroniche.
EPUB3 è in sostanza un pacchetto zip contenente diversi file di configurazione in XML, pagine web in XHTML5, CSS2 con un subset di CSS3, eventuali file audio e video, codice Javascript, SMIL di sincronizzazione testo/audio, immagini rasterizzate o vettoriali in SVG, font.
EPUB3 è oggi nativamente leggibile su iPad, iPhone e iOs in genere, su ogni macchina Apple e – attraverso pacchetti come Adobe Digital Edition e Calibre – su ogni piattaforma Windows e Linux. Esistono anche App di terze parti per Android.
Il supporto delle diverse applicazioni migliora di anno in anno, nonstante il formato abbia avuto diversi rallentamenti, per motivi sostanzialmente tecnici ed economici. Le specifiche, complesse, non hanno un supporto omogeneo da parte dei vari lettori di ebook: non esistono ebook reader e-ink che nativamente leggano EPUB3 e l’intera piattaforma Amazon Kindle non legge e non converte il codice inserito negli EPUB3. Anche Apple, pur supportando il formato, ne ha rallentato l’espansione proponendo un proprio formato proprietario, l’improbabile .ibooks. Non ultimo, un EPUB3 per sua natura non è più la copia di un libro di carta, ma si propone come prodotto originale, il che, per una casa editrice, significa destinare risorse ad hoc per un prodotto che vivrà solo nella sua forma digitale.
Nonostante questi impedimenti e rallentamenti, l’EPUB3 appare ad oggi il formato più adatto nel medio termine per la creazione e lo sviluppo di letteratura elettronica. Ancora di più dopo l’assorbimento dell’IDPF (i padri di EPUB) all’interno del W3C: qualunque sarà il futuro dell’editoria digitale avrà a che fare con i formati e le specifiche già oggi utilizzate all’interno dell’EPUB3.

di Giovanni Blandino
Ho fatto un viaggio in bicicletta, dall’Adriatico al Tirreno. Ero con due amici, un cuoco e un fotografo. Ho cercato di tirarne fuori un testo. Un prodotto vendibile per qualche rivista o un blog. Devo dire che non ce l’ho fatta. Ho solo alcune immagini impresse nella mente. Tipo questa.
A cena.
Secondo giorno di viaggio. Abbiamo già valicato l’Appennino. È sera, il grande tavolo a cui siamo seduti può ospitare una decina di persone ed è apparecchiato con molta cura. Noi tre ci posizioniamo al centro. Attorno, molti altri tavoli con la tovaglia bianca e vuoti. La sala è deserta, ma sembra pronta ad accogliere numerosi gruppi di ospiti. È come se dovessero spuntare da un momento all’altro, dalla porta, e riempire in un attimo la grande sala. Invece restiamo soli per l’intera durata della cena. La padrona di casa serve tagliatelle al ragù su un grande vassoio di metallo. A cucinarci è stata la mamma, o la suocera, che dopo il caffè ci mostra le foto della sua casa colpita dal terremoto. Siamo poco a nord di Nocera Umbra e il terremoto era quello del 1997. Sul camino di fronte sono appese numerose foto di gruppo. Ne scatteremo una anche noi, da lasciare a loro, e poi partiremo il mattino seguente. Andando via dalla cascina, con il primo sole, scopriremo che subito dietro l’edificio c’è un enorme stabilimento – un gigante grigio rispetto alla casa – ci dicono che era la Merloni e che prima lì ci lavoravano migliaia di persone.
Ho provato a scrivere queste immagini, così per come me le ricordavo. Poi ho provato a metterle una dietro l’altra in ordine cronologico. Ho provato a tenerne solo alcune e a scartarne delle altre. Ho accostato quelle che, insieme, potevano dare un senso compiuto al viaggio. Ho cambiato alcuni dettagli per farle incastrare meglio. Ho inventato. Mi sono venute in mente diverse cornici, dalle più banali alle più complesse. Insomma ci ho lavorato parecchio tempo e ho cercato di tirarne fuori un significato, ma non ci sono riuscito. Mi sono sentito frustrato e mi sono rimesso a pensare.
Preparativi.
Siamo nella mia cucina. Sul tavolo un laptop, uno stradario, una bottiglia di vino cotto, bicchierini e tazzine di caffè. È qui che decidiamo il nostro itinerario. C’era da capire dove valicare l’Appennino, quali strade sarebbero state meno trafficate, quali salite potevamo affrontare. Si arriverà al Tirreno a Marina di Montalto, dopo una lunga discesa iniziata dai Monti Volsini. Mi piacciono i preparativi di un viaggio in bicicletta: devi ridurre tutto all’essenziale e sulla strada scoprirai tutti i dettagli fondamentali che le mappe hanno ignorato.
Eppure c’è stato della bellezza in questo viaggio. Provo a ricominciare allora, ripercorro mentalmente la strada pensando alle cose da cui avevo tratto più piacere, le cose più sincere. Senza pensare più a una gabbia, a una narrazione in cui incasellare tutto. Ho pensato ai preparativi: cercare una strada non ancora del tutto segnata, discuterne insieme ai miei futuri compagni di viaggio e ad altri amici curiosi, nella cucina di casa mia, un inverno.
La verità è che tutto nato è senza una precisa motivazione. Siamo partiti da Fermo, la città dove siamo nati e dove ci ritroviamo a volte con chi vive ancora lì. Abbiamo scavalcato l’Appennino e siamo arrivati a Marina di Montalto, il primo punto utile sulla mappa dove toccare il Tirreno. Abbiamo proseguito verso nord raggiungendo l’Argentario e siamo rimasti lì mezza giornata. Volevamo semplicemente andare al di là dell’Appennino, in bicicletta. Alla fine di tutto ho pensato che se questo viaggio ha un qualche valore, è quello di essere stato un semplice gioco.
Sonorità I.
Barracuda, Marakaibo, Tucano, Praia do sol, Malù, Paradise Beach, il Sombrero. Sulla costa adriatica i nomi degli chalet corrono tra la strada e il mare ed evocano nella mia testa mondi esotici e un tempo passato.
Sonorità II.
Civitanova, la costa. Seguiamo il fiume, Montecosaro, Trodica, Piediripa. Tolentino, San Saverino, Castelraimondo, Fiuminata, Spindoli. Saliamo verso il passo. Cornello. Discesa veloce. Vittiano, Treggio, Foligno. L’Appennino è duro e desolato.
Un gioco. Ecco perché forse non riesco a scriverci un articolo. Un viaggio fatto per gioco, un po’ a caso, volendo rimanere il più possibile sinceri, fai fatica a inquadrarlo in una narrazione. Ma se non lo puoi raccontare, non lo puoi vendere. E se non lo vendi, non lo puoi consumare. Se lo storytelling è la gabbia per un prodotto, il gioco mi ha fatto sentire libero.
Impegnato costantemente a cercare un significato per ogni mia esperienza, sia che dovessi o non dovessi scriverne, non mi ero mai accorto del fascino che può esercitare il caso. Qui, ne ho capito anche l’importanza. Gran parte dei contenuti che leggo ogni giorno sono storie impacchettate che ti vendono una certa narrazione, creano delle aspettative di significato, forniscono dei parametri per valutare l’esperienza a seconda del soddisfacimento di quelle aspettative. Il caso rompe con questi schemi: rende liberi di viaggiare e osservare la vita nella sua semplicità, senza incasellarla in un’aspettativa o in un senso.
La macchia.
Nel centro storico di Foligno siamo rincorsi da un militare. Ci raggiunge. Lo riconosciamo, con sollievo. È un ragazzo di Fermo, ha vent’anni ed è vestito da alpino. È lì per il concorso ed è parecchio agitato. Gli facciamo notare che c’è una macchia sulla sua uniforme. Ci raggiunge un suo collega, ancora più giovane. Fa caldo e il sole ci batte addosso, ci mettiamo in posa e ci facciamo una foto.
Ho capito solo ora il motivo per cui quando qualcuno, conoscendo la mia passione per i viaggi, mi racconta che vuole fare il cammino di Santiago, io non riesco a mostrare un sincero entusiasmo. Stimerei invece chi avesse la forza di uscire dai pacchetti preconfezionati, dalle narrazioni, dalle solite storie. Lo storytelling, insomma, ci ha rotto il cazzo. Vorrei fare un gioco: prendere la bicicletta e partire esattamente dal portone di casa propria. La meta la si dovrebbe scegliere sulla base dell’inclinazione attuale o affidandosi totalmente al caso. Sarebbe davvero bello pedalare, guardare, faticare e godere del viaggio senza avere con sé il peso di doverne trovare un significato, di doverlo vendere a sé stessi e agli altri. Da tutto questo, forse, potrebbe nascere una scrittura sincera.
Istantanee.
La Valle del Chienti, scorre perpendicolare all’Adriatico e risale verso l’Appennino carica di edifici spigolosi, calzaturifici e capannoni. I furgoni ci superano veloci e noi malediciamo la loro fretta. In mezzo al traffico c’è la torre del Castello della Rancia e un’area di sosta con un cavallo finto.
Il lago di Bolsena vista dalla Torre del Pellegrino a Montefiascone mette tranquillità.
Le colline umbre sono diverse da quelle marchigiane: salgono su alte e ripide che sembrano montagne. I tornanti non sono contemplati, bisogna faticare.
La statale costeggia il Tevere, sul ciglio della strada ci sono a tratti sgabelli vuoti, a tratti pandini bianchi parcheggiati, a tratti puttane grassocce.
Un vecchio prende l’acqua alla fonte, ai suoi piedi ci sono due enormi sacchetti di plastica imbottiti di erbe trovate.
Il ristorante di Vissani ha un alto cancello nero davanti e un grande citofono, ma noi non suoniamo.
Sulle colonne del loggiato medievale di Tolentino ci sono gli adesivi della Lega e le foto di Salvini.

La composizione fotografica è di Riccardo Franchellucci.

di Ornella Tajani
J’ai de l’infini sur la planche
J. Laforgue
Si può vivere d’infinito, sfamarsi d’infinito, sulla terra e nelle sfere celesti c’è abbastanza infinito da saziare mille animi geniali, scriveva Antonin Artaud nel suo libro su Van Gogh. Potrebbe essere questa la risposta di Therese, la protagonista dell’ultimo romanzo di Francesco D’Isa, alla sorella che, dopo uno dei suoi «insulsi monologhi», le chiede quale sia la «giusta dose» d’infinito.
Il romanzo si compone di una parte testuale intervallata da immagini – disegni dell’autore e non, schemi, diagrammi – e frammenti di citazioni “incollate” sulla pagina, che dialogano con la narrazione vera e propria creando un contrappunto funzionale, oltre ad offrirsi al lettore come un godibile repertorio da scoprire (Wittgenstein, Aristotele, Guénon, fra gli altri). La stanza di Therese è la rivisitazione contemporanea di un romanzo epistolare, in cui non c’è spazio né tempo per delle vere e proprie risposte, né si ha intenzione di inchiodare il lettore a una canonica alternanza di voci: così, alla lunga e frammentata lettera che Therese le scrive, la sorella risponde con degli appunti a margine, che risaltano graficamente in corsivo sul bordo della pagina; sono citazioni aggiuntive, domande, glosse, chiose. Il tono e la brevità di questi commenti – ironici, stizziti, pedanti o fastidiosi – restituiscono bene il colore del rapporto fra i due personaggi, «per vent’anni sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute»; sorelle diversissime, interpreti di un ruolo al quale forse sono state costrette anche dal riflesso che l’una proiettava sull’altra.
L’infinito sul quale si apre il romanzo, vera e propria ossessione di Therese, nasconde un’incessante interrogazione della ragazza sull’identità, che non potrebbe trovare migliore interlocutrice se non nella figura della sorella, doppio genetico per antonomasia, «la più simile delle differenze», per giunta qui incarnata in una scienziata in carriera, solare, positiva, razionale, tutto l’opposto della narratrice. Per riflettere sull’infinito, Therese si rinchiude in una camera d’albergo per mesi: la reclusione appare così come la condizione fisica dell’indagine metafisica, che per rovescio comporta una profonda introspezione. Lei, che ha imparato a contare con le mele, percependo con esse la prima idea di infinito, sembra decidere di colpo di rinchiudersi nella mela stessa, e viene in mente Henri Michaux quando scriveva: «Je mets une pomme sur ma table. Puis je me mets dans cette pomme. Quelle tranquillité !».
Therese però è tutt’altro che tranquilla. L’identità, le relazioni, il tempo la tormentano, tanto da diventare i tre poli intorno ai quali si costruisce il suo viaggio filosofico, senza dimenticare mai che ogni identità contiene una contraddizione fondamentale: «Perché esista qualcosa, questa deve essere diversa anche da ciò che non esiste, dunque esiste tutto. Se esiste tutto però, esiste anche che non esista tutto». Abbracciando dicotomie ontologiche classiche, il discorso si fa vertiginoso, evocando le astrazioni della geometria solida, tanto che in alcune pagine sembra di precipitare in un film d’animazione di Piotr Kamler (ad esempio in questo).
«Sono portata ad accerchiare la verità più che a isolarne un aspetto», scrive ancora Therese nelle belle pagine finali; ma accerchiare una verità cangiante, che resiste soltanto finché non la si tormenta, avrebbe detto Dürrenmatt, è un compito che evoca l’eterna salita sulla montagna del Sisifo di Camus. L’assurdo, insinuatosi lentamente fra le righe, esplode nel finale in tutta la sua inevitabilità; nel momento in cui sembra scoprire il paradiso, «una luce oscura in cui si muore di una morte meravigliosa», la protagonista aggiunge: «ma il paradiso è comunque una prigione: se sia la ragione che la sua negazione mi portano alle stesse conclusioni, sono costretta a credere nell’assurdo».
«L’assurdo mi persuade», afferma Therese poco prima di concludere. Seguendo le parole di Camus, l’assurdo nasce dal confronto «fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»; è una scissione che logora l’individuo, ma che al tempo stesso inaugura in lui il movimento della coscienza: nella frattura, l’uomo si desta. Tale frattura costituisce un punto di partenza, non già una conclusione, ed è per questo che alla fine, oltre la firma che sigilla questa lunga lettera-romanzo, non è azzardato immaginare Therese, con Sisifo, felice.
arresta, informale, la grafica delle scogliere,
seleziona execute: il senso ciclico a processo chiama
l’antiorario all’innocenza, dove s’interra
il lemma della mala, l’intemperia: per dove lavora
decade nel trasporto a breve termine, è merce, finisce.
toglie il segno di spunta su kill ( ): la funzione
lo rende obsoleto al pannello uno, nell’oracolo
della verosimiglianza. l’orazione virerà sul clima
a imporre i maestri, il sangue dietro al tavolo, i fiori
nel bicchiere. dal solito reperto in vitro si torna
a rifornire l’esistente, che invece preme, suggerisce
detenzioni, chiama la sua vittima, l’opera
caduta su se stessa, in relazione al trovato, all’estetica
dell’odio. dopo aver fatto, stila il referto, se è meno
e può diminuire ancora dentro ai crolli: espianta
l’organo del tempo perso e ricettivo, posato
nel corallo. nella busta rimane l’area
adeguata a fare una marea, a moltiplicarsi
senza sosta nel midollo. dopo qualche milione
di lesioni, sceglie la terza: accende una sigaretta,
e questo di sicuro è già una trama.
come al solito, nel solito versa e non ricorda, ne dimentica
la parte compensata dalla nascita alla culla, in stato debole
e conforme ormai al silenzio, in profitto alla vita, volta persa
e poi ennesima come una forma anonima, sicura, che associa
alla voce il diritto all’oblio. conclude, ottiene misericordia,
resta solo. conta il sentirsi buoni, chiedere il comando inserito
in brute force, oscillare il limbo fra intermediato e segnalante,
mandare al niente la causa morale, esaudire il gesto a vuoto
nel motore di ricerca. per quanto ne scarti, è responsabile
delle foto, pure rimate, quelle, quando rimane e nulla muta
dalla convenzione a compensare il genocidio incrementale
in correzione alla parola, il rifiuto in formato meno standard,
l’abbandono al dato. striscia, nella feritoia della casa ignifuga,
seleziona l’opzione “carta di credito” per mutui percorribili
da parte a parte, ogni vent’anni, distorto l’angolo di corda,
la curva percorsa come testata d’angolo, estesa e riaperta
a manifestare il morbo nello schianto, la biopsia del giorno
dentro la psicosi, la prima pietra, lo score impact. non sa
più come. della carità ne fa lo stesso analisi, risorsa umana.
così, girando su se stesso, steso, ne farà variante, migra
la sequenza, pollice verso, prognosi, preghiera, recrimina
in giù, nella spirale dell’isola, isola di nuovo il nuovo, prova
a darsi voce nei contorni, nel messaggio liberato per errore,
dall’ironia, dal vuoto conforme che lo attenua e poi riparte,
in dipartita estrema nel poligono in cui uccide per costante
protezione dal dolore, mentre sorteggia il dato conforme,
ancora vuoto. non ne è convinto, ma sul posto di comando,
con tutta quella morte, si troverà bene. gliel’hanno detto.

finito, detto al mondo: andato in pace, lontano,
prima che ne sovrascriva la memoria: esodo perché
“ricorrere al presente”. nel file .doc riportato astrae
il sistema operativo, partiziona, separa, riapre
il termine a un sistema detto meglio, andato
e liberato in parte pratica nel vuoto del ricorrere,
che lo inizializza e lo dispiega, estratta l’aria
dalla cavità uterina, il prime move ultraviolento,
la pratica del morbo più cosciente; che peggiori
e tenga il codice, lo stile .css, l’anima, il solido,
continuo bordo nero puntato al veleno, mossa
la vittima verso, che è lo stesso e niente lo precede
se è maggiore o uguale in causa all’errore nel testo
che si deconcentra, dice una sintassi impropria,
medicata, scarto, o meglio scoria estranea, sicura
indietro tutta; qualcosa cambia prima della violenza
quando qualcosa è cambiato e ne è privo, prima
della violenza, anche se ne sa l’estetica, manca
e siede nella carica completa dentro l’odio, a schermo
spento per futura sorveglianza video dentro
ai luoghi in data di scadenza: le quattordici stazioni
del mattino, l’asserzione, il root descritto, la conta
dei millesimi, la parte andata via per quindici anni
e poi dai venticinque andata altrove, lasciando
il fuoricampo al mondo, l’accesso più remoto,
il moto rapido a recuperarne il lancio, il “quanto”,
lo sbaglio organico, la resistenza nulla, giunta
per semplice decorso delle parti, adesso compresa:
lo stadio terminale, la voce inoperabile alla nascita.
è lì che tiene il conto per davvero: da dominio, a regno,
a ramo, nell’insight diffuso, per tutto quanto accade e resta
irreparabile. prepara una discolpa, un grafico a cascata.
lí, nel cranio, e dopo, nei molari, a non procedere nell’oltre
dei circuiti: ricorda l’altra stanza, che era lunga, diffusa
e se ne andava altrove da una luce ora conforme, non lì
per dileguare nell’intorno di caduta. il modo è non sapere
niente, una forma familiare conseguita, pronta a muovere
da parte organica, formata a rovinarne fuori dalle viscere:
è quanto è stato, e altro, e quanto sa di essere crollato,
fatto per te, deposto accanto a tutti, da vedere, in sacrificio
per voi. potendo infine brillare, come superficie, o farsi,
e farsi largo in esplosioni di controllo, dall’alto, masticarne
la ferocia: tremano, dalle aperture del museo dove la lingua
trova contro palati, e ne dovrà spinare, gonfi come dighe
nel veleno che li trova irrigidirsi, schedati: documentario
di una terraferma approssimata in data morte, e che sia
esatta, e data, quotidiana: alcuni via nei morsi, altri ancora
a riposare sulla mano, e ancora è niente fuga, per niente:
è tutto quanto, nei secoli dei secoli, sarà lasciato dopo.
dissolve, non come principio, il punto elementare
nel segno che dà spazio, linea e negazione: indica la spunta
e manca il tutto, a differenza dell’umano, nel fine,
e poi “non sa più fare una richiesta”, che è molto di per sé,
“se vuoi”, si dice. “dove stavano all’oscuro”, dentro
il parallelo, prova e trova posto, inoltra e manca appena
riesce a superarlo, per non più vedere, ripete, “per non vedere,
più che altro” e poi riassembla, esercita gli altri nel molteplice
dal mezzo reso minimo, ridato a una coscienza lunga e vuota,
e quanto stalla, o serve infine a farne fuga. “chi si ricorda,
termina da vivo,” ed è caduto, concede e si fa grande, pena
nell’ipotesi di fine. la corrente adesso attiva sovraespone
e approssima il restante come dato, prende luogo nel processo,
va a recidere l’alberatura che dai nodi tiene il vertice, riporta
alla via centrale, simulando scopi, e lei, “tornata su se stessa”
in conversione estrema, al metodo di un nulla amico
e familiare: quando il dato in migrazione porta nello spettro
e si va a perdere, facendo meno suono a mano a mano
che ripete e decodifica la sua parlata come oggetto,
che non sa, ed è fuori dalla stregua: l’elemento di frase
concorda, finalmente, ed è così che è reso muto, si riduce
all’anteprima, esiste, ancora, si apre in sola lettura.
nel labiale, più della cura, o per averla, o come sa, è disattesa:
se ne afferra il vulnerabile ne ha, magari resta senza alcuna
frase mancante, nel fuoco. rallenta: gli costerà la norma senza
alcuna norma, lì, in quello che ne è stato il centro, il serbatoio,
là, per contraddirlo, fare deissi: traccia una linea, era e adesso
per terra infesta il pieno a rendere, abbandona, spera, ne porta
via la segnaletica, o qualcosa per te. dove l’oggetto non si vede
più, o non è mai stato, al peggio vola, lontano, e senza carica,
in correnti di lacune, sotteso, a cicli di trenta minuti congruenti
sull’unica distanza separata, senza più angoli per stare in piedi,
ad arginarli è una pressione lenta: decide di darsi, poi, o meglio,
durante l’ultimo gesto lo afferra e gli schiaccia la testa sul piano
ipotetico, almeno. a oltranza ne ha, di strati, per la sua ampiezza
ne moltiplica le strade, le induce a girare in un momento inerte.
e nel frattempo è, nel posto che era, o neanche lì. se continua
esiste a quantità primarie, basta che risponda al conto, o che
si aggreghi o che rifletta o che correli ciò che ne ha descritto,
pensato nella macchina. stasera torna dopo, nel senso, inizia
a portare a casa: vedere per sempre ciò che manca diventa
impossibile da leggere, un’altra volta. se è costretto prova
a intercalarne il fiato, dal retro, mentre viene fatto a pezzi.
sa, e ripara i pannelli di luce: la corona, il sangue. dalla linea bianca
del costato vuota il figlio, lo vomita a ritroso, diserta il segnale, l’input
concordato che può solo andarsene al macello e lo riceve altrove:
è che si è nascosto per connettersi. al cambio di marea ne espianta
i led: pensa al fatto che è di luce, il nessuno. una virgola soltanto
lo rimanda al benchmark andato una volta sola più in alto, integra
il cerchio all’ultimo aggettivo. il rapporto master/slave congela
l’interfaccia al suo ritorno umano, il blue screen of death una volta
tanto divenuto vero, tornato ad investire capitale, a fare casting,
nel lancio di incantesimi a ciclo continuato. uno si sacrifica, l’altro
finisce ugualmente per morire, lascia il prossimo come se stesse
dentro un carcere o nel centro dati, e non ne sa spiegare il come,
al prossimo suo come se stesso. dal retro dei monitor riesce a fare
una magia, a domare la terra, il codice, le stringhe: allaccia a caso
la sua idea di domazione, cioè non di dominare, ma di fare domus,
o casa, al meglio. la stagione non cambia, è tempo appena spaziato,
a ricordargli che la lettera di chi gli ha dato luce, e violenza, brucia
a fuoco alto, in camere di esempio e di cattura. il soggetto cessa
la sua marcia, vira nelle fiamme mano a mano, nel campo intuisce
la battaglia, si prende sul serio, corre e tira, segna, fa scala reale.
dappertutto andato a fondo, fuori, finito e per sempre,
esatto, e sì, nei molti metri che ha portato via da sé, reso
inaccessibile a chi sa e lo sceglie e non lo seleziona più:
se il limite esiste e lo organizza per trascendere, istruirsi
ugualmente a chi sconforta e a chi dispera, alle pareti
giunte sole al proprio doppio; accumulate, quelle, per
accessi casuali di memoria. lorem ipsum dolor sit amet,
quindi: se ne aggiunga lo stile o meno, prova un dolore
riempitivo, omesso, alloggiato al posto del vuoto. chiesta
casa, o come (e cosa) invece non più dire, sapere quanto
è assente alla sintassi e quanto invece giunga dalla pena
in ore d’aria chieste e residuali ai giorni: è perché crede
ancora che verrai a salvarlo. ne è agito, sempre, come
figlio e come padre, per riceverne la stessa luce. separa,
esatto, e simula una resistenza andata via nel mondo:
libera dal male, procede nel suo estremo, finisce per
allontanare tutti, sempre, dividere il possibile per zero.

*
Il numero dell’impossibile. Note su Divided by Zero di Daniele Bellomi
di Alessandro De Francesco
La poesia di Daniele Bellomi, per forme e temi, è una poesia imbevuta nel presente e nel futuro ma che possiede, a differenza di altre scritture della stessa generazione, una consapevolezza costruttiva classica. Questa frase, mi rendo conto, estremamente banale, non lo è piú se la si considera riattivata in profondità dalla scrittura di Bellomi. La versificazione in lunghezza di Divided by Zero, la cui forma ricorda certe poesie di John Ashbery o Ulf Stolterfoht, per non risalire addirittura a Carducci, è abitata da una metricità inconfondibilmente endecasillabica, italiana. Basti prendere a esempio il primo testo qui antologizzato: “il senso ciclico a processo chiama”; “il lemma della mala, l’intemperia”; “decade nel trasporto a breve termine”, e cosí via. Si noti inoltre l’eredità, cara a molti di noi, di Antonio Porta: nell’elegante crudeltà del linguaggio, certo, ma anche nella scansione ritmica, segnata, come nel primo Porta, dall’incalzare delle virgole.
Eppure la poesia di Bellomi è anche altra rispetto alla tradizione che pur ricorda in modo cosí consapevole. La semantica tecnologica è qui resa corpo e figura: incorporata nel testo fino al conclusivo, e rivelatore, “blue screen of death”. Di questo abbiamo tra l’altro discusso con Bellomi durante il laboratorio Prove di ascolto organizzato da Simona Menicocci e Fabio Teti perché proprio in quel periodo stava uscendo il mio libro americano Remote Vision, la cui copertina sarebbe stata disegnata sullo stesso punto di colore: risonanza tra generazioni vicine in un’epoca, direi, in cui il tecnologico non affascina piú come piano ontologico altro, e diventa invece spazio politico e forma di vita.
Ma c’è di piú: ciò che rende la poesia di Bellomi un gesto autonomo e profondamente contemporaneo non è solo il modo in cui essa si cimenta con i suoi contenuti, ma anche la rapidità con la quale, quasi paradossalmente, questa versificazione distesa ed estesa veicola immagini ed eventi eterogenei accorpati non già da una koinè metaforizzante, ma dalla velocità stessa, quasi una velocità digitale, con cui il poeta, consapevole della loro irriducibile eterogeneità, raggruma immagini ed eventi in un medesimo recipiente espressivo, con una forza centrifuga che fa ruotare tutti i colori verso il bianco, tutti gli eventi verso il nulla, verso lo zero indicato dal titolo e dalla morte digitale eppur irreversibile della schermata blu.
Come è suggerito ad esempio dalla fine del primo testo, tali accorpamenti sono anche frammenti, concentrazioni di una possibile espansione della poesia verso la narrazione, cosí come il verso, allungandosi, moltiplica la propria scansione ritmica tendendo alla prosa: “accende una sigaretta, / e questo di sicuro è già una trama”. Trama dei versi stessi, che tessono il telaio di una memoria digitale ma non per questo meno dolorosa, meno attraversata dalla perdita: “esaudire il gesto a vuoto / nel motore di ricerca. per quanto ne scarti, è responsabile / delle foto”. Lo zero di Bellomi non è solo lo spento contro l’acceso in base 2, non è solo l’attesa contro l’evento, il pre- e il post-. È soprattutto il paradosso di un’operazione impossibile tra tutto e nulla, accumulo e assenza, in una dialettica tra Assoluto e Niente di reminiscenza forse anche mallarméana. Per questo lo zero è qui operatore divisorio e non moltiplicatorio: l’operazione impossibile non rappresenta il nulla, ma il tutto del nulla, un tutto che lo zero contiene spegnendolo e ridefinendolo al contempo, come il bianco i colori.
Anche qui torna, in Bellomi, il gesto classico, per non dire lirico, con cui il suo linguaggio si arricchisce. Per favorire questi accorpamenti dell’eterogeneo, Bellomi privilegia elenchi, spesso di tre, quattro od anche cinque elementi, spesso caratterizzati da un’atmosfera zeugmatica, là dove lo zeugma è appunto un modo per raggrumare piani semantici inizialmente distanti all’interno di una stessa serie, ma anche per esprimere incertezza sulla priorità di un elemento sull’altro: “a manifestare il morbo nello schianto, la biopsia del giorno / dentro la psicosi, la prima pietra, lo score impact”; “che peggiori e tenga il codice, lo stile .css, l’anima, il solido”; “le quattordici stazioni / del mattino, l’asserzione, il root descritto, la conta / dei millesimi, la parte andata via per quindici anni”; ecc.
L’intreccio tra la semantica che si potrebbe definire “della vita-memoria” e quella del digitale e in particolare del web (“lo stile .css”; “il root”) aumenta questo effetto zeugmatico di accorpamento di piani, anche percettivi, in una continuità ontologica tra analogico e digitale che in un certo senso riflette nel microcosmo del dispositivo testuale il macrocosmo dell’intento poetico, dispiegato dall’ultimo testo: “lorem ipsum dolor sit amet”, l’inizio del testo standard usato in grafica per visualizzare la forma tipografica prima del contenuto, senza il contenuto, “alloggiato al posto del vuoto”, esprime il gesto riempitivo e palliativo dell’apparenza, talora ulteriormente abbellita dal foglio di stile (“se ne aggiunga lo stile o meno”), ovvero dal .css sopra citato. Lo zero digitale, ormai anche organico, anche reale, anche foriero di contenuto vuoto, è un operatore la cui pericolosità tanto politica quanto percettiva è condensata dall’ultimo lampo narrativo della serie: “dividere il possibile per zero”. Solo una cosa è piú violenta che annientare il possibile: renderlo impossibile.
Questo gesto di dispersione tecnologica del possibile, questa interfaccia del vuoto che “finisce per allontanare tutti” ed è assimilata da Bellomi anche alla panacea religiosa (“libera dal male”), ha però una controparte da non dimenticare: “lorem ipsum” è anche l’inizio di qualcosa, “è già una trama” che preesiste ad un altro riempimento (del) possibile. Lo zero come operatore divisorio sottrae il numero alla sua natura di numero, rende innanzitutto il calcolo impossibile, sostituisce quindi il continuo al discreto, manda in tilt il macchinario, e il “blue screen of death” non è perciò solo fine, ma anche inizio, forse, di qualcosa, di un piano di eventi in cui il vuoto è un vuoto aperto verso un possibile dell’impossibile. Si può dunque immaginare e in un certo senso auspicare che il seguito dell’operazione poetica e politica di Bellomi contribuirà ulteriormente a questa generazione di possibile dall’impossibile? Magari attraverso il seguito dell’esperienza, dell’Erlebnis vitale dell’autore che, lasciandosi permeare “da un’altra trama”, renderà al suo linguaggio un’organicità e una vulnerabilità che questi versi, coscientemente, ancora non potevano contenere, ma alle quali essi nondimeno già rinviano, dall’interno della fortezza versificatoria, nelle aperture di passaggi-perno.
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Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti
Dal giugno 2015 al maggio 2016 si è svolto un laboratorio di scritture dal titolo «prove d’ascolto» presso la sede della galleria WSP photography di Roma (http://www.collettivowsp.org/), che ha visto coinvolti 23 autori [1]. Da oggi Nazione Indiana pubblica testi e tracce di quegli incontri. Di seguito una breve presentazione del progetto a firma dei due curatori, Simona Menicocci e Fabio Teti.
L’esperienza laboratoriale «prove d’ascolto» nasce dall’insoddisfazione, e nell’insoddisfazione – è importante: anche e soprattutto rispetto a se stessa, alle articolazioni ed energie, alle pratiche e relazioni che ha saputo o mancato di generare, al tempo che ha potuto o mancato di donarsi – consegna oggi, profittando dell’ospitalità di Nazione Indiana, ad una socializzazione ulteriore ed espansa quegli ‘atti’ di scrittura attorno cui e generando i quali si è configurata, dal giugno 2015 al maggio 2016, in tre appuntamenti romani presso la sede della WSP photography, (ne approfittiamo per ringraziare Lucia Perrotta per l’ospitalità concessaci).
L’idea del laboratorio, basilare e intimamente ispirata alle motivazioni che condussero Giuliano Mesa a dar vita al progetto Ákusma (sono ormai quasi vent’anni), si è fatta strada a partire da Albinea (RE), seconda edizione della rassegna EX.IT, nell’ottobre del 2014, durante la tavola rotonda coordinata da Antonio Loreto e Massimiliano Manganelli. In quell’occasione, una schiera di critici letterari, studiosi, traduttori e autori, fu invitata a intervenire intorno alle scritture, e al panorama autoriale da esse illustrato, raccolte nel catalogo-antologia ex.it 2013 – Materiali fuori contesto (Tielleci, Colorno 2013). In quella sede, al netto delle possibili dispercezioni di chi scrive, poche, pochissime delle molte parole che potemmo ascoltare (gli atti dell’incontro sono oggi raccolti e leggibili nel volume ex.it 2014 – Materiali fuori contesto, Tielleci, Colorno 2016) ci sembrarono fattivamente interessate a ricavare dai testi in questione, considerati nella loro singolarità e varietà (di materiali, procedure, modalità della messa in comune e suoi oggetti) quegli strumenti critici e quei criteri analitici rinnovati di cui probabilmente l’intero campo letterario italiano necessita da tempo. Un’occasione parzialmente sprecata, dunque – e forse fatalmente, stante la difficoltà obiettiva di maneggiare un così ampio spettro di scritture e posture autoriali, rispetto alle quali sembrò più agevole ripiegare sulle consuete strategie operative, quelle cioè tendenti alla categorizzazione definitoria, all’individuazione delle autorialità più emblematiche, alla sinossi delle questioni, quali che fossero le anomalie letterarie in discorso e il ventaglio di problemi da esse spalancato: ripiegare sul tentativo di maneggiare, crediamo, come reti a strascico, categorie critiche pre-testuali, in quanto prodotte per dar conto di testualità altre, precedenti, o ancora pseudo-categorie o puntatori desunti dalle auto-descrizioni e riflessioni dei più attivi, sul fronte teorico, o metapoetico, degli scrittori in questione; ponendosi, al limite, il problema della prensilità generale delle stesse, ma in ogni caso, al netto delle cautele e delle perplessità espresse, assecondando il rischio già presente di una loro surrettizia mutazione da connotati probabili ad epitomi sicure, e ancora da strumenti descrittivi di alcune testualità esistenti a criteri discriminanti circa il valore di quelle contemporanee o a venire. Nulla che non pertenga al mestiere del critico, naturalmente; né avremmo potuto pretendere delle vere e proprie analisi testuali, in quella sede e in una fase, ancora, di vera e propria lotta per l’esistenza di tutta una serie di scritture spericolate e sganciate dalle anche recenti acquisizioni canoniche in materia. Ciò nonostante, la percezione acuta di una scarsa considerazione dei testi, della loro inaggirabilità e differenza, così come della produzione delle autorialità più appartate o in ombra del ‘catalogo’, fu la sola amara acquisizione con la quale lasciammo l’incontro e, su questo fronte almeno, Albinea.
Da qui, precisamente, l’idea di un laboratorio, mossi dalla necessità di riservare un più ampio spazio-tempo alle testualità degli autori coinvolti, uno spazio e un tempo in cui poter porre maggiore attenzione e accordare un ascolto qualitativamente più esposto al farsi stesso della scrittura. Con «prove d’ascolto» abbiamo infatti proposto ai 23 autori coinvolti di condividere i propri testi in lavorazione, le proprie “ricerche” in atto, e di affrontare collettivamente i nodi estetici, concettuali, pragmatici attorno cui stesse ruotando il proprio lavoro; ogni presente è stato dunque invitato tanto a leggere i propri testi, quanto a intervenire e a fomentare a una discussione, il più possibile spregiudicata, sullo specifico di ogni brano in questione e delle problematiche di lì emergenti. L’auspicio, o obiettivo, al di là di certe ‘somiglianze di famiglia’ e delle convivenze più o meno ireniche sotto l’inverificata copertura di una tendenza comune, era che potessero emergere e porsi in esponente le differenze empiriche e le distanze concrete tra le pratiche autoriali; che si riuscisse a provocare, sulla base di queste, e discutendo, una crisi ulteriore: radicalizzando, in termini di profondità e fertilità, quella spinta emancipativa comunque già implicita in ogni necessità o accidentalità di ricerca, quindi fornendo uno stimolo ulteriore tanto al movimento quanto al processo di auto-consapevolezza artistica. Allo stesso modo, ci aspettavamo di ricavare, sebbene in forma grezza, provvisoria, qualche nuovo arnese ermeneutico, qualche strumento critico ulteriore, necessitato dalle e aderente alle scritture in questione (un implicito delle discussioni era infatti quello di prescindere da tutti quei dispositivi nominali o lassamente teorici dei quali auspicavamo invece una messa in crisi, se non un superamento: da “scrittura non assertiva” a “scrittura di ricerca”, appunto, dalla contrapposizione tra lirica e sperimentalismo a quella tra verso e prosa). Anche per questo motivo, oltre agli autori, abbiamo provato a coinvolgere nel laboratorio gli stessi critici e studiosi intervenuti ad Albinea nel 2014, nonché molti altri potenzialmente interessati a questo tipo di lavoro comune, di comunità operosa, ottenendo, naturalmente, nient’altro che una sfilza di mail inevase, di silenzi eloquentissimi o giustificazioni pasticciate, e potendo contare, nel concreto, su appena tre presenze discontinue, quelle di Gilda Policastro, di Guido Mazzoni, e di Massimiliano Manganelli, che ringraziamo. Poco male, ad ogni modo: si è fatto senza, giocoforza.
Naturalmente, da cotanta ambizione, non poteva che derivare un altrettanto grande, e comunque fertile, fallimento. Tolti pochi casi, e sempre in conseguenza della quota di generosità ed energia messa in campo dai coinvolti, si è rivelato più che problematico dar vita a discussioni proficue, più che faticoso stimolare una partecipazione che avrebbe invece dovuto esserne precondizione. Lo stesso può dirsi per la seconda fase del laboratorio, alla prima legata proprio dalla volontà di fissare qualche risultato più stabile, di concretarlo. Dopo i tre incontri romani, infatti, dopo le parole in presenza e gli impacci, anche, dell’oralità, della soggezione, delle psicologie, abbiamo invitato ogni autore – secondo un esoterico sistema di incroci volto a garantire la copertura integrale dei testi condivisi, e fallito anche questo, a causa di varie defezioni – a rilanciare per iscritto le tracce del proprio ascolto, del proprio incontro con l’altrui scrittura, a produrre un testo breve, insomma, critico eppure libero, affrancato da ogni ansia mimetica e competitiva rispetto ai canoni formali della critica ufficiale. Anche qui, i risultati non son stati sempre all’altezza delle aspettative, ma ogni autore è responsabile delle proprie parole, le dette e le taciute, del proprio impegno e della propria disponibilità all’incontro.
Nel momento della condivisione dei materiali, in una rubrica su Nazione Indiana che raccoglierà l’intera compagine dei testi presentati durante il laboratorio (giova ricordarlo: testi in quel momento incompiuti o in lavorazione, ed oggi magari diversissimi, o già pubblicati, o completamente cassati dagli autori stessi) accompagnati dalle rispettive tracce d’ascolto generate, ci preme forse maggiormente, stilando la parte positiva del bilancio, ringraziare uno per uno i nostri autori per ciò che hanno voluto o potuto fare e condividere; per essersi sobbarcati le spese di viaggi anche internazionali; per la loro disinvoltura o più silenziosa attenzione; per aver mostrato di poter leggere un testo (o fare qualcosa di un testo, maneggiarlo) senza dover ricorrere necessariamente a quegli approcci categorizzanti e a quelle parole d’ordine che tanto ci avevano infastidito a monte di questa esperienza. Per aver fatto emergere, infine, dalle loro letture, talvolta pigre talvolta sorprendenti, talvolta centrate talvolta felicemente divergenti, anche una serie di problemi forse nuovi e certamente urgenti, come quello, statisticamente più ricorrente, che riguarda l’uso, l’usabilità, la dimensione pragmatica tanto della scrittura quanto della sua inserzione e ricezione nel mondo, e che speriamo qualcuno voglia accogliere e approfondire, in sede critica e in relazione al funzionamento di un testo letterario contemporaneo. Li ringraziamo, ancora, per averci sopportati prima, e poi lungamente attesi, nella conduzione del laboratorio e in quella dell’approdo in rete dei suoi atti.
Una conduzione, quella del laboratorio, così come del suo dopo, sicuramente affannosa, strattonata, ciascuno di noi dovendo volta a volta emancipare spazi e tempi letteralmente impropri dalla trama di esistenze materiali e lavorative votate a una furiosa avversione rispetto alle facoltà e pratiche dell’incontro, della condivisione, della lettura, del dissenso o dell’accordo argomentati – e argomentati poiché posteriori, appunto, all’incontro, agli oggetti di condivisione e analisi, all’ascolto di questi e alla domanda sul senso della loro messa in comune. Che si tratti poi di oggetti di scrittura non dovrebbe, crediamo, minare la seriosa generalità di quanto appena affermato: se le scritture sono nel mondo e il mondo riguardano, la proiezione nel mondo delle etiche e prassi che queste informano è problematica ma inevitabile, problematico ma inevitabile il loro fare mondo, riproporsi su altra scala all’altezza delle nostre forme di vita.
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[1] Questi i partecipanti alle tre date: Daniele Bellomi, Alessandra Cava, Fiammetta Cirilli, Mario Corticelli, Elisa Davoglio, Alessandro De Francesco, Marco Giovenale, Alessandra Greco, Mariangela Guatteri, Niccolò Furri, Andrea Inglese, Andrea Leonessa, Giulio Marzaioli, Simona Menicocci, Manuel Micaletto, Renata Morresi, Vincenzo Ostuni, Nicola Ponzio, Giorgia Romagnoli, Luigi Severi, Fabio Teti, Silvia Tripodi, Michele Zaffarano. Il novero degli invitati avrebbe compreso anche Mariasole Ariot, Gherardo Bortolotti, e Andrea Raos, che non hanno potuto prendere parte ai lavori.
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Prove d’ascolto #1 – Daniele Bellomi
Prove d’ascolto #2 – Alessandra Cava
Prove d’ascolto #3 – Fiammetta Cirilli
Prove d’ascolto #4 – Elisa Davoglio
Prove d’ascolto #5 – Mario Corticelli
Prove d’ascolto #6 – Alessandro De Francesco
Prove d’ascolto #7 – Niccolò Furri
Prove d’ascolto #8 – Marco Giovenale
Prove d’ascolto #9 – Alessandra Greco
Prove d’ascolto #10 – Mariangela Guatteri
Prove d’ascolto #11 – Andrea Inglese
Prove d’ascolto #12 – Andrea Leonessa
Prove d’ascolto #13 – Giulio Marzaioli
Prove d’ascolto #14 – Simona Menicocci
Prove d’ascolto #15 – Manuel Micaletto
Prove d’ascolto #17 – Vincenzo Ostuni
Prove d’ascolto #18 – Nicola Ponzio
Prove d’ascolto #19 – Giorgia Romagnoli
Prove d’ascolto #20 – Luigi Severi
Prove d’ascolto #21 – Fabio Teti
Prove d’ascolto #22 – Silvia Tripodi
Prove d’ascolto #23 – Michele Zaffarano
di Lev Matvej Loewenthal
[Pubblichiamo un estratto La Dodicesima Nota, Carteggi Letterari Le Edizioni, 2017.]
Premessa
Non un precetto (Dio me ne guardi!), piuttosto un consiglio: evitate di morire a Me’a She’arim durante un’eclissi di sole prima dello shabbat; sempre che, per una qualche ragione, non vogliate essere ritrovati, leggermente decomposti, solo all’alba della domenica successiva.
di Lorenzo Esposito
“I don’t watch Netflix”. La risposta perentoria con cui Abel Ferrara in Alive in France (Cannes 2017, Quinzaine des réalisateurs) rimbrotta il fanatico fan che lo assilla all’uscita dal concerto della sua nuova band rock/blues/romantic è sufficiente a disinnescare giorni di discussioni montanti e aleatorie su quello che, oltre a essere un falso problema (le piattaforme online cambiano o stanno cambiando la porzione di schermo cui aspirano le immagini e gli spettatori e dunque anche il monolitico riassestamento museale di tutti i Festival del cinema? Sì, e allora?), rischia di essere – o lo è apertamente – l’unico modo che i festival stessi hanno per non discutere mai di ciò di cui, loro malgrado, sono ancora e tuttavia fatti: i film, il cinema. La strategia è chiara tanto quanto dovrebbe essere trasparente l’intensità con cui l’immagine nonostante tutto (disseminazione, surplus, inevitabile perdita di senso e sensi) rifugge da se stessa, in qualche modo resistendo all’ondata liquida e opaca della parola sempre più spesso ridotta a pura trovata promozionale: semmai si depotenzia l’immagine dei grandi film e dei grandi cineasti – ironico sberleffo nei confronti della massa informe delle suddette tattiche o chiacchiere (che fra 15 giorni, dopo Cannes70, tutti giustamente e per fortuna dimenticheranno).
di Davide Orecchio

Ecco una vita di Reagan dal Dizionario del Se alla Possibilità numero seicento sedici di Reagan che ce lo mostra nascere, con simmetria di falso gelsomino e puntualità di pungitopo a Natale, nell’anno undici del secolo venti e morire nell’anno undici del ventunesimo, condurre magistero di attore (e premio Oscar nell’ottantanove), regista (e Leone d’oro nel novantuno, e Leone d’argento nel novantaquattro) e uomo politico di terroir nordamericano (ma diede lezioni al pianeta), per poi correlarne l’exemplum alle voci sulle Quattro svolte vocazionali (nelle «Intersezioni esistenziali» dello stesso compendio) e sul Trasformismo atlantico (nelle «Intersezioni politiche»)
Il secolo ha solo undici anni e scherza infantilmente coi petali dei suoi fiori puerili, dai banchi ridotti di una classe d’asilo s’alza un iris e fa una pernacchia, poi arrossisce quando a Tampico nell’Illinois, secondogenito di John Edward e Nellie Clyde, il sei febbraio Reagan affiora nei giorni del secolo, e questo secolo è appena un bambino.
Si dica l’infanzia, l’adolescenza, l’epoca del desiderante e del sogno, la costruzione del sé al cui riguardo il più accurato compulsare fonti saprebbe trasmettere poco più di una corazza e l’individuo protetto nel guscio della creatura, del tempo, della reticenza e poi si afferrino le zampe dell’accelerazione che passa di qui ed ecco, è già il trentasette – una mimosa prematura e mutante, sboccia a gennaio, a marzo frutta bacche impreviste, gialle come i suoi fiori, succulente, mortali – quando Reagan è in California «come cronista radiofonico al seguito dei Chicago Cubs e sostiene con la Warner Bros un provino cui segue la firma del suo primo contratto di attore» (biografema 1).
Come uno dei fiori del secolo lui sboccia quando scopre la sua vera natura, e «s’apre per Reagan una carriera cinematografica quasi trentennale spesa in ruoli e pellicole di secondo piano (Love is on the Air, Tramonto con Bette Davis, Knute Rockne All American, Delitti senza castigo, La regina del Far West con Barbara Stanwyck, Contratto per uccidere)», e la voce chiara e il fisico atletico lo aiutano nella persuasione del pubblico «ma non al punto di farne una star», e nel quaranta – quell’anno ha la forma di una tempesta, di un naufragio della storia con le luci di Turner, ma in California non ci badano troppo – «sposa l’attrice Jane Wyman dalla quale divorzia nel quarantotto».
Eppure bisogna aggiungere “eppure”, un solo strato di recitazione non basta, l’ambizione ne chiede altri, Reagan non s’accontenta, vuol’essere serio, ma non troppo serio, vuol’essere politico insomma e negli anni trenta e quaranta del secolo americano – i disperati, scapigliati, sediziosi decisamente – mostra convinzioni democratiche, «simpatizza per Roosevelt e il suo New Deal e sostiene la candidatura alla Casa Bianca di Truman», ma all’improvviso…
– E dice Čechov: «all’improvviso… nei racconti si trova spesso questo “all’improvviso”. Gli autori hanno ragione: la vita è così piena di cose inaspettate». –
– E «persino un avverbio come “d’un tratto” diventa una torva sembianza spettrale». –
… ma all’improvviso e d’un tratto, forse solo per propulsione paranoica nell’individuo nordamericano, Reagan negli anni cinquanta – dieci fiori seccati tra le pagine del Grande libro di accuse e sospetti – vede che la guerra fredda esplode e si arruola nell’esercito dei maccartisti e combatte «in prima persona nel suo mandato alla guida del sindacato attori».
E si persuade che il partito Repubblicano «sia più adatto a fronteggiare il pericolo comunista, interno ed esterno», e si schiera con Eisenhower e poi Nixon, e «si converte» al liberalismo in economia, e «legge Bastiat, von Hayek e Friedman», e dopo la crisi di Cuba nel sessantadue – ormai il secolo è un uomo maturo, ha letto i libri della guerra, della rivoluzione, dell’Olocausto, del cinema e della poesia – Reagan aderisce al gran vecchio partito.
Strutture, sovrastrutture, parole, id est l’interpretazione di un’ideologia, la via hollywoodiana alla trasformazione del mondo, sono l’acqua che consente il viaggio di Reagan, che irriga il sentiero per la sua barca finché lui pronuncia il suo più famoso discorso della stagione neoliberale, che dedica alla corsa presidenziale del conservatore Barry Goldwater, che il settimanale Time giudica «l’unica luce in una deludente campagna» (biografema 2), quando Reagan si appella ai padri fondatori e chiede nessun controllo sull’economia, un passo indietro allo Stato e che tagli le tasse e dice Siamo giunti all’ora delle scelte, e per questo i repubblicani lo candidano alla guida della California, e Reagan vince per due mandati dal sessantasette – l’anno che visitammo San Francisco con un fiore nei nostri capelli – al settantacinque – l’anno che in penuria di fiori, in carestia, disegnammo una rosa su un foglio e dicemmo Questo è pur sempre un fiore –, finché sfida nelle primarie repubblicane il presidente in carica Ford, e perde di poco, e Ford sarà poi sconfitto dal democratico Carter, che sarà presidente.
Ed entra l’anno ottanta del novecento – la classe d’asilo ora è un ospizio, papaveri senili bevono Martini e Campari, guardano le ragazze in topless, ricordano il desiderio, ricordano l’esuberanza dei petali, il turgore degli steli infrangibili – quando Reagan annuncia pubblicamente che vuole correre ancora per la presidenza degli Stati Uniti d’America, quando all’improvviso – e dice Čechov: «all’improvviso!» – interrompe la carriera politica.
– Hai paura? La guerra minaccia ogni vita, la morte delude ogni sogno. Sai tenere a bada la paura che hai? La psicologa t’accoglie in una stanza larga (la frammezzano paraventi cinesi di legno e carta di riso), la psicologa ti dice che non siamo eterni, le rispondi che te n’eri accorto, ma tu non vorresti durare neppure in eterno, tu vuoi durare un minuto in meno di quelli che ami. –
– Così ora è post mortem. È la serie postuma. Essere un testo è come essere morto. Hai traslocato la vita nel testo. Non ci sei più. Va bene sei libero, non esistente. Non hai condizioni: ipocrita dietro le tende, timoroso ti mascheravi a loro e t’inchinavi negli obblighi ma ora c’è uno scritto che, anche volesse, non potrebbe fare l’inchino perché il corpo gli manca: la docilità della schiena e del collo. Non c’è vassallaggio. Non c’è postura. Testualizzato, sei finalmente sincero: oggi che manchi. –
– Hai paura? La guerra conchiude ogni vita, ogni sogno si arrende alla morte. Sai tenere a bada la paura che hai? Voglio morire un minuto prima di quelli che amo. La memoria della vita rinasce. Questo è buffo ma è vero che la morte libera parole memoriose di vita passata. Eri il figlio. Crescevi nel secolo già moribondo che portava decubiti. Ma eri un bambino. Non vedevi i decubiti, ti donarono una bandiera rossa, ti portarono a una manifestazione, ti chiesero con chi stai e rispondi Con l’Urss che però aveva un rosso più cupo simile a: nella casa colava sangue rosso di madre, di padre, dalle unghie, dalle guance dell’uomo, dal cranio della donna colpita. L’uomo → odiava ← la donna. E questo era il secolo di Reagan e Heston. –
– Il telefono: descrivi il telefono. Di’ come stava nell’angolo tra la cucina, il corridoio, le stanze da letto, nell’ombra della carta da parati verdegialla dove l’uomo scriveva i recapiti. Il telefono: hai la rotella, la suoneria, hai l’alloggio di ferro, sei grigio di plastica, hai la cornetta pesante che colpì la donna sul cranio dove io vide colare il sangue che non nomina sangue, non è una parola, è proprio sangue, io vide il rivolo rosso dalla ciocca al sopracciglio alla gota. E questo era il secolo di Reagan e Heston . –
– I recapiti avevano sequenze di sette numeri. Non c’era il prefisso. I recapiti erano disegnati nella verdegialla parete. Su quel corridoio c’era il parquet. Anche nella stanza da letto di io. Altrove la casa aveva il marmo ticchiolato nelle sue liste. Il padre spegneva sigarette in una tinozza d’acqua che s’anneriva; nella casa quel nero puzzava di marcio. –
– Molte maestre odiavano. Molte maestre amavano. Più numerose erano le maestre che odiavano. Sintomo della maestra che odia: il grande anello sulla mano che picchia. Sintomo della maestra che odia: lo schiaffo da dietro; non avvisare. E questo era il secolo di Reagan e Heston. –

E Reagan interrompe la carriera politica e Yates – alle pagine duecento venticinque e duecento ventisei – e Blake – alla pagina cento sessanta – concordano che la causa, alcuni diranno la colpa sia di Marty McFly, che per i due autori Reagan incontra solo una volta ma fu sufficiente (biografema 3), quando conversano con parole mute in realtà per i contemporanei e per i posteri che osservano senza chiavi di accesso una figura geometrica quasi perfetta e sigillata forse in un prisma: l’incontro, il dialogo.
E Reagan non commentò e poi morì, e il ragazzo McFly non commentò, e non è mai morto questo ragazzo, e potrebbe affiorare in qualsiasi anno futuro o passato, nel petalo più diverso, in un campo, in un bosco oppure su un ramo, e potrebbe aver confidato a Talleyrand come andò, o potrebbe averlo detto a Lev Davidovič, che fu Bronštejn, che fu bolscevico, in un pomeriggio di Coyoacán, e Trockij forse l’ha riferito in appendice alla nuova edizione della Rivoluzione tradita, o forse lo scrisse nel suo testamento, oppure in una lettera inedita, dunque si consultino gli archivi di Trockij per sapere cosa disse Reagan a McFly e viceversa.
Oppure si guardi con gli occhi di un terzo sguardo che dice che «arriva un giovane di bassa statura» e «non ha appuntamento ma insiste che deve parlare con Reagan», e l’ex governatore l’accoglie, lo invita a sedersi, e «chiudo la porta e torno al mio tavolo», ma passa davvero un tempo brevissimo – neppure un grano di polline – che già «sento le prima grida, il rumore di un oggetto scagliato per terra (un calamaio, scoprirò più tardi), altre urla interrotte da silenzi, forse per riflettere o prendere fiato», quindi pace, non si sente più nulla, trascorre un’ora finché esce McFly e «ha il viso stravolto ma l’espressione di uno che ha ottenuto ciò che voleva», e subito dopo esce anche Reagan, «teso, taciturno, serissimo» .
E la memoria prosegue col dire che «non resisto alla tentazione ed entro nello studio e per terra, vicino al calamaio che ha macchiato la moquette di inchiostro nero, noto una copia del New York Times con le prime pagine strappate, e sulla scrivania del governatore trovo due libri che prima non c’erano: La mia vita e La storia della rivoluzione russa di un certo Lev Trockij, ma non conosco l’autore, solo più tardi scoprirò chi egli sia, mi accorgo che i volumi sono nuovissimi, intatti, appena usciti dalla tipografia, le pagine intonse come i vecchi libri di un tempo, e infatti sono libri vecchi, edizioni in inglese degli anni trenta, ma sono anche nuovi, davvero sembrano stampati da poco, davvero sembrano pubblicati non più tardi di ieri».
– E Reagan all’ombra di una quercia nel suo Rancho del Cielo, vicino alle acque verdi del Lake Luky si sdraiò sull’amaca e lesse dalla voce diretta di Lev Davidovič, che fu Bronštejn, che fu bolscevico, che «ora è tempo che io parli del treno, negli anni più duri della rivoluzione la mia vita fu legata alla vita del treno inseparabilmente, e la vita del treno fu legata alla vita dell’Armata Rossa inseparabilmente, e il treno legava il fronte al quartier generale, risolveva problemi urgenti sul posto, educava, lanciava appelli, ricompensava e puniva», e Reagan vide questa vita grandiosa e terribile, e riconsiderò strutture, sovrastrutture, parole, id est l’interpretazione di un’ideologia, la via hollywoodiana alla trasformazione del mondo. –

– E, accanto alle stalle e al fienile del Rancho del Cielo, Reagan lesse dalla voce diretta di Trockij che «il treno era un apparato volante, un’amministrazione, aveva una segreteria, una tipografia, radio e telegrafo, centrale elettrica, libreria, bagno e garage, compì orbite tra Samara e Pietrogrado, da Smolensk a Rostov sul Don, da Kiev a Žytomyr, dalla Vjatka a Balašov, non si fermò mai, fece trentasei viaggi, centomila chilometri, in tre anni completò cinque volte l’equivalente del giro del mondo, e cosa cercava sui fronti della guerra civile il treno dell’Armata Rossa?, la risposta è ovvia: cercava vittoria, ma cosa portava a quei fronti?, quale metodo seguiva?, i viaggi del treno erano semplici ispezioni?, no, il lavoro del treno era costruire un’armata, educare un’armata, foraggiare e amministrare un’armata», e Reagan vide questa vita grandiosa e terribile, e ne immaginò un film. –
Ed è ancora l’ottanta – sempre più nudo, depilato e sessuale – quando Reagan restituisce la tessera del gran vecchio partito e annuncia di voler riprendere la carriera di attore – «“Reciterò ancora, ma farò meno danni”, e la sala scoppia in una fragorosa risata» – e se la politica perde un protagonista, il cinema acquista una stella, Reagan non torna ma nasce un artista nuovo, si mette al mondo col seme della volontà, nessun ruolo di secondo piano, nessun film inconsistente, nel decennio che segue recita in pellicole che lasciano il segno, come Re per una notte, Fuori orario, Washington memorandum di Martin Scorsese, come Cotton Club e Il dio di New York di Francis F. Coppola, come La scelta di Henry di Robert Redford, come Gli infami di Ridley Scott.
Ed è l’ottantanove – un anno che lancia calendule a un altro ottantanove due secoli indietro e gli dice Non badare all’odore cattivo, viene dalla storia cattiva che sto disseppellendo, ma guardami, noi siamo fratelli, le nostre epoche sono sorelle – quando Reagan vince il premio Oscar come attore non protagonista per l’interpretazione di Heston nell’Assedio di Praga di Jonathan Demme, pellicola che come tutti sappiamo ricostruisce il momento più drammatico della Prima guerra di Heston.
E come tutti sappiamo già nell’ottantaquattro – l’anno della resa dei conti, il fiore distopico si confrontò con la profezia dello scrittore profeta – Reagan condanna con Woody Allen, Robert Redford e Susan Sarandon il militarismo di Heston, e dice Quest’uomo porterà alla rovina gli Stati Uniti d’America, e dice Quest’uomo è un criminale , e nell’attore anziano affiorano il carisma e il senso degli altri che il giovane e l’adulto non ebbero? – il senso degli altri, che bella espressione, anche il più narcisista degli individui arriverà ad ammettere, un giorno, d’essere composto al settanta per cento dagli altri?
– E «avevo paura, come tutti. Ma cercai di rendermi conto di che natura fosse questo sentimento così istintivo, di dove esso scaturisse, come agiva, che cosa lo portava a scomparire d’un tratto così come d’un tratto era entrato in me. La guerra mi diede tutte le risposte che io cercavo. Mi insegnò che la paura è, a suo modo, una dottrina dell’esistenza, una disciplina da imparare. […] Poi occorre saper convivere con la paura per evitare di esserne dominati. Convivere significa vivere insieme senza darsi troppo impaccio reciproco, anzi con un certo grado di disinvoltura. Sarebbe disastroso lasciarsi signoreggiare dalla paura. Si resterebbe schiacciati, le membra e la mente avvinte come nella stretta di un serpente, inerti e disarmati. Ma altrettanto da evitare è il contrario, la spavalderia, la baldanza, lo spregio del pericolo. La paura non si può sfidare» . –
Eppure Reagan matura e si dona negli anni più cupi della storia dell’uomo, tra la desertificazione di culture e città nei conflitti, e nell’incombere di un presidente sanguinario che gli ispira gemme d’arte e la denuncia politica, come accade nei Giorni dell’odio sulla Seconda guerra di Heston che gli vale il Leone d’oro a Venezia, come accade per Il profeta, biopic dedicata alla vita di Lev Trockij, che fu Bronštejn, che fu bolscevico, che Reagan scrive, produce e dirige, e ne interpreta il protagonista – ingobbito, con un accento d’Europa orientale, sguardo tagliente del dotto e rivoluzionario, Reagan regala una prova d’attore –, e la critica concorda nel giudicare Il profeta il lavoro più riuscito di Reagan, e lui stesso nelle sue memorie lo giudica il «film più ambizioso e completo, ma dalla rivoluzione russa e dalla vita di Trockij c’è da imparare così tanto, ma il mio è solo un contributo modesto» , e la locandina europea lo ritrae a bordo del treno dell’Armata Rossa, col pastrano del generale, il pince-nez, la penna in mano, nell’atto di scrivere un appello a combattere uniti, e la locandina nordamericana lo ritrae nel cortile di Coyoacán, vestito di abiti opachi e senili, nell’atto di nutrire conigli, un bastone da passeggio posato nell’angolo.
– E «questa è la paura, qualcosa che prende corpo quando scaturisce una sorgente imprevista di inquietudine che non sei subito in grado di controllare, di definire nei suoi contorni precisi. È la totale assenza di modelli di riferimento che ti sconcerta. La paura entra in te anche nel caso in cui, di fronte a fatti improvvisi, non sei in grado di fare nulla per contrastarli. Questa è l’impotenza dell’attesa» . –
E nell’anno undici di un secolo nuovo – anche questo è ancora un bambino, ma non sappiamo quali libri desideri leggere, forse nessuno, e sembra volubile, intuiamo in questo secolo scatti d’ira che ci preoccupano, che interrompono periodi lunghi di apatia, un’atonia inconsueta per una vita agli esordi, che ha appena compiuto l’undicesimo anno – Reagan muore sulle sponde di Santa Monica, e alle sue esequie civili lo ricorda Robert De Niro per essere stato un artista grande, e un uomo saggio, e un visionario, e un coraggioso, per essere stato un benefattore dell’umanità in tempi cupi e mortali, e Robert De Niro gli augura Riposa in pace, ed è lì che Reagan riposa, nella pace dei giusti.
***
Heston
(Questa biografia è incompleta, il lettore è libero di riempirne gli spazi vuoti)
Uomo politico, presidente degli Stati Uniti (1981-87), attore, premio Oscar (1960). Nasce nel …………………………..…………………………..…………
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………………. la famiglia si trasferisce a………………………………. …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….……………………………………………………………………. già a Broadway, però ……………..…………………………..………………………………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………firma il primo contratto con la CBS nel………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ed ecco Hollywood ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. il film I dieci comandamenti (1956) lo vede …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… …………………………..…………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………… e il premio Oscar con Ben Hur …………………….
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………Partecipa alla Marcia per i diritti civili …………………………..…………………………..………………………….. ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… dopo la morte di Martin Luther King ha una crisi che……………………………. …………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… L’addio di Reagan alla politica……………………. ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… un’opportunità …………………………………………….. ma la riunione del GOP …………………………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
…………………………………………………………………………………………………«dev’essere un attore!» …………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
…………………………..…………………………..………………………….. Clint Eastwood …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..rifiuta…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. Heston accetta………………………………… …………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. sconfigge Jimmy Carter nel …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..presta giuramento …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..il………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. «A viso aperto contro i nostri nemici» ……………………………………………………………………..…………………………..
……………………………………………………………………………Time scrive: «questo discorso è una …………………………..…………………………..…………………………..luce»…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… «l’epoca dell’ipocrisia diplomatica è finita» …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… Time scrive: «questo discorso è una …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..luce»……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. cresce la tensione nell’estate del ………………… ……………………………………………………………..…………………………..…………………………..
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
ma Andropov …………………………………………………….…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………eppure la conferenza di Roma avrebbe potuto ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… il ritiro dell’ambasciatore a Mosca apre una …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. Prima guerra di Heston (1983-85) ……………………………………………………………………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. l’armamento nucleare dei contendenti è ………………………………….…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. il bombardamento di Philadelphia è ……………………….…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. l’evacuazione di Los Angeles è… ………………………………………….…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. la coventrizzazione di Leningrado nel …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 15 milioni di tonnellate di …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 30 milioni di tonnellate di …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..gas…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… «Il peggior sanguinario della storia!» ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………milioni di ……………………………………….…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. «devastante»………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. inutilmente il Papa…………… …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. quando il Dalai Lama…………. ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. e Woody Allen prova a ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. l’appello di Reagan non cade nel vuoto, …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..ma………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. con l’assedio di Praga …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… dopo il crollo del Muro nel …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ad agosto il trattato di pace sembra… …………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..ma………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………………….. «I nostri nemici sopravvivono!»………………………………………………………………………………………………………………………………………… Time scrive: «questo discorso
è una luce»…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………Seconda guerra di Heston (1986-87)…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….dopo la caduta di Bombay ……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..durante l’assedio di …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..Pechino……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..100 milioni di tonnellate di …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. «il peggior sanguinario di sempre!» ……………………………………………….…………………………..
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………Heston si difende ma …………………………..…………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………la petizione di Reagan e Redford apre una breccia al Senato, quando …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… nella riunione tra Powell e lo stato maggiore si decide che…………………………………….. …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. il colpo di Stato del …………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. la destituzione di Heston………………… …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. «Ho agito nell’interesse del…….……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………«la storia mi…. …………………………..…………………………..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. «Dio mi …………………………….…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..…………………………..
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Nota
Qui ho ripreso e modificato due vecchi testi già pubblicati su NI. Quanto ai personaggi descritti: Reagan e Heston sono fittizi, non sono esistiti, ogni riferimento a personaggi reali è puramente casuale. Quanto alla vita storicamente avvenuta di Ronald Reagan: i brani citati tra virgolette sono rielaborazioni di it.wikipedia.org e biografieonline.it. Quanto al treno di Trockij: i brani tra virgolette sono citazioni (da me rielaborate) di Lev Trockij, My Life (1930), Pathfinder, New York 1970.
Temporali
26-27-28 maggio
Venezia
Teatrino di Palazzo Grassi
Ateneo Veneto
Chiostro Liceo Foscarini
Teatrino e parco Groggia
di Angelo Tolomeo
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[La cultura ai tempi del colera]
In piazza Duomo, davanti alla casa Cazuffi-Rella, c’è un uomo che urla ci vuole più cultura, più cultura! e possiede lo sguardo allucinato di chi ha ragione da svariati millenni ma è rimasto inascoltato. Alcuni turisti prendono dei bastoncini e provano a smuoverlo ma lui rimane irosamente piantato sull’acciottolato. L’autobus dei cinesi che sopraggiunge da via Belenzani deve circumnavigarlo per poter procedere su via Mazzini. Una lunga schiera di ragazzini si apre a ventaglio passandogli accanto, forma un gigantesco estuario che investe tutta la piazza e poi dissecca, scivola rapidamente via, in mezzo alle pietre levigate degli angoli. Poi, quando la quota è raggiunta, l’uomo molla gli ormeggi e, con le vele gonfiate dall’implacabile Föhn della val d’Adige, se ne va, con in faccia la rigida fisionomia di un antico marinaio che affronta l’ultimo mare. La salsedine nelle rughe, tra le pieghe delle mani e sulla blusa. Davanti agli occhi solo l’oceano col suo torbido blu e l’abisso da cui tutto ha avuto origine.
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Giovedì 25 maggio, ore 19 – XM24
Sono il fottuto faber
di realtà virtuali
prive di virtù reali
dove i sogni sul piano
inclinato
vanno a zero
perché l’esperimento
basato su un pattern esistenziale
male impostato va male sempre e dovunque.
(Innesti, 1993)
“Ha fatto Harakiri per amore”, hanno scritto sui giornali quando il 3 settembre 2011 si è ucciso Massimiliano Chiamenti, all’età di 44 anni. Lui, che lo avrebbe fatto volentieri in pubblico, alla Mishima, ma non ha potuto.
Sei anni dopo la morte del poeta, punk e filologo, gli amici dalla fanzine Idioteca, di cui era uno degli autori, e della fanzine Lungi da me organizzano una serata di ricordo pubblica e collettiva all’XM24. Chiamenti ha lasciato molti dei suoi scritti, alcuni ancora inediti, alle persone con cui condivideva storie e giornate: sarà questa l’occasione per rileggere alcuni dei suoi testi e ricordarne la ricca e variegata produzione.
Nel corso della serata si alterneranno le voci di chi ha trascorso gli ultimi anni con lui e chiunque voglia dare il suo contributo, o semplicemente venire a conoscere meglio Chiamenti, è benvenuto.
La sua memoria soffre del travaglio di una fine rimasta sospesa tra i tanti mondi che ha vissuto. Firenze, la sua terra natale da cui in fondo è quasi fuggito; l’università e la filologia, che l’hanno respinto; Bologna, la città che lo ha accolto, fra centri sociali, gay club, incontri notturni e cultura underground; ma anche la droga, la solitudine e la vita di strada; e non ultimo, la poesia, la scrittura. Dopo sei lunghi anni di silenzio, gli amici della fanzine Idioteca, su cui Massi aveva anche pubblicato alcuni dei suoi ultimi testi, hanno scelto di riunirsi per rendere finalmente il loro omaggio.
“Massi”, spiegano gli organizzatori della commemorazione, “è stato una presenza importante per il nostro gruppo: giovani universitari alle prese con l’autoproduzione e la scrittura, abbiamo incontrato in lui, molto più grande di noi, un “autore vero”, con un’esperienza alle spalle che noi potevamo solo sognare. Abbiamo però conosciuto anche una persona complessa, alle volte era difficile stare insieme: la droga, le provocazioni, il difficile rapporto con se stesso. Per noi è stato prima di tutto un amico e per questo abbiamo voluto questa serata: riscoprire il suo ricordo è stato in fondo una maniera per ritrovarci, dopo anni di vite diverse”. Proseguono Alice e Jacopo di Idioteca: “ L’obiettivo della serata non è quello di fare una lezione o una lettura convenzionale. Sappiamo che ci sono pezzi di lui e di suoi scritti sparsi per tutta Bologna e vorremmo trovarci per raccoglierli. Vorremmo scrivere una storia, questa volta la sua, in maniera collettiva e partecipata, proprio per riscoprire questa memoria di Massi diffusa per la città”.
Massimiliano Chiamenti – Nato a Firenze il 17 novembre 1967, è morto suicida a Bologna il 3 settembre 2011, si è laureato all’Università di Firenze in Filologia con Domenico De Robertis e in seguito ha proseguito con l’attività universitaria, dimostrandosi filologo e dantista serio e documentato. Voce emergente della poesia negli anni della New Wave fiorentina degli anni Ottanta, e della cultura rave nei Novanta, si distingue tra i rappresentanti della poesia del movimento gay e della sua generazione per le radici classiche e anglofone delle sue produzioni, . Chiamenti si è a lungo occupato anche di musica, essendo stato fra l’altro frontman della band di poesia performativa “Emme”.
Fra le sue opere ricordiamo: Maximilien (City Lights Italia, 2000) in collaborazione con Lawrence Ferlinghetti, Le teknostorie (Zona, 2005), Scherzi? – raccolta di racconti (Giraldi Editore, 2009) evvivalamorte (Le Cariti 2010).
INFORMAZIONI
Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/692334874284970/
Organizzatori:
Jacopo Frey 3331462993 jacopofrey@gmail.com
Alice Diacono cell 3477583800 alice.diacono@gmail.com

di Julien Lumière
traduzione di Davide Gallo Lassere
Solo le circostanze eccezionali della campagna presidenziale paiono poter spiegare l’ascensione di Emmanuel Macron. Quando fondò il movimento politico “En Marche !” poco prima di abbandonare il governo, le attenzioni erano infatti rivolte a destra, verso Alain Juppé, la cui esperienza, calma e spirito conciliante diffusi dai media promettevano il successo alle primarie e in seguito alle presidenziali. A sinistra, invece, ci si preparava alla sconfitta, dal momento che non era immaginabile che François Hollande rinunciasse alla sua rielezione né che Manuel Valls si presentasse alle primarie come candidato del rinnovamento. Ora, entrambe le cose sono avvenute, a beneficio del candidato di “En Marche !”.
di Orazio Labbate
Il mio nome è Rufus Wright e sono il becchino di Oakdale da quasi vent’anni. Vivo sepolto in una bara da ormai sette mesi e aspetto di morire. È autunno e il tornado appena arrivato dalle coste dell’ovest mi ammazzerà nonostante la cassa sia in legno di quercia, l’imbottitura a sacco in raso nero, il cuscino di seta porpora profumato di crisantemi, il cofano sia lavorato con tessuti di pregio. Discendo da una famiglia di necrofori che possiede da cent’anni la Franklin Wright & Sons’ Funeral Home. Ho imparato l’arte del becchino sin da piccolo. Franklin, mio padre, mi ha insegnato a vestire i corpi freddi perché non avessi timore del contatto, a guardarli dritto negli occhi per sapere dove andranno nell’aldilà, a seppellirli nelle fosse per sconfiggere presto la paura del cimitero. Ricordo che alla fine di una di quelle lunghe giornate di apprendistato, quando ero già a letto, Franklin usava dirmi: “Rufus, ricorda che gli occhi di un cadavere ti fanno vedere l’anima del dipartito nell’aldilà”. Io gli rispondevo: “Padre, li guarderò tutti e nei tuoi scorgerò il Paradiso”. Mio padre era alto come gli angeli di pietra dei cimiteri, aveva il naso come il becco della maschera dei medici della peste. Il viso, scavato, possedeva ossa puntute. Mio padre era un serafino scheletrito. Franklin purtroppo è morto il giorno stesso in cui ho deciso di farmi seppellire. L’ho trovato di notte nell’agenzia funebre di famiglia. Le luci erano spente e stava disteso per terra con la bocca spalancata ai piedi di una bara aperta. La fiamma rossa dei lumini vibrava nel buio della stanza e l’ombra del coperchio della cassa era proiettata sul muro. Mi sono piegato e ho provato a guardare didentro gli occhi di Franklin, come mi ero promesso da ragazzo. Nelle orbite di mio padre c’era l’Inferno. In quell’istante pensai: “Eppure Franklin non era un uomo cattivo, amava addirittura i cani che dormivano davanti alle lapidi. Nutriva le bestie con gli scarti del macellaio McCulloch durante la veglia cimiteriale”, continuai inquieto, “forse tutti noi, Wright, siamo condannati a discendere agl’inferi poiché lavoriamo coi morti?”. Non volevo morire senza sapere cosa vaticinassero i miei occhi, con la paura di lasciare la mia famiglia esposta a un’eventuale immagine orribile di me nell’aldilà. Così chiesi ai miei due fratelli assistenti, Nathaniel e Mortimer, l’unica mia famiglia, di rinchiudermi in una bara insieme ad uno specchio di cortesia d’argento affinché possa rifletterci l’iride un secondo prima della mia morte e soffrire da solo della mia visione infernale qualora si fosse mostrata.
Ci siamo subito occupati del cadavere di nostro padre in modo da essere liberi in vista della mia sepoltura. Abbiamo unto Franklin con del balsamo aromatico per preservarlo dalla putredine, l’abbiamo avvolto con un lenzuolo nero che utilizzava le prime notti di riposo come giovane guardiano del cimitero di Oakdale. Poi Nathaniel l’ha adagiato in una bara di frassino e Mortimer per ultimo ha posizionato la cassa nel cofano della Pilato Mercedes che ha guidato fino al cimitero. Ho aperto con difficoltà il cancello del cimitero con la chiave rugginosa che nonno Jedediah diede a mio padre e che Franklin affidò a me. Il cielo stellato veniva piano offuscato dai cumulonembi mentre il vento che vorticava veloce davanti ai mausolei annunciava un ciclone. Le stelle stavano per essere deglutite dalla tempesta. Io Nathaniel e Mortimer abbiamo caricato sulle spalle la bara e percorsi tutti i vicoli siamo arrivati nel mausoleo della nostra famiglia. La stanza all’interno era adornata di candele cerimoniali, l’involucro dei lumini, posizionati sul coperchio di marmo della tomba di nonno Jedediah, colorava il luogo di rosso melograno. I fiori rilasciavano un odore di polline invecchiato. Ho sollevato dalla bara, aiutato da Nathaniel, il corpo di Franklin e dolcemente l’abbiamo fatto riposare nella sua tomba. Mentre noi uscivamo dal mausoleo Mortimer si occupava di incassare bene la pietra tombale marmorea e di chiudere il cancelletto della stanza. Ultimate le incombenze sepolcrali ci siamo diretti nella camera obitoriale nella quale Franklin custodiva le nostre tre bare in vista di un ipotetico funerale. Una volta arrivati, Nathaniel mi chiese: “Rufus, vuoi che utilizziamo una di queste o ne vuoi una di frassino?”. “Nathaniel voglio quella di quercia al centro, con le imbottiture purpuree”. “Che tipo di chiodi preferisci: chiodi da carpentiere o chiodi da falegname?”, mi domandò Mortimer mentre apriva il cassetto degli attrezzi. “Chiodi di rame per falegname”. Intanto che loro lavoravano, io mi premuravo a rubare lo specchietto di cortesia d’argento di mamma che Franklin conservava nella The Hall’s Safe Co, la vecchia cassaforte di Cincinnati che nonno gli aveva regalato per il suo sessantesimo compleanno. Mamma si chiamava Rosemary ed è morta di cancro quattro anni fa. Franklin non si è più ripreso, passava il tempo in agenzia nello stanzino delle bare a guardare nello specchietto d’argento credendo di vederla alle sue spalle nell’atto di baciargli la testa. Mio padre ha smesso di non avere paura della morte quando Rosemary è morta. Aperta la cassaforte ho raccolto lo specchietto inserendolo nella tasca interna della mia giacca nera e ho preso anche una matita nera che ho conservato senza pensarci. Il mio riflesso era metà scuro metà illuminato. La candela rossa sul tavolo da lavoro accendeva la mia faccia. Nella camera obitoriale Nathaniel e Mortimer avevano finito di preparare e imbottire la bara. “Rufus, sei sicuro?”, disse Mortimer. “Sì. Sono pronto fratello.”. “Allora Rufus, adagiati nella cassa. Prendi questo rosario, questa manciata di semi di girasole per smorzare la fame e quest’accendino. Ci vediamo in Paradiso, Rufus, non preoccuparti. Ti vogliamo bene”. Mi sono sdraiato all’interno della bara con in mano lo specchietto d’argento di mamma. I cuscini e il velluto dei rivestimenti mi accarezzavano il collo, sentivo la morbidezza del poggiapiedi di seta. Nathaniel cominciava a rinchiudermi dentro, vedevo il coperchio che nascondeva alla mia vista il soffitto della camera mentre i chiodi penetravano agli angoli inferiori e superiori della bara. Poi il buio. Solo qualche rivolo di luce appannata penetrava da dei piccoli fori applicati da Mortimer sulla cassa perché di tanto in tanto respirassi. Sentivo oscillare la cassa come un neonato nella sua culla. Fuori cominciava a piovere e il vento cresceva di forza. L’acqua entrava leggermente dai buchi. La bara vibrava quando i tuoni suonavano in cielo.
Poi ho sentito il tonfo del suolo e la bara nella sua fossa. Subito dopo grappoli di terriccio seguitavano a sbattere contro il coperchio come grandine e infine un massiccio botto sul coperchio dichiarava la fine della mia sepoltura segno che dell’argilla riposava sulla bara. Ero finalmente sotto terra.
Come vi ho annunciato sono passati sette mesi da quel giorno e il mio ventre si fa scheletrico. Il mio cuore è una piccola bara. Vuole fuoriuscire ma è inchiodato e destinato presto a spegnersi sottoterra. Qui, per non impazzire, ho inventato il sole. Il sole che mi immagino quando muovo la fiamma dell’accendino verso il coperchio. Mi sento in una celletta abbandonata di un’abbazia vuota. Nei bisbigli del vento sento le ninna nanne che Rosemary mi sussurrava da bambino. Infastidito dai rumorini del legno della bara sollevo un occhio e sogno che la luna vuole entrare. Ah, la luna, qui sotto non esiste. La mia camicia bianca, ai polsi è annerita. E ho un unico grande ricordo, quello del soffitto della stanza obitoriale, dei miei fratelli che mi sotterrano, degli occhi infernali di mio padre. Nella bara l’aria cade sottile. Le mie labbra procedono a rattrappirsi e torco il polso perché le ossa si possano distendere. Il legno subisce la terra che grossa sfonda lentamente le assi bagnate. La mia schiena sprofonda.
“Sto annegando nella terra bagnata”, penso. “Ti ho offeso Dio per meritarmi l’Inferno? Tale pena perché sono un becchino?”, urlo. Frattempo tremano particelle di legno. Il legno di quercia soffre i cedimenti delle stagioni passate. “Dove sei, Dio? Sei sottoterra?”, grido di nuovo. Pezzettini di terra si insinuarono nelle mie pupille e comincio a dibattermi nell’adagio triste tipico di un pesce in superficie. Mi manca l’aria. Il pesce dei Wright buttato in una bara. Dal di fuori arriva il boato del tornando autunnale che si abbatte contro le lapidi che perdono pietra e marmo. Mi chiedo con la voce ormai stanca: “Chissà dov’è finita Rosemary? È anche lei all’Inferno?”. Mi concentro sulle mie scarpe di cuoio, sento i muscoli ammalarsi in uno strappo. Perdo forza. Le scarpe di cuoio stritolano i miei piedi. I capelli ricadono davanti a me scomparendo nel fondo della bara. Tasto le profondità del terriccio penetrato adesso vicino ai miei fianchi. La fame m’ammazza. Sono finiti i semi di girasole da ormai tre mesi. Divoro insetti e cose alle quali ho strappato le ali. Prima di prendere lo specchietto passo questi ultimi secondi con gli occhi chiusi, mi invento le stelle che disegno con una matita sul legno della bara e creo divinità che stavolta mi daranno il Paradiso negli occhi, penso alla mia famiglia che spero avrà negli occhi il Paradiso. A mio padre che a breve rivedrò piangere nel buio dell’Inferno ma che non accarezzerà i cani del cimitero di Oakdale. Avvicino lo specchietto d’argento, i polsi tremano, le palpebre si stanno chiudendo, decido alla fine di non riflettermi. “Chi se ne importa dove andrò, in questa vita ho amato bare e uomini alla stessa maniera”, penso. Il tornado inizia a strappare le radici degli alberi sopra di me. Lascio lo specchietto d’argento tra le mie mani arrese come quelle di Cristo tra le braccia di Maria. Stringo lo specchietto e finalmente dico grazie all’ultimo respiro che mi è rimasto: “Dio, Franklin, Rosemary, Nathaniel, Mortimer. Vi voglio bene”.
di Marosia Castaldi
“Ciò che perpetuamente scorre, costringe a una moralità” (Robert Walser). Con questo ex ergo si apre il libro di Alberto Rollo sulla “sua” e “su” Milano
Perché, come dice l’autore, non esiste una ma mille Milano. Non una ma mille morti sperimentiamo ogni giorno ogni notte della vita, come diceva Shakespeare
E il nostro teatro è il paesaggio in cui viviamo che porta nelle sue viscere la nostra morte, le nostre morti, la nostra vita, le nostre vite