Home Blog Pagina 166

Quando mi apparve amore – Domenico Conoscenti

0

Anteprima della raccolta di racconti di Domenico Conoscenti

copertina

 

da Sotto(p)pressione

 

Quando lui finalmente mi dà un appuntamento a casa sua, io, cioè il mio personaggio dice fra sé “è fatta, per stasera sono a posto”.

 

In che modo vi siete, anzi, si sono conosciuti?

 

L’ho visto passare due volte alla Vucciria. La prima è di sera, io sono davanti alla Taverna Azzurra, tra una marea di gente, il bicchiere in mano, con due amici; si sono accorti che io e lui ci siamo guardati e sghignazzano e ammiccano con le sopracciglia. La seconda volta è un sabato pomeriggio – andavo a incontrare uno, l’ultimo beccato in chat – e stavolta pure ci veniamo incontro e ci fissiamo; io mi giro, dopo che è passato e imbocca via Argenteria, e gli guardo il culo, che però è coperto dalla maglietta. Si vede nell’inquadratura lui che si allontana fra le bancarelle e le balate della Vucciria e poi la mia faccia mentre lo guardo fisso, cioè mentre guardo l’obiettivo.

 

Quand’è che vi parlate? Chi piglia l’iniziativa?

 

Ah io, certo. Lo fermo la terza volta che lo incoccio, non mi faccio scappare questa occasione, poteva essere l’ultima e allora addio. È una mattina di ottobre piena di sole, ma quello che ci diciamo non lo so, perché in questa scena ci sono io che, non appena lui mi passa accanto e ci guardiamo di nuovo, lo fermo, ma le parole non si sentono, si sentono le voci dei venditori e della gente per strada e il traffico di via Roma. Lui mi ascolta, guarda che ora è, dice qualchecosa, poi parlo di nuovo io, sempre guardandolo negli occhi, lui fa un’espressione imbarazzata come a dire “mi dispiace”. Io allora, figlio di buttana, sfodero un sorriso dei miei e riprendo a parlargli e appoggio la mano sul suo braccio, lui è indeciso, si vede, alla fine però sorride pure lui e andiamo verso la rosticceria mentre io mi accendo una sigaretta.

Le parole che dico quando lui se ne va, quelle dell’inizio, è fatta, per stasera sono a posto, sono le sole che si sentono di quel terzo incontro, e fuoricampo. Io però non so se le scene saranno montate come te le ho contate oppure il video comincerà col primo appuntamento a casa sua e dopo si vedranno in flashback gli incontri di prima. Non lo sa manco il regista. Forse non ce lo vuole dire… Boh… quello è uno strano.

 

Dopo, c’è l’appuntamento a casa sua

 

Ah sì! Tu vuoi sapere di questa scena, ma… vedi, il fatto è che non l’abbiamo girata. È la verità, ti giuro, ti stranizzi tu, figùrati io che ci sono in mezzo… Dunque, c’è la scena di me che mi avvicino a casa sua, salgo le scale, suono il campanello e si apre la porta: si vede la luce che si disegna per terra sul pianerottolo con l’ombra di lui, io che sorrido, entro, ma la camera resta fuori, praticamente chiudiamo la porta in faccia all’obiettivo. E poi abbiamo girato la scena dopo, di me che scendo le scale, esco nel vicolo, mi accendo la sigaretta e cammino con la faccia che non si capisce se sono incazzato o preoccupato, se sto pensando solamente ai cazzi miei, se non sto pensando a niente di niente e insomma io cammino da solo per i vicoli alla luce dei lampioni che hanno l’umido attorno come una boccia di luce appannata e stringo le spalle come se avessi brividi di freddo, svolto un angolo e resta per qualche secondo l’inquadratura della strada di notte senza nessuno, solo due cani che si avvicinano ai sacchetti dell’immondizia e un autobus vuoto che passa di corsa. Questa scena lo stravagante me l’ha fatta rifare un sacco di volte per via di quelle minchia di espressioni che lo sapeva solo lui come dovevano essere.

Ma, come puoi immaginare, la scena dell’incontro a casa sua non esiste. Secondo il regista non ero pronto per girarla. Ne abbiamo discusso da solo a solo, più di una volta, a lungo, guardandoci negli occhi, mi ha fatto leggere certe cose sue, mi diceva quello che pensava e voleva che pure io gli parlavo di me e restava ad ascoltarmi in silenzio, anche quando non parlavo, alla fine ha acceso la videocamera e mi ha detto: “Ora racconta ai tuoi amici che cosa è successo quella sera… cominciamo, dài”. Hai capito che tipo?

 

E tu racconti ai tuoi amici la scena che non è stata girata. Com’è?

 

Guarda, neanche il regista conosce questa versione, sarà la sesta volta che la rifaccio, ogni volta restava freddo, ripeteva che io e le mie parole non eravamo la stessa cosa…

Dunque… Io, per la verità, sono un poco incazzato e un poco stranizzato a raccontare ai miei amici che cosa è successo quella sera… Sono entrato con lui in una stanza dove c’era un tavolo con un piccì acceso, libri e un quaderno aperto, e mi sono seduto su un divanetto, mentre lui si metteva su una sedia di fronte a me. Abbiamo parlato, mi ha chiesto cose su di me, quello che faccio, che voglio, e man mano mi diceva pure lui quello che pensava e che voleva. Niente collegamenti a siti porno, niente proposte di video o di cassette. Era strano lui… Io volevo scopare. Quando si è alzato – aspetta, ti prendo qualcosa da bere – mi sono messo di fronte a lui fissandolo negli occhi e senza incertezze ho incollato le mie labbra alle sue e ho preso possesso della sua bocca.

 

 

……………………

 

Domenico Conoscenti (Palermo 1958), dopo l’esordio con Qui nessuno dice niente, diario di un anno di insegnamento in un carcere (Marietti 1991), ha pubblicato il romanzo La stanza dei lumini rossi (e/o 1997, tradotto in tedesco da Berlin Verlag nel 1999 e ripubblicato da Il Palindromo nel 2015); un libretto di versi Per raggiungerti in strada (Edizioni della battaglia 2000) e a dicembre 2016 Quando mi apparve amore (Mesogea).

 

 

 

 

 

waybackmachine#03 Sergio Garufi “Titoli”

5

Ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani, e che ci sembra possano dirci ancora qualcosa dell’attuale : che ancora ci parlano, ancora aprono interstizi tra le maglie del presente, ancora muovono la riflessione.

3 marzo 2008

SERGIO GARUFI “Titoli””

Non so se esiste una storia dei titoli in arte e letteratura. Una trattazione breve ma abbastanza esaustiva riguardo ai libri l’ha fatta Gerard Genette in Soglie. I dintorni del testo, partendo dagli interminabili titoli barocchi per arrivare fino alla brusca concisione di quelli novecenteschi, ed elencandone le funzioni principali (identificazione dell’opera, designazione del contenuto, valorizzazione). Umberto Eco, nelle Postille al suo primo romanzo, spiegava la genesi di quel titolo, di cui fu corresponsabile – come accade spesso – il suo editore. Vennero rifiutati titoli troppo neutri, che prendevano a prestito il nome del protagonista, come Adso da Melk (il preferito dall’autore); o titoli più banali, come L’Abbazia del delitto, che lo faceva somigliare a un giallo di serie B. La scelta finale fu azzeccata, Il nome della rosa è una chiave di lettura appropriata, per le valenze nominaliste a cui rimanda l’esametro latino finale e perché resta sufficientemente vago da non precludere ulteriori percorsi ermeneutici.

Un bel titolo spesso contribuisce al successo di un libro. Si pensi a Viaggio al termine della notte o a Cronaca di una morte annunciata, che come La Settimana enigmistica misurano il loro successo dal numero infinito di imitazioni che ne sono state tentate. A volte restano in mente per la perfetta capacità di sintesi: si veda il sublime depistaggio de L’Uomo senza qualità (che invece ha un sacco di qualità), l’ironia antinomica del saggio borgesiano Nuova confutazione del tempo (ironia e antinomia espresse entrambe dall’aggettivo), il divertente non sense di Storia della pittura universale in tre volumi di Benezet (che in verità è un libriccino in cui non si parla di pittura), il cupo Gioia di vivere di Zola e infine lo splendido ossimoro de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Curioso è pure il deliberato errore de Le api migratori di Andrea Raos, che nel cambio di genere riflette grammaticalmente la mutazione genetica subita dagli insetti.

Nell’arte rinascimentale non si usava titolare le opere. Al più le si descrivevano, come nei tanti registri dei collezionisti dell’epoca, che si limitavano a illustrarne il soggetto principale e a indicarne l’autore. Fra i numerosi dipinti che ci sono giunti privi di indicazione, alcuni fra i più famosi sono la Tempesta di Giorgione, la Flagellazione di Piero della Francesca, il Cristo morto del Mantegna e le Cortigiane del Carpaccio. Curiosamente, proprio i titoli che in seguito sono stati attribuiti a queste opere sono indicatori dei contenuti che questi dipinti si supponeva veicolassero.

Riguardo al primo dipinto, viene generalmente indicato così proprio per evidenziare il fatto che sarebbe privo di un soggetto preciso; per cui, non essendoci alcun rapporto fra scene sacre o mitologiche e la coppia con bimbo immersa nel paesaggio, si è posto l’accento sul lampo che squarcia le nubi, quasi a suggerire che si tratti di un semplice pretesto del pittore che, in assenza di precise indicazioni del committente (o addirittura in assenza del committente), aveva dato così libero sfogo alla sua fantasia. Salvatore Settis, in uno splendido saggio intitolato La Tempesta interpretata, pare aver sciolto l’enigma, riconducendo le tre figure principali ad Adamo, Eva e Caino, e rinvenendo nella città turrita l’Eden perduto e in un apparente ramoscello adagiato sul terreno il celebre serpente responsabile della loro caduta.

Su quella appassionante sciarada che è la Flagellazione di Piero si sono scontrati parecchi studiosi, soprattutto riguardo all’identificazione e alle ragioni del dialogo fra i tre misteriosi personaggi in primo piano. Federico Zeri e Pope-Hennessy ci vedevano la rappresentazione del Sogno di San Gerolamo, così come viene raccontato da quest’ultimo in una lettera a Eustochio; mentre Ginzburg e la Ronchey rintracciavano precisi riferimenti alla caduta di Costantinopoli e alla fallita riconciliazione tra chiesa d’Oriente e d’Occidente. Ma anche la Pala Montefeltro a Brera viene chiamata da alcuni (Ronald Lightbown) Sacra Udienza e da altri (Eugenio Battisti) Sacra Conversazione, a seconda che la si legga come la presentazione di Federico di fronte al Tribunale Divino o come l’omaggio postumo del Duca alla moglie Battista Sforza.

La maggior parte delle interpretazioni concernenti Il Cristo morto del Mantegna sottolinea la volontà dell’artista di umanizzare la scena rendendocela familiare; e difatti Gesù viene osservato dallo spettatore nello stesso modo con cui vedrebbe un parente nella camera mortuaria; cioè entrando nella stanza e guardandolo disteso dalla parte dei piedi, per poi accostarsi di fianco a compiangerlo come fanno i tre personaggi a margine. E tuttavia in una lettera del 1504, in cui il figlio di Mantegna raccomanda ai Gonzaga di Mantova l’acquisto delle opere del padre rimaste in bottega al momento della morte, questi lo descrive come Cristo in scurto, facendo così pensare a un mero esercizio tecnico, un semplice – seppur sommo – esempio di virtuosismo prospettico, senza tutte le implicazioni che gli abbiamo attribuito in seguito.

Le Cortigiane del Carpaccio dovrebbero chiedere i danni ai loro esegeti. Ne hanno dette di tutti i colori a ‘ste povere donne, colpevoli solo di annoiarsi un po’ nell’attesa del ritorno a casa dei rispettivi mariti, impegnati in una caccia in laguna. Finché non si scoprì (credo per merito di Federico Zeri) che il quadro del Museo Correr era solo la metà di un dipinto più grande, di cui la parte superiore stava al Paul Getty Museum di Malibù, le figure femminili del dipinto veneziano erano concordemente identificate come due zoccole di alto bordo (e le chiamo “zoccole” perché pare che questo sinonimo di “prostituta” sia debitore proprio delle loro calzature). Cristina Campo con la sua proverbiale, sublime perfidia, le paragonò a delle veline, dicendo che in loro si avverte addirittura “la profonda storia di un vuoto, dell’orrore ovattato dell’ozio, sbriciolato dal tedio, l’orrore della bellezza inutile, più vuota di una vuota conchiglia”.

Nel caso del Convito in Casa Levi del Veronese la scelta del titolo è stata fondamentale, nel senso che ha protetto l’autore dalle terribili accuse dell’Inquisizione. La lettura del verbale del processo che gli venne fatto da frate Aurelio Schellino il 18 luglio 1573 nella chiesetta di San Teodoro a Venezia (e poco dopo toccherà al Tintoretto) è impressionante. Gli viene chiesto conto di ogni personaggio strambo presente nella scena: il servo, i nani, i buffoni e gli imbriaghi che popolavano quella che doveva essere una compunta Ultima Cena, e lui cerca di giustificarsi con la celebre frase “Nui pittori si pigliamo licentia che si pigliano i poeti et i matti”, ma alla fine solo il cambio del titolo lo salverà. E in fondo quel cambio non era neppure una ritrattazione, dato che per il Caliari, che fu l’inventore di questo genere pittorico, una cena valeva l’altra (tant’è che in un passo dell’interrogatorio confonderà un banchetto delle Nozze di Cana con un’Ultima Cena).

A ben vedere certe opere d’arte hanno pure i titoli di coda, tali e quali ai film. E’ il caso della Cappella degli Scrovegni a Padova. Il ciclo di affreschi è costruito come un crescendo di pathos, ma proprio sul più bello, poco prima di uscire, quando si guarda la controfacciata, ci si accorge che Giotto ha dipinto, subito sopra il Giudizio Universale, due angioletti che stanno arrotolando il firmamento, quasi a rivelarci che tutto l’ambaradan è solo un’elaborata finzione, che la pipa è mica una pipa.

Alberto Burri, e come lui molti artisti contemporanei, si rifiutò di fornire chiavi di lettura alle proprie opere, intitolandole con numeri, o con i nomi dei materiali, o con le tecniche usate, lasciando liberi i fruitori di scorgerne il senso più affine alla propria sensibilità; e forse anche per questa ragione, per questa indeterminatezza, incontrò all’inizio della sua carriera notevoli difficoltà. Perché, in genere, gli amanti dell’arte pretendono che il titolo indichi, o perlomeno evochi, una spiegazione del senso ultimo dell’opera, ossia che li sollevi dall’arduo compito di rinvenirlo da soli; e proprio questa esigenza del fruitore si scontra invece col desiderio dell’autore, che tende naturalmente a non delimitare troppo i margini interpretativi, precludendo così altre possibili chiavi di lettura.

A proposito di questa contrapposizione, vale forse la pena ricordare un aneddoto divertente relativo ad Hans Arp. Si narra infatti che l’artista, di fronte alla richiesta del visitatore di una mostra di conoscere il titolo (e implicitamente il significato) di una sua scultura che ne era priva, perché intenzionato ad acquistarla, rispose: “forchetta o buco di culo, a seconda”. Superfluo aggiungere che l’opera rimase invenduta.

 

waybackmachine

Elogio del politeismo – Maurizio Bettini

0

Prix etranger embargo-Couv avec Bandeau M. Bettini -defIntervista a Maurizio Bettini

a cura di Francesco Forlani

Classicista e scrittore, Professore di Filologia Classica all’Università di Siena, dove ha fondato il Centro “Antropologia e Mondo antico”, curatore della serie “Mythologica” presso Giulio Einaudi Editore e collaboratore di Repubblica, Bettini ha ottenuto il Premio Bristol des Lumières per L’Elogio del politeismo, appena tradotto in francese.

Che cosa ha potuto sedurre il pubblico francese, o almeno la giuria che ti ha attribuito il Prix Bristol des Lumières 2016?

Credo l’approccio generale, l’approccio illuminista dell’impianto, abbastanza laico, decisamente relativista, un libro sicuramente capace di trattare la religione come un fenomeno culturale simile ad altri il che non accade quasi mai: in genere, quando si parla di religione, si dice “beh quella è un’altra cosa”, invece è una cosa di cui si può e si deve parlare, che si può comparare, studiare…

All’inizio citi Tabucchi sul dubbio, su come la letteratura sia sostanzialmente politeista. In un’epoca del Si/No costituzione, questa apologia del forse potrebbe essere una soluzione…

Se non è una soluzione è perlomeno una premessa nel senso che se c’è un dubbio si apre un credito, uno spazio dentro cui mettere le proprie opinioni, le proprie riflessioni. Sono stato per tutta la vita uno studioso: quando uno studia sa per forza quando comincia ma non sa come va a finire. Tutti sanno o vogliono sapere sempre tutto: il referendum è stato un esempio, tutti sapevano già come sarebbe andata a finire, a prescindere da cosa sarebbe veramente successo, da ogni riflessione seria sul cosa si sarebbe andati a votare. Questo è l’atteggiamento generale. La questione delle religioni mi sembra più difficile da tenere perché se si parla ai giovani monoteisti c’è una nozione di fede che è una nozione completamente sconosciuta… non esiste la fede negli dei, esiste questo atteggiamento di “patto”, diciamo, di fede, di cessione totale di sé alla divinità che è sconosciuto, per cui è difficile partire da questo dubbio, da questa apertura di credito. Ecco quello che ho cercato di fare.

Perché nel libro scrivi dei con la minuscola e Dio con la maiuscola? Scelta tipografica o scelta filosofica?

Filosofica, ma anche tipografica. Quando si parla di Apollo che è un dio, viene scritto con la minuscola però spesso dietro alle minuzie ortografiche e grammaticali ci sono dei problemi culturali giganteschi, su tutti la questione del nome di Dio. Assistiamo al paradosso che mentre nelle religioni antiche gli dei hanno nomi propri, si chiamano Zeus, Atena, Afrodite, come se fossero umani, nelle religioni monoteiste, il Dio si chiama come lui, Dio, questo anche per le religioni islamiche, l’ebraismo. Di Dio ce n’è uno solo, quindi è inutile andargli a cercare un nome, perché tanto è lui e basta. Il paradosso linguistico è che mentre posso tradurre Zeus con Jupiter, che è come se io traducessi Francesco con Maurizio, un nome proprio con un altro, diventa impossibile tradurre il nome comune dio da una religione a un’altra. Come paradossale è il secondo comandamento, “non nominare il nome di dio invano”, se non lo puoi proprio nominare, come faccio poi a nominarlo invano?

Schermata 2017-04-01 alle 11.05.25

Penso alla storia di Nathan il saggio e del re che dovendo dare in eredità il proprio anello pur di non arrecare dispiacere ai suoi tre figli ne fa realizzare due copie perfette: nessuno dei figli però sa qual è quello l’autentico. Una bellissima mediazione linguistica oltre che culturale. Questo secondo te avviene anche passando da Egitto, Grecia, e Impero Romano?

Certo questa è la posizione degli spiriti illuminati, perché bisogna sempre distinguere le religioni dalle persone, le religioni dalle correnti religiose. Gli spiriti più illuminati chiaramente rifiutano questa esclusione, modello esclusivo della divinità è l’eredità, l’esempio dell’opera di Lessing che hai citato è perfettamente calzante. Posizione verso cui tende lo studioso che mi ha molto ispirato che è Jan Assmann, grande egittologo, autore di Non avrai altro dio in cui esprime proprio questo auspicio, questa speranza, cioè che si torni a quel modello settecentesco in cui esiste una religione spirituale che è comune a tutti i vari monoteismi e distinta nelle singole religioni. Chiaramente una soluzione possibile ed auspicabile a condizione che ci sia però anche la possibilità di non avere nessuna religione. Il problema però è che poi tutto ciò urta contro la tradizione, le convenzioni e anche quanto c’è effettivamente scritto nei testi sacri. C’è un intero capitolo dedicato a questo, tra l’altro con molti riferimenti all’attualità francese: il Ramadan, se è giusto o no applicare la pena della lapidazione a una donna. È un problema di scritture, dice. La religione antica invece ti insegnerebbe come fare. Non esiste niente di vincolante. E questo è un’enorme fonte di libertà. La religione poi si realizza, si esplica in pratiche, tradizioni, leggi, però non c’è un momento in cui Dio è venuto ed ha detto: si fa così.

Un concetto-paradigma importante è l’Interpretatio. Puoi dirci qualcosa di questo concetto?

L‘Interpretatio è un’espressione che venne usata una volta da Tacito e funziona così: di fronte a una divinità straniera c’è la possibilità di interpretarla, cioè di tradurla in una divinità locale, nostra, e di stabilire un’equivalenza per cui per esempio Tacito dice che due divinità abbastanza oscure della Germania, gli Alci, nell’Interpretatio romana, siccome sono due fratelli gemelli, sono interpretati come Castore e Polluce. Questo è un processo costante in tutta la religione antica , ma non si può fare nelle religioni di tipo monoteistico: è impossibile dire il mio Dio cristiano è traducibile nel tuo Dio islamico, scatta subito una bar- riera. E’ esattamente l’opposto nel mondo antico dove c’è una grande apertura verso gli dei degli altri, i quali non vengono mai considerati falsi dei, demoni, idoli senza vita e senza poteri, cosa che accadrà nelle religioni monoteiste. Sono in realtà divinità a tutti gli effetti, che posso addirittura non solo interpretare con le mie, e dire non so, Demetra e Iside (l’una greca, l’altra egiziana) ma anche importarle nel mio proprio olimpo, iniziando ad adorare un dio straniero. Per esempio a Roma è una costante: Asclepio, il dio della medicina viene dalla Grecia, Mater Magna, divinità di Pessinunte, viene dall’Asia minore, poi arriverà Iside, insomma c’è tutta una specie di libero mercato….

Foto del 23-11-16 alle 17.04Come per il campionato di calcio, no?

Bravissimo, si possono arruolare i campioni. E proprio per lo scopo per cui si prende un buon centravanti, che si ha bisogno di quella figura lì. A Roma non c’era la divinità della malattia, della salute, allora Asclepio sembrava fare al caso loro e l’hanno importato. Questo che risultato dà? Che non ci si fa mai la guerra per gli dei. A che pro farsi la guerra per distruggere il dio degli altri, quando lo si può accogliere e rispettare tranquillamente?

Tu citi Hegel, cioè il monoteismo della ragione e del cuore e il politeismo dell’immaginazione e dell’arte. L’associazione mi è venuta, forse folle ma ci conosciamo da anni, con il capitolo del presepe dove tu ti occupi della crèche. Nel presepio settecentesco napoletano, quindi non quello di San Francesco che citi, Benino, la statuetta del pastore che dorme, è come se creasse il mondo: la storia della nascita di Gesù sarebbe il frutto di un sogno quindi dell’immaginazione. Come se fosse stato il politeismo a produrre un racconto monoteista?

Mi piace moltissimo quello che dici sul pastorello, anzi dopo me l’annoterò. Un sogno non lo so, di certo all’interno di tutta la creazione politeista antica, in particolare a a livello intellettuale, a livello di filosofi, di poeti come Eschilo, una tendenza al dio solo esiste, ogni tanto emerge. E poi verso la fine dell’antichità si affermerà in via definitiva, quindi se non è un sogno c’è in qualche modo una deriva all’interno del politeismo, però con una differenza fondamentale: il dio solo del politeismo è un dio che raccoglie in sé tutte le altre divinità e non ne esclude nessuna, quindi è un dio inclusivo che serve a raccogliere forze divine non a separarle. Si può interpretare il mondo come se tutte queste divinità potessero essere raccolte in una però se uno vuole tenersi il suo dio al di fuori di questa raccolta complessiva, può farlo. Non lo ammazzano, come invece purtroppo avverrà dopo.

Rete, realtà virtuale, Maurizio Ferraris diceva in un’intervista che i pdf sono come le idee platoniche. Secondo te la rete, il web è politeista o monoteista?

La rete è sicuramente più politeista, è policentrica quindi potenzialmente è infinita perché può moltiplicare punti di riferimento. Uno studioso giapponese, partendo dalla sua religione politeista in cui la divinità è distribuita in vari segmenti, che si possono trovare a volte all’angolo delle strade, diceva che c’è un modo di distribuire il divino che favorisce la frequentazione e l’invenzione della rete. La rete funziona già così, cioè i nostri quadri mentali sono già aperti al policentrismo del web. Naturalmente noi sappiamo che ha anche i suoi lati negativi, tutti questi centri possono sfuggire di mano e diventare imbarazzanti, offensivi. Resta il fatto che è un grande tessuto di libertà. Come lo era il politeismo.

Cosa intendi per quadri mentali?

Per quadri mentali intendo le forme principali di ragionamento che ogni cultura ha, un certo modo di rappresentare il mondo, anche di viverlo quindi di farne un’esperienza che muta a seconda di grandi cambiamenti storici e culturali come per esempio un grande cambiamento religioso. Il politeismo ha quadri mentali diversi dal monoteismo. Lo si vede prendendo un esempio e mettendolo dentro un quadro mentale. Questo io l’ho fatto con il presepio. Se lo metti nei quadri mentali del monoteismo che cosa accade? Poteva sparire o essere imposto a tutti. Perché essendo un simbolo religioso, chi lo venera da una parte immagina già di per sé che dall’altra parte non possa essere accettato. E lì emerge il quadro mentale esclusivo dei monoteisti.

Per concludere la nostra intervista c’è un passaggio nel tuo libro relativo a Jung dove si parla della traduzione nel mondo delle patologie dei miti greci. Quali di questi nomi di medicinali sarebbero papabili per l’Olimpo secondo Maurizio Bettini: Daparox, Euthimil, Seroxac, Prozac, Zoloft, Tatig, Dumirox?

Sicuramente il Prozac sarebbe un ottimo Dioniso.

Intervista pubblicata su Focus-in (marzo\aprile 2017)

La cultura europea s’interroga dopo la guerra: Gianfranco Contini tra cultura e politica

1

di Giovanni Palmieri

Interrogarsi sul rapporto tra cultura e politica in un momento storico in cui i valori della cultura non meno di quelli della politica sono scivolati nell’effimero più vaniloquente o si sono ridotti al grado zero della corruzione morale e penale, non è, credo, senza significato.

 

La riflessione potrebbe cominciare da un libretto di Gianfranco Contini che s’intitola appunto Dove va la cultura europea?, edito nel 2012 da Quodlibet (Macerata) per le cure di Luca Baranelli e arricchito da un bel saggio di Daniele Giglioli. Si tratta della ristampa del brillante e profondo resoconto della prima delle Rencontres internationales di Ginevra che Contini scrisse nel 1946 per conto della «Fiera letteraria» dove sarà edito il 31 ottobre del 1947 (pp. 1-2).

Questi incontri al vertice dei massimi intellettuali europei avevano cadenza biennale e duravano due settimane. Il tema scelto per la prima delle Rencontres fu, e non paia non a caso, L’ésprit européen. Tra i partecipanti più importanti segnalo Lukàcs, Jaspers, Spender, Bernanos, Benda, Merleau-Ponty, Starobinski ecc. Per l’Italia (e Contini se ne lamenta) erano presenti solo Flora, Vigorelli, Campagnolo, Silone e pochi giornalisti. Croce, informato dell’annunciata presenza di Sartre, aveva declinato l’invito. Non erano stati invitati Bobbio, Montale, Bacchelli, Vigolo, Alvaro, Calogero, Capitini ecc. Gide e Eliot avevano rifiutato e anche Sartre, alla fine, non era venuto. Silone era poi ripartito senza parlare.

La cultura europea aveva i suoi buoni motivi per interrogarsi dopo la guerra: non solo non era stata in grado di prevedere ed impedire le dittature, il secondo conflitto mondiale e la Shoah, ma spesso per indifferenza, per tornaconto o per adesione ideologica, gli uomini di cultura europei non si erano opposti al fascismo e al nazismo e anzi in alcuni casi li avevano favoriti o ne erano diventati complici.

Naturalmente, oltre ai martiri politici dell’antifascismo (Matteotti, i fratelli Rosselli, Gobetti, Gramsci ecc.) vi furono luminose eccezioni.

Escludendo per il momento l’esperienza della guerra partigiana, penso a chi coraggiosamente nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti (Croce, Banfi, Cecchi, Montale, Alvaro, Linati ecc.), a chi non si iscrisse al PNF o a chi si rifiutò di prestare giuramento al fascismo e fu costretto alle dimissioni (Leone Ginzburg) e anche a chi, contro le leggi razziali del 1938, solidarizzò con gli ebrei italiani che persero il lavoro, furono costretti a nascondersi o a fuggire, o furono deportati.

Era dunque opportuno che gli intellettuali europei dopo la guerra si domandassero quale dovesse essere il loro contributo alla ricostruzione morale, politica e civile del continente. Si domandassero cioè quale modello di società era auspicabile e in che direzione dovesse andare la cultura europea. Sarebbe opportuno anche oggi…

 

Gianfranco Contini (1912-1990), oltre ad essere stato il grande critico e e filologo che tutti conosciamo, fu anche un attivo antifascista e un partigiano militante nella Repubblica dell’Ossola. Nei suoi scritti politici (poco conosciuti) egli aveva sempre affermato la necessità che la cultura non ignorasse in modo ipocrita non solo la dimensione politica ma anche l’azione diretta.

Contini non è dunque un osservatore neutrale degli incontri ginevrini e nel suo scritto raggiunge un buon compromesso tra il resoconto fedele degli interventi (opportunamente selezionati) e l’esposizione delle proprie idee sulla materia del contendere. Nel 1946, del resto, ha trentaquattro anni e insegna già Filologia romanza nell’università svizzera di Friburgo. Al suo attivo, come dicevo, ha l’importante contributo dato alla Resistenza con la partecipazione alla repubblica dell’Ossola (nel Partito d’azione) e svariati articoli politici pubblicati sulle pagine del «Dovere. Giornale officiale del Partito Liberale-Radicale Ticinese», ch’era il foglio radicale della Svizzera italiana da lui diretto (vd. Renata Broggini, Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, Salvioni, Bellinzona 1986).

Questi scritti verranno pubblicati nella sezione culturale di questo giornale da lui intitolata significativamente Cultura e azione. Altri suoi articoli politici compariranno sul giornale socialista di Lugano «Libera stampa» e sul foglio ossolano «Liberazione. Giornale della Giunta provvisoria di Governo e delle formazioni militari dei Patrioti dell’Ossola». Vale la pena di ricordare che anche dalla Svizzera Contini riuscì a lottare attivamente (e non solo con articoli) contro il fascismo. Come?

In virtù d’un antico trattato, la Svizzera ospitava sin dal 1907 i rifugiati militari che sconfinavano in armi nel suo territorio. Così, dopo l’8 settembre del 1943, centinaia di italiani che passarono il confine in divisa furono alloggiati in campi svizzeri. Contini, tra gli altri, si adoperò allora presso le autorità svizzere per permettere a chi ne avesse i titoli di continuare gli studi universitari in territorio elvetico. Tra questi vi furono moltissimi intellettuali antifascisti che divennero suoi allievi tra i quali ricordo solo Dante Isella e Giansiro Ferrata. Contini riuscì anche a strappare alla Confederazione il permesso di ospitare non solo i rifugiati militari ma anche i partigiani civili italiani che fuggivano oltre confine (oltre trentamila persone). Così, nell’ottobre del 1944, dopo la riconquista tedesca della repubblica dell’Ossola, la Svizzera accolse moltissimi partigiani e civili che dalla regione ossolana scapparono soprattutto nel Ticino e nel Vallese.

Quando fu proclamata la Repubblica dell’Ossola (che durò dal 10 settembre del 1944 al 23 ottobre dello stesso anno), Contini lasciò la cattedra di Friburgo e si recò a Domodossola, sua città natale, dove, insieme a Calcaterra, fece parte della «Commissione didattica consultiva» della Repubblica che aveva in don Gaudenzio Calabrò il suo Presidente. In tale veste contribuì a redigere un «progetto di riforma scolastica» che, svecchiati i programmi da ogni nazionalismo e da ogni fittizia romanità, prevedeva un inserimento della cultura italiana nel più ampio contesto europeo. Propugnava inoltre una moderata educazione umanistica non in senso elitario-aristocritico ma nello spirito d’una educazione armonica del cittadino intesa a promuovere lo sviluppo globale dell’individuo. Ne derivava l’immagine d’una scuola rigorosamente pubblica, non impostata ideologicamente ma pluralista e democratica che seguiva gli sviluppi storici ed era strutturata secondo i modelli pedagogici provenienti dagli Stati Uniti.

 

Sin dalle prime righe della nostra plaquette, appare chiaro al lettore che Contini vorrebbe che la cultura europea non ignorasse la politica (anzi l’azione politica) e che parimenti la politica non ignorasse la sua essenza culturale. Perciò attacca con grande verve stilistica quei contributi ginevrini che, in nome di un idealismo ipocrita, predicavano il nobile disimpegno spirituale dell’arte, la sua neutralità e la sua indipendenza dai rapporti economici e politici della società. Sentite cosa scrive a proposito del cattolicissimo Bernanos:

 

Bernanos […] potè spacciare a una folla serale in un autentico teatro il suo ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane. (Con la pessima falsità di chi simula lo smercio di verità impopolari, l’energumeno delle Lettres aux Anglais cumulò in uno solo, piazzato all’estrema destra, i totalitarismi di destra e sinistra, riservando la sinistra per sé (p. 16)

 

Dopo di che, il suo fuoco verbale si concentra sul duello oratorio tra l’esistenzialista Karl Jaspers e il marxista György Lukàcs.

Alle vaghe premesse esistenzialistiche del suo discorso – osserva Contini – Jaspers non fa seguire che corollari di «fraternità universale» e di «vago liberalismo» (p. 24). In particolare la distinzione tra politica e spirito, cioè la motivazione con cui Jaspers si rifiuta di parlare di politica nell’orientamento culturale della nuova Europa, gli appare non solo un «pretesto alla conservazione» ma anche un discorso «non meno rigorosamente politico» (p. 25) di quello soltanto politico dei marxisti.

Inoltre, quando Lukàcs – usando le armi del suo avversario e cioè ritorcendogli contro una concreta situazione esistenziale –  ricorda a Jaspers

 

che l’impossibilità di bere una tazza di caffè come conseguenza d’una lite salariale negli Stati Uniti è pure, per l’operaio europeo, una prova diretta dell’unità e della solidarietà del mondo,

 

 

Contini scrive che l’intellettuale ungherese aveva messo «il dito sulla piaga del moralismo astratto di Jaspers e di molti europei» (p. 30).

In sostanza Lukàcs appare a Contini il trionfatore ideale di questa corrida filosofica ed è chiaro che la sua simpatia va a questi piuttosto che a Jaspers. Si tratta, però, sempre di una simpatia con riserve. Ad un certo punto del suo resoconto, Contini deplora, infatti, nel dibattito «l’assenza della ‘terza’ voce, per esempio del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano» (p. 24). Inoltre quando Lukàcs afferma (pp. 31-32) che nella presente situazione storica egli conterebbe tra i nemici colui che volesse attuare in un paese occidentale la società socialista, Contini ne critica quel tipo di «deformazione ortodossa» (dogmatismo) in base al quale esiste una sola verità e una sola condotta legittima che è sempre quella individuata dalla direzione del partito. Di conseguenza gli dà del «Molotov filosofico» (p. 31).

Mi chiedo anche cosa avrebbe pensato il modernista Contini se nel 1946 avesse conosciuto i gusti letterari di Lukàcs che escludevano dal novero dei grandi della letteratura Kafka, Joyce e Beckett, per non fare che tre soli nomi e tralasciando la celebre polemica sul romanzo che proprioLukàcs ingaggiò con Bachtin, uscendone, direi, piuttosto malconcio.

Certamente a Contini l’idea di purificare l’arte espungendone la dimensione politica appare assurda. Tra l’altro, osserva che era esistito anche un uso politico della letteratura e a tal proposito citava l’esempio della lettura politica di Virgilio in chiave nazionalistica e razzista che ne aveva dato il fascismo.

Del resto, nel 1945, a guerra finita, nella Lettre d’Italie (ora in Altri esercizî, 1942-1971, Einaudi, Torino 1972, pp. 69-70), Contini così ribadiva la sua tesi:

 

L’indepéndence de l’art n’a de sens, disions-nous, que dans son stade ingénu et proprement objectif: un programme orgueilleux d’indépendence subjective et narcissiste dépasse immédiatement les bornes légitimes. La matière de l’art serait-elle par hazard autre chose que la substance de l’homme? On a le droit d’être apolitique en fait, on n’a point le droit (dialectique, non pas moral!) de le proclamer et de s’en targuer, car cette prédication est de la politique. On peut nier à cette politique, non pas à la politique, la possibilité de satisfaire des instances spirituelles.

 

Ma ancora più lapidariamente, a metà del nostro resoconto, Contini aveva affermato che «sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione» (p. 26). Queste parole spiegano anche la lettura “religiosa” in senso lato e immanentistica che Contini dava della Resistenza la quale, a suo avviso, doveva assolutamente e  immediatamente politicizzarsi, traducendo nel concreto sociale i suoi ideali di eguaglianza e di democrazia.

 

Rimane da dire che nel nostro articolo, pur così impegnato, non è aliena una grande vivacità letteraria venata da svariate punte di umorismo e ciò rende il testo particolarmente gradevole. Ad esempio, proprio all’inizio, l’autore ricorda alcune manifestazioni musicali che hanno fatto da contorno al serioso incontro ginevrino: un concerto «stupendo, liricissimo, di Bartok», La Mer di Debussy («che all’incorreggibile lettore evoca sempre la spiaggia di Balbec davanti a Marcel») e la versione integrale dell’Histoire du soldat di Stravinsky «squisitamente servita da Ansermet» (pp. 14-15).

Quanto all’umorismo, cito solo due esempi: Denis de Rougemont, l’autore del celebrato L’amour et l’Occident, è definito «l’atletico teoreta, si mormora con applicazioni pratiche, dell’amore occidentale» (p. 28), mentre nella chiusa del testo Contini si sostituisce a Lucia Mondella ma soltanto evocandola con le parole con cui Manzoni allude all’Addio monti, cioè il lirico e memorabile soliloquio della fanciulla:

 

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri d’un letterato italiano mentre il locomotore si staccava a novanta all’ora dalle rive fluviali e lacustri in vacanza della distensiva, della pacificante Ginevra. (p. 42).

 

Purtroppo oggi tra i vari pensieri che ci assillano la vera domanda non è più, ahimè, «dove va la cultura europea?» ma semplicemente «dove va l’Europa?»…

 

 

Gli iceberg di Daniele Rielli (ed un Südtirol che sfugge)

2

di Roberto Antolini

copertina_ridLa copertina in un bel grigio metallico reca la fotografia di un iceberg che s’innalza incombente da acque altrettanto metalliche, e il titolo suona “Storie dal mondo nuovo”. La confezione Adelphi centra perfettamente la comunicazione del contenuto del secondo libro pubblicato da Daniele Rielli (il primo era il romanzo “Lascia stare la gallina”, Bompiani 2015). Daniele Rielli, classe 1982, prima misterioso blogger di gran risonanza (Quit the Doner) e quindi poi, nominalmente, anche giornalista (Il Venerdì di La Repubblica), è un campione esemplare – ma al meglio – della sua generazione, quella grillina. Ma non che sia grillo lui eh! Anzi, lui – nemico giurato di ogni ‘narrazione’ – deve la sua celebrità all’aver imbroccato su Linkiesta un pezzo precocemente puntuale sul fenomeno grillino, diventato rapidamente virale e messo all’indice da Grillo in persona (http://www.linkiesta.it/it/article/2014/05/24/a-san-giovanni-nel-discount-del-dissenso/21394/).

La copertina è centrata perché i 10 pezzi raccolti nel libro sono proprio iceberg che s’innalzano scarsamente visibili dal mare della liquidità post-moderna, segnalando ai navigatori attenti la pericolosa massa sottostante. Sono pezzi del genere oggi definito ‘longform’: né proprio giornalismo né letteratura, una cosa che sta fra l’uno e l’altra. Da un certo punto di vista sono inchieste: raccontano un problema, un complicato avviluppo di questioni, cercando di evitare semplificazioni e di coglierne invece l’irriducibile complessità. Dall’altra usano senza problemi le tecniche della narratologia, prendendo il lettore per mano per condurlo dove vogliono loro, fagocitando strada facendo un tal numero di battute da risultare indigeribile da (quasi) qualunque direttore di giornale, difatti in questa edizione libraria i pezzi compaiono di solito ampliati rispetto alle versioni originarie, uscite in edizioni periodico-cartacee, o anche in rete. Gli argomenti dei pezzi, apparentemente strampalati ma utilissimi per gettare un’occhiata obliqua sul ‘mondo nuovo’ (cioè sul mondo reale, quello col quale la sua generazione dovrebbe fare spietatamente i conti invece di trastullarsi – secondo Rielli  – con narrazioni elegiache rottamate dalle generazioni precedenti) sono: un ritrattino ‘ambientale’ della fauna da Transatlantico (parlamentare); idem su un convegno di start upper; vita da graffitari; ritratto sentimentale del quartiere ucraino di Brooklyn; che fine ha fatto Serpico?; panorama di Tirana con love-story italo-albanese; l’ultima corsa di Valentino Rossi in Mugello; giocatori professionisti di poker; dietrologia di un matrimonio indiano celebrato nel Salento; ed infine l’Alto Adige, luogo dove l’autore è nato.

Non potendo parlare qui di tutti – pena il cadere anche noi nella longform – e lasciando per ultimo l’argomento Alto Adige, di cui qualcosa ho da dire come quasi-compaesano, facciamo almeno un accenno al pezzo sui giocatori professionisti di poker, ammirati da Rielli per «la libertà delle loro vite, la loro capacità di convivere con il rischio» (p.166). Che avranno da dire i familiari dei ludopatici? Rielli non si cura di loro, passa indifferentemente oltre, si interessa alla metafora del mondo che vede nel gioco d’azzardo: «il poker, come tutte le discipline dove il denaro gira sui risultati e non sulle gerarchie e le incrostazioni di potere, è mobile e si sposta in fretta. È il lato ipercinetico della meritocrazia» (p.168). Certo che come espediente narrativo funziona: quale miglior ritratto del mondo contemporaneo? Della spettabile finanza in doppiopetto, messa sullo stesso piano dei desperados del poker, alla faccia di tutte le narrazioni neo-liberiste. Ma non manca neanche, sottotraccia, l’invettiva di un esponente della «generazione depauperata nonché colpevolmente incapace di difendersi» (p.166) contro il genius-loci italico, patria di ogni rendita di posizione e allergico ad ogni tipo di meritocrazia. Insomma la scrittura di Rielli sembra una esemplificazione da manuale della teoria della letteratura come metalinguaggio.

E veniamo all’Alto Adige/Südtirol, cioè alla provincia bilingue italo-tedesca di Bolzano (in realtà trilingue, perché ci sarebbero anche i ladini), nel capoluogo della quale è nato Rielli, incrocio fra una madre trentina ed un padre del Salento. Origine ‘niente di che’ per gli italiani di Bolzano, arrivati tutti da fuori dopo l’annessione della provincia all’Italia in seguito alla Prima guerra mondiale, che si trovano però di fronte una maggioritaria (quasi al 70%) ed etnicamente compatta popolazione originaria di lingua tedesca, annessa all’Italia sulla punta delle baionette. Per tutto il libro di Rielli si viaggia in un eterno presente, senza sbavature. È un libro pieno di storie ma da cui è totalmente assente una Dimensione Storica, una prospettiva temporale che non sia quella quotidiana dello scorrere della vita individuale. Ma a Bolzano questa mancanza di prospettiva storica gli gioca brutti scherzi. Rielli si stupisce di ogni conflitto etnico come di assurda strampalataggine, nella globalizzazione che è il suo orizzonte generazionale. L’Alto Adige è per lui «l’ultimo parco naturale delle etnie» (p. 306) e ci vede solo rendita di posizione e clientela. Che naturalmente ci sono, ma sono un effetto secondario, radicato nei disastri prodotti dalla annessione bellica e dall’ineffabile pretesa fascista di “italianizzare” il Sudtirolo, che hanno prodotto un conflitto psichico in grado di allungarsi molto concretamente da una generazione all’altra, dal passato nel presente. Per decenni sono scoppiate le bombe del terrorismo sudtirolese, ed altrove – Irlanda del nord, Paesi baschi, per non dire Jugoslavia – la violenza etnica ha fatto disastri, inimmaginabili all’inizio. I conflitti etnici, apparentemente così ‘arcaici’, sono stati i più difficili da appianare, anche nell’Europa del Novecento. Non a Bolzano, dove una autonomia speciale, basata certamente su una dose di separazione etnica, ha disinnescato questo effetto, ma certo non ha fatto scomparire il conflitto identitario come potrebbe fare solo una bacchetta magica. Rielli, ritornato – per un reportage commissionato – nel posto dove è nato e cresciuto, ma da cui se ne è andato appena possibile, gira la provincia, parla con persone di vario tipo, e comincia a scoprire qualcosa che all’inizio sembrava ignorare. Parlando con lo storico ‘alternativo’ Leopold “Poldi” Steurer, erede, in campo storiografico, di Alex Langer, scopre la persistenza: «forse le tradizioni, i retaggi e le culture di appartenenza sono concetti che si possono smontare con sagacia in un saggio universitario, in un post su facebook o a un comizio, ma per le persone reali, nel mondo reale, continuano e continueranno sempre a rivestire un ruolo importante» (p.310). Comunque sempre apodittico il ragazzo, passa dal «parco naturale delle etnie» al «sempre». Quello che manca è ‘sempre’ la Storia, gli effetti storici di eventi traumatici come le guerre e l’idiozia del fascismo. Non è detto che durino per sempre – nella Storia i conflitti etnici vanno e vengono – ma devono essere presi sul serio. Disinnescare le bombe è già stato un risultato, e non era scontato. Il bilinguismo che, secondo Rielli, «al di fuori dall’ambito istituzionale, dove è obbligatorio, segnala solitamente posizioni di sinistra e per la convivenza» (p. 275) è l’unica altra possibilità rispetto al cacciarsi reciprocamente via, con le buone o con le cattive (come prima avevano tentato di fare con le opzioni Mussolini ed Hitler alleati, e poi con le bombe i terroristi).

 

Daniele Rielli, Storie dal mondo nuovo, Milano, Adelphi, 2016, 316 p., € 19,00

 

DANIELE-RIELLI-532x400

Alla ricerca di una possibile concretezza # 2

0

[Pubblico la seconda parte di un testo apparso come postfazione a Lavoro da fare di Biagio Cepollaro, uscito nel 2006 in e-book e in formato cartaceo nel 2017 presso la Dot.com Press di Milano. La prima parte qui.]

di Andrea Inglese

 

2.

Vorrei tornare ora a una lettura ravvicinata del lavoro di Cepollaro, ma seguendo l’itinerario cronologico che porta da Fabrica a Versi nuovi e da Versi nuovi a Lavoro da fare. Ciò che in Fabrica veniva vistosamente abbandonato era l’originale ed efficacissimo innesto del volgare di Jacopone da Todi e del dialetto napoletano nell’italiano medio attuale.

Quando ti vengo a riprendere

2

di Francesco Borrasso

20151006_163517Sei qui, al mio fianco, nell’auto fa caldo, fuori un vento solido simula le onde, borbotta.

Mi restituisci il profilo, la pelle di porcellana, i capelli rossi che ti toccano le spalle quasi con disperazione. Il silenzio che c’è tra noi, adesso, è uguale ad un valico, il primo che parla, perde tutto.

Ti ho amata come si ama il ghiaccio, ti ho amata come si ama la neve, sempre attento a non farti sciogliere; mi sono preso cura della neve, cercando di mantenere sempre la temperatura giusta per proteggerla, ho avuto la forza di accarezzarla a mani nude, che tutto il freddo sulla pelle l’ho sentito come gioia, che tutto quel freddo dopo ogni abbraccio era per me solamente una piccola magia.

Ti passo una mano sulla guancia, quando senti il mio contatto, non indietreggi, vai incontro al gesto, e la nostra pelle in questo accostamento ci riporta indietro, tanto indietro che io adesso non ho voglia di ricordare.

Ti ho tenuta in una mano, ti ho tenuta in due braccia, in un letto, ti ho baciata come si bacia un sogno, spesso ad occhi aperti, per paura che potessi svanire.

Sei stata la neve che incanta, quella che copre tutto con il silenzio, che ad ogni fiocco restavo a bocca aperta; sei stata la neve fragile, che rischiava di svanire ad ogni terremoto, gli epicentri sono sempre stati nella tua mente, l’amore è stato sempre dentro il tuo corpo, quel corpo fatto di cristalli che quando percepisce il mio non riesce a non provare appartenenza.

Sei ferma, come una scultura di marmo che non conosce limiti di spazio e tempo, il verde dei tuoi occhi è colmo di parole che non dici, si sciolgono, finiscono sui vestiti, il tuo corpo è come un trauma, non posso dimenticarlo.

Mi hai incantato come quelle valli innevate, che a perdita d’occhio possiedono tutto e non lasciano il fiato nemmeno per respirare, sei stata la magia, ogni volta che ti guardavo mi sentivo come quando da bambino assistevo ad un gioco di prestigio per rimanere poi a bocca aperta.

Ti ho amata come si ama il freddo, coperto bene, coprendoti bene, facendomi amico il vento, usando il vento per raccontarti di noi.

I finestrini si appannano, respiriamo veloci, come se tutto il tempo del mondo fosse finito dentro questa auto, e noi stessimo provando a custodirlo, a consumarlo.

Ti ho posseduta come si possiede il ghiaccio, sempre attento a non stringere troppo le mani, che troppo calore ti avrebbe fatto diventare acqua.

Nei momenti in cui stavi per evaporare per colpa del sole, ti ho fatto da scudo, ho messo il mio petto vicino al tuo viso, ho fatto del mio corpo un iceberg, per poterti trasmettere l’energia necessaria per non diventare liquida.

Finalmente ti giri, mi guardi come si guarda un bene profondo che sai di non poter meritare; in un attimo il tuo sguardo passa da docile a pietra, senti la voglia di lasciarmi fare e la barriera che ostinata tieni alta per istinto di conservazione.

Ti ho presa in braccio quando faceva troppo caldo, ti ho baciata sulla fronte quando ti sei svegliata al mio fianco, ti ho asciugato le lacrime per evitare che quel veleno potesse rovinarti la pelle, ho ascoltato le tue parole dure sempre con rispetto, mi sono fatto allontanare legandoti al collo un laccio, non sono mai stato bravo a starti distante, tutti i silenzi erano sempre forze contrarie che mi spingevano poi nuovamente verso te.

Ti ho baciata a lungo sopra la sabbia, dentro una spiaggia, a ridosso di un mare che suonava piano; ho accettato sempre i tuoi abbracci, anche quando la rabbia avrebbe voluto che tu diventassi meno solida, che tu diventassi acqua per scorrere via, perché tutto quel gelo mi stava facendo morire.

Dove vai? Ti chiedo.

Tu che adesso potresti parlare, trattieni una lacrima, e anche se non cade, per me, piccola mia, vale lo stesso.

Ti ho fatto ascoltare canzoni sotto un albero in mezzo alla gente, chiedendoti il silenzio dopo un bacio, donandoti una cuffia, stringendoti come in un ballo malinconico.

Ogni ciao l’ho vissuto sempre come un addio, ogni sorriso l’ho catturato sempre come se potesse essere l’ultimo, ogni mattina mi svegliavo sperando di ritrovarti mia e non lontana.

Ho combattuto per te come si combatte per la propria vita, ho sfidato la ragione per dare ascolto solo e sempre al mio cuore.

Ti ho portata sopra il mare, dentro un camino, dentro una sala gonfia di candele, dove il buio era contorno e tu il centro della fiamma.

Ti ho regalato un anello che ti somigliava, dove c’era il verde della speranza, e il bianco della tua bellezza devastante.

Aspetti paziente che io perdi la lotta, la tua guerra santa, la tua crociata priva di fondamenta, le leggi che hai imposto al tuo inconscio per sopravvivere alla tristezza.

Vado via, mi rispondi.

Ho ascoltato la tua rabbia, la tua tristezza, mi sono scontrato contro la tua voglia di cambiare tutto senza riuscirci mai, perché la neve è fragile e per essere forte e prepotente ha bisogno della giusta temperatura.

Ti ho amata come si ama se stesso, e nei momento in cui me stesso l’ho odiato, ti ho tenuta fuori, per non infettarti; ho cercato sempre di baciarti, perché le nostre labbra erano un incastro senza regola, sono il pezzo più simile al tuo, sono la tua persona, e ti ho incontrata forse tardi, forse presto, forse quando doveva succedere.

Resta, ti sussurro.

Lo faccio piano, con il cuore che salta un battito, con la gola che si chiude per paura di ingoiare, con lo stomaco che si riempie di cemento; i miei movimenti sono densi, pieni di colla.

Tu mi hai amato come si ama il fuoco, mi hai guardato con stupore, con la bocca aperta e le pupille dilatate come due laghi neri; mi hai osservato a lungo come se io fossi un incendio, come se io fossi un bosco in fiamme che terrorizza certo, ma che ti lascia senza fiato per lo spettacolo infinito delle fiamme che si alzano verso il cielo.

Mi hai amato come si può amare il fuoco, sempre da lontano, perché il calore era troppo e tu rischiavi di bruciarti.

Non posso, dici.

So di non poter piangere, la mia sofferenza servirebbe solo ad aumentare il terrore. Ti prendo la mano e tu non fai resistenza; ti lascio un bacio sulle labbra, le tue labbra, che restano chiuse qualche secondo, ma poi mi accolgono, e nel nostro modo di mischiarci c’è sempre stata la naturalezza del respirare.

Spesso mi hai guardato negli occhi scegliendomi come il tuo futuro, spesso mi hai stretto a te con tanta forza da scottarti; le ustioni le hai sentite poi durante la notte, ustioni che ti hanno tolto il sonno e ti hanno fatto credere che quelle bruciature, tu, non le potevi sopportare.

Sono stato il fuoco di un camino acceso di notte, il fuoco di una speranza, il fuoco che ti ha fatto credere nei punti di svolta, che la vita cambia, che le persone non si incontrano mai per caso.

Forse non ti amo, quasi mi gridi; ma è un urlo docile, che fa tenerezza.

Queste cose dille a te stessa, a me, però, non puoi venire a raccontarle; rispondo.

Scuoti il capo, vorresti prendermi a schiaffi, vorresti scendere, andare via davvero, vorresti dirmi: arrogante, presuntuoso, stupido… amore.

Ti sei bruciata con me scegliendo i mobili della tua camera, ti sei bruciata con me dormendomi vicino, ti sei bruciata con me leggendomi, ascoltandomi, capendomi, allontanandomi; hai sentito la mancanza e hai lottato con il corpo convincendoti che andava bene, che tu quel fuoco non potevi meritarlo, sopportarlo.

Ti sei bruciata con me quando mi hai detto che ero l’uomo perfetto per te; ti sei ustionata con me quando hai immaginato tutta la vita vicino a me.

Dovresti lasciami andare.

Non posso.

Perché?

La mia promessa, ricordi?

Già…

Se dovessi andare via, promettimi che verrai a prendermi.” Le promesse non conoscono limiti, ti verrò a riprendere sempre, anche quando non avrò più forza per camminare.

Ti ho ustionata scegliendo sempre come se fossi tu a scegliere; regalandoti un giradischi come se avessi scavato a fondo dentro i tuoi desideri.

Mi hai amato sempre con timore, come quando passi una mano sulla fiamma e sai che devi essere rapida, altrimenti il fuoco non perdona, e la pelle si brucia, e fa male, troppo male.

Spesso ti sei messa al centro di me, sfidando le bruciature, sei rimasta nel mezzo della fiamma più densa solo per non togliermi le braccia che stringevano forte intorno al mio collo.

Mi hai posseduto come si possiede un incendio, a braccia larghe, cercando di fare spazio, provando a non chiudere le finestre, perché la mancanza di ossigeno mi avrebbe fatto spegnere.

Delle volte ci hai provato, gettandomi addosso delle coperte, provando a soffiare veloce, ma il tuo alito non ha fatto altro che alimentare la mia forza.

La tua paura, questa volta, non deve vincere.

Ma tu non mi ascolti, già ti perdi ad osservare fuori dal finestrino, già le nostre mani sono distanti, già non ho più la pelle, che ad ogni parole, mi strappi via.

Altre volte hai provato a bagnarmi con le lacrime, ma io mi sono fatto permeabile, al posto di combattere il tuo pianto, l’ho accolto come un dono.

Nei momenti in cui la tua neve ha provato a sciogliersi e il mio fuoco a bruciare troppo, ci siamo dovuti allontanare; siamo stati due miraggi, due oracoli divisi nello stesso santuario.

Mi hai amato spesso dimenticandoti di mettere legna, lasciando spesso che io restassi solo una fiammella, correndo poi da me con le braccia piene di rami, e riversandomi indosso, troppo velocemente, tutta l’energia che avevo bisogno di bruciare per restare in vita.

Apri la portiera, mi guardi; una tristezza antica appartiene al tuo sguardo e io resto immobile.

Ciao, dici.

Io non rispondo.

Dove vai? Penso?

Ma non parlo, e già mi interrogo su dove e quando dovrò venire, ancora, per mantenere la mia promessa eterna.

L’agenda ritrovata

0

AgendaCoverFB_ok

C’è un progetto a cui tengo molto. Nasce da un’idea dell’associazione culturale l’Orablù di Bollate.

Il 19 luglio di quest’anno sono 25 anni dalla tragica scomparsa di Paolo Borsellino (e, ovviamente, di quella di Giovanni Falcone e di tutte le altre vittime delle due stragi). Gli amici dell’Orablù vogliono commemorarlo attraversando l’Italia da Milano a Palermo in bicicletta. Portandosi dietro una agenda rossa identica a quella trafugata nei momenti concitati della strage, per poterla riempire di testimonianze raccolte lungo la strada e infine consegnarla nelle mani dei parenti di Borsellino. Di tappa in tappa ci saranno letture, eventi, spettacoli, dibattiti, etc.

Salvatore Borsellino, il fratello, s’è già messo a disposizione regalandoci una copia dell’agenda di quell’anno e “scatenando” tutte le associazioni sul territorio nazionale che conosce per seguirci. Così come un gruppo di ragazzi seguirà l’evento facendoci da ufficio stampa. Un paio di ciclisti professionisti faranno l’intera attraversata per garantire che l’agenda non resti mai sola. Aspettando che altri si aggreghino strada facendo. La FIAB, ha abbracciato il progetto e Coop Lombardia ci coprirà alcuni costi vivi (ma stiamo ancora cercando altri sponsor. L’iniziativa si fa a titolo gratuito, ma esistono comunque costi vivi da coprire). Radio Popolare seguirà quotidianamente l’evento. Io e Marco Balzano stiamo organizzando una antologia di racconti con autori da Milano a Palermo che diventerà il lascito materiale di questa folle impresa.

Cercherò strada facendo di aggiornarvi, ma voi nel frattempo condividete e diffondete l’iniziativa. Mandate adesioni, video selfie di incoraggiamento, programmatevi una pedalata. Siate parte di un’idea semplice e chiara: il futuro è fatto di memoria!

Qui la pagina dell’Orablù dedicata al progetto.

Qui la pagina Facebook per gli aggiornamenti.

Di seguito il video che spiega il progetto e l’appello finale di Salvatore Borsellino.

waybackmachine #02 Antonio Moresco “Le cavallette”

0

A partire da oggi, ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani, e che ci sembra possano dirci ancora qualcosa dell’attuale : che ancora ci parlano, ancora aprono interstizi tra le maglie del presente, ancora muovono la riflessione. L’archivio è vasto: cominciamo a sfogliarlo.

23 marzo 2003

ANTONIO MORESCO “Le cavallette

Capita ogni tanto, nella letteratura come nella vita, di imbattersi in semplici frasi, scritte o orali, riflessioni e immagini di tale radicalità e umanità che ci danno l’immediata sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di lungamente meditato e sofferto, che va subito all’osso, che ci dice come stanno veramente le cose, direttamente, senza mediazioni, senza fronzoli.

“Uè Africa”. Diario di un marocchino” di Youssef al-Hirnou

0

di Mariangela Laviano

copertina_youssefNel leggere il titolo di questo libro, “Uè Africa”. Diario di un marocchino” di Youssef al-Hirnou, edito da Book Sprint, mi è venuta in mente un’altra espressione, “Uè Napuli”, utilizzata negli anni ‘50 e ‘60 dai piemontesi per indicare tutti i meridionali che emigravano nel Nord Italia, con le loro valigie di cartone chiuse con lo spago. Allora il richiamo del boom economico rappresentato a Torino dalla FIAT (oggi FCA) costituiva il “sogno” di tutti gli uomini e le donne del Meridione che desideravano assicurare ai propri figli prospettive di benessere che il Sud ancora legato a una economia rurale non era in grado di dare loro. Per costoro l’accoglienza non fu esaltante e, ancora oggi, si sentono gli echi di quei cartelli razzisti, rimasti indelebili nella memoria collettiva, del tipo “non si affitta ai meridionali” etc…
Oggi quei “meridionali” sono gli immigrati stranieri, gente che “puzza”, è “diversa” e “che ruba il lavoro”. Questo è quello che emerge dal racconto autobiografico del marocchino al-Hirnou, una storia simile a quella di tanti italiani del Sud Italia in passato e di tanti immigrati stranieri di oggi, narrata attraverso le lenti di un’altra cultura, un’altra lingua un altro sistema di riferimenti. Nel raccontare la sua storia, dall’infanzia all’età adulta, senza tralasciare alcun minimo dettaglio all’improvvisazione, l’autore ci fa vivere i conflitti interiori, le sensazioni, piacevoli e non, scaturiti dalla lotta che lui stesso combatte, tra essere sé stesso o essere come gli altri vogliono che egli sia.
Tra l’“assimilarsi” a una cultura e a una mentalità che non gli appartengono del tutto e a cercare di “integrarsi” valorizzando la sua diversità, l’autore affronta diverse tematiche che vanno dal razzismo alla violenza domestica, dal bullismo alle problematiche legate al tema dell’immigrazione.
Di grande carica emotiva è il racconto del suo rapporto col padre e la madre, che se pur distanti dal loro paese d’origine, mantengono inalterata la divisione dei ruoli e tutto ciò che ne consegue, come se vivessero ancora in Marocco. Tra le pagine si percepisce la sofferenza di Youssef che non riesce a essere sé stesso, a causa di un modo di vivere duplice, una vita “fuori” dove le sue origini vengono camuffate o addirittura cancellate e una vita “dentro”, cioè all’interno del suo spazio familiare in cui la Tradizione non può incontrare la Modernità.
Significativo è questo passaggio: “Per anni e fino a poco tempo fa ho avuto una visione della vita totalmente distorta, una verità tramandata nell’ignoranza e nella disinformazione, nella paura e nella sofferenza celata. Fin da bambino tutto ciò che mi circonda cerca di raccontarmi una storia a cui dovrei credere senza pormi domande, per vent’anni sono stato accecato da una paura tradizionalista, ho messo a tacere le domande della ragione, ma le grida del buonsenso prima o poi riprendono il sopravvento e toccherà a te trovare le risposte che non hanno mai voluto darti”.
Operaio FIAT fin dalle scuole superiori, Youssef ha un grande sogno, quello di diventare scrittore e, se lo diventerà, lo dovrà sicuramente alla sua caparbietà ma anche a quell’Italia, spesso razzista, ma da cui ha tratto una grande lezione: “Ho imparato a 24 anni che la tradizione non si può cambiare, le mentalità non si possono rivoluzionare, ma ciò che assolutamente non si deve commettere è l’errore di arrendere il proprio animo ad esse.”

La stanza profonda

2

di Vanni Santoni

Ultimo anno. Smolla il master, smollano tutti. Gli smartphone, fino a lì banditi dagli stessi giocatori, cominciano a esser consultati da sotto il tavolo; a inizio giocata, mentre interpreti un comprimario importante, il Paride e il Bollo, di solito i più attenti, si stanno scambiando i dati del fantacalcio. Anche solo richiamare l’attenzione di ognuno chiede ogni volta uno sforzo ulteriore:
Leia, dai, sta a te. Che fai? Hai un reietto, il #3, ingaggiato.
Attaccalo, va’, dice Andre rimettendo il telefono in tasca.
No, macché, fa il Silli, non sprecare la mossa su quello. Disingaggiati, prenditi l’attacco d’opportunità, tanto cosa vuoi che ti faccia, e vieni a tirare al boss insieme a me…
Ma Leia niente, continua a scribacchiare. Non sulla scheda, su un quadernino.
Leia!
Oh, come? Scusa, non stavo seguendo.
Che fai, attacchi? Sennò ti metto a fine griglia.
No, no, attacco, aspetta un attimo…
Cosa scrivi, fa il Silli, e le sbircia il quaderno: Aprile gl’è i’ mese… Cos’è?
Niente… Ve la volevo anche leggere, ma non ho finito…
Ma cos’è, chiede anche Tiziano.
Nulla, ho tradotto La terra desolata di Eliot in valdarnese.
E perché?
Così per ruzzo…
Leggicela allora!
Non l’ho finita…
Leggici fin dove sei arrivata.
Va bene. Aprile gl’è i’ mese più ignorante…
Perché ignorante?
Perché “crudele” in valdarnese come lo vuoi dire, Silli? Avevo considerato anche balordo, ma ignorante secondo me è più preciso. Ora mi tocca ricominciare:
Aprile gl’è i’ mese più ignorante,
governa serenelle dalla rena stecchita
Serenelle?
I lillà. Chiedi a tua nonna come si chiamano quei fiori, ti dirà: ah, le serenelle.
Dai Leia, continua…
Meno male ci sei tu, Tizzi.
… intruglia ri’ordi e voglie,
scozza le barbe tonchie…
Tonchie?
E dai Silli, lasciala finire.
…a scrosci marzolini.
D’inverno si stette a i’ caldo,
coperti di brina da dimenticassi ugnicosa
e per campare, du’ patate secche
L’estate ci lasciò basiti,
arrivando su i’ borro d’i’ Giglio co’ una giubbata d’acqua
ci si fermò alle Logge, e ci si smosse co’i’ sole
giù lungo i’ corso.
si prese un caffeino e si ragionò per un’ora
“No, macché aretina… Sto a Ricasoli, ma i’ mi’ babbo è di Meleto”
Caffè lo potevi lasciare. Non è che così è più valdarnese, dice il Silli.
Sì, insomma, dice Andre stappando una Moretti con l’accendino, fa ridere, ok, ma quindi?
Voleva fare la grossa. Ancora il Silli. La terra desolata… Ci volevi dire che sarebbe meglio andar via, che sarebbe meglio sbarbarsi? Lo sappiamo anche da soli, cosa credi.
Ma veramente…
Parli bene, tu, perché puoi permettertelo, di andar via. Poi vieni qua a menartela… Cosa credi, di essere l’unica che sa Eliot? Tieni, ti rispondo così: Houses rise and fall, crumble, are extended / Are… Pass… No, aspetta, com’era…
Io forse vado via l’anno prossimo, dice Tiziano per allentare.
Dove vai?
Mah, penso a Londra…
Sarebbe bono, dice il Bollo, lì uno che macina Javascript lo pagano a modo, altro che programmatore da Prada.
Non mi toccare Prada, fa Andre.
Vabbe’, te fai il sistemista, non fai una sega tutto il giorno…
Il Florian, dice il Paride, è un po’ che sta all’estero…
Perché Erme no? Anche il Mella avevo sentito dire che se ne era andato…
Lui, dice il Paride, che fine ha fatto non lo sa mica nessuno… Ma tu, Leia, non vai a stare a Pisa?
Oh, basta. Vogliamo giocare! Così Andre.
E ricominciate:
Allora Leia, hai un lanzichenecco ingaggiato.
Con il Mantello Sfuggente di Ophelia posso disingaggiarmi una volta al giorno senza subire attacchi di opportunità. Mi disingaggio, muovo di quattro metri a sudest e gli scaglio due giavellotti alla testa… Preso. Critico. Preso. Critico.
Tornate nel gioco, e fino a notte. E sì, pensi mentre amministri la fine di quello scontro, sembrava quasi che voi, voi rimasti, foste ancora tutti lì per il gioco; o meglio il gioco rappresentava l’ostinazione di alcuni, la prudenza di altri, la necessità di altri ancora, di rimanere nella terra desolata, e anche tu, del resto, non te ne eri già andato a Firenze? E quante volte avevi considerato l’idea di spostarti ancora più in là, di lasciare l’Italia, ma non sarebbe stato spaventoso, poi, rientrare? Se ti capita di dover tornare, hai bisogno di un’Itaca, non di una Mordor…

Estratto da: La stanza profonda (Laterza, 2017)

Esordire

7

di Davide Orecchio

effeAssumo il punto di vista del non esordito .

Si trova davanti a un confine. Deve attraversare la frontiera. Cerca cittadinanza in una terra che dia asilo alla sua scrittura. È un profugo. Nessuno lo vede. Lo circonda un muro di ghiaccio. Deve romperlo. L’atto lo renderebbe visibile dapprima alla piccola comunità degli addetti ai lavori, poi, se iniziasse una “carriera”, anche ai lettori.

Che fare?

Il passaggio avverrà in modi più o meno virtuosi.

Esordire non è difficile. Farsi leggere. Nel 2017. Le vie digitali sono infinite. E non c’è nulla di sbagliato. Nel volgere la scrittura ai social media, ai blog. Nel catturare l’attenzione di laggiù/quaggiù. Nascono però testi disintermediati. Questo non vuol dire che non possano essere belli. Ma nessuno li ha curati assieme all’autore, nessuno li ha fatti crescere. E non avranno, nella maggior parte dei casi, la struttura di niente (il racconto, il romanzo, il saggio, la biografia). Saranno pensieri. Nuove forme senz’altro. Forse predicono quello che sarà (o già è) la scrittura.

Una scorciatoia è lo scafista

Per (illudersi di) varcare il confine dalla terra ignota, il non esordito può pagare lo scafista. Dicono che ve ne siano moltissimi, e abili e insospettabili. Promettono il libro. Il viaggio. Sono, però, gente infida. Non garantiscono approdi sicuri. Di certo nessuna certificazione, né cittadinanza. Gli scafisti dell’editoria. Gli editori a pagamento.

C’è una strada più lunga.

Passare per una rivista letteraria, sottoporsi al giudizio, al vaglio, alla selezione e all’editing di un collettivo di persone. E’ la porta stretta dell’esordio.

Non il blog, né la scrittura sui social.

Non lo scafista.

La rivista. Trimestrale, semestrale. Di carta. Con la copertina. Distribuita negli scaffali delle librerie. Con un costo. Non gratis.

Sembrerebbe un fenomeno del Novecento, e invece no. Nascono nuove riviste e fanno un ottimo lavoro.

Ad esempio effe, che è arrivata al numero 6, e pubblica racconti di autori esordienti, un po’ come faceva Watt fino a poco tempo fa.

Effe funziona. Perché? Per una cura editoriale, un ragionamento collettivo, perché un piccolo gruppo si dedica alla selezione dei testi.

Quindi c’è un rapporto. Lo scrivente matura in un esordio sulla rivista dove il gruppo l’accoglie ponendo condizioni di editing, allenando la sua scrittura.

Nella maturazione rientra pure il rifiuto, l’attesa, il tempo.

Se la rivista non giudica pronto il non esordito, lui o lei dovrà aspettare tre mesi, sei mesi, un anno. È il tempo della carta.

Questo tempo serve. La pazienza serve.

La sofferenza è ok, è fondamentale in un esordio. Più si soffre, migliore è l’esordio.

La sofferenza è giusta.

Le porte chiuse, poi forse socchiuse (o non sarà un miraggio?), infine aperte.

Non c’è ragione perché un esordiente non soffra. In fondo vuole entrare in un mondo che lo farà molto soffrire. Ci sarà sofferenza sia nella buona che nella cattiva sorte. E appartenenza a un fenomeno socialmente inessenziale – la letteratura italiana –, che procurerà all’esordito sofferenza.

La sofferenza è educativa.

Lasciamo agli individui di cartapesta le vittorie facili.

Il rapporto tra lo scout, l’editor, l’insegnante di scrittura creativa (non ne conosco, ipotizzo) e il suo allievo o candidato all’esordio è di ragionevole sadismo. Il film Whiplash espone la relazione per analogia. Sostituire l’aspirante batterista con l’aspirante scrittore. C’è la controindicazione di una pedagogia fascista, con sgrottamenti psicologici e ferite che mostreranno per sempre le cuciture inestetiche. Mi rendo conto, ma nessuno ha risolto il problema, a oggi. Quel che è certo è che una didattica materna, affettiva è disdicevole per il non esordito che vuol essere scrittore italiano. Solo lo scrittore italiano, nel suo habitat socialmente inessenziale, può pretendere attestati di stima, complimenti italiani, che pure difficilmente arriveranno. Ma il non esordito, basta che soffra; non ha nulla a pretendere.

*

Torniamo a effe. Dario De Cristofaro, uno dei redattori della rivista, mi ha spiegato come funziona. Cito le sue parole a seguire:

 

«effe è un’antologia periodica di racconti inediti illustrati che, a ogni uscita, coinvolge scrittori noti accanto ad autori emergenti o alla prima pubblicazione. Il progetto è stato ideato nel 2012 per sondare gli umori della scena letteraria, divenendo una vetrina per gli esordienti e un passaggio collaudato per gli scrittori già noti, grazie a un attento lavoro di scouting portato avanti dalla redazione di Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, che si occupa anche della cura redazionale del volume».

 

«Non è però solo un buon trampolino di lancio per gli esordienti e uno spazio di sperimentazione per gli autori noti, ma anche uno strumento per gli addetti ai lavori e un bacino inedito per i lettori, i quali hanno la possibilità di scoprire e leggere nuovi nomi, al di là dei circuiti editoriali tradizionali. Ogni numero viene presentato in giro per l’Italia, nelle librerie indipendenti (dove siamo distribuiti in maniera diretta) assieme agli autori. Un’operazione che ha uno scopo ben preciso: promuovere anche territorialmente tutti gli scrittori (con maggiore attenzione nei confronti degli esordienti), condividendo le storie e creando discussioni intorno alla narrativa breve».

 

«Lo scounting di effe è svolto in un duplice modo: dalla redazione di Flanerí attraverso il lancio di contest nazionali (l’ultimo, lo scorso ottobre, a cui hanno partecipato circa 450 autori aveva come tema appunto il limite); dagli editor dello studio editoriale 42Linee che selezionano il materiale giunto in redazione o suggerito da altri addetti ai lavori (agenti e editor di case editrici medio-grandi)».

 

«Sulle pagine di effe sono passati, prima di esordire, autori come Luciano Funetta (Tunué), Elisa Casseri (Elliot), Gianni Agostinelli (Del Vecchio), Marzia Grillo (Elliot), Athos Zontini (Bompiani) e Alessandra Minervini (LiberAria), e scrittori già affermati del calibro di Matteo Nucci, Paolo Zardi, Demetrio Paolin, Vins Gallico, Carla Vasio, Luca Ricci e Paolo Cognetti. Ogni racconto di effe è letto e illustrato da giovani creativi di fama internazionale come Lucamaleonte, Andreco, Darkam, Paolo Cattaneo e Alina Vergnano».

 

«La possibilità di crescita del progetto è legata alla sua sostenibilità: attualmente effe si autofinanzia: ogni numero viene stampato con i ricavati delle vendite del numero precedente e a tiratura limitata e numerata. Non sono previste ristampe».

Il numero 6 della rivista (uscito a gennaio 2017), dedicato com’è al tema del confine, del limite, richiama in fondo quanto scrivevo sopra dell’esordio.

Questo è il sommario:
Il grande blu di Roberto Bioy Fälsher
I lanciatori di Paolo Cognetti (ill. di Alessandra De Cristofaro)
Eidetica di Matteo Pascoletti (ill. di Alice Socal)
La figlia del padrone di Laura Fusconi (ill. di Marianna Coppo)
Kalat di Davide Coltri (ill. di Giovanna Lopalco)
Ci vorrebbe il mattino che scaccia i fantasmi di Alessio Schreiner (ill. di Olga Tranchini)
Una cosa che non si aspettava nessuno di Luca Franzoni (ill. di Alessandro Ripane)
Solo cose morte di Francesca Morelli (ill. di Nathalie Cohen)
La poltrona di Luca Ricci (ill. di Geometric Bang)

Tra alcuni esordi di effe le scritture sono misteriosamente coerenti, come se comunicassero tra loro, “educate” e di qualità, pure apparentate in una doppia elica comune, primigenia; foto di gruppo di fratelli e sorelle.

Per gusto personale, sempre tra gli esordienti, m’è piaciuto il racconto di Coltri, capace di immedesimarsi nelle peripezie di una ragazza curda, e di raccontarle di guerra in guerra, di frontiera in frontiera (ma nell’empatia di Coltri c’è anche una spiegazione biografica: chi sfoglierà la rivista lo capirà).

 

*

Certo: il racconto.

A una rivista come effe bisogna proporre un racconto.

Non un testo breve, un componimento, un pensiero che si dica racconto senza esserlo. No, proprio un racconto. Una storia che abbia i requisiti, la struttura, la leggibilità del racconto. È una prova impegnativa. Inevitabile per chi voglia passare per la porta stretta della rivista letteraria. Ma è formativo, no? S’impara qualcosa.

Si incontrano persone e figure editoriali, se non intellettuali, che ti consentono di crescere.

Scrivere un racconto per una rivista letteraria: non c’è modo migliore di esordire. Punto.

*

Resta la questione della responsabilità.

Al di là del confine, nella terra della pubblicazione, si tende a sottovalutarla. O a far finta che la questione non esista. Eppure c’è un tema, se non etico, ambientale. Gli scafisti non se lo pongono. Neanche WordPress o Facebook. Ma una rivista letteraria con la vocazione dello scouting dovrebbe sempre chiedersi: questo autore che faccio esordire sarà atossico, ecologico, biodegradabile? Ho fatto di tutto per verificare che la sua scrittura non contenga plastica, petrolio, materie radioattive, interferenti endocrini, CO2 o altre sostanze di plurisecolare inquinamento?

Ho assolto fino in fondo il mio compito, che è purificare, nel mio piccolo, l’ambiente letterario, migliorarlo e non peggiorarlo?

Alla ricerca di una possibile concretezza # 1

2

[L’intero testo è apparso come postfazione a Lavoro da fare, uscito nel 2006 in e-book e in formato cartaceo nel 2017 presso la Dot.com Press di Milano. E’ d’uso, in NI, non postare recensioni che si riferiscono a libri pubblicati dagli indiani. Questo è infatti un saggio che, più che giudicare un libro, ambisce a riflettere su di una fase importante del percorso poetico di Biagio Cepollaro.]

 

di Andrea Inglese

 

1.

Nell’itinerario poetico di Biagio Cepollaro Lavoro da fare si colloca tra un libro del 2004, Versi nuovi (1998-2001) edito da Oédipus, e Le qualità uscito nel 2012, presso La camera verde. Lavoro da fare, prima di essere oggi pubblicato in edizione cartacea appare nel 2006 in formato e-book, autoprodotto dall’autore, con una postfazione di Florinda Fusco. In quello stesso anno, Cepollaro fa uscire un altro e-book, intitolato Letture di “Lavoro da fare”, in cui raccoglie diversi interventi critici. Gli autori di questi interventi, però, da Giuliano Mesa a Giorgio Mascitelli, da Jacopo Galimberti a Francesco Marotta, da Massimo Orgiazzi al sottoscritto, non sono dei critici, ma poeti o romanzieri loro stessi, giovani e non, noti e meno noti.

di fantasmi e stasi. transizioni # 2

0

di Gianluca Garrapa

.

lu friddhu ca me vene quandu visciu comu sia ‘na nebbia ca sale. dai campi addolciti nel ritorno. e pure le giravolte dei fari. madreperlati ai socchiusi occhi ndormisciuti. e lu presente me ‘mpaura. comu sia ca no l’ave. il presente. e perso nei seminari di un passato. ricordo. no visciu l’ura cu va’ ddormu. e se pensu ca me sentu sulu. puru cu l’addhi. comu nu scheletru de mandorlo che sta fiorendo. piantato a emblema della solitudine. globale dell’uomo se penso. al pensiero che mi ha formato. allora sacciu ca l’unica soluzione. è la bbirra allu pakistanu. custa picca. e tiene. per un po’ almeno. lontano lu friddhu. ca me vene quandu visciu. comu sia ‘na nebbia. ca sale dai campi. addolciti nel ritorno.

Città dei porci. La costruzione dell’ignipotens

0

cittadeiporci

di Davide Orecchio

– Cosa si fabbrica qui?

– Ignipotens. Puoi definirle anche auto del cielo. O micronuvole. Oppure succhiasole, al modo dei maiali quando ce l’hanno coi normoarto. Perché consumano l’energia della stella. Molta energia. E qualche porco sostiene che in presenza, o incombenza, di troppi ignipotens la temperatura s’abbassa e arriva il freddo. Ehi, guarda Felix, l’operaio surfer, come s’avvia veloce al ridotto! Ha fretta. Il varco riconosce il suo biolasciapassare e s’apre per lui. Nelle tappe dell’ingresso e nel corridoio che l’accoglie non è solo, già trova decine di compagni maiali. Saluta tutti. Fanno le solite chiacchiere e proseguono. Non molte chiacchiere. Non vedono l’ora di mettersi all’opera. Mica vogliono perdere tempo. In corsia la luce Astroeclissi™ li irrora di azzurro. Centinaia di sagome versate sulle pareti di piombo elastico. Profili turchesi in ombre che li raddoppiano. Un esercito goffamente in marcia verso il lavoro sull’aritmia delle zampe. S’avverte l’odore acre di verro. Seppure disciplinati nelle intenzioni, grugniti escoriano il silenzio di questo corteo. Intanto il surfer è arrivato nello spogliatoio (una delle tante nicchie) e inizia a cambiarsi. Afferra la tuta dal gancio e la verifica prima di indossarla. Il serbatoio dell’urina è vuoto. L’involucro delle feci è pulito. L’erogatore di sussistenza è già raccordato all’imboccatura. Prende la tanica dell’acqua potabile da versare nel vaso di plastica sigillato sul dorso della tuta. Quando il recipiente è colmo, aggancia il tubo che lo disseterà durante il turno, introduce la canna nelle asole di metallo che fanno da binario dalla groppa fino al bavero, e all’altezza del colletto applica il boccaglio. Quindi apre coi denti due sacchetti di metallo morbido che rilasciano polvere nera, solo polvere, e la versa nel serbatoio di sussistenza, quella piccola cisterna verde sul fianco destro dell’uniforme.

– La vedo.

– Quando l’ha riempita di polvere, aggiunge anche lì acqua. E mescola con un cucchiaio fino a creare una pappa. Poi chiude con un cocchiume di ghiaccio bollente e la tuta è pronta. Sfila gli abiti civili fino a restare nudo, e la veste. Controlla un’ultima volta che i due tubi dell’alimentazione solida e liquida siano aperti, sigilla ganci e bottoni, stringe i guanti, cala la maschera ed è pronto.

– Quindi berrà e mangerà dalla tuta?

– Esatto.

– Durante il lavoro?

– Lavorare e mangiare. Lavorare e dissetarsi. Senza perdere il ritmo o sbagliare mansione. I maiali ne vanno fieri.

– E cosa dicevi delle urine, delle feci, dei serbatoi?

– In fabbrica non si fanno pause. Devo aggiungere altro?

– Non c’è bisogno. Ho capito. A cosa servono, invece, quelle tavole da surf appese alla parete?

– A levitare. Puoi chiamarle tabulae. Macchine volanti. Tra poco, quando le vedrai accese, capirai come funzionano. Ora Felix il surfer ne stacca una dai ganci e la stringe tra il braccio e l’ascella. Esce dal vestibolo. Si affretta nel corridoio. Altri surfer si aggiungono a lui. Riempiono lo spazio come passeggeri poco prima di entrare in un aereo, in sosta nel condotto. Solo che i maiali operai non aspettano, scalpitano. Avanzano. Si eccitano avanzando. Per fortuna puoi vederli, mansueti e sportivi. Altrimenti i loro cento più cento passi pesanti t’incuterebbero paura. E l’eco di questa marcia eccitata ti metterebbe in fuga. Adesso, però, chiudi gli occhi.

– Scusa?

– Hai capito bene. Chiudi gli occhi.

– Perché?

– Abbiamo un privilegio. Possiamo scartare il tempo inutile dei raccordi. Eliminare tragitti destinati all’oblio. Andare da un punto a un altro senza curarci della durata, senza pensare ai piccoli anelli della catena. Cos’è la durata, se non un ripostiglio dove accumuliamo l’inservibile, le scorie? Ci opprime. Quindi, ora che si presenta l’occasione per liberarcene, cerchiamo di non mancarla. Il nostro è un lusso, una rarità. Quanto lo è imbattersi in una frase pulita da particelle sozze, preposizioni e congiunzioni, interiezioni; una frase trasparente e leggera sulle ali del suo significato, libera dalla zavorra di circonlocuzioni e incisi. Allora chiudi gli occhi. Ecco. Cosa vedi?

– Nulla! Ho gli occhi chiusi!

– Non scorgi le immagini dei tuoi pensieri, le fattezze dei tuoi sogni? Non vedi le persone della tua vita?

– Se mi concentro…

– No! Lasciati andare, al contrario. Lascia che le immagini si associno disordinatamente. E dimentica il tempo.

– Va bene, ci provo. Ecco. Vedo già qualcosa. Sembra una spiaggia. Direi che è la spiaggia della mia infanzia. È da tanto che non ci vado ma quando ho un momento di pace, o poco prima di addormentarmi, spesso la penso. Era un posto incantato. La sabbia nera e ardente, in prossimità del mare, cedeva a ciottoli scuri e grigi. L’acqua era profonda decine di metri al di sopra di un fondale inabissato e vulcanico, eppure non avevo paura di tuffarmi. M’immergevo in cerca di polpi e conchiglie, e pontili affondati. Ero felice. Ma ora sono tornato! Laggiù c’è la barca di un pescatore. Di legno, verniciata di verde e azzurro. Lunga e pesante. L’hanno tirata a riva da poco. La rete arancione è arruffata su un fianco e gronda ancora acqua dai sugheri, e odora di granchio. Una donna è accovacciata accanto alla barca. Ha poggiato il suo pareo sullo scafo e guarda il mare: dev’esserne uscita da poco, perché le gocce le colano sulla schiena e ha i capelli raggomitolati in una sola, pigra ciocca. È mia madre. Accanto a lei, in piedi, vedo anche un uomo alto e dalla nuca brizzolata. Le accarezza il collo. Indossa pantaloncini bianchi e una polo azzurra. Guarda il mare con lei. Quello è mio padre. Poco più sotto, sulla battigia, due bambine si rincorrono fuori e dentro l’acqua. Giocano e gridano. Però non so chi siano. Tu le conosci?

– No e non vedo perché dovrei. È un tuo ricordo. Adesso, comunque, puoi riaprire gli occhi. Abbiamo ingannato a sufficienza la durata. L’abbiamo disinnescata. Aprili e dimmi cosa vedi.

– E cosa ci sarà mai da vedere? Non posso restare ancora un po’ sulla mia spiaggia? D’accordo, obbedisco. Li apro e ti dico cosa vedo… Oh, santo cielo!

– Impressionante, vero?

– È incredibile!

– Lo vedi Felix il surfer?

– Sì!

– Racconta tu cosa fa. Con le tue parole.

– Ma non ne ho per descriverlo! Quella che ho non mi basta. È lunga appena quattro lettere: v – o – l – o. Quanto vedo non ci entra. È come ostinarsi a infilare un uomo alto due metri negli abiti di un bambino. Possiamo accontentarci di dire che il surfer vola? Non saetta anche? Non levita? Non schizza in metri cubi di spazio sommato, verticale, vertiginoso? E poi si butta a capofitto, parallelo agli altri compagni. E poi risalgono tutti insieme portati su da quelle tavole che gettano scintille su onde invisibili, inesistenti. Sono pazzi, questi porci. Sono formidabili. Dunque è così che lavora il surfer?

– Sì. E lo fa senza soste, senza pause, senza una sola, trasognata intermittenza della concentrazione come la tua di poco fa. Per dieci ore di fila si fionda, eppure è un lavoratore di precisione. Cavalca la tabula con una velocità vorticosa. Rotea e sterza nel suo volo industrioso. S’aggira attorno alla carcassa dell’ignipotens sospeso, in costruzione. Vede dove occorre saldare e salda, dove si deve avvitare e avvita. Succhia un po’ d’acqua dalla canna dei liquidi, ingoia l’intruglio dal tubo del cibo e riparte. Quand’è il momento della verniciatura, accende la pompa. Verifica i raccordi tra motore e pannelli solari, saggia il telaio di carborundum, sigilla i vetri, fissa i bulloni di aeternus. Al suo fianco altri compagni badano alle balestre e all’albero a camme, ispezionano il cruscotto, sorvegliano la turbina. Ed è ancora il nostro surfer a valutare le fiancate, il cofano e i fanali. Volteggiando la sua tabula emette bagliori, filamenti di fuoco. Lui continua a spargersi sull’ignipotens come un’ape sul fiore. Sotto, sopra, ai fianchi, svolgendo mille mansioni. Lo edifica e protegge. Sembra una danza improvvisata, la sua, il metodo di lavoro di un artigiano eccentrico, ma non è così. Ogni operazione ha il suo decorso massimo. Dietro ogni compito c’è un calcolo. La metrica del tempo lavorato è una scienza. Cinque secondi per aprire i bocchettoni della vernice. Mezzo secondo per stringere ciascuna vite dei giunti. Sette secondi per incollare i vetri. Applica un manuale sincopato di ritmi che motiva tutto quel roteare sulle tabulae, quel precipitarsi all’insù e all’ingiù. L’ignipotens dev’essere pronto in venti minuti.

– Nel mezzo dell’aria. A metri e metri di altezza?

– Ma non c’è un gran pericolo. Le zampe del surfer sono ancorate alla tabula in guaine di gomma. Succede raramente che i foderi si rompano. Quando capita, e se quando capita il maiale sta molto in alto, allora precipita come un allocco morto. Sotto non ci sono reti che impastoierebbero i macchinari e il movimento degli altri maiali. Un porco si salva solo se un compagno l’afferra al volo. Il che succede quasi sempre. Non sempre.

– Sotto, sopra; non ci capisco nulla. Lavorano a terra, lavorano in aria. Spiegami meglio.

– Basta osservare. Cominciamo dal livello terra. Li vedi i porci su due zampe, privi di tabulae, semplici operai indaffarati alla catena di montaggio?

– Sì, certo.

– Sono aggregatori di bassa qualifica, addetti al nastro di scorrimento. Vigilano sui robot che saldano e assemblano le scocche. Sono i custodi della prima fase, quando l’ignipotens si forma senza definirsi ancora. Al livello terra la costruzione è giusto uno schema. L’auto sembra pronta, ma è fragile. I normoarto non si fidano della catena. Vogliono auto perfette. Vogliono la tecnologia più la sapienza, l’evoluzione più l’artigianato, la macchina più l’organismo pensante. Per questo hanno inventato il livello aria intermedio.

– Dove lavorano i surfer?

– Loro sono gli operai specializzati. I cervelli che stringono l’ultima vite. Sono la cavalleria aerea della fabbrica.

– Ma perché devono lavorare per aria?

– Buona domanda. Una risposta precisa non ce l’ho. Credo dipenda dalla mitomania dei normoarto, dalla loro passione per l’altezza e la verticalità. Ne sono tanto incantati da aver creato la fabbrica cuspide.

– Ora che succede? Il surfer s’è come rallentato. Cosa fa? Fluttua? Nuota?

– È entrato nell’area di galleggiamento, un deposito privo di gravità dove tengono gli arnesi per evitare che cadano. Lì dentro la tabula è inservibile. Infatti oscilla dietro al surfer, allacciata alla sua caviglia. Chissà cosa cerca. Sembra che nuoti sott’acqua. S’aggira tra gli utensili come un’astronave in una corona di meteoriti. Ora il ritmo s’è capovolto dal vortice alla lentezza, mentre fuori dalla bolla prosegue la frenesia degli schizzi. Quando ti tuffi nell’area di galleggiamento diventi una fotografia, il ritratto dell’istante nel quale hai perso la tua velocità. Rimbalzi e graviti in un nascondiglio. Ma il surfer cosa si deve procurare? Tu l’hai capito? No, certo. Tu non sai nulla. Potrebbe aver bisogno di una mola portatile. Oppure di una saldatrice. O forse di un trapano. O anche di viti e spine. Che dici? Ah, ecco. Mistero risolto, guarda: ha impugnato un bullone. Galleggiava davanti al suo muso. Un semplice, singolo bullone. Ora nuota fuori. S’aiuta muovendo gambe e braccia. La tabula lo segue, finché lui l’inforca e parte. Prende velocità. Torna al lavoro.

– Torna a volare!

– Torna a fiondarsi sul cantiere dell’ignipotens. Non ti distrarre. Non perderlo di vista. Lui ha già stretto il bullone e compie tre capriole che disegnano altrettanti cerchi di fumo nei quali si tuffa. Si vede che è un virtuoso della tabula. Usa un movimento continuo e vellutato. Disegna rotondità e archi. Oppure moltiplica microspostamenti. Sale e scende, si volta e raddrizza scompaginando scatti. Crea scenografie acrobatiche dove quel tanto d’improvvisazione concessa s’accosta alla tempistica prescritta dai normoarto. Tanto è agile qui, quanto è goffo quando cammina nella città bassa.

– Avrei una domanda.

– Sentiamo.

– Questa fabbrica non è primitiva? Poche funzioni sono affidate ai robot. Il lavoro dei maiali, se escludiamo il volo sulle tavole, fa pensare a un laboratorio.

– Te l’ho detto, i normoarto non si fidano delle macchine. Vogliono che l’ultima saldatura sia opera di un cervello naturale. L’hanno imparato dalla storia. Le fabbriche robotizzate, affidate a meccanismi e androidi, hanno fallito, ne veniva un lavoro impreciso, ne uscivano prodotti mediocri. Si diffuse il sospetto che le macchine sabotassero apposta, per nichilismo. Si giunse a un punto di lacerazione, perché non si formava una maggioranza che deliberasse se tornare al vecchio sistema di operai in carne e ossa oppure seguitare con i robot sbadati. C’era anche una questione ideologica, visto che ai normoarto non piace l’idea di andare all’indietro, vogliono sempre progredire; perciò nella querelle alcuni già parlavano di ritorno al Medio Evo. Ma era tutta una polemica sterile: chi mai si sarebbe prestato al mestiere dell’operaio? Ci si era ormai rassegnati alla mediocrità industriale quando apparve il miracolo di una creatura intelligente e laboriosa, onesta e produttiva, solidale, nata per la fatica: il maiale di città, l’essere che ti ho mostrato in quest’impianto, sulla strada, dappertutto. Il Grande Salto Biologico consentì di organizzare officine solo in apparenza rudimentali, ma in realtà sofisticate, dove ogni gesto del lavoro non solo è pensato ma desiderato.

– A me sembra che li sfruttino e basta, questi maiali.

– Ti sbagli. Dall’ingranaggio si passò all’organismo, dalla struttura alla comunità. Non credo possa sfuggirti la superiorità di una forma di pensiero organica rispetto alle miserie dell’intelletto artificiale. È la primazia della volontà sull’esecuzione inanimata. Il Grande Salto Biologico è stato anche questo: il ritorno della vita nelle fabbriche. L’esempio incarnato è il surfer, che gioisce del proprio lavoro. Quando stacca dal turno già pensa alla ripresa dell’indomani. Di ogni svolazzo, di ciascun bullone montato e fendivento saldato il surfer avverte la nostalgia già svestendo la tuta. Forse è la potenza del suo volteggiare che lo rende tanto fiero. Le parabole nelle quali si libra. Un meccanismo solido e affidabile è il figlio che ogni venti minuti il surfer concepisce. Se lo potessi vedere rallentato mentre lavora, capiresti cosa intendo se ti dico “beatitudine”, “concentrazione”, “diletto”: la trasparenza dei suoi movimenti come una lastra di cristallo per gli stati d’animo che prova. Ma anche adesso che ha finito ti accorgi che è contento dal sorriso che affiora sulle sue labbra, mentre sgancia tubi, scatole, arnesi del suo equipaggiamento, li deterge e ripone, siede sulla panca dello spogliatoio e riposa, ancora in estasi. Stremato. Invecchiato dalla fatica. Ansimante.

– Non mi convinci. Certo sembra felice. Che strana creatura.

***


Un sogno di Felix nella foresta

– Cos’è questa oscurità? Non vedo più niente.

– Nemmeno io. Poco fa era tutto rosso, poi è diventato viola.

– Ora è buio pesto. Non vedo più la storia. La foresta è scomparsa. Felix è sparito. Riportali indietro.

– Non so come si faccia. Non ho neppure una torcia, né un cerino.

– Non vedo più le tue parole. Dici “torcia” e resto cieco. Dici “cerino” e non ne trovo l’immagine. Che fare?

– Non ci resta che aspettare che passi. Pensa alla tua spiaggia, se vuoi. Quanto a me, cercherò di ricordare perché ho iniziato a raccontare questa storia ingiusta, imprevedibile, inservibile, non necessaria.

– Purtroppo non posso seguire il tuo consiglio. Non riesco a vedere la spiaggia. Ho i pensieri al buio.

– Anch’io. Non so come procedere. Sono preoccupato. Aspetta! Ora ho capito cos’è successo. Felix è svenuto!

– Come fai a saperlo se non vediamo nulla?

– Non è così. L’hai notata quella zampa che sbuca dalle tenebre come dal lenzuolo che avvolga uno che dorme?

– È un po’ sfocata, ma la vedo.

– Se ci concentriamo, forse riusciremo a recuperare l’intera figura e quanto la circonda, la storia e i suoi oggetti.

– Proviamo.

– Come va?

– Ora vedo anche l’altra zampa.

– Io vedo le due gambe fino al bacino.

– Il petto e le braccia inerti.

– Il volto privo di coscienza. L’erba dov’è caduto. Passa un martin pescatore. Nel fiume oltre le canne di Plinio si tuffa qualcuno. Felix punta il niffo contro il cielo, le nuvole e il sole. Sta sognando. È immerso nel verde.

– Il colore della speranza.

– Non in questo sogno dove tutto è livido. Il sogno mostra un prato e un uomo che, su camomilla e centofoglie, viene verso Felix dal bosco. Sale sul sentiero che esce dalla pineta. È minuto, lento, stinto come ovatta usata. Segue le curve della pista. Scompare e quando riappare è più grande, veloce e nitido.

– Dipende dal fatto che s’avvicina.

– Quindi gli occhi del sogno lo vedono meglio e, ora che s’è accostato a Felix, l’uomo siede accanto a lui tra gli asparagi selvatici e gli posa una mano sulla spalla. È qui per rincuorarlo.

– Ma sei tu!

– È vero, sono proprio io.

– Cosa ci fai nel sogno di Felix?

– Non lo so. Forse desideravo esserci, però non l’ho deciso. Non ho di questi poteri.

– Che follia. Lo stai abbracciando, lo conforti.

– Voglio dirgli che mi dispiace di essere soltanto io e non il padre o la madre, sebbene sia arrivato qui per affetto.

– Perché non parli, allora? Il sogno potrebbe finire da un momento all’altro.

– In questo sogno dove sono infiltrato succede che io sia muto e Felix ascolti altre voci. Neppure mi vede. Sono un fantasma inginocchiato accanto a lui nel verde. Persino il ruscello è più sonoro di me. Addirittura il grillo nella cicoria si nota di più. Il maiale pensa, ricorda, scruta l’orizzonte, strappa l’erba, gioca col filo d’erba, artiglia la zolla di terra e sporca le unghie, aspetta, ma non ascolta me, né mi vede. Io non sono nessuno. Neppure in quanto voce, cioè per quello che sono, io esisto.

– Quand’è così, parla con me. Io ti ascolto.

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 2: una gita in campagna
Parte 3: il supermercato

(Foto di copertina: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)

Inerzia, quale delizia!

2

di Antonio Sparzani
accidia

Dopo aver conosciuto la singolare inerzia del pigro Sole, conviene forse, per meglio comprendere l’idea d’inerzia e quanto le sta intorno, rifarsi alle origini almeno (perché altre parole appariranno lungo la strada) delle parole inerzia e accidia nelle letterature classiche. L’antecedente etimologico immediato per la prima è naturalmente il latino classico inertia, formato da in – ars, cioè assenza di arte, di attività, con lo slittamento di significato verso l’idea di non-fare in generale, e quindi inattività, pigrizia, inettitudine. L’antecedente etimologico del secondo è invece greco (esiste in latino un verbo acedior, d’uso assai raro e che significa mi intristisco, divento scontroso) ed è il sostantivo, anche qui piuttosto raro, akēdìa (ἀκηδία), talvolta akēdeia (ἀκήδεια), non usato dagli scrittori attici, ma solo in testi più tardi, tipicamente medici, per indicare spossatezza, esaurimento, abbattimento dello spirito.

Certo che se però si desse un’occhiata ad esempio al recente libro del monaco eremita Gabriel Bunge, intitolato Akedia, il male oscuro (Qiqajon, 1999) e riguardante la ricchissima dottrina di Evagrio Pontico, uno dei “padri del deserto” (IV secolo), potrebbe farsi un’idea dell’importanza della parola, e del suo contenuto, nella problematica etica del monachesimo delle origini.

L’antecedente greco più interessante invece è senz’altro arghìa (ἀργία), che proviene da aerghia (ἀεργία), astensione dall’azione, dall’opera, indolenza, pigrizia.
Arghìa è abbastanza frequente anche negli scrittori di epoca classica, e senz’altro poi in Platone e Aristotele. Per farci qualche idea concreta conviene citare un passo dell’aristotelica Etica a Nicomaco, nel quale Aristotele parla del sonno; discute in verità della facoltà della nutrizione, che compete alla parte non razionale dell’anima ed è comune a tutti gli esseri e non è quindi specificamente umana: tale facoltà, egli sostiene, si esercita soprattutto nel sonno, dove il bene e il male differiscono molto poco, ed è naturale che sia così perché il sonno è arghìa dell’anima, almeno quanto a quello per cui essa è buona o cattiva (Arist., Eth. Nic., 1102b2-11). E Demostene menziona, in un passo dell’orazione contro Eubulide (Dem., 57, 32), una legge sull’arghia: questa legge risaliva, sembra, a Dracone, e prevedeva la pena di morte per il reo, mentre Solone, nella sua riforma, aveva alleviato la pena, trasformandola, per chi fosse stato riconosciuto colpevole per tre volte, in atimia, ovvero nella perdita dei diritti civili. Una motivazione per la durezza della pena era l’incapacità del colpevole di arghia di conservare il patrimonio paterno e quindi il danno che ne derivava all’intera famiglia.

Nella letteratura latina il corrispondente inertia è pure usato in senso per lo più negativo; una citazione che menziona a questo proposito un’opposizione molto interessante si trova in Cicerone, nel Brutus (il protagonista è proprio quel Bruto che due anni dopo assassinerà Caio Giulio Cesare, suo padre adottivo, tu quoque Brute, ecc., – con ogni probabilità Cicerone era complice della congiura). L’opera comincia con il dolore per la morte dell’amico e avversario nell’arte oratoria Quinto Ortensio Ortalo, che Cicerone comunque grandemente stimava come uomo e come oratore, e prosegue lamentandosi dei calamitosi tempi presenti nei quali – Cicerone, repubblicano senza mezzi termini, era un convinto avversario di Cesare – le sorti della repubblica erano minacciate dalla tirannide. Così si lamenta Cicerone:

“Se c’è mai stato nel nostro paese un momento in cui il prestigio e la parola di un uomo dabbene avrebbero potuto strappare le armi dalle mani degli adirati cittadini, ciò si è avuto indubbiamente quando il baluardo della pace è crollato per gli errori o i timori degli uomini. Così ci è capitato che, quantunque vi fossero altre sventure maggiormente degne di compianto, noi dovessimo soprattutto affliggerci per la seguente considerazione: quando, dopo aver esercitato altissimi uffici, noi avremmo dovuto rifugiarci nel porto non dico dell’ozio e dell’infingardaggine, ma di una libera attività moderata e decorosa [portum confugere …. non inertiae neque desidiae, sed oti moderati atque honesti], e la nostra eloquenza cominciava a incanutire […], proprio allora sono state impugnate le armi…” (Brutus, II, 7-8).

Questa traduzione ci aiuta in un punto importante: il latino otium, qui contrapposto a inertia, non ha la connotazione negativa che il nostro ozio possiede. Otium era il tempo libero onestamente dedicato agli studi preferiti, alle lettere, a ciò che non è utile, ma è bello in sé. Giustamente il traduttore (G. Norcio, UTET, Torino 1976) rende anzi inertia con l’italiano ozio e otium con libera attività. E in questo senso la parola ha un equivalente quasi sovrapponibile in greco: è la skholḗ, (σχολή), tutta diversa dall’arghìa; è il tempo che si ha la libertà di dedicare a quel che più ci piace, non alle pressanti necessità della vita.
Si può istituire un parallelo perfetto, (come illustra Benveniste nel suo bellissimo Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi 1976) tra il latino negotium (da nec-otium) e la greca askholía (ἀσχολία); entrambi indicano occupazione, affari, assenza di tempo libero. Naturalmente gli usi che di una parola si fanno in una letteratura ricca e complessa come quella latina, o greca, non sono inscatolabili in formule rigorose e presentano casi estremi e anguillesche ambiguità.

Vorrei citarvi un ultimo passo dell’Ippolito di Euripide, nel quale la protagonista femminile, l’infelice Fedra, costretta da Afrodite, che arde di vendetta, a ardere d’amore per il figliastro Ippolito, dialogando con la fedele nutrice, e con il coro di donne di Trezene, riflette su “come si corrompa la vita degli uomini”; ecco le sue parole:

“E mi sembra che la gente volga al peggio non per predisposizione mentale: sono tante le persone sane di intelletto! Per me, la faccenda si prospetta così. Noi abbiamo una reale conoscenza del bene ma non ci impegniamo a praticarlo o per pigrizia o perché si antepongono al bene altri piaceri. Sono tanti i piaceri nella vita: le lunghe chiacchierate, il tempo libero – un delizioso male, il senso di vergogna.” (vv. 377-385).

Quello che qui traduciamo ‘tempo libero’ è per l’appunto la skholḗ, e il ‘delizioso male’ è terpnòn kakón, un ossimoro che esprime la contraddizione tra la dolcezza di abbandonarsi al piacere di un uso libero del tempo e il rischio sempre presente della peccaminosa pigrizia.
Ma, a parte pochi maliziosi esempi come questo, l’uso di skholé nella letteratura di epoca classica è pressoché costantemente senza connotazioni negative.
Dunque un campo semantico, quello che stiamo delineando, ancora esteso tra il non fare tout-court e il non fare le cose quotidiane e necessarie per la vita materiale, per dedicarsi però, con tutto l’agio richiesto, ad attività piacevoli per lo spirito. La storia delle parole naturalmente è strana e spesso imprevedibile e gli esiti italiani inerzia e ozio non rispecchiano affatto i significati degli antecedenti latini di cui s’è detto. Però è in questo campo semantico che si gioca quella minima analisi che vorrei un po’ alla volta portare avanti.

La parte maledetta di Georges Bataille

2

di Davide Gatto

malevitch2

Uno scrittore e saggista poliedrico e inafferrabile Georges Bataille (1897-1962), un non specialista che si è concesso la libertà di rincorrere il suo pensiero attraverso i tradizionali confini accademici tra le discipline riuscendo nel contempo a stimolare con la sua eccentricità la riflessione di specialisti quali Sartre, Blanchot[1], Derrida, Arendt[2], Baudrillard[3] e altri, tanti che citarli tutti renderebbe assai lungo l’elenco.

Un pensatore inoltre caparbio e ossessivo – anche spericolato se si considera la leggerezza con cui in questo libro trascorre da un capo all’altro della storia, dell’economia, dell’etnologia -, un pensatore capace, una volta intravista una grande idea, di inseguirla per tutta la vita e in tutte le sue opere come un vero predatore, o come un vero artista o un vero filosofo: in fondo è lo stesso.

È la stessa scelta editoriale originale di questo testo (1967, Editions de Minuit, Paris) a dimostrarlo: La parte maledetta, pubblicato la prima volta nel 1949, è uno svolgimento coerente dell’idea centrale contenuta ne La nozione di dépense, saggio apparso su «La Critique sociale» nel gennaio del 1933 e più volte ripreso e rielaborato.

L’idea chiave, a partire dalla quale Bataille attua un capovolgimento totale della legge fondamentale dell’economia politica, è che l’attività principale dell’uomo, quella che meglio lo determina e  che determina in definitiva una data società e l’intera storia, non è la produzione e la conservazione di beni in vista di un profitto futuro, dell’utile, ma il dispendio improduttivo delle risorse, la consumazione senza tornaconto, lo spreco, il lusso: la dépense, conservando l’ampiezza semantica che il termine francese ha nel saggio di Bataille[4].

 

In principio è l’energia (ovvero: L’energia universale e la necessità del dispendio)

Lo sguardo di Bataille sull’economia è innanzitutto vasto, una vastità che chiama in causa il movimento incessante e infinito dell’energia materiale dell’universo e che viene deliberatamente opposta come un rimprovero alla ristrettezza di vedute dell’economia classica. Mentre quest’ultima infatti, “particolare”, delimita un campo misurabile dell’agire umano in cui risorse (apparentemente) limitate devono essere accumulate e lavorate per soddisfare necessità potenzialmente illimitate di un individuo o di un gruppo sociale, Bataille non manca di far notare che dalla prospettiva dell’inesauribile energia che dal cosmo il sole irradia sulla terra la “questione primaria dell’economia” – e non solo – è data dal movimento “dell’energia eccedente, tradotto nell’effervescenza della vita.”[5]

Infatti – argomenta Bataille – se noi guardiamo al mondo naturale, osserviamo che l’energia che alimenta il rafforzamento e l’estensione di una specie vegetale o animale è sempre sovrabbondante, tanto che darebbe luogo a una crescita infinita se non incontrasse qualche limite.[6] Limite, peraltro, che è intrinseco alla vita sulla terra, e quindi anche ad ogni attività umana: “La limitazione immediata per ogni individuo, per ogni gruppo, è data dagli altri individui, dagli altri gruppi.”[7]

Invece che concentrarsi sulla crescita dunque – come fanno gli economisti classici e l’intera logica del capitalismo e del liberismo borghese che noi tutti abbiamo introiettato -, Bataille rivolge la sua attenzione alla sorte dell’energia che, una volta incontrato un ostacolo, una volta che non può più convertirsi in crescita, diventa necessariamente esuberante, eccedente, “sempre al limite dell’esplosione”.[8]

Non appena l’indagine dell’economia politica, che marxianamente investe come sovrastruttura l’intero campo della storia e delle altre attività umane, venga estesa ai meccanismi di dilapidazione del sovrappiù, di dépense appunto – ragiona Bataille – il primo fenomeno che si presenta allo sguardo è che senza questo dispendio inutile dell’eccedente il ribollire dell’energia giunta al limite della sua conversione in crescita può esplodere in esiti disastrosi.[9]

Si tratta quindi per Bataille non solo di comprendere i modi della dépense nel ragionamento economico (e di conseguenza politico, sociale, culturale), ma di apprezzare i valori che essa indubbiamente e naturalmente possiede al di là dello schermo utilitaristico dominante che la fa apparire ai nostri occhi come – appunto – “parte maledetta”.

 

La parte maledetta, tra economia e antropologia

Basta d’altronde scorrere l’elenco di attività umane che Bataille rubrica come “spese cosiddette improduttive” per riconoscerle istintivamente come maledette, oggetto cioè di riprovazione, di angoscia, quando non addirittura di scongiuro: “il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) (…).”[10]

Questa angoscia, paradossale visto che secondo Bataille “l’uomo è, tra tutti gli esseri viventi, il più adatto a consumare intensamente, lussuosamente l’eccedente di energia che la pressione della vita offre”[11], dipende dal “punto di vista particolare” con cui si guarda a una “situazione generale”: “A partire dal punto di vista particolare, i problemi sono in primo luogo posti dall’insufficienza delle risorse. Se si parte dal punto di vista generale, sono invece posti in primo luogo dal loro eccesso.”[12]

Mentre dunque l’individuo teme la guerra per la miseria che gli può arrecare, fino alla miseria massima data dall’annullamento di sé con la morte, o riprova il lusso e la lussuria per la dispersione di energie e di risorse che essi comportano, secondo le leggi generali dell’economia guerra, morte, lusso e lussuria sono meccanismi indispensabili di dilapidazione dell’eccedente, così da garantire una stabilità complessiva: “(…) se si considera la vita nel suo complesso, non c’è in realtà crescita, ma conservazione del volume in generale”, così che “la crescita viene ridotta a una compensazione delle distruzioni operate.”[13]

Il punto è cruciale, dato che l’uomo non può arrestare il movimento sempre eccedente dell’energia che circola sul globo, ma può acquisirne consapevolezza e decidere di volta in volta come usare il sovrappiù: “La nostra ignoranza (…) ci conduce a subire ciò che potremmo, se sapessimo, operare a nostro modo.”[14] Si comprendono bene le implicazioni, sempre attuali, di questa riflessione, che perviene senza possibilità di equivoco all’ipotesi, scandalosa solo per la morale borghese e capitalistica, di cessioni di ricchezza senza contropartita (non prestiti…) laddove questa dovesse diventare eccessiva e pronta a innescare esplosioni incontrollabili.

Ma l’indagine sulla percezione paradossale che noi abbiamo della cosiddetta “parte maledetta” possiede anche un risvolto più profondo, più filosofico.

Non si dà paradosso senza istanze in conflitto tra loro, senza una doppia modalità – qui propriamente antropologica – con cui nel caso specifico l’uomo pensa se stesso e il mondo che lo circonda. Un modo, a noi più familiare, ricade sotto la logica dell’utile, per cui ogni elemento della realtà –compresi gli altri uomini – è ridotto a un oggetto di cui servirsi, propriamente a una cosa. Di fatto – spiega con chiarezza Bataille – un mondo degradato a una congerie di cose che non hanno altra ragion d’essere che quella di servire ai bisogni di uno specifico uomo costringe anche quest’uomo nel rango delle cose, lo rende a sua volta servo delle cose di cui si serve: lo schiavo serve al padrone per incrementare i suoi profitti, il padrone serve allo schiavo per sopravvivere.[15] Questo “ordine delle cose” – come lo chiama Bataille – è stato originariamente introdotto dal lavoro, caratterizzato dalla preoccupazione per il futuro e dalla “posizione separata di ogni cosa, ridotta all’uso che essa ha.”[16]

D’altra parte però “A questo decadimento l’uomo di tutti i tempi si sforzò di sfuggire. (…) l’uomo è fin dall’inizio alla ricerca di una intimità perduta.[17] Inutile a dirsi, questa intimità è connessa al movimento indistinto e incessante dell’universo, libera l’uomo da qualsiasi rapporto servile con la realtà intorno a lui e gli consente quindi di assecondare il suo desiderio presente senza fare alcun conto del tempo a venire: di essere profondamente autentico, libero e sovrano. Il rapporto di questa parte profonda e sfuggente della coscienza dell’uomo con la dépense, cioè con il dispendio inutile, è evidente: “La distruzione è il miglior mezzo per negare un rapporto utilitario tra l’uomo, l’animale o la pianta.”[18]

La partita che si gioca in questo libro – e nell’intero pensiero di Bataille[19] – è dunque doppia, come doppia è la natura dell’uomo: se pure reintegrare la categoria della consumazione infruttuosa nella riflessione politico-economica mira a rendere il mondo più equo, più stabile e più sicuro, il vero obiettivo di Bataille è avvicinare alla piena coscienza di sé e del suo bifrontismo l’uomo, per un verso teso a istituire rapporti servili con le cose in vista di una (impossibile) crescita illimitata, per l’altro a disprezzare la (inevitabile) reificazione di sé e del mondo per ritrovare l’intimità perduta, quella che lo stesso Bataille chiama “sovranità”.

malevtich

Una panoramica etnologica e storica secondo il criterio rovesciato della dépense

Fissata una nuova legge generale dell’economia, per cui la forma di una società dipende dall’uso che essa fa dell’eccedente che sempre produce – può destinare questo surplus alla crescita, sia essa demografica, militare o degli impianti a loro volta produttivi, oppure destinarlo alle forme suntuarie della religione o del lusso personale, o ancora puramente consumarlo, distruggerlo –[20], e senza mai trascurare la fondamentale contraddizione antropologica cui poco sopra si accennava, Bataille traccia una rivoluzionaria – ancorché frammentaria e più che altro didascalica – storia dell’economia secondo la logica del dispendio inutile.

I primi a essere considerati sono gli antichi aztechi del Messico, che espressero una società di puro consumo del tutto antitetica alla nostra: persino le guerre non erano finalizzate ad altro che all’acquisto di ricchezze e prigionieri da sacrificare immediatamente e continuamente “affinché il sole potesse mangiare.”[21] Il consumo qui è interpretato come desiderio primario di sottrarsi all’ordine e alla servitù delle cose per riavvicinarsi alla sfera indifferenziata e intima del sacro in cui vittima e carnefice si sentono una cosa sola e l’energia eccedente si scarica in una festa collettiva.

Più interessante e centrale è poi l’indagine su un istituto sociale che gli aztechi condividono con popolazioni indiane di rilievo etnografico del Nord-ovest americano: il “potlàc”.[22] In questo caso personaggi di rango distruggevano pubblicamente enormi quantità dei loro beni, schiavi e prigionieri compresi, solo apparentemente senza contropartita: di fatto il disprezzo delle cose che così manifestavano – e che li avvicinava alla sfera del sacro, li sottraeva all’ordine servile delle cose – era finalizzato all’umiliazione di un avversario, che si sentiva a sua volta obbligato a rispondere con una distruzione ancora più grande. Bataille osserva qui pienamente dispiegata la contraddizione – inevitabile – per cui l’accesso alla sfera della intimità che solo la dilapidazione di energia consente non può che passare attraverso il campo delle cose: non si tratta più di dispendio inutile, ma finalizzato al mantenimento o all’acquisizione di una reputazione sociale, appunto di un rango.[23]

Passa quindi Bataille a considerare l’espansione militare dell’Islam dopo l’Ègira di Maometto, il profeta che secondo la prospettiva economica del dispendio avrebbe convertito la stabilità dilapidatrice delle tribù arabe dedite al lusso – per esempio – delle dispute filosofiche e poetiche in energia concentrata di conquista: una vera e propria società di impresa militare, tanto che Maometto vi figura come un direttore di fabbrica, severo fustigatore di ogni spreco, di ogni energia sottratta all’impresa. Una volta raggiunti però i limiti della crescita di conquista, le società islamiche – conformemente al tipico bifrontismo dell’uomo – sarebbero tornate alla stabilità e al dispendio culturale, come testimonia bene il recupero dell’antica passione per la poesia che dalla Spagna musulmana si sarebbe irradiata, attraverso la colta Castiglia di Alfonso X il Savio, alle più note (per noi) scuole di Provenza, di Sicilia e di Toscana.[24]

Alla ricerca di opposizioni estreme e quindi argomentativamente più convincenti, Bataille si sofferma anche sul lamaismo tibetano, una “società disarmata” che avrebbe scelto di destinare il suo pur misero eccedente ai monaci, che avrebbero assolto al compito di drenare con il loro parassitismo energie minacciose per la pace interna, dato che una eventuale espansione del Tibet era impedita, oltre che dalla conformazione del suo territorio, da paesi militarmente ed economicamente più forti (Cina e India inglese).

La rassegna si sposta quindi sulla nascita della società industriale, con un’analisi contrastiva che dal Medioevo cristiano giunge – fase dopo fase – fino all’odierna realtà borghese. Il Medioevo – puntualizza Bataille – è profondamente connotato in senso religioso in quanto destina gran parte dei suoi beni eccedenti (generalmente eccedenti) al lusso del clero e dei suoi riti. Lutero però coglie in questa attitudine che apparirebbe di puro dispendio, e quindi di liberazione dell’uomo dall’ordine delle cose, una contraddizione insanabile: la dilapidazione della Chiesa medievale ha comunque per fine un utile, la salvezza, e quindi ripristina di fatto il valore servile delle cose da cui proclama di voler affrancare l’uomo.

La soluzione di Lutero è però secondo Bataille ancora più fallimentare secondo la prospettiva della ricerca dell’intimità perduta, perché il padre della Riforma attua “una decisiva separazione di Dio e di tutto quanto non fosse la profonda vita interiore della fede, da tutto quanto possiamo fare e realmente effettuare”: la sua dottrina “è la negazione compiuta di un sistema di consumo intenso delle risorse”[25], di quella dépense che secondo il filosofo francese è l’unica via per sfiorare la nostra interiorità sovrana, non servile.

Sarà invece Calvino a rivalutare il mondo delle cose, della realtà trasformata produttivamente e utilitaristicamente in cosa, salvaguardando nel contempo la sfera del sacro – che è come dire dell’uomo emancipato dalla servitù alle cose -, visto che invita sì a impegnare tutte le energie a produrre e non a consumare, ma destina in partenza il frutto del lavoro a glorificare Dio, non ad avvantaggiare il produttore/detentore della ricchezza. Il capitalismo, che giustamente secondo Bataille Max Weber nel suo famoso saggio aveva legato all’etica protestante[26] – non farà altro che svincolare in modo netto il mondo della produzione dalla sfera del sacro, escludendo così completamente l’esigenza profonda dell’uomo di ritrovare la sua intimità, lo stato di un rapporto non servile con la realtà.

 

Dell’economia, ovvero della coscienza di sé

Dietro lo schermo dell’economia generale, degli usi molteplici e complessi che nell’accezione di Bataille le diverse società fanno dell’energia sempre eccedente, la posta in gioco è più alta: si tratta della necessità che l’uomo prenda atto del suo irrisolvibile bifrontismo, della maledizione che lo anima da una parte a farsi cosa tra le cose producendo e accumulando quante più ricchezze possibile, dall’altra a sottrarsi all’ordine delle cose per riappropriarsi della sua originaria, libera e sovrana interiorità, a prezzo però di dilapidazioni che possono essere disastrose se non governate da chi ha acquisito – appunto – la necessaria coscienza di sé.

È alla luce di questo obiettivo fondamentale della sua “esposizione”, la “coscienza di sé[27], che Bataille esprime i suoi giudizi. Sferzante sulla borghesia capitalistica, schiava delle cose eppure confusamente alla ricerca di una interiorità che la sua stessa matrice protestante agita nei meandri del suo subconscio, lo studioso francese si esprime invece con favore verso il calvinismo per la lucidità con cui ha compreso che solo attraverso le cose l’uomo può avvicinarsi allo stato di sovranità “sacra” cui ambisce, così come verso la Riforma che, staccando risolutamente la dimensione religiosa da quella necessariamente utilitaristica dell’agire umano e relegando l’uomo in quest’ultima, ha da una parte lasciato una traccia di nostalgia consapevole  della sfera più intima dell’esistenza, dall’altra ha forse influenzato con il suo lucido rigore lo stesso marxismo. Questo infatti mira secondo Bataille in un primo momento a sanare lo squilibrio di un mondo materiale in cui molti sono ridotti a cose (proletari) e pochi hanno il privilegio di rincorrere la loro interiorità sovrana (i padroni, ammesso che intendano inseguire questo obiettivo), per rinviare a una seconda e decisiva fase (nell’interpretazione di Bataille) il momento “in cui l’uomo avrebbe infine la libertà di ritornare alla propria verità intima, di disporre a suo piacimento dell’essere che sarà, che oggi non è perché è servile.”[28]

Non c’è allora da stupirsi se nell’ultima sezione del libro Bataille, sfoderando un ottimismo che a lui stesso dovette apparire azzardato[29], dopo aver di fatto giustificato il sanguinario totalitarismo staliniano – senza il quale l’Unione Sovietica non avrebbe potuto impiegare nella crescita del suo apparato industriale le ingenti risorse umane di cui disponeva e non avrebbe di conseguenza potuto arginare l’espansione dei paesi confinanti, in particolare della Germania nazista -, saluta il Piano Marshall come una operazione – consapevole o meno che fosse – di dispendio inutile, di dilapidazione delle eccedenze, l’unica capace di disinnescare l’esplosione di turbolenze tanto interne quanto esterne ancora peggiori delle due guerre mondiali recentemente concluse.

In definitiva quindi la storia dell’economia generale sembra raccontare un progresso graduale verso una sempre maggiore coscienza di sé dell’uomo, un progresso a cui contribuisce anche la civiltà borghese e capitalistica, apparentemente la più estranea al pensiero di una emancipazione dell’uomo dal dominio delle cose, anzi completamente e confusamente serva delle cose.

Una sempre maggiore coscienza di sé, si diceva, ma non la piena coscienza di sé, perché se l’uomo intimamente non è una cosa, e la stessa conoscenza non può applicarsi che a contenuti che siano “qualche cosa, non il nulla della pura dépense[30], noi restiamo a noi stessi inafferrabili, o appena intuibili come gli strani fantasmi delle visioni dei mistici, della schiera dei quali l’autore dichiara di sentirsi perlopiù parte, anche se sui generis, in quest’opera.[31]

***

 

Note

[1] Vd. in particolare Maurice Blanchot, La conversazione infinita, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015, pp. 247-262: a Bataille, recentemente scomparso (la prima edizione francese è del 1969), è dedicata la più parte di un capitolo che reca significativamente il titolo dell’intera sezione centrale del libro (“L’esperienza-limite”).

[2] Si veda per esempio la reazione critica della Arendt (Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2004, p 604) a un intervento di Bataille sugli orrori dello stalinismo: cito di seconda mano dal saggio di F. Recchia Luciani compreso nel volume collettaneo Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, Il Melangolo, 2016, reperibile in rete al seguente indirizzo: http://www.leparoleelecose.it/?p=21834.

[3] Il riferimento a Bataille e a La parte maledetta è esplicito in alcuni passi de Il delitto perfetto, Raffaello Cortina editore, 1996; per esempio alle pagg. 62-64, per le quali rinvio al mio saggio su questo libro di Baudrillard recentemente pubblicato da Jamila Mascat su Nazione Indiana, in particolare alla nota 11 e al testo corrispondente (http://www.nazioneindiana.com/2017/02/12/jean­baudrillard­delitto­perfetto/)

[4] Cfr. Georges Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pag 41, nota 1 (NdT): “In questo primo saggio (…) viene mantenuto il termine francese dépense, per sottolineare, in qualche modo, la ricchezza (l’incertezza) d’implicazioni, di significati che questo termine mantiene lungo tutto il saggio. Più avanti tradurremo con dispendio, la parola, in italiano, che più si avvicina allo spazio concettuale occupato dalla nozione di dépense nel testo di Bataille.”

[5] Georges Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pag 64

[6] Ivi, pag. 81: “Il caso più leggibile è quello di un viale che viene aperto e mantenuto sgombro da un giardiniere. Una volta abbandonato, la pressione della vita intorno lo ricopre di erbe e di cespugli dove pullula la vita animale.”

[7] Ivi, pag. 86

[8] Ivi, pag. 81

[9] È quanto Bataille esemplifica efficacemente alla pag. 87: “(…) dopo un secolo di popolamento e di pace industriale, raggiunto il limite provvisorio dello sviluppo, due guerre mondiali hanno ordinato le più grandi orge di ricchezza – e di esseri umani – che la storia abbia mai registrato.” Va da sé che per lo studioso anche le distruzioni e le stragi belliche rientrano a pieno titolo nella categoria del dispendio necessario, qualora l’uomo non provveda altrimenti.

[10] Georges Bataille, op. cit., pag. 44. Termini che sembrano a prima vista possedere una qualità positiva rispetto ai lutti e alle guerre, come giochi e spettacoli, trovano spiegazione nel fatto che lo studioso guarda ad essi “nelle condizioni primitive”. Quanto al lusso e alle arti, è nota – per il primo termine – la contestazione di ipocrisia che lo stesso Bataille rivolge alla borghesia, che condanna il lusso mentre non fa altro che inseguirlo, così come non sfugge a nessuno che fu proprio l’utilitarismo capitalistico a puntare il dito contro l’improduttività dell’artista e a suscitare la reazione, per primi, dei romantici.

[11] Ivi, pag. 87

[12] Ivi, pag. 89. I corsivi sono dell’Autore.

[13] Ivi, pag. 83, passim. Più avanti (pag. 89), Bataille chiarisce con un esempio concreto di scala planetaria: la miseria dell’India, che non può tradurre in crescita l’energia della sua esplosione demografica per l’insufficienza del suo apparato industriale, potrebbe essere risolta con “un transfert di ricchezza americana senza contropartita” di cui anche gli americani beneficerebbero, dato che le loro eccedenze generano naturalmente instabilità e sono foriere di dilapidazioni forzate e spesso disastrose. È sulla scorta di questo ragionamento che Bataille saluterà più avanti con estremo favore il Piano Marshall (cfr. pag. 201 ss., fino alla fine del volume; cfr. anche l’ultima pagina del presente saggio).

[14] Ivi, pag. 75. I corsivi sono dell’Autore: così anche nelle citazioni d’Autore successive.

[15] Ivi, pagg. 104-105: “(…): nessuno può render cosa l’altro se stesso che è lo schiavo senza allontanarsi nello stesso tempo da ciò ch’egli medesimo è intimamente, senza porre a se stesso i limiti della cosa.

[16] Ivi, pag. 105, passim

[17] Ivi, pagg. 105-106

[18] Ivi, pag. 104. Quando Baudrillard (Il delitto perfetto, pp. 44-45) associa la scomparsa dell’uomo reale dietro gli schermi degli artefatti tecnologici agli antichi sacrifici umani come prova del nostro desiderio di eludere “la gravità dell’esistenza” mostra chiaramente di aver sviluppato questo tema di Bataille.

[19] Cfr. M. Blanchot, op. cit., indica ne L’esperienza interiore il centro di gravità della speculazione di Bataille. L’esperienza interiore, o sovranità, o coscienza di sé – come viene definita in questo libro – si pone sul crinale tra l’essere e il nulla; è impropriamente detta “esperienza”, dato che non può essere agita perché solo il mondo delle cose è il mondo dell’azione: è “Esperienza della non-esperienza” (p. 256). Ecco perché Bataille si ascrive tra i mistici: un mistico senza religione, il mistico in bilico tra la realtà, il mondo delle res, e l’oltre, il Nulla. Cfr anche l’introduzione di Franco Rella a La parte maledetta, cit., in particolare le pagg. 19-20 e 23-24.

[20] Ivi, pag. 147

[21] Bataille (op. cit., pag. 98) si avvale qui del resoconto etnografico del francescano spagnolo Bernardino de Sahagun, Historia de los Mexicanos por sus pinturas, cap. 6. È lo stesso Bataille a affermare (p. 96) che “Nei loro pensieri il consumo occupava un posto non minore di quello che la produzione occupa nei nostri.”

[22] A questo proposito il filosofo francese dichiara a chiare lettere che i suoi studi confluiti nel presente libro partono dalla “lettura dell’ Essai sur le don” del noto etnologo Marcel Mauss: cfr. p. 115, in particolare la nota 9.

[23] Bataille, op. cit., pag. 115, nota 9: “(…) il fatto è che una dilapidazione di energia è sempre il contrario di una cosa, ma che non entra in considerazione se non una volta immessa nell’ordine delle cose, cambiata in cosa.”

[24] Cfr Marìa Rosa Menocal, Principi, poeti e visir, Il Saggiatore, Milano, 2009, soprattutto pagg. 61-63 e 119-121.

[25] Bataille, op. cit., pag. 161, passim

[26] È lo stesso Bataille a riferirne puntigliosamente in nota (p. 155, nota 1)

[27] Bataille, op. cit., pag. 91: “Certamente l’esposizione di una economia generale implica l’intervento negli affari pubblici. Ma innanzitutto e più profondamente, ciò a cui mira è la coscienza, ciò che prepara è fin dall’inizio la coscienza di sé che l’uomo realizzerebbe finalmente nella visione lucida di una concatenazione delle sue forme storiche.”

[28] Bataille, op. cit., pag 173

[29] Ivi, pag. 220, nota 13: “È, si dirà, ciò che soltanto un pazzo può vedere nei Piani Marshall e Truman.”

[30] Ivi, pag. 220

[31] Ivi, pag. 220, nota 13

Nominazioni

0

di Valerio Nardoni

Esce per Giuliano Ladolfi Editore – prefazione di Mattia Gallerani – Nominazioni. Poesie dal ritorno, di Alessandro Raveggi, un libro scritto all’altezza di uno dei crocevia che la vita ci propone, quello, appunto, di chi si trova a dover «tornare». Nel caso di Raveggi, il ritorno è dal Messico (dove si era trasferito per alcuni anni) alla Toscana, e più precisamente alla campagna Toscana, nella provincia di Firenze. Lo scontro che possiamo ipotizzare, almeno a grandi linee, è quello tra alcuni ideali o idee futuribili che sono venuti meno, e quello dei valori lasciati, che tornano a bussare alla porta. La lettura, naturalmente, può essere anche diversa: ideali futuribili che si trovano a bussare alla porta e nessuno gli apre, e valori che sono rimasti dentro e coi quali si deve arrivare ad un armistizio. Senza svelare troppo, si può senz’altro anticipare che il libro prevede un lieto fine, ovvero una sintesi di questi due poli, che si riuniscono nell’arrivo di un bambino, che di per sé è quanto di più futuribile e tradizionale esista in questo mondo.
Compongono il libro due poesie collocate in limine, e tre sezioni, di cui una più corposa, Et in Arcadia ego (lo stridente ritorno in campagna di cui si diceva); seguita da due sezioni più brevi: Twomblies (una sezione di ecfrasi dedicate ad alcuni quadri) e Messaggi ai posteri, che contiene, in parallelo alla doppia apertura, due poesie di chiusura.
Caratterizzano il volume, e ne rappresentano motivo di interesse, l’urgenza del racconto (il compatto nucleo tematico del ritorno in patria, sul cui fondale si legge una più ampia riflessione su una sorta di fine della giovinezza, come età del narratore, integrata nel suo specifico momento storico); il lavoro sul lessico (anch’esso motivato sul ritorno all’italiano e all’italianità, con frequenti sbalzi lessicali tra termini recuperati nella memoria storica della lingua, come patrimonio colto e letterario, che vanno insieme a registrazioni quasi in presa diretta di berci fra vicini di casa); infine, il lavoro sul sistema libro, dall’organizzazione di una struttura articolata ma lineare, dove anche molti termini tendono a ritornare, per impastarsi, motivarsi e nominare con voce accresciuta il proprio senso.
In collegamento con il titolo del libro, Nominazioni, una delle parole che emerge dal lessico globale del libro è «le naturalità»: il sostantivo non rimanda (solo) alla naturalezza, ma col plurale acquista maggiore corpo, andando a definire tutte le cose che stanno sulla terra dove si è tornati. Su tutte le presenze dell’Arcadia, mondo dell’idealità dei sentimenti, attraverso il titolo della sezione – secondo il ricordo del famoso quadro del Poussin – si affaccia il segno inequivocabile della morte. Dopo il ritorno, la realtà si presenta in quanto materia muta, tutta da ricodificare; l’esistenza è dunque il mero esercizio gastrointestinale che deve ritrovare l’«incantesimo», cioè la formula che restituisca loro la bellezza e la magia. Questo è il confine sottile su cui il libro si tiene sul filo, con tutti i suoi esperimenti linguistici, mascheramenti vari, giochi di riflessi, come del resto è ben espresso nella poesia Introibo: «La realtà è qui / composta di cose mute, / gli uomini hanno il loro lercio nome, / loro lurida possanza / gastrointestinale, / sono ovunque, disarmanti, / una piaga che mangia vivendo e / soffocandovisi, / mentre quelle s’incagliano, / come si chiamano più le naturalità: / chi più lo sa, lo condivide»… fino a «Dal non poter nominare, / conto a menadito le cose / custode infante di una maledizione inversa, / in testa una tassonomia immancabile / rimane a redarguire, / a dire ‘forza su, c’è sempre / una svolta, un incantesimo’».

Le lettere alle amiche di Céline

4

CCéLINe

 

di Ornella Tajani*

«Sono L.F. Céline ma anche Destouches. Non ci sono misteri!», esclama l’autore in una delle Lettere alle amiche. Colin W. Nettelbeck, curatore della raccolta, fornisce gli apparati utili a illuminare i tenebrosi, sdrucciolevoli anni ’30 attraverso i quali si snoda la corrispondenza di Céline con sei donne, spesso amanti e sempre privilegiate confidenti. È un periodo particolare della sua biografia sentimentale, che sta tra il rientro negli Stati Uniti del grande amore Elizabeth Craig, cui è dedicato Voyage au bout de la nuit, e l’incontro con la futura moglie Lucette Almanzor. Ma è anche un decennio cruciale per la formazione dell’autore: nel ’32 il successo del Voyage, unito alla delusione per il mancato Goncourt (che andrà invece a Guy Mazelin per Les loups); poi la faticosa stesura di Mort à crédit; in seguito i pamphlet antisemiti con i quali Céline si marchierà a fuoco per sempre. E, in sottofondo, il rombo della guerra imminente.

«Per leggere bene queste lettere bisogna aver chiaro che ciascuna di queste donne rappresenta una tappa nel viaggio che Céline compie verso la condizione di uomo pubblico», sottolinea Nettelbeck: una condizione certamente non facile da accettare per un autore che, in un biglietto a Simone Saintu, posto non a caso in apertura al volume, prorompe in un sofferto «Purtroppo sì, sono io!», cioè «l’autore più detestato dopo Zola».

Come in un caleidoscopio, ogni corrispondenza riflette nel rapporto con l’amica di turno un profilo di Céline lievemente diverso, sfumando di volta in volta la voce del maestro dello style émotif. Erika Irrgang è una studentessa tedesca con la quale l’autore si mostra paterno e prodigo di consigli che vanno dall’esistenziale all’erotico. Lei, «bella, viziosa, brillante», si rivela anche disordinata, bugiarda, un po’ ladra («Deve giurarmi che non andrà più a rubare alla Samaritaine»). È in queste lettere che Céline, mentre già nel ‘34 profetizza «l’unione europea si farà nel sangue», talvolta conclude con un «Heil Hitler!», tanto più agghiacciante perché usato in maniera ambiguamente ironica.

Le allusioni all’antisemitismo e ai relativi pamphlet pubblicati, presenti in varie missive, si mitigano solo quando Céline scrive a N., un’insegnante di ginnastica ebrea austriaca. Con lei l’autore sembra avere un’intimità particolare, che procede per vie sotterranee. Si firma quasi sempre soltanto «Louis», a volte le dà del tu, si lascia andare a confidenze che sfiorano il patetico: «Mia madre che diventa vecchia. Mia figlia che diventa grande… E io che non divento più giovane». L’eccesso tuttavia resta il registro preferito, così in una stessa lettera si legge uno sfogo come «Ho voglia di morire più che di vivere» e, poche righe dopo, riferendosi a conoscenze comuni, «Bisognerà pure che si vada a letto tutti insieme un giorno o l’altro». Per l’autore è costante la preoccupazione che N. sia al sicuro dalla follia di Hitler; eppure il suo commento alla notizia della morte del marito di N. a Dachau sancirà l’inevitabile rottura tra i due.

Dopo poche lettere inviate a Élisabeth Porquerol, giornalista belga che recensì il Voyage, si passa alla corrispondenza con Évelyne Pollet, anche lei belga e scrittrice. Con Pollet si crea una sintonia da colleghi, ravvivata dal fatto che l’autore si dichiara «fiammingo per parte di padre e bruegheliano d’istinto», e le lettere sono disseminate di consigli e commenti letterari («La difficoltà sta nel trovare un tono irresistibile. Il resto va da sé»), cosa non frequente per Céline, la cui prima, singolarissima dichiarazione di poetica si avrà nel ’55 con gli Entretiens avec le Professeur Y. Le ultime due corrispondenti sono affinità elettive sul piano artistico: Karen Marie Jensen, ballerina danese dal magnifico talento, e Lucienne Delforge, pianista che l’autore arriva a chiamare «mio doppio». Con Karen, bella giramondo, Céline è particolarmente sentimentale: al suo confronto si sente vecchio e nelle lettere a lei indirizzate emerge un pensiero della morte costante, orizzonte mentale privilegiato per lui, in letteratura come nella vita.

Oltre a costituire una variopinta galleria di ritratti, queste lettere offrono frammenti di storia del secolo filtrati attraverso l’esperienza che l’autore fa del mondo (il soggiorno negli Stati Uniti, paese in cui individua un «lirismo da Galeries Lafayette» e «entusiasmi da ascensore»; la deludente scoperta della Russia; la prigionia in Danimarca). Al centro, è chiaro, trionfa lui, il medico terrorizzato dalla solitudine e dalla miseria, che affermava di non avere opinioni, «come l’acqua»: un meteorite in parte ancora inesplorato, come lo definisce Henri Godard, il quale sottolinea che, dopo il Voyage, a scrivere è sempre Céline-Bardamu, anche nelle lettere. Sulla pagina le due identità si fondono nel gusto per la provocazione, nell’attitudine alla malinconia e al disincanto: i ferri del mestiere di chi sosteneva d’avere sul tavolo «un enorme mucchio d’Orrore in sospeso» da sistemare prima di farla finita.

*[Questa recensione è già apparsa su
L’Indice dei libri del mese, aprile 2016]

Louis-Ferdinand Céline
Lettere alle amiche
A cura di Colin W. Nettelbeck, trad. di Nicola Muschitiello
pp. 257, € 15
Adelphi, Milano 2016

L.

1

L. / Marco Benedettelli

[brano dal romanzo Pacifico, in stesura]

Uluru_(Helicopter_view)-crop

Non avrei mai voluto raccontare la storia del villaggio di L., né verrò a dirvi del quando e del percome io vi sia arrivato. Sono dettagli, questi, che vi annoierebbero. Andrò subito al punto e con tutta la precisione che mi è concessa nel breve lasso di tempo innanzi a me vi spiegherò cosa ho visto a L., sebbene mi paia lontanissimo il tempo di L., anche se è solo ieri, o l’altro ieri. Volgo lo sguardo indietro e mi ricordo i giorni, i sogni che diedero corpo al mio soggiorno nel piccolo villaggio, dove venni a conoscenza di cose e fatti che mai potrò dimenticare.

La suora che guidava la nostra vettura era una donna energica, pragmatica. Correva come una folle appena la strada le dava modo di tirare il gas. Non farò il nome della suora, e nemmeno darò informazioni sull’ordine a cui lei e le sue consorelle appartenevano. Per rispetto non voglio nominarle e coinvolgerle troppo da vicino. Sono state gentili con me.

Ricordo che mentre entravamo a L. a bordo del pick up incontrammo un funerale. Sulla strada qualcuno aveva steso dei rami d’albero, la gente che passava doveva sapere che lì nei pressi c’era un morto. I pochi in bicicletta erano chiamati a scendere di sella, a proseguire a piedi zigzagando col proprio arrugginito mezzo fra i rami. Bisognava parlare piano, in segno di rispetto, bisbigliando. C’era una capanna sul bordo della strada, senza pareti, il tetto era di fogliame intrecciato, sembrava una densa nuvola e sotto alla sua mollezza uomini e donne in piedi vegliavano intorno al morto disteso sul giaciglio. Altri se ne stavano rannicchiati per terra, su un fianco, in posizione fetale, abbandonati in un sonno dolciastro. Come se nel dormiveglia potessero abbracciarsi e stringersi con chi, nella morte, era trapassato altrove. Le due giovani suore in macchina al mio fianco erano entrambe indiane, guardavano con occhi bassi, oltre il vetro del finestrino.

Il villaggio di L. era rosso, perché la terra era rossa ed erano rosse le case di mattoni fatti di terra. Erano allacciate fra loro da un reticolato di sentieri scavati nell’erba verde e gialla, erba che manteneva intatta la propria effimera consistenza sotto il martello del sole australe. Alberi disegnavano i confini del villaggio, e i tronchi vegliavano sui corpi sempre in cammino. Il più alto tra di loro, dalla corteccia violacea, incardinava il centro di L. e di sera i più giovani si radunavano intorno ad esso e parlavano fitto, e così avevano dato corpo alla loro giornata. Mi puntavano gli occhi addosso, con un rispetto che mi proiettava nella colpevolezza. E appena ci parlavo, qualsiasi cosa io proferissi, loro esplodevano in sgangherate risate. Risate che sgorgavano al cospetto della mia pelle bianca, dei peli bianchi della mia barba, che non concepivano e che ai loro occhi sembravano grottesche aberrazioni genetiche. L’orizzonte attorno a noi proseguiva verso altri villaggi, altri microcosmi tutti identici, in un sistema di moltiplicazione dell’arcaico.

I tetti delle minuscole case in mattoni di terra rossa erano fatti di fronde rinsecchite. Un giorno una suora mi ha detto: «La gente di L. potrebbe mettere dei tetti in lamiera. Sarebbero più comodi e pratici da sistemare dei tetti di fronde. E i tetti di lamiera non costano nemmeno tanto. Ma la gente di L. evita di cambiare. Dicono che chi mette i tetti di lamiera attira la malevolenza degli spiriti maligni. E sai perché? I tetti in lamiera rappresentano agli occhi della gente un segno di prosperità, di agio. Di cambiamento e di progresso. Segni che negli altri possono scatenare l’invidia. E chi muove all’invidia è colpevole, per il solo fatto di averla fatta nascere. Perché per la gente di L. l’invidia è fatta di spiriti maligni e chi li evoca finisce in rovina. Allora è meglio che tutto resti identico».

La sera le suore recitavano il rosario sulla veranda, lo sgranavano nel silenzio senza luci elettriche della notte di L.. Era dolce la loro cantilena inglese, Holly Mary, Pray for us. Holly Mary, Pray for us. Veniva voglia di unirsi a loro, per trovare una carezza, per lenire la ferita della solitudine che si allungava dentro di me in un taglio profondo e non rimarginabile.

Nei pasti canonici del giorno, imbandivano la tavola di ogni ben di Dio. C’erano vassoi di verdure, ortaggi, legumi, di carni, pollo e pesce, piante di manduca, gigantesche banane verdi e manghi rubizzi. Mangiavamo in abbondanza per celebrare una festa, una festa perenne. La comunità di suore era piccola, erano tutte giovani e felici. Giganteggiavano avvolte dal tessuto bianco delle tuniche, nella loro pelle d’ebano. Ridevano fragorosamente ogni volta che dicevo qualcosa, qualsiasi mia osservazione fuori dall’ordinaria gestione delle azioni e degli oggetti le faceva sbellicare dal ridere e ad ogni scoppio di risa sembravano divenire sempre più gigantesche, sferiche, sembravano crescere come piante pluviali gonfiate dalla magia della pioggia. Solo che la pioggia era il loro riso. Mi guardavano, a volte, come fossi un alieno dalla faccia triangolare. Io che ero piombato nel loro mondo di sogni ad occhi sgranati, nel loro villaggio sperso nel cuore della radura, lontanissimo da ogni strada carreggiabile, dove non c’era luce né acqua, ma tutt’intorno al nostro giardino proliferavano corposi insetti dalle corazze smerigliate e iridescenti. E grandi ragni pelosi, che al primo scroscio di pioggia si moltiplicavano, come se fosse l’acqua a riprodurli. Si arrampicavano per le pareti, nel turbinio velocissimo delle loro zampette, o schizzavano sul pavimento in fughe folli. Le suore si alzavano di scatto dal tavolo e li schiacciavano a pedate, il corpo del ragno si lasciava spappolare croccante sotto le grandi ciabatte bianche.

Fu una mattina che le suore mi raccontarono dei sogni. L’argomento venne in superficie a colazione, verso le 6 o le 7, col sole già fiammeggiante nel cielo. Mi dissero che gli abitanti di L. non distinguevano ciò che vedevano la notte, ad occhi chiusi, con quel che vedevano di giorno, ad occhi aperti. I sogni per loro erano dentro la realtà, erano una scatola in una scatola dentro un’altra scatola ancora. Chiesi se gli abitanti di L. emigrassero altrove, verso le grandi città, verso altre nazioni, verso una forma di benessere oltre la miseria premoderna del villaggio. Allora la suora iniziò a raccontarmi una storia inverosimile. C’era un sogno collettivo ad L.: le persone sognavano di volare verso un’unica meta, che era il Sud Africa, perché per tutti quella era la terra più ricca e prosperosa oltre l’orizzonte. Ma qualcuno nel volo ogni tanto cadeva a terra e si rompeva le gambe. E tutti dicevano che gli zoppi del villaggio erano diventati tali cadendo nel loro volo verso il Sud Africa. La conversazione però quella mattina si spinse ancora avanti, e le suore tornarono a ribadirmi che il sogno del volo era solo un esempio dentro un grande vorticare di sogni e che ad L. l’onirico era così intrecciato alla veglia da costituirne un unico ceppo di pensieri.

Una suora volle raccontarmi un aneddoto. Mi disse che pochi giorni prima il capo villaggio si era presentato da lei e aveva raccontato di aver salvato la missione da un treno. Un treno a tutta velocità, carico di bambini che salutavano. Lui si era messo in mezzo ai binari e aveva fatto deviare il treno che altrimenti avrebbe travolto la missione. Ma a L. non c’erano binari e tantomeno grandi treni veloci. E poiché il capo villaggio, al di là di qualche piccola stranezza, non aveva mai avuto smaccati atteggiamenti da folle né era di colpo impazzito, la suora riteneva che quella visione fosse stata un prodotto onirico e che il capo villaggio l’avesse annoverata, di giorno, fra i fatti reali della sua esistenza. Senza discernere il surreale dal reale ma mescolando tutto in un unico quadro.

Il pomeriggio mi aggiravo per il mercato, dove uomini e donne venivano a vendere frutti e ortaggi o pesci secchi. Tutti mi guardavano e i bambini mi salutavano gridandomi «Azungu!»Bianco! Quel pomeriggio vidi un uomo aggirarsi in stampella. Era molto affaticato, macilento, con una giacca fuori misura rispetto alle sue gracili spalle e ai suoi zigomi ossuti. Quell’uomo era stato un uomo volante, caduto volando verso il Sud Africa. A quel punto una piccola verità si è affacciata nella mia coscienza: che non esista davvero un confine fra reale e onirico. Tutto converge verso un luogo molto più profondo, sopra il quale noi abbiamo edificato città stratificate di cui sopravvivrà solo il canto.

Non lontano dal villaggio abitava lo stregone, aveva un lungo telo bianco appeso nel cortile della capanna e vi erano disegnati dei sortilegi. Un pentolone dove bolliva la pozione magica, una donna con un ramoscello in mano, un uomo rannicchiato sul letto che tremava. Vi siamo passati un giorno accanto a bordo del pick up, durante i nostri giri per le strade di terra e buche. L’uomo si proponeva alle persone della zona per scacciare il male. Oppure lo lasciava semplicemente entrare nel cuore, lo spingeva nelle ossa umane, affinché ne germogliassero piante che obbedivano ai richiami del cielo. Lo stregone uscì dalla capanna. Era vestito da uomo qualsiasi, era magro e molto alto, dal profilo tagliente, affilato come un coltello. Ci ha seguito con gli occhi. Forse mi stava comunicando qualcosa, un messaggio, mi stava parlando del mio futuro.

L’iniziazione delle bambine avveniva in una capanna nel bosco, costruita appositamente. Nella capanna erano mandate tutte le ragazzine del villaggio, lì attendevano che entrasse un uomo e quando egli entrava le sverginava a una a una. Al termine dell’iniziazione, le ragazzine, le bambine, erano pronte a divenire spose. Il rito per essere completato poteva estendersi anche qualche giorno. Le suore tentavano di opporsi ad esso proponendo alle famiglie un rituale alternativo, molto più casto e pudico. In chiesa organizzavano piccoli incontri fatti di canti e giochi. Ne approfondii gli incomprensibili dettagli grazie a un libro stampato da una casa editrice cattolica, dal titolo Christian Initiation Girls che la suora cavò fuori dalla libreria della missione. Vi si parlava, in pochi accenni, della baracca nel bosco, e poi si dettagliava sul rituale alternativo da coltivare nelle parrocchie, sui dei canti e sui dei giochi attraverso i quali le bambine si preparavano a divenire spose, senza essere violentate dall’uomo dell’iniziazione.

Sono rimasto molto turbato da quella storia. Più di quanto mi avesse stupito sapere che gli uomini di L. credevano di volare, la notte. L’iniziazione era, ai miei occhi, un rito sacrificale, uno stupro, un routinario omicidio e si consumava sulla stessa terra che io calpestavo. Ho continuato a fare domande alle suore sull’iniziazione. All’inizio mi rispondevano con affabile pazienza, poi di fronte alla mia insistenza, si sono fatte sempre più recalcitranti e omertose. Finché una suora un giorno è arrivata a raccontarmi d’un villaggio non lontano da L.. Nel luogo, al funerale del capo villaggio accade ancora oggi qualcosa che non saprei se definire mostruoso o indecifrabile. Appena la salma del capo villaggio è tumulata sotto terra, gli uomini si gettano sulle donne e si accoppiano con esse. La suora, piena di pudore, mi ha fatto intendere che l’accoppiamento sia strappato con la violenza. Morto il re, scomparso sotto terra, nell’interregno senza totem esplodono i tabù. È una ellissi, poi arriva il nuovo capo villaggio a prendere il potere, e tutto torna a scorrere nella ciclicità dei giorni.
È nel cimitero di L. che ho gli ultimi ricordi vivi del mio soggiorno fra quelle case e quegli alberi. Era pomeriggio, ero solo. Era stata una suora a indicarmi l’ubicazione delle tombe: «Nella radura, fra gli alberi sottili, ci sono i morti». Così ero andato, avevo imboccato un sentiero ed ero arrivato fra le tombe, non c’erano né lapidi né croci, ma piccole piramidi di mattoni rossi accatastati, anzi sembravano più delle ziggurat schiacciate e assediate dall’erba giallastra. Mi sono ricordato delle parole di una suora: a L. si dice che gli spiriti dei morti si trasformino in animali, in leoni o altri felini aggressivi. Così, fra gli alberi sottili, i mattoni rossi e porosi delle tombe, io avevo paura dei leoni. Li vedevo emergere dalle tombe, pronti a squarciare la membrana fra me e loro e a inghiottirmi fra le fauci. Ho abbandonato la radura di alberi sottili, ho risalito il sentiero fino ad arrivare sotto l’albero dalla corteccia viola. A quel punto mi si è fatta incontro una vecchia, era arrabbiata come una furia, urlava, ma gli occhi però le ridevano. Aveva uno scintillio di pioggia dorata e sottile che gli sprizzava dalle pupille. Vorrei sapere cosa mi avesse urlato, qual era il messaggio che mi stava comunicando. La cosa è andata avanti per degli interminabili secondi, finché non è arrivata una donna e la vecchia si è calmata e a smesso di urlarmi addosso. Ma nei suoi occhi quella risata sepolta in forma di luccichio non si è spenta

 

Tre poesie sul non esserci

1

di Marina Massenz

 

 

Con un pennello di martora

 

Con un pennello di martora

molto delicato passare

la biacca sul viso come farsi muro

 

incidere i ricordi come graffitaro

la notte sfregia portoni e vagoni

insieme a pensieri di sogno

 

non temere il parlarti né vedere

come vivo il tuo volto che sorride

e piuttosto soddisfatto se ne va.

 

Davvero ti ringrazio di queste recenti

apparizioni come fai a trovarmi mentre

dormo tra tutto il sonno del mondo?

 

Ieri c’era il sole sul tuo terrazzo

avremmo guardato i tetti oltre

i fili e i pali verso le rondini

cerco nel loro volo teso il tuo

Che bello e questo e quello e così via.

  

                                                                                               

  Sventolarsi

                                                                                                

Il tempo corre annusando

i sentieri del senso  nasi fini

divenire zigzagando né rettilinei

né odorosi di gelsomino né lucenti

i percorsi in faggete umide ombrose

 

si prosegue tastando con mani appigli

cercando aderenze superfici sia lisce

che rugose basta che tengano mentre

si inciampa con zampe in buchefossi

o si scalciano sassi all’aria piedi duri

 

solo a tratti il cielo ci sospende

in alta bellezza pari a radioso

arcobaleno incontrarti poi di nuovo

separa e unisce la morte come un’ombra

che è mia che è tua nel sentiero

mio è l’ansioso reggere pesi

occhieggiando verso un largo aprirsi

 

oltre la curva scoprire il tracciato

delle pozzanghere qui la monella

corre salta ride può “sventolarsi”

eri tu che dicevi di me

“… proprio le piace sventolarsi

tenendo tutti i finestrini abbassati

nel buio del ritorno dal lago quando

è tardi la domenica sera quando

non cantiamo più “Bella ciao”

sfegatati sfiniti fratelli addormentati.

 

 

 

 La confortevole noia

                                                                                                             

La confortevole noia

del partecipare nel gruppo

degli umani qui a festa

raccolti variopinti e indiani.

L’essenza del vento sta

nella consapevolezza dell’aria

se vieni dal bosco l’avverti

e tutto trema tra le foglie simili

le interne e esterne sfrangiature.

 

Corro a sentire la banda

gli ottoni luccicanti suoni

ma tu perché non avanzi

tra gli altri uomini dritti

dignitosi vecchi forse

stravecchi, però ancora

con viso sguardo gambe

e piedi, tutto? O perché

non stai qui al mio fianco

osservando compiaciuto

questa raccolta di umani

belli con le piume d’alpino

acconciati simili al nonno

tuo padre della prima guerra

CarsoAsiagoOrtigara?

 

Gorgoglia sottotraccia

fino a sbollentarsi

e all’apertura delle chiuse

torna alla vita degli occhi

la massa d’acqua segreta

esonda dal mio corpo nota

e imprevista forma del tuo

non esserci, anche se io

ti vedo come se fosse questa

la tua sede naturale.