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Salon de coiffure

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di Kika Bohr
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A volte di sabato mattina mia zia Monique andava al “Salon de coiffure” e mi piaceva accompagnarla.

C’erano due negozi, negli anni 60, a Ginevra, che formavano un angolo arrotondato in una piazza alberata chiamata “Plateau de Champel”, a circa 400 m da dove abitava il nonno, Grand-Papa Paul.  Il più frequentato era la Boulangerie, ci si andava quasi tutti i giorni. La domenica, uscendo dalla messa, se il nonno era di buon umore, oltre al pane dalla crosta dorata e croccante si comprava anche o una “treccia” o qualche tarte. (Queste erano talmente buone che Grand-Papa Paul affermava a voce alta che per un’altra di quelle “sarebbe andato fino là in ginocchio!”) La boulangerie aveva un campanello sulla porta e si scendevano un paio di gradini per entrarvi.

Per entrare nel  Salon de coiffure invece, si salivano tre gradini.

da “Poesie criminali”

1

di Gaia Formenti

 

LORIS

 

Il cacciatore ha munizioni da guerra

i suoi baffi graffiano la tua guancia

appena nata

affollano luminescenti telecamere

si riga la sua seccata dal vino

lui di cuccioli non ne ha uccisi mai

In soffitta, con Binet

3

di Danilo Laccetti

La voglia di far sapere che sappiamo
ci brucia la lingua – nel mio caso la penna
Alberto Savinio, Alcesti di Samuele

1. Nell’Ars amatoria Ovidio sollecita le belle e giovani ragazze ad uscire di casa per trovare marito, postillando così (III, vv.397-8): «Ciò che sta nascosto, rimane ignoto; nessuno desidera l’ignoto; /quando una bella faccia manca di testimone, i frutti ritardano». Come già accaduto in altri luoghi di quest’opera, tanto insinuante quanto eversiva, imprevista la deviazione: se sei un poeta d’eccezione e non lo manifesti, nessuno lo saprà. Cosa cerca il venerabile nomen dei vati se non la gloria? È bello vegliare le notti, consumarle a scrivere, ma Omero esiste grazie all’Iliade: un’opera che si è fatta conoscere fino a noi.

Decenni più tardi Persio, un giovane poeta ritroso come dettava la dottrina stoica, muore a nemmeno trent’anni lasciando una manciata di satire, sei per la precisione; in quella d’apertura irride i poeti alla moda, tutti azzimati, le guance gonfie per le letture delle loro poesie in pubblico, una smania in corpo di vedersi riconosciuti grazie al ritratto delle loro facce, mostrati a dito, dettati a “cento ricciutelli” sui banchi di scuola. In una Roma turbida quel fermentum poetico che inglobi va di necessità espresso, come un fico selvatico capace di spaccare il fegato se non lo assecondi. Ma allora, commenta, “quello che sai non vale niente se un altro non sa ciò che tu sai?” (I, v.27).

A Roma Marziale visse quasi trent’anni. Grandi speranze all’esordio, ma quante petizioni andate a vuoto; poi da capo nella rozza e provinciale Bilbis per quel ritiro malinconico, prossimo alla morte. Fu autore di grido, finché durò; nei suoi epigrammi un binomio torna con ossessione significativa: la fama (chiamiamolo pure “successo letterario”) e la gloria. La prima sapeva di averla, se ne vantava perciò; la seconda appartiene ai morti. Ecco un esempio, fra gli altri (I.25):

Dai, Faustino, editto pubblico ai libri
tuoi, spremi dal cuore dotta opera
(di Cecrope le rocche e di Pandione,
e i vecchi nostri tacciano ogni ammenda).
La fama lasci dubbioso alla porta,
premiare la fatica ti rincresce?
Vivano adesso le carte, vivranno
dopo te: la gloria ti bacia morto.

Giovenale nella sua settima satira dispiega il penoso quadro degli intellettuali, in particolare la miserevole vita dei poeti (vv. 28-52): tu che scrivi versi chiuso in una stanzetta, hai voglia a sperare in un patrono che paghi le presentazioni delle tue opere. Sì, un po’ di sgabelli presi a noleggio te li dà, qualche suo amico claqueur; non sei mica Stazio, un poeta vezzeggiato da chi conta, dall’imperatore in persona. Puoi solo arare la sabbia, rivoltando l’aratro su una spiaggia deserta, ma anche tu, non negarlo, sei tenuto al laccio dalla consuetudo ambitiosi mali: la pratica malsana dell’ambizione non ti lascia andare. Anzi, una volta che il “cancro della scrittura, inguaribile ti possiede”, invecchierà nel tuo “cuore malato”.

Distinzione: processo grazie al quale si riconosce un’identità chiara, separata dalla massa omogenea; da quel volgus “senza riconoscimento, senza autorità” (Sallustio refert) da cui, nell’agonia della repubblica, Catilina volle distinguersi con i mezzi che gli erano propri. Letterariamente parlando, Ovidio, al pari di Marziale, ha ragione da vendere: scrivere non basta; scrivere bene, benissimo, neppure. L’opera non esiste se non è trasmessa; o meglio, si deve fare di tutto perché lasci una traccia riconoscibile nei contemporanei. Quel cancro, di cui parla Giovenale, ti costringe; prova pure ad allontanarti, a tentare il sentiero oscuro di un Persio. Quel laccio è una catena corta, molto. Opporsi alla distinzione significa immergersi nel volgus, confondersi, senza più un’identità riconoscibile, senza nome; senza ammalare il tuo cuore stanco fino alla morte.

Dunque: l’anonimato in letteratura è bestemmia impronunciabile, sogno che ha del miracoloso oppure semplice astuzia da marketing editoriale? Oggi più di ieri, oggi che, attraverso l’automatismo della “condivisione”, esibire in modo istantaneo ciò che sai, leggi, scrivi, pubblichi, chi frequenti e quando e dove, diventa comandamento irrefutabile per esistere (anche se unicamente nella virtualità di un’accensione di monitor), oggi più che mai risuona penetrante, vigoroso interroga, quell’unico verso, filosoficamente astratto e spiccio quanto si vuole: “quello che sai non vale niente se un altro non sa ciò che tu sai?”.

2. Nelle ottave iniziali dell’ultimo canto dell’Orlando Furioso Ariosto paragona il viaggio del suo poema, pericoloso come ogni sacrosanto viaggio letterario che si rispetti, ad una barca che riuscì ad approdare in porto il “legno intero”, scampato il rischio di smarrirsi o fare naufragio, giungendo “a fin di così lunga via”. La novità non sta nella metafora quanto in quel festoso rallegrarsi degli amici, sparsi nelle corti dei diversi stati italiani, degna cornice di una letteratura cortigianesca e aristocratica, scritta da pochi autori per pochi lettori; il sostegno di un’attesa così solidale e affettuosa, però, deriva da un progetto e un universo intellettuale condivisi, tali da incarnarsi nella leggerezza sfrenata e pensosa di molte pagine ariostesche, autentico documento umano di un’intera epoca. Qualche secolo dopo, fino a toccare il nostro tempo, l’habitat letterario si andrà progressivamente, in modo inesorabile, polverizzando: dalla nobile marginalità di pochi all’atomizzazione sonora e impalpabile di molti, dall’antagonismo profetico degli eletti al tritacarne digitalizzato e plurivoco degli indistinti.

3.1 Perché Olga e Stolz si dedicano con tanto accanimento alla “salvezza” di Oblomov? Per una fraterna amicizia lui, per un’acerba infatuazione, non esente dal capriccio della seduzione, lei. Non a caso il loro matrimonio “normale” sugella l’anormalità irresolvibile rappresentata dal dilemma Oblomov, resistente anche al potente virus della passione amorosa, che Olga ha in lui disperatamente inoculato. Tutto questo possiede la sua dose di verità; eppure qualcosa di più profondo causa il loro fatale operato, motore di tutto il romanzo. Certamente Oblomov va letto come opera di scanzonata denuncia sociale; c’è, poi, un Oblomov deliziosamente psicanalitico, quello, per intenderci, prediletto dalla lettura filmica di Nikita Michalkov: la vita letargica della tenuta di Oblomovka, una pervicace narcosi delle emozioni fa del divano un’isola autarchica. Eppure la condotta del mite Oblomov, che alterna stasi paludose e asfissianti a momenti di fervida smania, risoltesi in un ampio e retorico falso movimento, è il risultato di qualcos’altro. Quando Stolz lo trascina a feste e balli, cerca di coinvolgerlo nei suoi viaggi, la repulsione di Oblomov non è soltanto legata alla scipita prosopopea di queste situazioni; Oblomov non capisce e non individua la ragione e il senso profondo del desiderio e dell’azione che rappresentano l’elementare binomio causa-effetto alla base del meccanismo della vita. In alcune pagine di intensa suggestione emotiva Oblomov con disarmante candore offre a Stolz la sua analisi del mondo: desiderare e agire per soddisfare quel desiderio e quelli che seguiranno (che sia amore, famiglia, successo, carriera, denaro), quale senso ha tutto questo quando viene vanificato dalla precarietà irrimediabilmente transitoria della vita? Qual è la ragione ultima che ci dovrebbe motivare ad esistere partecipando all’inarrestabile giostra in cui siamo immersi? Domande grandi, ultime, da adolescenti, si direbbe. In verità palesano un limpido nichilismo, energico e dirompente, proprio di chi è andato fino sul fondale per raccogliere con coraggio l’essenza profonda della vita e trovandosi davanti a un muro bianco, a un vuoto di risposte, decide di non agire, di non partecipare e quindi esiliarsi; farsi indistinto, anonimo in ultima istanza. E il sigillo di questo volontario esonero viene apposto dalla scelta di “escludersi” in quel sobborgo di Pietroburgo, Vyborg, dove vivrà sino alla morte accanto alla vedova e massaia Agaf’ja. Questa identica percezione della vita, da notare, si ritrova nelle parole di Stolz a Olga, divenuta sua moglie, quando lei gli confessa un’insoddisfazione senza ragione, e lui le spiega di cosa si tratti: «la ricerca di un intelletto vivo, attivo varca talvolta i confini stessi dell’esistenza, non trova naturalmente risposta e così viene la tristezza (…) È la tristezza dell’anima che domanda alla vita il suo segreto» (IV,8 – trad. Ettore Lo Gatto). Per fronteggiare questa inquietudine, Stolz suggerisce a Olga l’unico antidoto possibile: vivere. Proprio quella cura ripetutamente somministrata ad Oblomov senza successo; di fronte a quel vuoto di risposte egli non ha trovato nella vita stessa l’unica risposta sufficiente a giustificarla. Oblomov appartiene a una singolare stirpe di visionari: non capisce il senso e la ragione che fonda il gioco della vita, non capisce perché vivere agendo, cumulando compulsivamente, come criceti in una ruota, desideri e obiettivi da raggiungere. Tutti lo fanno, così è da sempre; lui, però, decide di rimuovere il binario desiderio-azione piuttosto che viaggiare su un treno il cui solo incedere gli appare insensato. Declina l’amore passionale per Olga e termina i suoi giorni confortato dall’amore sommesso della vedova Agaf’ja; alla passione divorante preferisce la tranquillità dell’affetto. Due anime gemelle unite dalla stessa visione delle cose, Oblomov e Agaf’ja: nulla pretendere dalla vita, nulla aspettarsi da lei. Oblomov rinuncia a vivere per una sorta di nichilismo nitido e ingenuo insieme; a guardarla bene la sua scelta non ha nulla a che fare con il motivo ricorrente che sbriga Oblomov come un sognatore stonato. Convertirlo alla vita, per Olga e Stolz, strapparlo all’anonimato in quel sobborgo squallido di Vyborg è un atto squisitamente egoistico, difesa di sé e del proprio modello di vita che Oblomov con la sua mitezza apatica mette in discussione dalle fondamenta e scardina, terremotandolo. Ma normalizzare la sua “imperfezione” diventa un atto necessario quanto fallimentare, perché è il risultato della fatale incomunicabilità fra due mondi paralleli dentro il medesimo perimetro dell’esistenza: gli oblomoviani, i non-desideranti, remissivi e inattivi, gli anonimi, e i desideranti, gli attivi, quelli che consacrano la vita alla continua ricerca di una distinzione. Talvolta la condotta di un uomo accoglie dentro di sé, con gradazioni e ricorrenze diverse, sia l’una sia l’altra spinta.

3.2 Agaf’ja possiede il segreto della vita senza saperlo. Lo possiede in quei gomiti che tanto sfaccendano in cucina; perché manda avanti l’intera famiglia a testa bassa, nemmeno una lacrima; amando Vyborg, non nutrendo il desiderio di vedere o conoscere altro. È allegoria della pazienza muta di tante vite, un’allegoria materna; effigie della terra che soffre le carestie, le cattive stagioni, l’incuria degli uomini. Qualche decennio più tardi qualcosa di assai simile a lei tornerà in Praskov’ja Michajlovna, detta Pašen’ka. Ci troviamo alla fine del racconto Padre Sergio di Tolstoj. L’anziano eremita, un santone guaritore dalla reputazione illustre, travestito da mugico fugge per aver ceduto nottetempo alle profferte della figlia nevrotica di un mercante, che avrebbe dovuto “guarire”; la sua vita a precipizio, medita il suicidio. Poi, chissà perché, rievoca il ricordo di una bambina, la piccola Pašen’ka appunto, sua antica compagna di giochi; non la vede da trent’anni, sa che ha avuto un matrimonio infelice, un marito dilapidatore e manesco. Interpreta questa “illuminazione” come un messaggio divino: lei saprà dirgli cosa deve fare. Durante l’incontro le rivolge una domanda, carica di valore: “come vivi, come hai passato la tua vita?”. Pašen’ka, caduta in disgrazia, con le ripetizioni di musica mantiene la figlia, il genero nullafacente e i nipoti; in silenzio, con il coraggio della sopportazione, guidata dal sentimento naturale di dover resistere, senza lagnanze, senza recriminazioni (la medesima, umile fermezza di quel “Vivremo una lunga, lunga fila di giorni” che Sonja sussurra a Vojnickij nel finale di Zio Vanja). Padre Sergio, dopo essere stato, al secolo, l’iracondo principe Kasatskij, destinato a diventare aiutante di campo dello zar Nicola I, nella vita religiosa ha replicato la stessa ansia di vanagloria; con il cammino di perfezionamento spirituale, da monaco a santo, ha cercato di distinguersi. Finito il colloquio con Pašen’ka, padre Sergio capisce cosa gli resta da fare; annullarsi e scomparire. Diventare anonimo. Buttandosi alle spalle le sue due vite precedenti, umile vagabondo finirà in Siberia a curare l’orto di un ricco contadino. Qualche anno dopo la stesura di questo racconto Tolstoj, scrittore, un po’ guru anche, di chiarissima fama, tenterà con la fuga da Jàsnaja Poljàna il suo oblio in vita; dalla distinzione all’anonimato.

4.1. Il trentacinquenne Flaubert, pubblicato nell’aprile 1857 il suo romanzo d’esordio, Madame Bovary, tra febbraio e marzo aveva letto in francese un passo di Polibio; si fa cenno alla rivolta dei mercenari al servizio dei cartaginesi dopo la fine della prima guerra punica. In biblioteca saccheggia tutto lo scibile su Cartagine; tra maggio e luglio un centinaio di volumi compulsati voracemente, a novembre il suo nuovo romanzo, un romanzo storico, ha un titolo e il primo capitolo: si chiama Salambò.

Quando, a fine novembre del 1862, la tanto attesa seconda prova del nuovo autore vede la luce, l’approvazione del pubblico è entusiastica; nel primo mese quattromila copie e due edizioni. La critica, invece, è più tiepida. Fra gli altri si segnala la disapprovazione del temuto Sainte-Beuve, che pure apprezzò il suo esordio. In alcuni famosi “lunedì” disamina le pecche di quest’opera, la cui sostanza gli appare artificiale, fredda; rivela anche un qualche pregiudizio, in particolare quando accusa Flaubert d’essersi piegato ad un romanzo “archeologico” per l’umiliazione d’essere stato troppo letto al suo debutto. Nelle conclusioni il critico auspica che lo scrittore riprenda la strada interrotta, non si faccia attendere e offra presto un’opera “forte, potente, di osservazione, viva”. Torna utile leggerne una sequenza (trad. Piero Toffano): «Pochi anni di fecondità sono concessi agli uomini, e anche ai più autentici talenti: bisogna saperne usare per trovare un posto e ancorarsi nel cuore e nella memoria dei propri contemporanei: questa è ancora la via più sicura per arrivare alla posterità».

Distinguersi: lasciare un’impronta chiara, non delebile dal tempo; risuona vicina la sagacia dei versi di Ovidio, la mordacità di Marziale.

4.2 Nelle ultime ore di vita Emma Rouault, maritata Bovary, disperata va in cerca di qualcuno che possa sanare l’enorme debito, evitandole il pubblico discredito e le penose spiegazioni all’ignaro consorte. Vortichiamo assieme a lei mentre si umilia con il notaio, con l’ex-amante Rodolphe, per poi precipitare dal garzone del farmacista Homais, il giovane Justin, davanti al quale “mangia” imperterrita un pugno di arsenico. Suicidio assai poco romanzesco per chi, donchisciottescamente, aveva perseguito in vita l’immaginario di romanzi tarlati da amori vissuti fino all’ultimo spasimo, in compagnia di languori non riferibili. Prima, però, strapiomba con tutta la furia che ha in corpo dentro la soffitta di Binet, misantropo esattore delle tasse; qui, separato dal mondo, egli lavora al tornio vari oggetti: con una dedizione maniacale, tipica dell’artigiano devoto, crea meraviglie di carta, legno, avorio, manufatti di nessuna utilità, che gli altri neppure conoscono. Utili e necessari solamente per lui. Proiezione flaubertiana, forse, dell’artista che in solitudine monacale plasma le sue bellezze; modello di chiara ascendenza romantica.

Va immaginato quest’uomo; gioisce solitario, nel silenzio ritmato unicamente dal ronzare meccanico del tornio, s’appaga di una passione clandestina così intensa, così scontrosa e ignora quale tempesta infiammi la donna che s’accinge a bussare alla sua porta: il tormento di una vita segnata dal contatto con la pochezza di molta realtà. Binet crea senza bisogno di dare nome alle sue creature; le destina all’anonimato come anonimo è il corso della sua vita, non rivendica alcuna distinzione né per lui né per loro. Se non fosse per quel mestiere, esattore delle tasse, figurerebbe al meglio come maestro stoico dello sventurato Persio. Giusto un attimo prima che Emma lo interpelli, eccolo (III parte, cap. VII – trad. Maria Luisa Spaziani): «Nel chiaroscuro del laboratorio la polvere bionda sprizzava dal tornio come un getto di faville sotto i ferri di un cavallo al galoppo; le due ruote giravano, ronfavano; Binet sorrideva, a mento chino, a narici dilatate, e pareva insomma perduto in una di quelle felicità perfette che forse soltanto le imprese mediocri sanno dispensare, intrattenendo la mente con difficoltà facili e appagandola in una realizzazione oltre la quale non c’è nessun sogno». Lo sprigionarsi delle faville cadenza il galoppo della fantasia per quest’uomo oscuro, impenetrabile. La sua vita ordinaria dissimula una violenta bellezza; in quell’ostinato ripudio del mondo, del plauso come dell’inevitabile biasimo, c’è la stupefacente e terribile rilevanza di un animo padrone di sé, interamente sovrano. Piccole e tangibili sono le gioie di cui si contenta, costruite e consumate in segreto; il piacere prorompe dal suo mancato differimento nelle fattezze del sogno, crudelmente tirannico come l’imponenza dispettosa dei sogni prevede. È proprio l’amaro sentire di Giovenale: mentre lasci che marcisca il tuo cuore malato per colpa del cancro inguaribile della scrittura, tutti gli appetiti, le rimostranze, gli assilli, che reclama per alimentarsi, giorno dopo giorno ti dissanguano.

Avercela, la felicità perfetta di Binet.

SCARICA LA VERSIONE INTEGRALE (PDF)IN SOFFITTA, CON BINET – DANILO LACCETTI

Essendo il dentro un fuori infinito #11

5

di Mariasole Ariot

Il signor guantini ha una sedia al posto del corpo, si muove piano, la lentezza delle lumache con il guscio. Le mani ricoperte di cotone bianco, i piedi fasciati, gli zoccoli color fumo : potrebbe incollarsi ovunque, negli ovunque dei territori, diventare territorio per gli altri : gli oggetti, le zampe, le cose scoperchiate dall’interno.
Porta a tavola un cuscino, il suo bicchiere anti colla, il cancellino per eliminare tutte le cose morte, com’è morto lui, da tempo, sotto la superficie terrestre. Il signor guantini mi chiama, ascolta Leonard Cohen da mattino a notte, urlano di addormentarsi, ma il letto è una trappola, potrebbe rimanerci attaccato, le ossa contro la tela bianca.
Qui, nei corridoi del cervello, si eliminano una ad una le ombre per poi riproporsi quando il silenzio si vota all’eterno, all’angolo inclinato del tempo.

“Vorrei una maschera per mascherare il volto, non posso baciare né toccare, posso solo distanziarmi dalle cose immobili, restare fermo, staccare un piede alla volta dalla membrana del pavimento : mi scollo dalla scena del mondo, mi preparo alle parole divise, mi divido”

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Il signor guantini danza lento fino alla sala da pranzo, appoggia una ad una le sue frattaglie, si piega a sinistra, leggermente inclinato per verificare l’inverificabile : che non ci sia colla sul piatto, che il cibo non faccia differenza. Ha suscitato vita nella vita, il punto di incontro tra due superfici : la sua, quella della terra, degli spazi aperti come ali di volatili impazziti. Ma qui dentro, tra la resa e la funzione di una scelta, tutto è già prestabilito. Pile di guanti bianchi nell’armadietto, la sua sopravvivenza. Non dicono niente, non dice niente se non il niente dell’esistenza, lo scarto che sappiamo percepito.

“Cos’è il percepito? Cosa fa metafora di questo rimasuglio di vita che non vive, di volti appesi alle pareti? Ho un foro nel torace da cui entrano serpenti, si dimenano fino a mordere la gola. Cos’è questo dolore che mi attacca alla vita, che mi distacca solo attraverso il bianco? Cos’è questa vita che dice parla e non parla, che dice vuoto e non svuota, che non dice nulla. Le mani bianche si allungano come animali per aggrapparsi ai piccoli cuccioli d’oggetti, le poso ferme, ho i miei orari, le mie torture fissate nella zona occipitale”.

Poi il pavimento si fa muto, ricorda il grado zero per richiamare all’ordine. Ma l’insopportabile è questo sentire, questo sentimento che urla : se il grado è più basso, la vera sofferenza è accorgersi che non c’è alcuno zero, che lo sprofondo è sprofondato, che le mescolanze non sono possibili. E il signor guantini non si mescola, resta confinato in un muro di cotone, avvolto nelle garze, identificato con l’Essere che l’ha disperato.
I dispersi siamo noi che cerchiamo un contatto, che quando lo cerchiamo siamo già nel tattile, nell’agalma denso delle cose.

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Sotto terra, i piccoli bagliori del giorno attraggono per forza di gravità i piedi di G. La condanna di essere ancorati per forza grave alla crosta terrestre, come un mollusco allo scoglio, e non c’è ragione, non c’è alcuna via d’uscita o d’entrata : tutto spinge verso il basso, il suo corpo si muove lento, affaticato da millenni. A volte, nei ritagli di tempo del cervello, si apre una buca, cadono dentro piccoli astri, lumini in forma sonora – e lui li raccoglie con i suoi guanti bianchi, li posa uno a uno sulle teste degli altri, li rovescia nell’incomprensione.
Cos’è dato sapere della notte? Cosa la notte dice della notte?

Il signor guantini allunga e dilata gli spazi come i tempi, ogni movimento, ogni spasmo vagale potrebbe incollarlo agli oggetti come al tempo, come ai territori percorsi dall’immobilità. E dunque non c’è speranza, non c’è sperabile, c’è solo attesa. Che arrivi il giorno, che il giorno sia vestito da giorno, che sia protetto, che arrivi il pasto, che sia risucchiato con la cannuccia perché le labbra non facciano presa col bicchiere, che ci sia vuoto, una zona concava in cui attendersi.

Siamo tutti qui, lo guardiamo, gli scostiamo la sedia perché possa passare il passato, lo cibiamo. Leonard canta un canto d’amore, e il signor Guantini qui dentro è l’unico a saperlo : incollato alle note com’è incollato alla vita. Resta perché è impossibile non restare, perché andare scivola nel deleterio. L’immobilità che siamo, quando ci accorgiamo di essere vivi, sono i guanti di G. La metafora di un non poter partecipare all’esistere, di esistere solo per ancoraggio.

La stanza è piena di cimici, montano sulle teste, scavano piccoli forellini sulle tempie e lì si annidano. Il ronzio è questo nostro mondo che non smette di parlare anche quando tace, che smette quando la parola si fa oggetto e si scolla dalle pareti per entrare nei corpi e farsi corpo. Una ad una cadono,
una ad una restono, resistono il tremare, restituiscono ombra all’ombra.

Sluban11

“Dove tutto questo immobile è sollievo, dove crolla, dove dice, dove mastica, dove preme, dove angoscia, dove turba, dove grida, dove piange, dove arranca, dove strappa, dove preme, dove si attacca, dove accade, dove non accade, dove mangia, dove impreca, dove morde, dove dice, dove indietreggia, dove fa male, dove fa uno, dove è doppio, dove è stanza, dove è niente, dove ride, dove stride, dove nei mondi del dove. L’imperativo è assoluto : io guido le ripercussioni del passato attraverso i tubicini infilzati a forza. Resta una sanguisuga appoggiata sul ventre. Sotto ipnosi dice : poggiatene sedici : è qui che duole”.

Ma non duole, la disperazione è il grado zero che scende al di sotto, che ribadisce una verità non assoluta. Che lo zero non esiste. Che siamo sottozero, che non siamo.

 

  • fotografie di Klavdij Sluban

Chirù

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SVC_Murgia_Michela_Chiru.indddi Gianni Biondillo

Michela Murgia, Chirù, Einaudi, 2015, 191 pagine

Chirù è un giovane studente del conservatorio di Cagliari affamato della vita. Ma il talento, da solo, non basta per morderla. Chirù ha bisogno di un maestro – più che dentro fuori da scuola – che sappia dargli gli strumenti per decrittare il mondo. L’incontro casuale con Eleonora, più vecchia di lui di vent’anni, sembra il compiersi di un destino. Il rapporto fra i due è in teoria platonico e ideale. Ma l’erotismo continuamente represso fa scaturire, di pagina in pagina, piccole crudeltà reciproche. Discente e maestra sono i fattori matematici di una disequazione irrisolvibile: se lo scambio emotivo trovasse l’equilibrio il rapporto giungerebbe all’entropia. O all’insensatezza.

La scrittura di Michela Murgia è tutta in punta di penna, controllata al limite del vezzoso, la padronanza della lingua indubitabile, con dialoghi mai strabordanti o didascalici, anche quando appaiono certami di intelligenze.

Si crede di leggere un libro sulla generosità, si scopre di attraversare una storia di egoismi. Come, nei fatti, la maestra modelli il suo allievo non è mai descritto. Di Chirù, alla fine, non sappiamo nulla per davvero, non è lui il vero protagonista del romanzo, ma Eleonora, con un passato emotivo colmo di ferite e oggi attrice di successo assuefatta alla mondanità.

La borghesia alla fine si assomiglia tutta, e si sa riconoscere, che sia quella di Cagliari o di Stoccolma. Ciò permette a Michela Murgia di evitare derive esotico-localiste di una certa letteratura nazionale. E anche di mostrare il continuo gioco di finzioni di un mondo ridotto a teatrino frequentato da pupazzi, nel quale, all’apparenza, la protagonista troneggia. È un incontro di solitudini, quello raccontato in Chirù. E di piccole vendette meschine, prove della raggiunta, sconfortante, maturità.

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(pubblicato su Cooperazione numero 5 del 2 febbraio 2016)

Vita di Alice

7

di Francesca Fiorletta

Alice aveva quattro anni, e non sapeva ancora parlare.
I genitori erano molto preoccupati, perciò la portavano dal pediatra prima una volta al mese, poi una volta a settimana, e poi addirittura tutti i giorni.
La mamma andava a riprenderla da scuola alle quindici e trenta, puntuali, ogni pomeriggio; parcheggiava l’auto in doppia fila all’imbocco del vialetto, bussava con due nocche alla porta a vetri, e s’accertava con la maestra degli eventuali miglioramenti della figlia. Alice mangiava tutto, giocava con gli altri bambini, era attenta e ordinata, disegnava farfalle e le colorava d’azzurro, senza uscire dai bordi. Ma non parlava mai.

Erba e aria

1

di Fabio Franzin

Epùra, i ‘à paròe che ‘e sa
de erba stonfa i morti, co’
i vièn catàrne drento ‘l sòno;

‘e ghe sgorga dae man vèrte,
a fontanèa, opùra jozha dopo
jozha intant che i ne varda

fissi coi só òci de avorio;
i ne dise robe che romài no’
‘e ne interessa pì; i ‘é ripete,

sotvose, come se i fusse drio
confidarne un de chii secrèti
che i se ‘à portà co’ lori; mai

che sie un calcòssa che vèrde
‘na spièra, che cète ‘a spizha
de ‘na coriosità mai coeoràdha.

‘E paròe ‘e bate tel bianco
portal del sogno, fis.ciando
fra ‘e sbàre vèce dei cancèi

po’, cuzhoeón, come rùmoe,
i morti i se scava busi tel prà,
curidhòi che i córe sbièghi

drento ae cóine. Se sintìn
‘e palpebre pende fa scòrzhe
co’ se svejién: drento ‘l zhervèl

un bzz zheèsto; ‘e nostre man le
‘é ssute, ‘e paròe le ‘é qua e qua
‘e se scava ‘l só nido de fògo.

 

Eppure, hanno parole che sanno
d’erba bagnata, i morti, quando
nel sonno ci vengono a trovare;

gli escono dalle mani aperte,
a fiotti, oppure goccia dopo
goccia mentre ci guardano

fissi coi loro occhi d’avorio;
sussurrano cose che ormai non
ci interessano più; ce le ripetono,

sottovoce, come se stessero
confidandoci uno dei tanti segreti
che si sono portati nell’aldilà; raro

sia qualcosa che apra
un varco, che soddisfi
una mai sopita curiosità.

Le parole bussano al bianco
portale del sogno, sibilando
fra le sbarre arrugginite dei cancelli

poi, carponi, come talpe,
i morti scavano cunicoli nel prato,
corridoi che si snodano obliqui

dentro le colline. Sentiamo
le palpebre spesse come bucce
quando ci svegliamo: dentro la testa

un azzurro ronzio; le nostre mani
sono asciutte, le parole sono con noi e in noi
si scavano il loro nido di fuoco.

 

***

 

I segni verdi

Come chee care fojiéte de èdra
a scaeàr coeòne, curve de marmo
te un parco ribandonà; o i fii de erba
alta drio un stradhόn de campagna,
dopo ‘a piova: carézhe fresche che
sgrafa ‘l rosa, vèce vìrgoe tii polpàci
de bòce che core alègri incontro
al sό destìn; el mus.cio far viùdho
tee pière de ‘na casa coeònica; ‘a forma
invidàdha su intorno l’aria dei rizhi
dee vidhe, squasi sorèa de quea a elica
del d.n.a, te un microscopio a scansiόn;
el siénzhio sussurà te l’onbrìa tremante
de rame e frasche; ‘a lìnia che se incurva
dolzha, tee coìne, tii àrzeni speciàdhi
te l’aqua dei canài, l’inchino dee canèe.

Mì son cressù in fede de ‘ste scriture
qua, co‘ste paròe verde drento el cuòr;
cussì spere che ‘e mie sèpie copiarle,
che ‘sta poesia fae su un canp, un prà
fra l’ànema e ‘l ‘sfalto de chi le ‘scoltarà.

 

I segni verdi

Come quelle care foglioline d’edera
a scalare colonne, curve marmoree,
in un parco abbandonato; o fili d’erba
alta lungo un sentiero di campagna,
dopo il temporale: carezze fresche che
graffiano il rosa, antiche virgole nei polpacci
di bimbi che corrono allegri incontro
al proprio destino; il muschio farsi velluto
nelle pietre di una casa colonica; la forma
avvitata intorno all’aria dei viticci,
simile a quella elicoidale
del d.n.a., in un microscopio a scansione;
il silenzio sussurrato nell’ombra tremolante
di rami e fronde; la linea che si curva
dolce, nelle colline, negli argini riflessi
sull’acqua dei canali, l’inchino delle canne palustri.

Io sono cresciuto in fedeltà di queste scritture,
con queste parole verdi (e acerbe) dentro il cuore;
così spero che le mie sappiano copiarle,
che questa poesia componga un campo, un prato
fra l’animo e l’asfalto di chi le ascolterà.

 

***

 

L’é ‘ndo’ che ‘l Piave sparìsse

sot’a jèra dea grava, fra cassie
e saézhi. Sassi coeór dea sabia,
grisi, grossi come bigne de pan

sparìsse l’aqua longo ‘e falde,
el só mistero. Resta e cresse
piante basse, fojiéte che trema,
pólvera ciara e fina come talco

tel let ssut. L’é ‘ndo’ che l’aqua
se ‘sconde che ea ne fa ‘scoltàr
‘a só vose. Tel ‘tondo dei sassi
l’opra che fa dea pièra poema.

 

È dove il Piave scompare
sotto la ghiaia del greto, fra salici
e acacie. Sassi beige,
grigi, grossi come pagnotte

scompare l’acqua attraverso le falde,
il suo mistero. Restano e spuntano
bassi cespugli, foglioline tremolanti,
polvere chiara, impalpabile come talco

nel letto asciutto. È dove l’acqua
si cela che echeggia
la sua voce. Nella rotondità dei sassi
l’opera che fa della pietra poema.

*

Fabio Franzin, Erba e aria, Vydia editore, 2017 (introduzione di Fabio Pusterla)

La vita è un corpo

1

6665-3di Alessandro Garigliano

Non mi piace essere sentimentale, per cui mi è difficile recensire Una vita come tante, scritto da Hanya Yanagihara e tradotto da Luca Briasco (Sellerio 2016). Ma è stata una lettura, se non travolgente perché la storia non è incalzante, di certo appassionante, terribilmente appassionante. Sospendere la lettura, anche per poche ore, costava fatica e, mentre facevo altro, i personaggi e le trame del libro non mi abbandonavano mai, continuando a danzare nella mia immaginazione con una sensualità malinconica eppure conturbante.

Ifigenia – sequenza mancante

2

di Fabio Orecchini

32 (1)

Città dei porci. Una gita in campagna

1

cittadeiporci

di Davide Orecchio

[…] La foresta è curiosa. Sembra una rete. L’erba è un tappeto di antenne e gliele rivolge (al porco svenuto, sconfitto). Svenire non è come il sonno, quando non c’è coscienza. Il porco non appartiene più al mondo. È figlio del nero che per un po’ abita senza coscienza. Lo spettacolo cui assisteva dal viaggio adesso l’osserva. Le bestie nascoste o posate sui rami lo scrutano. Cespugli d’erica aspettano il risveglio di lui. Se prima era animata e simultanea, la foresta ora cresce in altezza, fa ombra, si ferma sul porco svenuto. Le foglie che gli cadono accanto sono agenti segreti. Ma il porco fatica a scalare le pareti della tomba che è svenire. Anzi non fa, non si sforza, non sogna. Assomiglia a un morto. Con nolontà il corpo di Felix è ospite della foresta. Una statua abbattuta. Prima aveva il muso nell’erba, ma rotolando è arrivato supino a liberare le frogie da cui cola un moccio leggero, e l’addome rotondo che pulsa – unico segno di vita finché con dettato (e coscienza, e lavoro) io vedo che le palpebre del porco gesticolano, e lì sotto le pupille devono smaniare, hanno ripreso a far parte del mondo.

Riapre gli occhi, massaggia la fronte dov’è stato l’urto. Cosa significa? Forse io sono morto, eppure si sente vivo col calpestare l’erba, la ghiaia, nel tastare il bernoccolo creato dalla pietra miliare, mentre scorge il volo di un bucero che si conclude sul comignolo di una fattoria a poche centinaia di metri. Un roseto ripara il casale. Qualcuno lo abita: da una canna sguscia del fumo. Qualcuno si riscalda o cucina. Per Felix è tempo di andare, di correre e saltare cespugli, inoltrarsi nella boscaglia, ferirsi con rovi e spine, suscitare schiamazzi nella natura nascosta, fughe e proteste ma nulla che lo dissuada dal raggiungere il posto (un tetto spiovente, un patio che scricchiola, un gallo di carta mosso dal vento, pareti di legno scrostato) e dal bussare – dove il suo battere non è solo una richiesta che aprano, ma che dicano pure: Tu esisti, ti vedo; una preghiera in forma di tonfo: che qualcuno viva là dentro e risponda –. E dopo: silenzio. Il silenzio che reagisce ai colpi coi quali un estraneo si annuncia. Il maiale trattiene il respiro in attesa che si rompa la quiete. E si rompe la quiete. Socchiudono la porta. Un’azione cauta. Si divarica uno spazio stretto tra il buio e la luce, un margine che si vede ma non identifica, largo quanto basta per la consegna di un messaggio dove il dentro con una voce maschile, prudente, chiede al fuori: Chi è?; e il fuori risponde: Mi sono perso. 

[…]

…e Felix ringrazia, prende fiato, si convince che l’incubo stia già finendo mentre l’uomo in silenzio lo ignora e gli volge le spalle, indaffarato nel riparare un’asse del patio, e per la prima volta il maiale si guarda attorno e solo ora vede il sentiero di ciottoli, tronchi caduti che ha percorso poco fa, e si rende conto di trovarsi in una fossa verde, profonda e remota, dove sono conficcati pini centenari ricoperti di muschio. C’è silenzio. Giusto il vento si consente di suonare i tralci. Gli alberi sono più alti di quanto in un pensiero si possa immaginare l’altezza di un albero. Tutto deborda, esagera in longevità spudorate. La vita trasuda in liquami e resine, infiorescenze, protuberanze, innesti che sembrano braccia.

E smontano dal patio e s’intromettono nel crepuscolo che alimenta le forme e le esulcera. La creatura più alta, che avanza, e la più bassa, che segue, infilzano il bosco e Felix già vede il capanno che sorge oltre la sagoma dell’uomo, come rilasciato dalla foresta in forma di scarto, di legno vile, basso per crescita interrotta o ambizione abortita di capanno, ma comunque alto per un porco straniero per giunta, abbandonato, stordito e che s’affida a uno sconosciuto che non gli parla più e il pagliaio cresce man mano che si avvicinano e un mescolo di foglie, rametti, humus crepita, s’ammolla sotto i loro passi.

L’uomo estrae un mazzo di chiavi e apre la grata e acconsente col gemito e non mostra quasi nulla, nessuna forma o apparenza nel casotto cieco ma appena un odore che non si comprende e il bifolco si volta e fa posto al verro perché passi e sbirci dentro, e indica un sacco di canapa nell’angolo, l’unico oggetto che s’intraveda: È pieno di ghiande e dietro c’è un pagliericcio – assicura –, entra pure, mangia e dormi, domattina ti vengo a svegliare; e Felix si sporge e riconosce il profilo di un sacco, ma dice Non si vede nulla, non avrebbe una torcia?, mi raffredderò?, non avrebbe una coperta per me?; mentre l’uomo lo spinge dentro, chiude la grata, lo rinserra. Poi il fischio del vento, lo sciabordio di uno stagno, un battito d’ali, il verso di un’allodola. La cornice prende vantaggio sulla debolezza del vuoto che colma, mentre il silenzio perde, il silenzio perde sempre e il porco lo ascolta turbato.

Nel capanno c’è buio e veste e spaventa il maiale che scuote il cardine della grata, ma da qui non si esce. Cosa farà? È legato da catene del buio che detto. Congettura che l’uomo l’abbia chiuso per proteggersi, anche l’uomo è solo nel bosco e indifeso e ha le sue ragioni, pensa Felix, e domani farà quanto ha promesso. Ma c’è il controcanto del panico (nel non visto, non saputo e temuto). Non sta ragionando. È immerso nel non visto, non saputo, temuto e pestifero. Sul terriccio la mente partorisce il controcanto del panico, che è il lutto di piccole larve per la vita perduta – con la libertà, con le memorie che affiorano – e strisciano ai suoi piedi sgravate dalla mente di porco che singhiozza nel non visto, non saputo, temuto, mai predetto e pestifero.

Un ambiente, la sua cella improvvisa, di spazi sottratti e senza forme ma colmo di afrore che inizia a schifarlo. Ma cos’è che puzza a questo modo?, si chiede e si alza, tasta la parete e comincia a cercare. Perché il desiderio di vivere vince sempre e il riscatto da dove s’avvia? → dal riconoscere, vedere, sapere. E cosa occorre per questo? → la luce. Il nitore per formare il nemico. Quanto basta di chiarezza per capire dove voltarsi e fuggire. E Felix certo è morbido, rammollito dall’inquietudine, ma ha deciso di farsi forza e io detto che ancora tasta e perlustra. Cerca un interruttore. Un vecchio congegno. Un meccanismo obsoleto che non obbedisca a comandi mentali, appropriato a un casolare di campagna, non diverso dall’impianto che Felix ha nel suo appartamento nella baia dei porci. Un pulsante per fare la luce.

Nel vapore che perde (i getti d’alito, la paura in forma di nebbia) saggia gli spigoli, accarezza capocchie di chiodo, spunzoni, sagome di oggetti che non comprende, buchi, schegge di legno, stoffe, pezze e s’incoraggia: devo trovare una luce. Mentre si sposta. Nel perimetro. Di parete in parete. Inciampa nel buio in un secchio che gli versa sulle zampe il liquido che conteneva. Così Felix scivola e cade. Sui pantaloni e la giubba si ritrova un’acqua unta, e che s’appiccica. La scopre anche sulle mani, che adesso sanno di sale. Le asciuga come può sulle cosce. Poi si rimette in piedi e ancora fruga. Questo non va bene, questo non so cosa sia, questo non accende nulla.

Frammette desideri alla perquisizione. Fuggire, respirare aria pura, finché trova un relais e si ferma, lo preme e torna la luce, fioca, e la prima cosa che vede è un bottale, e si avvicina al bottale che ha un odore aspro e gli pizzica il naso. Dev’essere formaldeide. O forse è acido tannico, mischiato a qualche solfuro alcalino. Sono sostanze che prudono, se le respiri. Galleggiano in quella vasca. Credo di sapere a che servono, ma non lo detto ora che Felix ha compiuto altri passi fino a scorgere un tavolo, anche appoggiato alla parete, sul cui ripiano traboccano lame, ombre di coltelli. La collezione di uno scannatoio. Cui ora Felix appoggia l’addome. E s’accerta di vedere lame. Affilate e di ogni forma, e per ogni uso. Cosa fa nella vita l’uomo che mi ha chiuso qui dentro?, si chiede e ha paura quando trova una roncola, due trincetti, uno scortichino, uno scarnitoio, due coltelli a serramanico e uno a scrocco, temperini, uncini, daghe, lo squartatoio, tre coltelli a lama liscia e, seppure non conosca nomi e usi di questi oggetti taglienti, si allarma.

Mentre il dettato ipotizza che siano strumenti da concia, assieme alla vasca piena d’acido che s’è odorata prima → per uccidere animali, scuoiarli, ricavarne pellame dopo averne lavato e rinverdito la cotenna, e averla messa in calce e depilata, scarnata e macerata, e poi… ← ragiona il dettato sulla possibilità che il bifolco sia uno sbudellatore, un carnivoro e mercante di pelli che qui ha il suo laboratorio, ma allora Felix non ha nulla da temere, nemmeno il bifolco oserebbe scuoiare un maiale di città ← ragiona il dettato → l’uomo l’ha chiuso dentro, però, e Felix non vede una sola finestra e si allontana dal tavolo tre passi indietro fino a urtare un secondo banco, ma questo di forma diversa, tonda e larga, alto fino al petto di Felix, collocato nel centro del ripostiglio di crimini dov’è un’orchestra di imbuti e reti di budello, mucchi di carne tritata raccolti in recipienti di vetro, rotoli di spago, sacchi di sale, vasi per la salamoia.

Natura morta di oggetti biechi sparsi nella polvere del legno corroso dai tarli, poco illuminati ma quanto basta per averne paura, forme non solo di sé ma della vita che ogni giorno li adopera. Di fronte alla carne macinata, ossidata e inerte Felix si convince che non c’è via di scampo e si lamenta: Povero me, sono prigioniero di un bruto; intanto che alza gli occhi e vede una testa incagliata nell’alto del muro. È grossa, di animale. La tiene un collo possente, come un chiodo nel muro. Come se la bestia avesse volato distrattamente e si fosse incastrata nel muro. E se ne vedono solo le fauci, le labbra tumefatte che sporgono, gli occhi spenti nella paralisi, le narici fermate, il pelo avvizzito nel corso del tempo nel muro.

Qui. Felix. Identifica. Lui si costerna e non vuole crederci. Rifiuta di obbedire a quello che vede. Ma solo per poco. Già singhiozza, perché gli sembra che il cranio impagliato dica una parentela, d’essere stato fratello, un tempo, forse selvatico, fratello selvaggio e solo ora appeso. Il grugno, le zanne, le narici. C’è somiglianza. Credo si tratti di un cinghiale, anche se da qui non vedo bene, ma lo detto, ma non posso distrarmi ← un maiale si butta per terra: sono finito nella tana di un assassino, che domani verrà a triturarmi, domani io muoio, dopodomani mi mangia. Il verso gli ribocca dalla gola ed erompe. È un contenuto, un dolore, e poi canale per lacrime, catarro, il verso come una conduttura fognaria che non marcia verso il basso ma erutta dal basso ed erutta se stesso, una sostanza di spirito, carne, tessuto, memoria, rimpianto, speranza, tempo, cicatrici, fantasmi, idee, amore, dipendenza, cartilagine, midollo, sangue, acqua, adipe e succo che si chiama Felix.

Il lamento: capita di spargerne. Gli uni crepano, gli altri si lamentano. È così che va il mondo. A chi sopravvive tocca il contrappasso di portare i defunti. Ma qui c’è uno che sta per morire sotto un cinghiale appeso. L’androgino della sofferenza è condannato, il porco di città bassa. Era alto un metro e sessanta. Le braccia grasse. Le gambe pesanti. Le zampe rosa. Gli occhi di uomo. Le frogie timide, che si trattengono. I lobi mosci del candore. Oggi è il suo ultimo giorno di vita? Il lamento: prima il suono di un corno, convinto di durare e solcare boschi e montagne, poi un pigolio che srotola il tappeto delle deplorazioni. Si volta. Apre gli occhi, asciuga le lacrime. Svuota le narici come scolando via i suoi tormenti, e respira. Inala l’ossigeno, ossia la vita. Poi di nuovo un fiotto di lacrime, una crisi. Poi di nuovo calma, anzi sfinimento. Solo sfinimento. Le forze per disperarsi sono esaurite. Al verro non resta che lo sfinimento.

Disarmato, nella schiena, nelle scapole, guarda; supino, guarda all’insù. L’officina di crudeltà propone piccoli gusci di una carne lucida e rosea, ne colano a decine, appesi a ganci, legati con lo spago, di forme diverse, lunghi o come fagotti. Gli ricordano certi sacchi di cadavere normoarto nelle cerimonie, le prede dei ragni immobili e avvolte. Penzolano stalattiti di cibo osceno. Il soffitto ne è trapuntato. Sono loro che emanano l’odore brusco, il primo odore che Felix aveva avvertito.

Questo è il capanno. Del bifolco. È un fatto del mondo. Sempre meno perspicuo. Il mondo ha la capacità di dettarsi e ← mi → dice carne, grasso, muscoli di maiale tritati e insaccati. Ma com’è possibile? I normoarto non mangiano porco. I normoarto convivono. Col porco. Il bifolco dev’essere un bruto violento, come pensa Felix, per spingersi all’esercizio della scamosceria, della maialatura e dell’insaccatura, lui sta in relazione di pasto, l’esito sono salsicce pendenti. Anche senza sapere, si può intuire. Già basta annusare gli imbudellati e, sommandoli a secchi e coltelli, e al cinghiale incagliato nel muro, allarmarsi.

Ed ecco che Felix corre. Verso la grata. Gli si scaglia contro. Percuote il legno, poi lo graffia. Chiama il bifolco, lo implora. Ma non c’è risposta e, ora che torna a correre, Felix inciampa in tutto (le vasche, le botti, i tavoli) e al suo passaggio i coltelli cadono e rimbalzano sull’assito e sferragliano gli uni sugli altri. Urta una parete e la testa del cinghiale trema e qualche salame appeso inizia a oscillare. Anche la luce danza, intermittente. La creatura che si crede in punto di morte trasmette vita a cadaveri e cose, a bestie trasformate in sacchetti, poltiglia, trofei. E tutto si muove, rinasce o nasce. La banda è agitata da Felix, dal ritmo dell’unico vivo. Voglio vivere! → e c’è una stufa di ghisa ← non partecipa al chiasso, sta ferma in uno spigolo buio. È grande. Sembra spenta, tutt’al più ospita braci nel suo ceneraio. Dalla cima parte una canna fumaria di alluminio che sale fino al soffitto e lo buca. Felix la guarda e capisce. Afferra un coltello a serramanico e se l’infila nella tasca capiente, il fustagno. Accosta alla stufa uno sgabello dal quale s’aggrappa alla canna, e sale sul colmo della stufa di ghisa.

Ha destrezza, tristezza, senza via di scampo, meno smemorato di ieri, per questo confuso, con un bernoccolo creato dalla pietra miliare, il bernoccolo irradia ricordi piccoli non sincronizzati con la coscienza, Felix con destrezza, tristezza non inciampa, non perde equilibrio, non oscilla. S’arrampica. Per salire sfrutta giunzioni (la canna è una somma di anelli) ricavando l’appiglio dai bordi, millimetrici, per le unghie. Annaspa, ma con fiducia (e tristezza, e destrezza). Si dà coraggio grugnendo, che poi è anche il verso del suo sforzarsi. Piega le gambe e le inarca per spingersi in su. Abbraccia la canna per tirarsi da sotto. L’alluminio è appiccicoso di polvere e fuliggine attecchita nel calore, e questo disarma lo scivolo e aiuta la presa.

Il percorso sono due metri. Qui (ora) già sfiora il tetto. Ma viene il difficile. Deve staccare l’ultimo anello senza cadere e facendo in modo che l’intera tubatura non sfarini al suolo. Cava il coltello dalla tasca, lo apre, comincia a incidere tagli nell’imbocco del soffitto, lungo l’orma circolare dell’incastro. La segatura gli piove negli occhi. La canna scricchiola e si muove, non più fissata dentro al cerchio del fumaiolo. Zampillano schegge di stucco. Felix, preso alla canna, prosegue nel taglio. Poi, quando ritiene d’essere pronto, chiude il coltello, lo rimette in tasca e inizia a scuotere l’ultimo cinto, e quello cede e si stacca e cade giù con rumore, e a Felix appare attraverso il foro uno spicchio di cielo stellato.

Si aggrappa subito al lato esterno del tetto, così da non cadere con la canna fumaria ormai sganciata dalle commessure. Ora è lui che tiene dritto il tubo col bacino e le gambe, mentre mani e braccia fanno presa su quel che resta dell’apertura che riempiva il comignolo. Saluta il capanno, l’esercito sadico, gli avanzi di vittime, il cibo bestiale, si issa su per il foro, prende slancio col mulinello delle zampe che s’agitano nel vuoto mentre la canna già s’affloscia contro la parete, e Felix sale per il comignolo. Il varco non lo ostacola, è abbastanza largo perché il suo corpo ci passi. Il fumaiolo invece è di latta e stagno e viene via facilmente, basta tirare; e Felix tira, smuove e smonta, e poi lascia che il pezzo rotoli sotto nell’erba senza fare rumore.

Adesso è sul tetto, un meticcio orizzontale di legno e lamiera. Camminarci sopra non è difficile, e ci cammina. L’unico pensiero è non fare chiasso. Nella casa del bifolco è ancora accesa la luce, quindi bisogna che Felix si sbrighi se non vuole che quello s’accorga che fugge. Pattina verso la fine del tetto, dov’è il riparo fornito da un albero di balsa. Afferra il ramo più vicino e si cala, posando i talloni sul ramo di sotto. Poi si piega, china e ottiene che il ramo sul quale poggiava diventi quello al quale adesso s’aggrappa. E procede così anche col tralcio inferiore, come se scendesse le scale e tocca terra ed è tutto vero e riesce a fuggire e galoppa e le gambe vanno veloci e lo convincono che è tutto vero, ma è verso il buio che scappa (ed è nel buio che fila).

Cerca scampo in una foresta. Forse si muove da un’imboscata all’altra, dal pericolo vecchio al nuovo come le palline di ferro tra due calamite. Non vede il terreno sul quale si scaglia. Lo sente nelle pigne di mugo che gli feriscono i piedi. Si fionda nell’invisibile dei biancospini. La natura non è più ben disposta. Non si fa guardare, ma lo guarda e lo nomina: il fuggitivo. Le felci gli fanno sgambetti. Felix prova a calpestare la ramaglia il meno possibile, così scivola verso le radici di un cembro. Affonda il grugno nel muschio, si sporca di terra, avverte che una creatura, forse un aspide, gli striscia accanto ed eccolo di nuovo in piedi, maiale da corsa, gli cola sangue dal naso, ha le gambe escoriate, rotola nella foresta ruderale e la famiglia degli olmi e poi quella degli aceri non gli fanno spazio se non per il solito sentiero di trappole, si precipita in quello che non vede, l’abetaia, la fustaia, il percorso che sale, la curva, la discesa repentina, nell’arborescenza s’arrampicano bradipi, su di lui e attorno a lui: anche nottole, allocchi, barbastelli, ogni forma di vita un verso, un rumore, un movimento e Felix si scapicolla per prati, al fianco di ruscelli, si pensa, si scuote, ruzzola, capitombola, trasforma linee rette in capriole, non sa dove stia andando, s’è davvero allontanato dal capanno?, evita cose larghe e animate, scansa ombre, fugge dal nero nel nero, la piccola giungla è una sola macchia, una ferita, una violenza inferta al maiale che ci corre dentro come se fosse sua madre, il labirinto che lo mette al mondo, lo accoglie, non lo lascia andare via, radure, rocce, sassi, ghiaia, terriccio, fango, schegge, rami secchi, foglie secche, bacche divampate e in cancrena, petali, polvere, ortiche, il moto di Felix, Felix che si sente spiato, Felix che si sente inseguito, pietre, fossili, cardi, chiocciole, tane, grotte, tronchi crollati e cavi, pozze, pini severi.

Felix è sopra lo sterco degli esseri che abitano il bosco e nel suo odore, carogne, polline, frustrazione, trepidazione, non solo corsa ma balzi, guizzi, sussulti tra bronchi e grovigli di Felix che nonostante gli sforzi s’incunea, non si libera, entra più a fondo nella giungla che gli dà il benvenuto, ma lui fa cenno di no, ma non fugge via affatto ma circola, ruota attorno all’asse della propria illusione di fuga, si strema, la foresta ha ragione, cascano foglie dall’alto, liquami del bosco e poi ancora, dal basso, vengono spine, terra secca, ancora schegge, erba decomposta, erba resistente, cortecce, il marcio dei carrubi, salive, borre di allocco; gli insetti esplodono sotto le sue zampe nude, creature che non vede e maciulla ed è vero, la foresta ha ragione: non ce la fa più, ansima, rallenta, arriva in una chiarita, scorge un cespuglio, lo raggiunge, ci si nasconde, si ferma, si piega sulle ginocchia e crolla. Esausto. Al riparo di un albero sghembo.

[…]

È un sonno d’inerzia. Non ha colori. Ha coscienza del corpo, della terra, della foresta. Ma residua in paralisi. La paralisi ← elegge. Si trasforma in un mare dove affiorano sugheri, chele di granchio; e verso il ceruleo dell’alba (quando il cielo si specchia in un fiume, e ne è rispecchiato), la luce distoglie il maiale dal sonno e alcuni grugniti lo svegliano. Versi distanti, gutturali, aggressivi. Il maiale di città sa borbottare così, ma con maggiore ironia, con malizia. Felix ancora una volta apre gli occhi e si alza. Non vede il capanno né la fattoria del bifolco. Vede un prato tenue, il cespuglio che l’ha protetto, il grande albero sghembo. Non distante scorre il ruscello di… ← dove si trova?, chiedo prima di dettare, e poi mi convinco che potrebbe essere  → …un bosco ripariale lungo l’ansa di un fiume. Sabbia, ghiaia e depositi di argilla denunciano una valle fluviale.

Attirato dai grugniti, lascia il cespuglio. Percorre un sentiero contornato da pioppi bianchi, cerri, salici, roverelle, qualche albero di Giuda dalle fioriture violacee. Arriva a un corso d’acqua pigro ma rumoroso per via di salti e cascate. S’inoltra in un canneto mentre intorno sguazzano morette, alzani, fischioni. Quando esce dalle canne, e una garzetta lo sfiora, vede uno stabbio a cielo aperto nel recinto degli alberi, dove i maiali pascolano. Sono maiali-maiali. Vanno a quattro zampe. Litigano. S’ammucchiano sul trogolo, divorano ghiande e mangime, si azzuffano e strusciano i corpi, ergono i musi per respirare, poi li rituffano nella melma doppia di corpi e ancora di melma. Non hanno spazio, libertà, pulizia. Sono proprio maiali. Felix li vede immersi nel brago. Prigionieri. Intuisce qualcosa di sé nelle bestie. S’avvicina strisciando sull’erba. Non possono essere, maiali, io sono un maiale, loro non esistono più, pensa, ma accostandosi sono troppe le somiglianze che trova → le zampe, il verso, il grifo, le zanne, il carattere, l’aggressività, la cattività, l’ingordigia, la sporcizia, la calca, l’ostinazione, la remissività ← sembrano ritratti viventi degli antenati, altro che estinti: sono il presente. Sono vivaci nell’energia, nella foia, nel disgusto e nella schiavitù. Sono porci.

Forse si è perso in un’altra epoca. Forse questa foresta è un evo che non gli appartiene. Forse campagna e città non sono luoghi distanti, o almeno non solo quello, ma epoche diverse, il prima e il dopo separati da una strada dove non conviene perdersi. Mentre trova un mazzo di annurche sparpagliate al suo fianco e ricorda che non mangia da un giorno e addenta una mela e ne succhia la polpa acida e bianca, quelli si sono accorti di lui e s’agitano, scalpitano, rugliano. Quattro, dieci, venti: vengono tutti nella sua direzione e lo sfidano. Premono sul recinto coi musi e, adesso che li vede bene, Felix ricorda la notte appena trascorsa, il cinghiale sul muro, i coltelli, la carne, la fuga e capisce che questi sono gli animali che il bifolco uccide e macella e Il vostro padrone è un assassino – dice –, credo di averlo incontrato, se è lo stesso dal quale, questa notte, da un capanno pieno di morte, sono scappato, se era il suo, ma è sicuro che era il suo, e che voi gli appartenete, questa natura è un deserto, ho incontrato solo quell’uomo e voi, e adesso riprendo a scappare, ma non sapevo che voi esistevate ancora, dopo il Grande Salto Biologico, quando la mia specie si è evoluta da voi, e per questo cammina, parla meglio e lavora, o almeno credo che sia andata così, non ne so molto, fino a ieri non avevo ricordi neppure, vivevo i miei compiti nella città, senza riflettere, senza parlare dei compiti, della città, del lavoro, con nessuno, voi mi assomigliate, siete più grassi e camminate a quattro zampe, e il vostro muso è meno delicato e le setole e le unghie sono più spesse e affilate, ma siete, lo ammetto, e cosa significa?, di famiglia, e adesso ho paura; → che torni il bifolco e Felix corre via dai maiali-maiali, precipita tra tifa e cannuccia quando il sole fatica ad apparire in mezzo ai rami dei salici e fra le chiome della lenticchia d’acqua, un airone s’alza per il volo, un biacco striscia verso la siepe e Felix fuggendo si cala in un fosso lungo la sponda del fiume dove l’acqua è viva, agitata da creature alliscia i tronchi e le pietre, offre pesce e frescura alle anatre, sulla sua pellicola navigano vermi, tartarughe e rane, sull’ansa opposta c’è un bosco di noci e castagni e Felix ancora corre al fianco dell’acqua ed entra in un laureto, e poi nell’ombra di sofore, e su un letto di bacche perdute dalle carambole e correndo singhiozza.

(A dire questo sono io sono buoni tutti, ma spiegare perché io sono quello che sono è più complicato. La storia non è più la storia ma una sua versione, una storia che qualcuno racconta. Dov’è finita la storia vera, quella che accade, si testimonia e tramanda? Qual è la storia?) e affiora la polpa, sporgono le ossa, la consistenza dell’essere come fil di ferro; una stampella rimediata in tintoria. Moneta svalutata. Il nero delle carote marce. Il carbone delle banane putride. La crosta castagno del sangue avariato. Il livido che non passa, nero. L’unghia che cresce incarnita. L’insetto decomposto. Il guscio vuoto, poco più di una buccia. Frantumarsi in cocce. Chiedersi perché e vorrei solo tornare, non so dove, se al viaggio o alla città, perché non ho più risposte e sono stanco, e io cosa sono?

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 3: Il supermercato

(Foto di copertina: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)

“Do I really want to set this in Denmark?”

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Sul discorso di accettazione del Nobel da parte di Bob Dylan

di Alberto Brodesco

DYLAN-GIOVANECome spesso accade nei discorsi pubblici di Bob Dylan, anche il suo “Banquet Speech, la nota di accettazione del premio Nobel letta, in sua assenza, dall’ambasciatrice USA in Svezia, fa cozzare superbia e modestia, auto-consapevolezza e auto-ironia. In un passaggio del discorso, Dylan si avventura persino in un “But, like Shakespeare, I too…”.

Like Shakespeare, I too”?!?

Se proseguiamo nell’ascolto capiamo però che Dylan usa questo paragone per dire una cosa umile: ovvero che entrambi, lui e Shakespeare, si sono interessati, più che a produrre arte o letteratura (o a pensare se stavano producendo arte o letteratura), a esprimersi al meglio delle loro possibilità tecniche, spesso confrontandosi con problemi materiali, mondani. Shakespeare si sarà trovato a preoccuparsi di riservare i posti migliori del teatro ai mecenati, di andare in cerca di un teschio umano; o si sarà chiesto se la Danimarca era l’ambientazione giusta per un certo dramma. Allo stesso modo, dal verso suo, Dylan afferma di non aver mai ragionato sul valore letterario delle sue canzoni, ma sulla chiave in cui inciderle, sui migliori musicisti per interpretarle, sullo studio più adatto a registrarle – questioni pratiche, che disdegnano ogni approccio critico-esegetico per porre l’accento sull’artigianalità dell’atto creativo. Dylan ribadisce dunque qui che la pulsione artistica, nella sua essenza, va legata alla ricerca della giusta forma espressiva. Il piano dell’espressione pare entrare in contrasto, o almeno in doverosa, fruttuosa frizione, con ciò che l’ha generato, ovvero con il pensiero.

L’anti-intellettualismo di Bob Dylan è cosa nota, ed esiste (almeno) dal 1965 – basta leggere una citazione dalle note di copertina dell’album Bringing It All Back Home: “i would rather model harmonica holders than discuss aztec anthropology / english literature. or history of the united nations”. Non si tratta qui evidentemente di descrivere un anti-intellettualismo alla Trump, ma di qualcosa di sottile, di cui si ritrova un segno memorabile nell’ultima strofa di Tombstone Blues: “Now, I wish I could write you a melody so plain / That could hold you, dear lady, from going insane / That could ease you and cool you and cease the pain / Of your useless and pointless knowledge”. Useless and pointless knowledge. Ciò che davvero importa è mettere fine al dolore prodotto dal vostro sapere inutile e senza scopo. “Ease you and cool you” è ciò che, come una droga, può fare la musica, “a melody so plain”, non delle liriche da leggere. Se Bruce Springseen ha affermato “Elvis ci ha liberato il corpo, Bob Dylan ci ha liberato la mente”, di certo Dylan farebbe volentieri a cambio.

Tutto il percorso artistico di Bob Dylan è caratterizzato dalla tensione tra superbia-sfrontatezza e umiltà-timidezza. Dylan è nato come cantante un po’ ladro capace di imporsi su tutti gli altri folk singers del Village anche in virtù della sua spregiudicatezza, furbizia e immodestia. Allo stesso tempo, ha sempre indicato altri come i veri grandi, sin dai titoli delle sue canzoni, che omaggiano – dal primo album, Bob Dylan (1962) a “Love & Theft” (2001) – Woody Guthrie, Blind Willie McTell o Charley Patton, nel tentativo a tratti disperato di spostare l’attenzione da sé. In un suo messaggio del 2011 “To my fans and followers Dylan scrive: “there’s a gazillion books on me either out or coming out in the near future. So I’m encouraging anybody who’s ever met me, heard me or even seen me, to get in on the action and scribble their own book. You never know, somebody might have a great book in them”. Questo invito/trappola manifesta il disprezzo di Dylan verso i writers and critics (quorum ego) già indicati a dito in The Times Are a-Changin’ e Ballad of a Thin Man. Quel “get in on the action” è ovviamente sarcastico, perché per Dylan non vi è niente di più lontano dall’azione che cercare significati nelle sue canzoni. Il tira-e-molla con il comitato del Nobel è certo motivato dalla passione per il puro gesto performativo, da un’auto-percezione inquieta, ma anche dal rifiuto anti-accademico per tutto il pensiero che non parte da un dato di esperienza capace di legittimarne l’espressione, in linea con la cultura blues di cui Dylan è di fatto un esponente.

La necessità di incollare piano del pensiero e piano dell’espressione in cerca di una sorta di simultaneità può anche andare a detrimento della purezza del primo, qualora si tratti di dare forza al secondo. Le incisioni di Dylan spesso dimostrano che cogliere il momento è più importante della precisione o dello studio, inteso sia come attenzione per l’equilibrio compositivo nella fase dell’arrangiamento e della produzione, sia, letteralmente, come approfondimento intellettuale.

Nell’album Highway 61 Revisited, uno dei capolavori, si sente un evidente errore nel fraseggio di chitarra acustica che apre Desolation Row. La band va a tratti fuori tempo, spiazzata dalla progressione di Like a Rolling Stone. In questo pezzo epocale suona un organista (Al Kooper) improvvisato lì per lì, che arriva sempre in leggero ma vistoso ritardo ai cambi di accordo. Anche il bassista di Tombstone Blues ogni tanto perde per strada il riff. Anni dopo commenterà: “There were mistakes but they didn’t matter to Dylan”. Arte della sprezzatura, coltivata con accanimento.

L’urgenza di trovare forma espressiva al pensiero costringe insomma a dare delle risposte apparentemente sbagliate ai “problemi mondani” che, nel discorso di Stoccolma, Dylan reputa più fondamentali di quelli teorici. Alla cura per le componenti pratiche dell’esperienza creativa va dunque sovrapposta l’affettazione con cui Bob Dylan supera quelle stesse questioni. Siamo di nuovo sul crinale tra l’estrema arroganza del controllo assoluto e la resa alla sostanziale bellezza dell’imperfezione artistica.

Danzeranno gli insetti

4

di Sonia Lambertini*

Nel giorno del mio giudizio
quando il corpo sarà in scadenza
la bocca sarà colma di terra
danzeranno gli insetti
il ritmo assordante non mi farà dormire
e come nei banchetti degni di rispetto
trionferanno gli avanzi
le formiche ne faranno scorta
sottomano la mappa
cenni di anatomia
viaggio di sola andata.

* * *

Il cucù sopra la testa canta bastardo
con quel verso che dio mio
fatelo tacere. La sua tana
è accanto alla mia,
si guarda alle spalle
sorveglia
l’andirivieni degli sfollati.

* * *

Vorrei dire
a tutti gli umani
con l’aria importante,
il luccichio nell’occhio
e nei denti in fila, bianchissimi,
con la 24 ore full optional
compreso il pulsante per l’autodistruzione
in caso di occhiata prolungata

che

l’aria sotto terra non c’è
tantomeno gli aggettivi
i denti si sa, si perdono
e mal che vada la protesi
viene smarrita dalle pompe funebri
e per quel che riguarda l’autodistruzione
è già cominciata e dura in eterno,
bussa silenziosa a tutte le porte.

* * *
Frammenti per Strauch

1
Respingimento della natura
dice Strauch, anche il canto
del pettirosso fuori stagione
diventa solitudine.

2
La solitudine
è crudele,
ogni luogo è straniero
come il cerchio
delle braccia del padre.

3
L’intreccio del padre
e della madre,
quello che chiami
amore, per Strauch
è atto criminale.

4
Allo Steinhof
curano la fantasia,
il disordine che vive
al di là del corpo;
forse la cura
è nascosta nel bosco.

5
Spero nella pioggia
nel senso geometrico
che porta in grembo
nel suo cadere senza paura
e sparire, nessuna traccia.

6
La geometria dei corpi solidi
mi spieghi il peso del cuore vuoto
la misura della mancanza
l’invisibile che opprime.

7
L’ombra dell’inverno
e il nero delle tue finestre.
Troppo veloce il buio,
una corsa da fermi.
Il gelo non è per tutti.
Mi hai detto – Se lo vedi, lo capisci.

* * *

Quando nulla ti è dovuto e non sai come
conosci il cerchio nero che ti assedia chiedi
quale strano progetto ha preso i tuoi occhi
per riempirli di colore giallo ocra e rosso

senti il passo della libella lo sfregare delle antenne
la resa in volo desiderio del maschio sul filo d’erba
e l’aria che sposta la curva il segmento che unisce
trovarsi dal nulla negli occhi del nostro calvo inverno.

* * *

Ascolta padre gli occhi negli occhi del padre
non puoi sbagliare le parole verranno semplici
i piedi bianchi e nudi leggeri alla tua bocca
con petali parola bianchi che usciranno
dalla tua bocca padre, si poseranno sui miei occhi
rosso stanco, sporcali di giallo ocra e il verde
della libella sul filo d’erba si guarda nell’acqua
gioca nei cerchi scolorano i tuoi occhi.

_________________

*Da Danzeranno gli insetti, Marco Saya Editore. Milano, 2016

Il Ban di Trump e la Guerra Santa del nerd canadese

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. L’ordine mondiale è scosso dal Ban di Trump, che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti a i cittadini di Iran, Iraq, Libya, Somalia, Sudan, Syria and Yemen. Sulla prima pagina del New York Times tiene banco il conflitto istituzionale circa la nomina del nuovo Attorney General, in relazione alla legalità del Ban e dell’opportunità che i legali del Dipartimento della Giustizia lo dichiarino ammissibile. La nostra agenda ci porta, però, in Canada, a Quebec City, appresso ad una notizia che sta riscuotendo attenzione molto inferiore alla portata del fatto, di gravità pari, se non superiore a vari altri che abbiamo seguito e discusso. Si tratta dell’attentato alla moschea locale, nel corso del quale sono morte sparate sei persone e otto altre sono rimaste ferite. Il fatto, del quale si trova traccia soltanto nei tagli bassi delle testate di tutto il mondo, avrebbe di certo suscitato una diversa attenzione, qualora l’obiettivo fosse stato altro, cioè uno dei riferimenti dell’occidente libero e democratico e l’attentatore fosse stato un musulmano qualunque, uno di quelli che urlano “Allah Akbar”, per capirci, che poi hanno spesso e volentieri urlato altro, come s’è detto e ridetto. Gli elementi di interesse, almeno per noi, sono moltissimi. Prima di tutto il profilo di questo Alexandre Bissonnette, un vero freak da tutti i punti di vista, poi il fatto che questo episodio abbia luogo in Canada all’inizio dell’era Trump, in relazione alla posizione liberal che Trudeau ha assunto sulla questione dell’immigrazione, quindi, forse soprattutto, il tema della “Guerra Santa”, che, misteriosamente, non affiora a titoloni cubitali sulle prime pagine dei giornali. Anche limitandoci allo squallido teatrino di casa nostra viene soprattutto da domandarsi dove sia l’editoriale di Panebianco, dove siano i memi di Oriana che aveva previsto tutto e perché oggi la guerra santa non “la fa l’ACI” (lo so, ce lo devo mettere ogni volta, è un po’ un tormentone, ma fa troppo ride’). Inoltre, e questo è l’aspetto che ci ricollega a tutta la questione delle fake news, nelle prime ore seguenti l’attentato circolava nei mezzi d’informazione la notizia che l’autore dell’attentato fosse un marocchino non meglio identificato, di quelli che appunto urlano “Allah Akbar” prima di ammazzare la gente.

Lorenzo. Mettiamo due cose una dietro l’altra, concedendoci il tempo di fare quello che abbiamo fatto con Masharipov, Amri e tutta la compagnia. E ripetendo il mantra delle 36 ore, prima delle quali dire qualcosa di sensato è sostanzialmente inutile e dopo le quali è quasi del tutto inutile dire qualcosa, perché le idee e le emozioni sul fatto si sono già ampiamente formate. Primo: appiccico un po’ di cose su questo “allah akbar”, riguardo al cui uso e alla cui diffusione in quanto meme – lo ricordo anche qui – ho già abbondantemente dato (e quindi un knowledge base purchessia ce l’ho). Al centro commerciale di Monaco il 18enne tedesco-iraniano aveva urlato “sono tedesco, turchi di merda” ma un testimone giurava di averlo sentito urlare “allah akbar”. Chi sa il tedesco afferma che l’assassino avesse anche un certo accento del sud. Nell’agguato nella metropolitana, sempre a Monaco, uno squilibrato aveva urlato davvero “Allah Akbar” ma non era neanche lontanamente mai stato musulmano, né aveva mai avuto un legame famigliare con quel mondo. Non sappiamo se dimostrasse di avere un qualche accento particolare. Di Amri, l’assassino di Berlino abbattuto a Sesto S. Giovanni, si era detto che avesse urlato “allah akbar” ma invece poi fu confermato che aveva detto “poliziotti bastardi”. Questa volta un testimone afferma che l’attentatore aveva un forte accento del Quebec e urlava “allah akbar”. La nota sull’accento rende il testimone credibile. In più la cosa avviene in una moschea, un luogo dove è abbastanza facile che ci siano persone che “Allah Akbar” lo dicono un bel po’ di volte al giorno, poiché pregano. Ricordando poi un numero elevato di casi in cui l’espressione è stata usata per scopi che vanno dallo scherzo stupido al sarcasmo pesante, giungo a pensare che il Gemello abbia davvero urlato “Allah akbar”, per un suo qualche oscuro motivo. Ciò certifica definitivamente, se ce ne fosse bisogno, che il lanciare l’urlo “Allah Akbar” prima di un fatto violento non segnala assolutamente niente di rilevante al fine di stabilire le responsabilità ultime dell’atto, almeno dal punto di vista delle affiliazioni ideologiche, cosa che va tanto per la maggiore quando bisogna dire che siamo soldati crociati ecc. in stile Panebianco. Resta da capire, se l’ha fatto, perché Alexandre Bissonnette l’ha fatto. Ma diciamo che a questo punto ci può interessare il giusto, cioè niente. Però è da segnalare che a un certo punto ieri si è capito che questo killer con l’ISIS non c’entrava davvero una mazza e dunque i giornali online hanno iniziato a togliere dai titoli quell’”allah akbar” (sbagliando, secondo me, ma va bene). A quel punto c’è stato, come il commentatore di un pezzo di Repubblica, chi ha sollevato dubbi e paventato gombloddi. Arrivando tardi alla lettura del pezzo “Sikomoro” scrive: “Perchè non è stato scritto, come su tutti gli altri giornali, che gli attentatori gridavano Allah Akbar? Si vuole per caso nascondere qualcosa? Si vuole per caso influenzare l’opinione?”. La parola che trovo – ricordo che la usava Jaime intorno al 1988 – per definire tutto questo è “inquietante”.

Anatole. Tragicamente inquietante, ma la cosa che, per usare un’altra espressione del tempo, è ancora più flesciante è il rilievo che la notizia assume nell’opinione pubblica. Cioè, detto senza mezzi termini, appare confermato che se spari dentro una moschea e ammazzi sei persone non gliene frega letteralmente un cazzo a nessuno! E questo fatto sembrerebbe contraddire anche le tradizionali leggi del giornalismo, secondo le quali “cane morde uomo” dovrebbe interessare meno di “uomo morde cane”. Ora, volendo anche applicare questo criterio utterly incorrect alla situazione attuale, ma con trump al potere e i nazi alla casa bianca va di moda, senza meno un canadese bianco, pallidissimo anzi, con nome e cognome da film dei Cohen, per dire, che spara in una moschea dovrebbe essere “uomo morde cane”, stante l’agenda corrente, no? Eppure niente, non fa notizia. Il che dimostra che la forte polarizzazione ideologica ha smantellato le regole basilari dell’attenzione, la legge di mercato della comunicazione, a vantaggio di un meccanismo di allarme orientatissimo, e lo dico anche in senso proprio etimologico (occidentatissimo sarebbe il contrario, diciamo). Come dice Alessandro Lanni qua:

Una ventina d’anni fa, il giurista Cass Sunstein poneva la questione in questi termini: il web prima e i social network poi stanno peggiorando la qualità della democrazia perché ci fanno vivere dentro bolle ermetiche che escludono voci diverse da quelle che condividiamo. Se il filtro siamo noi, se siamo noi a scegliere la nostra dieta informativa tendenzialmente lasciamo fuori ciò che mette in crisi le nostre opinioni che diverranno man mano sempre più cristallizzate e granitiche. Il risultato è la polarizzazione e la radicalizzazione delle opinioni politiche, scrive Sunstein nel suo libro ormai classico Republic.com.

Il filtro informativo individuale opera in una direzione secondo la quale le notizie vere, quelle “uomo morde cane”, non fregano a nessuno, poiché obbligano a fare un ragionamento del tipo di quello che stiamo facendo noi da un anno, dunque a preoccuparsi di una situazione che stiamo contrastando con strumenti inadatti, con guerre sbagliate, eleggendo figure pericolosissime, in ragione dell’incapacità di identificare i problemi in ordine ai quali la situazione corrente si viene a determinare, tanto sul piano economico che su quello sociale, che ancora su quello culturale.

Lorenzo. Passo alla seconda che consiste nel ricordare che c’è un assassino solitario di massa occidentale dal profilo molto simile: Anders Behring Breivik. Ho letto un bel po’, ieri, su Bissonnette e noto, con crescente senso di inquietudine, che i tratti in comune sono fin troppi. Entrambi hanno un curriculum di destra molto “classico”, una destra stile Trump se si guarda agli Stati Uniti, e una destra nazionalista se l’attenzione cade sull’Europa, oggi soprattutto in Francia. Una destra che però guarda a Israele con una certa ammirazione: entrambi i profili ci raccontano questo (qui Bissonnette, qui Breivik). Anche nel caso di Bissonnette dire “nazista” o “neonazista” è un po’ riduttivo, non è proprio esattissimo. C’è quel quid di islamofobo e ultraliberistissimo che ci riconduce agli stereotipi di – chessà – un Salvini e di un Borghezio e financo di un Beppegrilllo. Insomma non un antisemita dichiarato, lo definirei un criptoantisemita in un certo senso. Uno che sul modello antisemita fonda un suo nazismo ufficialmente non-antisemita, stavolta islamofobo. Certamente c’è un aggiornamento del profilo, data l’età. Bessonnette, ad esempio, è il classico troll del cazzo che ti entra nella tua pagina normale, in cui dici cose belle, per disturbare e far perdere tempo alle persone brave.

Anatole. Da quello che si capisce si tratta comunque di uno di quei coglioni che ci vanno sotto alla propaganda di destra (estrema o no, è tutta uguale) sugli immigrati. Molto attivo sui siti xenofobi, grande fan della Le Pen, era stato anche a sentirla durante la sua visita in Quebec. È anche preparato quanto basta da sostenere gli argomenti classici della destra che ci circonda, grazie ad un curriculum di studi a cavallo tra Scienze Politiche e Antropologia, un tempo bastione dell’ultrasinistra, ma oggi, per ragioni che abbiamo più volte sottolineato (ad esempio qua), praticatissimo anche da quella destra che ha fatto benchmark sull’ultrasinistra (tipo Spencer, per capirci). Cioè, un matto sicuro, non meno lupo solitario degli altri, magari integrato in un sistema di relazioni labili e liquide, come avrebbe detto Bauman, attorno alle quali un’identità te la crei, certo, ma sempre molto da solo, in quella solitudine che, come abbiamo detto in tutte le salse, si consuma nella rete telematica, offrendo un’ombra di appartenenza a persone bisognose di attenzione. Di sicuro: «He was not a leader and was not affiliated with the groups we know», come ha spiegato François Deschamps, il job counselor di Carrefour Jeunesse, un’organizzazione che aiuta a trovare lavoro, ma anche attivista di Bienvenue aux Réfugiés, che ha avuto modo di tracciare l’attività di pubblicista anti-immigrazione dell’attentatore.

Lorenzo.  Sulla questione dell’estremismo di destra in Canada è uscito un bell’articolo, molto documentato sul Montreal Gazzette: “L’effetto Trump e la normalizzazione dell’odio in Quebec”. Vale la pena dargli una letta e visionare la tabella, molto esplicativa:


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Certo oggi i destrorsi operano in un contesto “garantito” a tutti gli effetti dalla presidenza americana. Cioè, c’è Steve Bannon nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti d’America, per dire. Non a caso Richard Spencer non ha perso l’occasione di trollare Trudeau a proposito del suo discorso ispirato a seguito della sparatoria alla moschea di Quebec City, rilanciando l’analogia con la Francia, anche in cerca di simpatie transoceaniche:

 

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Anatole. Il quadro in cui questi figuri operano oggi è molto diverso, ma non dissimile da quello che si ricostruisce attorno al classico attentatore islamico. Voglio dire che c’è un quadro di riferimento istituzionale rispetto al quale questi personaggi si sforzano di apparire conformi, l’ISIS per gli uni, gli USA di Trump, Bannon e Spencer per gli altri. Lo si poteva già vedere nel corso della campagna elettorale americana con i bersagli accesi dalla propaganda antiliberal, soprattutto nel formato del Pizzagate, di cui abbiamo già parlato qua. Il qualcunismo omicida non è più una semplice forma di appartenenza contro i valori liberal che stanno abbattendo le frontiere tra ciò che “la tradizione” (un costrutto ideologico folle, come sappiamo, una cosa mai esistita) ci ha consegnato come una cosa che ci appartiene e tutto quello che invece no e quindi deve restarsene fuori dal posto che identifichiamo come ”casa nostra”, anche se poi a casa nostra i siriani non ci vengono e non ne abbiamo mai visto uno manco per sbaglio. È quello che capita quando la destra nazi prende il potere, che i mezzi matti si sentono appartenenti ad una milizia che opera in un quadro di ”legalità”. lo si vedeva già all’indomani dell’elezione di Trump, con le migliaia di piccoli atti di bullismo rivoltante ai danni di ebrei, musulmani, neri, omosessuali, donne di ogni razza e ceto sociale, perpetrati da maschi bianchi, ritornati in pieno controllo di una prospettiva identitaria ”forte”. In sostanza, una cosa molto simile al fascismo.

Lorenzo. Esatto. Il modulo è quello del lupo solitario, forse ancor più di prima, perché oggi anche lo xenofobo fascista ha il suo quadro di riferimento ideale proiettato in uno scenario istituzionale.

Anatole. Penso che alla fine quello che abbiamo detto e ridetto, che cioè questa guerra santa la stanno combattendo un pugno di mezzi matti sobillati da altri mezzi matti (i Panebianco di tutto il mondo, per capirci) è una cosa vera. Quello che oggi è cambiato è che, come dici tu, alcuni di questi mezzi matti, della prima e della seconda categoria, sono oggi al potere in tutto il mondo. Ma non mi sembra un messaggio rassicurante sul quale concludere.

Lorenzo. Possiamo peggiorare la visione, rendendola ancora più fosca.

Anatole. Facciamolo.

Lorenzo. Ragioniamo anche un po’ sulla ricezione del fatto, voglio dire. L’altra volta dicevo delle vittime del Reina, che erano più o meno tutte di origine musulmana, tranne mi sembra due canadesi (dei quali non conosciamo l’appartenenza religiosa). Dicevo che c’è stato questo intitolarsi le vittime, questo parlare di crociate mentre, come dicevi all’inizio, oggi non vedo quest’ansia di intitolatura, anzi. Quindi, giusto per mettere un po’ le cose in chiaro, completerei – dopo aver citato l’articolo sul Canada – il ragionamento con questo progetto sulla mappatura dell’islamofobia negli Stati Uniti e quest’altro sull’islamofobia in Europa. Cioè, detta fuori dai denti: i nostri simpatici amici teorici del conflitto di civiltà, i crociati da poltrona in pantofole, hanno effettivamente contribuito ad elaborare un paradigma di crociato che trova riscontro nella società. Ma ciò facendo non hanno descritto una cosa che esiste come tale di per sé. Cioè, nessuno dei potenziali crociati è di per sé un crociato, così come nessuno dei potenziali estremisti del cosiddetto jihad islamico lo è in quanto è nato così o perché le sue condizioni di esistenza lo portano naturalmente a diventarlo. È il quadro ideologico di riferimento, elaborato dai nostri amici del conflitto di civiltà, quelli che la Guerra Santa “la fa l’ACI”, che offre un contesto all’interno del quale situare azioni come quelle sulle quali ragioniamo da più di un anno. Quindi, perlomeno, la prossima volta, evitino di parlare di timidezze e buonismi, di occidenti pavidi e altre idiozie, ché manca poco all’aperto incitamento all’odio razziale. E, quasi quasi, sembrano aver letto i manuali di Abu Mus’ab al-Suri (sistema vs organizzazione, del quale dicevamo l’altra volta). Qui, come abbiamo detto ormai fino alla noia, il tema sarebbe un altro, collegato, come abbiamo ripetuto alla nausea, al dramma identitario in cui sprofonda la piccolissima borghesia promossa dal debito e messa in ginocchio dalla crisi.

Anatole. A questo proposito abbiamo prodotto un congruo pregresso

Lorenzo. Talmente congruo che, come alcuni nostri detrattori auspicano, ce la potremmo anche far finita.

Anatole. Sarei d’accordo con loro, se solo si alzasse ogni tanto mezza voce da qualche parte a far notare le cose che stiamo ripetendo. Personalmente avrei anche da fare, diciamo. Mi blinderei volentieri nel XII secolo, per dire.

Lorenzo. Eh, infatti, a chi lo dici. E vi sono segnali che dimostrano quanto ripetitivi stiamo diventando.

Anatole. Forse perché diciamo una cosa vera? Potrebbe anche darsi.

Lorenzo. La verità è ripetitiva, questo di sicuro. E noiosa.

Anatole. Infatti abbiamo chiuso questo pezzo in un’ora. Per noia.

Lorenzo. Speriamo che si sia capito il concetto.

Anatole. Io penso di sì. E sinceramente me la farei finita volentieri, se non temessi che  l’episodio di oggi potrebbe essere solo uno dei primi accenni di una cosa sinistra che sta per accadere. Non l’ho mai pensato fino ad ora, ma la strizza a questo punto sale per davvero. Non già la paura di una Guerra Santa, quanto piuttosto il terrore che questi qualcunisti, quelli di casa nostra soprattutto, abbiano trovato un’identità forte dietro la quale nascondere il loro microscopico cazzetto, ecco. Perché a questa cosa dell’allarme democratico non ci avevamo alla fine mai creduto davvero, diciamolo. Oggi forse un po’ di più ci crediamo, sinceramente. Leggendo questo, ad esempio, non mi viene da ridere. Ne mi tranquillizza questo, pur straordinario, capolavoro artistico:

 

capitan america

 

Lorenzo. No, neanche a me. Sì, c’è una certa strizza e anche una certa rabbia per come le cose sono state fatte deteriorare. Forse dobbiamo capire, nei prossimi tempi, se proprio siamo circondati, se le cose sono già andate avanti troppo, se c’è un rimedio.

Anatole. La Women’s March è il rimedio. L’unico vero. Forse. Speriamo. Perché il movimento femminista è l’unica forza capace di metterti in discussione per quello che sei, per come vivi davvero, invece che per quanto figo ti senti su un social network o dove che sia. In quest’epoca qualcunista è davvero un ancoraggio straordinario ad un piano di verità basata su scelte di vita, sincerità di quello che provi, coraggio di affrontare gli aspetti meno evidenti e più scomodi della realtà che ti disegni attorno. Per questa ragione è probabile che sia l’unica forza propulsiva di un rinnovamento democratico progressista, capace di demistificare i meccanismi di idealizzazione del quotidiano grazie ai quali la demagogia populista fa presa, ritraendo maschi disperati e miserabili come campioni dell’emancipazione di masse inascoltate, che in realtà non hanno niente da dire. Sono donne come Kamala Harris e Cecile Richards che devono stare davanti oggi, in America e in tutto il mondo, e tutti quelli che vogliono combattere questo orrore devono limitarsi a sostenerle.

Lorenzo. …. [sgrana gli occhi]

Anatole. …. [guarda altrove, un po’ come se questa cosa che ha appena detto non l’avesse detta lui]

Lorenzo. Si è riaccesa la luce della stanza. Proprio mi sono visto davanti questo libro di Valentina Fedele che indaga sui modelli maschili nel mondo islamico, specie nelle comunità di migranti maghrebine in Europa. “Islam e mascolinità”. Cose di cazzetti piccoli se vogliamo metterla così. Fuori dallo stupidario delle robe che girano, davvero.

Anatole. Ecco.

Lorenzo. Daje.

Anatole. Daje sì.

Nessun luogo è innocente

3

coney 1903

di Gianni Biondillo

 

Una volta erano le fiere di paese. Ai bordi delle città, spesso fuori dalle mura, s’installavano circhi viaggianti, bancarelle di leccornie, spettacoli di freak e violinisti zigani. Spazi periurbani invasi da un popolo di viaggiatori fantastici, portatori di novità e mistero. Michel Foucault gli aveva dato un nome: eterotopie. Non utopie, posti immaginari senza un luogo, o cronotopie, luoghi senza un tempo storico. Ma luoghi “altri”. Contestatori, sovversivi rispetto all’ordine costituito, che si stabilivano, precari, in un luogo e in un tempo ben preciso, seguendo il ciclo naturale delle stagioni.

Con la società moderna, con l’organizzazione del tempo e dello spazio secondo una logica taylorista, anche le fiere sono diventate stanziali. Là dove è nata la città contemporanea, New York, è anche nato il primo Luna Park, a Coney Island. Un posto dall’estetica precaria, come erano la fiere di paese, ma stanziale, aperto tutto l’anno al diveritimento e allo svago. La città era il contenitore del tempo occupato, del tempo del lavoro. Il Luna Park, con quel nome che già dichiarava di appartenere ad un altro mondo – quello notturno, onirico-, diventava il contenitore del tempo libero.

È passato più di un secolo da allora. Bisognerebbe avere il coraggio di scrivere una storia dell’architettura effimera, dello spazio ludico. Uno dei capitoli principali sarebbe quello di Disneyland. Ché qui non stiamo più parlando di fiere, per quanto aggiornate alla modernità. Disneyland è un esperimento più complesso e sotto certi aspetti inquietante. Non più uno spazio anarchico e tangente alla città costruita, ma una vera e propria città del divertimento, depurata da ogni scoria produttiva. Però con logiche insediative urbane: con strade, piazze, negozi. Una “città altra” che non vuole avere contatti con la realtà bruta. A pensarci è la stessa logica dei centri commerciali. Antiurbani da fuori, ma che ripropongono una divisione degli spazi interni che scimmiotta, con un gusto trash, la città che rifiutano.

Disneyland

Disneyland voleva far vivere l’esperienza di un tempo, di una storia, di una narrazione che fosse a compensazione dell’aridità della città contemporanea. Noi, qui in Europa, ci bastava girare nei centri storici per aver esperienza di una storia differente, di un passato millenario. Chi non lo aveva se l’è costruito su misura. Se il mondo della produzione imponeva dei tempi regolamentati, anche quelli del divertimento dovevano rispettarli. L’organizzazione del tempo diviene millimetrica, implacabile. Questa è una bella contraddizione: lo spazio dionisiaco, antiproduttivo, è in realtà regolato da logiche iperproduttive. Camuffata da eterotopia Disneyland è il più chiaro prodotto del capitalismo trionfante. Fa del tempo privato un affare, un commercio. Del valore d’uso, valore di scambio.

La filiera, negli anni, si raffina. Cartoni animati che diventano parchi gioco. Poi romanzi (vedi Harry Potter) che si tematizzano in spazi ludici. E, di rimbalzo, giostre che diventano narrazioni, come nel caso della fortunata serie dei Pirati dei Caraibi. L’eterotopia ha rubato spazio alla realtà. È diventata la nuova realtà, più vera del vero.

Che cosa è successo? Che la divisione del tempo produttivo è saltata. La città non conosce più le sirene delle fabbriche. Il lavoro, così come la società, s’è fatto liquido, immateriale, impossibile da misurare. Cos’è oggi “il tempo libero”? Quando passo il mio tempo sui social, convinto di usare uno strumento di uso pubblico, sono consapevole che in realtà sto producendo contenuti per una società privata, cioè che in buona sostanza sto lavorando gratuitamente per arricchire qualcun altro?

Holler

Ma se il tempo non è più regolamentato anche gli spazi non hanno più confini netti. L’arte contemporanea lo ha intuito perfettamente. Il paesaggio è il nuovo orizzonte della meraviglia. Penso ad esempio a Carsten Höller che nel Parco del Pollino installa una vecchia giostra degli anni Cinquanta in cima ad una collina. Un atto di puro straniamento. L’emozione non sta nel girare vorticosamente, ma nel godere, da quello posizione privilegiata, del paesaggio. Oppure penso a Christo, che pochi mesi fa ha fatto letteralmente camminare centinaia di migliaia di persone sulle acque del Lago d’Iseo.

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Tutti amanti dell’arte contemporanea? Non ha importanza. Era l’esperienza fisica quella che contava. È la ragione dei parchi avventura, che richiamano migliaia di persone nei boschi a scalare alberi o ad attraversare ponti tibetani, è il successo delle teleferiche che ripropongono l’ebrezza del volo nel vuoto.

ottovolanteA fine millennio sembrava che il mondo virtuale avrebbe soppiantato quello reale. Second Life si presentava come un nuovo mondo dove chiunque doveva obbligatoriamente abitare. Oggi è un posto dimenticato da tutti. La verità è che siamo corpi. Ogni esperienza virtuale resta incompleta, monca. Viviamo in un tempo anafettivo, cresciuti in una società che ci ha infantilizzati. Cerchiamo emozioni che siano totali, in tutti e per tutti i sensi. Se il mondo reale non può darcele, se quello virtuale non ci soddisfa, torniamo a cercarle nelle eterotopie.

Io, se dovessi scegliere, resto affezionato all’estetica del luna park. I vorticosi ottovolanti mi appaiono sculture contemporanee, dinamismi futuristi, pronti ad essere smontati con una cacciavite, senza avere la prestesa di creare una città alternativa a quella reale.

Perchè poi, questo cercare emozioni al riparo dalla realtà, produce rimozioni pericolose. Non si può vivere in un luogo monofunzionale, nel paese dei balocchi, dove divertirsi è obbligatorio. Sarebbe un incubo. Nessun luogo è innocente. Nessun luogo può davvero essere sicuro. La rimozione del difforme lo rende innaturale. Ciò che scompare dagli occhi torna nell’inconscio. Non a caso il luogo del divertimento diviene, nelle narrazioni, un posto spaventoso che produce emozioni non “governabili”, non programmabili. Penso al visionario film di Michael Crichton del 1973 “Il mondo dei robot” (Westworld) dove in un parco a tema le macchine che avrebbero dovuto far divertire gli umani si ribellano (anni dopo Crichton replicherà con Jurassic Park).

mondorobot01Insomma, andiamo nei parchi divertimento per cercare le emozioni che non sappiamo più produrre da soli, le vogliamo spaventose ma allo stesso tempo “sicure”. Vogliamo che qualcuno si occupi di farci vivere le avventure che non sappiamo più inventarci da soli.

È il trionfo dell’infantilismo democratico, che fa dell’intera città un immenso parco giochi e del tempo, tutto il tempo, un infinito carnevale. I giochi di ruolo tracimano nelle strade, nelle piazze. Ogni anfratto diventa nascondiglio per la caccia al tesoro globale del geocaching, dove, grazie a un ricevitore gps, bisogna trovare un piccolo contenitore mimetizzato sotto una panchina, o su un albero. E, in questi mesi, la caccia virtuale ai mostriciattoli di Pokemon GO. Realtà aumentata e spazio reale che si incontrano, fanno uscire di casa ragazzi e adulti che vivono l’intera città come uno sterminato parco giochi, in una realtà sempre più magica, depurata, puerile. Bellissimo. Ma il mondo è più complesso, le città restano i luoghi del conflitto. Nessuna esperienza, nessuna emozione, si può per davvero mettere in sicurezza. Saremo pronti a reagire in modo maturo, quando le città – sotto i colpi dei cambiamenti sociali – ci si rivolteranno contro?

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(pubblicato in una versione più breve su Style numero 9 del settembre 2016)

Due letture (anche un po’ teoriche) di poesia: Vincenzo Frungillo e Italo Testa

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di Andrea Inglese

 

Sì, pare proprio che per evidenza tangibile la poesia esista, si scrivono ancora libri, e se ne pubblicano, anche se il lamento funge da sottofondo costante così come il senso apocalittico di scomparsa del genere, di sparizione della letteratura, di svaporazione del libro. E invece libri di poesia circolano ancora come uno strano, ingiustificato avanzo, e viene pure voglia di leggerli, e anche di fornire un minimo resoconto di quanto sia successo in occasione di tale lettura.

Sigma

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di Lino D’Emilio

La prima Guerra dei Rifiuti non fu che una schermaglia continentale: l’intera Unione Australe si ribellò duramente agli accordi conclusi fra la Asian Fruit di Nuova Delhi e la Green Corp, al secolo maggior impresa di smaltimento rifiuti del pianeta. Kakuzo&Mishima, titolari di Asian Fruit, possedevano allora il più grande perimetro incoltivato dell’Asia Meridionale, per cui la Green Corp propose loro 76.589.430 Ʉ al fine di ricavarne una discarica a cielo aperto, che raccogliesse il prodotto di scarto trentennale compresso dei consumi mondiali. Gli architetti delegati al sopralluogo furono aggrediti a più riprese.

Intervista a Michele Toniolo

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Marino Magliani intervista Michele Toniolo, a proposito del suo “La solitudine dell’immaginazione” (Galaad)

lasolitudinedellimmaginazione-325x447Si può vivere nel Nord Europa, sulla costa, più o meno da soli, si può farlo trascorrendo le giornate a trafficare con le parole e a passeggiare tra dune e riva, ma senza mica capire bene bene cosa si sta facendo. Questa attività del trafficare con le parole, ad esempio, cosa significa? Torturarle, gettarne una parte, riciclarle, da buon ligure, allinearle come un plotone di zappatori del genio militare durante la Prima Guerra e mandarle in trincea? Dar loro l’ordine preciso: al mio fischio… E al fischio vedere che puntano i piedi e saltano su, scavalcano la trincea, armate di 91 e di tronchesini tra i denti, corrono e tagliano il reticolato nemico, migliaia di parole armate che vanno all’assalto… Sono le tue parole pubblicate, mi dico, ma il più delle volte non se ne accorge nessuno, una morte che non sorpassa neanche il primo reticolato, muore addosso allo sbarramento del filo spinato o ci crolla ferita e nessuno si azzarda a soccorrerla perché tra una trincea e l’altra è la terra di nessuno e le parole che restano in quel luogo sono la carne di cannone della letteratura, restano appese alla trappola, ironicamente, quella specie di filo spinato che è la scrittura. E poi uno di quei pomeriggi in cui là fuori si vedono le ottantotto cromature del grigio fiammingo e l’albero sbattuto davanti alla vetrata che secondo me, oltre che fradicio, è anch’esso grigio dentro, grigia la clorofilla, uno di quei pomeriggi uguali in tutto, fortunatamente, al resto di pomeriggi degli otto mesi invernali del Nord, il corriere bussa e ti porta La solitudine dell’immaginazione (Galaad, 2016). Allora per un po’, anche se l’hai letto in pochissimo tempo (è un Lilliput), smetti di torturare le tue parole e di cercarne altre che saranno tue passeggiando, di andare nelle dune qui dietro, di mettere le mani nella sabbia, che è pur sempre terra, e trovare le radici che scendono a pescare risorse nell’umido… E leggi che << Se entra nella terra, la parola scritta entra in chi legge. Riesce a farlo solo nel silenzio, nello spazio che le è stato preparato: anche per leggere bisogna spogliarsi.>>
Michele Toniolo è l’autore di La solitudine dell’immaginazione, ed è anche editore, non di questo Lilliput, la sua casa si chiama Amos e ha sede ha Mestre.
Conobbi Michele una dozzina fa, a Porto Maurizio, durante una fiera del libro che si organizzava su per una bellissima via all’ombra delle palme. Ricordo un titolo del suo catalogo, Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto, di Tiziano Scarpa. Parlammo a lungo, del Discorso e di altre cose del catalogo, poi lui alla fiera di Porto Maurizio – che esiste ancora, sia la città che la fiera, ma le palme sono morte  -, con la sua casa editrice non venne più. Non so perché. Tuttavia, ci si è continuati a vedere in giro, ad esempio, quasi ogni anno, a Torino, e un giorno, proprio al Salone, gli parlai di una mia idea che avevo da tempo, di scrivere un libro sugli orti liguri e le vetrate olandesi. Michele ci pensò poco e mi propose di  scriverlo per lui, e da lì Amos cominciò a pubblicare quello e altri miei libri.
E ora, come dire, ora basta, finalmente si parli de La solitudine dell’immaginazione… ma è pur vero che queste cose dovevo dirle, perché se è un editore a scrivere: <<L’immaginazione ha in sé la tentazione di evitare l’ascolto, di fondarsi sulle proprie forze, di raccogliere e trasformare senza conoscerlo ciò che incontra sulla propria strada. Ma l’immaginazione di cui parlo, la capacità del nostro corpo di metabolizzare ciò che ha accolto e trasformarlo in parole nuove…>>, quando ascoltiamo la parola accogliere, e la rileggiamo in quarta di copertina: << Fare il vuoto dentro di sé, prepararsi ad accogliere gli altri: il gesto che ci incammina alla parola scritta nasce nel fare spazio, nell’accoglienza>> non ci può non passare per la mente che una frase del genere  possa contenere anche una specie di poetica dell’editore …

D. E quella sulla possibile poetica dell’editore, è la prima idea stramba che mi ha portato a scriverti, Michele, e a chiederti se vuoi rispondere.

R. Accogliere dovrebbe essere il verbo che permette la conoscenza dell’altro, ma spesso lo castighiamo; preferiamo osservare, analizzare, senza aver fatto spazio in noi per l’altra persona. Per accogliere qualunque cosa bisogna spogliarsi. Dobbiamo sottrarre a noi stessi il giudizio, che verrà dopo, quando si sarà accolto. Prima, è la preparazione di un luogo dentro di noi dove incontrare l’altro. La casa editrice, in parte, è per me questo luogo.

D. La seconda cosa che vorrei chiederti è di raccontarci come nasce la tua scrittura.

R. La scrittura ci conduce davanti a ciò che è decisivo, essenziale. Scrivere è un esercizio dell’essere uomo, un esercizio di fede: non si può tornare indietro dalle parole scritte. La scrittura, come il giuramento, vuole essere irreversibile, vuole escludere la falsità. La scrittura di cui parlo è necessaria perché qualcosa ti ha afferrato. E’ di ciò che ti ha rinchiuso che si scrive. A volte, si scrive dal chiuso: la parola è una prigione. La parola scritta ti guarda e ti giudica. Ecco che cosa sei, ti dice. E ti vergogni di essere ciò che hai scritto, fino al giorno in cui ti vergognerai un po’ meno di essere e di vivere ciò che la parola che hai scritto dice che tu sei come persona. La scrittura deve cambiare chi scrive, deve trasformarlo: se non si cerca questa metamorfosi, perché scrivere? Ma perché questa trasformazione possa accadere devi mettere tutto te stesso in ogni singola parola. Come dice Kobe Bryant: devi giocare ogni partita come fosse l’ultima.

D. La terza, se vuoi, e se non hai già detto troppo rispondendo alla prima domanda, è: come decidi di scegliere i libri da pubblicare. Amos è una casa particolare, un catalogo di qualità, una sola persona che fa tutto, o quasi, tu, e una volta mi hai detto una cosa: sai io i miei autori e traduttori preferisco conoscerli… Mi aveva impressionato questa cosa. Era una battuta che si fa al Salone?

R. No, non era una battuta. Non sempre è possibile conoscere gli autori che si pubblicano, a volte sono morti, altre volti sono troppo lontani per incontrarli. Non si pubblicano libri, si pubblicano persone che hanno scritto un libro. Il mestiere di editore ha a che fare con le persone, non solo con le parole scritte. E da quegli incontri, a volte nasce un’amicizia, nasce un legame che dura nel tempo. E’ questo il momento più bello, credo, per un piccolo editore. E i libri che si pubblicano dovrebbero essere, ma non sempre è possibile, libri che si ha il piacere di avere con sé negli anni.

D. E ora torniamo al La solitudine dell’immaginazione e non perdiamola di vista. Tu dici: << La scrittura non ha senso se non si fonda sulla croce>>. E poi da qualche parte c’è Rozanov: << Signore Gesù, perché sei venuto a turbare la terra, a turbarla e a disperarla?>>. E Roberto Carifi dalla sua Pistoia, che incontravo ogni giorno in una libreria in un vicolo: <<Che l’insperabile della salvezza possa farsi evento… Senza Cristo non avremmo mai sperato>>. E la tua fede, Michele, è la fede di chi cerca la fede – mi sembra di farlo anch’io, sai – come si cerca la parola? Cosa significa chiedersi cosa significa essere scrittori cristiani o cattolici?

R. La croce cristiana abbraccia l’uomo per intero. Nulla viene scartato o lasciato nella dimenticanza. Non chiede doveri esteriori, ma una donazione completa dell’uomo, della pienezza della persona, perché nell’uomo Dio si è incarnato. L’incarnazione è il vero mistero del cristianesimo. Ed è in questo mistero che si concentra la fede del cristiano: Dio che si spoglia per essere uomo. E la spoliazione è ciò che Dio chiede all’uomo per incontrarlo. Non chiede altro. Chiede esattamente ciò che ha dato, non di più. Scrivere non è diverso. Per incontrare la parola, quella che è nostra e che ancora non conosciamo, dobbiamo lasciare tutto, incamminarci e cercare.

D. L’indice sembra proporre un dittico. La solitudine dell’immaginazione (avevo scritto L’immaginazione della solitudine) e altri debiti. Poi si scopre che quest’ultima parte è in realtà un catalogo di letture che ti hanno seguito durante la stesura, e che in qualche modo ti seguono da tempo… Come dici nelle tue parole: << Quando leggiamo cosa abbiamo scritto, non siamo chi ha iniziato a scriverlo…>>, sembra che anche dopo aver scritto, ciò che avevamo letto non sia più la stessa cosa. Ci vuoi dire qualcosa su questo catalogo?

R. Le parole che scrivo (ma credo che accada a tutti) nascono da parole altrui. Parole che ci hanno detto, che abbiamo letto, che non vorremmo aver ascoltato o che abbiamo amato. In fin dei conti, l’uomo è fatto delle parole degli altri: ci servono per dare forma nuova a ciò che siamo. Il catalogo, come scrivi, è una scrittura che appartiene al testo: senza, non potrebbe esistere, per me, nessun discorso sull’immaginazione. Anche se ho inserito solo titoli di libri, e non le persone (amici, conoscenti, sconosciuti) che con le loro parole mi hanno rivelato un mondo per me nuovo.

D. Un solo rimprovero, verso la fine, menzioni Robert Walser, e mi sarebbe piaciuto rileggere il suo nome anche nel catalogo. Forse perché credo che questo Lilliput racchiuda tutta la sua grandezza nelle parole che Walser, vedendo un frate alla finestra di un monastero, durante una passeggiata sulla neve, disse a Carl Seelig: <<Lui ha nostalgia per ciò che è fuori, noi per ciò che è dentro>>.

R. Non sentivo Walser come un autore da citare, ma come un personaggio: è uno degli scrittori che ha trovato le parole. Nella stessa frase l’ho legato a Giona, altro viandante, che ha con la parola un legame che sconcerta: possiede la Parola, ma non vuole capirla, se ne vuole liberare. Mi viene in mente un verso di Rebora: La Parola zittì parole mie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBERT DESNOS Questo cuore che odiava la guerra…

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Ultima immagine di ROBERT DESNOS nel campo di concentramento di Theresienstad [1945]
Ultima immagine di ROBERT DESNOS, al centro, appoggiato alla spalla di un compagno, nel campo di concentramento di Theresienstad [1945]

di Orsola Puecher

Ce cœur qui haïssait la guerre…
Robert Desnos

da ⇨ Ce cœur qui haïssait la guerre
poesie scritte in clandestinità [1943 — 1945]

Questo cuore che odiava la guerra ecco che batte e combatte in battaglia!
Questo cuore che batteva solo al ritmo delle maree, delle stagioni, delle ore del giorno e della notte,
Ecco che si gonfia e fa scorrere nelle vene un sangue infiammato di salnitro e odio.
E scatena un tale frastuono nel cervello che fischiano le orecchie
E non è possibile che questo frastuono non si diffonda nelle città e nelle campagne
Come il rintocco di una campana che chiama alla rivolta e al combattimento.
Ascoltate, lo sento che mi arriva rimandato dagli echi.
Ma no, è il frastuono di altri cuori, di milioni di altri cuori che battono come il mio attraverso la Francia
Battono allo stesso ritmo per uno stesso ideale tutti questi cuori,
Il frastuono è quello del mare che assalta le scogliere
E tutto questo sangue fa affluire in milioni di cervelli uno stesso imperativo:
Rivolta contro Hitler e morte ai suoi seguaci!
Eppure questo cuore odiava la guerra e batteva al ritmo delle stagioni,
Ma una sola parola: Libertà, è bastata a risvegliare un’antica rabbia
E milioni di francesi si preparano nell’ombra al compito a cui l’alba vicina li chiamerà:
Perché questi cuori che odiavano la guerra battono per la libertà allo stesso ritmo delle stagioni, delle maree, del giorno e della notte.

 
Ci fu nella vita dei molti che scelsero – la resistenza e l’opposizione al nazifascismo – uno stesso momento in cui la necessità della lotta si fece strada in animi così diversi per estrazione sociale, per cultura, fede religiosa, credo politico, nazionalità, ed è questo, ai nostri occhi ormai tiepidi e poco inclini agli imperativi etici, un culmine che ha qualcosa di misterioso e in un certo qual senso incomprensibile, quasi fosse una chiamata ultraterrena, una specie di scelta vocazionale, per i pericoli e le conseguenze fatali che per molti avrebbe comportato, in una quotidiana abitudine alla consapevolezza della possibilità di perdere tutto quello che era stata la loro vita precedente, con la spada di Damocle della morte sempre accanto. Persone con i cuori che odiavano la guerra, prima, come scrive Robert Desnos, che della pace e della non violenza avevano permeato tutte le loro scelte, svoltarono nell’universo della clandestinità, del nascondere dietro la vita di tutti i giorni, apparentemente normale, segreti e piani, armi e documenti falsi, consapevoli dei rischi che correvano, ma con una superiore noncuranza per essi: il coraggio piccolo dei singoli che divenne il coraggio grande di tutti. Anche dei poeti con il cuore che batteva solo al ritmo delle maree, delle stagioni, delle ore del giorno e della notte.
Robert Desnos scelse nella Parigi degli anni ’40, occupata dai Nazisti, dove sventolavano le bandiere con la croce uncinata e plotoni a passo d’oca marciavano sotto l’Arc de Triomphe.

 
 
 

Dopo una luminosa carriera poetica e letteraria, attraversata da variegate esperienze, dall’adesione al Surrelismo, al successivo abbandono, dalla radio, alla pubblicità, al cinema, alla critica, musicale, teatrale e cinematografica, durante l’occupazione nazista Desnos sceglie di impegnarsi nella Resistenza con scritti clandestini. Perfino in alcune filastrocche della raccolta per bambini Chantefables et Chantefleurs del 1944, che ancora oggi e materia di gioco e di studio in tutti gli asili e le scuole elementari francesi, si nascondono in filigrana messaggi criptati.
 

 
Juliette Greco
musica di Joseph Kosma
Parigi, Bobino 16, febbraio 1972


La formica
 
Una formica di diciotto metri
Con un cappello sulla testa,
Ma non esiste, non esiste proprio.
Una formica che tira un carro
Pieno di pinguini e di anatre,
Ma non esiste, non esiste proprio.
Una formica che parla francese,
che parla latino e javanese.
Ma non esiste, non esiste proprio.
Eh! E perché no?

Robert Densos
da ⇨ Chantefables et chantefleurs

Nella ⇨ testimonianza, raccolta al Mémorial de l’internement et de la Déportation di Royallieu mercoledì 29 maggio 2013, Jacques F. figlio e nipote di due amici di Desnos, appartenenti anch’essi al movimento surrealista, e che ebbe modo da bambino di conoscerlo, di ascoltare seduto sulle sue ginocchia favole e filastrocche che egli amava inventare per lui e che mai ha dimenticato, la dolcezza, il sorriso e la sua joie de vivre, questa formica di diciotto metri che tira un carro di anatre e pinguini che parlano tutte le lingue assume un significato particolare.
 

Voi sapete su “Chantefleurs Chantefables”, che avrete certamente letto, almeno alcune di esse, io non sapevo affatto, all’epoca, che molte di queste poesie hanno un doppio significato. Desnos diceva, non era l’unico, ma lui soprattutto, che aveva sempre voluto cercare un doppio significato in tutte le poesie. Ed è proprio nel “Chantefleurs Chantefables” c’è un doppio significato molto chiaro ad esempio nella “La Formica”. Non so se lo sapete “La Formica” … “La Formica” è una poesia di resistenza. Se volete vi posso raccontare che “Fourmies” è una città nel nord della Francia, con impianti metallurgici dove si fabbricavano locomotive. Queste locomotive erano conosciute nell’ambiente ferroviario con il nome di “Fourmies”. E quando Desnos parla della “formica lunga diciotto metri”, si scopre che la locomotiva con il suo carro del carbone sono lunghi proprio diciotto metri. Quando parla di tutte quelle persone che sono sul treno e parlano francese, giavanese e tutte le altre lingue, è ormai chiaro che queste persone sono tutti gli stranieri, tutti gli ebrei che erano stati trasportati su questi vagoni.


 
Ma ad attirare l’attenzione della Polizia Politica Segreta nazista, furono soprattutto i coraggiosi articoli sul giornale Aujourd’hui, dove nella rubrica La revance des médiocres scriveva contro Petain, la dittatura e l’antisemitismo. Così nella bella e stravagante casa di Rue Mazarin 19 che Desnos divide con la sua compagna Youki, il cagnolino Pipo e un gran numero di gatti, piena di libri, quadri, collezioni di oggetti improbabili, teatro di arte e poesia, dove passavano Jean-Louis Barrault et Madeleine Renaud, Felix Labisse, André Masson, Antonin Artaud, Picasso, fa irruzione la Gestapo.
 
rue mazarin
 

Racconto di Youki Desnos da ⇨ LE PETIT MONDE DE YOUKI

Martedì 22 febbraio 1944, alle 9 e 25 del mattino, suonarono alla nostra porta tre personaggi in abiti civili che non erano altro che agenti della Gestapo. Erano venuti per arrestare il poeta André Verdet, di cui noi non sapevamo nulla. Perquisirono tutto l’appartamento, scrollarono i libri, i cestini della carta straccia. Madame Lefèvre restò come sbigottita, seduta su una sedia e non ebbe alcuna reazione. Avvertito qualche minuto prima, con una telefonata, da un’amica, Madame Grumier, collaboratrice del giornale Aujourd’hui, dove quelli erano passati prima, Robert avrebbe avuto il tempo di fuggire, ma voleva salvare Alain Brieux che nascondevamo in un rifugio segreto nel contro soffitto della cucina.
E fu così che il giovane fuggì e il poeta rimase.
Comunque, Robert avrebbe potuto nascondersi anche lui, ma non volle, temeva che i tedeschi mi portassero via. Gli sembrava che restando fino all’ultimo, avrebbe potuto proteggermi con la sua presenza.
Fu allo stesso tempo toccante e quasi ridicolo, non facendo parte di alcun movimento, avrei potuto uscire anche in caso di arresto. Lui aveva paura per me, lui che sfidava tutti i pericoli; e poi non sapeva esattamente che cosa avremmo dovuto affrontare.
A volte i tedeschi arrestavano tutti. Spesso torturavano le donne con raffinato sadismo, aiutati dai francesi della Rue Lauriston.
La piccola auto nera della polizia politica non ci mise molto ad arrivare da Avenue de l’Opéra, dove c’era il giornale Aujourd’hui a Rue Mazarine.
Stavo ancora dicendo A Robert: ”Ma scappa, vattene via!” e lui mi rispondeva “Nemmeno per sogno!” che quelli suonarono alla porta.
– Il signor Desnos? – Mi chiese un bel’ufficiale giovane e biondo.
– E’ là, entrate. – Gli risposi
Vidi passare come un velo di tristezza nei suoi occhi.
– Ah… è là. – mi rispose con aria sorpresa e desolata
Robert avrebbe potuto fuggire. Eravamo capitati con un tipo “buono”. Ma come ci sarebbe stato possibile prevederlo?
Mentre i suoi due accoliti perquisivano la casa, il giovane mi disse:
– Sappia, signora, che io sono un ufficiale tedesco. Mi hanno obbligato a questo compito di polizia. Ma io sono un ufficiale tedesco. – Insisteva.
Nel piccolo soppalco adibito a camera da letto e studio, Robert stava mostrando a uno dei due scagnozzi che cosa c’era nei suoi cassetti. L’altro di sotto rovistava nella nostra biblioteca.
Quest’ultimo mise le mani su un foglio nascosto nel dorso di una rilegatura, e lo tese al suo capo. C’era la lista completa dei nostri amici resistenti, con nomi, cognomi e indirizzi.
Erano passati circa cinque minuti fra il momento in cui avevamo ricevuto la telefonata e l’arrivo della Gestapo.
Preoccupato di far scappare Alain Brieux e di resistere alle mie preghiere di fuggire, Robert aveva dimenticato quel foglio, che di certo pensava fosse ben nascosto.
L’ufficiale cominciò a leggere
– Louis Aragon… indirizzo… Lione…
Non potendo interrompersi davanti ai suoi subalterni, o forse non avendo ben compreso l’importanza del documento, stava continuando la lettura ad alta voce…
Gli lanciai uno sguardo eloquente. Egli interruppe la lettura in ordine alfabetico e interrogò Robert dalla porta al piano di sotto.
Dall’alto Robert gli rispose con voce calma:
– Io non sono soltanto giornalista, ma sono scrittore e quella è la lista dei critici che potrebbero parlare delle mie opere.
– Bene – disse l’ufficiale e si mise il foglio in tasca.
La missione di quei tre era arrestare Robert Desnos.
Spaventata a morte, sentii il giovane ufficiale consigliare a Robert di lasciarmi il suo orologio d’oro con la catena, il libretto degli assegni e di prendere un paio di articoli da toilette.
In preda al panico, gli chiesi:
– Ma dove lo portate, signore?
– Non ho il permesso di dirvelo. – Poi aggiunse di nascosto: “Andate a vedere a Rue des Saussaies.”
E’ là che all’uscita di un interrogatorio il nostro amico Brossolette si gettò dalla cima delle scale nel cortile che oggi porta il suo nome. Era là che imperversavano le vasche piene di acqua ghiacciata in cui si era immersi con la testa fin quasi all’asfissia.
Scoppiai in lacrime e Desnos, che non aveva sentito quello che mi era stato detto, mi ripeteva, sorpreso: “Ma non piangere così, andiamo!”
Poi, mentre lo portavano via, si girò verso di me e mi porse la sua penna, una Parker a cui teneva molto perché gli era stata regalata dai suoi amici cubani Frejaville durante il suo viaggio in Sud America:
– Tienimela, dolcezza, tornerò a prenderla.
Con la mente completamente sconvolta, crollai accanto alla signora Lefèvre, su una sedia vicina, e da lì, vidi, appoggiato delicatamente contro una piccola scultura, il foglio che conteneva l’elenco dalla A alla Z di nomi, cognomi e indirizzi del fior fiore della Resistenza francese.
Il tedesco non mi aveva mentito. Era un ufficiale, non un carnefice.
Naturalmente, il mio primo atto fu quello di distruggere immediatamente quel documento.
Disarmata, non avvertii nessuno e non mi preoccupai… L’ufficiale tedesco non utilizzò le informazioni scoperte per arrestare clandestini.


 


 
Desnos interrogato a Rue des Saussaies, finisce poi nella prigione di Fresnes, dove resta dal 22 febbraio al 20 Marzo. Youki dopo faticosissime ricerche riesce a rintracciarlo e a mandargli dei pacchi. Il 20 Marzo viene trasferito al campo di smistamento di Royallieu à Compiègne da cui ogni settimana partivano i trasporti per la Germania.
 
compiegne
 
Robert Desnos è ormai inglobato nella macchina concentrazionaria, che inghiottì nel nulla milioni di persone, e di lui si sarebbe persa ogni traccia, se non fosse per un testimone d’eccezione, André Bessière [12 Febbraio 1926] che si trovò con lui a Compiègne fin dal suo ingresso e nel suo libro DESTINATION AUSCHWITZ AVEC ROBERT DESNOS Mémoires du XXe siècle – ETUDES LITTÉRAIRES, CRITIQUES e in numerose interviste è tornato a raccontarne la storia. Entrato nella Resistenza a quindici anni, arrestato a 18, mentre tentava di varcare la frontiera spagnola, parte insieme a Desnos con il “convoglio dei tatuati” seguendo le stesse tappe di deportazione, da Auschwitz, a Buchenwald fino a Flöha e Terezin, poi liberato dall’Armata Rossa il 7 maggio 1945. compiegne buchennwald E’ il 21 marzo 1944 quando Bessière incontra il poeta Robert Desnos, arrivato il giorno prima al campo, dove vengono radunati prigionieri politici ed ebrei in attesa di essere deportati, e dove regna una relativa libertà: i detenuti possono camminare nell’immenso spiazzo dell’appello del complesso, sede di un’antica caserma francese; il loro numero oscilla da due o trecento a due o tremila, a seconda della partenza dei convogli di deportazione. Ogni settimana un piccolo o un grande convoglio lascia il campo sui vagoni merci per una destinazione di cui non si sa molto. je_cherrche_fortune Andrè è stupito dall’aspetto del poeta, con il suo feltro marrone scuro, la grande cappa nera e soprattutto le ghette. Gli sembra Aristide Bruant dell manifesto de Le Chat Noir. Ma è soprattutto lo spirito ottimista e travolgente a colpire i compagni di prigionia: dopo aver tenuto una tumultuosa conferenza sul surrealismo, che trovò dei vigorosi oppositori, tra cui Max Rénier, ma che si concluse con un’ovazione, ispirandosi alle sue trasmissioni radiofoniche, animò il Club degli Imbattibili e lanciò il concorso Giochi Floreali: si fece un appello ai prigionieri perché inventassero una canzone che diventasse l’inno del campo di Compiègne, una poesia che evocasse la gioia di vivere, un racconto, un discorso sulla vita quotidiana. Il pubblico avrebbe dovuto designare il vincitore. Ma il 26 aprile giorno designato per i Giochi Floreali ebbe luogo un appello di massa: più di mille e settecento uomini, fra quali Bessière e Desnos, vengono fatti mettere da una parte. Di alcune poesie scritte da Desnos a Compiègne restò traccia, perché egli cedette il suo taccuino in cambio di cibo ad un prigioniero, che riusci a conservarlo. Fra queste Terra di Compiègne che così, in forma di ballata-canzone con coro e più voci, avrebbe potuto benissimo essere la candidata elettiva e forse la possibile vincitrice del concorso dei Giochi Floreali del Club degli Imbattibili, che non poté mai più avere luogo. E con il coro scandito nel ritornello dalle parole selce e gesso ripetute ossessivamente, quasi a ritmo dei passi di marcia dei prigionieri, piena di malinconia per il passato, ma di speranza per una vita meno breve, per un futuro di luce, primavera, pioggia, rose e stelle, accompagna la partenza con il suo canto, partiremo cantando, e il solo bagaglio dei ricordi lontani.

Terra di Compiègne
 
CORO (molto in fretta come accavallandosi)
Gesso e selce ed erba e gesso e selce
E selce e polvere e gesso e selce
Erba, erba e gesso e selce, selce e gesso
(rallentando)
Selce, selce e gesso
E gesso e selce
E gesso…
 
UNA VOCE
Da qualche parte fra Hay-les-Roses
E Bourg-la-Reine e Antony
Fra le rose di Hay
Fra Clamart e Antony.
 
CORO (molto ritmato)
Gesso e selce – gesso e selce
E gesso
E selce e gesso e selce e gesso
E selce
 
UNA VOCE
Fra le rose di Hay
E gli alberi di Clamart
Avete visto la sirena
La sirena di Antony
Che cantava a Bourg-la-Reine
E che canta ancora a Fresnes.
 
CORO
Terra di Compiègne!
Terra grassa ma sterile
Terra di selce e di gesso.
Nella tua carne
Marchiamo l’impronta delle nostre suole
Perché un giorno la pioggia di primavera
Vi si posi come l’occhio di un uccello
E rifletta il cielo, il cielo di Compiègne
Con le tue immagini e le tue stelle
pesante di ricordi e di sogni
Più duro della selce,
Più docile del gesso sotto il coltello.
 
UNA VOCE
A Parigi vicino a Bourg-la-Reine
Ho lasciato soli i miei amori
Ah! come li cullano le sirene
Io dormo tranquillo, oh! miei amori
E raccolgo, a Hay, le rose
Che vi porterò un giorno
Appesantite di profumi e di sogni
E, come le vostre palpebre, si schiudono
al chiaro sole di una vita meno breve
piena di lampi come una selce
luminosa come il gesso.
 
CORO (alternato)
E gesso e selce e selce e gesso
Terra di Compiègne!
Terra fatta per marciare
e lungo la stazione gli alberi,
Terra di Compiègne!
Simile a tutte le terre del mondo,
Terra di Compiègne!
Un giorno scuoteremo la nostra polvere
Sulla tua polvere
E partiremo cantando.
 
UNA VOCE
Partiremo cantando
Cantando ai nostri amori
La vita è breve e breve il tempo.
 
ALTRA VOCE
Niente è più bello dei nostri amori.
 
ALTRA VOCE
Noi lasceremo la nostra polvere
nella polvere di Compiègne
(scandito)
E ci porteremo via i nostri amori
e il loro ricordo.
 
CORO
E il loro ricordo.

Robert Desnos da Ce cœur qui haïssait la guerre
poesie scritte in clandestinità [1943 — 1945]

La partenza ebbe luogo il 27 aprile con un treno merci. Un viaggio apocalittico di quattro giorni e tre notti trasformò ogni vagone in una bara viaggiante e in un asilo di alienati. All’arrivo ad Auschwitz-Birkenau più di sessanta morti e più ancora di persone impazzite. Poi le grida delle SS, l’abbaiare dei cani, i colpi di frusta e bastone, i calci nella schiena, e i sopravvissuti, 1665 uomini costretti a percorrere a passo di corsa i dieci chilometri che li separano dalla baracca della quarantena della Divisione Canada di Birkenau. Tutti vengono tatuati sull’avambraccio sinistro. Tutto puzzava di morte a Auschwitz, inspiegabilmente, ed è un odore che sento ancora, racconta André. Una sensazione terribile di morte permea ogni cosa. Ma anche in questo quadro desolante Desnos riesce ancora a mostrarsi ottimista, sostiene i suoi compagni con i suoi racconti, le sue poesie e soprattutto con quella che sarà la sua curiosa attività principale: appassionato di chiromanzia da anni ecco che si mette a leggere le linee della mano ai più abbattuti fra i deportati, predicendo sempre cose positive, futuro, futuro luminoso a tutti in luoghi senza nessuna speranza di futuro.
 
mani di desnos

Man Ray Le mani di Robert Desnos
da L’étoile de mer [1928]

 
Parla… parla… racconta storie incredibili del suo passato facendo dimenticare ai compagni, almeno per un attimo, la situazione desolata in cui si trovavano.

Quello che lui faceva principalmente – e per questo io credo che senza di lui la mia deportazione non sarebbe stata la stessa – era raccontare storie ai ragazzi […]. Noi, il gruppo dei giovani, noi ascoltavamo vivamente Desnos. Aveva l’arte del racconto. Ci addormentava con le sue storie. Aveva l’arte di affascinare. Riuscivamo a evadere ascoltando Desnos. Cosa ci raccontava? La Montparnasse degli anni venti, Picasso. […] Navigavamo con lui attraverso tutte le sue avventure. Ci raccontava ogni sorta di cose, senza dimenticare tutte le sue conoscenze che ci facevano sbavare: Jan-Louis Barrault, Madeleine Renaud… Così ci faceva dimenticare molte cose.

André Bessière Da Compiègne a Terezin avec Desnos
intervista in Desnos pour l’anne 2000 Gallimard 2000 [pag 318-319]

Cerca di procurarsi in ogni modo pezzi di carta di tutti i tipi dove continua a scrivere di nascosto poesie e anche un romanzo surrealista Le Cuirassiere nègre. Si proclama sempre orgogliosamente e testardamente poeta. Conserva tutto in una scatola di latta, che però sparisce a Flöha, campo dove i detenuti lavoravano alla costruzione di carlinghe di aerei, dopo che Desnos, punito per aver rovesciato il calderone della minestra, in un momento di rabbia contro uno dei preferiti dei Kapò che si rifiutava di riempirgli la ciotola, verrà duramente punito, incarcerato, picchiato e frustrato. Il gesto di estremo disprezzo di una delle SS, che gli schiaccia sotto il tacco degli stivali i suoi preziosi occhiali, darà inizio a un rapido crollo psico-fisico, che dopo la faticosa marcia verso Theresienstadt, ormai allo stremo, lo porterà alla morte, nell’infermeria del campo, in preda a una terribile dissenteria, solo pochi giorni dopo l’arrivo dei Russi, l’ 8 giugno 1945.
 
Robert e Youki

Robert e Youki in Rue Mazarin

 
 

[ traduzioni a cura di Orsola Puecher ]
immagini da http://bljd.sorbonne.fr/

Scrivere per dare udienza ai fantasmi

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di Vincenzo Pardini

pardini_C_grande_secolo_doroedolore - CopiaL’amico Giacomo Sartori mi ha invitato a scrivere qualcosa sul mio libro, che sta per uscire da il Saggiatore: Grande secolo d’oro e di dolore. Lo faccio volentieri sia per Giacomo sia per gli amici di questo giornale che più volte mi ha ospitato e sostenuto. È il libro più lungo che abbia realizzato: 357 pagine. Ma sarebbero state molte di più non le avessi espunte, lasciando solo quelle in cui mi pareva che fossi riuscito a mettervi dentro le atmosfere e i ritmi che volevo. Scrivere mi comporta un impegno molto faticoso: attraverso le parole cerco di afferrare l’inafferrabile, ossia gli attimi che fuggono non tanto perché portati via dal tempo quanto dalla vita, che viene meno ad ogni istante. Un fumo di pipa al vento. Ho scritto questo romanzo negli anni Ottanta, lasciando le pagine dentro una cartella. Di tanto in tanto mi tornava alla mente, creandomi tormenti: voleva essere ultimato. Ma non trovavo il tempo e la condizione giusta, preso come ero dagli impegni della quotidianità. Finché, andato in pensione, quel magma di parole ha cominciato a non darmi tregua: adesso non avevo più scampo, dovevo affrontarlo. Un duello troppo a lungo rimandato. Dalla macchina da scrivere della prima stesura, ero intanto passato al computer, e la vita mi era cambiata. I miei cari erano morti e mi ero sposato e avevo una figlia. Riscrivendolo, sentivo quanto fosse forte, perché non mi consentiva di aggiungere niente, ma solo di togliere il sovrappiù. La sua forza stava, tutta, nelle storie dei vari personaggi che, come indignati per averli lasciati a languire tra le parole, mi venivano davanti, si facevano vedere, chiedevano, esigevano, mi maltrattavano anche. Insomma, stavo dando udienza a dei fantasmi, fantasmi che esistevano, e che abitavano e abitano, nei miei dintorni. Non a caso il libro parte dalla fine dell’Ottocento e arriva oltre il 1980 del secolo scorso. Protagonista è Leonide, una discendente dei Longobardi. E’ lei il motore della storia, che si intreccia con personaggi non solo del suo presente, ma anche di un passato che lei sola riesce a vedere grazie alle sue doti medianiche. Dalla terra di Leonide, un immaginario paese della Media Valle Del Serchio, la narrazione si sposta in Europa e in America, passando attraverso due guerre e altri conflitti che vedono sul campo di battaglia perfino il generale Mac-Mahon. Un romanzo, quindi, non solo di sentimenti, ma anche di storia, che di sentimenti d’ogni sorta si alimenta. Come sempre faccio, scrivendo un libro non tengo di conto delle mode letterarie del momento. Il mio solo e unico scopo è quello di sviscerare trame dove la vita della gente sia al centro. Credo intatti che mai come adesso abbiamo bisogno di liberarci di quanto più ci opprime, chiedendoci anche chi siamo e da dove veniamo. Cosa che possiamo fare solo raccontando e raccontandoci. Buona lettura, cari amici.

 

 

NdR: “Grande secolo d’oro e di dolore” esce oggi (il Saggiatore)

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V E R I T À    P E R    G I U L I O    R E G E N I
 
 
 

Critica progressista e comunità d’ascolto

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 (Questo pezzo è uscito sulla rivista “Il ponte” (n° 11-12, 2016), all’interno di un dossier curato da Luca Lenzini e intitolato Critica letteraria al tempo di internet; esso raccoglie interventi dello stesso Lenzini, di Riccardo Donati, Italo Testa, Marco Gatto, Antonio Tricomi, Lorenzo Marchese, Roberto Gerace, Gabriele Tanda, Enrico Fantini e Rino Genovese.)

di Andrea Inglese

L’inflazione delle rivoluzioni antropologiche

Il problema delle rivoluzioni antropologiche è che, all’epoca di Pasolini, sembravano potersi