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La lezione americana della post-verità “alternativa”

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di Anatole Pierre Fuksas

Non si è fatto a tempo a inaugurarla questa presidenza Trump, che già il tema-chiave attorno al quale ruoterà tutto il dibattito sulla democrazia nei prossimi cinque anni ha già egemonizzato le prime pagine di tutti i giornali, soprattutto quelle dei paesi anglosassoni, che per cultura e tradizione vivono nel culto della verità fattuale. Il casus belli ha aspetti piuttosto puerili, se si considera che riguarda la folla dei partecipanti all’evento inaugurale a Washington DC lo scorso 20 gennaio del 2017, stimata intorno alle 160000 unità sulla relativa pagina wikipedia. Non a caso fin dall’indomani giravano sui social network parodie di ogni genere a proposito del confronto tra la folla presente all’inaugurazione della presidenza Obama (molto nutrita) e quella sopraggiunta per l’inaugurazione della presidenza Trump (almeno cinque volte inferiore).

Nel corso del primo briefing con la stampa il nuovo portavoce del Presidente Trump, Sean Spicer, si è lasciato andare a una vera e propria requisitoria contro i giornalisti, giudicati responsabili di aver consapevolmente riportato informazioni false a proposito del numero dei partecipanti. Spicer urlava ai giornalisti che, invece, quella della Presidenza Trump è stata senza meno «l’inaugurazione più partecipata della storia degli Stati Uniti d’America, punto», senza spiegare sulla base di quali elementi dimostrativi si dovesse effettivamente segnare quel punto.

Intervistata in diretta al programma Meet the Press della NBC, Kellyanne Conway, una collaboratrice accreditata della Casa Bianca, spiegava che Spicer ha sostenuto la sua versione sulla base di quelli che ha definito “alternative facts”, scandalizzando Chuck Todd, il conduttore della trasmissione e più di mezza America, all’indomani della Women’s March, la più grande manifestazione antigovernativa della storia.

Nel corso della serata questa sorprendente dichiarazione è rimbalzata in maniera esplosiva sui social network, distraendo l’opinione pubblica dalle finali di Conference della NFL, che hanno visto prevalere i Falcons di Atlanta sui Packers di Green Bay e i Patriots del New England sugli Steelers di Pittsburgh, una sconfitta su tutta la linea della Rust Belt, la cerchia industriale america intorno ai laghi che ha dato la vittoria a Trump.

In un paese che attribuisce un grandissimo valore alla certificazione della verità fattuale, il tipo di ridefinizione dei rapporti tra la presidenza e la stampa sembrerebbe andare anche oltre gli scenari più inquietanti descritti da Aaron Sorkin nella serie TV intitolata Newsroom. L’idea che possano esistere fatti “alternativi” a quelli sulla base dei quali la stampa stabilisce i contorni di una versione condivisa a livello nazionale è piuttosto accettabile in Europa, un continente storicamente diviso da ideologie confliggenti, ma rappresenta una novità assoluta negli Stati Uniti. Non si tratta naturalmente del normale dibattito circa l’interpretazione dei fatti, quanto piuttosto della loro configurazione come tali, che lascia in particolare sorpresi e sbigottiti, come se da questo momento, in sostanza, «vale tutto», perché anche la definizione di un fatto come tale può essere contestata.

Come ha detto bene Martino Mazzonis in un articolo uscito il 23 gennaio su Left, «l’idea dello staff di Trump, evidentemente quella di aggirare i media tradizionali e parlare direttamente con la base attraverso l’account twitter del presidente, le talk radio conservatrici, FoxNews e i siti conservatori». In sostanza, siamo di fronte a un tentativo di disintermediare il rapporto tra Presidenza e base di consenso, togliendo di mezzo la stampa, quel Quarto Potere che dalla sua nascita sorveglia gli equilibri democratici della prima democrazia del mondo. La campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca faceva temere esiti di questo genere, che si sono prontamente verificati fin dal giorno uno della sua Presidenza.

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In una precedente riflessione si provava a mettere in luce in che senso la moda postmoderna del decostruzionismo del discorso dominante, cresciuta sulla base della teorizzazione francese (Foucault, Derrida, Déleuze e Guattari soprattutto) nelle grandi scuole americane dove oggi si piangono lacrime di coccodrillo, Harvard e Yale ad esempio, si sia trasformata in quella critica radicale al concetto di verità che ha spianato la strada a situazioni di questo genere e, più in generale, ai populismi correnti.

In un recente articolo sul Post Claudio Lagomarsini ha illustrato le implicazioni filologiche del dibattito corrente sulla realtà post-fattuale, presentando un caso di studio relativo all’ultima campagna referendaria costituzionale in Italia, che illustrava chiaramente in che modo una notizia falsa si propaghi, assumendo nel corso della sua tradizione tutti i crismi di una verità, recepita e condivisa come tale.

Questo ulteriore ragionamento che qui si propone è nella sostanza una breve recensione di un articolo scientifico recentemente pubblicato sul volume 18, 1 (2016) di «Comparative Literature and Culture» dell’Università di Purdue in Indiana, che avranno letto in tre, uno dei quali è il sottoscritto (gli articoli scientifici del quale hanno un pubblico ancora più esiguo, ci mancherebbe), ma dice molto di più di quanto si legga altrove sulla querelle apparentemente puerile circa le dimensioni del pubblico della Cerimonia di Inaugurazione della Presidenza Trump.

L’articolo, scritto da Hyeryung Hwang, ricercatrice presso il Department of English della University of Minnesota, è intitolato Said and the Mythmaking of Auerbach’s Mimesis e tratta di un argomento apparentemente lontanissimo dal caso che ci interessa. Il Said del titolo è Edward Said, il celeberrimo comparatista della Columbia University che ha nella sostanza inventato il concetto di ”orientalismo”, e la mitizzazione di Mimesis. Auerbach è invece Eric Auerbach, filologo romanzo della prima metà del secolo XX (muore il 13 ottobre 1957), ispiratore di Said, nonché autore del più famoso trattato dedicato al realismo nella letteratura occidentale attraverso tutta la sua storia, da Omero al «calzerotto marrone» che Virginia Woolf descrive in To the Lighthouse.

Il punto di evidenza che rende questo contributo della collega americana estremamente interessante al fine di cogliere la natura del rapporto tra «alternative facts» e «post-truth society» ha a che fare col fatto che la ricerca in campo letterario e quella nel campo delle scienze sociali hanno seminato per vent’anni la convinzione che nessuna verità fattuale sia in realtà davvero tale, poiché riflette in realtà il punto di vista unico, centrale, dominante, colonialista bianco occidentale di chi esercita il potere. Alla verità ufficiale si tratta, dunque, di sostituire una molteplicità di punti di vista alternativi, basati sulla valutazione di fatti che essa verità ufficiale non considera, mettendo al centro del ragionamento la complessità delle angolature, irriducibile ad una sintesi operativa. Questo processo si è spinto avanti al punto che la filologia, la storica disciplina umanistica incaricata di vagliare le testimonianze documentarie al fine di risalire quanto più possibile vicino alla forma originaria di un testo, alla sua versione archetipica, dalla quale tutte le altre discendono, ha di fatto abbandonato il campo, dopo due millenni e mezzo di onorato servizio.

È interessante notare come l’attuale temperie suggerisca a Hwang la necessità di andare a ripescarla da qualche parte, dove possibile. Trovandosi in America, le viene giustamente spontaneo ripartire dalla costruzione del mito cosmopolita di Mimesis, alla quale, a suo modo di vedere, Said, eletto a campione del pensiero decostruzionista della verità ufficiale dai teorici post-modernisti in quanto autore del celebrato Orientalism, avrebbe partecipato in maniera tutto sommato involontaria. In sostanza, secondo l’autrice non sarebbe stato Said a costruire l’argomento in base al quale Auerbach avrebbe potuto godere da esule in Turchia, in fuga dal nazismo, di una giusta distanza dalla propria identità europea, tale da permettergli di inquadrare la storia del realismo nella letteratura occidentale dall’angolazione globale della Weltliteratur.

L’intento è certamente lodevole, considerato che il tentativo di ripensare il rapporto tra Said e il monumentale lavoro di Auerbach mira a «offrire una ragione per salvare la filologia dallo stato di marginalità nel quale versa all’interno della comunità della ricerca americana». Quello che si capisce meno è in che modo questo lavoro tutto teorico di critica della critica possa contribuire al nobile fine, aiutando a formare nuove generazioni capaci di sviluppare un pensiero critico attorno alle categorie di «fatto» e «verità». Colpisce in particolare la clamorosa oscurità della riflessione, certamente ostica per un profano, ma complessa e sfuggente anche alla lettura esperta di chi abbia passato trent’anni in mezzo alle questioni delle quali Hwang si occupa.

Paradigmatico della criptica inaccessibilità è il passo in cui l’autrice sostiene che «la “mitica rigidità”, della quale parla Benjamin, inerente alla lettura che Said offre di Mimesis, potrebbe fare della filologia una metodologia per la sintesi storica» e ancora che «In questa sintesi la tensione dialettica tra testo e storia offrirebbe una comprensione del testo nel suo senso storico, quale sintesi di “fatto” e “verità”». A noi altri che qui in Europa, e in particolare in Italia, la filologia la facciamo ancora, non ci sembra tanto da spiegare il fatto che senza ricerca bibliotecaria e d’archivio non sapremmo manco chi siano e cosa abbiano scritto gli autori che si insegnano a scuola. Che, cioè, l’esistenza di un testo intitolato, per dire, Rosa fresca aulentissima sia un “fatto” testimoniato nella sua esistenza, dunque nella sua “verità” accessibile all’esperienza del ricercatore, dal manoscritto Vaticano Latino 3793, sul quale troviamo messa per iscritto gran parte dell’origine della nostra letteratura e di quello che siamo diventati grazie ad essa.

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Che oggi negli Stati Uniti d’America, la prima democrazia della storia del mondo, ci sia bisogno di andare a ripescare il modo in cui Said prova a sdoganare Auerbach in base alla mitizzazione della condizione di esule in Turchia prima della Seconda Guerra Mondiale, dà un po’ il senso del baratro in cui un intero sistema culturale è sprofondato. È ben evidente, noto e certo che Said, esule palestinese in America lui stesso, stesse identificandosi col maestro esule e dunque proiettandolo in quel modo in un sistema della comparatistica orientato verso la categoria della Weltliteratur. Ma è altrettanto certo che Said avesse della filologia una concezione certamente positiva, anche in considerazione della sua applicabilità ai campi della Filosofia, del Diritto e delle Scienze Sociali, indipendentemente dalla condizione di esule sua o del suo maestro, come emerge con evidente e lucida chiarezza da un passaggio nodale del saggio di Auerbach su Philology and Weltliteratur, che egli stesso tradusse insieme alla moglie del tempo, Maire Jaanus:

Philology, in this role, dominated all the historical disciplines because, unlike philosophy, which deals with eternal truths, philology treats contingent, historical truths at their basic level: it conceives of man dialectically, not statically. In this article Auerbach concerns himself with strictly literary philology, but one is always to keep in mind that philology’s “material” need not only be literature but can also be social, legal or philosophical writing.

Nella temperie attuale, cioè in un mondo in cui la Presidenza degli Stati Uniti d’America parla di «alternative facts» e definisce i confini di una «post-truth society», fa un po’ ridere che ci sia bisogno di andare a difendere Auerbach dai teorici del post-colonialismo, come Aijaz Ahmad e Abdul R. JanMohamed che «criticano il metodo di Auerbach e la sua ammirazione da parte di Said sulla base del fatto che in realtà Auerbach avrebbe trasceso il suo ancoraggio culturale europeo soltanto per garantire una prospettiva comparatista necessaria alla migliore comprensione del patrimonio nazionale individuale». Più ancora ingenue appaiono le notazioni volte a difendere la filologia in generale dalla critica radicale di Nietzsche o da quella meno radicale, ma comunque feroce, di Benjamin, come se si trattasse di questioni di stringente attualità.

Certo non si salverà la filologia contemperando la prospettiva di Auerbach sul realismo letterario (fondata, peraltro, sulla corrispondenza tra lingua letteraria e umile quotidianità della vita, e pertanto superatissima) col pensiero della Scuola di Francoforte, né armonizzandola rispetto alla critica postcoloniale o venendo a patti con il decostruzionismo delle letture fiume di Derrida, scimmiottate dai close-readers (anche la farsa a volte si ripete in farsa). Peraltro si potrebbe osservare che la filologia non l’ha inventata Eric Auerbach, e di certo non è morta a seguito dell’“evoluzione culturalista” di Said. La sociologia del romanzo medievale di Eric Kohler, sconosciuta in America, nasce nell’ambito della filologia romanza, dalla quale scaturisce anche buona parte del pensiero strutturalista, ad opera di Cesare Segre, e parte consistente della sociolinguistica, grazie ad Alberto Varvaro.

Si potrebbe ancora aggiungere che la filologia si è autocriticata dal suo interno proprio in base a revisioni soprattutto promosse da Paul Zumthor e da Bernard Cerquiglini, che hanno teorizzato (più che dimostrato, a dire il vero) l’incorporeità del testo originario, in base ad un’idea dinamica della tradizione letteraria (almeno di quella medievale, certo), capace di autoprodurre il suo oggetto e di trasformarlo all’infinito. Sarebbe empio non menzionare in questa rapida rassegna Gianfranco Contini, che ha riscritto i connotati della disciplina, ad esempio inventando la critica genetica, insieme ad una nuova idea del concetto di autore. E molto altro si potrebbe dire sulla filologia dell’autografo, su quella del lessico delle emozioni, su quella che ripensa la teoria dei generi o che va a scavare indizi di ripensamento del testo letterario nei dati librari materiali.

Ma il punto non è nemmeno questo, che cioè riabilitare la filologia partendo da Auerbach fa davvero un po’ ridere. Quello che più colpisce e sorprende è il disagio di un sistema culturale che si trova in imbarazzo rispetto a concetti essenziali alla convivenza civile come quelli di “verità” e “fatto”, al punto di viverli come un tabù. Colpisce la necessità di ricorrere a rocambolesche e inaccessibili perifrasi per sdoganare discipline come la filologia che danno questi concetti come un oggetto di indagine, «un’ipotesi di lavoro», come diceva Contini dell’archetipo di una tradizione manoscritta, nemmeno come un dato accertabile necessariamente e in assoluto. Non sorprende che la rinuncia ad un’indagine su queste categorie, che peraltro offre all’attenzione una serie di fatti, l’interpretazione dei quali sarà sempre falsificabile in base ad altri fatti o a una diversa e più corretta interpretazione degli uni e/o degli altri, conduca al punto in cui siamo oggi.

Non sorprende, cioè, che la crisi della filologia, messa da parte insieme agli approcci cosiddetti “colonialisti” ed “eurocentrici” alla letteratura in tutte le più importanti università americane (ma anche da noi, per altre ragioni, non si scherza), conduca ad una sorta di afasia, a uno sbigottimento, di fronte all’arroganza di un’amministrazione che riscrive la realtà in base alla diretta convenienza, disintermediando la propria comunicazione con la base di consenso. Se hai passato trent’anni a dire che non c’è una verità, che i fatti sono solo costrutti culturali che il potere sventola per autolegittimarsi, cosa rispondi quando ad un certo punto qualcuno governa descrivendo i fatti che sventoli come costrutti culturali inventati per delegittimarlo? È esattamente quello che sta accadendo oggi in America, ma domani, continuando di questo passo, potrebbe accadere anche qui.

Il mito del Grande Iran raccontato da Giuseppe Acconcia

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di Mariangela Laviano

grande iran“Il Grande Iran”, titolo dell’ultimo lavoro di Giuseppe Acconcia, edito da Exorma, è un libro che racconta un Paese che, seppur affascinante nell’immaginario collettivo, si presenta però molto complesso, la cui realtà non è così facile da esplorare. Grazie alla bella e piacevole prefazione dello scrittore iraniano Mohammad Tolouei, il lettore occidentale è sollecitato a immergersi, senza restrizioni, nella comprensione dell’Oriente, tralasciando giudizi affrettati ed erronei e prendendo a esempio gli orientali “che cercano di conoscere l’Occidente senza intermediari”.
Da questa sottile esortazione ha inizio una stimolante e coinvolgente lettura, intervallata da riferimenti storici e narrazioni minuziose del paese e della sua società, dove “tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto”. Tehran è fotografata come la “città bizzarra che, vista dall’alto, sconvolge coi suoi 15 milioni di abitanti che si riversano su strade straripanti di macchine, taxi, moto. L’attento osservatore noterà che il canto del muezzin o i minareti delle moschee non invadono i luoghi della città come avviene per altri paesi. Quella di Tehran è una ricchezza degradante che si trasforma in povertà nel sud”.
La chiave di lettura di questo minuzioso e realistico racconto di viaggio è la trasformazione che la Repubblica Islamica dell’Iran ha avuto dapprima sotto il regno della dinastia Qajar (1781-1825), poi negli eventi che hanno portato alla Rivoluzione islamica del 1979 e in seguito al periodo di riforme a opera di Mohammad Khatami (1997-2005). Come negli altri suoi libri (La primavera egiziana e le rivoluzioni in Medio Oriente, Infinito, 2012 ed Egitto democrazia militare, Exorma, 2014) l’autore, facendo esperienza diretta delle realtà di cui tratta e, nello specifico, di alcune delle città più significative dell’Iran, narra le proteste del 2009 e del 2011 contro il noto presidente Mahmud Ahmadinejad (2005-2013) e arrivando ai giorni nostri, racconta gli anni della presidenza di Hassan Ruhani, eletto nel 2013 e definito “l’uomo delle istituzioni rivoluzionarie”, per giungere alle questioni relative all’accordo sul nucleare; il tutto arricchito dalle insolite illustrazioni del vignettista iraniano Touka Neyestani.
L’autore non manca di fornire già nelle prime pagine una spiegazione del perché della scelta di questo paese: “Nel tempo vissuto a Tehran ho cercato di vivere il più possibile immerso nella società persiana. L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte civili, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile. Ai miei occhi, il popolo iraniano vive un momento politico, culturale, sociale e civile unico”.
Acconcia mostra il suo disappunto al progetto di “Grande Medio Oriente” concepito dell’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush dove, a questa follia geopolitica, l’autore contrappone il “Grande Iran” il cui ruolo è da sempre risultato determinante nell’area mediorientale, che ha fatto del riformismo e del rafforzamento della società civile i suoi punti fermi. Accanto però ai tentativi di cambiamento, il tema dei diritti umani rimane tuttavia al centro del dibattito odierno. Se da un lato il ruolo delle ong e delle singole personalità è stato determinante per la difesa dei diritti della donna, il paese mostra ancora una certa insofferenza alla questione di genere. Il controllo dei mezzi di comunicazione è ancora molto forte e nel caso dell’arte, per esempio, nonostante un appoggio formale da parte di centri privati per il sovvenzionamento degli artisti, assistiamo ancora a una censura preventiva da parte di enti statali.
Anche se colmo di contraddizioni, tutto sommato l’Iran di Acconcia mostra grandi risorse e ha davanti a sé un futuro di ricostruzione in cui l’accordo di Vienna sul nucleare potrebbe dare una svolta positiva agli interventi armati in Medio Oriente e rendere questo paese protagonista nella lotta contro lo spauracchio del jihadismo.

Mariapia Veladiano, “Io sto in alto”

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di Antonella Falco

Veladiano

Il libro come oggetto d’arte. Esteticamente bello: da sfogliare, da guardare, non solo da leggere. Curato nella veste editoriale: la finezza della carta, l’eleganza dell’impaginazione, la cura delle rifiniture, la precisione della grafica di copertina, la bellezza delle illustrazioni. E, su tutto, la preziosità di un’edizione unica, limitata e fuori commercio. Un piccolo scrigno di carta, dall’aspetto artigianale, che racchiude un minuscolo prodigio di parole e figure. È tutto questo Io sto in alto di Mariapia Veladiano, «racconto piccolo» – per stessa dichiarazione dell’autrice che tale lo definisce nel sottotitolo – splendidamente illustrato da Edoardo Fontana e pubblicato dall’editore Kellermann di Treviso, nella collana “I quaderni del Panevin” curata da Francesco Permunian.

La prima cosa su cui ci si sofferma sfogliando questa plaquette da collezione è proprio la sezione grafica: fiori, farfalle, figure femminili leggere e sinuose che attraversano impalpabili le pagine nella loro concretezza di sogno. Nell’ammirare il tratteggio minuzioso di un’ala di farfalla o la curva flessuosa che disegna una gamba o la linea che, essenziale e precisa, traccia il profilo di un volto si finisce per avere un sentore del perché l’essere umano, dotato di una simile perizia artistica, stia «in alto»: il «capolavoro della creazione. O dell’evoluzione», come scrive l’autrice nell’incipit del racconto.  Nel breve testo che si alterna alle illustrazioni, infatti, Mariapia Veladiano, ricorrendo alla metafora del volo riflette sulla natura dell’uomo, vertice supremo della creazione, secondo la dottrina cristiano-cattolica, ed elemento più alto della scala evolutiva, secondo una visione più prettamente scientifica. Argomento importante, potenzialmente gravoso, tale da esigere uno sforzo intellettivo e un impegno notevoli: materia buona per un saggio, teologico o scientifico che sia, e invece l’autrice affronta la questione affidandola alla levità di una narrazione letteraria, in cui tuttavia la leggerezza, parafrasando le celebri parole di Italo Calvino, «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

Il racconto di Veladiano è un piccolo apologo di raffinata bellezza. L’essere umano sta in alto, o almeno può starvi, se vuole. Certo, non è provvisto di ali come gli insetti e gli uccelli: per l’uomo «in effetti è più laborioso star su», deve aiutarsi con la tecnica. Ad ogni modo può scegliere, per volare, tra una vasta gamma di «ordigni», velivoli con o senza motore, e può librarsi più in alto di tutti gli altri esseri, quasi fino a «chiamare in causa il trono di Dio», o anche più su, ad esplorare il cosmo: andare sulla Luna, su Marte, spingersi fino ai confini (ve ne sono?) dell’universo. In alto nel cielo. Ma in alto anche nella scala evolutiva: tutti gli altri esseri ai propri piedi. E in alto anche fra i propri simili, in una competizione che può non risparmiare colpi bassi e sgomitate: «E poi c’è sempre qualcuno che vuol andar più su di me e mi tocca prendere la rincorsa, dar calci a destra e a sinistra, far cuore forte perché mica mi posso fermare a veder se stan male, e quando son su mi devo pure guardare intorno, c’è sempre qualcuno che puff mi spilla a tradimento e addio, mi schianto, ecco, e non è che le metafore facciano meno male del duro suolo».

E allora ecco farsi strada un desiderio di quiete, la ricerca di un momento di tregua in tanto battagliare, volersi far pianta, fiore o bestiola, ché il volersene stare in alto ad ogni costo non sempre è motivo d’orgoglio: «Così mi incanto qualche volta, forse solo per riposarmi. Mi incanto a diventare pianta e fiore, immaginarmi tronco con portamento infuso, si può dire infuso? Naturale ecco. E poi uno stelo, sentirmi nell’aria e chiedermi come sto? Bene? Mi dondolo. E poi ancora mi trabocca lo struggimento di voler diventare arvicola e riposare sotto un franare piccolo di pinoli leggeri. Aspettare la neve. Coperta di cristallo, come Biancaneve, che idea bambina viene quando la lotta ci sfianca e non si vuol saper più nulla di sangue e ordigni e artigli. Anche criceto delle nevi, zampette di cristallo sui silenzi, da perderci lo sguardo nel bianco, filo di vita minuta. Perché c’è il silenzio, ecco, il silenzio fino ai quattro punti cardinali. Piegati in orizzonte bianco. E nel silenzio il sorriso di una lama pensante che un poco ci guarda. Ironico anche lui. Forse malinconico. O solo comprensivo».

L’argomento, come si è detto, presenta non poche implicazioni filosofiche. Tanto per citare un pensatore, tra i tanti che si potrebbero menzionare, la questione del ruolo e del posto che l’uomo occupa nel mondo (o, in un’ottica religiosa, nel creato) richiama alla memoria un celebre passo dell’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola che pone l’accento sul libero arbitrio umano il quale consente all’essere più alto della creazione di plasmarsi secondo la propria volontà, tanto nel bene quanto nel male: «Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nelle forme che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». Un concetto in parte non dissimile viene espresso un paio di secoli dopo da Blaise Pascal che vede nell’uomo un essere mediano fra l’angelo e la bestia, o anche «un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto», ossia «un nulla in confronto all’infinito», ma «un tutto in confronto al nulla». Ad ogni modo quella che per Pascal è una forma di mediocrità, per Pico della Mirandola è motivo d’eccellenza: la volontà permette all’uomo di determinarsi in una natura o nell’altra e questo lo rende superiore agli angeli. La superiorità consiste, dunque, nella facoltà di scegliere liberamente, nell’autodeterminarsi.

Questi sono tuttavia i piani alti, e per alcuni ostili, della trattatistica filosofica. Come sempre Mariapia Veladiano, con la sua scrittura delicata, sobria, elegante riesce a trattare temi importanti in una maniera accessibile anche a chi è poco avvezzo alle grandi speculazioni. La sua prosa è esprit de finesse che tiene conto dei moti dell’anima, che osserva con sguardo indulgente le passioni contrastanti e le piccole meschinità umane, e che parte da una conoscenza esistenziale più che sapienziale. C’è un tentativo di sintesi e di semplicità negli scritti di Veladiano, un voler essere spunto di riflessione e confronto più che verità rivelata e imposta senza contraddittorio.

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Una menzione speciale meritano le illustrazioni di Edoardo Fontana, disegnatore e grafico editoriale dedito da anni alla xilografia, arte antiquaria che nelle sue stampe risplende di nuova linfa. E proprio alle opere di un noto xilografo italiano del Novecento, Francesco Nonni, si ispirano i disegni realizzati da Fontana per Io sto in alto. Nella fattispecie, la grande illustrazione che campeggia al centro del libro appare fortemente ispirata a Il volo, una xilografia particolarmente complessa che Nonni realizza tra il 1913 e il 1914 ricorrendo all’impiego di sei matrici lignee diverse per l’applicazione dei vari colori (metodo non di rado usato da Nonni la cui emblematica figura di incisore viene ricordata anche per la capacità di realizzare xilografie di estrema difficoltà tecnica.

 

Edoardo Fontana illustrazione per Io sto in alto
Edoardo Fontana, illustrazione per Io sto in alto

 

Nonni-Volo
Francesco Nonni, Il Volo

nonni vere***

Il medesimo procedimento con sei matrici è usato, ad esempio, anche in un’altra sua celebre incisione, Vele romagnole, realizzata anch’essa tra il 1913 e il 1914). Il volo di Francesco Nonni si compone di tre figure alate: quella al centro fornisce innegabilmente a Fontana lo spunto per il suo disegno, permettendogli inoltre di omaggiare Nonni anche attraverso un altro richiamo stilistico: infatti tanto nelle xilografie quanto nelle ceramiche Nonni era uso tracciare delle spirali per disegnare i capelli, Fontana riprende questo dettaglio nelle piccole volute che decorano le ali delle farfalle collocate intorno ai piedi della figura femminile in posa semidistesa.  Farfalle che a loro volta richiamano una delle tre figure alate de Il volo di Nonni avente per l’appunto ali di lepidottero (le altre due hanno rispettivamente ali piumate e ali reticolate).

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Edoardo Fontana illustrazione per Io sto in alto 2
Anche l’ultima tavola contenuta nella plaquette cita Nonni, questa volta attraverso il riferimento a La rupe, parte di un trittico del 1908 noto col nome di I canti di Faunus, sebbene il motivo della rupe ritorni spesso nelle opere dell’incisore faentino tanto da rendere difficile rintracciare la vera origine dell’ispirazione di Fontana, che potrebbe aver attinto anche – e solo per fare due esempi – a L’olmatello (opera del 1925 che unisce le tecniche dell’incisione e dell’intaglio e che ha comportato l’impiego di quattro matrici) o a Vere, incisione su legno di testa, a due matrici, del 1912.

Ad ogni modo tale ricchezza di rimandi dimostra come i disegni di Fontana, in apparenza molto semplici, siano in realtà costruiti seguendo simmetrie e suggestioni talvolta sfuggenti, per stesso volere dell’artista, e tuttavia molto precise e circostanziate.

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L’illustrazione realizzata da Fontana per la copertina del libretto fa pensare invece a un ikebana, l’arte giapponese della disposizione dei fiori recisi, rinviando in tal modo a una passione dell’illustratore che proprio in Giappone ha affinato la sua arte incisoria e che della cultura e dell’arte nipponica è un fine conoscitore. Nella composizione dell’ikebana i fiori e i rami sono disposti sulla base di un sistema ternario che quasi sempre viene a tracciare la forma di un triangolo: il ramo più lungo – considerato anche il più importante – rappresenta il cielo o qualcosa che tende ad esso, il ramo più corto simboleggia la terra, quello intermedio raffigura l’uomo. L’ikebana, espressione di armonia, rimanda appunto alla necessità che questi tre elementi hanno di armonizzarsi fra loro per dar vita all’universo. L’illustrazione di Fontana rappresenta dei fiori stilizzati disposti per l’appunto secondo il tipico schema ternario della composizione floreale giapponese e sembra compendiare e racchiudere magnificamente in tale immagine, al tempo stesso semplice e potente, il senso del racconto di Mariapia Veladiano, confermando ancora una volta un binomio tipico dell’arte di Fontana, vale a dire la perfetta fusione tra semplicità delle forme e incisività del messaggio.

Infanzia salentina

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di Nicola Fanizza

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( pubblico un estratto del libro di Nicola Fanizza Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini, edizioni del Sud, 2016, la cui presentazione avverrà oggi a Milano 21 gennaio 2017 alle ore 12.30 presso Superstudio più via Tortona 27. Interverranno Aldo Giannulli, Giovanni Carosotti, Federico La Sala. g.m.)

Il 7 gennaio 1936, Francesco Morelli, funzionario della polizia politica di Milano, si recò in via Conservatorio n. 17, dove abitavano la scrittrice Maddalena Santoro e il suo convivente, il conte Paolo Alberto Colombini. Il funzionario aveva ricevuto l’ordine di requisire al conte i telegrammi spediti dalla Segreteria particolare di Benito Mussolini.

Colombini scriveva libri per ragazzi e nei due anni precedenti aveva donato al Capo del governo alcune sue pubblicazioni: a ciascun omaggio – quattro libri in tutto – aveva fatto seguito un telegramma di ringraziamento da parte di Osvaldo Sebastiani, il segretario particolare del duce.

Quest’ultimo, insospettito, però, per l’insistenza con cui il Colombini aveva chiesto di essere da lui ricevuto, fece assumere informazioni dal Prefetto di Milano; e appurò cosi che si trattava di un pregiudicato dalle numerose condanne – una decina per truffa, falso in passaporto, falso in cambiali, ecc. – e che da circa un anno era diventato l’amante di Maddalena Santoro.

Dopo aver letto il nome della scrittrice salentina, ed essendo consapevole che la Santoro era stata l’amante del fratello del duce, Sebastiani informò subito Benito Mussolini, che, a sua volta, diede l’ordine al capo della Polizia di attivarsi per sequestrare i quattro telegrammi della Segreteria che erano nella disponibilità del conte.

Il funzionario incaricato del prelievo nella sua relazione scrive: «Ho adempiuto, recandomi al 2° piano nel sontuosissimo appartamento di via Conservatorio 17, ove il Colombini è andato a installarsi da circa sei mesi, raggiungendovi l’amante, la signora Maddalena Santoro (…). Durante la conversazione fra me e il Colombini, la signora Santoro è intervenuta per dichiarare la sua viva apprensione che il mandato da me assolto fosse ispirato da “prevenzioni” non contro di “lui”, ma contro di lei. L’ho rabbonita e il colloquio si è concluso amabilmente»1.

Maddalena Santoro aveva detto al poliziotto che quel mandato si configurava come un atto ostile nei suoi confronti, lo avvertiva come una minaccia, come un avvertimento, era come se le avessero detto: ti stiamo col fiato sul collo e attenzione a come ti muovi!

Sapeva, infatti, di essere controllata e aveva buone ragioni per ritenere che quel mandato non fosse ispirato dalle «prevenzioni» sul possibile uso che il Colombini avrebbe potuto fare di quei telegrammi, ma rientrava, invece, a pieno titolo nello stillicidio di intimidazioni e persecuzioni messe in atto dal duce nei suoi confronti.

Le persecuzioni erano iniziate nel dicembre 1931, allorquando Benito Mussolini, dopo la morte di suo fratello Arnaldo, aveva dato l’ordine alla polizia politica di controllare tutti i suoi movimenti. Che cosa temeva Mussolini? Perché aveva dato l’ordine di sottoporla ad assidua sorveglianza? Perché venivano controllati tutti quelli che entravano in contatto con lei? Quali erano i segreti che la Santoro custodiva?

La risposta alle domande di cui sopra sono rinvenibili nelle pagine che seguono, le quali sono incentrate sulla vita, sugli amori e sulle opere di Maddalena Santoro, una scrittrice che, a partire dal secondo dopoguerra, è stata estromessa dal panorama letterario del Novecento.

La mia attenzione nei suoi confronti è in larga parte ineffabile. Fra i motivi che mi hanno spinto a scrivere c’è la casualità legata a un furto avvenuto a Mola nel giugno 1997. I ladri riuscirono a trafugare parte dei mobili2 che, dopo la vendita del palazzo Pesce, erano stati depositati nella casa dello scrivente. E tuttavia, fortunatamente, abbandonarono per terra le lettere contenute in un comò. Si trattava delle missive inviate da Maddalena Santoro alla sua amica Caterina Tanzarella. La lettura di quelle lettere ha stimolato la mia curiosità nei confronti di un personaggio che, inizialmente, potevo identificare solo con il nome che compariva in esergo: Maddalena! Maddalena per diverso tempo è stata per me un’incognita, non riuscivo a identificare il suo cognome. Ciò nondimeno, col tempo, attraverso una lenta impazienza, sono riuscito a rendere meno opaca la sua immagine.

Non so quanti ricordino Maddalena Santoro, una singolare figura di scrittrice salentina; e quanti – meno ancora, immagino – conoscano le sue opere. Eppure, grazie alla sua attività di giornalista, di poetessa e di scrittrice di romanzi, era riuscita a ritagliarsi un notevole spazio nel contesto culturale del ventennio fascista.

Terza di sette figli – quattro femmine (Dolores, Ginevra, Maddalena e Regina) e tre maschi (Achille, Giuseppe e Michele) –, Maddalena Santoro nacque a Lecce il 13 dicembre 1884 da Saverio, avvocato e pubblicista, e dalla gentildonna Maria Elisabetta Lo Re.

Imparò a leggere e a scrivere, senza difficoltà, prima che avesse l’età richiesta per cominciare ad andare a scuola. Assisteva alle lezioni che sua madre faceva ai suoi fratelli maggiori, e apprendeva prima di loro. Aveva una memoria straordinaria. Le bastava leggere o ascoltare qualche cosa due tre volte, perché la potesse ritenere e ripeterla meravigliosamente.

Avviata agli studi, manifestò ben presto una spiccata intelligenza e una notevole sensibilità. Tuttavia, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, per le ragazze appartenenti alle famiglie di estrazione borghese non era per nulla scontato né usuale frequentare le scuole superiori. Tanto è vero che Saverio Santoro era intenzionato a far proseguire gli studi solo a figli maschi e giammai alle figlie femmine. Fu il direttore didattico a convincerlo a far iscrivere sua figlia Maddalena al Regio Liceo Palmieri di Lecce, dove diede prova di una notevole predisposizione verso la creazione letteraria.

Maddalena, a tale proposito, scrive:

«Ricordo perfettamente che a scuola, fin da piccola, mi appassionavo moltissimo allo svolgimento dei temi d’“Italiano” e detestavo la matematica. Una volta, avendo finito prima del tempo assegnato il compito in classe, mi misi a scrivere dei versi, senza aver mai studiato la metrica e senza averne sentito parlare.

La maestra, vedendomi assorta, s’avvicinò, e lette le due o tre quartine che quasi inconsciamente, certo senza alcuno sforzo, avevo composte, mi chiese:

  • dove le hai imparate? –
  • Che cosa?

La guardai stupita.

– Dove l’hai letta, chi t’ha insegnata questa poesia che hai scritto? – ella insistette, esprimendo con altre parole la medesima interrogazione.

– Nessuno, – risposi arrossendo, senza capire il lusinghiero significato di quella domanda, e piuttosto impacciata, anzi, quasi fossi stata sorpresa in flagranza di colpa! – Avevo finito il compito…. Non sapevo cosa fare, e….

La maestra s’allontanò, senza dare alcuna importanza alla cosa, convinta ch’io avessi messo sulla carta delle reminiscenze più che pensieri; io continuai a scrivere; e la poesia, spontaneamente sbocciata dal mio fresco spirito di bambina ancora ignara, fu pubblicata qualche mese dopo in un giornale di provincia, per desiderio d’un amico del povero papà mio, che ne era il direttore»3.

Maddalena era troppo sensibile. La sua eccessiva sensibilità non le consentiva di reggere alle emozioni forti. Quando sua madre morì per ragioni connesse alla gravidanza, Maddalena aveva appena tredici anni. Non ebbe nemmeno il tempo di abituarsi all’idea della sua morte. Ne fu desolata, ne fu sconvolta a tal punto da non poter mangiare per diverse settimane, da non poter addormentarsi per moltissime notti. Lo spettro della morte e, in particolare, il fantasma della morte di parto si farà latore di incubi che Maddalena cercherà di esorcizzare attraverso la scrittura.

Durante gli anni del Liceo, Maddalena stringe una forte amicizia con la compagna di classe Caterina Tanzarella, figlia del medico Gaetano, il quale fu deputato nel Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto dal 1873 al 1907. Caterina era nata a Ostuni e per frequentare il Liceo si era trasferita a Lecce, presso il collegio delle Marcelline. Questa amicizia durerà per tutta la vita ed è testimoniata da un intenso scambio epistolare.

Maddalena era una ragazza dolce e, insieme, determinata, era sempre indaffarata e non sprecava mai il suo tempo. Era ordinata in tutte le cose che faceva e non è un caso che all’anagrafe di Lecce, nella situazione di famiglia dell’avv. Saverio Santoro, Maddalena è indicata come «impiegatessa».

Era a tal punto diligente nello studio da spingere le sue compagne di classe a recarsi a casa sua ogni pomeriggio – mettendosi in coda – per poter ottenere le versioni da lei approntate dei brani di latino o di greco.

Nei periodi in cui non andava scuola, Maddalena si trasferiva nella villa di famiglia che era ubicata a San Pietro Vernotico, un comune che si trova a metà strada – venti chilometri – fra Lecce e Brindisi. Qui si immergeva nella lettura; scriveva poesie e novelle che, con l’aiuto del padre, venivano pubblicate sui giornali di provincia; e curava i rapporti epistolari con amici e scrittori.

Solo quando in estate si trasferiva a Marina di Castro lo splendore del paesaggio sostituiva nei suoi pensieri la scrittura: «la spiaggia non offre carta meno interessante: vorrai, dunque perdonare»4, è questo l’incipit della lettera che Maddalena invia, in data 27 settembre1919, alla sua amica Caterina Tanzarella.

Qui Maddalena prestava attenzione al vento, ne sentiva le voci e gli odori, così stranieri, leggeri e invisibili. Voleva restare lì per imparare ad ascoltare il vento, ad annusare, a porgere la mano al vento; come se fosse un compagno d’avventura; come fosse un antico conoscente, familiare e, insieme, affascinante, che ci prende per mano, fa volare le foglie e la polvere e per pochi istanti fa dimenticare della gravità che ci tiene attaccati alla terra. Sperava di essere accarezzata dalla brezza, voleva avvertirne il fremito sulla pelle e abbandonarsi, dolcemente, ai sogni d’amore. Sognava un amore fatto di vento, un vento che ti entra dentro, lascia i pensieri in tempesta e appena si allontana ti manca l’aria.

 

 

Overlove – Alessandra Minervini

2

                 Anteprima del romanzo d’esordio di Alessandra Minervini

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A Taranto la luce naturale era scomparsa, offuscata dalle ombre dei palazzi, delle macchine, delle pietre. Molte pietre. Una sull’altra. Le vedevo ovunque. Arrivavano fino al cielo. Pietre al posto di nuvole, una prospettiva celeste all’incontrario. Il punto più alto della città era il punto più basso dell’umanità. Il fumo rosso che accomuna e livella.

Per raggiungere il cimitero seguimmo le indicazioni dell’acciaieria. Si trovano allo stesso incrocio, lungo la via principale.

L’impiegato cimiteriale, Nino Campagna, aveva due amuleti al posto degli occhi. Pupille giganti che si contorcevano dentro l’orbita affusolata. Ci aveva accolto all’ingresso del suo ufficio con questi due occhi sgranati a monito.

Mario si era accorto prima di me della carogna per terra. Del corpo dell’animale era rimasto ben poco. Si riconoscevano le zampe, scorticate e ruvide, la pelle ispida accartocciata davanti alla porta monumentale del cimitero, rimasugli di narici ed escrescenze pilifere non identificabili. Nino Campagna, con il corpo piegato leggermente in avanti, la testa sporgente e le mani a tappare il naso dal tanfo, ci aveva chiesto che animale fosse quello. Secondo noi.

«Un maiale», avevo risposto decisa. Era stata la prima cosa che mi era venuta in mente, mentre mi chiedevo se scuoterlo o ignorarlo.

L’impiegato Campagna ci aveva chiesto se potevamo aiutare a spostarlo, almeno con i piedi, in modo che non stesse tronfio all’ingresso del cimitero. E poi aggiunse che non era possibile che fosse un maiale. «Tutto, ma un maiale qui no», aggiunse.

«Picasso diceva che siamo ciò che conserviamo. Qua sotto non c’è niente. Non vedete? Del maiale è rimasta solo la pelle». Mario adorava officiare i suoi ingressi con citazioni che destavano, in chi lo ascoltava, un sentimento di profonda inadeguatezza. Questo faceva Mario Destino.

«Sempre se di maiale stiamo parlando. Facciamo che intanto è un rimmato», precisò l’impiegato con una falsa erre blesa. Sottraendosi al complesso d’inferiorità nei riguardi di Mario.

Scoppiammo a ridere così forte che sembrò che la nube tossica dell’Ilva ci stesse facendo il solletico, per quanto era vicina. Fu più eccitante del bacio cinetico del giorno prima, fu più eccitante di tutti i nostri baci. La cosa più sessuale.

Nino Campagna, a giudicare dalla forma del suo sopracciglio, unico, corvino, come di vibrisse, disapprovava le nostre risa. Non aveva alcuna intenzione di scherzare.

«In questa zona non ci sono maiali. Solo vacche. Un paio di allevamenti. A Taranto non ci sono maiali. Se ci sono, non sono del posto. Se questo è un maiale, non so da dove viene».

«Ci saranno allevamenti in zona», disse Mario, per il quale la carcassa dell’animale era diventata l’unica ragione, nella trama della sua testa, per trovarsi lì.

«Sentite, il maiale non ci interessa. Voi siete Mario Destino, ammericano di origini tarantine?»

«Sì, sono io».

«Siete venuto per vostro nonno?»

«Esattamente».

«E allora seguitemi».

«E il maiale?», feci io.

Ce ne fregammo del maiale e per tutto il tragitto verso la tomba del nonno di Destino nessuno parlò più della sua provenienza e di come sbarazzarsene.

 

Non avevo mai visitato un cimitero. Non ci ero mai entrata. Che poi si dovrebbe dire uscire da un cimitero più che entrare, dal momento che è tutto all’aria aperta. L’ho sempre ritenuto un posto inutile. Dovrebbero bruciarci tutti oppure fare di noi concime. Sostituire i cimiteri con scuole e giardini pubblici. Anche i bagni pubblici sarebbero più utili dei cimiteri.

La procedura prevista per Destino senior era raccapricciante. Almeno a sentire l’impiegato Campagna. L’estumulazione è un atto di sfratto. Dopo vent’anni che sei stato morto dentro un feretro, devi fare posto a un altro morto oppure la tua famiglia si deve incaricare di pagare, allo Stato, il prolungamento del tuo soggiorno.

Una volta aperta la bara dovevamo valutare la consistenza della morte. Se il nonno di Mario fosse stato ben scheletrizzato allora Nino Campagna lo avrebbe preso, avrebbe raccolto tutto ciò che rimaneva in una cassettina. Era tutto molto chiaro. Non avevo voglia di assistere.

«Vado via».

«Non farlo».

«Non mi piace qua. Troppi fantasmi».

«I fantasmi non esistono. Per questo non ce ne liberiamo mai».

Di nuovo mi spostai la frangia, ma questa volta in senso contrario: da destra verso sinistra. L’impiegato Campagna chiese se poteva procedere, aveva fretta, per via del cadavere del maiale, bisognava risolvere la questione e fui io, per prima, a rispondere di sì, «velocemente».

 

Il nonno di Mario Destino si chiamava Mario Destino. Non avevano in comune solo il nome, e il sangue. Ma anche i baffetti e la mancanza di barba. I capelli ondulati del nonno defunto si erano conservati, erano attaccati come a un corpo vivo. Il nonno era quasi intatto. Uno degli operai scattò una foto per condividerla con i colleghi: mai, nella sua carriera di becchino, un corpo aveva resistito così bene alla morte come quello di Mario Destino. Era intatto, non solo baffi e capelli. Anche la pelle e tutto il resto erano intatti. Mario disse che più che un morto decrepito di cento e passa anni pareva un neonato.

«Non è prevista l’estumulazione se il corpo è ancora un corpo», Nino Campagna sbranava le parole e sogghignava, facendo brandelli del viaggio di Mario.

«Il maiale sta messo peggio di tuo nonno», dissi. Ormai un’ossessione. Il maiale.

Mollammo tutto, nonno e operai. Non c’erano gli estremi per procedere.

Nell’ufficio di Campagna, all’ingresso, il maiale era ancora lì ad ammonirci con il mezz’occhio che gli era rimasto. Spaventoso nella sua decomposizione.

«Ci vorrebbe un miracolo», disse Campagna facendo eco con le finali per darsi un tono.

Non sapevo se si riferisse al nonno o al maiale. Restammo in silenzio tutti e tre davanti a quella carcassa puzzolente.

Prima di andare via, prima di lasciare il cimitero e Taranto, aiutammo Campagna a sbarazzarsi della carogna. Campagna ci disse che quella notte l’avrebbero incenerita e ci tenne a sottolineare ancora la preziosa meraviglia, quasi ne andasse fiero, che provava davanti a quel corpo. «I maiali non sono di queste parti. Da dove è venuto fuori questo?»

 


 

 Alessandra Minervini è nata a Bari, dove ora vive. Suoi racconti sono stati pubblicati da alcune riviste tra cui “Colla”, “EFFE”, “Cadillac”. Affidandosi al pensiero di John Fante: “Per scrivere bisogna amare e per amare bisogna capire”, organizza e tiene corsi di scrittura.

Transito all’ombra

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di Gianluca D’Andrea

La storia, i ricordi

III.

Il pettirosso e il piccione spartivano
i quadrati di spazio nel cortile.
Il cibo sono le tovaglie scosse,
l’aria riposta e tutte quelle briciole

che volano, mentre un tanfo da sud
mi ricorda la strada dei rifiuti,
il loro essere raccolti in sacchi,
incubati, prodotti, mai smaltiti.

Dal mare, poi, la brezza arriva dolce,
sul viso la carezza si trasforma,
da dietro, come un impaccio, colpiva

il libeccio e il respiro, diventando
lezzo, poteva adesso riportare
il messaggio lontano della fogna

che, muta e pregna, vomita nel mare.

VII.

Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo
il passaggio del millennio e il livello
si ridusse in esplosioni nere,
i grattacieli, gli uccelli, figure
disegnate come rondini nel cielo cupo,
fissi a un dislivello in cui le frontiere
e gli impatti ebbero il dissapore
del dubbio. Da allora niente,
una scomparsa, idee allusive:
mura tra virtù fibrose,
connesse all’impaccio di un’agricoltura di ritorno.
Il campo è coperto di residui,
la polvere aspetta l’acqua che la copre.
Poi, un po’ di sopravvivenza della luce
senza il coraggio della presa,
volte e architravi e solchi
e tranci di cielo rosa.
Parlavamo minimale o tronco,
in astratto, di traiettorie interstellari,
membrane, lacci e buchi,
quante soluzioni per le mani,
proteggemmo persino i liquami
che intanto scorrevano nei parchi,
nei campi.
Per anni osservammo le nuvole
accompagnando ai pronostici
le previsioni meteo e uscivamo
cercando di portare a casa la pappa;
un padre torna con un sacchetto,
nell’altra mano la figlia
stringe (o è stretta),
accanto un’auto calpesta le foglie.
Ci accampammo per alcuni giorni
tra le macerie, ai margini di altre dimensioni.

***

Lettera a mia figlia

Cara piccola Sofia,
non c’è mondo che si apre
oltre la tua possibilità di vedere,
per questo osserva tanto,
comprendi i tuoi confini,
ciò che senti ricordalo perché ti aiuti
quando continuerai a scoprire sola
la tua voglia di scoprire.
Non ascoltare chi dirà che nulla
è questa fine, perché sarà la fine.
I tuoi giochi e la ricerca
di un consenso sono l’umanità
che è sola nell’individuo, corale
nella necessità.
Tutti siamo piccoli, Sofia,
e abbiamo poco o niente da dire,
eppure questo fiato, così buffo,
è il dovere che ci unisce e dissolve.

 

Poesie da Transito all’ombra (Marcos y Marcos, 2016)

Emilio Villa tra Rilke, Rothko e Zanzotto: finestre per la monade

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di Biagio Cepollaro

Il volume dal titolo “Emilio Villa e i suoi tempi” raccoglie tre saggi, due del massimo esperto di Emilio Villa, Aldo Tagliaferri, e uno di una giovane e brillante studiosa, Chiara Portesine. L’opera costituisce un importante contributo critico e filologico alla conoscenza del grande poeta novecentesco. Il sottotitolo del volume recita: “Finestre per la monade”. E’ proprio quest’apertura il senso più profondo di tali studi che mostrano come l’idea di un Villa isolato, non comunicante, misterioso e fantasmatico sia del tutto errata. Nell’introduzione, scritta a quattro mani, si legge: “la marginalità orgogliosamente esibita da Villa ha con­dotto erroneamente i critici a confinare la sua produ­zione entro un bozzolo immunitario, una monade sen­za finestre sul presente storico e sui processi letterari coevi. Questo approccio internalista, spesso suffragato da aneddoti biografici tesi a dimostrare lo scandalo di una condotta di vita borderline, risulta in primo luogo semplicistico giacché, relegando Villa in uno spazio let­terario fuori portata, si riduce il lavoro esegetico alla mera constatazione della sua inaccessibilità e oscurità testuale, forzando il poeta di Affori nei panni di un Campana della postmodernità, senza cercare un acces­so più problematico al suo sistema di pensiero (dotato, invece, di coerenza logica, cronologia di fasi e piena dignità speculativa).” E’ d’altra parte vero che Emilio Villa per molti decenni è stato un autore conosciuto da pochissimi, da iniziati, da persone interessate in modo specifico alla sperimentazione poetica e alle avanguardie.

Negli ultimi anni, in modo sorprendente, ci sono state non poche iniziative editoriali e manifestazioni che hanno fatto “girare” il suo nome, anche su social network. Le tecnologie attuali hanno permesso il miracolo che la tradizionale editoria, anche eroica, non ha mai potuto o saputo produrre. Ma la moltiplicazione di queste iniziative, su Facebook ad esempio, non ha intaccato sostanzialmente il mito di Villa come autore separato, monadico, solitario e indifferente: occorreva un approccio filologico, storicamente informato e metodologicamente rigoroso, per capovolgere e dissolvere in via definitiva questa leggenda. La verità storica che emerge ci restituisce un’immagine se possibile ancora più interessante dell’autore, alle prese con gli esordi ermetici da un lato e dall’altro con l’affermazione rumorosa della Neoavanguardia agli inizi degli anni ‘60.

Scrivono i curatori, sempre nell’introduzione: “Il pensiero di Villa sembra aderire maggiormente alle soluzioni grafiche dell’astrattismo americano piuttosto che ai tentativi di congedare il fantasma del post-ermetismo proposti da­gli autori italiani più accreditati, prospettando così una fuoriuscita dal cortocircuito letterario degli Anni Cin­quanta e Sessanta attraverso una “deterritorializzazio­ne” nel campo delle arti plastiche, in un innesco icono­grafico dell’opera poetica particolarmente originale rispetto ai paradigmi dominanti.”  Le strategie poetiche di Villa sono spiazzanti ancor più dei singoli testi, talvolta oscuri e vertiginosi. 

Il poeta lombardo qui viene studiato nelle sue profonde connessioni sia con l’arte visiva americana, con la conoscenza e l’esperienza diretta del lavoro di Rothko e Duchamp, sia con Andrea Zanzotto e, prima ancora, da giovane poeta-critico, con Rilke. Il rapporto con Zanzotto, indagato minuziosamente e con acribìa documentato da Portesine, rivela come colui che sarebbe in seguito diventato poeta più noto e celebrato si sia rivolto a Villa per trovare delle sintonie e degli stimoli creativi che sondassero delle strade poetiche diverse da quelle percorse e occupate dalla Neoavanguardia. Si trattava per entrambi di cercare delle alternative all’ermetismo, esperienza ormai consumata da superare. Questa traccia è la più sorprendente e, in un certo senso, rivoluzionaria sia per la collocazione di Villa, sia per quella di Zanzotto. Al poeta veneto si riconosce per questo legame con Villa in modo esplicito la sua natura sperimentale, incoraggiando letture più coraggiose e indipendenti.

Aldo Tagliaferri, con il rigore, la complessità e la finezza che lo contraddistinguono, getta una luce sulla preistoria della poetica di Villa attraverso una giovanile recensione di Rilke che lascia presagire molto di ciò che verrà scritto: qui non è tanto il simbolismo de “Le lettere ad un giovane poeta” tradotte in francese nel 1938 a interessare, quanto la lingua, anzi il particolare legame che Villa intravede in Rilke tra cose e lingua. Tale spostamento va nella direzione di liberare l’interpretazione di Rilke dalle ipoteche poste dal lirismo ermetico in voga in quel periodo. Villa tende a costruire il nocciolo della sua poetica proprio misurandosi con un’autonoma interpretazione di Rilke e ciò quando la temperie ermetica risultava dominante intorno a lui. A tal proposito a pag 16 si legge: “Il poeta-critico si rende conto che l’essenza della poesia consiste nell’affrancare l’e­sperienza esistenziale del mondo dal mascheramento sostitutivo del linguaggio, con l’apporre una contro­maschera alla maschera, una sordina che attenui e stemperi la referenzialità della parola.”

Ed è proprio la necessità di liberarsi dalle pastoie dell’ermetismo e, contemporaneamente, di evitare l’accademico avanguardismo del Gruppo 63 che spinge Zanzotto verso la sperimentazione di Villa, garanzia di ricerca profonda, archetipica, autenticamente rivolta alle Origini. Chiara Portesine esibisce con perizia, anche metodologica, le prove che mostrano come Emilio Villa sia un autore importante di riferimento all’origine non solo di tanta sperimentazione  che non si identifichi sic et simpliciter con le ideologie della Neoavanguardia ma anche di chi, come Zanzotto era ben lontano da quei territori pur non volendo rinunciare alla ricerca centrata sul linguaggio.

Le prove portate a sostegno di tale connessione sono sia di natura tematica che stilistica e linguistica. A pag. 45 si legge: “Tuttavia l’operazione di Zanzotto è ben più com­plessa (e sperimentale) di quanto non possa apparire a una campionatura delle dichiarazioni di poetica e dei proclami militanti alla non-militanza. Zanzotto non è contrario allo sperimentalismo tout court ma a quello sperimentalismo terroristico su cui si fonda la propaganda neoavanguardista; è consapevole di vive­re in un’epoca necessariamente ibridata, in cui il lin­guaggio poetico si è dissolto nell’«effetto Alka-Seltzer» di cui parlava Enzensberger, in un «estetico diffuso» che contagia gerghi tecnici e dialetti, dantismi e fu­metti.”

Ecco perché compaiono la figura e il lavoro di Villa: “La figura di Emilio Villa non poteva passare inosserva­ta ad un autore che, come Zanzotto, stava cercando di qualificare una propria opzione sperimentale senza pa­gare l’obolo al monopolio stilistico della Neoavanguar­dia. Alla periferia limitrofa del Gruppo 63 (nell’area se­mantica di Costa e Spatola piuttosto che in quella “aurea” di Sanguineti e Balestrini), Villa allestisce un proprio la­boratorio laterale, in un tentativo di reagire da autodi­datta allo sgretolamento di codici (formali e morali) del­la società dei consumi.” (pag. 55).Questa una delle tesi più importanti della giovane studiosa che viene poi provata a livello documentale. Tra gnosticismo e suggestioni scientifico-tecnologiche si aprono zone di condivisione, coincidenza ed empatia tra i due poeti.

A pag. 70 si legge: “L’opera­zione villiana consiste proprio nell’assimilazione grafica di stilemi geometrici o matematici, traslitterati in chiave poetica.” In tal senso non distante da Zanzotto che in “ Oltre Babele, aveva affratellato simbologia matematica e scrittura ideografica come risposte opposte ma conver­genti alla disgregazione babelica.” Insomma si tratta di generali strategie poetiche non molto differenti se  “Pre-verbale e post-verbale si configurano come uniche alternative al chiacchiericcio contemporaneo, alle angustie di un italiano standard contaminato dai tic televisivi, dall’impoverimento massmediatico della sintassi” (pag. 71).

Emilio Villa e i suoi tempi offre senza dubbio un importante tassello non solo alla conoscenza di un poeta come Emilio Villa ma anche alla messa a fuoco dello sperimentalismo zanzottiano, suggerendo approcci e sistemazioni storiografiche per nulla scontate e conformiste. La storia del secolo scorso, della sua seconda metà, va riconsiderata: va meglio compresa la portata effettiva della centralità del movimento della Neoavanguardia alla luce di quanto contemporaneamente e da prima in modo carsico ridisegnava un paesaggio non altrettanto visibile. Non solo l’itinerario sperimentale di Zanzotto ma la stessa galassia del Gruppo 63 che non coincide con I Novissimi probabilmente deve più a Villa che a qualsiasi altro autore. Tale contributo critico lascia intuire anche la fecondità del nesso tra la grande arte americana ed europea degli anni ’50 e un’idea altra di poesia, perseguita da Villa come da Zanzotto, che contrapposta all’asfittico e tradizionale panorama dei letterati italiani di quegli anni, fa proprio, a costo di isolamento e marginalità, il coraggio dell’autentica ricerca.

 

Aldo Tagliaferri e Chiara Portesine

Emilio Villa e i suoi tempi

Mimesis/Ricerche e studi villiani, 2016

Pagg. 190.  Euro 18,00

 


Per la recente “fortuna” sul web  e la  recentissima creazione del fenomeno che si potrebbe definire dei “fan” di Emilio Villa ci si può riferire al lavoro di appassionata militanza realizzato da Enzo Campi.

AA.VV.
Parabol(iche) dell’ultimo giorno
Per Emilio VillaDot.Com Press – Le Voci della Luna edizioni, 2013
antologia di prosa, poesia e saggistica a cura di Enzo Campi

https://parabolichedellultimogiorno.wordpress.com/

In particolare alla pagina dedicata su Facebook e al relativo “gruppo” https://www.facebook.com/groups/552528871491941/?fref=ts

Per alcune mie brevi considerazioni sul rapporto tra Emilio Villa e Edoardo Sanguineti, con riferimenti a Zanzotto, rimando ai video del 2012:

https://youtu.be/_n4-HXlc_Pw

https://youtu.be/C93sIOEVBMc

https://www.youtube.com/watch?v=HPpsLyKIDU4

Ricardo Piglia come meta e punto di partenza

1

(Il 6 gennaio è morto uno dei più grandi scrittori contemporanei, l’argentino Ricardo Piglia. In Italia, è una scomparsa che non ha fatto notizia. Ringrazio Massimo Rizzante, assiduo frequentatore della letteratura latino-americana, per aver tradotto questo pezzo su Piglia dello scrittore messicano Juan Villoro  e per averlo proposto a NI. a. i.)

di Juan Villoro

traduzione di Massimo Rizzante

 

(Apparso in «Clarín», Buenos Aires,14 gennaio 2017)

Nelle opere creative di Ricardo Piglia la critica opera come una risorsa narrativa: il tema può  essere il testo stesso o le sue diverse letture. Contro il discorso monocorde e oppressivo dello Stato, l’uomo che a volte si è fatto chiamare Piglia e a volte Renzi ha costruito dispositivi per raccontare le trame perdute, necesariamente incompiute, della vita privata e segreta degli individui. Non è un caso che vedesse nel detective una variante popolare dell’intellettuale: i fili sciolti della realtà hanno bisogno di un interprete, di un lettore.

Ha senso parlare ancora di letteratura “minore”?

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di Daniele Comberiati

Riflessioni a partire da Simone Brioni, The Somali Within. Language, Race and Belonging in ‘Minor’ Italian Literature. London: Legenda, 2015.

 

A ventisette anni dall’apparizione nelle librerie di Io, venditore di elefanti di Pap Khouma, romanzo autobiografico dal quale si fa generalmente partire la nascita della cosiddetta letteratura italiana della migrazione, sono diversi i saggi recentemente apparsi che affrontano tale produzione letteraria da punti di vista e aspetti differenti (mi vengono in mente, dimenticandone certamente alcuni, i contributi di Cristina Lombardi-Diop, Caterina Romeo, Silvia Contarini, Ugo Fracassa, Chiara Mengozzi). Rapporto con il canone, relazione fra letteratura migrante e letteratura nazionale, trittico lingua-letteratura-nazione: sono diverse le problematiche che questa letteratura mette in gioco, ponendo le basi per una riflessione più ampia sulla letteratura italiana contemporanea e più in generale sull’essenza stessa, nell’epoca attuale, delle letterature nazionali.

A prima vista il saggio di Brioni potrebbe sembrare una sorta di ‘ritorno’ ad una prima fase della critica sull’argomento, quando gli autori venivano analizzati secondo le aree di provenienza, per evidenziare la pluralità di voci di una letteratura che, diversamente dai casi ad esempio inglese e francese, non ha mai avuto una comunità ‘privilegiata’ di riferimento. A ben guardare, però, il suo studio sulla letteratura italo-somala è molto più complesso: innanzitutto recupera il discorso di Gilles Deleuze e Félix Guattari sulla letteratura ‘minore’, che funge da quadro teorico complessivo, laddove il concetto di minorità prende in esame le nozioni di Bourdieu di ‘capitale culturale’ e ‘legittimità letteraria’, nonché il contesto di produzione e ricezione delle opere. In secondo luogo Brioni rivendica l’appartenenza degli autori del suo corpus (Cristina Ali Farah, Igiaba Scego, Kaha Mohamed Aden, Shirin Fazel Ramzanali, per non citarne che alcuni) al campo di riflessioni che, a partire dal postcoloniale, affronta problematiche riguardanti il genere, la razza e il colore, inserendosi nel campo dei più moderni studi sull’argomento (e mi sembra che i riferimenti a bell hooks e Sarah Ahmed siano in tal senso ampiamente giustificati). Non mancano inoltre le riflessioni a partire dai critici che, provenienti dall’Italia e non, più di altri negli ultimi anni si sono occupati dell’argomento, cercando di riflettere sulla produzione migrante dai versanti postcoloniale e transnazionale: fra i tanti Ruth Ben-Ghiat, Franca Sinopoli, Sandra Ponzanesi, Derek Duncan, Loredana Polezzi e Jennifer Burns. E sarebbe interessante oggi studiare una storia della critica della letteratura italiana contemporanea “dall’estero”, visti anche i numerosi studiosi che oggi, per diverse ragioni, ci lavorano.

Il libro è diviso in tre capitoli principali (Language, Race e Belonging), provvisti di un’ampia introduzione teorico-metodologica e di una altrettanto completa conclusione. Dal punto di vista del contenuto specifico del volume, due sono a mio avviso le principali innovazioni critiche; innanzitutto la prima sezione, significativamente intitolata Language: Brioni dimostra di saper ‘entrare’ nei testi, una capacità che talvolta manca in alcuni saggi sulla letteratura migrante, interessati al posizionamento teorico delle opere, che però non vengono analizzate a dovere. Qui, ad una prima ‘lettura a distanza’ quasi morettiana, l’autore fa seguire un’analisi accurata, in cui vengono messe in luce le strategie narrative e soprattutto linguistiche con cui gli autori scelti descrivono l’Italia e il loro rapporto con la Somalia. È proprio a partire dai testi che ci rendiamo conto di come la tensione fra i due poli sia sempre costante, anche nei passaggi in cui apparentemente il discorso coloniale è meno evidente. La narrazione di Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, ad esempio, si svolge in luoghi che a prima vista non hanno niente a che vedere con la storia coloniale italiana e con le sue conseguenze postcoloniali. Brioni però attraverso l’analisi dell’uso della lingua (o piuttosto delle lingue) dell’autrice ci mostra come le intersezioni fra antiche colonie e metropoli siano ancora presenti e come luoghi e lingua vengano ricostruiti e risemantizzati in una chiave nuova. A tale proposito il concetto di ‘translation’, impiegato secondo diversi punti di vista, diviene fondamentale: attraverso una riscrittura dello spazio, della lingua, delle relazioni, del passato e della storia che lega Italia e Somalia, questi autori cercano di far riflettere i lettori italiani su una serie di contraddizioni che sono alla base della costituzione stessa dell’unità nazionale e che non sono mai state seriamente affrontate.

Il secondo elemento di originalità risiede nell’interesse di Brioni per le rappresentazioni di razza e colore nelle opere degli scrittori e delle scrittici analizzati. Anche in tal caso, facendo riferimento ad un ampio apparato teorico e metodologico, l’autore ci mostra punti di vista inediti e non immediati, nonché una lettura sempre attenta (anche dal punto di vista filologico, elemento in effetti raro negli studi sulla letteratura migrante italiana) e una notevole capacità di far dialogare queste opere con altri lavori, non solo italiani, del contesto postcoloniale. A partire da come gli scrittori di origine somala descrivono razza e colore, infatti, è possibile iniziare una riflessione che, dalle avventure coloniali passando attraverso le Leggi razziali del 1936 e l’apparente oblio delle colonie nel secondo dopoguerra, giunge fino all’Italia attuale e agli odierni problemi di razzismo e accoglienza. Mettere in primo piano, oggi, la questione razziale come elemento critico per una serie di testi letterari, significa ribadire ancora una volta, in una chiave engagée quasi saidiana, che la razzializzazione della società italiana rimane ancora uno dei problemi più impellenti da risolvere.

In conclusione, il saggio riesce a far riflettere il lettore soprattutto su un aspetto: è possibile rileggere l’intera storia dell’Italia moderna e contemporanea (l’unità, le imprese coloniali, il fascismo e l’alleanza con Hitler, il dopoguerra, gli anni Ottanta e la situazione attuale) attraverso la particolare specula della Somalia e degli autori che da tale paese provengono; allo stesso modo in Italia rimangono tracce passate e presenti (dai segni tangibili dei monumenti coloniali a quelli più mutevoli dei lasciti della diaspora) della recente e meno recente storia somala, una relazione che la letteratura contemporanea si è apprestata a descrivere.

 

Poesie elettroniche

2

cover poesie elettroniche

di Fabrizio Venerandi

Poesie elettroniche è un ebook che raccoglie e riunisce una serie di ragionamenti fatti negli ultimi tre anni su quello che può voler dire fare poesia digitale oggi. Non si tratta di un saggio, ma di una silloge di poesie scritte quasi esclusivamente nel 2016. Nell’organizzare questi contenuti avevo in mente alcuni obiettivi.

  • Il primo era porre un paletto di carattere tecnologico: l’ebook non è soltanto una copia digitale di un libro di carta e nemmeno un “aumento” forzatamente multimediale di un contenuto testuale. Una narrazione o una lirica digitale sono prodotti culturali che utilizzano il codice per trovare nuove retoriche che non erano possibili con la parola stampata su carta. Mi interessava catturare il momento in cui la parola stampata prende coscienza del codice e inizia a fare cose con se stessa, con l’ambiente che la circonda, con il tempo, con il lettore.
  • Il secondo era quello di spostare la poesia elettronica: dai siti d’avanguardia agli store di vendita ebook. Presentare al pubblico dei lettori (e non solo a quello degli specialisti) la poesia elettronica come prodotto letterario e culturale, autonomo, con una propria storia e con caratteristiche di linguaggio del tutto contemporanee.
  • Il terzo era quello di scrivere delle poesie usando il codice, quando le cose che volevo dire ne avessero avuto bisogno. Evitare l’effetto speciale, ma capire invece in che modo il codice mi avrebbe permesso di aumentare l’espressività, di individuarne la retorica, di renderla seriale e riproducibile per me e per altri poeti. Pensare ad azioni di codice che integrassero la loro tecnologia con la lirica poetica. Anche la rima, anche l’assonanza, anche tutti gli altri strumenti retorici sono tecnologia, sono codice.

Il risultato è un ebook in formato aperto EPUB3, leggibile con qualsiasi programma ne supporti il formato, da Adobe Digital Edition a iBooks di Apple. Il testo è diviso in quattro sezioni, più una iniziale, una glossa finale e una copertina.
La prefazione, che ripercorre alcuno tappe della poesia visiva e elettronica, da Simmia di Rodi a Nanni Balestrini, è di Gino Roncaglia.

Come è costruito il testo?

La copertina presenta il titolo, che è instabile. Tutto l’ebook è tenuto insieme dalla sua instabilità. L’idea che sottende tutte le sezioni (tranne la glossa finale) è che il poeta doveva scrivere delle cose sgradevoli. È una fotografia di un momento di crisi personale. Non volevo leggere le cose che stavo scrivendo, ma le dovevo scrivere. Il codice mi ha aiutato.

Il codice-indice che sta dietro al testo è 0101010101.

Il primo zero è la prima poesia, “Poesia che ho scritto ma poi si è cancellata”. È una poesia effimera, appena si apre la pagina la poesia inizia a scomparire e dopo pochi secondi non c’è più.

Il successivo 10 sono le dieci poesie delle “Poesie occluse”. Si tratta di poesie dove le parole e le frasi sono in parte cancellate, come da un evidenziatore nero. Emergono solo alcune parole che formano, a loro modo, un significato. Il lettore può però toccare le parti cancellate e scoprire la parte rimossa. Toccando una nuova parte la precedente viene nuovamente cancellata. Non è mai possibile leggere la poesia nella sua interezza.

Altre 10 poesie formano le “Poesie temporali” o “gelsomini notturni”. Queste mostrano al lettore una quartina, statica. Ma di notte, in alcune ore della notte, le poesie si aprono, mostrando altri versi che si richiuderanno all’apparire del giorno.

Le “poesie cangianti”, di nuovo 10, sono poesie che presentano versi con varianti in perenne mutazione. Si tratta della sezione più complessa perché presenta tre diversi metodi di permutazione: binaria temporale infinita, binaria temporale finita (ma rigenerabile dal lettore), multipla a diversi livelli di profondità (da quattro a nove). Leggendo, il lettore si accorgerà che di tanto in tanto la poesia cambia. Cambiano alcune forme retoriche, alcune immagini, alcuni significati.

La penultima sezione, ancora di 10 poesie, è quella delle “poesie toccanti”. In questo caso abbiamo un esempio di poesia visiva interattiva. Le parole del primo verso ruotano attorno ad un nucleo, formato dal titolo. Se il lettore tocca una delle parole, si produce un “figlio” con un nuovo lemma proveniente dal verso successivo. Continuando a toccare le parole, il lettore spinge la poesia a generare nuove filiazioni: ogni filiazione è legata logicamente alla filiazione precedente e quella successiva, ma graficamente è invece orbitante attorno al padre toccato dal lettore. In breve tempo si genera un microcosmo di parole in movimento con relazioni sia logiche, sia spaziali.

L’ultima poesia è la glossa, una poesia tematicamente sganciata dal resto dell’ebook. È l’1 finale del codice-indice ed è una poesia ipertestuale, si naviga di verso in verso attraverso i numeri di nota legati tra di loro. È una sorta di chiusa in cui il poeta dichiara alcuni elementi della sua poetica.

Il codice con cui sono scritte le quattro sezioni centrali è stato pensato per rendere le poesie facilmente modificabili. L’idea è che l’ebook sia anche un laboratorio per altri poeti che vogliano aprirlo, cancellare i miei versi, metterci i loro.
Il come farlo sarà oggetto di una serie di post ospitati da Nazione Indiana nei prossimi mesi.

[Nazione Indiana aveva già ospitato nel 2013 alcune poesie interattive di Fabrizio Venerandi ed ha seguito nel corso del 2016 il lavoro di composizione di questo ebook. Quello tra NI e la casa editrice Quintadicopertina non è poi un incontro casuale: già in ebook erano usciti i ragionamenti degli indiani Andrea Inglese (“La confusione è ancella della menzogna”) e i quattro romanzi inediti e in fasi di scrittura di Francesco Forlani (per l’iniziativa dell’abbonamento all’autore). L’intesa continua ancora con questa co-edizione tra NI e Quintadicopertina per le poesie elettroniche di Fabrizio Venerandi.]

Il testo è in vendita nei migliori ⇨ negozi di ebook, come quello di quintadicopertina:

www.quintadicopertina.com

“Poesie elettroniche” di Fabrizio Venerandi su iTunes

“Poesie elettroniche” di Fabrizio Venerandi su IBS

Glossopetrae

5

di Simona Menicocci

gli eventi devono essere interpretati e consumati

 

per evitare la giacenza la resa

 

in modo da consentire a chiunque

nel futuro di accedere cederà

 

la lingua (che chiude tutto e salda)

– permette un collegamento permanente
– realizza la continuità
– presuppone un apporto personale

 

(nel migliore dei casi)

conservano caratteri ancestrali

le prime testimonianze certe di una specie
associata a strumenti litici o linguistici

o una produzione standardizzata
a partire da 1,4 milioni di anni fa

 

migrazioni, scomparse, utensili
di pietra di ominide

nomi dei principali dove

sono stati rinvenuti

coesistenza, competizione, scomparsa

 

gli esseri di tipo moderno

impronte su strati di ceneri

per la raccolta dei materiali
lo strato viene asportato ed eliminato

l’unico mezzo per preservare il rancore

è stato gettato via o abbandonato
ed è entrato a far parte della strage

 

i pavimenti stanno per cedere, ma lo spazio reale
esiste

 

quello che rimane da vedere è esposto
si sostiene

 

alla forza del pavimento

corrisponde un pensiero o meno
che bruca

sbocciare e decomporre nella matrice

qualcosa di più della sopravvivenza: un segno

la parola-denaro da non scrivere

 

 

sono sufficienti pochi decenni di cultura imprevidente
o le poche ore di un cantiere

 

 

le ragioni non sono cause dell’azione

 

 

*

 

elenco degli agenti erosivi di natura umana:





 

i nomi propri

per questione di privacy
non compaiono
per questioni linguistiche
non sono descrittivi delle azioni che compiono

 

è possibile che qualcuno si trovi agli estremi di una catena
senza che sia in grado di produrre una definizione di libertà

o abbreviazioni di una distruzione definitiva

 

 

le parole passano di bocca in bocca
orizzontalmente

le bocche passano di strato in strato
verticalmente

 

 

la catena è sostenuta in intenzioni

 

*

dall’analisi dei fossili emerge che

2,4 milioni di anni fa
l’uomo “barattò” la capacità di masticare
per poter avere un cervello più grande
per produrre altri modi di masticare

 

dall’analisi dei viventi emerge che

una scatola cranica grande non è causa
di un cervello grande o di ciò di cui un cervello
è causa

 

lusus historiae #1: genius loculi

 

 

 

***

Estratti da Simona Menicocci, Glossopetrae/Tonguestones (Ikonaliber, 2017)

 

 

Overbooking: Lorenzo Mazzoni

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 imagesNota di lettura

di

Azra Nuhefendić

Nel 1993, sotto assedio, Sarajevo era considerata uno dei posti più pericolosi nel mondo. Eppure ho conosciuto molte persone che si ostinavano a voler tornare nella città. La signora Vinka, scappata da Sarajevo all’inizio della guerra, voleva ritornarci a ogni costo, con il figlioletto, perché le pareva che avrebbe potuto vivere meglio là che, da profuga, dai cugini in Vojvodina. Un certo americano di nome Terry, giocatore professionista di poker, non vedeva l’ora di rimettere piede a Sarajevo perché, mi diceva, durante l’assedio aveva giocato le partite migliori della sua vita. La scrittrice americana Susan Sontag tornava ripetutamente a Sarajevo, trovandovi all’epoca più vitalità che a New York.

Di questa gente e di molti episodi mi sono ricordata leggendo il libro “Il muggito di Sarajevo”. I personaggi di Mazzoni sono creati dalla sua eccelsa immaginazione, le azioni sono talvolta illogiche, le circostanze e le storie sembrano improbabili, i destini e i personaggi troppo esagerati per essere veri. Ma come accade nella vita (e nella morte) la realtà spesso supera ogni immaginazione.

“Il muggito di Sarajevo” è un intreccio di varie storie che sembrano, di primo acchito, scollegate tra di loro, dove Mazzoni introduce e segue i personaggi che, apparentemente, non hanno nessuna probabilità di incontrarsi.

L’autore porta o trova nella Sarajevo assediata una sfilza di personaggi, talvolta grotteschi, che sono sì il prodotto della sua fantasia, ma che per vicissitudini, stranezze, scherzi del destino, si avvicinano molto a certe persone che ho conosciuto nella realtà di allora.

La protagonista è una giovane ragazza, Amira, aspirante cantautrice, che scappa dalla città di Zenica e dalla prospettiva di finire, come musulmana, sotto lo chador. L’ispirazione per la sua musica e per le canzoni la trova girando tra “gli abitanti di Sarajevo che lottano contro… e la sopraffazione dei potenti che ci vedono solo come le povere vittime sacrificabili.”

Jack, meglio conosciuto come Mozambik, di origine bosniaca–irlandese, si divide tra il lavoro di spacciatore, fixer (quello che fa tutto per i giornalisti) e quello di contrabbandiere. Il contrabbando lo fa per aiutare la gente disperata a comprare i prodotti mancanti a un prezzo più basso rispetto a quello che pretendono i “veri” contrabbandieri. Ma non si spaccia né per buono né per patriota, e precisa senza scrupoli: “Mi piacciono le città assediate. Mi piacciono il disfacimento e l’agonia.”

C’è il veterano Ivan per il quale la guerra è il momento giusto per guadagnare e che non fa sconti a nessuno, a prescindere dalla religione, nazionalità o status sociale. E poi i giornalisti, indispensabili, che fanno parte di ogni guerra. Alcuni si trovano lì per guadagnare soldi o un po’ di notorietà (ne ho incontrati molti di più di quanto ci si possa aspettare), altri per scelta o per sbaglio, oppure involontariamente. Nel libro sono rappresentati dai due italiani Oscar e Carlo.

I motivi per stare a Sarajevo durante la guerra sono diversi, ma il discorso di uno dei giornalisti del libro è verissimo: “Spesso mi sento un avvoltoio, rischio la vita per fare il mio lavoro, ma quelli che vado a intervistare muoiono frequentemente… Questa continua moltitudine di immagini e di notizie che vengono mandate in onda in tutto il mondo servono solo per abituare le persone all’orrore altrui.”

I personaggi insoliti, una miscela di umorismo e violenza, la cronologia frammentata e la brutalità affrontata dai protagonisti con naturalezza, il grottesco che si sussegue con l’orrore, fanno pensare al film “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino. Ma sotto-sotto tutto si basa su una profonda e dettagliata conoscenza dei fatti, della storia, della recente guerra, della mentalità e dell’umorismo tipico dei bosniaci. E, con il talento di un bravo scrittore di gialli, Mazzoni riesce a tenere viva l’attenzione del lettore fino alla fine, e solo nelle ultime pagine ci svela il nesso che unisce i personaggi e le varie storie. Proprio un bel libro da leggere!

 

Lorenzo Mazzoni, “Il muggito di Sarajevo”,

Caserta, Edizioni Spartaco, 2016, pp. 251

 

Radio Kapital: Jean Claude Michéa. Per finirla con sinistra\destra

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1
qui il filosofo ritratto in piena epoca miaoista

La magnifica rivista francese Les Inrocks intervista il filosofo Jean-Claude Michéa

traduzione di Francesco Forlani

Contro il Capitale, lei auspica un “pensare con la sinistra contro la sinistra.” Eppure molti intellettuali di sinistra continuano a essere impermeabili, per non dire contrari ai suoi scritti. Si tratta della rottura definitiva di un dialogo possibile?

Se fosse davvero il caso, certamente non è colpa mia! Ovviamente non mi rifiuterei mai di discutere con qualcuno con il solo pretesto che sarebbe “in disaccordo con i miei scritti.” Però dovrebbe trattarsi di un vero dibattito e non di una retata di polizia. Il problema – André Perrin l’ha brillantemente dimostrato nelle sue Scènes de la vie intellectuelle en France – è che l’antica cultura del dibattito è ora in procinto di cedere il posto definitivamente a quella dell’intimidazione e della caccia alle streghe. Oramai uno scrittore si giudica non per quello che ha effettivamente scritto (perfino quando il romanziere in questione è Michel Houellebecq) ma sulla base di oscure intenzioni a lui attribuite o attraverso le strumentalizzazioni “nauseanti” che se ne fanno delle opere. Queste derive preoccupanti – che la dicono lunga, per rimanere in tema, sul sentimento di panico che si è impadronito da una parte delle baronie universitarie e mediatiche – non può che naturalmente portare a giustificare “intellettualmente” le falsificazioni più grossolane e le scorciatoie più sempliciste. Se ne parlo è perché ne so qualcosa a riguardo.

Perché gli intellettuali « conservatori » si dichiarano più in sintonia con le sue opere di quanto non accada con quelli che potremmo definire di «sinistra»?

Per lo stesso motivo, suppongo, che un ammiratore di Chesterton o Bernanos simpatizzerebbe sempre più facilmente con un testo di Proudhon, William Morris o Guy Debord che con un saggio di Bernard Henry Lévy, Raphael Glucksmann o di Alain Minc. Ma lei solleva, in fondo, l’annosa questione della storica relazione tra  “sinistra” e  movimento socialista. Il primo, infatti, è sempre stato definito come “il partito del movimento”, del “progresso” e dell’”avanguardia” in tutto. Partito il cui primo nemico non può essere, per definizione, che la “reazione” o “il vecchio mondo”. Eppure, se l’originaria critica socialista rimettesse invece sul proprio conto la maggior parte delle denunce dell’Ancien Régime o del potere della Chiesa, si porterebbe innanzitutto su quello che Marx definiva la ” legge economica del movimento della società moderna”. Lungi dal condividere le illusioni della sinistra del diciannovesimo secolo sui benefici della nuova società industriale e del suo Diritto astratto, i pensatori socialisti più radicali avevano dunque capito fin dall’inizio, la natura fondamentalmente ambigua della nozione di “Progresso” (si pensi ad esempio al futuro che ci riservano in questi giorni, la Silicon Valley o l’agricoltura industriale). Per questo, ogni pensiero che si vorrebbe ancora di “sinistra”, e unicamente di sinistra è inevitabilmente esposto a una serie di derive suicidarie. Fin troppo facile, infatti, confondere l’idea che “non si può fermare il progresso”, con l’idea che non si può fermare il capitalismo. Tale, a mio avviso, la radice filosofica più costante di tutte le disavventure della sinistra moderna.

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Il giornalista Alexandre Devecchio (Le Figaro), dedica un capitolo del suo ultimo libro, I nuovi figli del secolo, alla “generazione Michéa”, in cui mette alla rinfusa: François Xavier Bellamy, Madeleine Bazin de Jessey, Mathieu Bock-Côté o Eugénie Bastié. Cosa ne pensi di questa classificazione? Si sente di avere influenzato una nuova generazione d’intellettuali o di attivisti politici?

Se l’analisi di Devecchio fosse fondata, starebbe a significare  che un autore che ha sempre rifiutato di partecipare a qualsiasi talk-show televisivo, i cui libri vendono solo poche migliaia di copie – e non “decine di migliaia “come puntualmente dichiarano personaggi alla Jean-Loup Amselle – e che per di più distilla interviste con il contagocce, avrebbe ancora il potere di influenzare un’intera “generazione”! Confesso di essere molto scettico a riguardo. Ma se fosse davvero questo il caso, sarebbe un dato piuttosto confortante. Dimostrerebbe almeno una cosa, che è ancora possibile passare attraverso le maglie della rete.

Secondo lei le classi popolari prendono atto del fatto che i due grandi partiti del blocco liberale stiano distruggendo quanto finora acquisito socialmente ma si rifugiano nell’astensione o nel voto «néo-boulangiste» (nazionalismo + misure sociali). Come fare leva su tale consapevolezza per un’alternativa di «sinistra»?

Le classi popolari sono quelle che sopportano il peso, per definizione di tutte le storture del sistema capitalista. Eppure quest’ultimo, a differenza delle società precedenti, si caratterizza soprattutto per il fatto – come scriveva Marx – che i rapporti tra gli uomini siano essenzialmente sotto forma di relazione tra le cose (il “feticismo della merce” ne era solo la più visibile manifestazione quotidiana di tale “reificazione”). In altre parole, il dominio del Capitale è principalmente quello di una logica anonima e impersonale che s’impone a tutti, perfino alle stesse élite – a prescindere peraltro da quale sia la vera avidità e sconfinata vanità di tali élite. Rinunciando definitivamente, verso la fine degli anni settanta, a questa chiave di lettura socialista – seppure più attuale  come la crisi del 2008 ha ancora una volta ampiamente evidenziato – la sinistra non poteva quindi lasciare alle classi popolari che una sola via d’uscita politica: personalizzare all’estremo l’origine sistemica della loro sofferenza quotidiana e della loro crescente esasperazione attribuendola alla semplice esistenza degli immigrati, ebrei o delle tasse dello Stato. In questa rinuncia a qualsiasi critica radicale della dinamica disumanizzante ed ecologicamente distruttiva del capitalismo va trovata, in sostanza, la costante progressione del voto “néo-boulangiste”. Quest’ultimo è prosperato, infatti, grazie a quello che Renaud Garcia ha così bene definito, il “deserto della critica.” E non saranno certamente le prediche moralisticheggianti delle élite intellettuali e mediatiche a portare un qualsivoglia cambiamento.

Lei sostiene che ritrovare la radicalità originaria della sinistra sarebbe insufficiente per riguadagnarsi la fiducia delle classi popolari. Tuttavia la posizione “né di sinistra né di destra”, è occupata da Marine Le Pen ed Emmanuel Macron. Si è forse in un vicolo cieco?

Nel 1874, gli esuli della Comune rifugiati a Londra ci tennero a ricordare a tutti “coloro che sarebbero tentati di dimenticarsene” che “Versagliesi di sinistra e Versagliesi di destra (Versaillais de gauche et Versaillais de droite) dovevano essere uguali di fronte all”odio del popolo.” Così era in effetti, fino al caso Dreyfus, la posizione dominante del movimento socialista (nel 1893, Jules Guesde e Paul Lafargue ancora facevano appello agli operai affinché cacciassero “i ladri tanto a destra che a sinistra”). Posizione radicale che si ritrova in modo identico, oggi, nel famoso slogan di Podemos “non siamo né di destra né di sinistra; noi siamo quelli di sotto contro quelli di sopra”. Se Marine ha potuto così facilmente girare a proprio vantaggio questa vecchia massima socialista -, garantendosi nel contempo, ovviamente, di disinnescare le implicazioni più radicali – è dunque proprio perché ancora una volta, la sinistra, una volta convertita nell’economia di mercato, le ha, di fatto, ceduto il monopolio della denuncia degli effetti economici e culturali umanamente e socialmente distruttivi della dinamica del capitale (senza che il Front National rinunci più di tanto al mito della “crescita”). In tanto che denuncia, di colpo poco coerente perché ovviamente non si può celebrare contemporaneamente sia l'”unità nazionale” che la lotta di classe. Per quanto riguarda il “né destra né di sinistra” di Macron (converrebbe a questo punto introdurre una differenza tra un “né di destra né di sinistra” dall’alto, e un “né di destra né di sinistra” dal basso), ci troviamo di fronte a un’altra questione. Ovvero – e lei ha assolutamente ragione su questo punto – nella situazione di vicolo cieco in cui ci troviamo!

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Perché lei si è dato come priorità politica per combattere il capitalismo, il superamento del divario destra/sinistra?

Due sono i motivi principali. Da un lato, la divisione sinistra/destra, così come la vediamo oggi, porta sempre a opporsi un “popolo di sinistra” a un “popolo di destra” (qui sta d’altronde tutto il senso della recente importazione delle “primarie” dal sistema statunitense). In effetti, la sola linea di demarcazione politicamente fruttuosa è quella che avrebbe invitato, al contrario, a riunire l’insieme delle classi popolari contro questa oligarchia liberale che non sembra affatto fermarsi nell’opera di dissoluzione del loro stile di vita specifico nelle “acque gelide del calcolo egoistico“. Inoltre, questa divisione è ormai quasi completamente cambiata di senso. Non contrappone più, come nel XIX secolo, i sostenitori di un ordine divino santificante le disuguaglianze per nascita e gli eredi dell’Illuminismo. Al contrario la divide in due campi ufficialmente rivali. Da un lato, coloro che, nella tradizione di Adam Smith e Turgot, vedono nella continua espansione del mercato il primo fondamento della libertà individuale. E dall’altra, chi ritiene che sia piuttosto l’estensione indefinita dei “diritti umani”, a essere il motore principale. Ma dal momento in cui il liberalismo economico della “destra” moderna deve essere definito, secondo la formula di Hayek, come il diritto assoluto “di produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (sia che si tratti di un orologio connesso in rete, di una dose di cocaina o del grembo di una madre surrogata), è chiaro che lui non potrà mai svilupparsi in modo integralmente coerente senza appoggiarsi, prima o poi al liberalismo culturale della “sinistra” (accantono in questo caso l’uso puramente elettorale da parte di una certa destra della retorica “conservatrice”). In altre parole, Hayek chiama in causa Foucault e Foucault fa lo stesso con Hayek. Basti dire che avremo sempre più a che fare – se non dovesse cambiare nulla – ” con quelle che Debord già definiva “le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato”. Lotte il cui unico vero vincitore – Podemos l’ha capito fin troppo bene – non può essere che il Capitale e il suo ‘incessante movimento di guadagno sempre rinnovato” (Marx).

Perché prende in giro intellettuali alla François Cusset, sostenitori della tesi secondo cui tutta la società si stia orientando a destra? Tale diagnosi le sembra infondata?

L’uso di questo concetto mediatico soffre di due principali difetti che lo privano di qualsiasi senso. In primo luogo, ci invita a considerare la “Società” come un blocco omogeneo. Questo porta a nascondere il crescente divorzio tra il discorso modernizzatore delle élite del Sistema – il cui sguardo è sempre più rivolto, giorno dopo giorno, alla Silicon Valley – e il crescente rigetto di questo stesso sistema da parte dei ceti popolari. Dall’altro, tende anche a omogeneizzare il concetto di “destra”. Di fatto quest’ultima è per definizione pluralista. La destra può altrettanto facilmente portare a legittimare l’ubérisation integrale della vita, come in voga tra i liberalisti, che l’uso dello stato totale, come nel caso del fascismo. Ma forse, in fin dei conti, il concetto presupposto dall'”orientamento a destra” mirava soltanto alla riscoperta di quei valori detti “tradizionali”, che – tali il senso di appartenenza, del bisogno di civiltà o del denso del passato – hanno sempre contribuito a frenare, nelle classi popolari, il processo di atomizzazione del mondo di cui il capitalismo è strutturalmente il paladino. In tal caso rappresenterebbe allora che uno dei molti modi con cui le élite liberali sogliono stigmatizzare il “ripiego su di sé” e il “passatismo” di queste classi “subalterne”. Eppure Debord aveva risposto in largo anticipo a questo tipo di critica. “Quanto all’essere assolutamente moderni – ha scritto – è diventato una legge speciale proclamata dal tiranno, quello che l’onesto schiavo teme più di ogni altra cosa, è che lo si possa tacciare di passatismo.”

The real thing: LGSM members march in support of the minersLei considera che la sinistra abbia smarrito la propria anima abbandonando la lotta di classe a profitto della difesa delle minoranze. Tali lotte le sembrano antagoniste? Pensa veramente che esista una lotta prioritaria rispetto ad altre?

Qui non si tratta di definire delle priorità. La vera questione innanzitutto concerne la costruzione di un legame dialettico tra la lotta contro il capitale e la “tutela delle minoranze”. Ma, come la sinistra moderna è diventata incapace di proporre una tale articolazione, non può che semplicemente accompagnare il processo storico che conduce, secondo la formula di Wolfgang Streeck, a “mettere fine alla dimensione democratica del capitalismo cancellando qualsiasi dimensione economica della democrazia”. È per questo che nel mio libro, attribuisco tanta importanza alle lezioni politiche di Pride, lo splendido film di Matthew Warchus. Mostra, infatti, molto chiaramente, come la lotta contro l’omofobia, giusto per fare un esempio, non è mai così efficace come quando riesce a trovare il suo posto nella cornice delle lotte popolari contro il dominio capitalista. Il contrario, insomma, dell’approccio puramente liberale di una Christiane Taubira e dei suoi artisti « citoyens ».

Quando ha rinunciato a candidarsi per le elezioni presidenziali, Francois Hollande ha dichiarato che “il pericolo maggiore è il protezionismo”, equiparandolo così al nazionalismo. Pensa che la maggioranza della popolazione sia ancora sensibile a quest’avvertimento?

Il sistema capitalista si fonda, per definizione, sulla sempre crescente produzione di beni destinati principalmente alla vendita sul mercato dove la concorrenza dovrebbe essere teoricamente “libera e non falsata”. Nella visione liberale, tutte le misure “protezionistiche” possono soltanto compromettere la riproduzione estesa del capitale. Siccome è diventato più difficile oggi – a causa del famoso “orientamento a destra della società” – presentare questa libera concorrenza capitalistica come un “valore di sinistra” (tuttavia, si tratta esattamente di quanto Hollande proponeva nel 1985 con il suo La gauche bouge), pare ormai ben più redditizio per una sinistra liberale, rivendicare che ogni critica del libero scambio globalizzato deriverebbe, in realtà, da uno spirito “nazionalista” o “fascisteggiante”. Qui troviamo, insomma, l’antico sofisma diventato popolare grazie a Bernard Henry Lévy nell’Idéologie française: se l’estrema destra denuncia il capitalismo, questa è la prova che ogni critica del capitalismo è di estrema destra.

Anche se inizialmente coinvolgeva soprattutto le classi medie delle grandi città, il movimento Nuit Debout non poteva essere un punto di convergenza con le classi popolari?

Il problema è che questo movimento, davvero molto promettente all’inizio, è stato quasi immediatamente soffocato dagli elementi più caricaturali della sinistra “radicale” parigina (si pensi alle famose “riunioni non-miste”!). E, di colpo presentato con la massima benevolenza dalla maggior parte dei media ufficiali. Il che si è rivelato di certo non il modo migliore per elargire rapidamente la propria base sociale e incontrare un’eco entusiasta nella Francia delle periferie!

Lei è un difensore del bilancio di Podemos quando lo considera come “l’unico movimento radicale europeo” ad aver capito l’imperativo del superamento delle divisioni tradizionali. Perché questo modello non si è sviluppato in altri paesi europei? Il fallimento di Syriza in Grecia è dovuto al suo essere ancorato a sinistra?

Il successo di Podemos è dovuto principalmente a tre fattori: l’ampiezza della crisi economica spagnola, l’esistenza di un gruppo d’intellettuali, alla Pablo Iglesias o Juan Carlos Monedero, che si sono nutriti delle letture di Gramsci e della conoscenza delle lotte rivoluzionarie in America Latina, e la corrispondente capacità di questi intellettuali di entrare in sintonia con le classi popolari. Ovviamente, gli altri paesi europei non ci sono ancora arrivati. Per quanto riguarda Syriza, fondato inizialmente su basi politiche vicine, il fallimento può essere spiegato con il trionfo della linea Tsipras su quella di Varoufakis. In altre parole, con l’illusione che l’oligarchia di Bruxelles potesse ancora servire altri interessi rispetto a quelli dei mercati finanziari internazionali. Significava davvero conoscere assai poco un’Angela Merkel.

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Si scrive che il sistema liberale “fa acqua da tutte le parti”, e che la sua scomparsa è “inevitabile”. Siamo forse in una situazione pre-rivoluzionaria? Che alternativa politica potrebbe sostituirlo?

Il capitalismo post-democratico si scontra con tre grandi limiti. Quello morale perché distrugge gradualmente le basi antropologiche di della vita intera. Con il limite ecologico, giacché la crescita all’infinito è chiaramente impossibile in un mondo finito. E con quello sistemico, perché il suo ingresso nel regno del “capitale fittizio” – come Lohoff e Trenckle l’hanno stabilito in modo magistrale nel loro lavoro, La grande dévalorisation – lo avvicina a grandi falcate alla sua fase terminale.  Regno moderno del capitale fittizio che si spiega da sé con il fatto che la riproduzione allargata del capitale si basi ormai meno – a causa dell’incessante innovazione tecnologica – sul lavoro vivo degli uomini che su una piramide di debiti che non potranno mai essere rimborsati. Però nulla dice – in questo campo di rovine che la sinistra ha lasciato alle spalle – che il periodo di catastrofi che così si annuncia avrà un lieto fine. Potrebbe altrettanto facilmente portare all’avvento di un mondo post-capitalista che si sposerebbe in una maniera inedita Brazil et Mad Max. Tale era già il cupo avvertimento di Rosa Luxemburg, ormai più di un secolo fa.

Intervista pubblicata l’11 gennaio

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Sulle tracce di Belgrano in Liguria

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di Marino Magliani

9788898657810.MAINTanto tempo fa, con una certa regolarità, mi capitava di frequentare un bar alla Spianata di Borgo Peri che assomigliava a quei locali della California, anche se io in California non c’ero mai stato. La vetrata dava sulle palme, e là sotto c’era il mare che faceva rabbrividire l’aria e le cose della riva.
Erano gli anni Settanta, di Calvino avevo letto La formica argentina, di Giuseppe Conte L’ultimo aprile bianco, Biamonti non aveva ancora pubblicato nulla, e quanto all’aria del bar, quella non mi pare sapesse di mare, ma odorava piuttosto di un’ottima pizza al taglio e al resto ci pensavano le nuvole di fumo.
A volte salivamo al piano di sopra, dove in mezzo al salone c’erano un tavolo da ping pong e alcune sedie. Facevo qualche partita con un compagno di classe che non c’è più da anni, caduto nel solco di un secolo per aver voluto conoscere i sentieri degli eserciti ai cancelli di Orione. E quando ora, d’estate, ma raramente, torno al bar, è come se in quella palma che cresce nella sala, con la sua corteccia paziente e spugnosa – la cui parte aerea sbuca dal tetto e guarda il mare –, rivedessi quegli anni.
Anche dalla sala da ping pong si poteva vedere il mare. Noi, sulle sedie che durante i nostri giochi non ospitavano nessuno spettatore (di rado l’amica che ci guardava mordendosi il labbro, e non sapevamo mai chi guardava, ma guardava lui), gettavamo i nostri giubbotti e a volte ci fermavamo all’improvviso a dare occhiate affamate a quel vuoto sfavillante. Era come se su quelle onde ci stesse cavalcando il futuro o ci stesse scappando già di mano. Oppure uscivamo sulla Spianata, davanti alla chiesetta con la cupola di campanile a scaglie lucenti e colorate, e se tra di noi c’era il poeta (che poi però non ha mai scritto nulla), gli chiedevamo di recitare quella poesia delle campane di Novaro…

oh come tutto sarebbe felice

se potesse vanire

nel blando suono

delle campane

…che ci piaceva molto. Andavamo a mettere le mani in avanti, sulla pietra bianca e porosa, le spalle a Oneglia. E dopo un po’, quando all’ultima ora di latino o filosofia restavo solo, mi incamminavo verso Diano. Tra le panche della stessa pietra bianca e porosa della balaustra, non c’era ancora il monumento a Manuel Belgrano. Io almeno non lo ricordo. In quel tempo di lui non sapevo nulla. Borgo Peri era per me una striscia sconosciuta di case scrostate, seccate e rose dal salino, erano uffici, alberghi dove non ho mai dormito, magazzini di pescatori, stabilimenti balneari dove non ho mai fatto il bagno. E Belgrano? Era come se non fosse ancora di moda? Eppure c’erano targhe d’ottone sui portoni della città, con quel nome, Belgrano, notai forse, avvocati, dottori. Non un cognome scaduto, dunque, ma niente di più: un generale comunque no, quel Belgrano, il Belgrano generale, apparteneva a una storia che stava ancora di là della Pozzanghera e attendeva, paziente, di essere traghettata nell’immaginario di uno studente pigro e distratto. Del resto, passando sotto le mura che in quegli anni ospitavano la biblioteca, chi racconta ignorava persino che quella strada corta, con le gru del porto al fondo, si chiamasse così. Via Belgrano.

Ero nato in un ricovero per anziani, a Dolcedo, roccaforte genovese, mentre la Oneglia e la Costa d’Oneglia di belgraniana memoria stavano nella vallata accanto ed erano appartenute alla corona sabauda. Casa mia, tuttavia, era a Prelà, un luogo ancora più interno, in fondo al sacco, dove la Val Prino si nasconde da tutto, anche dalla storia. E a metà strada tra Dolcedo e Prelà esisteva un piccolo beudo, il condotto di scoli piovani proveniente dal crinale delle Ciaze, un condotto che ai tempi del padre di Belgrano aveva fatto da frontiera tra due terre: di là la Dolcedo dei genovesi, di qua la Pietralata sabauda. Ecco, come tutto ciò che stava attorno a piazza Dante, la piazza geometrica e nuda e in miniatura simile alle piazze di Torino e Cuneo, ben si associava al fondovalle buio di Prelà da cui io muovevo i primi passi verso il mondo.
Appurato dunque che in un certo qual modo un astratto e furioso legame con Manuel Belgrano esiste, proviamo a capire, partendo da lontano, come si è giunti a questo libro.

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NdR: questo testo è l’incipit dell’introduzione di Marino Magliani, intitolata “Mare del Nord, inverno 2016”, al suo “Il creolo e la costa”, edito recentemente da Fusta Editore (Cuneo)

 

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ritratto di Manuel Belgrano, di François Casimir

 

 

 

 

Essendo il dentro un fuori infinito #10

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di Mariasole Ariot

Ivanhoe vestito di nero cammina nei corridoi, li percorre all’infinito da cielo a notte, ha le palpebre scure, le mani ingiallite di tabacco, gonfie, distrutte dalla terra che non ha raccolto, separato dal mondo dei vivi. Ivanhoe morto per errore nel carcere ducentoquarantasei, un numero sulla pettorina che lo ricorda alla sorella quando si ricorda di venirlo a trovare, Ivanhoe dagli occhi semichiusi, lo sguardo abbassato, le parole mangiate in fretta, la fattura del grande freddo, le braccia come serpenti.

Ci sediamo uno accanto all’altro, sulla muretta di cinta che ci sepra dagli altri. Ti sono simpatica? Passiva, risponde.

La passività qui è il dolore consumato dalle parole vuote, cieche per aver fatto a pugni con il sole, morte di paura quando sono arrivate, svuotate di senso quando devono ripartire. Ivanhoe risponde solo se interpellato con un salto, vorticando pochi gorgogli : una sigaretta di tabacco, un suono, un’intermittenza della luce – spegnila, ti prego – Ivanhoe con i nodi neri, le giunture nere, le mani nere, l’ugola nera, il ridicolo nero, il mostro nero che lo perseguita anche la notte, quando emette singoli borbottii fracassando le orecchie agli incubatori d’ossa.

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I corridoi sono bui, Ivanhoe a casa ha un giardino piccolo, pochi metri quadri da cui vedere il cielo quando si chiude in sé stesso e muore di polmonite.

Ho una ferita nell’orecchio sinistro, parla le voci delle voci degli altri, mormora i fastidi, li esamina squadrandoli con il grandangolo per aprirli alla luce. Nessuno m’insegue, tutti mi inseguono, mi fatturano le orecchie, ho una sorella che non viene mai, deve portarmi le sigarette e la giacca bianca degli infermieri : non sono malato : ho una corda collegata ai feticci larvali. Mi hanno fatto una fattura, non parlo coi dottori.

A volte, negli spazi più stretti, poggio l’orecchio sul suo costato. Non sento niente, il mio battito tachicardico copre tutto, copre i movimenti tellurici, le divergenze. Allora chiedo ancora : Ivanhoe, lo sai il mio nome? Farfuglia, e farfuglia bene. Ti sono simpatica? Passiva.

Nessuno sa di cosa siamo capaci, il limite è spostato appena poco più in là della soglia di dolore che abbiamo : una chiesa al centro del petto, un crocifisso rotto negli altari, una pustola gonfia che cerca di non gonfiarsi ancora, avere un inverno cavo sotto la pelle. Ivanhoe passa e sputa. Il suo sputo ha il colore degli angioletti, non sporca, non macchia, è limpido.

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Nella strettoia che separa le attese dai benvenuti, io e Ivanhoe camminiamo spalla a spalla come due reduci di guerra. Lui con la sua divisa nera, io con i miei occhi pesti, ci auguriamo la buonanotte, ma lui non risponde, mira altrove, dove il canto del gallo non è più udibile. Spieghiamo traiettorie per non darci l’addio, le tracciamo sul manto cementificato del pavimento, e sui soffitti crepati dall’uso che ne facciamo : sputarci addosso è un sacrificio, un rituale pagano come pagani siamo tutti. Le sue bestemmie mi perforano le orecchie, scendono dritte in gola per essere ripetute.

Mangio la terra e la mescolo con l’aria. A volte cammino per ore e per ore mi seggo, mi fucilo la testa con ampie pennellate : sono l’uomo che non vede e non sente, che sente anche se non ci sente, che ti vede, che ti guarda, che non guarda, che ti mira, che non mira, che spara a salve con la pistola giocattolo che avrei sempre voluto. Ho centocinquantasette anni e ne dimostro undici, cammino per la strada che mi porta alla sorella e non c’è tregua, solo questo tremare inefficace degli umori. Lo vedi questo sputo? E’ il mio ultimo rantolo di vita, ogni giorno ricresco, mi faccio sterminare e poi germino sotto la pelliccia nuova. Ho una casa nei dintorni, mia madre è morta.

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Poi l’udibile diventa un muro. Secco di foglie ammuffite, legate l’una all’altra con mastice duro. Ivanhoe dura quanto può, s’infila nella calca come un reduce, un sopravvissuto dalla miseria che mastichiamo ogni giorno, all’ora di colazione, quando spalancano le finestre che hanno chiuso, quando la chiusa è una finestra : le sbarre per evitare gli impiccati. La gola si apre, lo sguardo si apre, il riso si apre, la bocca si chiude. Non parlare è questo nostro mondo che c’insegnamo per sopportare il nero.

Sgretolati come siamo parliamo la lingua degli appoggi. Il punto aperto a superficie è una condanna, una semplice andatura immobile, una convalescenza ispessita dalle circostanze. Vedere questo interno è come introdursi nei corpi umorali e farli tremare, scuoterli per poi dimenticarli. Siamo già tornati nell’incubo della chiusa, nei termini distinti che ci separano – e non separa, non nutre, non incombe, non fa testo, non muove la testa dei marginali. Ho un abito per le istanze, un affetto in miniatura per alzarmi e bilanciare le mie parti rigide : un animale battuto dai cecchini, un animale che muore, una crepa che si apre nel terreno, è la primavera degli assetati, le cicale ricominciano il loro suono, si fanno equilibriste della carne, un lampo accende il cielo. Sono pallido, non sono mai venuto al mondo, sono questo piccolo mondo di miniature tascabili, l’ostaggio della mia irriconoscenza.

Ivanhoe giudica il tempo, ci ritroviamo nella calca dorata delle rivelazioni. Siamo dolori spinali, superfici mobili, il tatto che non ci è concesso nell’intimità dei movimenti rapidi. Nel paese dei senza gambe tutto è contratto: la terra è un problema di spazio, un ammasso di organi possibili. Ci alziamo senza guardarci, abbiamo gli occhi curvi e lo sguardo fisso, ci alziamo senza parlarci, indigesti, plumbei, accerchiati dalle cose.

La conferenza di Roma sul comunismo: 18-22 gennaio

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Conferenze, workshop, una tavola rotonda, un’assemblea finale e una mostra.

La storia dei comunismi realizzati e immaginati, delle loro vittorie e delle loro sconfitte. Il Capitale contemporaneo. I comunisti di oggi e le loro pratiche. Il potere, lo Stato, il governo. L’estetica comune, il comunismo estetico, della “sensibilità”. Pensatori, ricercatori, attivisti da tutto il mondo riuniti nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, per cinque giorni a Roma.

Salentitudini tondelliane – quinta parte

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Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli

Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI
Edi Brancolini: PIER VITTORIO TONDELLI

QUINTA  PUNTATA / Quei ragazzi di piazza

qui la prima, la seconda, la terza  e la quarta tappa del reportage

 di

Giorgia Salicandro

 

 

«TRICASE – Massimo Urbani è uno dei pochi personaggi della scena jazz italiana che sia riuscito a ritagliarsi un proprio spazio stilistico, una spanna al di sopra di musicisti, magari validissimi sotto il profilo tecnico, ma privi di grande personalità. Il concerto di giovedì scorso, tenuto nella discoteca “Tam Tam” di Tricase ed inserito nella rassegna “Primavera jazz”, ha confermato in pieno la sua statura di solista e di personaggio di punta del panorama italiano».

Il lettore stereo ingoia la lingua del cd. Si illumina un rebus verde, prende forma esatta, scrive: No Autostop. Il primo a raggiungerci è un fiato. Acuto, così simile allo stridio delle ruote su questo asfalto impervio, sembra ripetere l’irrisione del titolo come un soffio disturbante. Il batterista, duecento metri più avanti, colpirà in solitaria il rullante del freno. Il giro di chitarra darà il la al testacoda. Dove siamo diretti? Chi c’è al volante? Nel nostro tour nel passato si aprono gorghi, zampillano domande da un asfalto liquefatto, perdono consistenza obiettivi fotografici e taccuini. Ci sono gorghi più profondi, come buchi neri, ombre più lunghe. Indirizzi che non esistono. Dove andare a cercare la storia di Toni Robertini?

Per pochi giorni, nel giugno dell”86, l’indirizzo di Toni e quello di Pier coincisero lungo la costellazione di strade del Salento. La storia di Toni si fermò negli appunti dello scrittore, attraversò rotative ed edicole, e anni più tardi, nei cassetti dei compagni di viaggio, una copia de L’Espresso avrebbe trovato il proprio posto accanto a polaroid e riedizioni speciali di fanzine.

E lì lo cerchiamo anche noi, tra voci che cambiano impercettibilmente tono e fotocopie dateci in consegna, replicanti gli stessi testi scritti dieci o vent’anni prima, ancora e ancora.

Aradeo - foto di Daniele Coricciati
Aradeo – foto di Daniele Coricciati

Il posto di Toni, al tempo della nostra storia, era l’uscita di sicurezza del Tam Tam se lì, a fine concerto, era previsto che Massimo Urbani accendesse una sigaretta. Pino Daniele tornava a fare blues, lui lo avrebbe raggiunto a Taranto. Roma per la «dolente poesia» degli Smiths, Berlino per «il sound grezzo, violento e primitivo» dei Ramones. Autostop, altro che no, o carrette di famiglia chieste in prestito, o treni. Prendeva e partiva. Poi, a concerto finito, telefonava al Quotidiano di Lecce e annunciava di avere un pezzo. Studiava, Toni. Aveva scritto un saggio sulla filosofia del rock, e altri che avrebbe pubblicato su Alfabeta, risoluti come manifesti politici. Ma soprattutto, Toni suonava. «Cose mai sentite», dicono oggi i ragazzi degli anni Ottanta. Non c’era ancora un nome per quello che facevano i Band Aid. Lo chiamarono “no jazz”, in omaggio all’avanguardia no-wave. Qualche anno più tardi “acid jazz”, dal titolo di un album della Urban Records, sarebbe stato il nome anagrafico di quella musica.

Il volto rock di Lecce, che iniziò, a cavallo del ’77, con il mix A tour in Italy dei Band Aid, è oggi confermato. I Band Aid non esistono più, ma il loro creatore, Tony Robertini, ventottenne dottore in filosofia è ancora sulla breccia. Tornato da Bologna e da Urbino, dove si è perfezionato, oggi ha dato vita a un nuovo gruppo, Moments of Life, che cerca le vie di un “pop transculturale”.

Mentre l’auto tagliava la litoranea, Pier appuntava il profilo di Toni sul suo taccuino. Dopo la telefonata di Pierfrancesco Pacoda il giornalista si era preso in carico il collega del Nord, e insieme al compagno di sempre, Alberto Giorgino, aveva preso a portarlo con sé nei posti che frequentava.

Il Corto Maltese a Lecce, il Tam Tam a Tricase, il Ciack a Castrignano, l’Enoteca a Maglie. Il Gatto Rosso a Melpignano, fucina della musica di quegli anni quando ancora la Taranta non era di casa, né se ne era mai vista la “Notte”, ma al contrario, si erano viste e sentite innumerevoli notti rock.

Lo portò anche in un appartamento nella periferia di Aradeo, via 24 Maggio, dove la musica erano lui e il suo gruppo a farla.

Aradeo - foto di Daniele Coricciati
Aradeo – foto di Daniele Coricciati

«Andiamo con ordine: La Mela d’oro era un collettivo di artisti che faceva teatro di strada, una specie di factory – ricorda Pierfrancesco Pacoda – quando si sciolse, il gruppo dei musicisti al suo interno diede vita ai Band Aid. In quegli anni avevano pubblicato due dischi con un’etichetta bolognese, “Italian records”, giravano nell’ambiente underground. Insomma, erano l’unica cosa veramente creativa che ci fosse a Lecce». Mino Toriano, Roberto Gagliardi, Felice De Donno, Paolo Cesano: qualcuno ha fatto carriera da musicista, qualcun altro no, Frank Nemola ha iniziato un lunghissimo tour con Vasco Rossi. Ma quando si è giovani si deridono le carriere. Così anche i Band Aid si sciolsero, e arrivarono i Moments of Life, qualche membro de La Mmela d’oro – Gigi Lezzi, Stefania Miscuglio, Massimo La Greca – insieme a due ragazzi “tedesco-occidentali”, che stupirono il giornalista Tondelli per la loro straordinaria raccolta di strumenti degna di un museo etnologico. Norbert Loghin e Effath Fatemah Djalili, esperimento di vita on the road finito in una casa-studio ad Aradeo, in via 24 maggio.

«Siamo arrivati qui in vacanza, per guadagnarcela andavano in giro a suonare. Lecce, Otranto: lungo la strada abbiamo conosciuto altri ragazzi che venivano dal teatro e dalla musica. Sono nati i Moments of Life, e noi siamo rimasti. Il mio compagno era percussionista, io cercavo di fare del mio meglio come potevo. Erano anni sperimentali, anni in cui era più importante fare qualcosa di nuovo che essere bravi. A Melpignano, una volta chiusa l’esperienza dei Moments of Life, con i Mista&Missis abbiamo vinto il concorso del festival “Le Idi di marzo”, e nell”89 siamo finiti in tour in Russia con Litfiba e Cccp. Ciò che abbiamo fatto allora, oggi non potremmo più farlo».

«Avevamo delle antenne, Toni era una di queste – sorride Mauro Marino – No Autostop è un disco autoregistrato e autoprodotto. La capacità di superare la provincia sta nel creare da soli i luoghi della produzione culturale, nello scarto dell’agire. Una cosa piccola, povera, autoprodotta, però mia. Mettere un punto, che non rimanga un sogno, un vagheggiamento. Avevamo cominciato a viaggiare, leggevamo questo avvertimento, “No Autostop”, a ogni casello. Sulla copertina del disco c’è una foto di quello di Pesaro».

No Autostop, il manifesto di quei ragazzi. Una pernacchia a chi o cosa impediva di andare. Perché, allora, si fermò quel viaggio?

Pochi anni più tardi, Toni ricevette una convocazione per insegnare a Brescia. Il suo caposervizio al Quotidiano di Lecce, Massimo Melillo, lo raccomandò a Brescia Oggi perché continuasse a scrivere, e difatti lo fece. Ebbe un figlio, continuò anche con la musica.

C’era tuttavia un dettaglio, in quegli anni, che si ostinava a stonare. Una nota sbagliata è la benedizione del jazz, dicono alcuni: chissà se è vero.

Giocare, con il proprio talento, alla roulette russa. Strapazzarlo, gettarlo, immiserirlo, sprecarlo, dannarlo, sapendo di poterlo ritrovare intatto il giorno dopo, ancora più brillante e sgargiante. Pier lo avrebbe scritto nell”88 per l’amico Andrea Pazienza. Ne avrebbero scritto in molti, negli anni Ottanta. Sgargiante, e maledetto, fu anche il talento di Toni. No Autostop, fine del tour.

Aradeo - foto di Daniele Coricciati
Aradeo – foto di Daniele Coricciati

Spento il registratore, Massimo Melillo avrà fumato mille sigarette, e non avrà da aggiungere altro.

Mauro Marino richiuderà il taccuino segnato di mappe e toponomastiche che non esistono più.

Alberto Giorgino sorriderà e basta, pregando un commiato.

Per un momento, Effath desidererà varcare la soglia di casa. Non lo farà.

«Abbiamo vissuto ad Aradeo per sei anni, e abbiamo anche messo su un laboratorio musicale. Nel ’91 siamo tornati in Germania, io ho fatto la logopedista. Non ce la facevamo a tirare avanti col minimo sindacale. E poi in quell’ambiente girava tanta eroina, Toni Robertini era morto per questo. Era ovunque intorno a noi. E con un figlio di mezzo, no, non si poteva più fare».

In ordine di citazione:

  1. ROBERTINI, «È vero, il jazz sembra fermo. Presto ci sarà qualcos’altro», intervista a Massimo Urbani, «Quotidiano di Lecce», n.d.

Id., «Il mio rock napoletano tra l’oriente e l’Europa», intervista a Pino Daniele, «Quotidiano di Lecce», n.d.

Id., Smiths, dolente poesia del rock, «Quotidiano di Lecce», n.d.

Id., Una boccata d’aria pura con quattro ragazzacci a cui non piace la politica, «Quotidiano di Lecce», n.d.

Id., Per una filosofia del rock, in «Libero cantiere», maggio 1998, n. 0

Id., Le scelte del rock, «Alfabeta», n. 104, gennaio 1988

P.V. TONDELLI, Ragazzi di piazza, «L’Espresso», 14 settembre 1986, ora in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a cura di F. PANZERI, Milano, Bompiani, 2001, pp. 251-254

Id., In punta di matita, Rockstar, n. 96, settembre 1988, ora in Opere, cit., pp. 229-232

Soundtrack

Band Aid, No Autostop, LP, Italian Records Service, 1981

Dan Brown a Frosinone e il Qualcunismo Rambista

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. Non si sa bene più da che parte cominciare per controbattere con gli scarsi mezzi di cui si dispone alla grancassa guerrafondaia di religione che proprio in questi giorni, dopo l’attentato della notte di Capodanno a Istanbul, ha ricominciato a rullare poderosa, accompagnata dallo starnazzare dei soliti tromboni.

Lorenzo. Tempesta di monnezza. C’è il momento in cui tutto congiura, la marea monta e non si può che fare surf. Stavolta poi c’è stato questo balletto degli identikit del terrorista. Davvero penoso. Dovremo parlarne a un certo punto. La caratteristica più evidente nell’infotainment italiano in questi giorni è stato questo voler pensare a Istanbul come a Parigi, cioè si è voluto dire “hanno attaccato NOI”, cosa che invece non era avvenuta in altri casi costantinopolitani. Ha pesato, chiaramente, il fatto del Capodanno. Ma guardando bene, come faremo, si scoprirà che questa è stata una cosa molto turca, come d’altronde l’assassinio dell’ambasciatore russo. Così come Parigi era stata una cosa molto francese, il Pulse una cosa molto statunitense eccetera. Ma nel pensare a quell’attacco come un attacco “a noi” si è dimenticata la geografia: la Turchia ha la guerra alle porte, la Francia no, gli Stati Uniti no. Guerra vera, dico. Non quella cosa che gli altri muoiono sotto le bombe e tu commenti su facebook. E si è dimenticata anche un’altra cosa: le notizie che arrivano dalla Turchia sono sempre meno affidabili, vista appunto la guerra e anche la repressione. Si è applicata insomma una lente prespite per cui la Turchia è tornata a essere Europa dopo mesi in cui la si situava ormai in Oriente.  

Anatole. Cadevano le braccia a leggere Panebianco sul Corriere della Sera, pronto a spiegarci che «i terroristi non sono folli, ma soldati del terrore» e «non dobbiamo negare il ruolo che la religione ha nell’arruolamento dei militanti per la guerra che l’Isis ci ha dichiarato». Soggiungeva che ci sono «atteggiamenti del mondo islamico nei confronti della società aperta occidentale e sugli aspetti della loro tradizione che hanno generato la sfida jihadista», senza spiegarci cosa intenda per «mondo islamico», quali siano questi famosi atteggiamenti, cosa dovrebbe mai essere la sfida jihadista. E parlando dei personaggi che stiamo ormai profilando da un anno uno per uno, comparandoli e cercando di capirne le specificità diceva che, poiché non si tratta di «folli attentati», ma di una «guerra dichiarata da qualche organizzazione (ieri Al Qaeda, oggi l’Isis, domani un’altra)», i soldati che la combattono sono «la versione contemporanea dei combattenti per la causa islamica dell’età medievale e della prima età moderna». Ora, da medievista io, islamista te, cosa abbiamo mai fatto per dover leggere una stronzata del genere? Certo, potevamo non studiare, siamo d’accordo, ma nessuno ci aveva detto all’epoca che avremmo dovuto soffrire così. A peggiorare le cose ci si mette anche Roberto Calasso, sempre sul Corriere della Sera, che ha preso ormai una linea fallaciana, nel senso che l’Islam è cattivo e liberticida e noi lo dobbiamo combattere, quella cosa che in altre occasioni abbiamo sintetizzato nei termini che la guerra santa “la fa l’ACI”, come nell’epico sketch di Guzzanti.

Lorenzo. Ah, bellissimo! Calasso dice che secondo lui dobbiamo analizzare i proclami rivendicativi dell’Isis, come si sarebbe dovuta dare maggiore importanza a Mein Kampf a suo tempo, che seppure si trattasse di testi deliranti, anche Freud ha costruito la sua teoria appresso ai deliri di Schreber, in un mattone di circa cinquecento pagine.

Anatole. Laddove tu m’insegni che ‘sti proclami sono ormai uno standard.

Lorenzo. Sì, sono più o meno lunghi come un tweet, tipo. Ai tempi di Bin Laden, che parlava via fax o video, c’era anche un motivo serio per studiarli con acribia (e li si studiò) perché registravano l’evoluzione di elaborazioni ideologiche. Oggi è un po’ diverso. Quelle elaborazioni ci sono più o meno già tutte, e l’ISIS non fa che accomodarsele in base alla situazione in cui si trova. Non vedere come è cambiata la propaganda dell’ISIS in questi anni è – quello sì – molto stupido. E’ poco utile esaminare queste rivendicazioni, è molto utile capire quando e per quale canale passano. La cosa è tanto più angosciante perché poi questo cappello di Calasso introduce il più grande delirio (il suo) mai letto nella storia dell’orientalismo dilettantistico, un’analisi demenziale della rivendicazione dell’attentato al Reina di Istanbul, secondo la quale si dice che l’azione ha colpito «dove i cristiani stavano celebrando la loro festa pagana». Non conoscendo l’Islam e meno ancora l’arabo, Calasso non capisce che la traduzione «pagani» individua una categoria di persone estranee all’Islam, non già una sofisticata lettura del mondo occidentale, che riconfiguri il jihad non già come guerra alla cristianità, ma ad un generico occidentalismo. Ora, questa clamorosa imbecillata, scaturita dall’incapacità di posizionarsi all’interno del discorso che si intende «analizzare» a causa dell’ignoranza in materia, vorrebbe andare a compattare il mondo occidentale, cristiani e non, dietro la bandiera islamofoba. Infatti, «tutti i fieri laici occidentali, convinti di essersi liberati di ogni impaccio religioso, ora dovranno rassegnarsi a riconoscere di essere soltanto dei vecchi pagani», quindi anch’essi sono «passibili di essere colpiti non meno dei cristiani, nella nuova guerra di religione». Ora cosa gliene freghi mai ai militanti dell’Isis se un non musulmano sia cristiano, ebreo o laico secolare, romanista, vegano o quello che vi pare non si capisce davvero. Tradizionalmente, spiegatelo a Calasso, i cristiani se la sarebbero cavata infinitamente meglio degli atei sotto una dominazione musulmana, poiché la gente del libro è storicamente giudicata affine ed è tollerata molto meglio di tutti gli altri (c’è lo statuto giuridico di dhimmi, che tradizionalmente si applica appunto ad Ebrei e Cristiani). Ma a ben vedere, come tante altre costumanze caratteristiche dell’Islam storico, anche questa parrebbe svanita nel nulla, in una riconfigurazione astorica, diremmo noi postmoderna, di ciò che l’Islam sia davvero.

Anatole. Anyway, dopo un approssimativo spiegone del fatto che la guerra è tradizionalmente guerra di religione e solo rari sono i casi di guerre guerre (da capire davvero che storia abbia studiato, costui), Calasso si risente della posizione pavida dei governi occidentali e della Cattolica Romana Chiesa soprattutto, che sarebbe al centro dell’attacco jihadista. La verità è che al Vaticano di Islam ne sanno infinitamente più di Calasso e si rendono perfettamente conto che non è in corso nessuna guerra di religione, certo non contro quella cristiana cattolica, che, peraltro, è apparsa piuttosto marginale come bersaglio, rispetto alla cultura laica progressista. Da Charlie Hebdo al Bataclan, dal Pulse al Reina, pur volendo intendere questi bersagli come obiettivi di un’unica organizzazione, e così non è, non si vede cosa c’entri la Chiesa Cattolica Romana con un locale gay, il giornale più anticlericale del mondo, una venue di concerti rock, eccetera.

Lorenzo. In Europa, tolto quello del parroco sgozzato vicino a Rouen in Francia nel luglio scorso, il caso di terrorismo più eclatante che riguarda la chiesa è certamente quello del lupo solitario quarantaduenne ciociaro con precedenti per droga e disturbi psichici, che a Roma giusto qualche giorno fa ha sfregiato due frati a Santa Maria Maggiore con un coccio di bottiglia, perché “La Chiesa non mi ha capito”. Peraltro, come riporta Repubblica, i due frati feriti, padre Gaeta e padre Ralph

sono tra gli “accusatori” di padre Stefano Manelli, il fondatore dei Francescani dell’Immacolata esautorato nel 2013 da Papa Francesco a causa di presunti abusi di potere, di gestione economica e anche sessuali. Nell’inchiesta vaticana emersero molte circostanze che sono successivamente diventate oggetto di indagini della Procura di Avellino, in quanto la maggior parte dei fatti avvenne a Frigento. Alcuni reati risultarono però prescritti. Tra l’altro, nel dossier ci sono due morti le cui cause non sono state chiarite: quella di un frate filippino e quella dello stesso commissario inviato dalla Santa Sede, padre Fidenzio Volpi.

Siamo ad un passo dallo sconfinare una volta di più nel complottismo, che Dan Brown spicciace casa!

Anatole. Spettacolare, meraviglioso, sublime. Ad ogni modo, la cosa più divertente dell’intervento illuminante di Calasso è la risposta al quesito «che fare?». Quest’altro gigante della cultura contemporanea ci dice che bisogna «rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia» e cioè «innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli». Ora, se questa guerra dichiarata fosse una cosa vera, sarebbe davvero meglio che il nemico lo studiasse qualcun altro, non Calasso, cioè qualcuno che sappia di che cazzo si stia parlando. E se consulti costoro, quello che ti dicono è che non è in corso una guerra dichiarata, quindi punto. Nel frattempo, giusto per la cronaca, Panebianco è passato ad occuparsi del Veganismo che sta scristianizzando l’Europa, per dire. Quel tuo libro col pollo in copertina è di per sé una risposta a tutto questo genere di imbecillate, quindi credo che possiamo passare oltre.

[Segue un lungo e silenzioso Double Facepalm tipo quello classico di Star Trek, poi…]

Lorenzo. Vabbe’, che dire, siamo al livello del troll di Facebook che pochi giorni fa mi ha accusato di sottostimare il problema del terrorismo, perché sarei troppo concentrato a impedire il diffondersi delle idee di Salvini&co. Faceva proprio riferimento ad alcune nostre precedenti conversazioni su Nazione Indiana. Io gli ho risposto che no, io e te non sottostimiamo niente. E anzi, hahhà (qui ci andrebbe tutta la mia bibliografia sul tema “terrorismo di matrice islamica” ma ve la risparmio). Lui allora se l’è presa e ha detto: ci sentiamo al prossimo attentato. Io ho trovato questo appuntamento molto interessante, cioè: definiscimi “attentato”. In cronologia abbiamo questa cosa che non so come vogliamo chiamarla di uno che all’aeroporto prende a pistolettate la gente. E’ un attentato? Devo incontrare il troll di Facebook per un check della situazione? Mi sa che conosco già la risposta che mi darebbe: non è un attentato perché non è rivendicato. Bene, allora si vede che questo “rivendicare” lo dobbiamo un po’ ragionare, altrimenti facciamo male i conti. Nel farlo consiglierò la lettura di Giuliano Battiston che nel suo ottimo Arcipelago jihad  a un certo punto ricorda il lascito teorico e operativo di uno dei jihadisti “dimenticati” di questi ultimi anni – Abu Mus’ab al-Suri. Battiston intitola un paragrafo “Il sistema, non l’organizzazione” perché questo è il concetto su cui si basa il pensiero teorico di questo jihadista. In tempi abbastanza lontani al-Suri è stato un teorico dei lupi solitari. Diceva sostanzialmente che bisognava mettere il cappello su alcuni profili umani che avrebbero fatto attentati. E così, mi sembra, è stato. L’ISIS questa cosa la fa benissimo.

Anatole. Certo, se ascoltassimo i vari Panebianco e Calasso, dovremmo abboccare a quest’amo, accettare la propaganda che l’ISIS elabora attorno attorno a questi profili dicendo: siamo in guerra, una guerra di religione, siamo crociati e dobbiamo trovare il modo di combattere questa guerra. Mentre invece siamo convinti che dobbiamo concentrare la nostra attenzione su quei profili, invece che su ciò che l’ISIS di quei profili vorrebbe farci credere, sul lavoro che l’ISIS fa utilizzandoli. Mi sembra che questa è la cosa che abbiamo fatto io e te in tutto questo tempo. Abbiamo capito che di personaggi profilabili come combattenti di una guerra santa è pieno il nostro mondo, indipendentemente dalla loro origine, razza, religione, appartenenza politica o tifo calcistico. Abbiamo registrato che questi personaggi si attivano in risposta a sollecitazioni che percepiscono come vicine, parte della loro vita, anche se non lo sono per niente. Per questo ci concentriamo sui lupi solitari e in cronologia mettiamo a questo punto anche Esteban Santiago, il massacratore di Fort Lauderdale.

Lorenzo. E qui veniamo all’aspetto più tragicomico della demenza collettiva attorno al problema che stiamo cercando di inquadrare da un anno, che cioè pochi giorni dopo che i tromboni al seguito della grancassa della Guerra Santa hanno trombonato la loro stonata cantilena, ecco che salta fuori un altro attentatore che scombina completamente il quadro e costringe a ripensare tutta la questione da capo. Infatti, anche ammettendo che il forse kirghiso o forse turcocinese uiguro uzbeko che entra in un locale di Istanbul e ammazza gente a caso abbia qualcosa a che fare con il killer forse gulenista forse no dell’ambasciatore russo ad Ankara o l’omofobo di origini pachistane del Pulse di Orlando, non si vede in che modo si possa situare nello stesso frame, quello della Guerra Santa, appunto, l’attentatore di Fort Lauderdale, tal Esteban Santiago, ventiseienne portoricano di Peñuelas, amante della boxe, reduce della guerra in Iraq, dalla quale è tornato con un disturbo mentale conclamato, come risulta dalle prime ricostruzioni.

Anatole. Parrebbe la risposta esatta alle domande stupide di Calasso e Panebianco, che cioè non si vede in che modo una guerra in Iraq o in Siria o dove ci pare possa metter fine a questa carneficina. Anzi, parrebbe proprio che quella in Iraq sia all’origine di quest’ultimo episodio. Inoltre possiamo dire che esce rafforzata la nostra idea, secondo la quale non è in corso nessuna guerra di religione, i collegamenti tra gli attentati che si susseguono sono labilissimi e fanno capo al modo in cui singoli attentatori si declinano come parte di un conflitto contro coloro i quali credono ancora nella possibile convivenza civile di tutti con tutti, che soltanto loro e Panebianco stanno combattendo. Ad esempio Santiago si declina in questo conflitto come un mezzo matto che sente le «voices in his head telling him to commit acts of violence» come risulta da un articolo del New York Times. Inoltre, si rafforza anche l’ipotesi che la vera guerra in corso sia quella tra apocalittici e integrati, cioè tra tutti coloro che trovano un posto nel mondo e quelli che invece no. In assenza di canalizzazioni classiche, che ne so, la lotta di classe, si produce questo luposolitarismo qualcunista incontrollato, che abbiamo etichettato come sindrome di Lee Oswald, ma stavolta somiglia parecchio a una cosa tipo Rambo, ma flippata debbrutto. Intervistato dal New York Times, Bryan Santiago Ruiz, un manager di Boxe a Peñuelas, piccola città portoricana dove Esteban è cresciuto, dice che il fratello «said he heard certain voices, that the U.S. government wanted to enroll him in certain groups for ISIS, and he was very paranoid […] that the C.I.A. controlled him through secret messages over the internet and told him the things he had to do». Anche Christopher Tolley, il capo della polizia di Anchorage in Alaska, dove Esteban abitava (!), sostiene che«Santiago was having terroristic thoughts and believed he was being influenced by ISIS». Cioè, posseduto dall’Isis a causa della CIA che gli passava messaggi segreti via internet. Gravemente debordante nel complottismo, nel senso che sto tipo si è praticamente costruito un complotto su misura contro di lui, secondo il modello qualcunistico che abbiamo abbondantemente sviscerato, ed ha agito di conseguenza. Ma sul caso sta investigando Agent George Piro dell’FBI, lo stesso che interrogò Saddam, vedremo cosa salta fuori. Ora, come di consueto, si tratterebbe di mettere a confronto questo profilo con quello del “cinese”, che nel gergo prêt-à-porter sbocciato negli ultimi giorni sarebbe l’attentatore del Reina di Istanbul.

Lorenzo. Al netto delle notizie che escono dai meandri più profondi del Ministero degli interni turco si impone subito un problema di passaporti. Si diceva “il cinese” perché si pensava fosse uiguro, cioè un turco uiguro coi documenti cinesi. Poi si è passati al kirghiso, cioè a una persona con passaporto kirghiso ma non necessariamente un kirghiso perché non è affatto detto che se hai il passaporto kirghiso sei kirghiso. In Kirghizistan ci sono un 65% di kirghisi, un 12,5 di russi, un 14% di uzbechi, ci sono anche degli ucraini, dei tagichi, dei tatari. Non tutti parlano il kirghiso, anzi. Ma il nome proprio di questo qui, Iakhe (cioè in ultima analisi Giovanni passando per il Yahya coranico), ricordava che la sua famiglia doveva essere in qualche modo di origine musulmana. Col kirghiso si apriva un file, oltre a quello della turcofonia (uiguri e kirghisi appartengono al mondo turcofono e si poneva dunque la questione di un panturchismo ripreso da Erdogan in politica estera). Si apriva il file delle repubbliche “islamiche” ex-sovietiche che si chiamano in quel modo ma non è che siano davvero “nazioni” in senso classico: sono agglomerati istituzionali-politici eredi del vecchio sistema dell’URSS. In Uzbekistan, per dire, ci sono tanti uzbeki, più o meno l’80%, ma anche dei kirghisi (pochi, meno dell’1%, ma ci sono), oltre a tagichi, tatari, russi, caralpachi. Cioè: si apriva anche il tema del terrorismo islamico in queste aree, della reislamizzazione ad opera dei sauditi, della repressione del terrorismo e dei foreign fighters provenienti da queste aree e andatisi a sfracellare in Siria. Insomma una babele, che sui giornali è diventata una cambogia a partire dal fatto che, certo, se il terrorista era uiguro, bisognava dire del dramma degli uiguri in Cina, ma se era kirghiso toccava mettersi a ragionare sulla radicalizzazione in Kirghizistan e così via. Il che poneva una serie di temi, anche storiografici, molto seri.

Anatole. Che voglia di porseli ”sarteme addosso”, si dice a Roma. Quanto fai prima a parlare di una guerra di religione tra Islam liberticida e Occidente libero? Una cifra. Quindi mi pare che si sia proceduto in questo senso, senza darsi il tempo di approfondire.

Lorenzo. Sì, il problema tornato fuori quando l’interpretazione era già confezionata, quindi in sostanza non gliene frega già più niente a nessuno.

Anatole. A noi pare che freghi.

Lorenzo. Infatti.

Anatole. Dunque?

Lorenzo. Dunque ad oggi le notizie provenienti dalla Turchia dicono che l’attentatore del Reina dovrebbe essere uzbeko, e questa cosa la si lascia così, senza commento, perché ormai se ne sono dette di tutti i tipi sugli uiguri e sui kirghisi (sempre che le persone con quei passaporti appartengano alle comunità linguistiche maggioritarie nei loro paesi). Senonché qualcosa salta all’occhio: il cognome di questo soggetto uzbeko – che, ricordiamolo ancora, non è stato catturato – è praticamente lo stesso del soggetto kirghiso – Mashrapov vs Masharipov. Il che da un punto di vista suona anche normale, essendo che, appunto, al di là della nazionalità, in quell’area c’è un bel miscuglio, oltre alla tabula rasa elettrificata generata dall’imperialismo russo-sovietico in decenni di russizzazione. Guardando al volo la distribuzione dei cognomi Mashrapov e Masharipov si vede che sono molto ben distribuiti in tutta quell’area. Questa normalità tuttavia non rende meno acre il sapore strano che una quasi omonimia lascia in bocca: viene da pensare che la polizia turca abbia avuto l’imbeccata su un cognome e da lì sia partita per la ricerca del terrorista. Comunque: sia il kirghiso che l’uzbeko sono narrativamente legati all’organizzazione dell’ISIS. Il kirghiso era, secondo ciò che è stato detto dalle autorità turche, un foreign fighter in arrivo dalla Siria. L’uzbeko invece era proprio parte di una cellula uzbeka dell’ISIS assopitasi a Konya, sembra. E qui c’è un’altra sovrapposizione: Konya. La famiglia del kirghiso è stata arrestata a Konya. Quindi l’imbeccata doveva essere una cosa come: “cercate Mashrapov/Masharipov a Konya”, una cosa che prima si è tradotta nell’individuazione del kirghiso e della sua famiglia e poi nella ricerca dell’uzbeko in dormienza.

Anatole. Quindi?

Lorenzo. Quindi boh. Non so dove arriva questo discorso, sinceramente, perché se fonti traballano. Posso concludere con una riflessione su questo: in Turchia non c’è all’oggi tutta questa libertà di espressione. Cioè i giornalisti li arrestano e ci dobbiamo fidare di quello che dicono gli investigatori. Alla domanda “chi è l’attentatore del Reina” rispondo sinceramente con un “ah, saperlo”. E se mi chiedi: “era un lupo solitario”? Io ti dico: tutte le versioni date finora non lo identificano come un lupo solitario, ma ci sono tante ragioni per mettere in circolo versioni tarocche. Poi, vista la prossimità con la Siria, dove si combatte davvero, tutto è possibile.

Anatole. Ok, quindi, ricapitolando: ci sono vari tentativi di ricollegare il nostro al famoso fronte della Guerra Santa che starebbe insanguinando le strade europee, perché l’Islam è liberticida e l’Occidente je sta sur cazzo. Ma la domanda che alla fine resta in piedi, alla quale come al solito dobbiamo dare una risposta, è quale guerra stiano davvero combattendo Mashrapov/Masharipov e Santiago. Cioè, è la stessa guerra o no? Come si colloca il veterano della Puerto Rico national guard che torna dall’Iraq e spara a caso all’aeroporto di Fort Lauderdale nella guerra che l’uzbeco jihadista porta dentro un locale di Istanbul? E ancora, in che modo entrambi combattono la stessa guerra dell’attentatore di Monaco, quello che gridava «turchi di merda» sparando dal tetto di un supermercato, del pluripregiudicato tunisino che si spaccia per calabrese alla stazione di Milano, dopo aver schiantato un camion contro un mercato natalizio a Berlino, dell’attentatore omofobo di origini pachistane che ha sparato sulla folla al Pulse di Orlando, di quello forse gulenista forse no che ha sparato all’ambasciatore russo ad Ankara, di quello francese che a Nizza ha lanciato un TIR contro la folla il 14 di luglio? È la stessa davvero o no? È santa? Non è santa?

Lorenzo. Io penso che ognuno di loro abbia fatto proprio un discorso bellico, sempre più sdoganato nel senso comune. C’è una guerra vera e una guerra percepita. Chi dice “c’è una guerra santa” alimenta questa percezione.

Anatole. Cioè, nell’ultimo anno abbiamo provato a dire perché secondo noi non è in corso nessuna crociata in risposta a nessun jihad, che cioè il frame della guerra santa è una cazzata atomica, elaborata sulla base di evidenze esigue e competenze ancor più labili. Abbiamo ipotizzato, piuttosto, che, invece, ci sono gli estremi per identificare una guerra mondiale più profonda in corso tra apocalittici ed integrati, della quale il frame della guerra santa è solo uno dei tanti prodotti. Abbiamo ritenuto urgente demistificare i collegamenti abusivi tra i vari attentati avvenuti in Europa negli ultimi anni, provando a capire perché e percome non fossero tutti la stessa cosa, cioè perché i vari attentatori non combattessero tutti la stessa battaglia, colpendo vittime innocenti più o meno a caso in Europa, come in Medio Oriente, in Africa come negli Stati Uniti. Gli ultimi eventi sanguinosi ci danno ragione? Ci danno torto?

Lorenzo. Non ci danno torto. L’impressione continua ad essere la solita, che ognuno di questi figuri sinistri combatta la sua guerra, collegandosi in maniera variabile, più o meno diretta, a quello che succede o a quello che essi pensano che succeda. In taluni casi i collegamenti col famoso Califfone sembrano più stretti, in altri molto meno, in altri per niente significativi, certe volte capita che a sparare sulla folla inerme siano i soldati della guerra vera, quella che si combatte sul serio, altre volte sono personaggi che arrivano a partecipare a questo conflitto in maniera del tutto individuale, dopo trascorsi di tutt’altro genere. Insomma, penso che il nostro impianto sia ancora quello che spiega meglio la complessità delle cose che accadono, di certo meglio della presunta Guerra Santa tra Islam e Occidente. Quello dell’ISIS è solo uno spezzone, di certo molto significativo e su cui ragionare molto, di qualcosa che avviene qui, cioè in un posto dove la guerra non c’è, e non avviene lì, dove la guerra c’è.

Anatole. Se questo doveva essere un crash test per le nostre teorie penso che l’abbiamo superato.

Lorenzo. E come al solito abbiamo vinto una cosa tipo un buono per acquistare le pentole di Padre Pio col 25% di sconto, ma senza panino, che fatalmente costa un botto. Ma aspetta, facciamo un ultimo check, l’attentato di Gerusalemme di qualche giorno fa.

Anatole. Ok

Lorenzo. Allora: il camion è Nizza, Berlino.

Anatole.

Lorenzo. Quindi Netanyahu dice che è un attentato dell’ISIS.

Anatole.

Lorenzo. Hamas dice: “bene così, avanti con l’intifada”.

Anatole. Quindi si intesta la cosa.

Lorenzo. Sì. E mentre Netanyahu, iscrivendo questo attentato nella lista degli atti di guerra contro l’Occidente fa bingo sottintendendo che ISIS e Hamas sono la stessa cosa, Hamas può continuare a dire che sta facendo la guerra contro Israele.

Anatole. Benissimo.

Lorenzo. Sì.

Anatole. E però è una cosa israelo-palestinese.

Lorenzo. Esatto. L’obiettivo è militare.

Anatole. È una guerra santa medievale dell’Islam contro l’Occidente pagano ecc.? Cioè, situandosi nel frame di Panebianco, pure i giudei sono pagani come i cristiani e i laici progressisti, praticamente. Ci sta.

Lorenzo. È un’ulteriore capitolo della terribile vicenda israelo-palestinese. L’attentatore ha tratto ispirazione da Nizza e Berlino, ma prima ancora da Baghdad e simili, ovviamente. Soprattutto:  attacchi con veicoli in Israele se ne vedono dal 2001.

Anatole. E in base a questo c’è chi, qui, dice: lo vedete? Siamo in guerra.

Lorenzo. Direi di sì.

Anatole. Ma contro chi?

Lorenzo. È una guerra che ognuno si confeziona a suo piacimento contro chi gli pare di giorno in giorno, a geometria variabile, poi all’indomani di eventi terribili salta fuori questa “gran voglia di ISIS”, cioè di dire che c’è questo grosso nemico unico da sconfiggere. Lo si fa un po’ perché così si taglia corto su cose assai complicate e allarmanti per molti motivi. Ad esempio questo fatto che a un certo punto quasi chiunque qui si può mettere a fare stragi per i motivi più diversi è molto preoccupante. Cioè, il fatto che esci per strada e uno qualunque (anzi, uno Qualcuno) pone fine alla tua vita perché questo nostro pianeta è ormai fatto così è difficile da digerire. Le soluzioni a questa cosa sono complicate e presuppongono impegni che nessuno neanche lontanamente vuole iniziare a prendersi. Quindi daie, famo che è l’islam, famo che è l’ISIS. Se leggi “Le tre armi impugnate dal Califfo” di Maurizio Molinari capisci di cosa parlo.

Anatole. Temo di sì, ma mi sa che me lo risparmio. Ad ogni modo l’attentatore ciociaro ex tossico di Santa Maria Maggiore parrebbe l’unico che ce l’avesse su dichiaratamente con la chiesa: ha urlato “preti demmerda”, tipo, invece che il solito banale ”Allah Akbar”, o “guardie infami”, come il tunisino calabrese. Sarà forse stato ispirato dalla canzone di Calcutta: “Noi a questa America daremo un figlio / Che morirà in jihad / Ti chiedo scusa se non è lo stesso / Di tanti anni fa / Leggo il giornale e c’è Papa Francesco / E il Frosinone in Serie A”.

Lorenzo. O forse ha rosicato che è tornato in B, il Frosinone.

Anatole. E no la Lazio.

Lorenzo. Purtroppo.

Anatole. Infatti.

Medusa

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di Luca Bernardi

Saltellando sugli scogli conto quattordici granchi nel secchiello arancio. Gliene avrò già visti spiaccicare altrettanti nell’ultima settimana. Il moccioso afferra un neonato minuscolo, tenendolo con due dita al centro, dove le chele non possono arrivare. L’uovo copre il sole. Gli agguanto la testa castana, ora ti faccio vedere io…

Il ciccione me lo tira via, poi mi molla un altro calcio nel costato. La moglie urla, il marmocchio le frigna addosso. Ondeggio con il respiro spiaccicato.

Dove pensi di andare?, grida il padre.

A chiamare la polizia, bluffo.

Abbiamo le vene pulsanti. Inspirare ed espirare, diceva l’Omeopata, visualizzare i grumi d’aria come fossero caramelle.

La chiamiamo noi la polizia, dice la madre, se non ti fermava cosa facevi, lo ammazzavi?

La possibilità si posa battendo i denti. Divarico le gambe. Il ciccione tampona il sudore e rimira la chiazza di peli lucidi sul polso. Avanzo per saggiare reazioni. La madre raccoglie il retino del pargolo sputando parolacce. Faccio un altro passo. Sono a meno di tre metri dal padre, ho il cuore nella trachea. Centottanta pulsazioni al minuto. Rovescio il secchiello in un pertugio e proseguo senza voltarmi.

Oh Guevara dei crostacei! Ma racconti piuttosto di quando ha preso la testa dell’altro biondino e l’ha tuffata nel…

Avvertenza al primo fascicolo del Dizionario Semiologico Abissale

Pare vada ganzo sgamare ufo nei Veda, marziani nelle pitture neolitiche, sberleffi extraterrestri nel rapporto fra i cateti di ogni sasso di Stonehenge. Tipo che gli australopitechi lo sapevano, comunque, qualunque sia il quizzone in cui noi trogloditi ci di-battiamo a colpi di microonde, loro scimmioni lo sapevano, fin da prima che al primissimo King Kong venisse la fregola di alza-re il grugno verso le orbite del caos, non solo cos’è lo spin negativo o perché risulta infalsificabile l’ipotesi di Pasadena ma addirittura nomi e cognomi di chi prima dell’invenzione dei giorni ha trifolato la terra di coriandoli al carbonio, e paffete, la primavera!

Oggi qualunque mentecatto può ammorbare l’homepage con inciuci fra la supersimmetria e il mignolo di suo cugino, il motore a curvatura gravitazionale e la tinta sbiadita del rosario al polso di una gattara in un pomeriggio bolzanino dell’inverno ’95-’96, rendendo sempre meno improbabile l’eventualità di scovare, in pole position sopra un album di residui placentari, elucubrazioni sulla permutabilità di concetti quali anima ed energia, radiazione e angelo, Dio e qualsiasi-roba-va-bene-basta-che-sia-vaga.

Poiché nel presente studio non ci si prefigge di sputar sentenze bensì di apportare metasignificazioni, proveremo a fornire di tale fenomeno un’interpretazione il più possibile pretestuosa. Per esempio che talvolta tocca concordare con i massimi dottori dell’evo moderno, secondo cui chicchessia invece di procacciar serata incisti sul divano e devii in epistemologemi tipo boah il big bang è shiva e shiva è l’uovo no?, segnala la cosiddetta  vacanza dei valori, che del resto è sempre un po’ sottendere che il mondo sia squagliato insieme agli idoli, e ciò come è noto alla teoresi giova, e anche questa cosa della figa, che i giovani svezzati in temperie decadenti non desiderino più saltare sulle mine bensì timbrare imeni non costituisce forse un campanello d’allarme per società in cui con i valori non compri neppure la roba maltagliata, quella che poi la gente poco adattabile ci finisce secca al tiggì regionale?

Oppure hanno ragione loro, i tabaccai della trascendenza in centoquaranta caratteri, le Upanishad sono un precoce trattato di fisica subatomica licenziato da un geniere di Alpha Centauri, basta leggere il Corano al contrario seicentosessantasei volte e sbuca un et olografico a recitare la composizione della pietra filosofale, e se solo ci si prendesse la briga di abradere ogni settima parola su tredici l’Apocalisse diventerebbe un apologo sulla diversità interspaziale, e in alcuni Mandala tibetani a scrutar con cognizione si palesano leggi dei gas tutt’ora ignote oltre alle canoniche di Gay-Lussac, e nelle bende di Tutankhamon, se guardi bene, sono incisi in Garamond l’anno e il mese e l’ora della marcia su Nettuno… Insomma l’universo, quel gran burlone, sarebbe un network al cui interno l’umanità, da troppo intenta a covare estinzioni universali (1) e perciò bannata dagli altri utenti, veleggerebbe ai margini, consentendoci di concludere, sic et simpliciter, che effare assurge a più temeraria sfida di qualsiasi coincidenza fra flauto di Krishna e moto perpetuo delle ghiandole di Rihanna in ambiente privo di gravità.

                (1)   Termine indigeno per indicare i contorni della cuccia.

La Twingo tossisce nella pioggia appenninica.

Insomma, a loro interessano le emozioni, dico agli altri, che chiamano amore non ho capito se per convinzione o fraintendimento. Già dopo una dozzina di incontri hanno smesso di parlare di fini scientifici. Devono essersi informati sul mio spaziotempo e aver optato per una retorica imprenditoriale.

O magari è la verità. Potrebbe esserci tutta un’economia bislacca che tira avanti grazie a personaggi come me, Elia, Trismegisto o l’anonimo schizzato che per quarant’anni impila lemmi fantasma su un muro di manicomio. Ogni tanto, mentre li aspetto, immagino la trafila snodarsi fra gli universi, navicelle piene di emozioni all’ingrosso camuffate da riserve di idrogeno che allo spuntare della madama aliena si fiondano dentro un quasar, l’occhio accecante di amori umani clandestini della navemadriluna circondata da file di shuttle monoposto i cui occupanti scorporati fremono nella solitudine dell’astinenza interstellare.

Non ho capito una roba, dice Loriz, ma ’sti alieni… Esistono?

Il Prozzio russa. Il Ginger si specchia beffardo.

Sicuro, se te lo dice lui…

tratto da: Luca Bernardi, Medusa (Tunué, 2016)

Writing the real. Un’antologia di poesia francese contemporanea

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Thomas Jones - A wall in Naples
Thomas Jones – A wall in Naples

di Ornella Tajani

Per la Enitharmon Press è uscito di recente il volume Writing the real. A bilingual anthology of contemporary French poetry, a cura di Nina Parish ed Emma Wagstaff. L’opera, in edizione con testo a fronte, si propone di offrire una panoramica sulle voci che hanno popolato la scena poetica francese degli ultimi vent’anni.

Secondo le curatrici, è “l’extraordinaire pouvoir de convocation critique du réel” a rappresentare il filo che collega i vari autori presenti nel volume. Ognuno di loro dialoga con il reale secondo modalità differenti: che si focalizzi l’attenzione sul paesaggio urbano, si utilizzino documenti reali, filmici o testuali, o si manifesti un evidente intento politico, ogni componimento mira a sfumare la distinzione tra riflessione e azione, proponendosi, come suggerito nell’introduzione, di operare concretamente sulla realtà.

I poeti sono Christian Prigent, tradotto da Jérôme Game; Nathalie Quintane, trad. Macgregor Card; Pierre Alferi, trad. Kate Lermitte Campbell; Michèle Métail, trad. Susan Wicks; Anne Portugal, trad. Jennifer Moxley; Jean-Michel Maulpoix, trad. Michael Bishop; Sabine Macher, trad. Simone Forti; Jérôme Game, trad. Barbara Beck; Christophe Tarkos, trad. Jérôme Game; Oscarine Bosquet, trad. Simone Fattal & Cole Swensen, Sarah Riggs e Ellen LeBlond-Schrader; Anne-James Chaton, trad. Nina Parish; Jean-Marie Gleize, trad. Joshua Clover, Abigail Lang & Bonnie Roy; Béatrice Bonhomme, trad. Michael Bishop; Stéphane Bouquet, trad. Michelle Noteboom; Philippe Beck, trad. Emma Wagstaff; Sandra Moussempès, trad. Eléna Rivera; Gilles Ortlieb, trad. Stephen Romer; Jean-Michel Espitallier, trad. Keston Sutherland.

Come chiariscono le curatrici, in questa antologia bilingue non c’è un approccio traduttivo dominante; alcuni traduttori hanno tradotto un unico poeta, altri più di uno; un traduttore compare anche come autore di propri componimenti e, dal canto loro, le due curatrici si sono prestate in un due casi all’opera di traduzione. Una pluralità di voci esaltata nella sua polifonia proprio dall’opera di una pluralità di traduttori.

Ne presento qui una selezione, per gentile concessione dell’editore e delle curatrici. Gli autori sono, nell’ordine, Christophe Tarkos (da Ecrits poétiques, P.O.L, 2008, trad. Jérôme Game); Stéphane Bouquet (da Les amours suivants, Champ Vallon, 2013, trad. Michelle Noteboom); Gilles Ortlieb (da Le Train des jours, Finitude, 2010, trad. Stephen Romer); e Sandra Moussempès (si tratta di un estratto del componimento Culte, da Sunny Girls, Flammarion, 2015, trad. Eléna Rivera).

*

CHANSON 4

Révolution
Je cherche un camarade
pour faire la Révolution
En avant
Nous prendrons les faits,
nous irons avec les Faits
Faire la révolution
Devant la grande Substance
Le monde s’éveillera
On étendra la révolution
à la grande Substance
Il n’y a pas que les Doigts dans
la Main
O tro lo lo Ie to tro lo lo
Le Sac grandiose la Révolution
Incommensurable
Min min lon lon fan fan don
don ma Dondé
On répandra écraser
écrase croustille, écrase agrandit
écrase étend, écrase multiplie
écrase étoile, écrase disparaît
Ou On l’Ecrase ou on le Tire
Ou il Gonfle
L’écraser et le manger
et le gonfler et le tirer
et le parler et le croustiller
et l’étoiler et l’être et l’enculer
L’être et l’enculer
C’est la révolution

[C. Tarkos]

SONG 4

Revolution
I’m looking for a comrade
to make the Revolution
Onwards
We’ll take the facts
we shall go with the Facts
Make the revolution
Before the great Substance
The world shall awake
We’ll spread the revolution
to the great Substance
There’s not only Fingers in
the Hand
O tro lo lo Ie to tro lo lo
The grand Sacking the Revolution
Incommensurable
Min min lon lon fan fan don
don my Dondy
We’ll spread crushing
crush crisps, crush expands
crush extends, crush multiplies
crush fans out, crush disappears
Either We Crush it or we Pull it
or it Swells
To crush it and eat it
and inflate it and drag it
and speak it and crisp it
and fan it out and be it and bugger it
To be it and bugger it
It’s the revolution

[trad. J. Game]

***

(da Les amours suivants, di S. Bouquet. Trad. M. Noteboom)
II

Dans le métro je lève la tête du livre et
oh… il tient des fleurs pas pour moi
et une boîte à gâteaux
pas pour moi… une fois de plus où un visage est un dangereux
débarquement d’espérance
par ex. nous ne sommes pas déserts de demains… la preuve tu es
là… débutant à la lisière
des actes humains et ta peur de revenir
sans sourires… ça va aller… sinon je pourrais
à la place t’entourer d’affection … inventer
des canapés de lumière
les installer bien soigneux dans le fond
d’accueil de mes chambres intérieures où je prie allongé contre
la tendresse du dasein ou tout autre impression de tiédeur

II

In the metro I look up from the book and
oh… he’s holding flowers not for me
and a cake box
not for me… once again a face is a dangerous
disembarkment of hope

e.g. we’re not void of tomorrows…the proof you are
there… beginner on the cusp
of human acts and your fear of coming back
with no smiles… it’ll be ok… or else instead

I could surround you with affection… invent
couches of light
and set them up carefully in the welcoming
recesses of my inner rooms where I pray lying against
the tenderness of dasein or any other impression of tepidity

***

GRUES ET FUMÉES
(di G. Ortlieb. Trad. S. Romer)

Visibles ce matin de la fenêtre comme chaque matin,
quelques ouvriers en tenue orange, casqués, et occupés
à démouler, étage après étage, l’immeuble neuf qui
s’élèvera bientôt à la place de l’ancien cinéma Victory,
détruit. À mi-distance, tendue sous un auvent de zinc
branlant, et remuant tout juste sous les coups de vent,
une serviette couleur bleu roi, évoquant assez une toile
de Thomas Jones intitulée, si je ne me trompe pas,
Un mur à Naples ; et une volute de fumée s’échappant
avec un débit variable d’un conduit parallélépipédique
débouchant, rouge brique, parmi des toitures en pente.
Voici donc pour les choses aperçues en mouvement
aujourd’hui : le gris d’une fumée, un menu rectangle
bleuté et les déplacements huilés, tout à fait silencieux,
de deux grues jumelles détourant leurs armatures jaunes
contre le ciel brouillé – sans oublier les blocs de béton
énormes dont elles sont lestées, et qu’il est impossible
de ne pas imaginer chutant au milieu des passants, ou
sur des carrosseries de voitures aussi faciles à froisser
que du papier aluminium entre les mains d’un marmiton.
Grues et fumées : elles me paraissent assez bien figurer,
tandis que je les observe alternativement, deux principes
qui nous sont, d›une certaine manière, inhérents : le dur
et le gazeux, le rigide et le volatil, le solide et l’inconstant
autrement dit le jaune et le blanc, l’eau et le fer, la plume
dans le vent, et ce qui a été bâti pour lui résister sans plier.
Ou encore la nuée, la buée, les vapeurs, les exhalaisons
et, d’un autre côté, la mécanique engrenée, faite maison.
Les unes et les autres montrant d’ailleurs une résistance
analogue, survivant aux saisons et au bal des semaines,
guère menacées dans leur existence et peu menaçantes.
Grues et fumées aux mouvements gratuits ou calculés,
compagnie accoutumée de jours, comme elles, partagés
entre la construction et la déperdition, entre le ciment
et la dissolution: double exemple à suivre, absolument.

 CRANES AND SMOKE

Visible this morning through the window, like every morning,
a group of labourers in hard-hats and orange overalls, engaged in
freeing, like a multi-storied cake from its mould, the brand new
tower-block, rising where the old Victory cinema used to be,
now gone. In the middle distance, spread out below an unsteady
zinc awning, and stirring very slightly in the gusts of wind,
a royal-blue towel, that strongly brings to mind a painting by
Thomas Jones entitled, if I’m not mistaken, A Wall in Naples.
There’s a scroll of smoke of variable outflow escaping from a
parallelepiped conduit, poking up from amongst the angled roofs.
This, then, is the gist of things perceived to be in movement today:
grey smoke, a small blue rectangle, and the well-oiled, absolutely
silent movements of two twin cranes, whose yellow armature
is thrown into relief against the clotted sky – not forgetting
their attachments, two huge blocks of concrete ballast, whose
only-too-imaginable-fall would scrumple the cars below
like a sheet of tinfoil between the hands of a baker’s boy.
Cranes and smoke: observing the one and then the other,
they seem to figure twin principles, both of them in some sense
intrinsic to us: the hard and the vaporous, the rigid and the volatile,
the solid and the flighty; or in other words yellow and white,
iron and water, the feather in the wind, and the thing constructed
to resist the wind unyieldingly. Cloud and breath, condensations
and exhalations, and against them, the home-grown machinery
with its cogs meshed. Both principles, what’s more, exhibit
a similar kind of resistance, to the seasons and the weekly cycle,
their existence on the whole unthreatened and unthreatening.
Cranes and smoke, with their movements random or calculated,
habitual accompaniment to days that are, like them, divided
between building and dispersal, cementing and coming loose,
both after their fashion exemplary, and hence to be followed.

***

CULTE
(di S. Moussempès. Trad. E. Rivera)

Certaines princesses sur le tard ont pour obligation de placer
chaque jour dans leur pensée, une expression d’orfèvre comme
« retour à la normale »

Les forêts emmêlées à leurs pieds sont des joies quotidiennes
rarement volées par une sorcière

De plus en plus les princesses se canonisent au vernis à ongle vert
dépréciant ainsi toute forme de revanche

Non
est la nouvelle définition de
stop
remplaçant fourchettes borderline
& peur de peur de

CULT

Certain princesses who came to it late in life have an obligation
every day to place in their thoughts a sterling expression like
“return to normal”

Entangled forests at their feet are daily joys rarely stolen by
a witch

Increasingly princesses become canonized with green nail polish
in this way belittling all forms of revenge

No
is the new definition of
stop
replacing psychotic forks
& fear of fear of

I Cimbri dell’Altipiano di Asiago

2

di Roberto Antolini

lavarone-panorama-sole

 

 

Zimbarn

Si calcola che fossero circa 20.000 le ‘anime’ che parlavano cimbro alle soglie dell’età moderna, nel Cinque- Seicento, distribuite intorno ad Asiago, in una zona pre-alpina che si allargava su territori delle attuali province di Trento, Vicenza e Verona. Un’area limitata ad ovest dalla bassa Val d’Adige, a nord dalla Valsugana, ad est dal territorio pedemontano delle cittadine vicentine di Bassano, Schio, Thiene e Valdagno, per sconfinare a sud nella Lessinia veronese. Il cuore di questa area cimbra era la piccola ‘Reggenza’ dei 7 comuni, sull’altipiano di Asiago (confinante con quello di Lavarone, appena oltre il passo di Vezzena).  Questa ‘Spettabile reggenza dei Sette Comuni’Hòoge Vüüronge dar Siban Komàüne in cimbro – godeva di condizioni di quasi completo autogoverno, pur all’interno della compagine della Repubblica di Venezia dal 1405, quando in funzione difensiva contro vicini più aggressivi era intervenuto uno ‘spontaneo atto di dedizione’, pattuito in cambio del riconoscimento dei propri antichi statuti di autonomia. Nel XVIII secolo i primi osservatori attenti del territorio prealpino hanno notato la ‘stranezza’ di queste popolazioni: l’erudito ed antiquario veronese Scipione Maffei, nella sua opera “Verona illustrata” del 1732, ha scritto «trasferitici noi però in que’ monti, e fatta in più luoghi diligente perquisizione, abbiam trovato Tedesco veramente essere il linguaggio, ma con questo di mirabile, che in gran parte è quel de’ Sassoni, cioè il Toscano della Germania … con tutto ciò se il linguaggio di questa gente s’accostasse al Tirolese, o a quello d’altra provincia all’Italia prossima, e partecipasse de’ lor suoni e pronunzia, non sarebbe da farne gran caso: ma l’udirsi quivi il parlar de’ paesi situati nell’estremità opposta della Germania e per sì vasto intervallo disgiunti, e l’udire in Italia donne non uscite mai de’ lor boschi, ed uomini vissuti con far carbone, parlar il fiore dell’antichissima lingua Germanica, maraviglia reca e piacer grandissimo»[1]. L’origine di questo antico insediamento germanico prealpino è ancora avvolto nelle nebbie, e – in mancanza di precise fonti documentarie – trova incerti anche gli storici. Fino al XVIII secolo circolava fra letterati classicheggianti (fra i quali Maffei) la teoria che questi cimbri sarebbero stati i resti dell’orda barbarica dei cimbri classici, scesi in Italia dalla Danimarca nel 101 a.C., sconfitti dall’esercito di Caio Mario, e rifugiatisi quindi – secondo loro – sull’altipiano di Asiago. Complice il parallelo nome di “Cimbri”,  Zimbarn, che però nel caso dei nostri coloni medioevali potrebbe esser nato – più modestamente – «in connessione al mestiere di taglialegna che veniva praticato dalla maggioranza degli immigrati (Zimmermann, zimmern)»[2] come dice Lydia Flöss. Dall’Ottocento, studi linguistici hanno indicato invece nel linguaggio cimbro usato ad Asiago caratteristiche che lo farebbero derivare all’alto tedesco parlato nei secoli  X-XI in un’area posta fra Baviera, Tirolo e Svevia. In quel tempo il territorio di Asiago era sotto il controllo della famiglia degli Ezzelini, una famiglia feudale di origini germaniche, che potrebbe aver favorito l’insediamento in quelle terre di coloni germanici. Così come potrebbero aver favorito l’insediamento di coloni germanici gli stretti rapporti che intercorrevano fra il monastero bavarese di Benediktbeuern – in possesso di vasti territori fra Baviera e Tirolo – l’abbazia di Santa Maria in Organo di Verona, e l’abbazia di Santa Croce a Campese (VI), a sua volta ricca di  possedimenti a Foza, sull’altipiano di Asiago (magari – suggerisce qualcuno – in seguito ad una carestia nelle terre originarie, oltre le Alpi. Cause che hanno sempre fatto muovere fiumane di popoli, come quelle che ora cercano di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa, o che nell’Otto-Novecento attraversavano l’Atlantico). Da Asiago, lungo i secoli del medioevo, i cimbri si sono diffusi, come coloni, boscaioli e minatori, a macchia d’olio nei territori circostanti,  inserendosi a fianco delle popolazioni precedenti, quelle già stanziatevi, discendenti dei Reti, latinizzati dalla conquista romana delle Alpi.

Ancora in quel Quattrocento in cui ad Asiago arrivavano i veneziani, Lavarone era quasi disabitato. Una via – il sentiero dell’Ancino – l’attraversava: salendo dai dintorni di Caldonazzo in Valsugana, passava per quella che oggi è la frazione di Chiesa, dove esisteva un ospizio per viandanti a fianco della chiesa di San Floriano – che in un documento del 1278 troviamo definita “in nemoribus” , cioè in mezzo alla selva [3]– e poi scendeva in Valdastico per inoltrarsi verso Vicenza. Ma dalla documentazione giunta a noi, ancora nel XV secolo non si trova traccia di veri villaggi, ma di masi isolati, «l’impressione però è che la popolazione era ancora molto rara» ne deduce lo storico Desiderio Reich[4]. Insomma un’area di fitti boschi, solo qui e là punteggiata da radi insediamenti umani. Per la verità già dalla fine del XII secolo (in un documento del 1192 per i pignoli) vi incontriamo «gente che vi faceva il carbone e vi tagliava legna»[5] sia per il principe-vescovo di Trento che per i signori di Caldonazzo, ma era appunto solo l’inizio di una attività di colonizzazione di quelle ‘terre alte’. Sul tipo di colonizzazione che vi si sarà sviluppata, successivamente all’epoca dei primi boscaioli e carbonai, ci informa abbastanza dettagliatamente un altro documento, datato 1216, in cui vediamo il principe-vescovo di Trento Federico Wanga investire «Eberiano, Eberardo, Adalpreto, Odalrico, Adelperio, ed Ervigo di tutta la terra nella selva e nelle pertinenze di Costa Cartossa … perché ciascuno [dei sei nominati] faccia un buon maso in quella selva; terra o monte, che sopra quel monte debbano andare ad abitare, a roncare [disboscare] ed a farvi dei masi, e per sei anni non debbano pagare altro al signor vescovo, che un anitra [sic[6]] all’anno, e poi paghino affitto, ed il detto signor vescovo promise di dare per ciascun uomo e maso lire 7 subito che saranno su detti masi»[7]. Il territorio di cui qui si parla – Costa Cartossa – dovrebbe collocarsi fra Folgaria e la Valsugana, ma il tipo di insediamento che vi si descrive può farci immaginare facilmente quello che da quell’inizio di XIII secolo può essere avvenuto sull’altipiano di Lavarone. Questo tipo di colonizzazione è assai frequente nei secoli del tardo medioevo per il Trentino sud-orientale, e nasceva da un progetto di rinnovamento economico portato avanti dalla classe dirigente del tempo, interessata a far fruttare vasti territori montani rimasti selvaggi, e dunque improduttivi. Così l’espansionismo produttivo del Principe-Vescovo di Trento, e della nobiltà feudale, deve essersi incontrato con l’offerta di braccia prodotta dalla pressione demografica che spingeva all’espansionismo cimbro proveniente da Asiago. Creando una mescolanza di coloni tedeschi a fianco di vecchi abitanti latini, come quelli che vivevano già precedentemente a Folgaria. Infatti a Folgaria – che è il lato più interno dell’area degli altipiani trentini, quello che incombe ad ovest sulla Valle dell’Adige – esisteva già nei primi decenni del Duecento una ‘villa’ stabilmente organizzata, dato che nel primo documento comunale di cui sia abbia notizia (1222), troviamo i suoi abitanti convocati tramite suono di campana a pubblica regola in un apposito “palatium”, e rappresentati da un proprio sindaco. Queste circostanze fanno dire allo storico Desiderio Reich, che scrive alle soglie della Prima Guerra Mondiale (non senza qualche intento nazionale-italiano) «Questo vuol dire che in Folgaria esisteva già prima dell’arrivo dei coloni tedeschi un comune costituito e retto come tutti gli altri comuni italiani del  principato trentino»[8].

Tempi moderni

L’uso del cimbro inizia a declinare già nel XVIII secolo, quando viene percepito come una lingua marginale. Lo “slambrot”, il dialetto cimbro imbastardito delle valli del Leno, di Folgaria e Lavarone, viene considerato con sarcasmo nella sottostante città di Rovereto, a cui questi territori fanno naturale riferimento, ricca già di un paio di secoli di sviluppo dell’arte della seta. Il termine slambrottare assume nella parlata quotidiana di Trento e Rovereto il significato comico del parlare involuto e confuso. La macchietta del montanaro tedesco rozzo e arretrato, qualche volta però anche nella variante del “scarpe grosse/cervello fino”, diviene un tòpos per i letterati quasi-illuministi del Settecento roveretano: il poeta dialettale Giuseppe Felice Givanni usa all’uopo il termine “toblonder”, spiegandolo, in nota, nel modo seguente: «dugo e toblonder sono lo stesso, significando un uomo ignorante, e da nulla; ma il secondo si da ai tedeschi di tal carattere»[9] (intendendo qui gli abitanti delle valli del Leno che scendevano a Rovereto, mentre i mercanti tedeschi che facevano affari con i produttori di seta roveretani alle fiere di Bolzano, certo non venivano definiti toblonder). Un colpo di grazia alla cultura cimbra lo da il centralismo dell’età napoleonica, che cancella la Spettabile reggenza dei Sette Comuni, ed ogni traccia di autonomia. Poi viene il precoce sviluppo industriale tessile del vicentino, a cui i cimbri forniranno forza lavoro, scendendo al piano.

Lo sguardo “differenziante” verso le popolazioni cimbre dei letterati roveretani del Settecento è in fondo l’inizio di un’attenzione “nazionale” al mondo cimbro, che si esplicherà compiutamente con il nazionalismo di ispirazione romantica dell’Ottocento, sulle due opposte rive del pangermanesimo da una parte, e dei filo-italiani dall’altra. Nel contesto – ricordiamolo –  di un impero, quello asburgico, dominato da una dinastia di lingua tedesca e preoccupato dall’espansionismo sabaudo-risorgimentale che si stava sviluppando al suo fianco-sud, abitato da italiani. L’inizio delle “lotte nazionali” sull’altipiano viene raccontato tutto sommato con un certo equilibrio dallo storico locale Desiderio Reich, il cui libro pubblicato nel 1910 “Notizie e documenti su Lavarone e dintorni”– di cui mi sono spesso avvalso per questa esposizione – è seria opera di quella storiografia positivistica incentrata sui documenti d’archivio, ma che non nasconde l’intento di dimostrare come la componente cimbra della popolazione degli altipiani trentini sia sempre stata minoritaria rispetto a quella italiana. Reich così racconta l’inizio della contesa: «nell’anno 1862 viene finalmente quale curato [a Luserna] un prete tedesco, Franz Zuchristan di Oltradige presso Bolzano, il quale con sua grande meraviglia vi trovò un dialetto tedesco. Egli pubblicò questa ‘scoperta’ in parecchi giornali, con speciale diffusione del “Bote für Tirol und Vorarlberg”. In seguito a ciò i professori D.r Ignazio Zingerle e Cristiano Schneller, allora professore ginnasiale a Rovereto, visitarono a Pasqua del 1866 l’oasi linguistica. La conseguenza fu che Luserna venne subito provveduta di libri tedeschi. Già ai 4 di maggio 1866 la scuola italiana venne tramutata in tedesca, ed il curato Zuchristan, che fungeva prima come maestro nella scuola italiana, funzionò d’allora in poi come maestro tedesco. Così incominciò la lotta nazionale …  »[10]. Ma l’autore non nasconde il proprio parere, chiedendosi «sarà un bene questo per la popolazione [cimbra], trattenuta così di colpo nel suo sviluppo naturale di fusione [con la popolazione italiana]? Le viene creato in tal modo un nuovo isolamento peggiore del primo, perché questo era soltanto materiale, quello è anche morale»[11]. Un dubbio forse anche legittimo, se non rischiasse di esserci sotto un pregiudizio nazionale, che guarda caso viene da un autore che porta il cognome, di indubbia origine tedesca, di “Reich”. La “lotta nazionale” – come la chiama Reich – continua poi fino alla Prima Guerra Mondiale tramite una contesa fra le opposte organizzazioni nazionalistiche Tiroler Volksbund da una parte e Lega Nazionale (italiana) dall’altra. Una contesa combattuta di solito in modo virtuoso garantendo sostegno economico – proveniente dall’esterno degli altipiani – ad utili asili infantili, scuole popolari, corsi professionali e cose simili, purché rigorosamente “in lingua tedesca” oppure, reciprocamente, italiana. Ma anche con qualche scazzottatura.

Ed infine arrivano, l’una dopo l’altra, ben due guerre mondiali. La prima sconvolge il territorio degli altipiani, attraversato dalla linea del fronte (Asiago italiana, Lavarone austro-ungarica). Gli abitanti di Asiago verranno temporaneamente “spostati” nella pianura veneta sottostante, e l’abitato cancellato dalle bombe. Quelli di Luserna – su cui cade la prima bomba italiana nel 1915, ammazzando una sedicenne sulla porta di casa – verranno sfollati nella lontana Aussing, in Boemia. Dopo la prima guerra, anche gli altipiani cimbri trentini vengono annessi all’Italia, e con il fascismo arriva l’ufficiale diffidenza politica verso le minoranze germanofone. Ci saranno prima i divieti all’uso dei dialetti tedeschi, poi – alle soglie della seconda guerra mondiale – la pulizia etnica delle “opzioni”, inventate insieme da Hitler e Mussolini, alleati. I nuovi cittadini italiani di lingua germanica – “taliani ciapai col schiop[12], si dice ancora in Trentino – verranno messi di fronte alla scelta secca, e lacerante, di restare in Italia ed italianizzarsi completamente, o andarsene per sempre nelle terre del nuovo Reich germanico. A Luserna gli optanti cimbri (che scelgono di trasferirsi nel Reich) saranno 480[13], contro il quasi il 90% della popolazione di lingua tedesca che opterà per andarsene dalla provincia di Bolzano. La guerra rallenterà le operazioni di trasferimento, ed anche quelli effettivamente trasferiti rientreranno in Trentino-Alto Adige/Südtirol dopo la guerra, regolarizzando nuovamente la propria posizione come italiani in seguito all’accordo De Gasperi-Gruber del 1946. L’ultima traccia di uso dello slambrot è attestato nel 1966[14] a San Sebastiano, frazione di Folgaria oltre il Passo del Sommo, vicinissima ai Perpruneri.  Mentre Luserna – paese arroccato su uno spalto affacciato sulla Valdastico – conserva ancor’oggi l’uso di una lingua cimbra particolarmente mescolata al tedesco moderno, grazie alla sua collocazione geografica appartata e difficile da raggiungere fino alla metà del XX secolo, ed alla abitudine secolare dei suoi abitanti all’emigrazione stagionale in terre tedesche. Quella emigrazione stagionale raccontata – per il vicino Asiago – da Rigoni Stern, tramite il personaggio di Tönle Bintarn (Antonio l’invernatore), che «dallo sciogliersi delle nevi e fino alle nuove nevicate andava per i paesi e gli Stati asburgici, lavorando dove capitava, a volte con buoni risultati, a volte meno»[15].

. . . .

 

[1] Scipione Maffei, Verona illustrata, con giunte, note e correzioni inedite dell’Autore. Parte prima, sezione prima, Roma, Multigrafica, 1977 [Rist.anast.di: Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1826], p. 107-108

[2] Dizionario Toponomastico Trentino. I nomi locali del comune di Vallarsa, a cura di Lydia Flöss, Trento, Provincia Autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici, 2009, p. 47, NOTA 1

[3] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 69

[4] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 142

[5] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 46

[6] Reich, nella sua traduzione del documento, usa l’espressione “un anitra”, ma lo  storico medioevalista Emanuele Curzel, da me interpellato, ha corretto in questo modo: «l’amissere come forma provvisoria di affitto: non credo che sia unanitra (semmai con l’apostrofo), è una “mescita”, una bevuta o un piatto di cibo: è il tipico “censo ricognitivo” con cui il coltivatore che non deve (ancora) pagare un vero affitto ammette di essere solo un affittuario, nel momento in cui accoglie benevolmente il proprietario»

[7] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 14

[8] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 19.

[9] Giuseppe Felice Givanni, El Priore l magneva giust dei fonghi : la Novela Dodese (1752). In “Il Furore dei Libri”, n. 14/15 (2015), p. 26

[10] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 236

[11] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 232

[12] Italiani presi col fucile (= aggregati allo stato italiano tramite la guerra)

[13] Dato preso dal sito del Comune di Luserna: http://lusern.it/it/storia/opzioni/ (consultato nel novembre 2016). Secondo Desiderio Reich, al censimento ufficiale del 1900 a Luserna si erano dichiarati tedeschi 915 cittadini, e 14 si erano dichiarati italiani (Reich 1910, p. 232), nel 1936 gli abitanti sono già scesi complessivamente a 725

[14] Dizionario Toponomastico Trentino. I nomi locali del comune di Vallarsa, a cura di Lydia Flöss, Trento, Provincia Autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici, 2009, p. 47

[15] Mario Rigoni Stern, Storia di Tönle, Torino, Einaudi, 1978, p.

 

 

Questo brano di Roberto Antolini è tratto da “Altipiani”. Fa parte di una raccolta, per il momento inedita, di testi di descrizione-di-luoghi, geograficamente collocati nel Corridoio del Brennero, cioè in Trentino-Sudtirolo.