di Giacomo Sartori
Sempre pollo!
sempre pollo!
sempre pollo!
declamavi
scimmiottando
l’agiata vicina
durante la guerra
di Giacomo Sartori
Sempre pollo!
sempre pollo!
sempre pollo!
declamavi
scimmiottando
l’agiata vicina
durante la guerra
da 999 rooms: Rooms of the night / Vanni Santoni
Room 173
The future starts today.
The future is fresh!
The future will be repeated,
broadcasted & distributed.
The future will be obsolete.
The future is overrated.
The future ain’t what it used to be.
The room of the future.
The future? Just a season.
The future is here and now.
Oh please, always talking about the future…
The future is a chest of broken mirrors,
a boot stomping a human face, again and again.
Room 174
in the interminable boredom of this sandbox
Room 175
They say Kardashev III civilisations,
who can harness whole galaxy energy
may well live inside supermassive black holes:
sounds legit, demigodlike, arses-hiding;
me, I hang with children and witches all day
avec des enfants, mit Hexen I do dance
and the red plain gives no shelter, not even
under red rocks, no shadow’s like full shadow
says the wise, and the star makes a fool of me
(a carrion is for ants & for the sunbeams)
我 情不自禁 地 笑 个 不停.
Room 176
the twirliest vessels got stuck
(try with a hymn, the docks laugh):
a flotsam of stimulants.
coffee vigil, unwanted;
dopaminergic plateaux
of coke making creation
im-possible – just tending:
under-the-counter plegines,
a thrill & a shame being not
aritmetical enough;
speeds harsh honesty rustwhite
blade in nights slow of headaches
and flushes of aspirin,
the room is a bathroom, hot
showers may melt power back;
hours staring nude pictures
in series with no effect,
how come did i buy that print
(reminder: get matcha tea)
a god with a coyote head
Room 177
Quite alarming, says the detective.
Heaps of symbolic objects
like rubbish sorted by scavengers
mounds of black bishops & queens
of huge dice and capitals and horns
tin cups, swords with no edge, staves,
a clearing where the dishlarge coins were;
black sacks of foul smelling clubs
hairy as flies, ropy hearts, shineless
diamonds, spades scattered
on the ridden sand, where the sun beats;
and towards the sea a pile
of huge menorah, like wavebreakers.
There the girl, the explorer,
walks by: looks like the beach of our prime,
yet if you were here you’d be
your body retrieved by fishermen.
You’d be that, in the damp dawn.
Room 178
o troops of dread, wrath hounds
leaving my fair city
with a hanged man dangling
high from each lamp-post, o
most sad boulevard show!
yet nobody will see
the man flogged, crucified,
still, in purple and blue,
sole company a bed rack
in a locked room somewhere
a woman is washing
ash hair with a white
block of soap, one son lost
one son hidden, she sings
and her madness (she fries
thorns in a pan, at night)
clears a spring still all ice
calling an april of hemlock & fires
The hours of folly are measur’d by the clock,
but of wisdom: no clock can measure.
Room 179
I am son of the earth and of the starr–oof
(a punch)
Priests, patrons, you are wrong, I do not understand your law–ouch au argh
(a punch, another; a kick on the ribs)
Nothing is vanit–
(a cane hit on the back of the head. A squall of kicks)
Room 180
THEN BEAUTY CAME
then Beauty came,
or was it Kindness?
It doesn’t really matter:
what matters, is that the boys
(hurry up, boys! an’hush!)
got her and knocked her good
and threw her in a trash compactor
which got stuck.
Let us consider now where the great souls are.
di Anatole Pierre Fuksas (con l’assenso motivato e partecipato di Lorenzo Declich)
Da quando eravamo molto giovani abbiamo in comune un disprezzo sostanziale per le argomentazioni ideologiche basate sull’ignoranza unito ad una clamorosa inclinazione per il cazzeggio sfrenato. Nel corso del tempo abbiamo condiviso con molte altre amiche ed amici più o meno storici queste nostre due passioni. Negli ultimi due anni, poi, abbiamo sentito un po’ il bisogno di coniugarle con una serie di studi che abbiamo portato avanti indipendentemente nei rispettivi campi di competenza, l’Islamistica e la Filologia Romanza al fine di ridere e piangere allo stesso tempo del modo in cui cose tanto tragiche e tanto diverse tra loro vengono correntemente mescolate a vanvera nel discorso pubblico, dai media ufficiali ai social network, un po’ dappertutto, cioè non solo in Italia.
Abbiamo provato a dire perché secondo noi non sia in corso nessuna crociata in risposta a nessun jihad, che cioè il frame della guerra santa è una cazzata atomica, elaborato sulla base di evidenze esigue e competenze labili. Abbiamo soggiunto che, invece, ci sono gli estremi per riconoscere una guerra mondiale più profonda in corso tra apocalittici ed integrati, della quale il frame della guerra santa è solo uno dei tanti prodotti. A quel punto abbiamo capito che diventava urgente demistificare i collegamenti abusivi tra i vari attentati avvenuti in Europa negli ultimi anni, provando a capire perché e percome non fossero tutti la stessa cosa, cioè perché i vari attentatori non combattessero tutti la stessa battaglia, colpendo vittime innocenti più o meno a caso in Europa, come in Medio Oriente, in Africa come negli Stati Uniti.
Ci è parso di poter dimostrare che l’attentatore di Monaco, quello che giradava «turchi di merda» sparando dal tetto di un supermercato, non combattesse la stessa guerra del kirghiso uiguro che entra in un locale di Istanbul e ammazza gente a caso. Non combattono certamente la stessa guerra il killer forse gulenista forse no dell’ambasciatore russo ad Ankara e il pluripregiudicato tunisino che si spaccia per calabrese alla stazione di Milano, dopo aver schiantato un camion contro un mercato natalizio a Berlino. Meno ancora combattono la stessa guerra l’attentatore omofobo di origini pachistane del Pulse di Orlando e quello molto francese che a Nizza ha lanciato un TIR contro la folla il 14 di luglio.
Leggendo Panebianco all’alba di questo nuovo anno, già cominciato malissimo (ma finirà peggio, ne siamo sicuri), abbiamo scoperto di essere, nella sostanza, dei negazionisti dell’evidenza, perché «i terroristi non sono folli, ma soldati del terrore» e «non dobbiamo negare il ruolo che la religione ha nell’arruolamento dei militanti per la guerra che l’Isis ci ha dichiarato», e siamo solo al titolo e all’occhiello! Secondo Panebianco la dialettica che vede contrapposti «quelli che dicono che «la religione non c’entra», sono solo gli «interessi» (materiali) a spiegare tutto» e «quelli che sostengono che la religione sia la vera causa» sia in realtà una semplificazione. L’impianto retorico parrebbe saltare quando Panebianco spiega come non si tratti in realtà di una semplificazione, poiché in realtà i primi hanno proprio torto, dato che ci sono «atteggiamenti del mondo islamico nei confronti della società aperta occidentale e sugli aspetti della loro tradizione che hanno generato la sfida jihadista».
Cosa sia il mondo islamico, quali siano questi atteggiamenti, cosa il nostro intenda per sfida jihadista non ce lo spiega, lo dà per scontato, come se lo fosse davvero. Piuttosto ci racconta che nella natura di questi attentati che scuotono l’Europa (Istanbul non è tecnicamente in Europa e decine d’altri attentati hanno avuto luogo in località extraeuropee, ma lasciamo correre) non c’è nulla di folle: non si tratta di «folli attentati», ma di una «guerra dichiarata da qualche organizzazione (ieri Al Qaeda, oggi l’Isis, domani un’altra)». Dunque i soldati che la combattono sono «la versione contemporanea dei combattenti per la causa islamica dell’età medievale e della prima età moderna» (double facepalm).
Di seguito Panebianco prova a spiegare che l’ignoranza religiosa dei cosiddetti jihadisti e i loro trascorsi di rilevanza penale non bastano ad etichettare i gesti di costoro come animati da altro che dalla cieca determinazione armata dal credo religioso. Solo sul finale, dopo uno spiegone mal scritto e approssimativo delle guerre di religione tra Cattolici e Protestanti e uno ancor peggio scritto e approssimativo sulla deriva irrazionalista che smentisce l’Illuminismo francese (quello inglese invece pare che ci abbia preso, secondo lui, così, in blocco), Panebianco raccorda sagacemente il suo argomentare al punto di partenza. Ci spiega, cioè, che la religione e gli «interessi» «non si escludono mai a vicenda» (segue applausone, immaginiamo).
Ora, uno di noi (Lorenzo) ha scritto di Panebianco in continuazione negli ultimi dieci anni, al punto che potrebbe farci un libro su Panebianco e tutto ciò che rappresenta, cosicché ci si potrebbe astenere da questo commento, primo perché noi élite radical dell’Esquilino e San Saba saremmo in vacanza in Maremma davanti al camino, secondo perché appare evidente il divario di prestigio che ci separa da questo gigante della cultura contemporanea. Ma viene un po’ da sé che, da combattenti irriducibili di questa inutile e impossibile battaglia contro l’imbecillità, si abbia voglia di ribadire il concetto saliente, che cioè non è in corso nessuna guerra di religione, gli attentati che si susseguono non sono battaglie della stessa guerra, i collegamenti tra di essi sono labilissimi e fanno capo al modo in cui singoli attentatori si declinano come parte di questa guerra contro noi tutti, che soltanto loro e Panebianco stanno combattendo. Secondo noi Panebianco è in guerra contro persone come noi, ovvero contro coloro i quali ancora credono nella possibilità di una convivenza civile di qualche tipo di tutti con tutti, più che contro terroristi che non lo conoscono e non lo cagano di striscio, troppo occupati a combattere in modo mostruoso battaglie sbagliate, che ci si ostina a ricondurre ad unica grande guerra di religione per ragioni di ignoranza e cattiva coscienza.

di Davide Orecchio
L’appartamento, la città
Sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi. Dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri. Nel solco dei padri e sulla calce dei figli. Un maiale si sveglia. Non è città alta. Dov’è il relitto del Prenestino e non si tollera sole sui cavalcavia, né arriva luce al grigio del lotto, qui è solo l’ombra di città alta. Sul naviglio di Tor de’ schiavi e dei Platani (era una cerbottana di traffici) regna una secchezza che sfibra pure l’Alessandrino, Tor Bella Monaca e disidrata tutti i chilometri che avanzano della città. Ma la città dura. Ma la città è un fatto del mondo, e nell’apnea di un’alcova 10 mq citoyen apre gli occhi. Coscienza chiama, pronuncia lavoro. Dettato, coscienza, risveglio. Lavoro. In basso, raucedine. In basso: laterizi, sfridi di selce. Poggia sulle maioliche infarinate da grommi di polvere e cipria e la minzione del mondo (emorragico; incontinente) ← il materasso.
Il cotone imbottito spalleggiava il sonno di Felix, maiale dal sonno felice. Un tera di maiali abita Roma, a sud-est per lo più, dove citoyen chiude il sonno felice. In basso. Navigando maioliche. Più in basso. C’è il cotone dove Felix apre gli occhi. Felix è un fatto del nuovo mondo. Posa la mano sul petto. Non è una zampa. È una mano, seppure abbia quattro dita, ma prensili nell’arto anteriore; per questo è una mano. Non è una zampa. Due mani che soggiornano in braccia che stirandosi mostrano il rosa e le setole bianche a riposare nella faretra degli arti. Le frogie s’allungano in narici che ricordano l’uomo, ma sono troppo umide e molli, troppo larghe per dirle di un uomo. Le unghie bestiali, curve, uncinate trattengono orizzonti di sporco tra lunula e vallo. C’è dolcezza negli occhi, intelligenza non di verro, non di uomo, di una nuova creatura. Il grugno sporge pochissimo. Di peluria giusto un accenno. Quanto a coda e bacino, non c’è altro da aggiungere che già non si sappia; però non li vedo, un lenzuolo li copre.
Qui nel risveglio affiora un pensiero: un’altra notte senza memoria. I miei sogni inutili, ma ha il logos, Felix, e quando vuole lui parla, e calcola e legge: è un maiale un po’ smemorato, però di città, dove coscienza chiama e pronuncia lavoro. Dettato, coscienza, risveglio. Lavoro. Ma non ricorda il padre e la madre. Ma non ricorda un bel niente. Questo è il suo cruccio (il maiale di città si preoccupa molto) e per offrire al giorno il lavoro ← sfoglia il lenzuolo, scende dal letto. S’alza sui piedi. Creatura del Grande Salto Biologico: massaggia i fianchi. Scuote le spalle. Riallaccia il pigiama nero di Teflon che copre la coda mozza e il suo rosa. Eretto, apre la finestra che lui chiama Lee Harvey Oswald. Su due piedi. Il maiale. Cammina. Getta onde dai fianchi. Non si sforza. È la sua natura. S’affaccia al davanzale di Lee Harvey Oswald che racconta un sole che non rischiara gli intonaci del conglomerato dal cui basso spingono poche schiere di pini grigi; le altre finestre, gli infissi: vetro opaco, alluminio, sempre cemento; panni stesi di flanella e tweed prospettano sul rudere di una tangenziale; gabbiani minacciano gatti insultando l’aria dei droni mentre Felix chiude Lee Harvey Oswald, arretra verso la cucina salotto allargando le due ante di una porta a soffietto che lui chiama Sacco e Vanzetti, e accede alle pietanze.
Su due piedi per la sua natura di animale evoluto e che si evolve specie su specie, di strato in strato, cammina verso lo spirito di una carta da parati perfetta, insostituibile, già che Sacco e Vanzetti gli si chiude alle spalle per la forza di un piccolo moto, di un vento. La cucina: un banco di legno all’ombelico di Felix che ad alta voce scherza: Non tutte le ciambelle riescono col buco, ma a me piacciono le ciambelle senza buco, sono buone e nutrienti, questa mattina ne sfornerò e mangerò; sebbene già stia mordendo le ghiande e le bacche, e poi le mescoli al latte coi cereali, che sono gli alimenti che ama assieme alle verdure cotte oppure fresche, alla frutta e alle olive.
Dettato, coscienza, lavoro. La baia dei porci è un fatto del mondo. Adesso ti spiegherò gli strati della città. E le sue caste. Quale sia il welfare di ciascuna di esse, e la durata. La durata è il primo fatto del mondo: per il corpo, per la coscienza. Adesso ti spiegherò welfare e durata per i maiali in città. Invece no. Dettato, coscienza, lavoro; io sono un dettato che deposita righe, parole che investo nel tempo, che danno tempo al maiale (perdonami: “adesso io” nulla) perché il maiale sia pronto e lo è: lavato, vestito, Felix già esce e indossa i calzoni, la camicia, la giacca (tutto è di fustagno), le scarpe no perché le grandi zampe le vietano, il cappello di feltro, apre la porta di casa che lui chiama l’Albigese, chiude l’Albigese ed ecco: ora Felix è nel mondo.
La città bassa ← Felix non ricorda ma vede: sulla rotonda attorniata dalla calce cinerea, nella giostra degli angoli retti che dice: Niente balconi, neppure luce, no alle mezze misure; Felix vede: la scolatura di sole, e sorride. Il maiale ama il lavoro e l’asfalto imperfetto che Felix attraversa, adesso che ancora transita nel bitume dove s’aprono buche otturate da manutentori distratti.
Sorveglia. Ed è sorvegliato. Non ricorda ma vede. Ed è visto. Ha l’apprensione. Non sempre è un vantaggio. Il nitore di ciò che muovendosi appare, eleva tutto al rango del rischio, così che nella percezione del porco si susseguono aggressioni possibili, false. Eppure nel dubbio Felix sorveglia. Ha l’apprensione per il rapido teatro aggressivo, e disordinato, di questa strada e – come una frase che ripercorra una sola parola e un periodo che moltiplichi la frase che s’accontenta della stessa parola – il corpo della città (lo stampo e la forma) rovescia radici di calcestruzzo e acciaio, l’intimo esposto, mette sottosopra i rizomi tra guano e cancrene, tra polvere e fango.
La più nera delle nuvole ha lustro e candore in confronto con la città laboriosa dove persino lo sporco è l’effetto ammirato, portato a esempio del non distraiamoci, non perdiamo tempo a pulire, il tempo che non abbiamo. Già s’allunga sul lato, nell’ombra dei palazzi zombie dove si elenca e calcola, si ordina e smista, il mucchioselvaggio per i piedi che vanno, per i porci che sudati marciano a muso alto, abbigliati da giacche, spolverini, gonne lunghe alla moda formale e desueta che è il loro modo; calzoni di flanella o tela grezza allacciati sopra l’ombelico dei maschi; vesti a campana che nascondano le sagome del corpo alle femmine; no calzature; sì cappelli; adorano cappelli: da baseball o a falde larghe i verri, e le scrofe a clochè.
I tetti s’abbassano, i palazzi s’accorciano. Il cemento s’inchina a lamiera e plastica. Imbuti di vuoto, di nulla, di aria e catrame s’infilano tra le officine. Pochi alberi. Molti cespugli selvatici. Orzo, malva, cicoria. Grandifrogie solerti: spostano, trasportano, riparano, sollevano, ammucchiano, smontano, consegnano, catalogano, obbediscono. Dettato, coscienza, lavoro. Detriti di quarzo che la polvere di aeternus cosparge e trapunta. Col difetto di erodersi presto e disperdersi, l’aeternus cade dalla città alta ma ha il pregio di riformarsi subito lassù (il metallo più resistente che c’è, e che si rigenera), mentre qui si deposita in scarti.
Qui → le fondamenta della città si mestano col versamento di funghi e orchidee. Combinazione casuale urbanistica di stili di vita. Il tempo all’altezza degli uomini, la civiltà, la tecnologia cade di piuma in piuma nello strato dei porci e l’incontra, come se Cesare s’imbattesse in un papa. È il meticciato che nulla ha al suo posto, quando dappertutto sgorgano malerbe, cespugli di ortica e gramigna, tribù di avena selvatica e da una strada inizia una strada che porta a una strada che Felix percorre quando un mucchioselvaggio mobile, automatico l’ha consegnato alle barriere della Bufalotta ← deve elevarsi per il lavoro del giorno. Il volo di un trasporto ignipotens forma rette e parabole. I maiali non volano, appena camminano. Barcollano. L’uomo vola nel trasporto ignipotens. Le pareti della città alta raddoppiano uno stormo di rondini. Lassù è la meta di Felix, oltre i culmi di aeternus che dico, che detto, attorno a tubi grandi di cristallo e plexiglas, su binari trasparenti per i treni che salgono quasi verticalmente, quasi con la violenza del piombo per poi mitigare la forza quando sono vicini alle piattaforme, ai funghi, alle orchidee, e allora addolcirsi e chinarsi come proboscidi.
La città alta è un fatto del mondo. Il cielo ha i suoi coloni. Felix non ha un cielo ma ha la città alta negli occhi. Il silenzio delle caserme, dei ministeri, delle anagrafi e dei catasti. Lo schermo istoriato del planetarium politico. Ascensioni, metalli puliti, propulsioni inodori.
Poi, dove i normoarto hanno i condomini che abitano, è un giardino di funghi che portano addomi ipertrofici, cappelli convessi di vetro e vanadio che li riboccano (conficcati nel suolo grazie a ife di carbonio, sorretti da gambi) e i normoarto di lassù a loro volta vedono tutto: le baie dei porci, le barriere, le vicine orchidee dei rigenerati (rifugi di lusso a forma di sprone, sotto tetti simili a spighe o pannocchie), i docks dei multiarto (Garbatella, Fiumicino, Infernetto, l’Estuario); e la città sta così, senza cadere, a centinaia di metri d’altezza, e nella bruma un verro si prepara a salire e per dettato, coscienza, lavoro siede nel treno dal cui finestrino scorge i piedritti, asparagi opachi ancorati intorno.
Leve di città alta sono un fatto del mondo. Crescere e quindi restare con la pigrizia dei metalli incrollabili. I monumenti residenziali. La parete del convoglio è plastica armata, traslucida sui lati e sul tetto quanto il lombrico che già spinge il treno – binario curvo, arrampicato. Un acquario vede un acquario. Dentro c’è Felix, il pesce rosso della vasca di vetro che s’immerge in forme di spazio, di luce. I crinali opachi dei funghi uguali a gobbe di capodogli, di argentinosauri. Carapaci negli uffici del cielo. Scuole fatte di sorbite e titanio. I colori giostrano il grigio antracite che detta l’asfalto (e io dico con coscienza, lavoro) contro il mezzotono dei primi azzurri e rosa attorno ai pilastri. Specchi, congegni, la somma. Abbiamo una comunità. La città è nella durata e nessuno dice la morte. La morte non è. La morte non è la città. Ogni cosa e creatura vivente ha il suo biochip e comunica a ogni cosa e creatura vivente. Col solo fatto di avere bisogno il gelsomino esprime la sete e viene innaffiato. È quanto avviene per le malattie dei corpi: si annunciano, sono curate. Serbatoi da riempire, scorte di acqua, la manutenzione degli edifici aerei e più grandi: piccoli esempi del mondo delle cose che si sono fatte segnali.
[…]
L’appartamento, il sogno
Dal salotto piccolo Felix apre Sacco e Vanzetti per avvicinarsi al letto e svestirsi. Le ore della fatica sono trascorse? I transiti, le vertigini, la vista dell’orrido, il vuoto desolato atmosferico. Il lavoro. È successo. È durato. Ma l’animale non rispetta la partitura del tempo. Felix è un carattere onirico. Accanto alle palpebre le pupille già ruotano e inseguono le memorie perdute. Un giro: l’intera infanzia; due giri: dalla nascita a oggi. Gli capita spesso al ritorno. I ricordi irritano la sua smemoratezza. Desidera il vissuto boogie-woogie che sincopa gli accadimenti, com’è per tutti. Vuole un passato ← ha diritto a. Ma non ricordarlo, riflette, è come non averlo. Non ricordare famiglia è come non avere famiglia. Io sono orfano, quindi. Non come se lo fossi, proprio lo sono.
E ora, sul divano di velluto verde, imbottito di gommapiuma e sostenuto da cinghie di piombo elastico, Felix mangia la sua zuppa di farro e non usa il piccolo tavolo da pranzo di acciaio e dal soffitto gli penzola addosso una lampada a forma d’alveare, color avorio, anch’essa d’acciaio cromato, attraversata da solchi come un guscio imploso o una sfera scolpita dal tempo. Sui tramezzi è incollata una carta da pareti che raffigura l’ederagelso, grigia, e arbusti di un bambù tra le cui fronde s’intravedono le piume di un falco dissimulatore e, più distante, un bosco di abetimimosa.
La scodella è posata sul pavimento, il Musagete trasmette la BWV 871 di Bach, la radio a valvole, a onde medie, con le bobine e i circuiti accordati è compagna della notte di Felix con l’offrirgli una musica di secoli fa, ed è un congegno di secoli fa, armato da una cassa di legno alta almeno un metro, sorretto da gambe arcuate e basse, ha tre manopole e una grata, ha uno stemma azzurro sul pannello frontale, suona Il clavicembalo ben temperato ← la filodiffusione trasmette → le scale di Bach sul pianoforte e nella monofonia del Musagete: dal passato; stridule, prigioniere di un timbro in sordina, di una macchina carcere che le porta a gracchiare a causa della rigatteria, dell’antichità.
Speriamo bene – bisbiglia Felix sdraiandosi intanto che inizia il corteggiamento tra il sonno e il maiale. Il Musagete adesso racconta l’inseguimento tra un pianoforte e un violino, che si rincorrono tra dispetti e vendette piccole, alzano la voce, affrettano il ritmo, stridono dopo le consonanze, dopo i fraseggi come in una lite ← che è la Sonata per violino e pianoforte di Janáček, ora filodiffusa.
Felix ha sonno, ma non gli si spegne il pensiero d’essere il mondo e non soltanto nel mondo che vede, e la speranza che anche il mondo desideri essere lui, il porco. Che ci sia posto nel mondo per i vagiti del porco, le sue ambizioni, la sua voglia di fare e poi riposare, per i sogni del porco, che il mondo comprenda i suoi incubi e pretenda giustizia per lui (ossia per sé, se il mondo vuole essere il porco), che accetti cosa gli piace e cosa no, che difenda il porco, protegga il porco, capisca la sua forma di vita.
[…] Ora che Felix dorme dove la notte si traveste coi panni e camuffa da tepore per gli occhi e abbandono e nella musica il maiale si copre con le tende del sonno → l’accompagna la melodia (l’accompagna la corda). L’accompagna la fatica cui il corpo cede (l’accompagna l’argano). Lo tirano fuori dalla darsena con le sue muffe, le sue alghe e i detriti corrotti di sabbia e di scogli. Gli danno una spinta dolce verso la calata, oltre la bitta, il molo e il pontile. Fino all’acqua per il varo del sogno.
Il mare che si muove appena scherzando con l’inerzia di luna e stelle e rispecchiandola o tradendola nella mossa delle onde, gli sembra quieto. Navigare ← ha l’aria di un viaggio tranquillo. Un tragitto verso il risveglio. Ma non è. L’acqua s’increspa, cresce in una montagna e precipita. Schizza, schiaffeggia, soffia. Felix adesso ha paura. Luna e stelle sono scomparse. Si volta verso il porto, che non c’è più. Davanti ha una burrasca? Solo per poco. Poi tutto cambia. Neanche il mare c’è più, la tempesta sbiadisce, il cielo nero lo succhiano per un imbuto inverso che invece di erogare aspira ed ecco una stanza, riposi ulteriori, corpi che sognano e sono sognati e la stanza ospita due letti, uno matrimoniale, dove dormono due maiali, il padre e la madre di Felix, e l’altro ridotto, dove si corica un cucciolo: colui che sogna.
Le pareti di legno, il rumore del vento, il frullo esterno delle foglie sui rami: è un abituro piantato nella campagna. I maiali che dormono hanno sussulti, perché non sono abituati alla natura né al suo silenzio o al ruglio che l’interrompe. C’è una finestra: i suoi scuri – chiusi ma non sigillati – il vento li divarica un po’. Anzi non è il vento ma un pollice enorme. S’insinua nella fessura tra i due battenti e li schiude. Si ritrae e lascia spazio per quattro dita, dall’indice al mignolo fratelli e delle proporzioni del pollice, che tirano via, triturano e masticano le stecche della finestra (quasi fossero i denti di un corpo che ha fame, e quelle spiedini di carne e non regoli di truciolato) e poi gli infissi, gli scuri di una casa di bambola (non di maiali), rimpiccolita dal dorso di una mano ciclopica che ormai sta quasi dentro la stanza.
E lo vedo (Felix lo sogna, lo vede) e lo detto ← la filigrana dell’epidermide, il tessuto delle rughe, la mappa di croste ed escoriazioni, le gobbe sulle nocche, sentieri e rigagnoli tra unghie e polpastrelli, il colore del sangue che pulsa sotto la superficie, il meccanismo delle falangi. La mano è nella stanza. E nella stanza il polso fa capolino, il telescopio. Gattona verso il letto matrimoniale con l’andatura paziente ← la mano. Felix (che sogna) prova a lanciare l’allarme, ma gli esce un gemito, non l’urlo inteso, lo spavento di un mimo. Il mostro sfila le lenzuola della madre e del padre, che restano spogli, addormentati, sereni. Il palmo si spalanca, protende le unghie verso i maiali. Così li afferra e risveglia. Niente è più vero di un predatore. Niente ha più coscienza di una preda. La mano cattura i corpi senza troppo sforzo e li ravvolge con poca fatica, come un abito di misura abbondante ci calza e cerchia. Il buio si è ritirato nel suo cavallo di Troia. Il padre e la madre urlano e supplicano. La mano gigante si ritira, arretra col suo bottino. Felix (il cucciolo) s’è alzato sul letto e la sua voce non torna. Assiste al sequestro. Il Felix sognato e il Felix che sogna ← non capiscono: perché questo rapimento, questa tortura? A chi appartiene la mano? Cos’è la mano? Oltre la finestra dalla quale è venuta, verso il bosco e un buio più vasto, incontro a un perimetro di misteri e torture: non c’è più tempo, la mano è sparita.
Un ultimo sguardo alla madre che piange. Un ultimo ascolto alla lotta del padre. Un ultimo rantolo dalla voce perduta. Ritorna il buio, che è il padre dell’orfano. Il cucciolo piange nella stanza vuota, ritrova la voce, prima un lamento, poi l’urlo che è forte e lo sveglia → non il cucciolo ma sul divano Felix, il sognatore Felix, la vittima e di chi è questo incubo?, si chiede, mio non è, io non ricordo i miei genitori, non ricordo di averli persi così, perché sogno questo?, chi mi ha trasmesso quest’incubo?, è un’infezione, viene da altri, di chi è questo dolore? Dettato, coscienza, risveglio: ma solo per poco. Sul divano verde. Già s’arrochisce ← il risveglio, la coscienza → cade dal trauma, rotola sotto al tavolo, s’alza dalla sedia, esce di casa, sgorga dalla bottiglia, evapora dalla pentola, sfuma da ciocchi in cenere. Il braccio scivola dalla fronte. Il corpo s’intenerisce. Le labbra si schiudono. Il volto si china.
Prima che il sonno ritorni, una voce prova a convincersi: I maiali non temono la morte. I maiali non pensano la morte. I maiali non muoiono mai.
(Foto di copertina: Pig slaves, Doctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)
Capitolo 2: Una gita in campagna
Capitolo 3: Il supermercato
Alberto Ongaro, Il respiro della laguna, Piemme, 2016, 204 pagine.
A volte aveva l’impressione che non esistesse e che i morti, i suoi e quelli altrui, finissero in ciò che vi era di invisibile nel mondo, una immensa dimensione contigua a quella visibile e talvolta con questa comunicante.
Un narratore, alla fine, potrebbe scegliere di salutare il mondo che lo ha abitato per tutta la durata della sua carriera. Questo, io credo, ha fatto Alberto Ongaro con il suo ultimo romanzo.
Ongaro non scriverà più, questo è l’ultimo libro finora inedito. Ne verranno altri, Piemme sta pian piano ripubblicando tutto, ma saranno riedizioni, storie già raccontate, anche se qualcuno (si spera) ancora non le ha lette.
Ecco, io Ongaro me lo immagino così: che sorride, mentre i nomi dei personaggi gli passano veloci nella testa, i viaggi che insieme hanno fatto si compiono e si risolvono nel giro di pochi istanti. E lui, Ongaro, sorride. Non c’è bisogno di fare ciao con la mano, basta pensarlo. O forse, ecco, Il respiro della laguna è l’equivalente di quel ciao con la mano.
Di cosa parla il libro?
Innanzitutto c’è da dire che è un giallo. Un genere che Ongaro non hai mai frequentato in modo esplicito, pur avvicinandosi di tanto in tanto a quei modi di fare, alle strutture della detection (penso a libri come Rumba o Hollywood Boulevard).
Le prime pagine introducono il tema che farà da filo conduttore per tutta la vicenda: la magia. Prima di tutto quella di Venezia, luogo che Ongaro ha sempre ammantato di un alone magico, di cosa viva e misteriosa. E poi la magia in generale, gli eventi impossibili da spiegare, gli invisibili fili che legano destini, tracciano mappe nella vita dei personaggi, e sono in grado (come nel caso di questo libro) di legare un caso irrisolto di parecchi secoli prima con ciò che sta accadendo nel tempo del racconto.
L’esposizione del tema, nelle prime pagine, è affidato a una coppia di anziani signori che dialogano tra di loro (e dialogheranno, esterni alle vicende, per tutto l’arco del racconto). I due, che di volta in volta leggeranno sui giornali o sentiranno alla radio di cosa sta succedendo in città, commenteranno gli accadimenti, esprimendo due posizioni contrastanti e apparentemente inconciliabili. Ovvero, detto in modo sbrigativo: uno attribuisce un significato magico agli eventi, l’altro alla magia non ci crede. In particolare, si fa riferimento a una leggenda secondo la quale la laguna sarebbe in grado di “sentire” quando è in atto un crimine particolarmente cruento o perverso e di reagirvi, gonfiando le proprie acque così da manifestare tutto il proprio sdegno verso le cose che accadono.
Perché l’anima della laguna potesse presentirlo e a suo modo combatterlo, l’evento criminoso, fosse pure nascosto dietro un’apparenza ingannevole, doveva portare i segni di una perversità insolita e profonda. Tutto il resto era folclore.
E la trama prende in effetti il via con un crimine all’apparenza sia cruento che perverso. Una notte, un uomo si introduce in una casa e rapisce un neonato. Non solo, accidentalmente ne uccide anche il padre che era accorso in aiuto del figlio. A indagare sull’accaduto, Damiano Zaguri, capo della squadra Anticrimine di Venezia. Discendente di un altro Zaguri, Signore di Notte nella Venezia del seicento.
Ecco, la vicenda, a sintetizzarla, sta tutta qui: un crimine si compie, qualcuno indaga, alla fine risolve il caso. Ovviamente, c’è molto altro. Ma non mi interessa parlare di questo, perché trovo più giusto che ogni lettore scopra da solo cosa un romanzo racchiude.
Quello che invece è, a mio avviso, più utile e interessante rilevare è come, pur muovendosi nel solco di un genere, Ongaro ne fa una rappresentazione peculiare, per certi versi più “leggera”. Mi spiego. È vero che tutto parte da un crimine orribile, il rapimento di un neonato appunto, ma è anche vero che tutto questo viene rappresentato non con la crudezza che di solito caratterizza questo tipo di narrazioni.
Piuttosto, mi viene da pensare, le vicende e la loro rappresentazione ricordano le stilizzazioni del fumetto (Ongaro è stato per molti anni sceneggiatore di fumetti, sia con Hugo Pratt che per la Bonelli). Ogni personaggio, dal più buono al più cattivo, altro non è che una sorta di caricatura di se stesso. Addirittura, i personaggi arrivano a pensarsi in più occasioni come derivati di un immaginario (che poi è quello dell’autore) che li costringe ad agire in un certo modo.
Puro cinema, pensò come se si vedesse, cinema americano. Cinema dal quale noi delinquenti abbiamo imparato tante cose: il modo di muoversi, i cappelli, le armi, lo stile.
Ma non è solo questo. La minaccia continuamente evocata dalla voce narrante non riesce mai ad essere del tutto credibile per il lettore. Sul testo aleggia continuamente una sensazione quasi confortante. Il dubbio che le cose possano andare storte, che un vero male possa compiersi, non si presenta. Tutto andrà bene. E in questo, forse, si potrebbe trovare anche un difetto del libro. Perché se in parte assolve alla funzione del giallo (crimine, indagine, risoluzione) dall’altra non esercita mai sul lettore una vera e propria tensione. Certo, la trama è ben architettata, Ongaro in questo è un maestro, unico nel suo genere. La prosa è scorrevole, colta, mai pesante, e le transizioni e i cambi di prospettiva sono gestiti sempre con grande equilibrio e senso della narrazione. Insomma, un libro tecnicamente ben fatto. Ma qualcosa gli manca. E quel qualcosa, penso, è la voglia prendersi sul serio.
Secondo me sarebbe più giusto pensarlo come un libro d’avventura, mi verrebbe quasi da dire un libro per ragazzi, sempre che una definizione del genere possa avere un suo senso.
Mi è piaciuto? Non lo so. Anzi lo so: sì, mi è piaciuto. Vi ho trovato tante cose interessanti, un immaginario che mi è caro come mi è caro l’autore, e questa è una cosa che mi impedisce di darne un giudizio obiettivo.
Maghe vere o presunte, prostitute, ladri gentiluomini, vivi e morti che dialogano attraverso un quadro, lagune stregate, due anziani che fanno un po’ il ruolo del coro da tragedia greca. Ecco, c’è tutto questo ne Il respiro della laguna.
Io, come ho detto all’inizio, l’ho letto come il saluto da parte di Ongaro all’immaginario che ha abitato (e dal quale è stato abitato) per diciotto libri. E visto che quell’immaginario è anche il mio, perché proprio nei libri di Ongaro ho trovato quanto di più vicino mi riesca immaginare alla voce di un maestro, a fine lettura ho sorriso, un po’ malinconico, e ho fatto (mentalmente) ciao con la mano.
…aggiungo, comunque, che ho sempre amato molto l’immaginazione, la leggenda più della storia, mi piace pensare che la materia pensi, ragioni, rifletta e mandi segnali. Cosa vuole che le dica. Sono fatto così. Se mi sbaglio, tenga bene in mente questo, non me ne importa nulla. Capisce?
di Orazio Labbate

Frances Benjamin Johnston, Autoportrait, Washington DC, 1896
Paura, terrore e catarsi sono i sentimenti che provoca tutta la letteratura dell’orrore, gli stessi che Aristotele attribuiva alla Tragedia nella “Poetica”. Tre percezioni che si rivolgono all’usufruitore in modi differenti. Nella sua opera, il filosofo, indica la paura riferendosi infatti alla pietà (grecamente intesa), verso gli Dei; cioè, la devozione paurosa verso il Soprannaturale. Poi dichiara il terrore, quindi il perturbamento, come secondo mezzo che si realizza tragicamente nella finale catarsi:
La tragedia è dunque imitazione di un’azione nobile e definita, che possiede grandezza, in un linguaggio adorno, in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono, e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.
La letteratura dell’orrore si dimostra allora tra le più sublimi, anche per queste sue prime nobili origini. Voglio dunque provare a redigere un viaggio nel mio Orrore personale, scrivendo dei libri che mi sono stati e sono fondamentali.
Il primo modello della letteratura gotica fu il romanzo dello scrittore londinese Horace Walpole, “Il castello di Otranto” (1764). Esso rappresenta l’assoluto contenitore di tutti gli stilemi del genere: l’abitazione orrifica – il castello, appunto -, le catacombe, i sotterranei, i passaggi segreti, le apparizioni, le soprannaturalità dirompenti che distorcono gli spazi, le luci delle candele che levitano, i rumori molesti e la fanciulla arresa ai soprusi fantasmatici.
La storia dell’opera, brevemente, racconta del principe Manfredi il quale scatena accadimenti ultraterreni nel suo castello, fino alla tragica morte del figlio e della figlia. Lo stesso principe favorirà invece l’amore tra il reale discendente del casato e la sposa vedova del primogenito. Intreccio che oltre ai caratteri metafisici i quali arricchiscono la fabula – come l’elmo gigante immateriale che tedia i personaggi – si presenta scabroso e lontano da un costume perbenista. Lo scandalo è dunque foriero di spavento.
Se dal punto di vista strutturale il libro è lo scheletro portante a favore dei romanzi a venire, secondo la prospettiva linguistica, invece, esso è meno aggressivo, curato e intelligente nel produrre il terrore; lo gestisce, in definitiva, frettolosamente rispetto alle successive opere che costituiranno il Gotico.
Si legge una, seppur entusiasta, velocità nel mettere in tavola gli elementi dell’orrore a sua disposizione; addirittura si potrebbe rinvenire nella lingua di Walpole un’eccessiva ingenuità nella parti in cui l’invocazione di demoni e fantasmi ha non una forza, ma un’assurda contro-forza – sembra che parli un Dio – che si conclude in una fievole esortazione affinché le potenze oscure della trama si decodifichino. Pertanto, a causa della lingua debole, talvolta la paura non viene inghiottita dal lettore per dichiararsi perturbamento, viene invece esorcizzata come un evento già sentenziato irrealizzabile. Diventa, quindi, divertimento.
E’ il caso di quei periodi vocativi in cui – sconfessandosi il prestigio di una ritualità profondissima che permetterebbe il dialogo con l’Aldilà – risultano giochi, come se tra bimbi fallisse una seduta spiritica:“<<Sto sognando?>> gridò Manfredi, tornando sui suoi passi. <<O i diavoli stessi si sono messi in combutta contro di me? Parla, spettro infernale! O se sei il mio antenato, perché cospiri anche tu contro il tuo disgraziato discendente, che sta pagando anche troppo caro il…>> Prima che potesse finire la frase, la visione sospirò ancora e gli fece cenno di seguirlo.”
Dal primo autore che ha ispirato il modello narrativo del gotico ci spostiamo a una delle creature essenziali di questa letteratura.
Se la figura del vampiro ha avuto capillare diffusione nella storia internazionale delle lettere, non si deve soltanto al breve e asciutto romanzo “Il vampiro”(1819) di John William Polidori, ma soprattutto a “Dracula”(1897) dello scrittore irlandese di fine Ottocento, Bram Stoker. Conosciamo senza dubbio i fatti dell’opera, ma ciò che è maggiormente degno di importanza sono la struttura e la lingua.
La sua forma diaristica è una delle più superbe armi “gotiche” mai adoperate per gestire le emozioni del lettore: una tensione intrappolata che piano piano risulta scardinata dalla rivelazione della figura di Dracula. Il terrore, qui, è l’attesa dell’aggressione del mostro, che cresce grazie alla lentezza dei giorni scanditi dal diario che i protagonisti scrivono; un’imminente disgrazia diabolica pronta a possedere le fortune dei personaggi: dal giovane Jonathan Harker alla fanciulla Mina Murray.
Stoker pare dirci che il Male si manifesta nel tempo, fino a decidere di inglobare, dentro le sue interiora, la nostra vita: il vampiro infatti si nutre piano piano del sangue fino a decidere di uccidere la vittima oppure farla risorgere in una nuova veste vampirica.
Nell’opera dello scrittore irlandese la questione strutturale è splendidamente completata da una lingua che si legge austera e non priva di una studiata gestione di visioni o simboli. Visioni che però poggiano la loro sostanza su un approfondimento del folclore dell’Est e delle sue leggende; come si rinviene – si legga il brano seguente – nella circostanza del fuoco fatuo il quale si dimostra, nel romanzo di Stoker, per ciò che è, ovvero designazione e manifestazione di anime dannate; oppure territorio funebre ma anche metafisico in cui (si badi, solo e unicamente in esso poiché luogo sacrificato alle potenze oscure), possono completarsi le ritualità diaboliche prima di poter aver accesso al Castello, o in qualunque posto lontano dalla grazia di Dio:
“[…] Improvvisamente, sulla nostra sinistra, in lontananza, vidi una fiammella azzurra che lampeggiava. Il guidatore la vide nello stesso momento… la fiammella sembrava così vicino alla strada che potevo vedere i movimenti del giudatore persino nell’oscurità intorno a noi. Si diresse rapidamente là dove la fiamma azzurra era nata, doveva esser stato molto debole, perché non sembrava illuminare l’area a lui intorno, e, dopo aver raccolto qualche pietra, le dispose in un qualche disegno particolare…. Quando si trovò tra me e la fiammella non la ostacolò, poiché potevo vedere in ogni caso il suo pulsare di creatura spettrale. Questo mi spaventò, ma poiché l’effetto fu solo momentaneo, decisi che erano i miei occhi ad ingannarmi, mentre si sforzavano nell’oscurità. […]”
Stoker, per compiere ciò – come detto – adopera uno stile solennemente aristocratico, cioè scrive dialoghi e narra attraverso un linguaggio stabile, misurato, quasi di precisione monastica, ma che si scatena, cioè diventa allucinato, nel giusto secondo in cui deve rivelarsi il mistero che è infatti cosa più spirituale e poco controllabile. Come avviene nell’incontro col Conte:
“Dentro, stava un vecchio alto, accuratamente sbarbato a parte i lunghi baffi bianchi, e nerovestito da capo a piedi, senza una sola macchia di colore in tutta la persona. In mano reggeva una vetusta lucerna d’argento, la cui fiamma ardeva senza tubo di vetro né globo di sorta, proiettando lunghe, oscillanti ombre come palpitava nello spiffero dell’uscio aperto. Con la destra, il vecchio m’ha rivolto un cortese cenno d’invito, dicendo in un ottimo inglese, ancorché di singolare cadenza: “Benvenuto nella mia casa! Entrate libero e franco!””
Questa tecnica si ripercuote in ogni pagina, e in nessuna parte del romanzo si assiste ad un allentamento della stessa. Questo modus scribendi decreta l’opera come una delle più perfette in cui il perturbamento non si disperde, ma addirittura si stabilizza nel lettore.
Uno dei primi segnali di trasformazione verso il moderno Horror è l’opera omnia di Edgar Allan Poe.
Lo scrittore di Boston è innovatore del genere giacché mantiene solo parzialmente quel linguaggio di “superiorità” che adoperava il gotico classico; linguaggio che metaforicamente pareva scritto da una sorta di Deus ex machina il quale, in virtù della sua posizione divina, avrebbe potuto narrare, certamente senza conflitti interpretativi, elementi metafisici. Ciò però poteva – come spiegato nel caso di Walpole – apparire ironico e foriero di dubbi percettivi circa la paura scatenata durante la lettura del testo.
Ora Poe col suo nuovo linguaggio non elimina totalmente quello stile autoritario e divino, innova facendo risaltare una scrittura più dirompente che arriva a spiegare il Terribile come qualcosa di domestico disperdendo, via via con lo sviluppo della trama che racconta, il problema di quel tono altissimo.
Così la lingua risulta più colloquiale e dunque più vicina alla trasformazione linguistica dell’Horror moderno. Sarà in grado cioè di affrontare con semplicità stilistica indagini psicologico-metafisiche.
Racconti come “Il pozzo e il pendolo” o “Morella” riescono contemporaneamente a trattare e la dinamica spirituale tenebrosa, e le questioni legate al sovrannaturale. Che abitano, tutte e due, del suo lato terrificante, dentro l’essere umano.
Riguardo quest’ultimi due elementi, essi sono sempre presenti nelle novelle di Poe.
Nel primo dei due racconti, si fondono entrambi.
La paura dell’oscurità, che sovrasta il lettore, e il giovane del racconto recluso dall’Inquisizione spagnola e finito in un profondo e nero pozzo – dove il tempo sembra non esistere – nasce infatti da una specie di Orrore ibrido scatenato e da altri uomini e dalla soprannaturalità che li manovra.
Più specificamente, la crudeltà dell’Inquisizione verso la vittima della novella dimostra una sua dualità d’origine:
1- la bestialità umana e 2- l’intelligenza diabolica di cui l’uomo è dotato per peccato originale, e che nutre con costanza tramite l’esercizio della sua cattiveria.
La vittima comprenderà l’Orrore in cui è caduto e ne parlerà; ed è quel suo discorrere indisturbato e semplice che solidifica la paura che vuole suscitare lo scrittore di Boston: “la sentenza – la paurosa sentenza di morte – fu l’ultimo accento distinto che mi arrivasse all’orecchio. Dipoi le voci degli inquisitori sembrarono perdersi in un sognante e indefinito ronzio. Il suono che udivo, ridestava, in me, l’idea di una rotazione ma soltanto, forse, perché, nella mia immaginazione, si associava al ritmo d’una macina da mulino. Tutto questo durò pochissimo tempo: in capo ad alcuni minuti non udii più nulla.”
Nella seconda novella, la soprannaturalità è invece l’unica padrona della storia.
Il racconto narra della reincarnazione di una defunta sposina, aborrita dal suo amante. Il nome di lei è Morella, così come lo sarà quello della sua bambina partorita nell’atto della morte. Piccola che, infatti dopo il battesimo, si pronuncerà dicendo di essere la stessa madre che possiede quel nuovo minuto corpo..
Il linguaggio struggente e semplice permette di avvertire, addirittura leggere, la metafisica che pervade la storia. Qui, infatti, le invocazioni sono equilibrate; sentiamo la paura del protagonista nel momento in cui conosce la verità; sappiamo che si trova di fronte a una Doppelganger, la bambina è dunque, con certezza, la copia spettrale e reale di Morella: “Quale spirito malvagio parlò dagli abissi dell’anima mia, quando, sotto le volte oscure nel silenzio della notte, io mormorai alle orecchie del ministro di Dio le sillabe: Morella? E quale essere più che demoniaco agitò convulsamente le fattezze della mia creatura e le coprì del pallore della morte, allorquando, trasalendo a quel suono appena audibile, essa alzò i suoi occhi vitrei dalla terra al cielo e cadendo riversa sulle pietre annerite della nostra tomba di famiglia, rispose: «Eccomi»?”
Molto più ragionato, e proprio per questa sua maniera metodica di scrivere, assai inquietante, è il gotico di Nathaniel Hawthorne, scrittore statunitense dell’Ottocento, nato a Salem, la città dei processi alle streghe.
Il suo gotico è pervaso da quel terrificante perturbamento che l’esagerato ordine morale insegnato dal puritanesimo diffondeva nelle cittadine del New England. I personaggi sono allora lontani dalla realtà, la loro vita è come strozzata dalla sola attesa del Giudizio finale. Il Bene e il Male sono dovunque; perciò, incomprese e sottomesse a quella religione soffocante, le persone si alienano per in qualche modo ritrovare la vita, come si legge principalmente nella produzione di racconti dello scrittore di Salem. E’ il caso della novella“Il velo nero del pastore”, che fa parte della raccolta “Racconti raccontati due volte” (1837), in cui Hooper, il reverendo, ha il volto sempre coperto da un crespo scuro fino alla sua morte.
Nei racconti, i tempi della narrazione di Hawthorne, poiché si riferiscono a un preciso periodo storico, e forse soprattutto per questo conchiuso spazio temporale, sembrano asfissianti e conducono i personaggi a una tragica pietà verso un Dio oserei dire incombente – attorno alle loro anime – come un demone affamato.
Il pastore Hooper diventa così una creatura dell’assenza e del silenzio, che recita cerimonie non più credibili. Assume paradossalmente un ruolo indefinito, come i fedeli della sua cittadina, Milford, che sono sgomenti, che osservano il volto velato di Hooper, senza più avere un Padre religioso a cui appellarsi per la salvezza del loro spirito: “ancora velato lo adagiarono nella bara e fu un cadavere velato quello che portarono alla tomba“.
Il Diavolo, e la stregoneria, tanto esorcizzati con furioso estremismo in quel tempo, camminano attorno all’aura dei protagonisti delle novelle di Hawthorne. L’atmosfera è già sulfurea senza nessuna manifestazione concreta di Satana, senza nessuna esaltazione corporea dei demoni. Il Diavolo sorveglia. Non c’è differenza – come spiegato – tra Dio e demone. E quindi la sensazione predominante è che ci si trovi al cospetto di un funerale e mai davanti alla nascita di una luce o di un fatto positivo. Come nel racconto “Bozzetti notturni” in cui la voce narrante segue una direzione quasi impostagli demonicamente, sino ad arrivare ai <<limiti estremi della città, dove l’ultimo lampione lotta fievolmente con le tenebre, come la più lontana stella che sta di sentinella ai confini dello spazio non creato.>>
Tenebra che potrebbe essere sconfitta solo con la Fede, la stessa salda Fede che il reverendo Hooper pare però aver seppellito assieme a sé stesso.
A dispetto dei racconti in cui il Diavolo veglia senza che nessuno lo abbia scatenato, nel romanzo “La casa dei sette abbaini”(1851) il Diavolo si invoca a causa della maledizione del luogo e attraverso le parole.
Il libro narra le vicende di una casa “infestata” per origine (sorgeva su un terreno che conduceva a un sentiero da capre), e per la sua storia, giacché fu impiccato il proprietario di essa, un tal Maule, per stregoneria per ordine del colonnello Pyncheon.
E’ proprio durante l’impiccagione – ecco l’invocatio diaboli – che Maule scaglia il sortilegio sanguinoso in direzione del colonnello e della sua stirpe che dimorerà in quella casa: “Iddio gli farà bere il sangue!”, dice Maule presto appeso.
Le questioni diaboliche sono qui affrontate sotto l’egida di una storia amplissima, scritta sempre con una lingua troppo perfetta, regolata e forte (fondamentali la dottrina e le letture bibliche di cui si nutriva Hawthorne), tanto da produrre – come nei racconti – l’ansia di una insormontabile maledizione, di una vendetta divina, di una folgore ultimativa proveniente dai Cieli: “non si trattava semplicemente del tremito che quelle raffiche spietate davano al suo corpo, sebbene non avesse mai provato un freddo micidiale come quello, specialmente alle mani e ai piedi; era piuttosto una sensazione morale a fonderi con l’infreddolimento fisico e a farla tremare più nello spirito che nel corpo. L’atmosfera esplicita e squallida del mondo era così squallida!”
La parola allora serve, sembra stavolta dirci Hawthorne in quest’opera, per chiamare il Diavolo e non per invocare il perdono di Dio tramite la Fede.
Lungo la scia di una singolare letteratura gotica che dimostra la sua forza tramite una lingua sibillina – e uno scenario imprecisato – è annoverabile Franz Kafka.
Così è nel suo romanzo Il Castello (1926), oppure nei racconti; per citarne tre: La metamorfosi, Di notte, e Rinuncia.
Si legga subito un pezzo de Il Castello per provare questo perturbamento emozionale in cui sembriamo sottomessi agli ordini di un Padrone tenebroso che non ha nome e che non fa parte, si badi, di nessuna religione:
“Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nel
castello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha esibito».”
Il mondo kafkiano è quindi di già mondo astratto, non è per nulla reale. Il suo Padrone non è infatti un essere umano né il Dio cristiano. Kafka, lo scrittore, non lo definisce mai.
Per tale ragione, secondo una logica conseguenza, i figli di quel non-Dio – cioè i personaggi dei lavori kafkiani – sono tutti cose disumane, spiriti o larve surreali: K., l’agrimensore de Il Castello, Gregor Samsa, impiegato-insetto de La Metamorfosi.
Le loro abitazioni sono collocate nella non-esistenza. La casa e la stanza di Gregor Samsa potrebbero essere, chissà, l’Inferno. Lo stesso castello dell’omonimo romanzo è forse l’Aldilà generalmente inteso.
La lingua è silenziosa, probabilmente per rispetto di quell’Underworld: sembra essa stessa, per la sua semplicità e la sua freddezza, un segreto sussurrato. Una sorta di parolina spiata all’orecchio che viene tramandata da uditore a uditore. La parolina via via ingrosserà, fino al finale del libro o della storia, in cui diventerà forte come una morale che però risulterà incompresa dal lettore; sarà, in definitiva, un patibolo perché enigmatica nonostante la narrazione si sia ultimata.
In “Di notte”, infatti si legge: “E tu sei sveglio, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno acceso nel mucchio di stipe acconto a te. Perché vegli? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente.” Sembra quasi un indovinello che, qualora venisse svelato, potrebbe produrre una sorta di dubbio empirico sulla propria esistenza. Qui la paura proviene da un disorientamento. Da un alfabeto, che seppur leggibile, non ci viene concesso di interpretarlo.
Kafka è, alla fine dei giochi, mai capibile e in virtù di questo provoca uno specialissimo – solo di sua originale impronta – perturbamento nel territorio del Gotico.
In “Rinuncia”, altra novella, che è più una sentenza, accade lo stesso. La parola si vuole prestare ad un’attività anagogica quasi fosse un testo sacro. E difatti alla fine, per la sua categoricità, ha la potenza di una affermazione apocalittica, ancora impossibile – come tutte le Apocalissi – da decifrare:
“ Egli sorrise e disse:
<<Da me vuoi sapere la via?>>
<<Appunto>> risposi <<dato che non so trovarla da me.>>
<<Rinuncia, rinuncia!>> E si girò con grande slancio, come chi vuol essere solo con la propria risata.”
Non ci resta che accettare una nostra eventuale orribile inesistenza, suggerirebbe lo scrittore di Praga.
Tuttavia, oltre quel gotico kafkiano che si situa in un sentiero mediano tra gotico classico e Horror, uno stacco netto dalla sublime vetustà della prima categoria – dunque dalla sua lingua solenne e dalla struttura elementare – è stato attuato dal re dell’Horror moderno Stephen King.
Il linguaggio delle sue opere è secco, asciutto – purtuttavia costellato di metafore spesso poetiche – funzionale alla grande storia; lingua, nonostante il suo imperante minimalismo, non per questo scarsa di letterarietà.
L’impianto narrativo è costruito, come in IT (1986) o in Shining (1977), per imprigionare il lettore nel terrore: King edifica una sorta di labirinto fatto di facili “mattoni linguistici abbattibili” talmente ben incassati in mastodontiche architetture da risultare preziosi.
Le storie, nel loro scheletro complesso, non possiedono una trama temporale lineare.
In IT, si procede dai fatti del passato a quelli del presente dei protagonisti del libro, i Perdenti; e così dal presente al passato, con costante irregolarità.
In Shining, da un presente che procede lento fino ad attestarsi in un graduale futuro non percepito tale: i fatti riguardano una buona parte del periodo invernale che la famiglia Torrance trascorre nell’Overlook Hotel.
Questi salti temporali non inficiano il perturbamento che King vuole donare, anzi costringono il lettore ad un’ansia continua.
Per quanto concerne l’elemento tragico della paura – e dei suoi “conduttori soprannaturali” – ha origini e forme diverse nei due romanzi di King.
E’ già dalla nascita soprannaturale: il pagliaccio demonico, IT, vive nei sotterranei di Derry da quando la città è sorta. Dunque potrebbe essere IT stesso Derry.
Oppure è incarnatasi: Jack Torrance, il protagonista di Shining, viene posseduto dal Male una volta dentro l’infestato Overlook Hotel.
L’infanzia sarà l’esorcismo necessario, in entrambi i romanzi, per sconfiggere i due “conduttori della paura”.
Nel caso di IT l’infanzia però è personificata da un gruppo di ragazzini, i Perdenti, i puri di cuore, che solo se uniti sconfiggono IT.
In Shining, è invece dentro una sola persona, il bambino, Danny, dotato del potere dello scintillìo che rappresenta la chiave per individuare le mosse del Male, il padre Jack Torrance.
Ritornando alla questione linguistica e al suo collegamento con la paura, in IT la lingua, nel raro caso – come detto – si serva di metafore, è addirittura poeticamente filosofica e slabbra l’immaginazione orrifica mentre la si legge. Le circostanze della paura diventano, in tal modo, totalmente infantili perché corrotte dalla bontà della poesia; ciò è chiarito anche solo da questi passi del romanzo: “Ripenso a noi nell’acqua, a tenerci per mano e a promettere di tornare se fosse ricominciato: quasi come druidi in circolo, con le mani che sanguinavano la loro promessa, palmo a palmo. Un rito che è forse antico come il genere umano, un’inconsapevole spina conficcata nell’albero supremo del potere, quello che cresce al confine tra il territorio di tutto ciò che sappiamo e quello di tutto ciò che sospettiamo.”
In Shining, invece, il periodare è molto più algido, sicuro, e non ricade nell’elegiaco: la paura e i fatti della paura danno la sensazione, al lettore, di essere interamente adulti. In questo modo King permette di leggere il potere soprannaturale gestito da un bambino come serio, nonché di “concretare” la paura anche nei luoghi: l’hotel isolato, l’Overlook, lontano dalla realtà del mondo esterno; la camera 217, summa dell’infestazione.
L’impresa di un infante è allora degna di importanza. Si provi a leggere, a riprova, questo passo: “Forse in un primo tempo le cose che aveva visto erano davvero simili a illustrazioni inquietanti, ma innocue. Ma ora quelle cose erano passate sotto il controllo dell’albergo e di male ne potevano fare, e come. L’Overlook non aveva permesso che lui andasse da suo padre. Avrebbe potuto rovinargli la festa.”
C’è un’ulteriore differenza tra i due romanzi, che riguarda stavolta la paura legata alle abitazioni dei suoi due rappresentanti.
In IT, seppur le fogne di Derry siano il posto-principale dove il mostro dimora, la città intera è posseduta. Il Male allora si disperde ed è questa dispersione, questa intoccabilità – che invece non c’è in Shining – che demoralizza: condanna il lettore a perdersi. Ad impaurirsi come un bambino che tasta il buio cercando di toccare qualcosa di empirico. Qui il labirinto King lo crea in uno spazio dispersivo. I confini cittadini non bastano e così la storia del pagliaccio assassino raccoglie anni e distanzia anni come se il tempo si allungasse anch’esso con lo spavento.
Male che invece in Shining cessa e si conclude in un luogo conchiuso in cui si è effettivamente manifestato. Siamo rinchiusi, terrorizzati, in una prigione pronti ad attendere l’impazzata mossa di Torrance.
Jack Torrance non uscirà però da lì, verrà avvolto dalle fiamme:“Poi la <<cosa>> nel cielo scomparve e sarebbe anche potuta essere semplice fumo o un grosso frammento ondeggiante di tappezzeria, dopotutto, vi fu solo l’Overlook, rogo ardente nella gola ruggente della notte”.
Sempre seguendo l’onda della modernità del gotico sostanziatasi in quella letteratura definita Horror, una sua grande rilevanza ha L’esorcista (1971) di William Peter Blatty.
La primaria ragione è dovuta alla doviziosa trattazione del fenomeno possessorio-demoniaco in una duale prospettiva: quella cattolica degli angeli caduti che si sostituiscono alla volontà del posseduto per tentare di offendere il Dio cattolico; quella scientifica che studia l’accadimento nel campo della medicina.
Il turbamento è ora concreto. Ha una sua identità: Il Male nella persona del primo Maligno di origine cattolica, Satana. Il romanzo incute quella speciale ansia di una ventura, propria, possessione, come accade nell’opera di Blatty alla giovane Regan.
Ma perché si scatenino questi sentimenti contrastanti – religiosi vs scientifici – Blatty non si serve del didascalico o della facilità di una lingua, esegue invece uno stile fulmineo, minimalista e talvolta visionario al punto di dimostrarsi imbevuto di una seria sensibilità circa quel gotico che lui rintraccia anche nell’aneddotica battaglia tra Dio e Lucifero. Come in questo frammento iniziale in cui si introduce velatamente, nel libro, la figura di Padre Lankaster Merrin.“…E un uomo, le ossa di un uomo. I resti calcificati dell’angoscia cosmica che un giorno l’avevano costretto a chiedersi se, in fondo, la materia non fosse altro che l’annaspare di Lucifero per riconquistare i cieli del suo Dio.”
Proprio i personaggi legati alla Fede sono quelli che per la loro dualità, per la loro differenziazione caratteriale, accelerano in noi il processo di terrore.
Il dubbio fideistico di Damien Karras è il veicolo verso la paura dell’assenza di Dio e dunque la conseguente cedevolezza nei confronti delle brame diaboliche. Karras sarà il nostro spavento di essere posseduti. Di ricevere un demone per scarsa credenza e scarse preghiere. “L’unica motivazione radicata nella logica era il silenzio di Dio. Nel mondo c’era il male. E gran parte del male era causata dal dubbio, dalla sincera confessione che assaliva gli uomini di buona volontà. Un Dio ragionevole si sarebbe rifiutato di porre fine a tutto questo? Avrebbe rifiutato di rivelarsi? Avrebbe taciuto davanti a tutto questo?”
La lettura ci costringerà a impugnare un crocifisso affinché si esorcizzi con quel simbolo materiale un’eventuale aggressione luciferina.
Seconda faccia della medaglia è invece la coriacea fedeltà alla Parola di Dio da parte del più vetusto Padre Merrin. La paura che il personaggio, e la sua tribolazione, effondono non nascono da un’eventuale possessio diaboli – come avviene col personaggio di Karras – ma da un timore di non ricevere più la sua protezione; Padre Merrin fa le veci di Dio. Il terrore, in questo caso, non dipende dall’influsso di Satana ma dalla morte possibile di colui di cui il demone ha paura.
“Sconvolto, Karras si inginocchiò. Rivolto il corpo e vide il viso livido. Sentì il polso. In un istante di lancinante, tagliente angoscia, realizzò che l’esorcista era morto”: in queste righe noi incarniamo il terrore di Karras. Siamo terrorizzati nel ritrovarci al cospetto della posseduta senza un protettore. La scena sembra rivelarci che l’oscurità dobbiamo affrontarla da soli.
“L’esorcista” è allora un inno alla fede che l’uomo solo deve tentare di mantenere a denti stretti. Un sentiero lastricato di miscredenza e di particellari dubbi fideistici che alimentano, spesso, pietas verso Dio.
Infine, declinazione nuovissima del gotico è il cosiddetto southern gothic che pare percorrere, grazie ai suoi tre scrittori statunitensi di riferimento William Faulkner, Flannery O’Connor e Cormac McCarthy, una sua strada letteraria. Questo genere infatti ha ambientazione e temi propri – religiosi, sociali, territoriali – degli Stati del Sud degli USA; come l’ossessione per la religione cattolica che per il suo fanatismo si rende ironicamente spaventosa.
Accade ne “Il cielo è dei violenti”(1960) della O’Connor, in cui i personaggi- tra cui il folle profeta Mason Tarwater – si disperano minacciati da una travolgente necessità di dimostrare agli altri l’esistenza di Dio. Accade infatti che nell’opera il vecchio Mason Tarwater, prozio del giovane Francis Marion Tarwater, voglia indottrinare quest’ultimo, sin da piccolo, in una baracca nei boschi. Un posto eremitico. Lontani entrambi dall’intrusione di ideologie opposte rispetto a quella cristiana, in quel clima oppressivo in cui la lingua della O’Connor si dimostra una delle più originali in virtù di una sua sorta di furia biblica necessaria per convertire il povero personaggio del suo libro.
Nell’opera si leggono dilemmi religiosi che in tutti i lavori della O’Connor diventano letteratura o tediano le coscienze dei personaggi. Ne “Il cielo è dei violenti” leggiamo i dilemmi di chi è Cristo, il dilemma dell’influsso velenoso che l’eccessiva credenza in Gesù può creare nello spirito dei cattolici fanatici, e il dilemma di che potere e “sapore sacro” abbia l’ostia: “Rayber sentì di nuovo il sapore della sua sofferenza infantile contro la lingua, come un’ostia amara.”
Questi rebus avvolgono il romanzo di quel terrore che favorisce uno dei tre elementi del southern gothic, ovvero, come detto, il fanatismo religioso. Un passo, più lucido e privo di deliri travolgenti, prova a riassumere, si spera più chiaramente, quest’ultimo elemento.
Eccolo: “Allora il ragazzo sentiva un cupo malumore insinuarglisi dentro, sentiva montare in sé un caldo risentimento al pensiero che la libertà avesse a che fare con Gesù, e che Gesù dovesse essere essere il Signore. – Gesù è il pane della vita, – diceva il vecchio. Il ragazzo, sconcertato, distoglieva gli occhi e guardava lontano, oltre la linea azzurro cupo degli alberi, dove si stendeva il mondo, nascosto e a suo agio.”
In definitiva, la lingua della O’Connor a volte pare un “nero sermone” per installare domande e dubbi. Un sermone a contrario rispetto ai classici, positivi e fondati su una morale cattolica risolutiva e costruittiva. Un linguaggio, quello della scrittrice di Savannah, che però serve a mostrarci “quell’abbuffata di Dio” di cui i protagonisti de “Il cielo è dei violenti” dovrebbero capirne il rischio che parafrasato è tale: “misurate la parola di Gesù perché potrebbe condurvi, una sua scorpacciata, alla venerazione del Diavolo stesso”.
“Era inutile trattare con lui, diceva il vecchio; il suo cervello era viscido come i suoi occhi, e la verità non vi penetrava più di quanto la pioggia penetri nel ferro. Il maestro, che aveva sangue Tarwater, se non altro non era identico a suo padre. – Nelle sue vene scorre buon sangue, – diceva il vecchio -. – E il buon sangue conosce il Signore, e se lo si ha non c’è niente da fare. Non c’è un mezzo al mondo per liberarsene.”
Di là dal fanatismo religioso di un improprio uso dei brocardi del cristianesimo, al confine si trova il secondo elemento del southern gothic, che è il terrore di Dio attraverso un’esclusiva lettura biblico-apocalittica della realtà.
E’ il caso di tutti i lavori di Cormac McCarthy, fino al recente “La strada”(2006) in cui l’Apocalisse è già accaduta e il mondo nel suo stadio successivo cerca di descriversi grazie alla sola voce di un padre e di un figlio che camminano lungo un’America desertificata, dentro una Terra ormai lontana dalla luce di Dio. La lingua qui è spoglia e scheletrica concordemente alla vitalità della luce che lo scrittore non esita a descrivere di perenne grigiore. E’ ridotta e ha il suono di una pena capitale spesso intervallata da un periodare cataclismico e premonitore. Gli elementi stessi della vita non sono più cose naturali ma cose astratte, figure di idoli: “Nevica, disse il bambino. Guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come se fosse l’ultima ostia della cristianità”. Ma se questa lingua scheletrica ha nella Post-Apocalisse, il suo territorio, non è dello stesso tenore nel romanzo più complesso, il classico di McCarthy, Suttree (1979).
Il protagonista, da cui prende il nome l’opera, abita a Knoxville, Tennessee, vive nel mondo dei reietti e in quell’impero oscuro si confessa con se stesso e con la sua utilità umana – pesca, ma pesca specie di pesci orribili – in un’area dove Dio sembra non essere mai passato. Questa decadenza della luce, e quindi dell’assenza della Luce – che nella Genesi è la prima azione di Dio – è stavolta, rispetto agli ambienti ampi de La strada, nei luoghi dei dimenticati, degli ubriaconi, dei pescatori delle paludi, delle bettole, delle botteghe luride. Posti in cui si consuma la vita di Cornelius Suttree. Che già in questa sorta di Genesi “a contrario” McCarthy mette in evidenza. E tenebre furono, insomma. “Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te”.
Ma per descrivere questa “Tenebra genetica”, inclassificabile, che plasma il libro, McCarthy si serve di una lingua assai complicata, metaforica, litànica, una dei più potenti congegni del southern gothic. Basta un frammento a caso per accorgersene, ché ogni pagina non cessa di essere densa come il limo in cui campa Suttree: “All’altro capo della cala un serpente muso di porco rincagnato e rigonfio dormiva arrotolato tra i resti essiccati di uno schifo”.
Per ultimo, ma non meno essenziale, è William Faulkner il quale nella sua inventata contea di Yoknapatawpha ha fondato le storie del suo scrivere. Saghe di famiglie rurali, questioni razziali insolute, vite sommerse vittime di acrimonie tra dinastie che non cessano, e personaggi dalla fascinosa caratterizzazione umbratile. Elementi quest’ultimi che presagirebbero una dinamica narrativa realista ma che, invece, grazie a una lingua potente, implacabile, disconnessa e lontana da una regolarità sintattica – sembra un cammino di ombre che sovrastano altre ombre – fonda una metafisica nel Sud letterario prima mai esistita. “Mentre morivo”(1930) ne è dimostrazione. Le cose, gli oggetti stessi, sembrano siano stati catapultati da un altro mondo mentre vengono descritti. La trama è congeniale per questa “spiritualità buia”: deve essere condotta una bara, contenente Addie (madre e moglie) della famiglia Bundren, verso la lontana Jefferson, dentro un carro malandato. In quest’opera si realizza l’ultimo elemento terrorizzante del southern gothic, ovvero il territorio rurale, ampio, sconfinato, attraversato, del Sud, che è paesaggio e sentiero funebre a causa della sua estensione a perdita d’occhio, al punto di essere teatro delle gesta dei campagnoli psicopompi del libro, cioè Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman, figli di Addie.
E per spiegare questo viaggio con la morta, Faulkner si fa stilisticamente ancor più criptico, visionario e per nulla scontato. Perché il dolore verso chi non c’è più non può essere risolto con la semplicità di una lingua comprensibile, ma il più possibile distante dalla sua commerciabilità interpretativa.
Anche in una scena, la quale è adatta per concludere il nostro viaggio dell’Orrore, in cui la bara oggetto supremo del romanzo ora viene disegnata e associata, per forma, a un orologio a pendolo. In Faulkner il tempo della morte è il tempo in cui si fonda la sua opera e in cui vive la protagonista del libro: una defunta, appunto.
di Jamila Mascat

David Hammons, African-American Flag, 1990
The Color Line. Les artistes africains-américains et la ségrégation – una mostra in corso al Musée du Quai Branly fino al 15 gennaio – racconta come un poema epico la storia dell’arte afro-americana dal 1865 ad oggi – dalle ceramiche dello schiavo David Drake soprannominato Dave the Potter ai black nudes di Mickalene Thomas passando per la Harlem Renaissance degli anni 1920, David Hammons e la discreta presenza di Jean-Michel Basquiat. Arte dai tanti volti – arte contro la segregazione, arte per la ribellione, arte della rivisitazione, arte di contestazione, arte celebrativa, euforica, imprevista o conformista – dedita, a seconda delle circostanze, a rimarcare, attraversare e confondere quella “linea del colore” in cui W.E.B. Du Bois, l’autore di The Souls of Black Folk (1903), individuava precisamente “il problema del XX secolo”.
Non è solo il titolo della mostra a rendere omaggio alla figura di questo “gigante intellettuale” – così lo definì Martin Luther King Jr. in un discorso di commemorazione pronunciato in occasione del centenario della nascita du Du Bois (1968)– che nel 1909 fu tra i fondatori della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e dal 1910 caporedattore della rivista ufficiale dell’organizzazione The Crisis: A Record of The Darker Races (numerose, tra l’altro, le copertine esibite nello spazio espositivo del Quai Branly). L’allestimento, infatti, dedica un’intera sezione alla Exposition des Nègres d’Amerique ospitata all’interno dell’Expo di Parigi del 1900, che fu co-curata da Du Bois.

American Negro Exhibit, Paris, Expo Universelle, 1900
I materiali raccolti nel pavillon dell’American Negro Exhibit – tuttora conservati alla Library of Congress (Washington D.C.) – si prefiggevano lo scopo di raccontare una storia diversa rispetto alla triste e ben nota vicenda della segregazione razziale. In occasione dell’Expo, Du Bois, che allora insegnava sociologia presso l’Università di Atlanta, raccolse 363 fotografie in due album: Types of American Negroes, Georgia, USA and Negro Life in Georgia, USA. La quantità e la varietà delle immagini selezionate, secondo Du Bois, avrebbero contribuito a contrastare il pregiudizio “scientifico” diffuso relativo alla presunta inferiorità biologica della “razza nera”, di cui le caricature dei coons in voga all’epoca rappresentano una testimonianza significativa. A Parigi i visitatori della mostra avrebbero apprezzato un ventaglio considerevole di “volti negri tipici” a dimostrazione dell’impossibilità di teorizzare l’esistenza di “tipologie razziali” generalizzabili. Il lavoro condotto per l’Expo valse a Du Bois una medaglia d’oro, sebbene la sua impresa curatoriale sia tuttora poco conosciuta. L’autore la riassume in un resoconto breve (W.E.B. Du Bois, “The American Negro at Paris”, American Review of Reviews, November 1900, pp. 577-579) dove la definisce “sociologica in senso lato” per il tentativo di restituire in forma “sistematica e compatta” la descrizione delle condizioni di vita passate e presenti della popolazione afro-americana: “In this exhibit there are, of course, the usual paraphernalia for catching the eye– photographs, models, industrial work, and pictures. But it does not stop here; beneath all this is a carefully thought-out plan, according to which the exhibitors have tried to show: (a) The history of the American Negro (b) His present condition (c) His education. (d) His literature”.

Mickalene Thomas, “Baby I am ready now”, 2007
A fianco della vocazione militante e combattiva di Du Bois, il pavillon dedicato all’American Negro Exhibit rifletteva la presenza di sensibilità antirazziste diverse. Non si trattava solo di denunciare il razzismo istituzionale e i suoi fondamenti teorici e culturali, ma di mostrare come a dispetto dell’apartheid imposta dalle leggi Jim Crow, la popolazione afroamericana continuasse a coltivare il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, imparando e lavorando. Pionieristico in questo senso fu l’esempio della Tuskegee Normal School for Colored Teachers (Tuskegee, Alabama) fondata nel 1881 da Booker T. Washington. Oggi la Tuskegee University figura tra le più prestigiose istituzioni HBCUs (Historically Black Colleges and Universities), ma quando Washington fu chiamato a Tuskegee per avviare l’impresa trovò ad aspettarlo un edificio fatiscente e centinaia di giovani afro-americani desiderosi di sedersi sui banchi di scuola. Sembra che il tetto dell’istituto fosse così mal ridotto che nei giorni di pioggia gli studenti a turno proteggevano Washington con un ombrello durante le lezioni. Spazi disastrati, trenta studenti per cominciare – per lo più già maestri, un solo insegnante – Washington, per l’appunto– che aveva anche il compito di racimolare fondi presso la comunità bianca locale per poter rilanciare il progetto con nuove ambizioni. Raccolti i finanziamenti, Washington fece ricostruire l’edificio della scuola impiegando la manodopera dei suoi studenti che in questo modo avrebbero imparato il mestiere dell’edilizia. Sul modello dell’Hampton Normal and Agricultural Institute (Virginia) che aveva frequentato dal 1872, Washington, concepì una scuola a 360 gradi che insegnasse a leggere e a scrivere e a far di conto, a conoscere la storia e la geografia, ma anche a coltivare, cucire, cucinare, fabbricare mattoni, stampare, lavorare il legno. I maestri formati alla scuola di Washington sarebbero stati poi inviati a insegnare nelle aree rurali per trasmettere a loro volta agli studenti la passione per l’apprendimento e la disciplina al lavoro. Innovativi, sebbene non rivoluzionari, gli esempi di Hampton e Tuskegee furono immortalati e valorizzati in occasione della American Negro Exhibit.
Nel 1899 l’Hampton Institute affidò a una talentuosa fotogiornalista l’incarico di ritrarre gli studenti e la vita di classe. I suoi scatti (più di 150) furono selezionati per l’Expo parigina dove riscossero un gran successo di pubblico e di critica. Lei si chiamava Frances Benjamin Johnston (1864- 1952) e nel 1893 era giù sufficientemente affermata per essere citata in un articolo pubblicato da Clarence Bloomfield Moore su Cosmopolitan intitolato “Women Experts in Photography”. Nel 1894 FBJ aveva aperto uno studio fotografico a Washington – l’anno successivo il Washington Times ne parlava come “the only lady in the business of photography in the city”.

FBJ, Autoritratto, 1890 c.a.
Alcune delle immagini catturate da FBJ sarebbero state pubblicate postume nell’ Hampton Album. 44 photographs by Frances B. Johnston from an album of Hampton Institute (New York: The Museum of Modern Art, 1966). Nell’introduzione il curatore del catalogo, Lincoln Kirstein, richiama la natura controversa e criticabile del reportage di FBJ, rimarcandone il carattere assimilazionista –“the white Victorian ideal as criterion towards which all darker tribes and nations must perforce aspire” (p.10) – che ben rifletteva le ambizioni dell’Hampton Institute, ambizioni che poi sarebbero state anche quelle del suo studente più famoso, Booker T. Washington, talvolta contestate da Du Bois e da altri attivisti antisegregazionisti.
Le foto di classe scattate da FBJ, al di là dalla polemica tutt’altro che infondata sulla natura del sottotesto normativo dei ritratti e dei soggetti (i neri per bene – volenterosi, laboriosi e desiderosi di contribuire alla costruzione dell’American dream) meritano più di un’occhiata.
Eccone alcune (e poi qui altre):


Geography class, Hampton Institute

Stairway of the Treasurer’s Residence: Students at Work, Hampton Institute

Biology class, Hampton Institute

Sewing Class, Hampton Institute


Cooking class
History Class at the Tuskegee Institute

“Longtemps, je me suis promené d’île en île…”
di
Michel Déon
(Appena ieri pomeriggio ho saputo della scomparsa del mio amico Michel, nonostante fossi in viaggio, ho voluto ritrovare un suo articolo pubblicato su Le Figaro cinque anni fa e tradurlo per voi, subito, per lui, ora. Il titolo lo lascio in francese e mi riservo di poterci ritornare su appena possibile per correggere eventuali passaggi. effeffe)
A lungo, ho vagato da un’isola all’altra, con una frase di Paul Morand in testa: “Le isole saranno forse il rifugio degli ultimi aristocratici, mentre i continenti saranno schiacciati dalle masse.” (1927. ) Due guerre mondiali per mare e per terra hanno gravemente ridotto la speranza di salvare uno stile di vita, isolamenti che fanno sognare chi abita il continente. Non tutti possono giocare a fare i Robinson Crusoe: ventotto anni naufrago al largo del Cile su un’isola dell’arcipelago Juan Fernandez ormai nota per il nome inventato da Daniel Defoe, e la vicina isola, che a sua volta reca il vero nome del marinaio che gli ha raccontato la sua avventura: Alexander Selkirk.
Sulla cartina del mio atlante la cui scala è 1/24 000 000, l’isola è solo un punto, mentre all’equatore le Galapagos sono macchie rosa, come l’Isola di Pasqua, su cui Laperouse sbarcò verso la fine del XVIII secolo, poco prima della sua tragica morte a Vanikoro. Sulla grande mappa del Pacifico, numerose sono queste isole che si crederebbero inaccessibili nell’antichità e la cui unica Isola di Pasqua conserva traccia di una misteriosa civiltà con statue di pietra colossali scavate alle pendici di un vulcano spento. In quale epoca? Un mistero ed è un bene che si sia ben lungi dal sapere come la razza umana abbia popolato non solo i continenti, ma miriadi di terre disperse nel Pacifico, e in minima parte nell’Atlantico. Nell’immaginario umano, le isole occupano uno spazio importante e spesso mitico. Così l’isola di Calypso, in cui prigioniero dell’incantesimo della dea – dei piaceri del talamo e della tavola – Ulisse visse per diversi anni e da cui non si sarebbe mai liberato senza l’aiuto di Hermes. Dov’era questa isola? Il poeta ha mischiato le carte, ma è probabile che si situasse in prossimità dello stretto di Gibilterra, dove l’Atlantico e il Mediterraneo si affrontano. Lo stesso Omero, pare sia nato a Chios nelle Cicladi e la sua tomba si troverebbe a Ios, con una splendida vista sul resto del povero mondo.
Negli anni a seguire, un’altra isola, ma questa volta nella Manica, passerà alla storia grazie a un esule politico: le incisioni dell’epoca raffigurano un Victor Hugo pensieroso su uno scoglio battuto dalle onde. Senza tale confino, di quanti versi saremmo stati privati. Si passi al largo dell’Isola d’Elba, cesto di fiori selvatici, senza pensare a quel principato da operetta (500 km2) con cui gli inglesi tentarono d’addomesticare l’ambizione di Napoleone? Una corte di fedeli, cospiratori frustrati di gloria non fosse non bastarono a trattenerlo. Si può mai ricominciare una vita di conquista a 45 anni?
Così furono Waterloo e il confino nell’Atlantico del Sud, a Sant’Elena, feroce tomba di roccia appartata dal mondo. Sant’Elena non inganna gli elementi. Jean-Paul Kauffmann, che l’ha visitata di recente, ha sentito fino a farsi mancare il respiro tale destino di prigione marittima. L’ombra di Napoleone sovrasta l’isola, raggiungibile solo via mare: almeno quindici giorni di navigazione, e uno scoglio sgraziato piantato non si sa bene per quale motivo in un oceano vuoto, spesso ostile; una dimora, Longwood: “Niente è più sconvolgente di questa capanna situata sull’altopiano battuto dal vento. È la casa del tempo ritrovato. L’illusione è così intensa che si potrebbe pensare che l’imperatore e i suoi compagni se ne siano stati via solo per un po’ e che da un momento all’altro faranno la loro comparsa in veranda … “Mi sono sempre chiesto se gli inglesi gli avessero riservato tale destino in segno di rispetto per un isolano come loro, il solo loro unico punto comune, ma capitale. In epoca moderna si è un po’ meno raffinati: i capi degli stati sconfitti vengono impiccati a Norimberga, a Baghdad.
Non meno tragiche, le isole Kerguelen nell’Oceano Antartico, restano poco accessibili. Dalla Reunion, una nave, due o tre volte l’anno, approvvigiona la stazione meteorologica francese con il suo personale. Vi si caccia la foca e il coniglio, importato … moltiplicatosi nell’isola principale. Per chi ama la lontananza, la solitudine e sopporta la vita in comunità, al momento della cena a base di carne di foca, è un tipo di villeggiatura che le agenzie di viaggi vivamente sconsigliano.
Chi dice isola spesso pensa a naufragio. Nella solitudine dei mari terribili, le isole sono ciambelle di salvataggio. Tutto l’equipaggio non ce la farà. Spinta a riva, la nave s’infrange sugli scogli, onde gigantesche la fanno esplodere in mille pezzi. Solo Robinson si salva e si ritrova su una spiaggia. L’isola è deserta, solo grazie al suo coraggio potrà sopravvivere e agli utensili che riesce a strappare ai detriti della carcassa, un fucile e una cassa di cartucce. È di questo che si ha bisogno per durare ventotto anni. Vorrei aggiungere un altro bene di grande valore: una Bibbia che, ogni giorno ravviverà la speranza, e vedremo come con gli altri naufraghi, quanto fosse prezioso questo libro dei libri. La storia eroica di Robinson ha nutrito la mia infanzia e devo confessare che da vecchio adulto, mi capita di pensarci ancora spesso. L’immagine di questo eroe affascina ogni singola generazione. D’ingegno possibile, si costruisce una capanna vicino a una fonte di acqua dolce, coltiva un orto, caccia, pesca. I suoi vestiti sono laceri. Si cuce dei vestiti con pelle di capra, una sorta di capra, le scarpe con quella di foca, un ombrello. Ammaestra un pappagallo cui insegna a parlare, incontra un cane, una sorta di cane, e lo addomestica. Le immagini ce lo mostrano come un solitario dall’aria beata. La vegetazione è tropicale ma riesce ad addomesticare anche quella. Manca solo un grappino al calar della sera. Sarebbe quasi una benedizione vista la situazione. I giorni, le date hanno smarrito ogni significato. Vano sarebbe sperare. Delle vele passano in mare aperto senza scorgere i fuochi accesi da Robinson per attirare la loro attenzione. Un uomo solo è un mondo intero. Robinson è forse stato il più felice degli uomini. (…)
Tanto le Auckland sono radicate in un mare del sud che difende le proprie terre ostili, tanto l’Egeo e il Mediterraneo ospitano arcipelaghi felici, Cicladi e Sporadi, che hanno partecipato allo sbocciare di una civiltà rimasta un sogno: Creta, Delos, Rodi, l’indimenticabile Santorini (o Thera), che sarebbe, secondo Aristotele, l’ultima massa di terra emersa di Atlantide. Queste isole resistono perfino al turismo, flagello dei tempi moderni. A due di loro sono particolarmente grato, Hydra e Spetses, dove ho trascorso venti anni di felicità senza nuvole, aprendo la finestra al mattino su una miriade d’isolotti messi a guardia contro gli intrusi. Hydra ha il potere magico di scomparire nella bruma e riapparire nel bagliore del sol levante come una nave che levi l’ancora.
L’argomento è troppo vasto da potersi esaurire in poche righe, ma non posso concludere questa mia navigazione senza citare Strabone, un greco di Cappadocia, del 50 aC, circa, nume tutelare dei geografi. Strabone descrive un’isola a partire dai racconti di marinai dispersi nell’Atlantico. Si trova a poca distanza dalla foce di un grande fiume che potrebbe essere la Loira. La sua peculiarità è di essere popolata esclusivamente da donne. Nessun uomo vi si può avvicinare senza essere immediatamente tagliato a pezzettini. Avendo l’isola l’impellenza d’essere ripopolata, la Gran Sacerdotessa autorizza le donne a raggiungere a nuoto le rive del continente, dove potranno accoppiarsi con un maschio. Dopodiché riguadagnano la riva dell’isola, sempre a nuoto. Se il bambino nato da questa unione è un ragazzo, viene immediatamente sgozzato, se si tratta di una ragazza, si unisce alla comunità. Nonostante accurate ricerche da parte dei più grandi oceanografi, non si è mai riusciti a determinare con precisione dove sia situata quest’isola.
No, di sicuro non è l’isola di Noirmoutier.
di Giorgio Mascitelli
Nella nostra società gode di grande popolarità l’idea che cambiare nome alle cose sia un ottimo metodo per risolvere i problemi. Non che questa idea sia del tutto priva di fondamento perché il marketing ci offre una serie di esempi della riuscita di tale operazione, ma quando si passa sul terreno sociale, politico e culturale le sue possibilità di successo appaiono alquanto ridotte. Ne è un interessante esempio l’irresistibile ascesa della parola populismo nel dibattito contemporaneo.
Questo termine, che ormai si applica indiscriminatamente a movimenti e formazioni politiche di sinistra e di destra difficilmente riconducibili a qualche denominatore comune, tende a istruire un’opposizione periferia-centro o anche antisistema-sistema. Lo schema che l’uso di questa parola richiama in forma esplicita o per connotazione, è l’opposizione tra forze antisistema, che fondano la loro crescente popolarità sulla demagogia e su proposte irrealizzabili, e quelle prosistema, che si vedono costrette a prendere misure necessarie ma impopolari e raccontano al pubblico solo l’arido vero. Infondo tale contrapposizione suggerisce, nemmeno troppo implicitamente, che la verità di fondo di questa fase storica coincide con il discorso sulla crisi e sulla società che conducono le grandi istituzioni internazionali del capitalismo e i loro esegeti autorizzati. Si tratta di una classica operazione ideologica nella quale l’ostensione di una parte del fenomeno serva a occultarne altre.
Un esempio eloquente è proprio quello di Donald Trump: rappresentato dalla stampa, compresa autolesionisticamente quella vicina a Hillary Clinton, come un outsider demagogico e politicamente scorretto, rivela progressivamente grazie alle nomine dei membri del suo governo di essere un rappresentante di quel settore finanziario, un po’ emarginato politicamente dopo la crisi del 2007 e la vittoria di Obama, da sempre alla guida della globalizzazione e legato al partito Repubblicano statunitense, cosa del resto ovvia, visto che Trump era il candidato ufficiale di questo partito. Insomma, come scrive Andrea Fumagalli, “L’esito delle elezioni americane non ci può sorprendere e non è un momento di rottura. In un contesto elettorale dove il diritto al voto è fortemente influenzato dal censo e dalla classe sociale di appartenenza non può essere altrimenti. Non è un caso, che la percentuale di voto tra il le classi sociali meno abbienti – il proletariato dei ghetti e delle minoranze etniche (il vero serbatoio della forza lavoro a basso costo, per lo più non bianca, dai McJobs ai lavoratori del terziario arretrato – con redditi e precarietà ben al di sotto della ex-aristocrazia operaia bianca) è stata intorno al 30%.” (http://effimera.org/trump-e-la-finanza/).
Analogamente la Brexit è essenzialmente frutto di un gioco politico tra le varie componenti del partito conservatore, di cui l’UKIP è un epifenomeno. E perfino il tanto stigmatizzato Orban è un membro del partito popolare europeo, che ha potuto godere di qualche appoggio e strizzatina d’occhio presso governi di altre nazioni apparentemente più politicamente corretti.
Anche lo stile comunicativo aggressivo, l’argomentazione demagogica e il culto della personalità, che vengono spesso rimproverati ai loro leader, sono tratti d’ immagine pubblica non troppo distanti da quelli di certi leader democratici moderni e di sistema, come Renzi o Trudeau. E’ lo stile della comunicazione mediatica del nostro tempo, che è tuttora elaborata , anche se la diffusione dei social network ha un po’ parcellizzato e autonomizzato le forme di circolazione, nei tradizionali centri di creazione del linguaggio della società dello spettacolo. Insomma i tempi di Mario e il mago, in cui il grande ipnotizzatore emergeva all’improvviso da dietro le quinte della società a turbare la vita pubblica delle persone per bene, sono finiti e chiunque ha i propri consulenti e scuole di comunicazione di fiducia.
Appare chiaro allora che il populismo, osservato più da vicino, perde i suoi tratti radicalmente antisistemici e al contrario è in stretto contatto con una propensione all’avventurismo politico delle élite neoliberiste, o quanto meno della loro parte più reazionaria. Queste, che hanno costruito il loro successo tramite un’immagine tecnocratica che conferiva certezza che la globalizzazione avrebbe distribuito pace e ricchezza quasi a tutti, man mano che il disordine mondiale emerge e annulla le speranze di cui sopra, cercano di usare queste pulsioni di disperazione e frustrazione, che si organizzano perlopiù spontaneamente, ma non sempre, per mantenere almeno alcune rendite di posizione, se non tutto il potere.
Nel 1935 nelle Lezioni sul fascismo Togliatti scriveva “Anche il totalitarismo è concetto il quale non viene dalla ideologia fascista. Se vedete la prima concezione dei rapporti fra il cittadino e lo Stato, voi riscontrate degli elementi piuttosto di liberalismo anarchico: protesta contro lo Stato che interviene nelle cose private, ecc. Il totalitarismo è invece il riflesso del mutamento avvenuto e del prevalere del capitale finanziario”. L’aspetto interessante di questa citazione non è nel riproporre un paragone tra fascismo e populismo odierno, che non ha senso perché sono troppo diversi i contesti storici, culturali, tecnologici e anche organizzativi, ma nel sottolineare la capacità del capitale finanziario di costruire nuovi ordini sfruttando le dinamiche sociali per fare fronte alle proprie crisi. E’ chiaro che l’urgenza politica del nostro tempo, anziché perdersi negli oziosi esercizi in cui si cerca di dimostrare l’inesistente somiglianza tra Trump e Sanders, è quello di cogliere i fili che collegano i movimenti di destra con il potere finanziario.
di Francesca Fiorletta
Lo snobismo mi attanaglia.
Entro in libreria meno spesso di quanto si potrebbe pensare, sicuramente meno spesso di quanto facessi dieci o anche venti anni fa.
Non entro spesso nelle librerie, nonostante io lavori tutta la settimana (anche) in una libreria. Forse è proprio per questo, mi racconto; perché quando esco a fare una passeggiata, finito il mio turno doveroso, preferisco prendere un gelato all’aria aperta, anche se siamo in pieno inverno e quest’anno le temperature scendono sotto lo zero pure nella calda-per-antonomasia capitale.
di Azzurra D’Agostino
Valerio Nardoni e Paolo Maccari dal 2010 propongono un’iniziativa più che lodevole nel panorama della poesia e dell’editoria italiane. Il progetto nasce intorno al Premio Ciampi, dedicato com’è noto alla canzone d’autore. I due curatori hanno portato questa esperienza nel campo della poesia internazionale, realizzando in collaborazione con Valigie Rosse una sorta di ‘premio alla carriera’ a un poeta italiano e a un poeta straniero in traduzione. Non ci si candida, ma sono i due attenti lettori che invitano un autore, degno in qualche modo di interesse, a proporre una plaquette inedita che verrà pubblicata nella collana del premio. Collana della quale chi scrive è entrata –con stupore e gratitudine – a far parte l’anno scorso, dopo Italo Testa, Matteo Marchesini, Andrea Inglese e Francesco Targhetta. Ne scrivo dunque in qualche modo ‘dall’interno’ pur essendo questo un caso non cercato: avevo letto tutti i libri precedenti, di autori che stimo, e fin dalla nascita di questa avventura avevo trovato molto interessante la formula di dare in qualche modo spazio – che fosse anche riconoscimento – a poeti diversi ma al contempo dal percorso significativo, dalla voce definita. Dopo aver coosciuto da vicino come lavorano Valerio, Paolo e Tiziano Camacci di Valigie Rosse, la mia idea iniziale di ammirazione si è rafforzata, per la passione, l’entusiasmo e la gentilezza che mettono nel progetto che hanno ideato. Ho poi provato un vero e proprio moto di gioia nel sapere il vincitore italiano di quest’anno: Antonio Turolo che, insieme al rumeno Ioan Es. Pop, è stato premiato lo scorso 25 novembre alle 21 al Teatro ‘La goldonetta’ di Livorno.
Perché ho gioito per Antonio Turolo? Innanzi tutto, per il fatto di poter finalmente leggere sue poesie inedite. Fin dall’esordio – che non a caso si chiamava ‘Le parole contate’, inserito nel VI Quaderno di poesia italiana Marcos Y Marcos – una caratteristica di questo poeta un po’ defilato è stata la scrittura centellinata. Due raccolte brevi, a distanza di 9 anni l’una dall’altra, uscite per editori piccolissimi. L’ultima prima di questo ‘A parte il lato umano’ è stata ‘Corruptio optimi pessima’, andata esaurita da tempo. Turolo non compare tra i nomi dei festival, non compare sui magazine letterari e non partecipa a dibattiti o querelle. Eppure i lettori di poesia sanno benissimo che questo autore è degno di nota e non se ne dimenticano da un decennio all’altro, perché Turolo ha qualche cosa da dire: e quando la dice, nel suo modo serrato, privo di fronzoli, dritto alla questione, la dice per tutti, senza fare sconti, dando alla nostra lingua e alla nostra lettura del mondo nuova aria e nuovi spunti.
In particolare ‘A parte il lato umano’ esce dal confine dell’autobiografismo e lo amplia in una sorta di autobiografismo collettivo, una storia personale rifratta in vari personaggi, uno sguardo dei vinti verso chi li ha vinti, in un gioco di specchi che mette il lettore – il chiunque stia dal lato dei ‘normali’ o dei ‘salvati’ – in una crisi spartana e domestica, quella del dover fare i conti con le disattenzioni quotidiane, con i soprusi minuti, con l’indifferenza ormai didascalica del nostro mondo e tempo.
Dice bene Maccari, sempre puntualissimo e lucido nelle sue postfazioni, che si potrebbe qui parlare di uno ‘studio delle solitudini’, indagate nel momento in cui il singolo destino è in un momento di svolta decisiva, quello che illumina tutta la vita.
La forma è interessante, si passa da brevi poesie che in qualche modo espongono il fatto – esistenziale, letto attraveso una lente quasi cronachistica – e dei prosimetri in prima persona dove il protagonista spiega le sue ragioni, portandoci dentro quel dolore e quelle ragioni che in genere non sappiamo (non riusciamo ? non possiamo? non vogliamo?) ascoltare.
Il saggio di Maccari, da leggere, dà interpretazioni e visioni puntuali, alle quali non c’è molto da aggiungere, se non la speranza che questo premio continui il suo percorso con la stessa coriacea indipendenza con cui è nato.
Riporto dunque in anteprima alcune poesie da ‘A parte il lato umano’, Premio Ciampi Valigie Rosse 2016, volume impreziosito dalle sculture di Riccardo Bargellini create ad hoc per la pubblicazione.
A parte il lato umano,
(schiarendosi la voce),
devi considerare che è difficile
per i colleghi del Pronto Soccorso
riuscire a stabilire quando
la TAC è veramente necessaria
poi ovviamente ci sarà l’inchiesta.
(E qui una breve pausa).
A parte il lato umano
ribadisce.
*
La morte di un poeta è una notizia
che scivola leggera sugli schermi
delle telescriventi e le agenzie di stampa.
Discreta si diffonde
nelle pagine interne dei giornali
in coda ai notiziari della televisione.
Lo ricordavamo vivo oppure no,
si scoprono gli anni
si fanno un po’ di conti.
All’improvviso ci si accorge di
un dispiacere, come
uno sgomento leggero.
*
Il dottore ha detto che devo stare attenta. Non lasciare scadere le medicine. Me le ha cambiate, ma mi sento sempre uguale. Certi giorni le prendo e certi no. Quando vado da lui, prima devo lavarmi. E poi prendere il posto. E litigano sempre, per chi è arrivato prima. Mi passano davanti perché hanno i bambini piccoli, perché devono andare al lavoro. Così ci ho rinunciato. Però era contento che ho smesso di fumare. Ha anche sorriso. La sigaretta mi faceva compagnia però. È venuto anche lui a visitarmi. Avevo messo a posto la stanza, ma lui si è arrabbiato lo stesso. Ha detto che non posso vivere in questo disordine, e che dovevo pensare all’igiene, dare una mano di bianco ai muri, ha detto, buttare via gli scatoloni. Ma sarà abituato, penso io, è il suo lavoro, no?
di Antonio Sparzani
È domenica e non abbiamo appuntamento. Il suo quartiere è piuttosto lontano dal mio. Ma io prendo la mia Fiesta color perla e mi dirigo verso quel quartiere. Non so cosa farò. La ragione non comanda sempre, anzi non comanda mai, ci sta sempre sotto tutto il mio corpo che è grosso e complesso ed è inesorabilmente un tutt’uno. Dunque questo corpo, persona, uomo, si sente girare dentro la testa, ma forse anche dentro altre parti, forse tutte le altre parti, una spinta, un desiderio di stare un po’ in quella zona, dove vive lei. E la macchina, che lei sì è veramente una macchina, si lascia condurre, lentamente, quasi per sviare l’attenzione, sul posto.
Il posto è poi un quartiere, con le sue vie rettangolari e qualche piazzetta che sembra proprio una piazza di paese. Io so il giro che bisogna fare per arrivare da lei, cioè davanti alla sua casa, che magari non esca proprio in quel momento, a portare a spasso il cane, uno shetland dal pelo lungo e simpatico, chissà, si potrebbe dire oh guarda che caso, aspetta che parcheggio. Ma poi parcheggio davvero e percorro pigramente a piedi le strade del quartiere, ristorantini, pizzerie, negozietti, perfino un falegname vero, con la bottega piena di strumenti e di legno, e poi mostre d’arte e tanti passanti svelti che tutti girano per le poche strade di un’isola nella grande e industriosa città.
Cerco di conoscere il posto, di imparare i nomi delle vie, di orizzontarmi senza fatica, vedo una sagoma lontana con un cane, affretto il passo, no, non è lei, son proprio cieco, ma nell’ombra di questi brevi crepuscoli invernali non si sa mai. Penso ma sono venuto fino qui per non suonarle neppure il campanello con una scusa qualsiasi, è questo che voglio? È mancanza di coraggio, di spavalderia? No, non credo, mi interrogo a lungo, guardo i fili dei miei pensieri che percorrono tutti i teatri possibili, sto attento a non cedere al primo impulso, ma forse è che l’impulso non è abbastanza forte; girellare nel suo quartiere è comunque starle vicino, magari sbuca da dietro un angolo, certo sarebbe bello, o forse un tantino imbarazzante? Cosa fai da queste parti, ma, sai, andavo dal falegname per una certa sedia rotta, ma no, ma no, la verità è sempre il meglio, sono venuto a girare qui sperando di incontrarti, e allora sì che ci si capisce e si capisce se ci teniamo in qualche modo, con i nostri modi diversi, tutti e due.
Ma naturalmente nulla di ciò accade, io mi perdo via a pensare come sono fatto strano, che poi figuriamoci che stranezza, chissà quanti altri se la raccontano di qui e di là, e ritrovo la mia piccola Perla che mi aspetta, lei, stupida prevedibile macchina, mi attende fedele.

di Orso Tosco
L’apocalisse è così dolce.
Il Mondo, se questo è ancora il giusto nome da attribuirgli, somiglia a un’enorme bestia splendidamente rassegnata. Ninna ha sempre saputo che sarebbe andata in questo modo, l’ha sempre immaginato. Non a caso si aggiusta i capelli con due dita lunghe e belle, quasi mischiasse brace a chicchi di riso. Perché è così che si accetta la verità, perché così si accoglie il ritardo della verità. Come se servisse, o bastasse, a qualcosa.
«Cosa vedi?»
«Niente, lo sai, non vedo niente.»
«E cosa vedi dai denti?»
«Dai denti?»
«Sì. Dai denti.»
«Vedo il limone.»
«L’albero o il succo?»
«Il succo. È tiepido. E le balene, vedo le balene voltate verso il cielo.»
«E la pelle, cosa dice?»
«Mi dispiace. Dice mi dispiace.»
«Questo sei tu, tu lo dici, non la pelle.»
«Io sono la pelle, soltanto quello.»
«È per questo che bruci?»
«È per questo che smetto.»
E poi, lui che risponde alle domande, muore.
Ancora una volta, lui con la fronte alta e graffiata e le labbra carnose, muore.
E lei, Ninna, ancora una volta, osserva la costa. Osserva il profilo scuro della collina che si finge linea quando è invece foschia, miscuglio tenue di nebbia e di tratti nemici tra loro: dove l’albero smentisce la roccia e la roccia si allontana a nascondere il crepaccio, dove la poiana appare e scompare più veloce di qualsiasi frana, e la frana è nascosta e lontana, racchiusa nella linea esatta della costa, che raggiunge il mare e nega qualsiasi foschia con un solo tratto.
Contro la costa, come capelli, come fitto manto erboso, stanno le nuvole. Le prime nuvole.
Sono legate tra loro e dense, simili a fango grigio e blu, fango spesso e immobile, slabbrato verso il mare. Oltre la costa, più in alto, le nuvole appaiono invece ben delineate e il tramonto, quasi andato, ci rimbalza contro e sotto, e sopra, disegna pieni e vuoti soltanto per farle sembrare bugiarde e dolciastre.
Al centro del mare le nuvole sono verticali e scure, color del sangue, color del rame, e dentro si vede il vento che sbuffa e cambia posizione, allunga la luce, la spegne e la riaccende. Punte di rosso acceso, morbide e gonfie, vengono sfregiate dal breve passaggio di velature nere e verdi, per poi subito ricomporsi, come lava che dopo aver sbuffato si risistema quieta.
Ninna carezza il volto dell’uomo che muore spesso, dell’uomo così abituato a morire, poi si alza in piedi e si allontana. Ha il passo veloce e deciso. I suoi capelli scuri sono alti il doppio delle persone che sbucano dal mare facendosi largo tra le onde. Più l’Apocalisse cresce, più il Mondo finisce, e più Ninna diventa enorme, smisurata.
Il suo viso, che per via di una bellezza particolare, di uno splendore distante, già in passato, nei tempi andati e apparentemente pacifici generava eguale ammirazione e soggezione, adesso, nel pieno della quiete dell’Apocalisse, agli stanchi occhi della gente che vive sulla spiaggia, appare simile a un monolite di roccia scolpito dal ghiaccio: sovente, gli uomini e le donne della spiaggia guardandola vengono abbagliati. Allora istintivamente si nascondono dietro le palpebre, nonostante siano incorniciate dal sale marino, tagliente e urticante. La loro non è paura, bensì una forma ingigantita di quella stessa soggezione, o ammirazione, che in passato li avrebbe convinti a voltarsi verso di lei pur di osservarla camminare in strada, avvolta nei suoi lunghi cappotti neri, nel tentativo di decifrare se la qualità misteriosa del suo sorriso fosse un invito oppure un’ammonizione. E nel tentativo, quasi sempre vano, di attrarla, di farle posare su di loro i suoi occhi profondi e ampi, e blu.
Ma se allora, durante l’epoca delle passeggiate, dello studio e dei lavori, nelle giornate dei bar e delle mostre d’arte e degli amori, se allora molto, molto raramente Ninna ricambiava l’attenzione degli altri, adesso, mentre l’apocalisse dolce non fa che confermare le sue antiche supposizioni, adesso Ninna ricambia, anzi, anticipa gli sguardi; tutti gli sguardi. Ed è questa improvvisa disponibilità così a lungo taciuta che, miscelata alla sua bellezza, la rende abbagliante.
Ma non soltanto. Ci sono altre ragioni. Altre ragioni che se venissero pronunciate in questo istante sarebbero un insulto per questi uomini e queste donne che si aggrappano agli scogli, tagliandosi, pur di sfuggire alle acque mosse e gonfie di alghe. Perché questi uomini e queste donne, pur avendo già molte altre volte scoperto il motivo per cui Ninna li abbaglia, non lo ricordano. Ed è giusto così. È loro compito dimenticare e ricordare, dimenticare e ricordare senza sosta. Per questo Ninna li avvicina e porge loro un’anfora piena d’acqua. Perché lei sa tutto, ma loro hanno sete e hanno paura, quindi ciò che lei conosce fin troppo bene non ha valore. Non ora.
Theo indossa un pigiama di lana marrone, fradicio d’acqua e troppo largo, porta un paio di bretelle legate in vita senza motivo. Il viso è caratterizzato dalle guance scavate che lasciano sostanza al doppio mento, voluminoso come quello di un pellicano. Theo sorride, pulendosi dal sangue che sgorga da un brutto taglio a forma di mezza luna che ha sulla tempia. È sempre il primo a parlare. È sempre il primo a rivolgersi a Ninna con voce timida e soffice. Sarà per sempre il primo a dire: è bello, è bello essere a casa.
Il modo sguaiato con cui tutti gli altri sopravvissuti alle onde scoppiano a ridere, è il segnale. Tutto può continuare, ricominciando, ancora una volta. Ninna sa perfettamente ciò che sta per succedere, e conosce il modo in cui succederà. Per questo si allontana, incurante delle domande che le vengono poste dai naufraghi. Nonostante Karima, la vecchia minuta, allunghi le sue mani da bambina e provi a afferrarle la gonna per farla restare, nonostante Karima la implori di aiutarla a sconfiggere la paura, quella paura che improvvisamente fa smettere di ridere lei e gli altri, in questo istante che è al tempo stesso una nota cupa, quasi sorda, e un sorso d’acqua che fa tossire senza dissetare.
Ninna, durante le precedenti ripetizioni di queste stesse dinamiche, ha tentato ogni tipo di reazione. Ha informato i naufraghi, li ha ammoniti, li ha invitati alla fuga e alla resistenza, si è opposta fisicamente al processo in atto, ha brandito armi e fuochi, ha creato e formulato incantesimi, è persino arrivata a tentare d’immolarsi per loro: nessuna di queste strategie è mai servita a nulla. Se il Mondo precedente all’apocalisse prevedeva un canovaccio all’apparenza difficile da modificare, ma comunque corruttibile e influenzabile, il Mondo dell’Apocalisse impone il proprio copione con un’inflessibilità disumana.
Ciò che deve accadere, è ciò che accade.
Dopo dodici passi in direzione opposta al mare, Ninna sa che alcuni dei naufraghi sono sul punto di notare qualcosa di strano. Eccoli, eccoli intenti a sbracciarsi, increduli e spaventati. Ninna non ha bisogno di voltarsi, sa benissimo che stanno provando in tutti i modi a attirare l’attenzione degli altri. Degli altri e delle altre che, però, non riescono a capire. Infatti gli altri non possono, non ancora, vedere. Capiranno, capiranno anche loro, ma non prima di essere stati aggrediti. L’aggressione è l’unico varco che permetta di accedere a una visione piena e senza reticenze. Nelle ore o nei giorni, o nelle settimane, alle volta sono mesi, che precederanno la loro aggressione, i naufraghi avranno soltanto modo di osservare, allarmati e increduli, le improvvise, assurde e angosciose posture adottate da alcuni dei compagni di sventura. Chi ancora non sarà stato aggredito, potrà soltanto domandarsi: perché i miei compagnie e le mie compagne, all’improvviso e senza ragioni apparenti, si stringono la gola con le mani? Perché sputano fuori la lingua dalle bocche deformate? Cosa li spinge a gettarsi in terra e a rotolare come scatole calciate? E quale forza invisibile li convince a rituffarsi tra quelle stesse onde da cui, così a fatica, siamo sfuggiti? E gli occhi, si domanderanno, cosa significano quegli occhi improvvisamente dilatati, quegli occhi senza iride che ancora più improvvisamente appaiono come svuotati, scavati? Gli unici in grado di rispondere a queste domande sono quei naufraghi che hanno già subito l’aggressione, che l’hanno osservata subendola. Ma loro non possono raccontarla, essendo scomparsi immediatamente dopo l’aggressione stessa, risucchiati dalle onde, oppure sollevati per aria da correnti invisibili e gettati oltre la linea dell’orizzonte. O ancora inghiottiti dalla roccia, grazie a improvvise voragini, rapide, profonde, che dopo il pasto prontamente scompaiono.
La sola persona che potrebbe spiegare ciò che succede è Ninna. Ma Ninna ci ha già provato, ha già spiegato, ha già sperimentato l’inutilità della rivelazione. Per questo cammina altrove. Quel che poteva fare, dissetare gli assetati, è stato fatto.
Il luogo in cui l’uomo che muore spesso muore, è lo stesso luogo in cui altrettanto spesso smette di morire. Ed è un luogo che muta d’aspetto, di vita in vita, di morte in morte. Può essere composto da un semplice telo da spiaggia, sbiadito, umido, secco e spelacchiato verso i bordi. O da una siepe crollata, da una siepe crollata ma, al tempo stesso, diligentemente potata affinché contenga il corpo dell’uomo che continuamente muore e continuamente smette di morire. Altre volte, il luogo in cui l’uomo aspetta che Ninna ritorni, somiglia a un elicottero abbattuto dalla contraerea, o a un palcoscenico, alla sala di un museo durante i saccheggi che seguono una rivoluzione, oppure all’inizio di un progetto idraulico interrotto per mancanza di fondi. Altre volte a uno scavo archeologico senza reperti. Spesso, come in questo istante, la roccia si tinge di nero. Ninna osserva il nero scuro e calmo sgorgare dalla roccia, come sudore, come un pianto composto, quasi sereno. Poi, dal nero della roccia, fuoriescono piccoli brandelli di carta dai contorni irregolari, simili a quelli usati da Ninna nei tempi passati per le sue opere d’arte. Somigliano a brandelli di neve ritagliati, sempre che la neve decidesse di lasciarsi ritagliare. Sempre che la neve esistesse ancora.
Ninna sa che l’uomo ha smesso di morire, è ritornato, e sa che è curioso.
«Sono di nuovo i pesci?» Domanda l’uomo con la voce ancora gracchiante per via della morte.
«No.» Risponde Ninna, mentre alcuni naufraghi urlano e si dibattono come ossessi.
«Allora gli uccelli, i gabbiani, sono loro che li attaccano?»
«No, nemmeno loro. Sono le piante, questa volta.»
Ninna allora siede accanto all’uomo che ha smesso di morire e che non può vedere. E gli spiega il modo in cui i naufraghi iniziano a subire l’attacco, glielo descrive passandogli le dita lunghe e belle lungo i punti in cui le piante colpiscono.
«Qui», dice Ninna premendo sul collo dell’uomo sdraiato, «qui si è attorcigliata le buganvillea, con spine lunghe il doppio dei canini di un giaguaro. Qui invece», dice Ninna posando la mano sul cuore dell’uomo sdraiato che ascolta e immagina, «qui stanno portando il loro attacco i fiori della digitale gialla, e quelli viola del solano, i fusti pelosi della menta d’acqua. Ma non prima di aver sviluppato una dentatura adeguata. Migliaia di denti affilati sono apparsi lungo i bordi dei petali e dei fusti, persino sui pistilli. E adesso lacerano e scavano, qui», dice Ninna continuando a premere sul cuore dell’uomo che ascolta e prova a immaginare « e qui», dice Ninna premendo al centro dello stomaco.
«E gli altri, gli altri che non subiscono l’attacco, non vedono nulla?»
«Soltanto gli effetti dell’attacco. Soltanto quelli.»
«Eppure, anche loro, anche loro sono stati attaccati mille e più volte. Sono morti mille e più volte. Dovrebbero sapere, dovrebbero ricordare.»
«Anche tu sei morto infinite volte, ma nemmeno tu ricordi.»
«Ricordo che ti ho amata, e ricordo che ti ho delusa.»
«Non ricordi come.»
«Tu si?»
«Io purtroppo ricordo soltanto quello. Il modo. Nient’altro.»
«Raccontamelo.»
Il corpo dell’uomo che vuole conoscere il modo in cui è stato capace d’amare e di deludere, è segnato da un’infinità di piccole linee, simili alle crepe che straziano il terreno quando la siccità è libera d’esprimersi. Da queste crepe, che spesso sono scure e altre volte bianche o giallastre, esce del fumo. Il fumo, invece di librarsi in aria, resta incollato alla pelle dell’uomo e la scurisce. Fatta eccezione per la fronte ampia e graffiata che invece resta pallida, e le labbra, carnose e asciutte, le labbra su cui di tanto in tanto volano frammenti di alga o code di geco.
«Ti sei sempre ritenuto colpevole di tutto », racconta Ninna, «tutte le colpe erano la tua colpa, tutti gli sbagli, tutto il dolore, persino il mio, era il tuo dolore, lo facevi tuo. Ma non per generosità, no, soltanto perché accettare che anche gli altri sbaglino, accettare che anche gli altri soffrano, ti avrebbe costretto a misurare il tuo amore, a soppesarlo, a metterlo a confronto con la difficoltà e la fatica che i tentativi per gestire gli sbagli e le colpe altrui comportano. E invece no. Tutte tue le colpe, tutto tuo l’amore e tutta tua la paura. Ti sei costruito una baracca isolata, impastando i muri con i tuoi morti e le tue responsabilità, i tuoi fantasmi e il tuo bere, le tue storie, i progetti sempre sul punto d’iniziare e per sempre immobili, e poi hai decorato la tua baracca come fosse l’inferno, un piccolo inferno di provincia in cui tu ricoprivi il ruolo di amministratore di condominio, e l’hai fatto per potervi soffrire comodamente, orribilmente e comodamente. Poi ci hai fatti entrare, una alla volta o in gruppo, e ci hai mostrato il colore del glicine, le costole, i cani addormentati, la lingua, il cuscino su cui i tuoi morti poggiano la testa per sorseggiare la luce, e poi, con gentilezza e amore, pieno di paura e di rassegnata stanchezza, hai fatto crollare tutto. Per proteggerti, nella rovina, come una seppia nel proprio liquido scuro.
E ti sei scusato, a lungo, con sincerità e disprezzo verso te stesso, ma mai abbastanza a fondo. Hai sempre scelto la comodità di un dolore sicuro e rassicurante all’imprevedibilità della gioia. Per paura di essere deluso hai sacrificato non soltanto le tue illusioni, ma anche le mie, le nostre. Qualsiasi illusione, all’interno del tuo piccolo inferno, è stata sacrificata affinché le tue scelte apparissero come le uniche scelte possibili: la semplicità, l’autarchia del dolore ha soffocato il complesso ardito della felicità possibile. Ti ho molto amato, e tu mi hai molto amata, e non è bastato. È così che è successo quel che è successo. Ma anche in mille altri modi.»
«Raccontameli, raccontameli tutti. È tutto quello che ho.»
«Non posso. Non capiresti. Dovrei trovare le parole giuste, soltanto quelle giuste. E non perché le parole siano importanti, come hai spesso sentito dire; le parole non sono importanti. Nemmeno il loro significato è importante, nemmeno il loro suono. La forma delle parole, quella, quella è importante. La forma che le parole evocano nelle nostre teste e sulle nostre lingue, dietro le nostre teste e dietro le nostre lingue. Perché è con quella forma, è grazie a quella forma che noi riusciamo, quando ci riusciamo, a raggiungere il silenzio. E subito dopo a perderlo. Per poi cercarlo ancora e ancora. E allora capisci, dovrei trovare infinite parole racchiuse, protette o prigioniere di altrettanti infiniti silenzi, per poterti spiegare tutti i modi. E forse, forse non basterebbero comunque. »
«Ma abbiamo tempo, adesso che il Mondo continua a finire, adesso abbiamo il tempo.»
«L’abbiamo sempre avuto,» dice Ninna carezzando la fronte ampia e graffiata dell’uomo sdraiato «l’abbiamo sempre avuto. Non è mai esistito, non è mai stato niente, il tempo.»
Come sempre, il tramonto finge l’oscurità, abbozza persino le stelle, per poi virare, con un rumore di laccio di cuoio che scoppia, e terminare in un’alba nervosa, in una serie concitata di abbagli, di rapidi ripensamenti della luce. Dunque l’alba si placa, all’interno di un giorno già maturo, fluorescente come un caco osservato controluce.
Come sempre l’uomo che spesso smette di morire, ha ripreso a morire. Ninna lo osserva per qualche istante e prova una tenerezza improvvisa, improvvisa e straziante, al pensiero di loro due, su quella spiaggia, nel cuore del Mondo che continua a finire, nel centro dell’Apocalisse, intenti a parlare d’amore e rimpianti: minuscola, stupida, preziosa punteggiatura.
Sulla spiaggia, i naufraghi che ancora non sono stati attaccati, iniziano a costruirsi delle baracche di legno, come sempre. Hanno immediatamente dimenticato i naufraghi e le naufraghe sbranate dalle piante e quelli annegati tra le onde. Già iniziano a stabilire tra loro legami e rapporti di forza, alcuni si preoccupano di raccontare il mondo con bugie più o meno elaborate, altri fingono di ricordare, altri ancora meditano la fuga, inventano malinconie, stabiliscono la composizione dell’odio e del desiderio.
Ninna li osserva, illuminata dalla luce di un sole a cui non crede. I naufraghi si voltano verso di lei e restano immobili, a osservarla. Ninna adesso è in piedi, immensa e fragile. Rappresenta la rara, irrimediabile bellezza dei condannati a morte che vorrebbero morire e che invece, senza spiegazioni, vengono graziati. È una bellezza imperiosa e risolta, offerta a qualsiasi spreco, una bellezza aperta ai venti e buia, e pulsante. Grappolo d’uva in parte vittima della decadenza imposta dal tempo e in parte luminoso. Grumo di minerali illuminato dal bagliore passeggero di un faro o di una candela.
I naufraghi sono costretti a chiudere gli occhi, abbagliati.
Anche l’Apocalisse li chiude. Anche lei. E poi li riapre.
Il confine tra l’inizio e la fine del Mondo è un buio sorridente che dura troppo a lungo e mai abbastanza.

di Mirfet Piccolo
Era in un paese di settecento quarantatré abitanti e un circolo anziani aperto solo d’estate. Il sole non c’era ancora ma stava facendo giorno.
– Sei ancora qui – disse Carla.
In cucina, la TV accesa senza audio frastagliava il buio. Carla guardò lo schermo, osservò la bocca della giornalista comporre parole, il suo viso magro e teso; accanto, un riquadro mostrava la foto tessera di una donna.
– Ha ucciso sua figlia e l’ha sotterrata in giardino, le disse lui.
Carla continuò a fissare lo schermo, e quando lui le disse A stasera fai una buona giornata, Carla non rispose. Poi i passi di lui furono oltre la porta e sul giardino, arrivarono al cancelletto e poi furono oltre, dissolti uno dopo l’altro nella brina lucida e sottile.
Carla si sedette sul divano della sua bella casa di provincia. Una casa con un giardino curato, una taverna di vini e una mansarda ammobiliata dove, aveva creduto insieme a lui, gli amici non sarebbero mai mancati. Nella sua bella casa di provincia, Carla spense la TV e non accese la luce: il buio, quando era sola, non le faceva paura.
Poi Carla sentì il richiamo della figlia e così, come ogni mattina, ancor prima che Carla raggiungesse l’interruttore, le luci della casa si accesero come fari e le spesse mura divennero limpide, permeabili a chiunque, e da qualunque angolazione, volesse guardare. Carla aveva capito come fare.
Mentre percorreva il corridoio che l’avrebbe portata nella camera della figlia, mentre la prendeva in braccio e poi tornava in cucina, Carla sentì di avere qualcosa che quella donna del riquadro in TV non aveva: Carla, un giorno, alle prime luci dell’alba aveva capito che il modo migliore per non commettere errori era accertarsi di non essere mai sola. Perché erano passati sei mesi (quella notte era successo qualcosa di confuso, qualcosa che fu la piccola testa contro la sponda del lettino per due o forse tre volte) e lei non lo aveva detto a nessuno.
Carla alzò lo sguardo agli angoli del soffitto per accertarsi che la speciale architettura che lei stessa aveva creato, quella non-solitudine che era la salvezza sua e di sua figlia, fosse sempre al suo posto: una telecamera là e là, un’altra sotto il lampadario e una sotto la cappa della cucina; e poi tutte le persone che sostavano attorno alle mura trasparenti della sua casa, i loro occhi bianchi in corpi sfuggenti. È così che Carla sarebbe riuscita, anche questa mattina, a fare ogni cosa con la giusta serenità. Preparò la colazione per lei e per la figlia e interagì con le sue parole imperfette, guardò i suoi grandi occhi attenti che la seguivano e le chiedevano rendiconti e spiegazioni su ogni cosa. Dopo colazione, Carla mise la figlia seduta sul divano con una borsa colma di cubi da costruzione e tornò al tavolo a sparecchiare. La bambina rovistò famelica nella borsa, prese due cubi e iniziò a batterli ripetutamente uno contro l’altro; Carla la guardò ancora e sorrise: era da tempo ormai che aveva smesso di chiedersi quando sarebbe arrivato il giorno in cui la figlia avrebbe costruito qualcosa.
– Ti piacciono i cubi, vero? Brava. Suona, fai la musica.
Dalle mura trasparenti della casa, tutti potevano vedere la scena di una bambina felice con i suoi giochi e di sua una madre, una giovane donna, che riponeva in dispensa una comune scatola di biscotti. Era una scena che aveva tutto per concludersi con la vestizione paziente della piccola in previsione della passeggiata quotidiana. E infatti così fu, una scena mite e senza perdite.
– Vero che vuoi bene alla tua mamma? Vero?
Il parco giochi era spoglio di bambini, era un campo di foglie bagnate dall’inverno e di rami secchi spezzati dal vento. Due palazzine basse lo cingevano; case silenziose abitate da un proletariato chiamato a giornata. Una volta Carla aveva visto un bambino su uno di quei balconi: Carla gli aveva fatto ciao con la mano e il bambino si era spaventato e aveva chiamato sua madre perché lo riportasse in casa.
– Magari oggi arriva qualcuno – disse Carla.
Dal passeggino la bambina si allungò per toccare l’altalena.
– Vuoi che ti dondoli?
La bambina fissava l’altalena con ostinazione, con il busto teso verso l’oggetto dei suoi desideri. Non voleva altro.
– Aspetta, è bagnata.
Carla cercò dei fazzoletti di carta nella borsa. Era un borsa grande, comprata apposta nelle settimane precedenti al parto, quando lei e lui ridevano ubriachi di attesa. Il pannolino di cambio, un pantalone in più, la crema, le salviettine, la merenda, una bottiglietta d’acqua. E niente fazzoletti.
La bambina si stava agitando: voleva ciò che aveva chiesto e lo voleva subito. Altrimenti perché portarla lì?
– Ti ho detto aspetta.
Tra i rami secchi Carla avvertì le telecamere che erano la sua certezza, la sua salvezza dal fallimento.
– Devo asciugare l’altalena altrimenti ti bagni – spiegò – e se ti bagni poi non posso cambiarti al freddo.
La bambina storse la bocca in una smorfia che Carla conosceva bene, era il preludio al pianto isterico. Carla si sfilò in fretta la sciarpa e ne fece un fagotto: asciugò l’altalena con la consapevolezza di avercela fatta anche questa volta: stava facendo del suo meglio, alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, e il suo meglio sarebbe stato sufficiente. Infatti fu solo una questione di pochi attimi ed ecco che la bambina, in braccio alla madre, aveva capito che stava per ottenere ciò che aveva chiesto. Carla infilò le piccole gambe nel seggiolino, le coprì bene le orecchie con il cappello, le strinse la sciarpa.
– Così non prendi freddo, giusto?
Avanti e indietro, Carla era una madre capace di presagire i passi da fare e le conseguenze da gestire; avanti e indietro, e la bambina era felice.
– Ti piace così, vero?
La bambina sorrise al dondolio e al volto di sua madre, al sole alto anche se l’aria fredda la faceva lacrimare.
– Ti piace, eh?
Carla sentì il rumore di una tapparella: forse la stavano alzando, un altro poco; o forse la stavano abbassando, ma non del tutto.
Dalla borsa Carla prese il pacco di biscotti e ne diede uno alla bambina che se lo portò subito alla bocca. Nel pacco ne erano rimasti solo due, ma sarebbero bastati. Cresciuta in un piccolo appartamento di periferia colmo di parenti e amici dei parenti, con pane bagnato di pomodoro fresco e un costante odore di caffè appena fatto, Carla era stata una bambina senza bisogno di cibo. La canzonavano che era magra come un’acciuga e che doveva mangiare un po’ se voleva trovare un fidanzato ma a Carla la parola fidanzato non interessava, lei voleva solo saltare alla corda e diventare grande per fare l’astronauta.
Carla guardò la figlia ingoiare l’ultimo pezzo di biscotto, osservò la piccola bocca piena che già ne chiedeva un altro e provò una punta di disgusto. Eppure Carla prese un secondo biscotto dal pacco e lo diede alla figlia.
– Tieni. Guarda che dopo questo ne è rimasto solo uno, hai capito? Solo uno.
La bambina afferrò il suo trofeo.
Avanti e indietro, la madre che spinge via e la figlia che torna sempre; avanti e indietro, il cigolio dell’altalena era un canto liso in uno spazio vuoto.
Il ciottolato della piazza era sconnesso e la spinta del passeggino una fatica. Però qualcuno era passato di lì e aveva allestito un presepe: le sagome erano di cartone, dipinte con colori che forse un tempo erano stati vivaci. C’era del fieno dentro un recinto storto, c’era un albero di Natale fatto di tappi di plastica. Un cartello diceva: creato dai bambini della scuola elementare. Lui, un giorno, le aveva raccontato che quel cartello era stato scritto dieci, forse quindi anni prima. Anche l’albero di Natale non era nuovo; lui lo sapeva perché una volta ne aveva marchiato uno con un pennarello indelebile e lo aveva ritrovato l’anno successivo.
– Ti piace, vero?
La bambina fissò, puntò con il dito.
– Quello è un presepe. Il bambino lo chiamano Gesù ma è solo una storia, una cosa che si racconta. E questo è l’albero di Natale. Un giorno che papà torna presto lo facciamo anche noi a casa, che ne dici?
Attraverso le crepe del ciottolato deserto e tra il fieno nel recinto storto, attraverso gli occhi di cartone e da ogni tappo di plastica, oltre le tende chiuse di un paese senza voci, Carla sentiva che la sua architettura era sempre presente, che la sua non-solitudine era una solida certezza. Carla trovò il tappo marchiato, erano tre punti di domanda sbiaditi.
Carla aveva freddo ma andò a sedersi sulla panchina; con il piede spinse avanti e indietro il passeggino per simulare un movimento verso qualcosa o qualcuno. Era la cosa giusta da fare, almeno per un po’.
Poi la bambina iniziò ad agitarsi, ad emettere lamenti e a tirare il suo stesso corpo in maniera spastica.
– Hai freddo, vero? Adesso andiamo. Noi andiamo altrimenti ti ammali. Va bene?
Il campanile batté il primo di dodici tocchi. La bambina iniziò a piangere e loro erano solo a metà strada.
– Calmati, siamo quasi arrivate.
La bambina pianse più forte.
– Smettila.
Una vecchia con un cappello in feltro e scarpe a punta passò loro vicino, guardò la bambina e poi guardò Carla e disse, Povera piccola si sente che ha fame.
Con la bambina in braccio, Carla accese la luce della dispensa.
Con la mano libera spostò scatole di tonno e pacchi di pasta, pannolini e barattoli e detersivi.
– Vedi, lo vedi che siamo dove c’è la pappa che la mamma ti deve cucinare? Non piangere. Lo vedi?
La bambina non vedeva né sentiva, le sue urla coprivano ogni forma e colore, annullavano ogni altro suono al di fuori di quello che nasceva dai suoi polmoni e dalla sua gola tesa, dalla sua bocca spalancata.
– Adesso cerchiamo la pastina. Tu riesci a vederla? Aiuti la mamma a trovare la pastina, eh? Vero che adesso aiuti la tua mamma?
Le luci si spensero troppo presto e Carla tornò all’interruttore a riaccendere il mondo. La bambina era rossa in viso, le sue mani stringevano i capelli di Carla, la tiravano.
– È colpa di papà, dice che aggiusta le luci e poi non lo fa. Lo dici tu a papà, eh? Vedrai che adesso la troviamo la tua pastina, quella con le stelline. Ha dentro pure le vitamine, vero? Vero che ti piace, eh?
Le luci si spensero di nuovo e la bambina pianse più forte.
Carla riaccese le luci per scacciare quel buio.
– Facciamo così, ti metto un attimo a terra così la mamma cerca meglio, va bene? Solo un attimo, così faccio in fretta.
Gli occhi di Carla cercarono il pacco di pasta con le stelline che le dicesse che stava facendo la cosa giusta, che la rassicurasse che quel momento stava per finire. Non lo trovò. E quando le luci si spensero nuovamente Carla sentì un sudore acido mangiarle il viso e corroderle gli occhi, entrare nella sua testa e farle male. Fu allora che le telecamere cessarono di esistere e gli occhi bianchi scomparvero, che le mura della sua casa tornarono ad essere spesse e impermeabili. E la bambina piangeva e i colpi in testa facevano male. In quel buio, Carla sollevò a sé la bambina e la strinse forte, quella figlia ingorda e strillante che non parlava e che non ne voleva sapere di aspettare, di portare pazienza. La strinse, petto contro petto, le braccia chiuse in una morsa; erano loro due, nella dispensa di quella casa perfetta in un paese di provincia, loro due e nessun altro, e Carla avrebbe voluto che quel corpicino tra le sue braccia si annullasse nel suo, e che la smettesse, una volta per tutte, una volta per sempre, di generare tutto quell’indicibile dolore. La strinse forte, sempre più forte. Bambina ingorda, figlia mia.
– Che ne sai tu – urlò Carla –, che ne sai tu di come sto io?
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di Ornella Tajani
I pagani pregavano i morti, mentre i cristiani pregano per i morti.
S. Reinach
È il 23 dicembre del 1951. A Dijon si assiste a un’esecuzione sensazionale: Babbo Natale viene impiccato alle grate della cattedrale e poi bruciato sulla pubblica piazza. Nel comunicato dei giustizieri, ripreso anche dall’edizione di France-Soir dell’indomani, si legge: «In rappresentanza di tutti i cristiani della parrocchia desiderosi di combattere la menzogna, 250 bambini, raccolti davanti alla porta principale della cattedrale di Dijon, hanno bruciato Babbo Natale».
La notizia cattura l’attenzione nazionale e Claude Lévi-Strauss trae spunto dal fatto di cronaca per scrivere il suo Père Noël supplicié, oggi riproposto in Francia da Seuil in una nuova edizione (in italiano: Babbo Natale giustiziato, ed. Sellerio, 1995, trad. Clara Caruso).
La chiesa di Dijon organizza la spettacolare esecuzione per denunciare una preoccupante «paganizzazione» del Natale, che dal suo punto di vista dovrebbe restare la festa della natività. Ma è già un paradosso, commenta subito Lévi-Strauss, fare di Babbo Natale un simbolo dell’irreligione, lasciando alla chiesa il ruolo di paladina della verità, e ai razionalisti quello di guardiani della superstizione. È questo rovesciamento, necessariamente sintomo di fenomeni più complessi, che accende l’interesse dell’etnologo, spingendolo a compiere un’analisi sincronica e diacronica, tessendo una tela di rimandi storici che rimonta fino ai Saturnali dell’antica Roma.
Babbo Natale, scrive L.-S., non è un essere mitico, perché non esiste alcun mito che renda conto della sua origine, né è un personaggio leggendario, perché non c’è nessun racconto semi-storico collegato alla sua figura. Di fatto si tratta di una sorta di divinità: un’entità sovrannaturale, immutabile, caratterizzata da apparizioni periodiche e fisse, e oggetto di venerazione da parte di una specifica categoria di persone: i bambini. Ciò che in primis va rivelato è che dunque, sebbene gli adulti non credano alla sua esistenza, si occupano nondimeno di incoraggiare i bambini nel loro culto.
Si delinea così una separazione fra due gruppi di persone: gli iniziati – cioè gli adulti, che sanno che Babbo Natale non esiste – e i bambini. Ciò inscrive la narrazione di Babbo Natale nello schema dei riti di passaggio e di iniziazione, che prevedono, fra i vari obiettivi, quello di permettere agli iniziati l’esercizio di un potere di controllo sui non iniziati, imponendo loro ordine e obbedienza:
«Durante tutto l’anno invochiamo la visita di Babbo Natale per ricordare ai bambini che la sua generosità sarà commisurata alla loro bontà; e il carattere periodico della distribuzione dei regali serve a disciplinare in maniera appropriata le richieste dei bambini, a circoscrivere il periodo in cui hanno davvero diritto di pretendere dei regali. Ma questa semplice affermazione basta a far saltare lo schema della spiegazione utilitaria» (trad. mie).
Cosa significa, si chiede infatti Lévi-Strauss, che i bambini hanno dei diritti, e perché gli adulti si sentono in obbligo di industriarsi nel creare una mitologia, fra l’altro dispendiosa, per contenerli e limitarli? L’autore lo spiega paragonando l’opposizione fra adulti e bambini – iniziati e non iniziati – a quella fra i vivi e i morti, caratteristica di molti riti di passaggio: i non iniziati, come i morti, hanno anche dei poteri speciali, ed è per questo motivo che gli iniziati si preoccupano di compiacerli. I bambini, che non sono ancora parte attiva e ufficiale della società ma lo diventeranno, sintetizzano in un’unica figura il ruolo di vivo e quello di morto: la loro richiesta di regali natalizi può essere vista in effetti come l’ultimo attimo della lunga questua che inizia con l’autunno, nel periodo critico in cui «la notte minaccia il giorno allo stesso modo in cui i morti assillano i vivi». Ne è paradigma la festa di Halloween, durante la quale i bambini, vestiti da scheletri, fantasmi o zombie, tormentano i vivi, che offrono loro dei dolci in cambio di una pace che duri fino all’autunno seguente. Per l’autore, Babbo Natale sarebbe il discendente di una schiatta che annovera fra i suoi appartenenti l’Abbé de Liesse, vescovo-bambino «abate della gioia», il Saturno romano divoratore di fanciulli, lo Julebok scandinavo e San Nicola che resuscita i fanciulli e offre loro dei doni, senza contare le sue affinità con le divinità Kachina delle popolazioni indiane d’America, sulle cui ritualità Lévi-Strauss entra nel dettaglio, comparandole alle usanze natalizie.
«Si chiariscono allora le caratteristiche apparentemente contraddittorie dei riti di Natale: per tre mesi i morti hanno visitato i vivi in modo sempre più insistente e oppressivo. Il giorno della loro partenza vengono festeggiati e si concede loro un’ultima occasione per manifestarsi liberamente o, secondo l’appropriata espressione inglese, to raise hell. Ma chi altri, nel mondo dei vivi, può rappresentare i morti, se non coloro che, in un modo o nell’altro, non sono ancora pienamente integrati nel gruppo e partecipano dell’alterità propria del dualismo supremo: essere, insieme, vivo e morto? Non sorprende che siano gli stranieri, gli schiavi e i bambini i principali beneficiari della festa».
Per quanto concerne gli stranieri e gli schiavi, il riferimento è alle usanze natalizie medioevali, per le quali la festa era concepita come momento di abolizione d’ogni distinzione di classe, come occasione per servi e padroni di sedere insieme alla stessa mensa. Protagonisti del Natale contemporaneo restano invece i bambini, ed ecco che le strenne appaiono come un sacrificio offerto alla vita, una richiesta di rinviare la morte. Gli adulti regalano ai bambini ciò che desiderano perché questi, in cambio, li aiutino a tenere chiuse le porte dell’aldilà: i non ancora adulti, i non iniziati, si collocano fuori della vita, vicinissimi alla morte – essendone sua “personificazione classica”, secondo l’autore – e al contempo lontanissimi da essa, mentalmente e oggettivamente; è esattamente questa condizione che regala loro il potere di esorcizzarla.
Così, con l’autodafé della comunità cattolica di Dijon, Babbo Natale riemerge in tutta la sua essenza pagana: una figura divina, strettamente legata ai riti di iniziazione, che per Lévi-Strauss riafferma con prepotenza, proprio nel momento della condanna religiosa al rogo, la sua invulnerabilità.
di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas
Anatole. Giusto il tempo di far emergere i dettagli circa l’identità dell’attentatore e saltano naturalmente fuori i famosi amici del jihadista, secondo il copione che avevamo tracciato nella puntata precedente. Subito si dimostra che il Califfone è ramificato dappertutto (mi perdonerai l’omaggio al coattissimo cinquantino da motocross della nostra giovinezza) e tutti gli amici degli attentatori sono il brodo di coltura nel quale il radicalismo sguazza, eccetera (ma poi non vale se la stessa cosa accade in North Carolina, chissà perché, chissà percome). E naturalmente come potrebbe mancare il complottismo dei passaporti, che mette in fila una serie di fatti relativi alla dinamica dell’attentato di Berlino, concludendo a proposito del rifugiato pakistano arrestato che: «qualcuno potrebbe avanzare il sospetto che magari si sia cercato un capro espiatorio per chiudere la vicenda e per evitare che dilagasse il panico. O altro e più oscuro. A pensar male, purtroppo, ci si azzecca». A fare scopa, troviamo parecchio rilanciata ll’imbecillata di Fusaro del 26 luglio (controllare la data di pubblicazione non va più di moda), che suggeriva al terrorista islamico di pigliarsela con la finanza internazionale, non con laggente, perché devi fare la lotta di classe contro la finanza internazionale, non il jihad, come ti suggeriscono le fonti di informazione egemonizzate dalla finanza internazionale. Se te la pigli con laggente vuol forse dire che sei disperatissimo o, peggio, pagato da Soros, che ti fa entrare in Italia con l’aiuto del nostro amico Andrea Costa, il quale viene intervistato dal New York Times, a dimostrazione del fatto che, appunto, egli è a tutti gli effetti élite liberal radicale al servizio della finanza internazionale. Anche perché con l’elezione di Trump abbiamo capito che quando si dice finanza internazionale si intende Soros.
Lorenzo. Sul fatto che la permeabilità europea al terrorismo radicale islamico del Califfone sia una cosa che ha l’Italia al centro, immediatamente comincia ad agitarsi la politica di casa nostra, col neo-insediato Governo che s’inventa lo Schema Minniti, una roba che a me ricorda molto la bizona 5-5-5 di Oronzo Canà. E proprio a questo proposito, siccome avevamo finito la puntata scorsa parlando di soluzioni sbajate a problemi mal inquadrati (circa il qual tema anche molto interessante è questa riflessione di Domenico Talia sui “Neosemplificatori”), vorrei suggerirti una riflessione che metta a confronto il profilo di questo , ventiquattrenne tunisino sospettato di aver sequestrato camion e camionista a Berlino al fine di procurare la strage del mercatino di Natale, con lo Schema Minniti.
Anatole. Nel senso di “buttiamola in tribuna” o “viva il parroco”?
Lorenzo. Certo, ovviamente.
Anatole. Ma anche nel senso di mettere in luce l’abissale distanza tra la dimensione reale del fenomeno e le opzioni che si mettono in campo per rispondere. Voglio dire, abbiamo un personaggio uscito da Mission Impossible Gone Astray: delinquente comune, galeotto, dotato di qualità elusive che Ethan Hunt je spiccia casa. Addirittura, dice il Guardian, «had researched bomb-making online and been in contact with Isis at least once». Se c’è una fine a questa spirale di infantilismo giornalistico, sapresti indicarmi dov’è? E quanto trova riscontro nelle misure grazie alle quali vorremmo catturare questi elusivi e subdoli jihadisti?
Lorenzo. Iniziamo dalla schema Minniti, premettendo però che come dicono all’AISI (intervistati da Gad Lerner, vedi alla fine di questa puntata), questi jihadisti in Italia sono molto, molto pochi e non hanno contatti con le organizzazioni di musulmani italiane, se non labilissimi, che l’Italia ha in ruolo un progetto di deradicalizzazione nelle carceri che pare stia funzionando, che ci abbiamo tutto un sistema di siti civetta per intercettari gli appassionati dell’ISIS, che forse qualcosa in Italia succederà, speriamo di no, ma che di certo da tutti i punti di vista attaccare l’Italia non è nelle priorità dell’ISIS (e non per merito della mafia che li tiene lontani, come una mia fb-friend ha sentito dire sull’autobus), a meno ché non continuiamo a seminare il panico ogni volta che un qualsiasi scalzacani con un fucile in mano viene a dirci che “conquisteremo Roma”. Non lo è stato nemmeno per al-Qaida, in tutti questi anni. L’unico a provare a fare un attacco fu un libico molto strano, Mohamed Game. Un lupo solitario ante-litteram se vogliamo. Come scrivevo nel lontano 2009:
Il nostro wannabe-kamikaze, che viveva ai margini della nostra società, andava in biblioteca, in particolare frequentava la biblioteca comunale vicino a casa sua. E questa è una notizia perché, secondo i dati Istat, Mohammed Game faceva parte di quell’esiguo 6,7% della popolazione italiana fra i 35 e i 44 che va in biblioteca almeno una volta l’anno.
Un vero disadattato.
L’articolo ci informa anche sulle letture di Game. Ma questa non mi sembra una notizia perché leggeva cose:
- su Gheddafi
- di politica mediorientale
- sul colonialismo italiano in Libia
Ovvero proprio esattamente quello che ci si aspetta da un immigrato libico.
L’articolo del Corriere, invece, alle letture terroriste di Game da un certo rilievo:
anche la lista dei libri che ha letto potrebbe essere interessante, per cercare di ricostruire quale sia stato il percorso psicologico che lo ha portato da un tiepido attaccamento all’islam, all’esaltazione di martire della jihad
Quando si dice “affabulazione”… Segue l’elenco dei libri posseduti dalla biblioteca Harar, cioè quella frequentata da Game, sui tre argomenti succitati:
- Gheddafi : una sfida dal deserto / Angelo Del Boca. – Roma (etc.) : Laterza, 1998. – XIX, 372 p. ; 21 cm.
- Gli italiani in Libia / Angelo Del Boca. – Roma (ecc.) : Laterza. – v. ; 21 cm.
- A Babilonia con Hammurabi / Fiona MacDonald, Gerald Wood. – Firenze : Giunti Marzocco, [1991]. – 35 p. : ill. ; 27 cm. ((Trad. di Elena Mendes.
- La costruzione del Medio Oriente / Bernard Lewis. – Roma (etc.) : GLF editori Laterza, 1998. – XI, 229 p. ; 21 cm. ((Trad. di Pier Giovanni Donini.
- Cronache mediorientali : il grande inviato di guerra inglese racconta cent’anni di invasioni, tragedie e tradimenti / Robert Fisk ; traduzionedi Enrico Basaglia … [et. al.]. – Milano : il Saggiatore, [2006]. – 1180 p. : c. geogr. ; 23 cm.
- Cucine mediorientali / a cura di Carla Coco. – Torino : Sonda, 2000. – 143 p. : ill. ; 17 cm.
- No : la seconda guerra irachena e i dubbi dell’Occidente / Lucia Annunziata ; in appendice: La strategia della sicurezza nazionale: i nuovi indirizzi di politica internazionale della Amministrazione Bush. – Roma : Donzelli, [2002]. – XI, 154 p. ; 19 cm.
- L’Africa nella coscienza degli italiani : miti, memorie, errori, sconfitte / Angelo Del Boca. – Roma (etc.) : Laterza, 1992. – XV, 486 p.; 21 cm.
- Conquistadores, pirati, mercatanti : la saga dell’argento spagnuolo / Carlo M. Cipolla. – Bologna : Il mulino, 1996]. – 83 p., 7] c. di tav., : ill. ; 22 cm.
Che insomma Minniti può fare pure questo schema per poi forse tra un po’ vantarsene, ma tanto lo sa anche lui che il lupo solitario è solitario e che l’Italia è un posto relativamente tranquillo dal punto di vista del jihadismo (tocchiamo sempre ferro eh).
Anatole. Minniti ha battezzato la nuova dottrina come “prevenzione collaborativa”, immaginando un coinvolgimento pieno degli amministratori locali, i sindaci in primis, e dei corpi di polizia municipale delle città, affiancati da questori e prefetti. I soli in grado di rendere efficaci e capillari quelle forme di vigilanza attiva e di difesa passiva delle aree urbane di fronte alla minaccia del lupo solitario.
Lorenzo. E subito mi viene in mente il racconto di uno di quegli eroi del Baobab che mi disse: “un giorno, dopo un attentato, arrivarono quelli della polizia e mi chiesero: come stiamo a jihadisti, qui?”.
Anatole. “Benino e voi? A Lupi Solitari forse boh…”, che roba…
Lorenzo. C’è gente in questo paese che vieta di indossare il burkini per le strade della città senza nemmeno immaginare che, al di là del fatto che “burkini” è un marchio, stiamo parlando di un costume da bagno. C’è una baracca di disinformazione secondo la quale chiunque sia contro Asad è dell’ISIS (compreso il sottoscritto). Abbiamo uno storico in cui una percentuale altissima di “presunti terroristi” catturati in retate propagandatissime (ricordo da giovane una giornata a Il Manifesto per scrivere un pezzo sulla cosiddetta “Operazione Sfinge”, risoltasi poi in nulla) sono stati poi riconosciuti come cittadini qualunque. Abbiamo talmente poco da dire, che la prima condanna per terrorismo di qualche giorno fa ha preso le prime pagine dei giornali.
Anatole. C’è un’opinione pubblica che preme perché si faccia qualcosa, dobbiamo fare qualcosa, qualunque cosa, purché dia la sensazione che la stiamo facendo, specialmente tra il momento in cui l’attentato si produce e quello in cui, ammazzato il terrorista, non gliene frega più un cazzo a nessuno perché c’è il derby Juve-Crotone. È evidente che, come abbiamo sottolineato spesso, la soluzione ce l’hai dentro di te, epperò è sbajata. A testimoniarlo è il fatto che il luposolitarismo bersaglia di anno in anno un Mercatino di Natale diverso, anzi ogni due anni, a cadenza biennale. Potremmo definirla la Biennale del Mercatino di Natale, tie’, tanto per fare pendant con la performance art del terrorista turco che ha ammazzato l’Ambasciatore russo ad Ankara. Due anni fa’ era Nantes, quest’anno Berlino. Cosa cazzo gli significhi, poi, questo mercatino di Natale al luposolitarismo radicale islamico potremmo forse anche chiedercelo. Un’assembramento casuale? Colpire il conzumismo occidentale? Il simbolo religgioso crociato? Niente di tutto questo? Secondo me il lupo solitario radicale islamico “non sa, non risponde”.
Lorenzo. Di sicuro dietro lo schema della schedatura di massa dei potenziali lupi solitari c’è un rischio, cioè l’esplosione incontrollata di “falsi positivi” all’analisi “lupo solitario”. Praticamente tu metti delle “sentinelle” su un fronte ma le sentinelle dicono “aiuto” praticamente ogni volta che si muove paglia. È un rischio grosso. C’è il rischio di fabbricare cose più che evitarle. Non sarebbe meglio mettere 1000 persone a studiare seriamente questa roba qua per poi metterle a lavorare a soluzioni più meditate? Magari fuori dallo schema dell’ordine pubblico, provando a staccare le etichette dalle persone, provando ad immaginare una società in cui puoi provare ad essere quello che ti pare, indipendentemente dalla tua origine o identità culturale, sociale, poiché, magari, ti percepisci come qualcosa di diverso dal modo in cui vieni etichettato, ma non hai spazio per proporti in quel modo. Più dispendioso, di certo, ma anche immensamente più sensato.
Anatole. Ma ci mancherebbe. Piuttosto che rinunciare alle nostre premesse culturaliste, siamo pronti a farci mettere sotto dal primo camion che passa. E comunque, se avevamo ragione la volta scorsa a parlare di Sindrome di Lee Oswald, va da sé che alla fine tra quelli che schedi non c’è mai quello che poi si schianta contro il buzzichetto del vin brulé al mercatino di natale.
Lorenzo. Oppure c’è, come nel caso di questo tunisino, ma sta in mezzo a mille, quindi che te ne fai, poi, di questa schedatura?
Anatole. Da capo, il problema non è riducibile alla povera testa di cazzo che alla fine commette il gesto, perché esso problema si prende, in realtà, tutto lo spazio che separa te da quelli che non lo commetteranno.
Lorenzo. Intendi il problema di tutti noi proprio, di noi come società democratica ecc. Sono d’accordo, c’è anche questo. Siamo in un anello più grande. Per dire: quando fai pauristica sugli immigrati o sui profughi, generi virtualmente l’immigrato o il profugo solitario, che può essere pure che fa una strage.
Anatole. Di sicuro faciliti il processo di deriva che lo condurrà ad essere quello che vuoi che sia, in assenza di altre opzioni. Poi ti possono dire che se circoscrivi il novero dei potenziali lupi solitari, allora gli altri campano tranquilli, cioè, tuteli, per dire, i rifugiati, ma, come dicevamo, questo Anis Amiri era schedatissimo. S’era fatto quattro anni di gabbio, per dire, era segnalato ovunque, non poteva volare negli USA. Allora una volta che l’hai schedato, segnalato, dipinto intorno con l’evidenziatore, ci hai attaccato sopra un cartello, quello che ti pare, ma cosa succede? Per citare il poeta “so boni tutti / a mettece un cartello”.
Lorenzo. Senonché, anche se poi riuscissi a limitare la cosa con questi criteri, cioè hai fatto questo anello sanitario attorno a stereotipi, ti scappa er Pizza Connection o simili.
Anatole. Perché quello ti cade fuori dai tag che mecciano “lupo solitario”, in quanto non sei capace di riconoscere il senso di esclusione che scatena gesti violenti individuali fuori dal quadro di referenza col quale li hai identificati. E invece, come abbiamo detto ormai centinaia di volte, il problema è che una volta acceso il riflettore, l’attore che se lo prende prima o poi arriva. La Sindrome di Lee Oswald, appunto. E non è detto che costui sia nelle tue liste di prescrizione, che guarda caso, si applicano agli ‘slamici a rischio di radicalizzazione, non, ad esempio, allo svalvolatone bianco della middle class nel North Carolina. Anche perché altrimenti dovresti schedare 1:1 mezzo pianeta terra.
Lorenzo. Sì, il riflettone paga pegno. Ti ricordi il matto di Monaco che urlava Allah akbar ma proprio non sapeva di che stesse parlando? Ma anche quel pilota che ha deciso di suicidarsi con l’aeroplano pieno di passeggeri, per non parlare di Brevik, il nazi di Utoya. È proprio roba di riflettori e non si accetta che sia così, che cioè tutte queste cose siano parte dello stesso problema, perché si preferisce, per ragioni credo ormai di idiozia conclamata più che di interesse, propagandare stupidagini identitarie basate su stereotipi culturalisti capiti male.
Anatole. Ti faccio un esempio che aiuta a capire al volo: pensa a fare la stessa cosa per il femminicida in Italia. Chi schedi? Dieci milioni di mariti frustrati? Ma non siamo alla bizona pura? Ma non sarebbe più semplice riconoscere che “Houston, abbiamo un problema”? Cioè che in Italia c’è un serissimo problema legato al fatto che abbiamo un’educazione patriarcale ai rapporti tra i sessi, tale che il maschio a una certa sbrocca e ammazza la compagna, perché non è banalmente all’altezza delle sue stesse aspettative circa la sua propria vita e/o il suo proprio rapporto sentimentale?
Lorenzo. Yes, ci siamo capiti.
Anatole. Allo stesso modo, non sarà che c’è anche un serissimo problema legato al modo in cui una vastissima maggioranza della cosiddetta opinione pubblica, che sia islamica, non islamica, laziale, feticista dell’addobbo natalizio, quello che ti pare, si confronta con i temi all’ordine del giorno, ad esempio quelli sollevati dalla situazione di Aleppo, in maniera rabbiosa e livorosa, poiché li sente straordinariamente vicini alla propria miseria anche se non lo sono manco un po’? Ne parlavamo già a proposito del Tronismo di Massa e della Sestessità Scatologica, come vedi i fili si intrecciano di nuovo.
Lorenzo. Esatto. Che poi è su questa cosa che ragioniamo quando ragioniamo di complottismo, postverità varie e – nei momenti in cui ancora non si sa niente su cosa è avvenuto a Berlino, ad esempio – anche delle transverità (il camionista fantasma pakistano ecc.) – mi si passi il termine – cioè delle “verità di transito” che presto dimenticheremo, che poggiano su un corredo discorsivo già pronto (dai fatti di Colonia in poi), che vanno bene almeno per qualche ora e su cui ci si può un po’ accapigliare rendendo la vita di un utente medio di telefonone meno angosciante anche se molto più livorosa.
Anatole. Mi piace molto la Verità di Transito. Quella cosa che succede da Mentana mentre aspettano il primo exit poll. Ero allucinato dalla diretta del TG2 la serata dopo l’attentato di Berlino: se andavi a cercare il riferimento ad un fatto, una notizia, qualcosa nel susseguirsi anche fluido del discorso, non trovavi niente che non significasse “vabbe’, c’è stato questo attentato e ancora non sappiamo un cazzo”. Ma, ribadiamolo ogni volta, l’opinione su qualunque fatto di cronaca si struttura nel corso delle prime 24 ore susseguenti, quando, appunto, non se ne sa veramente un cazzo.
Lorenzo. E infatti la Bizona Minniti salta fuori nell’intervallo che separa l’attentato dal momento in cui l’attentatore viene ammazzato per strada a Sesto San Giovanni.
Anatole. Esatto, in quell’intervallo mediatico in cui devi dire qualcosa per riempire il vuoto ansiogeno, rispondendo in maniera tecnocratica ai populismi che te se magnano vivo.
Lorenzo. Poi una volta che hai preso e ammazzato l’attentatore è tutto un trionfante strombazzare la grande efficacia dell’azione delle forze di polizia italiana, che i tedeschi e i francesi ce spicciano casa. Al netto del dramma del povero Alfano, costretto a dare la notizia della morte della ragazza italiana a Berlino da Ministro degli Esteri nel giorno in cui Minniti, nuovo Ministro dell’Interno, si prende tutti i meriti dell’azione che ha portato alla morte del terrorista, naturalmente.
Anatole. Ecco, sul copione, adesso che questo pericolosissimo terrorista è stato abbattuto, penso che potremmo riflettere un istante, prima di congedare anche quest’altra patetica puntata del Lupo Solitario. Ricostruendo la parabola di vita di questo Anis Amri, come fa ad esempio piuttosto bene questo articolo di Libération, salta agli occhi la questione che stiamo cercando di mettere a fuoco da un anno ormai, che cioè se sei musulmano e criminale, talmente prevale la prima caratteristica, che alla fine, inevitabilmente, le due cose devono coincidere, cioè devi diventare criminale poiché musulmano, in quanto musulmano. Cioè, se sei musulmano non puoi essere altro che musulmano. Non dico trovare lavoro, fare la vita che ti pare, magari anche piuttosto contraddittoria rispetto all’opinione che dovremmo farci di te in quanto musulmano, ma manco puoi vivere la tua disonesta vita di comune criminale in santa pace. Se ad esempio sei Rom, o etichettato in quanto tale anche se non lo sei, il criminale comune te lo facciamo fare. Perché? Perché ci sta che se sei zingaro fai il criminale comune, anzi, sei proprio antonomastico di criminale comune.
Lorenzo. Certo, zingaro e criminale sono la stessa cosa, mentre se sei musulmano non ce la conti giusta, non puoi essere soltanto un comune criminale. Devi essere un terrorista e insisteremo a trattarti da terrorista finché non ci diventi. Se volevi fare il criminale comune, dovevi nascere zingaro. Ce dispiace.
Anatole. Pefforza, sei tunisino e musulmano, quindi fai il terrorista e non rompere il cazzo.
Lorenzo. L’antonomasia si nutre dello stereotipo culturale e ricodifica tutti i segni a senso unico. Gli amici diventano la rete terroristica, i crimini che commettevo un sintomo di incompatibilità culturale, eccetera. Se vieni dal North Carolina e sei middle class bianca, come nel caso del Pistolero del Comet di cui parlavamo nella puntata precedente, le stesse cose valgono altro: sei una persona per bene esasperata dalla crisi e i tuoi amici non sono terminali dormienti di un reticolo terroristico, ma brava gente che ti ha lasciato andare a fare il matto perché, in fondo, che cosa ci potevano fare?
Anatole. Eppure, leggendo il profilo del pericoloso terrorista, i collegamenti con l’Imam senza Volto (altro personaggione da film di spionaggio, più da James Bond, forse, che da Mission Impossible), con i salafiti di Duisburg, coi “reclutatori jihadisti” di Dortmund, paiono più che altro labili indizi a corredo di un tentativo di narrazione, che altro. Cioè, non emerge con chiarezza che Amri fosse “uno di loro”, qualcosa che denoti una vera e propria appartenenza.
Lorenzo. Effettivamente. Sta con un piede di qua e uno di là, come se provasse a combattere la sua battaglia identitaria solitaria, finendo per soccombere. E quando in conclusione l’autore del profilo su Libération si interroga se «L’investigation a-t-elle été trop superficielle? Amri a-t-il trompé la vigilance des autorités? Trois mois plus tard, il est devenu l’homme le plus recherché d’Europe», la risposta è che l’errore non è investigativo, ma proprio concettuale, e finché non cambiamo modo di ragionare, non capiremo nulla di quello che sta succedendo.
Anatole. E la parabola di questo qua è paradigmatica del modo in cui stiamo sbagliando ad affrontare la questione, perché non vogliamo capirla. Non vogliamo vedere, in sostanza, che il senso di “esclusione percepita” dall’attualità, dalle dinamiche ansiogene del contemporaneo, è lo stesso se sei un tunisino musulmano approdato col barcone a Lampedusa o appartieni alla middle class bianca del North Carolina. Non vogliamo vedere che la partecipazione alle dinamiche del reale si basa su una ricerca identitaria perennemente in bilico tra Qualcunismo e Sestessità. Non vogliamo vedere che l’unico modo per essere Testesso e Qualcuno allo stesso tempo è accettare l’etichetta che ti viene offerta. Non vogliamo capire che, in taluni casi, l’etichetta che ti appiccichiamo in fronte può portarti a sequestrare un camionista polacco, costringerlo a lanciare il camion su una folla sconosciuta, per finire sparato dai poliziotti a Sesto San Giovanni.
Lorenzo. Bel film. Che finirebbe bene secondo la narrazione che ci stiamo dando a bere, se davvero l’attentatore avesse urlato Allah Akbar prima di morire, invece che ACAB o una cosa del genere, come invece è accaduto.
Anatole. Peccato che è vero.
Lorenzo. Parecchio vero. Ci si è provato stamattina a chiudere il cerchio, a inserire Amri nel ciclo. Nell’ennesimo varco spaziotemporale trans-vero il terrorista urlava “Allah akbar” prima di morire. Repubblica nel titolo poi cancellato scriveva “prima di morire l’islamista ha urlato Allah akbar”. Laddove il tag “islamista” sussume in sé tutto il discorso delle etichette che abbiamo appena fatto (tralasciamo le 15 pagine di introduzione a “Islam 20 parole”, Laterza, 2016, nelle quali ho spiegato perché la parola “islamista” è pesantemente biased oltre che ambigua).
Anatole. E tutti dietro a dir minchiate.
Lorenzo. Era proprio una cazzata, una sonora immensa cazzata, un fantasma che prendeva corpo chissà come, smentita dal questore. Però le minchiate le hanno dette lo stesso, nel frattempo, la storia delle etichette ha funzionato perfettamente. E’ l’ultima puntata del capitolo che avevo iniziato a scrivere su Vice nel luglio di quest’anno. Il titolo era “Come la frase Allah akbar è diventata uno spauracchio”. Attualmente su Repubblica il titolo fa: “L’attentatore di Berlino Anis Amri ha urlato poliziotti bastardi”.
Anatole. *facepalm*.
Lorenzo. Mi sa che ci abbiamo preso anche stavolta, ma non abbiamo vinto niente.
Anatole. Malgrado gli sforzi di tinteggiare in maniera comica, si rimane comunque con una brutta sensazione addosso.
Lorenzo. E se non fosse che si è fatta una certa proverei a tirar su il morale instillando d’embée il sospetto del complottone ordito da Minniti per convincere gl’italiani che il suo “schema” funziona. Cioè: ha funzionato praticamente in maniera istantanea. Il questore, di certo non volendolo fare, l’ha confermato. Anche perché Minniti, occorre dirlo, è il destinatario ultimo dell’insulto generico lanciato da Amri alle nostre forze dell’ordine nel suo ultimo minuto di esistenza.
Anatole. E l’aereo libico, allora? E chiaro che Loro…
Lorenzo. Esatto, l’aereo libico. Però ci ho una vita, e pure tu.
Anatole. Vabbene, chiudiamola così, che col complottismo abbiamo dato.
di Francesca Fiorentin
Se le minuscole pulci
Resero la peste nera all’umanità
Figuriamoci
Una febbre di moneta invisibile da moneta
*
La macina ha un potere
Venti ne ha lo Stato
Le mie mani senza frumento di maggio
Ottanta ne ha la banca
Tre giocatori rubano il sonno
Posseggono macchine truccate
Gocce notturne sul viso
Cadono sulla posidonia
Il mio funerale quasi indiano
*
No non desidero vedere te, lettore
Camminare
Lungo lo stretto spazio
Fra le piastrelle
O dove i nomi scivolano di zuccheri grassi
Se io accorro alle parole
Giudiziosa e limpida
*
Posso dormire
Se i cassetti sono colmi
Se non c’è più un luogo vuoto
Ogni persona
Tracimata dalle tre dimensioni
Dentro di me lavora
Il nero concime per il mio sangue arterioso
La pressione che scoppia
Erano i metallici ripetitivi “io…io”
Un surplus di essere
A rendermi vertigine e spavento
Pendolo, suona la mezzanotte dei fantasmi
Dei vivi dei ghigni
E dei morti che sono vivi
*
Sorrisi di infanzia in fotografia
Ed ora sono morti
Il dispiacere ha fiaccato loro le braccia
E la fine sempre
Limpida aria silenziosa
*
Il sole di novembre ha raggiunto Mosca
Ad est i fiori sono bianchi e stanchi
La luna di Napoli ha corso nei dipinti notturni
Visitava nidi di abeti
Un messaggio dal calendario
(Che ne sa più di Dio)
Assicura che non i pesi gravitazionali
Muovono i punti cardinali
Ma nostalgie indomite
Di essere in due
*
Cosa è questo silenzio
Metafisica e ordine
Allevia il tonfo del meteorite
La voce del re deposto
Torna
Guai a chi non lascia il clamore
Pentiti per le parole spostate
Dagli orizzonti vasti
Ai fornelli di cucina
Di mense metropolitane.
*
Se Marte mi incontrasse
Il tempo della terra
Ed il passo astronomico
I cerchi che scolpisce nel cielo
Le dimensioni discordi
Dalla mia pelle
Il magma universale
Diverso dalla mia saliva
Se hai tu, Universo
Un demiurgo
Restituiscigli i contrasti
E’ giustizia l’armonia di questa distanza
Disperata? Da cui non giunge suono
O le mie parole che lo chiamavano
vivente, umano, simile?
Dove sono i clamori della mia preghiera
Dispersi attraverso i millenni
di rotazione silenziosa
*
Pare che viva risolto ormai solo con il nero
Che è il più fermo!
A nord la scia boreale
Alta e verde islandese
Sognata
Ha uno scudo impermeabile e mobile
Per la sua totale incapacità al verde
Anteprima del romanzo d’esordio di Gioacchino Lonobile

Era l’ora di pranzo, al mercato rimanevano in pochi a comprare le ultime cose, mentre le panche delle taverne davano posto ai soliti fedeli. L’uomo reggeva una valigia di cartone e un blocchetto di biglietti numerati.
– Te lo devi prendere un biglietto Cardè? – chiese.
– ’nzut – fu la risposta di Gaspare.
Dietro il tizio con la valigia un altro spingeva una carrozzina per bambini, sulla quale era stato montato un piano di legno con sopra due cassette di pesce assortito.
– Fresco è? – chiese lo zio Tano, che era seduto a fianco a Gaspare.
– Pescato questa mattina – assicurò.
– Quant’è un biglietto?
– Sempre un euro – rispose l’altro.
Lo zio Tano incastonò la sigaretta tra le labbra, alzò un sopracciglio e rimase dubbioso a fumare.
– Allora, quanti ne vuole? – chiese il riffatore.
L’anziano stacco la sigaretta dalla bocca.
– Niente, grazie. A posto così.
L’uomo fece una smorfia e andò via.
– Gli ultimi quattro e me ne vado, me ne vado! – gridava.
L’altro socio lo seguì spingendo avanti la carrozzina con il pesce.
– Numero… ho detto numero!
Lo zio Tano e Gaspare li guardarono allontanarsi fino al centro della piazza di Ballarò.
– Novemila euro al mese si tirano così.
Gaspare non capì a cosa si riferisse lo zio Tano.
– Il pizzo travestito da lotteria.
– Numero… ho detto numero!
– Un euro, due euro che fa non glieli dai. Certo che glieli dai, almeno stai tranquillo. Due euro
al giorno che cosa sono? Niente. Rischi pure di vincere il pesce, perché attenzione, l’estrazione
regolare è, e la botta di culo ti può capitare.
– Numero… ho detto numero! – urlava la solita voce.
– Tiralo buono se no abbuschi – fece eco il carnezziere che stava all’angolo opposto della piazza.
– Ma la questione è un’altra – riprese lo zio Tano – un euro, due euro non è vero che non sono niente, se è tutti i giorni, e li debbono dare tutti. Non c’è scelta. Cardè i picciuli s’accucchianu.
– Numero… numero… ottocentoventi! Ottocentoventi! Otto, due, zero.
– Una tassa piccola, ma costante. C’era un amico che una volta mi ha detto che bisogna vedere la realtà con gli occhi della matematica. Mimmo si chiamava, Mimmo l’eroe, o le roi come piaceva a lui. Aveva il naso grosso, i baffi e portava la bombetta. Nessuno sapeva che facesse per
vivere. Diceva di essere l’inventore del ventaglio per uomo, e che campava con i soldi del brevetto. Un giorno eravamo seduti qua, come tu e io adesso, ma cinquant’anni fa.
– Numero… numero… ottocentoventi! Ottocentoventi! Otto, due, zero.
– Mimmo a un certo punto mi fa: «se cercassimo di vedere il mondo con gli occhi della matematica, questo sarebbe un posto migliore».
– Numero… numero… ottocentoventi! Ottocentoventi! Otto, due, zero. Lu pigghiò Saro, ’u paninaro, ’u figghio da za’ Rosa.
– Sono riusciti ad ottenere il controllo capillare del territorio, perché le riffe sono solo le briciole, tutto in mano a loro è. Danno i numeri, ma sempre fisica rimane, per questo non viviamo in un posto migliore.
Il riffatore adesso andava in giro per il mercato in motorino con dietro Saro ’u paninaro, e ad
alta voce dava l’annuncio ai vari banchi.
– Lu pigghiò Saro, ’u paninaro, ’u figghio da za’ Rosa.
I partecipanti alla lotteria che non avevano vinto, al loro passaggio, alzavano gli occhi dal lavoro che stavano compiendo e con una mano salutavano o facevano battute al vincitore, o ancora si lamentavano di non vincere mai. Ma tutti sapevano che l’indomani un euro o due dovevano comunque versarli.
– Un giorno senza salutare nessuno Mimmo l’eroe partì, sparito – disse lo zio Tano gettando lontano la cicca – chissà che fine ha fatto – si chiese. – E poi, guardare il mondo con gli occhi della matematica, che minchia voleva dire?
Gaspare sorrise e alzò le spalle. La festa per il vincitore della riffa si era ormai conclusa, coperta dall’abbannìate dei mercatari. Da lì a mezz’ora Gaspare sarebbe stato a Brancaccio, per iniziare il suo turno al presidio.
Gioacchino Lonobile è nato Toulon nel 1979. Ha pubblicato “Espadrillas gialle” per 18:30 edizioni e altri racconti per TerraNullius, Atti Impuri, Prospektiva e Nazione Indiana.
“I giorni della vampa” edito da Il Palindromo è il suo primo romanzo.
di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas
Una conversazione sul Pizzagate ed il pistolero del Comet, il Fantasma del Camion di Berlino e la performance del poliziotto turco
Anatole. È molto difficile uscire dalla spirale del complottismo, nella quale ci siamo avvitati inevitabilmente da più di un mese, ma sapevamo che sarebbe stato così e proprio per questo abbiamo evitato di tuffarci in questo argomento sublime quanto inquietante finché ci è stato possibile.
Lorenzo. Non credo che ne usciremo mai completamente, abbiamo capito che si tratta del formato standard della comunicazione via telefonone. Però proviamo.
Anatole. Vorrei suggerire una via di uscita, che forse non porta da nessuna parte, cioè non fuori dal complottismo che ci circonda, perché forse non c’è un fuori in assoluto, ma almeno ci riallaccia ad un altro tema sul quale avevamo avuto modo di intrattenerci in un passato che ormai parrebbe sepolto e invece non lo è. Lo spunto ce lo offre un fatto di cronaca al quale non abbiamo dedicato la dovuta attenzione nel prossimo passato, cioè la notizia del «Comet Ping Pong shooting», che proviamo a sintetizzare a posteriori, inquadrandolo, appunto, nella cornice della smentita teoria complottistica del pizzagate, riprendendo i termini nei quali è già formulata come parte dell’ontologia corrente su wikipedia.
Lorenzo. Lo vedi? Da complotto non si esce. Racconta.
Anatole. Praticamente all’inizio di Dicembre, il 4 per l’esattezza, un ventottenne del North Carolina di nome Edgar Welsh ha fatto irruzione al Comet Ping Pong, un locale in Connecticut Avenue a Washington DC, con la pretesa di investigare abusivamente su un circuito di pedofilia che, stando ai termini della teoria complottista basata sulla fantasiosa “decodifica” delle email del consigliere di Obama John Podestà rese pubbliche da Wikileaks, avrebbe coinvolto un certo qual numero di pizzerie della capitale americana e membri del partito democratico, tra i quali sono stati fatti i nomi di Hillary e Bill Clinton (per via della frequentazione di Jeffrey Epstein, finanziere di Bear Sterns, condannato per pedofilia).
Lorenzo. Accidempoli.
Anatole. No, ma infatti. Comunque. Nel corso dell’irruzione Welsh ha sparato tre colpi, ma poi si è arreso alle forze dell’ordine, non avendo trovato nessuna conferma alle illazioni in base alle quali aveva pianificato la sua azione. Arrestato per assalto a mano armata, ha spiegato alla polizia che aveva letto online la storia del circuito di pedofilia è voleva appunto accertare da solo se si trattasse di una notizia vera e, nel caso, salvare i minori dagli abusi. Stando alla ricostruzione dei fatti che hanno preceduto l’attentato, pare che Welsh abbia cercato dei complici tra i suoi amici prima di percorrere da solo i quattrocento chilometri che lo separavano da Washington DC, perché «raiding a pedo ring, possibly sacraficing (sic) the lives of a few for the lives of many… The world is too afraid to act and I’m too stubborn not to».
Lorenzo. Pauroso.
Anatole. Sì, però ora, soprassediamo sulla natura del complotto, che di per sé meriterebbe un libro intiero (il gioco dei collegamenti abusivi tra informazioni irrelate è davvero avvincente), come anche la questione del controcomplotto, o false-flag, di cui parlava un articolo del Washington Post. Teniamo anche per un attimo da parte in caldo i vari filoni di ragionamento che suggeriscono un approfondimento del ruolo dei siti di fake news coinvolti nella campagna elettorale americana (la storia del Pizzagate è stata ripresa e propagandata pochi giorni prima delle elezioni da Infowars e Cernovich) e della composizione della squadra di Trump (nella quale figura come National Security Advisor il generale Michael Flynn, che ha accreditato il Pizzagate in un suo tweet). Prendiamo invece la direzione che ci riporta sull’esile sentiero dei lupi solitari di cui parlavamo ai tempi dell’attentato di Monaco di Baviera, partendo dal fatto che il nostro lone ranger parrebbe aver elaborato il suo piano criminale sulla base di notizie acquisite in rete e si sia dunque improvvisato supereroe giustiziero. È un caso eclatante che testimonia quanto le parole siano azioni e quante e quali conseguenze possano produrre in una società che si scopre ossessionata dal problema dell’accertamento della verità di un fatto o di una notizia. Meno eclatante, ma comunque significativo, è anche il caso della pizzeria Roberta’s di Brooklyn a NY, coinvolta anch’essa nel Pizzagate, e per questa ragione bersagliata da atti ostili sulla base di evidenze caratteristiche del complottismo più sbroccato, quali ad esempio l’insegna, che raffigura uno scheletro con una pala da pizza. Il New York Times riportava che: «One person drawn by the hoax came at the restaurant to live-stream activity there. Others have stood outside holding signs». Già Cedric L. Alexander parlava a questo proposito sulla CNN del fatto che Fake News is Domestic Terrorism, discorso che ci ricollega alla questione che ponevamo mesi fa’ circa la natura di questi solitari atti di violenza, all’epoca collegati in via esclusiva al radicalismo islamico, per ragioni che già ci sembravano chiaramente riconducibili ad una questione di agenda mediatica.
Lorenzo. Perché, ricordiamolo, c’era in atto uno spezzatino delle evidenze fattuali secondo le linee del conflitto di civiltà.
Anatole. Mentre invece aveva già cominciato a funzionare quello che potremmo chiamare lo schema Lee Oswald, cioè un meccanismo mediante il quale fai talmente tanto casino attorno ad una questione che il matto pronto ad intervenire a una certa salta fuori, in Europa come negli Usa, radicale ‘slamico o semplice cojone che conduce la sua vita demmerda nel Fly-Over-State. E le due figure a noi, peraltro, sono sempre parse molto simili, se non identiche, indipendentemente dagli stereotipi culturalisti detti male che si leggono in giro. Ora, se non fosse tragico, farebbe anche ridere che stavamo scrivendo di lupi solitari prima dell’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia e dell’attentato a Berlino, no?
Lorenzo. Un po’ angosciante, in effetti, ma forse la cosa avviene semplicemente perché i lupi solitari is the new “ciò che avviene”. Quindi se non era ieri sarebbe stato oggi. O domani. E noi non è che stiamo qui a far dialoghi perché non abbiamo nient’altro da fare. In queste ore, comunque, i pensieri mi si accavallano – complice anche l’estrazione di n. 2 denti e conseguente stato di malessere sia generalizzato che localizzato. Ma forse qualche pensiero lucido l’ho fatto. Il primo è che nel mondo superliberalissimo in cui viviamo, nel quale la società è sommariamente strutturata attorno a un comporsi caotico di volontà individuali, la solitudine dei lupi è consustanziale. Cioè: la sensazione è che queste persone, mettiamo il nazista assassino della deputata Jo Cox o il pakistano richiedente asilo della strage di Berlino, sembrano essere ineludibilmente guidati dalla propria “coscienza”, ispirata da qualche delirio altrui, da un qualcosa che il solitario percepisce come parte di sé: spesso una comunità virtuale, con tutto quel portato di falsità e autenticità che essa si porta dietro, o anche una piccola comunità reale che si connette a una comunità virtuale più grande. A questo proposito è ancora illuminante il pensiero di Jesurum sulle microculture di cui parlavamo qui. Parafrasando: a ognuna di queste azioni macroscopiche compiute da lupi solitari corrisponde l’uso psichico personale di una qualsivoglia narratsione, dalla pedofilia, all’invasione islamica. Sì, è un po’ una sindrome di Lee Oswald. Una cosa variamente diffusa che funziona alla grande, cioè diventa quasi di massa, con l’upgrade tecnologico.
Anatole. Questa cosa del dente estratto penso che si possa tamponare solo con la ketamina, sostanza che qualche anno fa in giro per la città andava per la maggiore e potrebbe, pensandoci, rappresentare anche una buona soluzione allo sbrocco generalizzato di queste ore, nel corso delle quali mi pare di capire che sia partito lo spin definitivo, quello secondo il quale Assad è il campione delle democrazie minacciate dall’ISIS, mentre Merkel è un’autocrate responsabile delle stragi in Europa.
Lorenzo. Sì, il livello di allucinazione è indubbiamente ketaminico. Un esempio del livello: ora che abbiamo confermato l’esistenza della bambina Bana – che insieme ai suoi genitori twittava da Aleppo – e che dovremmo piangere sul fatto che è stata strappata alla sua città presso la quale forse non tornerà mai più, dobbiamo sorbirci – in funzione “anti-Bana” – la storia diramata dall’infame Ministero degli Interni egiziano – l’Egitto supporta Asad – secondo cui a Suez stavano fabbricando un video falso con testimonianze false di bambini non-profughi non-aleppini. Intanto, nei commenti al video dell’intervista a Bana interviene un account intitolato ad Adolf Hitler.
Anatole. Accanto a questa continua produzione di false notizie, si osserva uno spiraleggiare a vuoto attorno a costrutti ideologici di soggetti che si esprimono in assenza di un confronto con dati di sostanza, sulla base dei quali sarebbe davvero possibile farsi un’idea di cosa stia accadendo. Da parte nostra credo che il punto sul quale possiamo andare abbastanza sicuri, che rappresenta peraltro un po’ la cornice di tutto il discorso, è questo rapporto tra il singolo isolato e la costruzione ideologica, dal quale sembrerebbero scaturire i gesti di violenza dei quali tanto si parla, dal pistolero del Comet all’assassinio dell’Ambasciatore russo in turchia, , ma anche all’attentato di Berlino, che somiglia molto, almeno in apparenza, a quello di Nizza. Poi Daveed Gartenstein-Ross and Nathaniel Barr in questo articolo di Foreign Affairs, proprio parlando degli attentati di Nizza, Ansbach e Rouen, dicevano che in realtà questa etichetta del lupo solitario la si affibbia nelle prime 24 ore dopo l’attentato, prima che emergano indizi dei più stretti legami tra questi individui e un più articolato ambiente terroristico.
Lorenzo. In realtà in nessuno di quei casi, né in quello dell’attentatore di Monaco, è poi emersa l’appartenenza ad una vera e propria cellula radicalizzata, come quella, per capirsi, che ha operato per l’attentato contro Charlie Hebdo, nato e svolto in una dimensione di terrorismo molto più tradizionale, a cominciare dalla selezione del bersaglio. Ma un discorso analogo potrebbe facilmente emergere comparando l’attentato omofobo di Orlando con quello parigino al Bataclan, con tutto che la selezione del bersaglio è simile (ma, appunto, declinata in maniera contestualmente pertinente), le differenze sul piano organizzativo permangono. La cosa che meno convince dell’approccio secondo il quale tutto il terrorismo islamico ha legami solidi con lo Stato Islamico è che si basa su collegamenti dimostrati molto labili e non situa il fenomeno all’interno di una dimensione sociale, come quella europea o americana, che funziona più o meno allo stesso modo per il lone ranger del Comet e per il pistolero suicida pakistano. Cioè, sarà pure vero che «ISIS has capitalized on evolving communications technologies, building cohesive online communities that foster a sense of “remote intimacy” and thus facilitate radicalization» e sarà anche vero che «the group has also established a team of “virtual planners” who use the Internet to identify recruits, and to coordinate and direct attacks, often without meeting the perpetrators in person», ma siamo alle solite etichette che si appoggiano su stereotipi culturalisti, per non dire proprio razzisti.
Anatole. Ci mancherebbe. Quando l’attentatore è un trentenne di origine afghana, allora è un attacco jihadista alle libertà occidentali, non violenza repressa di carattere omofobo, se invece è un americano bianco della middle class riscattata da Trump che vuole salvare i ragazzini dalla pedofilia liberal, invece cos’è? Cioè, se sei ‘slamico non solo non puoi essere gay, che non sia mai, ma manco omofobo, figurati le due cose insieme! Devi essere dell’ISIS e non rompere il cazzo. Poi, se vai a leggere bene la storia dell’attentatore del Comet, scopri che aveva anche degli amici che la pensavano come lui, ma non se la sono sentita di seguirlo nel suo folle gesto. Se fosse stato afgano, o pakistano, ecco che i suoi amici sarebbero diventati parte di un tessuto articolato di radicalismo che si organizza in rete. Forse sarebbe più corretto vedere l’uno e l’altro come aspetti di un problema simile, cioè mitomane uno, mitomane l’altro, indipendentemente dalla matrice etnica, culturale o religiosa. Oppure facciamo valere quella per tutti.
Lorenzo. Ma infatti. L’uno e l’altro, alla fine, si propongono come aspetti diversi, cioè classificabili all’interno delle rispettive subculture, della stessa cosa. Sembrano vivere una condizione in cui alla fine si cerca – per come si può – di essere qualcuno, magari per una sola volta nella vita, cioè quando si muore, non riusciendovi. Fra le frasi convulse pronunciate dall’assassino dell’ambasciatore russo ad Ankara c’erano anche queste (sempre che la traduzione di cui dispongo sia affidabile ma credo di sì):
Solo la morte potrà allontanarmi da qui.
E così è stato. E che dire dello sparatore del centro islamico di Zurigo, ritrovato morto a 350 metri dal luogo della sparatoria? Lui addirittura non dice niente, lo trovano morto e basta. Sappiamo solo che un uomo ha tentato di fare una strage (e non ci è riuscito). Il fatto che trovo centrale è che la loro morte, o la loro vita, torna a essere immediatamente irrilevante, come lo era 5 minuti prima del loro “atto”.
Anatole. Certo, il qualcunismo di cui parlavamo a proposito del tronismo di massa. La sestessità scatologica, quella della violenza verbale, ha un pendant abbastanza inquietante nella violenza delle armi, come si diceva a proposito di Welsh al Comet, ma anche dell’attentatore di Monaco a suo tempo. Ci sono sbroccatoni che si sfogano con gli insulti sui social network, altri che invece escono proprio dalla grazia di dio e si concedono il momentone di celebrità definitivo, quello che li santifica e li redime. Da una parte il problema non parrebbe l’ideologia alla quale il gesto violento s’ispira, quanto piuttosto la rabbia che canalizza, dall’altra la modalità che la canalizza, più o meno ricompresa nel campo del socialmente accettabile, a volte, con tutta evidenza, per niente. Di sicuro il lupo solitario, così come le mute di cani anonimi che si scatenano sulla rete, hanno in comune uno scollegamento totale dal dato di realtà, che dipende dalla quantità di balle che sostengono l’inquadramento ideologico della rabbia.
Lorenzo. A volte, addirittura, questo scollegamento determina l’effetto opposto rispetto a quello che il lupo solitario voleva produrre. La condizione degli asilanti in Germania probabilmente peggiorerà dopo l’attentato al mercatino di Berlino, e l’attentatore è un richiedente asilo. Urlando “non dimenticate Aleppo” l’ex poliziotto ‘assassino di Karlov ha contribuito a cancellare dalla memoria le sofferenze di quella città. E non ha spostato di un millimetro le relazioni fra Putin e Erdogan. Anzi: ora Erdogan è nelle mani di Putin e da quello che vediamo in queste ore tutta la vicenda non ha fatto che silenziare quasi definitivamente chi criticava Erdogan per essersi avvicinato a Putin e – dunque – aver abbandonato Aleppo. Un atto più idiota di questo non si poteva fare. Cioè: non mi viene in mente una cosa più controproducente. E per far questo è morto volendo morire. Dell’attentatore di Berlino non abbiamo ancora un profilo certo, però. Anche se è chiaro che ISIS, come ha fatto in tanti altri casi, se lo caricherà in carrozza.
Anatole. Lorenzo, guarda le news
Lorenzo. eh?
Anatole. Guarda le news
Lorenzo. Oh. Non ci credo. Hanno arrestato la persona sbagliata a Berlino. Non ci riesco a credere. Sono le 13.44 del 20 dicembre. Bild online titola “la polizia ha il falso uomo?”. Transverità, come posso definire tutto questo?
Anatole. Una roba che ci riporta direttamente da capo, alla questione dell’indecidibilità di quasi tutto. Cosa dobbiamo credere? Cosa dobbiamo pensare? Che la polizia abbia preso per strada il primo disperato «dal sapor mediorientale» che passava? L’Attentatore Fantasma mette un po’ in crisi la nostra visione schiacciata sul qualcunismo. Il fatto che si sia dileguato, rimanendo nell’anonimato, apre tutta una situazione di complottismo alla Oliver Stone, dove pareva che Lee Oswald avesse finalmente reclamato il centro della scena. Non c’è niente da fare, dal complottismo non si esce.
Lorenzo. Infatti. Non se ne esce. E il lupo solitario ne è l’espressione compiuta, sembra quasi il protagonista naturale del romanzo complottista. Fermo restando che, nel frattempo, pescando l’attentatore sbagliato in mezzo alla folla, si è dato modo ai populismi di tutto il mondo di riprendere a suonare il disco rotto dei terroristi che si spacciano per profughi richiedenti asilo. E a me fanno male i denti. Penso che dovremmo chiudere con la foto dell’anno, no?
Anatole. Quella che ritrae l’omicidio di Andrey Karlov, l’ambasciatore russo in Turchia durante l’inaugurazione della mostra intitolata «From Kaliningrad to Kamchatka, from the eyes of travelers» ci sta dentro benissimo alla faccenda del qualcunismo omicida, che trascende le appartenenze, o meglio le attraversa, anche se forse ci proietta in una dimensione ancor più estrema, inquietante, straniante. Anzi, forse rappresenta proprio la forma patetica estrema di questa cosa. Un bell’articolo uscito ieri su New Republic di Ryu Spaeth descrive lo scatto di Burhan Ozbilici così bene, che non c’è nemmeno bisogno di riproporlo:
It was like a scene from Godard or Tarantino. A man splayed on his back on the polished floor of an art gallery, his scuffed soles facing the camera as if he had been flattened like the Wicked Witch of the East. Another man is in the foreground: black suit, black tie, the muzzle of a black gun pointed at the ground. His finger is aimed at the sky, and his face is contorted into a shout. Behind him are a row of pastoral images, tilted at such an angle that they appear to be running toward the ground.
Spaeth nota delle inquietanti affinità tra la foto in questione e la famosa performance di Chris Burden del 1971 intitolata Shoot, nel corso della quale l’artista americano si faceva sparare addosso in una austera galleria di Santa Ana in California, riportando la scioccante dichiarazione del fotografo: «When a man in a dark suit and tie pulled out a gun, I was stunned and thought it was a theatrical flourish». E invece manco per niente, era proprio tutto vero. Mevlut Mert Altintas, 22 anni, diplomato nel 2014 all’accademia di polizia Rustu Unsal, originario di Smirne, faceva parte delle unità anti-sommossa di Ankara e aveva anche prestato servizio nella scorta di Erdogan, a Konya nel 2014 e a Bursa nel febbraio 2015. Stiamo a vedere cosa salterà fuori, ma l’apparenza del caso è ancora quella del lupo solitario che trova i suoi quindici minuti di celebrità, gli ultimi della sua vita, compiendo un gesto estremo quanto teatrale davanti alle telecamere.
Lorenzo. Abbiamo parlato parecchio nel corso dell’ultimo anno di questa clamorosa tra fiction e verità, che rappresenta probabilmente la vera cifra stilistica della temperie culturale nella quale ci troviamo immersi. Forse, più che Godard o Tarantino, il rapporto tra lo scatto e la realtà che ritrae fa venire in mente Lynch o Kubrik, o qualcosa a metà tra i due. Siamo in quel punto in cui il teatro della vita prende il sopravvento sulla capacità mimetica del gesto artistico. Non si sa più come chiamare questo effetto, che trascende anche le categorie più estreme della Società dello Spettacolo. La foto ritrae tante cose vere allo stesso tempo, ma ogni verità nasconde un potenziale spazio di ambiguità inquietante. Da parte di chi si cerchi la vendetta per i fatti di Aleppo è tutto meno che chiaro, così come non si capisce a chi si riferisca l’attentatore quando dice che «noi moriamo in Siria e voi morite qua».
Anatole. False Flag? Complotto? Controcomplotto? Anche in questo caso i margini per lo sviluppo di teorie di ogni genere sono vastissimi e certamente le più varie stanno già prendendo forma, come emerge chiaramente da un articolo del New York Times. Il lupo solitario che mantiene grandi margini di ambiguità non facilita una lettura univoca dei fatti più del Camionista fantasma. Ma, appunto, con Lee Oswald non è andata meglio.
Lorenzo. Se nel caso del Fantasma del Camion di Berlino sembrerebbe evidente il quadro ideologico al quale l’azione individuale si ispira in maniera più o meno isolata, in quello del poliziotto turco è un po’ il contrario: l’omicida è noto, ma lo scenario di riferimento appare ambiguo, anche perché le cose che ha dichiarato prima di essere abbattuto non è che proprio rimandino in maniera così diretta al terrorismo di ispirazione Gulenista, su cui si sta indagando. Senza contare che il portavoce di Gulen negli Stati Uniti, Y. Alp Aslandogan ha etichettato come totale nonsense i collegamenti gulenisti di Altintas, da ricondurre secondo lui, invece, alla militanza “islamista” («this clearly was an Al-Nusra or Isis thing», ha dichiarato al New York Times). Quale narrazione trovi senso in questo gesto, quanto comprovabile, quanto grigia è difficile dire e meno ancora se e quanto pesi l’esperienza diretta di chissà quali fatti vissuti in prima persona. D’altra parte ogni qualcunismo che si rispetti, anche quello dall’apparenza più chiara e lineare, non può che sostanziarsi di tante cose, mescolate insieme in una maniera che forse solo un buon romanziere saprebbe raccontare.
Anatole. Forse ogni qualcunista deve necessariamente maturare un’idea romanzesca di se stesso, anche se poi si mette in scena in maniera teatrale, cinematografica, o magari caratteristica della performance art. Come ipotesi di lavoro, dico.
Lorenzo. Lavoriamoci.
Anatole. Mi viene ancora da pensare alla questione della verità delle emozioni, che determina la realtà in cui viviamo allo stesso modo di quella dei fatti, anche perché i fatti non si spiegano senza una forte carica emotiva che li produca a livello autoriale, anche dove l’opera in questione sia un omicidio, e aiuti a capirli a livello del pubblico. Le etichette giornalistiche rimuovono quel processo empatico che dovrebbe collegare questi due piani, al fine di capire davvero, senza banalizzare, facendosi carico dei vari elementi che determinano il quadro problematico. Le soluzioni adottate, ad esempio radere al suolo Aleppo o eleggere leader populisti, sono evidentemente il frutto di una banalizzazione, della ricerca di una soluzione in assenza di un’analisi del problema.
Lorenzo. Certo. Non capiamo cosa stia succedendo, ma facciamo qualcosa, la più stupida e banale che ci venga in mente.
Anatole. Esatto.
Lorenzo. Dunque, prevedibilmente, la cosa non potrà che peggiorare.
Anatole. Se per risolvere un problema adotti soluzioni che sono interne al problema, non vedo come potrebbe migliorare.
Lorenzo. Esatto.
Anatole. Purtroppo.
Lorenzo. Infatti.