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Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

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di Simonetta Spinelli

Ho chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le ho anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto, per questo la ringrazio. La scelta di ripubblicare questi testi in serie (uno al mese) spero sia evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Qui il primo post della serie: Una donna lesbica femminista.

Qui il secondo: Queering Wittig?.

 

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Il silenzio è perdita (2016)

L’articolo pubblicato nel 1986 in DWF è il risultato di una riflessione che, ancora oggi, mi angustia. In Italia – e solo da noi – le donne lesbiche non riescono a restituire le loro esperienze di vita in discorso politico autonomo. Donne che si dichiarano lesbiche, che si esprimono pubblicamente in mille modi: studiose, letterate, scrittore, storiche, archiviste. Donne di pensiero, attive nella politica, che scrivono su tutto e su tutto restituiscono un patrimonio di consapevolezza. Ma il lesbismo resta come un inciso, tenuto al riparo, come se non potesse quell’esperienza fondante del nostri percorsi essere la base dalla quale partire per costruire una visione di mondo a propria dimensione. Non a caso nasce l’adesione sempre più massiccia alle lotte per i diritti civili, perché la richiesta di equiparazione e di tutela, per quanto possa essere dettata da sacrosante esigenze pratiche, non costringe ad esplicitare il sapere delle nostre vite, né ad assumere la fatica di una contrattazione complessiva sull’intero sistema dei diritti.

 

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Il silenzio è perdita (1986)*

Come un gesto di irritazione di fronte ad un’intimità invasa. A volte penso che l’incapacità di parola che chiude il lesbismo in un discorso difficile da articolare, e che rende anche i gruppi politici in qualche modo insofferenti ad approfondire, in termini teorici,  quanto in questi anni si è espresso in pratica di rapporti, sia lo stesso atteggiamento a difesa di un’intimità, che sembra di avvilire nominandola[1].

Approfondire un’analisi sulla realtà del lesbismo significa scavare, inevitabilmente, in una storia tutta intima e renderla esplicita, abbandonando la ricerca di un sapersi che, proprio del lasciar tutto implicito, aveva fatto una strategia. Restringendo lo spazio di comunicazione alla denuncia di un’oppressione. E il resto raccontandolo in un gesto di interruzione di discorso. Un discorso che esisteva, per ogni donna lesbica, prima ancora che esistesse il desiderio di costruire linguaggio. Come se la chiusura ad ogni sforzo di parola fosse la premessa necessaria ad esprimere un desiderio, che solo nel contatto con il corpo dell’altra poteva dirsi, perché implicitamente diceva un’esistenza.

Se l’altra è corpo del desiderio, fra i due corpi di donna si costruisce uno spazio di coscienza che rompe la logica della negazione. L’incontro tra i due corpi – non detto del linguaggio a cui la materialità del desiderio restituisce presenza – rimanda, nello stesso tempo, all’una e all’altra donna, un’immagine di sé come soggetto desiderante e una intuizione del proprio corpo come strumento di indagine e di intelligenza. Prima di ogni analisi e presa di coscienza, dividere, dirsi il desiderio è nominarsi l’un l’altra e scambiarsi riconoscimento. Questo impatto di conoscenza è così forte che capovolge il senso di tutta la realtà. Per un momento. Perché la quotidianità ricostruisce le barriere del senso comune. E si struttura una mediazione tra l’insostenibilità e la voglia di onnipotenza, che è percorso di tutte le donne, ma che per le donne lesbiche contiene l’ostinata memoria di quel “sapere del primo istante”[2] negato, rimosso e irrimediabilmente presente. Amuleto raccolto in un tempo remoto, che dei simboli magici ha l’orrore di essere esplicitato, e di cui niente più si sa di preciso, se non che gettarlo è gettare la vita. E’ più facile esprimere una protesta, difendere una strada comune alle altre donne, o la specificità di un percorso e di una pratica. Ogni cosa ci segna, ci lega e ci attrae, basta che non tocchi, a livello singolo e collettivo, quel fulcro di sapienza di intimità che è lo scandalo delle nostre vite e il nostro scandalo. E non si deve dire, perché scioglierne i nodi è rischiare di perderci.

Appartenenza per una donna lesbica è percorso di esplicitazione di quel sapere di intimità. Ma questo percorso presuppone che l’intimità sia nominata, in qualche modo esposta. Là dove il segreto le manteneva il senso di difesa magica contro la cancellazione. Se neanche io so dare un nome a ciò che non può essere nominato, né articolarne i connotati, lo sottraggo all’indagine del mondo. Che lo sottragga alla mia sembra poca cosa di fronte al fatto che, inespressa, quell’intuizione dà spessore alla mia vita. Il timore è che la violazione del divieto sommi trasgressione a trasgressione e cancelli, banalizzandolo, ciò che mi dice esistente. Quando lo spirito non abiterà più la pianta, sparirà dalla terra il popolo degli alberi.

Concepire l’appartenenza in termini di esplicitazioni contiene, oltre al fantasma della perdita, il fantasma del tradimento. Gran parte delle donne lesbiche politicizzate ha concentrato i suoi sforzi nella significazione del soggetto donna, ma ha evitato – o rifiutato – di articolare in linguaggio il sapere delle sue pratiche di intimità. D’altra parte, le donne lesbiche che si sono aggregate nei gruppi spontanei sono rimaste, spesso, legate all’esaltazione ideologica di una pratica, peraltro non esplicitata. In ambedue i casi non c’è stata accumulazione di sapere. Quell’accumulazione di sapere che ha permesso la fondazione di un soggetto collettivo donna, l’inizio di un’articolazione di significato, che non è ancora linguaggio, ma già spazio di comunicazione sessuata, all’interno del quale è possibile problematizzare intrecci, relazioni e contraddizioni tra pratiche di rapporto e ambito collettivo in cui quelle pratiche si significano.

All’interno del soggetto collettivo donna, un soggetto collettivo lesbica non è mai esistito, perché le donne lesbiche non hanno posto – se non in termini rivendicativi o confusi – l’esigenza teorica di articolare un linguaggio a partire dalla propria esperienza di comunicazione, segnata proprio dalla materialità del rapporto con l’altra. Si verifica un paradosso. Quanto più il lesbismo non si esplicita in un soggetto collettivo, tanto più le donne lesbiche sembrano sviluppare una dinamica di difesa di fronte al tentativo di approfondire l’indagine sulle pratiche di rapporto, che è interpretato, collettivamente, come minaccia di frattura, di abbandono. Come se esistesse una realtà di vite separate, che non si mettono reciprocamente in gioco, ma si stringono in corpo sociale ogni volta che è a rischio quel patto, che nessuna dichiara, ma di cui ognuna registra le violazioni. Opera qui una doppia concezione di appartenenza, che invece di articolarsi entra in collisione, pur fondando su quell’implicito sapere di intimità, perché quelle che appaiono negarsi reciprocamente sono fatiche concrete, che hanno segnato storie e vite, così a fondo che i meccanismi di difesa scattano prima di qualunque razionalizzazione.

Appartenere a sé per una donna lesbica è percorso così legato all’appartenenza all’altra che scindere le due proposizioni è ripercorrere una strada che è stata obbligo prima di essere conquista. La materialità dell’incontro con l’altra restituisce alla donna lesbica la titolarità di un desiderio che può essere espresso. Ma l’essere soggetto desiderante è legato all’altra, al suo essere soggetto desiderante. Se l’altra è immagine senza corpo, lo stesso esistere perde senso. Il sapere dell’intimità coesiste con il fantasma della perdita. Qui scatta la prima difesa. Sembra più urgente sottrarre all’indagine quel vincolo, piuttosto che rischiare di perderlo analizzandone il dato di acquisizione di conoscenza. Al rischio della perdita di senso si oppone l’occultamento di senso. Che sembra investire anche l’atteggiamento opposto di chi rifiuta un’esplicitazione di percorso, considerandola svilente di fronte alla sfida che quel rapporto, così connotato, fondi di per sé un linguaggio che scardina la logica sociale. Perché, di fatto, ridurre ogni possibilità di rappresentazione all’esemplarità astratta di un percorso, azzera le singole vite e impedisce proprio la costruzione di un sapere collettivo, fondato sulle pratiche concrete e non sull’immaginario di quelle pratiche.

La scoperta di altre donne, legate dalla stessa materialità di rapporto, non cancella il timore della perdita. Ne muta le coordinate. Le altre donne lesbiche sono spazio di socialità che permette un intreccio articolato di rapporti. Concreti. Nei quali quel sapere di intimità, non espresso, è presupposto dato. C’è uno spostamento di ottica, in cui l’appartenenza si ridefinisce, ma sempre in termini di “ciò a cui appartengo”. Il processo di costruzione di un’identità è per le donne lesbiche troppo legato alla paura della solitudine, all’ansia di non rintracciare somiglianze, al bisogno di rappresentazione sociale, perché l’appartenenza possa immediatamente porsi in modo diverso da “appartenere a”. Sembra più vitale fare corpo insieme contro l’estraneità, stabilire un patto sulla base di una somiglianza che non può essere smentita. Il dato di fatto di una pratica di intimità si sostituisce ancora una volta all’indagine sul sapere di quell’intimità. E la sostituzione diventa nello stesso tempo punto di coesione e  base per il riprodursi di un’estraneità. Perché rappresenta le donne lesbiche in un corpo sociale votato alla perdita di senso.

Sembra un gioco ad incastro, in cui spostare una pedina è spostarle tutte. Prendere distanze dall’estraneità, nominando il proprio sapere, evoca di nuovo il terrore di essere appartenenti a nessuna, e di contribuire alla disgregazione di un corpo che del suo essere non soggetto a verifica aveva fatto forza coesiva. D’altra parte, ripercorrere una rimozione rompe un patto con sé, e provoca un’espropriazione che nessuna “appartenenza a” può sanare.

La pratica politica non smentisce la difficoltà di esplicitazione con la quale le donne lesbiche reagiscono alla paura che, nominando ciò a cui danno valore prevalente rispetto alle loro vite, si produca una perdita. L’appartenenza al Movimento è stata la mozione d’ordine sulla quale le lesbiche si sono cancellate. Più la loro presenza è stata significativa, e ha contribuito alla rassicurazione generale di “essere insieme”, più è stato nascosto e taciuto il sapere delle loro pratiche di intimità. Che restava, del Movimento, il non detto. Su cui fondava la coesione. Anche qui si è prodotto un immaginario di corpo sociale omogeneo, quasi omologato, che era costantemente smentito dalle pratiche, né omogenee, né omologabili. E si è verificata la stessa spaccatura tra ossessione della perdita ed estraneità. Con un’ambiguità similare. Perché non dare, o dare lettura parziale, delle loro pratiche di rapporto è stato per le donne lesbiche sminuire quanto di quelle pratiche aveva informato, e informa, l’accumulazione di sapere che negli anni è stata costruita tra le donne.

Storicizzare un percorso, individuale e collettivo, significa oggi ridefinire un’appartenenza in termini di “appartenenza a sé”. Urgente è trovare ciò che mi appartiene, che mi rimanda una somiglianza verificabile e non estraneità, che non riduce la mia vita, né restringe i miei spazi di espressione. Ho bisogno di confrontare pratiche concrete, nominate, e il percorso di indagine che le ha modificate. In questo cercare ciò che mi appartiene il silenzio rappresenta la perdita. Di me, perché obbliga la mia ricerca in coordinate rigide, in cui il mio desiderio di costruire linguaggio è negato, e che mi rappresentano, ancora una volta, come corpo muto. Delle altre donne perché l’immaginario sulle vite sostituisce la conoscenza e il confronto reale, e ci rende l’una all’altra astratte, prive di quei corpi di cui si tace il sapere. Della cultura collettiva che della esplicitazione delle pratiche e della materialità che le sottendeva aveva fatto il suo punto di forza. Della possibilità di costruire una rete di rapporti, rafforzata da spostamenti di coscienza individuali e collettivi, perché il non detto copre la consapevolezza di quei rapporti, e ne impedisce la rappresentazione.

Esplicitare una pratica di intimità non significa riproporre divisioni, né opporre l’una all’altra le vite delle donne. Scommetto su un’altra donna perché scommetto su di me. Quello che lega me e lei è ciò che ognuna delle due riconosce come qualcosa che le appartiene. E perché ci sia riconoscimento occorre nominare. Non esplicitare che sono una donna lesbica nega, nello stesso tempo, la mia vita e quanto della vita dell’altra deve poter essere detto, la mia pratica e la sua. Se anche niente dell’altra sapessi, saprei che raccontare il mio percorso è dire l’intimità con una donna, con altre donne che vivono la stessa pratica, lo sforzo di assumere e di significare il sapere di quel rapporto e di quei rapporti e come ha segnato un’esperienza quotidiana e un’elaborazione politica. Perché questo abbiamo fatto negli anni, espresso politicità costruendo lo spessore delle nostre vite. E mi sembra contraddittorio – in questo momento, in cui la discussione si accentra sull’esigenza di significare le nostre pratiche di rapporto, di nominarle e di nominare i soggetti che ne sono titolari, e ci siamo già assunte, difendendo un’appartenenza a noi stesse, la fatica di tradire i patti di silenzio perché cancellano le donne – riproporre la miseria di una parola che da me parte, ma in qualche modo obliquo anche mi evita. E far finta di non sapere, ancora una volta, che “il silenzio tra le donne è calunnia”[3].

 

* In Dwf, Appartenenza, 1986 (4), pp. 49-53

[1] Il riferimento è qui chiaramente alla realtà italiana, che è atipica rispetto ad altre situazioni europee o nord-americane, nelle quali il movimento lesbico nasce separato, a volte in antagonismo con il movimento delle donne. Al contrario, in Italia, le donne lesbiche politicizzate hanno scelto di confrontarsi all’interno dei collettivi e del dibattito femminista, rifiutando la separazione dalle altre donne. Il lesbismo femminista è la realtà più generalizzata e visibile, tanto più che le aggregazioni spontanee, per quanto diffuse, non esprimono desiderio di produzione teorica, e le punte di radicalismo, peraltro deboli, restano assorbite dal dibattito complessivo.

[2] Alessandra De Perini introduce questa problematica al Seminario di Firenze, 1-2 novembre 1986: “Il sapere del corpo lesbico […] E’ un sapere implicito, sapere del primo istante, che non prende tempo per riflettere. E’ un sapere poco articolato. Frammentario […] che ancora non è un Sapere, eppure molto sa delle donne, dei loro pensieri, dei loro piaceri”. Dattiloscritto, p. 7.

[3] Dall’intervento (inedito) di Elena Gentili al convegno Una ricerca lesbica: Etica e politica dei rapporti tra donne (Roma, 1-2 novembre 1985).

 

 

La renitenza al risveglio ( bagatella mattiniera)

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di Giorgio Mascitelli

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La renitenza al risveglio è un piacere sottile e pericoloso che affligge Guido della Veloira  tutte le mattine. Il risveglio non è mai istantaneo, ma è un processo lento che spesso precede il suono della sveglia e in cui l’apertura degli occhi è solo una fase che succede al sorgere, sotto la cupola del sonno, di un barlume di coscienza delle cure del giorno, cioè delle angosce che esso porterà. Quando gli occhi si aprono una prima volta nell’oscurità per subito richiudersi, l’acre sapore delle angosce del giorno emana i suoi miasmi che s’insinuano fin nei precordi. Allora, e solo allora, comincia una lenta pantomima di giravolte sotto la coperta che non è un semplice stirarsi, ma è un complicato rituale di dilazione e di liberazione dell’istante dalle incombenze del poi. Il dolce tepore tra le coltri suggerisce che non è ancora arrivato il momento di alzarsi e questa salutifera consapevolezza del non ancora diventa piacere. Piacer figlio d’affanno, mentre la sveglia non suona ancora, ma emette il suo regolare ticchettio.

Proprio la sveglia è una specie di relitto vivente, come certi pesci negli abissi degli oceani,  di un’epoca passata in cui la misurazione rigorosa del tempo era necessaria per una misurazione rigorosa del lavoro che a sua volta era preludio di una vita rigorosa fondata sullo sfruttamento del lavoro. Il tempo dell’orologio fu il tempo della produzione. Ora che il tempo del computer è di una rapidità incalcolabile per qualsiasi mente produttiva, la sveglia diventa uno strumento obsoleto che si ostina a porre dei limiti a ciò che non ne deve avere perché usura è operativa ventiquattro ore su ventiquattro.  E’ il tempo incalcolabile  del progresso.

La sveglia suona, frattanto,  ma il rivolgimento nel letto prosegue per un istante allo stesso modo che la lucertola a cui è stata tranciata la testa prosegue per un frangente millesimale i suoi movimenti. Ancora due minuti e poi non si può più differire l’incontro con il muro del giorno.

Le angosce nel dormiveglia sono dismisurate ché ancora la ragione non le ha chetate, poste tra parentesi, contenute, analizzate, delimitate: verosimilmente sono sproporzionate. Il pieno risveglio le disciplina, anzi è la disciplina. Ma basta distrarsi un attimo con il tubetto del dentifricio in mano oppure nell’aspettare che il caffè venga su nella moca perché questo paziente lavoro degli strumenti della ragione vada in malora. D’altra parte se non ti puoi fidare nemmeno più della sveglia, è logico che per Guido della Veloira tutto diventi incombenza.  Ma dopo colazione, contro la forza centrifuga dell’angoscia del mondo che vorresti tenere fuori dal tuo mondo, muove con passo sicuro una uguale e contraria centripeta: la paura di attardarsi e di essere escluso.

Forse è vero quel che dice sempre Giampaolo  che si conosce il mondo solo nell’esclusione, nella separazione, quando la macchina sociale ti ha esodato fuori per qualsiasi motivo ( salute, età, pazzia, migliori opportunità d’investimento altrove); forse è vero che l’uomo è  così stolido che ci capisce qualcosa solo quando ormai sta sorseggiando la spuma o il gingerino al circolino della vita, mentre gli altri sfrecciano intorno. Quanto a Guido della Veloira lui non condivide le opinioni di Giampaolo, ma segue la doxa. Come chiude la porta di casa, gli si accende una spia rossa nel cervello, la cui luce è osservabile attraverso le tempie in certe giornate non molto luminose, che dice ‘non lasciatemi indietro’.  Non è facile di seguire le opinioni di Giampaolo tuttavia, persino il protagonista di Pentotal si lamenta di essere isolato in una Bologna del Settantasette in cui avrei immaginato che si pensasse a tutto fuorché all’ansia da esclusione. Essa non molla facilmente la presa, bisogna aver subito un danno pressoché irreversibile alla capacità di nutrire ambizioni o aspettative per essere sputato fuori.

Può anche darsi che Giampaolo abbia torto e ogni posizione che ci si trovi a occupare nell’arco dell’esperienza è soltanto un angolo della visuale senza alcuna priorità. Per il momento Guido della Veloira non si pone il problema e non conosce nemmeno Giampaolo, finché il fiato non si fa grosso nel correre e nel superare le persone per prendere il treno del metro che sta arrivando, ma senza sgomitare solo di agilità, anzi perfino disponibile a cedere il passo all’attempato claudicante e nonostante questo sempre per primo lì alla porta. Ma poi questi tempi finiranno. E anche adesso, che è nel pieno delle forze ma non lontano dagli affanni che tramano  nella penombra del risveglio, basta un incidente banale qualsiasi, che so un treno guasto, una giornata di sciopero del metro, uno che si butta sotto il treno per cancellare questa facciata olimpica di tranquillità e da sotto riemerge il solito banale urlo di sempre.

l’immagine è Freccia rossa di giovane artista milanese contemporaneo)

Ideafelix: un progetto di libri

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di Davide Orecchio

loniganSembra che i libri debbano darsi da fare. Non possono più accontentarsi di essere libri. Così, per restare nel mondo, i libri mutano. Alcuni perdono il potere della carta, e acquistano qualità digitali. Altri prendono la strada della socializzazione in Rete; capita in questi casi che il libro, che già di suo dovrebbe contenere tutte le storie possibili, divenga parte di una storia, o di uno storytelling intarsiato di status, post, video e immagini del quale il volume è solo l’innesco e poi appena un frammento. Altre mutazioni, le più frequenti, esulcerano nel protagonismo (virtuale, di network sociale) degli autori, che a volte aiuta il libro, a volte lo danneggia, a volte incoraggia i lettori ma può anche distrarli.

In altre circostanze, invece, il libro può diventare in dose non minima il motore di un progetto più ampio, e reale. È il caso di ideafelix (ideafelix.com), una nuova piattaforma editoriale aperta da pochi mesi che pubblica sei romanzi l’anno e che finanzia iniziative culturali o laboratori didattici nelle scuole, destinando loro il 20% del prezzo di copertina dei volumi, tutti in formato cartaceo e acquistabili direttamente dal sito.

«Abbiamo creato ideafelix – si legge nel chi siamo della piattaforma – perché vorremmo che l’esperienza legata alla lettura di un testo si trasformasse in qualcosa di funzionale alla nostra vita quotidiana. Così ci siamo chiesti: e se la vendita di un libro fosse anche l’occasione per finanziare dei progetti culturali o promuovere la creatività dei nostri figli? E se potessimo divulgare il messaggio: “Leggi una storia, realizza un progetto”? Oppure, al contrario: “Vuoi realizzare un progetto? Leggi un libro o chiedi ai tuoi amici di farlo”. I libri hanno finalmente una seconda vita: sono oggetti da leggere e sono oggetti che generano finanza da destinare alla realizzazione di altri progetti culturali».

Ideafelix è anche una piattaforma di crowfounding: chiunque può lanciare gratuitamente un progetto, condividerlo pubblicamente e ottenere un finanziamento collettivo.

Finora i romanzi pubblicati sono due. Scelte originali. Repêchages di autori e opere fuori catalogo non banali. Come  Studs Lonigan dello scrittore nordamericano James T. Farrell (1904 – 1979), primo capitolo (tradotto da Giuliana Villa) di una trilogia che negli anni Trenta del Novecento ebbe molto successo negli Stati Uniti, e ispirò, tra gli altri, Ernest Hemingway, Tom Wolfe, Norman Mailer, Kurt Vonnegut. «Attraverso i suoi libri – ha scritto Vonnegut di Farrell – mi ha mostrato che era perfettamente normale, e forse anche utile e bello, raccontare com’è davvero la vita, cosa si dice e cosa si prova veramente, cosa si fa, cosa succede»; e ancora: «Il suo lavoro è immenso. Balzachiano nella sua vastità. Se solo avesse prodotto una tale mole di opere in un paese più piccolo, avrebbe già vinto un Premio Nobel». Farrell, figlio di immigrati irlandesi, cresciuto all’inizio del secolo nei quartieri più poveri e violenti del South Side di Chicago, riporta alla vita quei luoghi col raccontare le peripezie del quattordicenne Studs e dei suoi compagni. La violenza, gli scontri tra bande, l’amore, il sesso, la povertà, la speranza e la paura del futuro escono dalla penna di un autore profondamente socialista.

Studs Lonigan ha contribuito a realizzare “L’alba della meraviglia”, un laboratorio di filosofia per bambini tra i 6 e i 10 anni in una scuola elementare. Leggiamo dalla descrizione: «Domandare in continuazione, cercare risposte sempre nuove e diverse, non accontentarsi mai dei risultati raggiunti: non sono forse queste le caratteristiche comuni ai bambini e alla filosofia? E allora perché non farli incontrare proprio nel luogo che la nostra società ha costruito per far sì che ciascun individuo cresca e progredisca nelle sue capacità intellettuali, affettive, morali, ossia un’aula scolastica?».

Il meccanismo ha funzionato. «Siamo molto soddisfatti – racconta Felice Di Basilio di ideafelix –. Siamo riusciti a presentare un circuito virtuoso in cui i libri generano finanza da destinare ad altri progetti culturali. Quindi il libro è diventato più forte, un vero protagonista. Ad oggi il romanzo Studs Lonigan ha finanziato il 60% del laboratorio didattico “L’alba della meraviglia” (sei classi su dieci). Ma avremmo voluto finanziare il 100%, quindi c’è ancora molto lavoro da fare».

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La seconda tappa (uscita: il 30 novembre) è La montagna ci cade addosso (traduzione di Valeria Lupo), dello svizzero Charles-Ferdinand Ramuz (1878 – 1947). Scritto nel 1934, il romanzo è ispirato alla frana che nel 1714 si staccò dal monte Diablerets, e – citiamo le parole dell’editore – si tratta di un’opera «lirica, dallo stile irregolare, magico e avvincente, che svela l’imperscrutabile e misterioso legame che unisce l’uomo al suo ambiente». Qui la protagonista, «l’eroina viva e pulsante, è una montagna, una creatura che parla e a cui gli esseri umani rispondono. Alle volte ride, fa brutti scherzi, gioca con il diavolo, e ha una sua chiara volontà».

Il romanzo finanzierà il progetto Radio Freccia Azzurra, curato dall’Associazione Matura Infanzia e rivolto a sei classi della scuola elementare e a una classe della scuola media: «Una web-radio scritta e condotta dai bambini: interviste impossibili, microstorie sonore inventate, lezioni in classe preparate da bambini e insegnanti come fossero un’équipe di ricercatori al servizio di una comunità che impara ad ascoltare. Un laboratorio di radio per trasformare la scuola, gli ambiti delle materie, il curriculo scolastico in un potenziale palinsesto radiofonico».

Spiega ancora Di Basilio: «Ideafelix vive grazie al coinvolgimento di una comunità, così come il libro esiste se incontra dei lettori. La nostra comunità deve crescere ancora molto, consolidarsi. Ogni progetto è una sfida molto impegnativa. Essere riusciti a finanziarne uno non assicura il successo di quello successivo. Così ogni volta che presentiamo il nuovo progetto e il nuovo romanzo è come iniziare tutto da capo. E per questo ci vuole molta lucidità e soprattutto un’ottima organizzazione. Il nostro primo romanzo non è stato distribuito nelle librerie, ma non è frutto di una scelta ideologica. Diciamo che il motivo è molto più banale: non abbiamo avuto tempo di organizzarlo. Siamo presenti in una libreria perché sono stati loro a proporsi. E’ la libreria Fahrenheit di Piacenza, il nostro primo amore. Adesso ci presenteremo in alcune librerie di Roma e con il tempo cercheremo di aumentare la nostra esposizione».

Ma non è semplice – conclude Di Basilio, «perché il modello ideafelix presuppone vendite certe in un lasso di tempo di circa due mesi. Quindi con le librerie stiamo cercando una formula commerciale che rispetti questa esigenza. Tutti i nostri interlocutori – l’utente, le scuole, le Onlus, i privati – vogliono sapere in tempo reale e nella più assoluta trasparenza quello che succede, come avviene in una classica piattaforma di crowfunding. Quindi complicato, ma si può fare».

Maldifiume

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logo-biblioteca-viandante-orizz(La biblioteca del viandante è una nuova collana diretta da Luigi Nacci per Ediciclo. Vuole accogliere opere scritte con i piedi sulla strada e la testa nell’utopia. Non testi d’occasione, non guide, non manuali sul camminare, ma libri-progetto,  che sappiano attraversare i generi con lo stesso passo con cui attraversano la realtà. E’ in libreria il primo volume. Direttore, editore e autrice ci regalano l’incipit. E noi li ringraziamo. G.B.)

 

di Simona Baldanzi

Il fiume non sta in un barattolo

Gli italiani mettevano tutto in un barattolo” mi disse un uruguayano di oltre novantanni una calda sera di febbraio sotto il pergolato della sua bassa e spartana casa. Santino, suo nipote, spremeva limoni, triturava il ghiaccio e ci passava i margaritas. Quell’uomo anziano, alto e snello, che teneva con una mano il bracciolo di una sedia in ferro e con l’altra il bicchiere tozzo e largo, iniziò a parlarmi dei primi italiani che conobbe, quelli che emigravano e arrivavano nel Sud America. Per lui gli italiani erano quel popolo che conservava tutto: pomodori, marmellate, confetture e passate di ogni tipo. Le parole di quell’uomo erano biascicate e impastate di alcol, limone e ghiaccio, faticavo a comprenderlo, le palpebre si chiudevano in un movimento lentissimo e ogni volta definitivo, un tempo e un gesto a cui non ero abituata, eppure lo ascoltai tutta la notte.

Quando ero arrivata a Pasos de Los Toros insieme a Caterina e Pia, facevano 42 gradi. Un caldo che aveva spento tutto: rumori, odori, movimenti. Le uniche cose vere sembravamo noi, noi che spingevamo la porta aperta di casa di Santino, noi che entravamo in una casa senza chiavi, noi che avevamo il permesso di sistemarci anche se non c’era nessuno. Posati i bagagli guardammo i colori alle pareti, i libri di Mario Benedetti, i pochi mobili, le tende con disegnati le nuvole e gli uccelli. Il caldo e quella sensazione del tempo fermo non cessavano e quando con le gambe madide provammo a darci lo smalto alle unghie e il rosso si seccava prima di distenderlo, decidemmo di uscire.copertinamal

I negozi erano chiusi, le strade erano strisce roventi di asfalto e non trovavamo nessuno. Individuammo un passante, che camminava svelto per scansare il sole, lo fermammo. Ci guardò con stupore e ci disse che erano tutti al fiume. Quale fiume? El Rio Negro. Ci indicò la via, oltre la scultura del grande toro che dava il nome al paese. Facemmo una ventina di minuti a piedi sotto un cielo accecante, di quelli che paiono che neanche il sole ci sia da quanto è scoppiato ovunque. Quando arrivammo fummo inondati dal verde, da ogni tono di verde e sfumatura e densità. Un alito di vento, un gorgoglio d’acqua, una risata. Tutto si mescolava, si confondeva e si dispiegava. Donne, uomini, bambini, anziani, stavano tutti lì. In acqua o sulle rive di quel fiume verde colmo di piccole alghe che parevano ci avessero versato tutte le scorte di mate, circondato di erba, alberi, macchia. Bevevo quello che vedevo, si placava la sete e il caldo. Ricordo ogni passo verso l’acqua più alta, la freschezza sulla pelle, i brividi, gli occhi di una bambina che guardava il mio pallore dilatarsi e galleggiare.

Avevo i capelli ancora umidi e intrisi delle piccole alghe del Rio Negro, quando il nonno di Santino posò sul tavolo un guscio di tartaruga. Lo aveva trovato intatto durante l’alluvione del Rio Negro. In ogni esagono c’erano incise date e numeri. C’erano le partite, le coppe, i goal più importanti. Seguivo il suo indice rugoso e sottile. La storia di quell’uomo vissuto da calciatore professionista in Uruguay stava tutta imbastita in quel guscio donato dal fiume.

Ancora non lo sapevo, ma il primo momento in cui ho iniziato a pensare a un viaggio lento lungo l’Arno, è stato lì, su quel tavolo in Uruguay, a migliaia di chilometri di terre e mari lontano da casa. Quel Rio Negro che mi aveva accolta a quel modo, bagnata e risvegliata, mi poneva tante domande. Cosa è per me il fiume? Cosa è l’Arno? Cosa è diventato? Come è cambiato? Noi italiani che mettiamo tutto nei barattoli, che prepariamo riserve, che siamo bravi a conservare, cosa ce ne facciamo oggi del fiume? Come viviamo il fiume che passa paesi, parchi, città, che si muove vicino a ferrovie, autostrade, che sibila sotto i ponti, che divide comunità in due rive, che attrae e spaventa insieme?

Le domande aumentavano, ma io non guardavo fuori, cercavo l’intimità, la mia storia, i miei fiumi.

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Tronismo di massa e sestessità scatologica: la cifra stilistica del populismo quotidiano, da Titti Brunetta a Lapo Elkann, via Maria Feliziani

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. La cosa che mi ha più colpito dell’intervista a Titti Brunetta è stata questa frase: “Non ho giocato, ero io con il mio animo, le mie passioni politiche, il mio impegno civile e i miei rapporti di affettività. Io sono Bea e porto nel cuore questa esperienza…”. Sembra una specie di brevissima ode all’autenticità. Ma è anche qualcosa di formulare, sembra quasi che Titti dica questa cosa con lo stesso mood che si ha quando si consegnano i documenti di identità a un poliziotto che li richiede: ecco, io sono io. Siamo in pieno Tronismo e, allo stesso tempo, nel cuore di un momento di verità altissimo. Il complotto del complotto è smascherato con la semplice frase: “io sono vera”. Voglio dire: questa vicenda, oltre a raccontarci di falsificazioni e algoritmi che saltano, ci rivela anche una delle fondamentali realtà del social network, ossia che, come mirabilmente spiega esemplificando David Cohn su Medium:

When I see content shared by a friend, I am not first learning about the world, I am primarily learning about my friend. Facts don’t matter. Truth does. Tim’s truth. Tim’s view of the world.

Si apre, da una ulteriore prospettiva, il grande capitolo della presunta distanza di tutto questo puffare dai fatti. Cioè: non c’è soltanto il porre in secondo piano l’effettivo accadimento, non c’è soltanto la confusione tra reale, vero e autentico; c’è anche che il telefonone, il social ecc. sono un fatto in sé ovvero cose che avvengono realmente, ma avvengono attorno a narrazioni, o quel che sono. Questi strumenti generano per definizione dei metadati rispetto alla realtà fattuale.

Anatole. vuoi dunque sottolineare vari addentellati della vicenda di cui parlavamo nella puntata scorsa con altre questioni che abbiamo trattato in quelle precedenti, a cominciare dal rapporto tra gesto di parola e fatti a cui faceva riferimento l’Economist e che Alessandro Lanni precisava, riconducendolo alla sua originaria matrice filosofica. E al contempo sottolineare che la Moglie di Brunetta (il sessismo dell’etichettatura si deve al fatto che è ormai per noi un complottema top) surfa l’onda del get real rappettaro nella chiave maccheronica del tronista, autentico, vero, non artefatto, dunque un non-complotto.

Lorenzo. sì voglio effettivamente far questo, sento che infine riusciremo anche a dire due cose sul posto che in questa ecologia occupano le bugie e i fascisti.

Anatole. Forse non siamo ancora abituati ad una situazione nella quale i fatti-fatti e i fatti che si autoproducono nel corso di una narrazione dei fatti sono parte dello stesso sistema reticolare che definisce la realtà abitabile.

Lorenzo. Va bene, e allora abituiamoci, alleniamoci a ragionarci sopra, i lanzichenecchi sono là, sulla linea dell’orizzonte, ma ci resta ancora un po’ di tempo.

Anatole. Cerchiamo ancora di distinguere tra un fatto ed un commento ai fatti, in una situazione nella quale, invece, il fatto-fatto è spesso prodotto dalla visione del mondo che lo dovrebbe commentare, secondo un ordine invertito del rapporto classico tra fatto e commento. Cioè, rendiamoci conto che è un po’ saltato questo rapporto gerarchico, col risultato che noi altri, filologi, storici, gente che vorrebbe ancora stabilire una concatenazione lineare e possibilmente gerarchica tra eventi e testimonianze, evidenze positive in genere, facciamo una gran fatica per elaborare sintesi delle quali non frega in realtà niente a nessuno. Ha ragione Cohn quando dice che «all acts center around identity creation and networking» e che «the entire news industry changed its strategy to accommodate this practice». Non stupisce che in questo contesto il metadato applicato ad un discorso diviene rapidamente dato esso stesso, anzi, a volte produce il dato, sfuggendo alle architetture di sistema controllabili.

Lorenzo. Sì, è un po’ il seguito di quello che si diceva commentando la frase di Dumbledore, in calce al lenzuolone su postverità e palllone sbagliato collegato alla riflessione sulla “guerrra di parole” che facciamo in “Da «sticazzi…» a «mecojoni!»”. A questo punto è necessario citare Vincenzo Marino e il suo “Bomberismo, troll e capre: ho cercato di capire se esiste un’alt-right italiana” uscito su Vice. Ci narra, fra le altre interessanti cose, del circuito dato-metadato scaturito dall’uscita di un video in cui alcuni nazisti facevano saluti nazisti-trumpisti durante un evento tenutosi a Washington D.C. a pochi giorni dall’elezione di Trump.

Il giorno dopo l’uscita di questo video, girato a una giornata di conferenze alt-right lo scorso sabato, hanno spiegato che i saluti nazisti non-ironici erano in realtà “effettivamente ironici”—sul serio).

Cioè questi dell’alt-right hanno detto questa cosa dell’ironia per dire che non sono nazisti, pur essendolo. La conclusione è che: “Una definizione precisa di alt-right è impossibile da stendere – sommersa com’è da strati di ironia, non-ironia e post-ironia”. il ché, a uso nostro, significa che il circuito è attivato, e stare su un “piano di realtà” significa considerarlo.

Anatole. Il conflitto in corso tra le élite e la massa può in un certo senso ridursi al fatto che la ka$ta vorrebbe mantenere il controllo della cosiddetta narrazione, mentre laggente vorrebbe il webbe libero dove può insultare chi le pare. Le élite, diciamo Iacoboni e Lotti per capirci, vorrebbero dimostrare che la massa è in realtà soltanto un transponder che replica in maniera eterodiretta le narrazioni prodotte ai rami alti del complotto, mentre laggente reclama un proprio protagonismo, una propria autenticità. Cioè, laggente dicono (l’anacoluto è ormai grammaticalizzato), noi non è che ti insultiamo a te ka$ta perché ci dicono di farlo, ma proprio perché ce fai schifo e nella Moglie di Brunetta, da questo punto di vista, troviamo un mirabile e emblematico role model. Il che ci riporta al «fact doesn’t matter» di Cohn, perché laggente non stanno parlando dei fatti, si stanno presentando, stanno reclamando un protagonismo, che il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e il giornalista de La Stampa hanno acquisito come un diritto. Il vero conflitto, se ci pensi, è qua: voi volete continuare ad essere qualcuno, mentre noi dobbiamo tornare nel nostro pallosissimo anonimato, così voi potete droppare i nomi degli altri opinion leader come voi, collusi con la finanza internazionale, durante le cene di Farinetti negli attici terrazzatissimi del centro, mentre noi non contiamo niente, perché la crisi ci ha fatto ricordare che non siamo grandi tennisti (con la racchetta di Decathlon) o avventurosi viaggiatori (low cost), come proviamo a farvi (e a farci) credere via Instagram. E qui viene su la pretesa di autenticità: non sarò Federer, ma, cazzo, sono autentico.

Lorenzo. Sì, esatto. L’esempio più drammatico è di quello che si suicida in diretta sul social network, fatto cui segue un commentario interminabile. L’esempio estremo è  invece, su FB, la pagina mai cancellata di chi muore: capita che l’algoritmo ti restituisca suoi post a qualche anno di distanza e ti mandi di fatto il messaggio che quella persona è morta, mentre il post diceva: “Oggi le emissioni di radon sono alle stelle, dormirò in macchina”. Questa cosa qui è un grande tema, che dovremmo sviluppare. In qualche forma ne ha scritto Costanza Jesurum, che di mestiere fa la psicoterapeuta junghiana, anche se forse lei non è d’accordo col fatto di averne scritto ma vabbene lo stesso e mi aspetto che si arrabbi perché l’ho citata a sproposito. Faceva l’esempio di Cosimo Pagnani:

che ammazza la moglie e ne scrive fiero e probabilmente allucinato su Facebook – e trecento persone o più esprimono il loro apprezzamento a “sei morta troia” aumentando le richieste di amicizia e commentando con vivo entusiasmo.

Nel post che cito Jesurum è impegnata a de-sociologizzare l’analisi della cosa. Facendo questo entra nei gangli di un meccanismo sul quale ragionare a fondo:

Possiamo decidere che sono tutti qualcosa – per esempio maschilisti – ma poi dobbiamo discernere i diversi possibili usi psichici di sei morta troia – che afferiranno a diverse soggettività e a diverse microculture possibili.

“Ci saranno i misogini […]”, osserva. “Ci saranno le donne che hanno una psicopatologia dell’identità di genere, e un problema doloroso con il femminile interno […]”, ma soprattutto (dal mio punto di vista) :

Ci saranno quelli che useranno l’omicida come un soggetto postmoderno ed estetico, che rappresenta il maschilismo interno, non la misoginia, essi – e credo che non siano pochi – scinderanno la realtà della morte la realtà dell’omicidio dalla frase, la annulleranno e la metteranno tra parentesi in modo da poter leggere nella frase “sei morta troia” la concretizzazione di quell’insulto che rispetti una distribuzione di poteri che si vuol e vedere nella realtà, l’uso simbolico in questo caso è leggermente diverso, perché la troia è una donna da punire in quanto libera, non da ammazzare in quanto donna. La differenza è di capitale importanza.

E infine:

Credo poi che ci siano persino certi, che abbiano assolutamente desoggettificato anche l’omicida, che l’abbiano trasformato in un giocattolo che lo abbiano come dire videogamesizzato. E credo che questo riguardi una discreta percentuale di quelli che gli hanno chiesto l’amicizia. In questo caso l’oggetto simbolico da manipolare psicologicamente non è il femminile morto, ma il maschile vivo. E il problema potrebbe essere con quel maschile vivo che su internet viene improvvisamente proposto come animale da circo, come foca che salta nel cerchio. Vediamo che cosa fa? Vediamo come si comporta? Se si pente, se si suicida, se va al gabbio se mostra i muscoli se sputa al giudice. In alcune delle reazioni a questa funesta vicenda io ho psicologicamente visto anche questo uso simbolico del misogino cioè : l’oggetto da denigrare con violenza per un problema con il proprio maschile.

Ritorniamo alla monotonia della vita del – come lo abbiamo chiamato? – microborghese promosso dal debito pubblico col telefonone sottoutilizzato ecc ecc. In sostanza nella vita non succede una mazza e a quel punto il metadato serve, eccome, per non dirsi quanto ci si sta annoiando. Si prendono questi metadati, che sono alla dovuta distanza, e ci si fa un po’ la qualsiasi: diventano dati. E, per riallacciare il nodo con la puntata precedente: più il titolo suona “mecojoni” più il metadato/dato acchiappa.

Anatole. Certo questa faccenda che menzioni dalla Moglie di Brunetta (stavolta maiuscolo in quanto Archetipo dell’Inconscio collettivo, nonché candidata a Best Complottema 2016) finiamo fino dalla Sciarelli o dalla Leosini, o da tutt’e due, scivolando dallo spoof del film di complotto a quello dell’intrigo thriller scabroso. Ma forse possiamo fermarci a metà strada con la faccenda Boldrini. Nel giorno in cui si tematizza la violenza maschile sulle donne, venerdì 25 novembre, la Presidentessa del Senato pubblica su twitter i nomi e i cognomi di un campione simbolico delle migliaia di molestatori che le rivolgono ormai da anni insulti sessisti sui social network:

 

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Si tratta solo di un piccolo campione, rispetto al quale “sei morta troia” pare quasi poca cosa, in effetti, o comunque parte del medesimo orrore misogino che, come dice Jesurum, è accomunato da una comune matrice maschilista patriarcale, ma sicuramente si articolerà in diverse modalità soggettive afferenti a diverse culture (poi diremo anche ‘sticazzi, bisognerebbe soltanto internarli tutti in un campo di lavoro in Siberia a spalare uranio, ma questo attiene al campo delle soluzioni).

Lorenzo: è da notare quanto questa cosa la si sia capita, in certi contesti. Ieri mi segnalavi questo articolo molto interessante al riguardo, dal titolo: “One by One, ISIS Social Media Experts Are Killed as Result of F.B.I. Program”. Quella che l’FBI chiama “The Legion” è la ormai quasi sconfitta task force dell’ISIS che lavora(va) attorno ai social network: “a band of English-speaking computer specialists who had given a far-reaching megaphone to Islamic State propaganda and exhorted online followers to carry out attacks in the West”. La “Legione” era (e parzialmente è tuttora) in grado di ispirare attacchi da parte di persone che si collegano all’ISIS nelle forme raccontate da Jesurum. Quale altro tipo di legame aveva con l’ISIS reale la coppia di attentatori di S. Bernardino, o il camionista di Nizza, o la guardia privata di Orlando. E cosa li distingue, nel loro approccio al reale, da un ragazzetto tedesco-iraniano, soggetto a bullismi, che spara contro tutti i suoi coetanei a Monaco o a un Anders Behring Breivik? Praticamente nulla, e di certo non una genericissima e financo sbadata affinità confessionale, visto l’esito macroscopico dei loro deliri. Sono invece tutti uguali proprio nella macroscopicità della risposta che danno a loro problemi specifici, che sono i veri motori dell’azione. Per dirla con Jesurum: le loro microculture. In tutto questo l’FBI l’ha capita benissimo, questa storia, e ha proprio un programma il cui scopo è eliminare fisicamente chi – nelle fila dell’ISIS – ha la capacità di ingegnerizzare questa roba qua per poi renderla fruibile in termini di propaganda. Cioè chi è capace di trasformare un camionista, un ispettore del Dipartimento sanitario, una guardia privata in un “soldato dell’ISIS”. Al-Qaida nella Penisola Araba – in un’epoca ormai lontanissima, il 2010 – aveva dato al suo magazine online in inglese il nome Inspire. I “figli” di quell’esperienza lì hanno capito che bisogna connettere quelle ispirazioni ai microproblemi di quattro disadattati. Ora: l’FBI ha capito questo fatto. Sarà ora di capirla anche noi.

Anatole. Be’, questa l’abbiamo capita.

Lorenzo. Ok, allora andiamo avanti, sento che approfondendo il caso Boldrini, possiamo portarci un passo oltre.

Anatole. Si nota a prima vista che gli insulti sessisti sono anche contestualizzati dentro fake news, come quella dei festini e dei pompini a Smaila, per dire (ma centinaia di altre affollano i social network) o chiamano in causa razzismi demodé, come quello nei confronti degli albanesi, che non sbarcano più sulle nostre coste da quindici anni, anzi emigriamo noi da loro. Se da una parte i populismi correnti si nutrono di complottismo per collegare fatti irrelati, dall’altra scaricano merda nel discorso pubblico per fare intrattenimento a partire da spunti che, di per loro, sticazzi veramente. Potendo mischiano le due cose, come è capitato appunto con Boldrini e più e meglio ancora negli USA con la Clinton.

Lorenzo. una specie di grosso contenitore con su scritto “Boldrini” nel quale sembra legittimo sversare veleni anacronistici inoculati in cellule le cui pareti sono costruite di falsi macroscopici. Un’operazione, quella del contenitore, che rende possibile l’interazione (insultante) di individui i quali, isolatamente, non potrebbero che stare zitti. Ma non per questo non penserebbero quello che dicono.

Anatole. Dall’altra parte Trump se ne va tranquillo e beato al NYT a prenderli per il culo sul loro registro, facendo apparire i giornalisti della maggiore testata del mondo come una banda di mistificatori spocchiosi, criticoni liberal, arroganti ed elitari. Anche in questo la caratterizzazione professionale di Grillo si riscopre in maniera certo più costruita ed artefatta nella campagna elettorale del nuovo Presidente americano. Con tutta evidenza le leadership populiste non hanno interesse a rendersi immuni rispetto al discorso satirico, piuttosto mirano a rivolgerlo con forza doppia e contraria contro chi si fa beffe di loro, in considerazione del dilettantismo che portano in campi un tempo altamente professionalizzati, come quelli della cronaca e della politica.

Lorenzo. Qui sta un punto importante perché scopriamo che la sinistra non ha più neanche più la penna per opporsi a tutto ciò.

Anatole. Su questo voglio essere molto chiaro. Dopo aver teorizzato per cinquant’anni appresso a Bachtin che proprio la scatologia sarebbe l’arma con la quale il popolo combatte l’ordine costituito del potere, la sinistra non riesce ad arginare l’ondata di merda sollevata dal maremoto populista, capeggiato da istrioni, giullari o figure che ne scimmiottano le caratterizzazioni stereotipiche. In particolare soffre l’appropriazione della scatologia da parte della gente qualunque, perché la sua collezione di deiezioni scatologiche indirizzate al membro della casta è piuttosto ruvida, rabbiosa, volgare in un senso che non conserva nulla della sua etimologia e risulta piuttosto borderline col più classico fascismo.

Lorenzo. E la cosa lascia molti in uno stato di anomia profondo.

Anatole. E invece questo dato, già collegato a precisi e documentati atti di parola, era già lucidamente osservabile e commentabile un paio d’anni fa’:

Il Giullare Premiato [Dario Fo], dona al Comico con la Barba [Beppe Grillo] la scatologia magica grazie alla quale la spada in duronio dell’esercito di giocatori di ruolo acquisirà la forza necessaria a scardinare e sovvertire il potere della casta. Il Giullare premiato ha una certa età ed ha capito fino a un certissimo punto quello che sta facendo: percepisce chiaramente che il suo gesto è forse coerente rispetto al suo percorso di ricerca, ma fino a un certissimo punto rispecchia davvero le finalità originarie della sua ricerca, quando ad esempio recitava il Mistero Buffo nelle carceri di fronte ai figli del proletariato che volevano fare la rivoluzione. Cioè, in sintesi, il Giullare Premiato si è perso una decina di stagioni di Grande Fratello, dunque non ha capito che il suo tentativo di sovversione è stato riassorbito dalle forze che combatteva e rivolto proprio contro quei ceti che egli ambiva a rappresentare e promuovere, ma è normale che a una certa età si perda di aderenza al contesto.

La distanza che separa il Mistero buffo dalla scoreggia trasparente dei nostri disgraziati eroi emerge in tutta la sua chiarezza dall’ormai classica raccolta di ingiurie a Maria Novella Oppo, giornalista dell’Unità dal 1973, additata al pubblico ludibrio sulla bacheca digitale del Comico con la Barba, che, come si è detto, dà la linea. Secondo lo schema che si è provato ad illustrare, si capirà bene senza neanche andarlo a rivedere, che questo giochetto non può funzionare, primo perché Bachtin aveva ragione fino a un certissimo punto (Rabelais era un chierico, non il primo stronzo che passava in mezzo alla strada), secondo perché, sottratta allo spazio carnevalesco della sovversione, la scatologia determina un cortocircuito estetico piuttosto disturbante. Ma già che ci siamo, andiamocelo a rivedere, dai: http://www.youtube.com/watch?v=uKAXfZzePbM.

Lorenzo. Ricollegando questo simile caso a quello odierno, il fatto che Boldrini abbia chiesto la rimozione da FB e TW degli insulti sessisti mostra con tutta evidenza la difficoltà che la sinistra dimostra quando si tratta di interagire con la violenza populista, impropriamente mascherata da discorso satirico.

Anatole. Ed è penoso che anche persone intelligenti indulgano in questa forma di snobissima corsa alla banalizzazione suscitata dall’articolo di Repubblica che ha regalato un ulteriore momento di protagonismo a questa Maria Feliziani, che se si vergogna di essere esposta per quello che è, fa solo bene. Perché al di là dei sofismi io non capisco proprio come il cosiddetto analfabetismo digitale possa giustificare il fatto che copri di ingiurie sessiste una donna mille volte più figa di te, che può anche permettersi di essere antipatica quanto cazzo le pare. E nessuno mi toglie dalla testa che quegli insulti a Boldrini siano solo il riflesso di un’incultura patriarcale maschilista demmerda, da qualunque parte vengano. Per dire, esce oggi sul Washington Post un sondaggio commissionato dalla EU, secondo il quale circa un europeo su quattro reputa lo stupro accettabile in determinate circostanze, con punte del 55% in alcuni stati membri. Siamo così sicuri che sia un problema di analfabetismo digitale? Non sarà per caso qualcosa di più profondo e radicato nella storia della nostra cultura che tramite la rete affiora più facilmente in superficie? 

Lorenzo. Sì, è capitata una cosa molto simile nei giorni seguenti ai fatti di Gorino. Quest’ansia di dover ricomprendere Laggente Del Polesine (che si-rendeva-conto-di-aver-sbagliato) in un’epopea nazionale così rimasticata da far venire il voltastomaco, dando così una romanella di fascismo a tutti noi, E ancora prima era successo a Fermo, dove il nazista assassino di Emmanuel Chidi Namdi alla fine è diventato l’eroe definitivo della curva, da allora in poi coscientemente razzista, mentre un intero ecosistema di giornali locali gettava fango sulla vittima.

Anatole. Prendiamo un giovane del ‘92, tipo quello che figura nell’ormai celebre scrinsciotto della Boldrini, quello che vorrebbe passare un giorno con lei per mutilarla e farla soffrire prima di farla morire male. Ma veramente ce lo vogliono spacciare per una analfabeta digitale? Vive dentro al telefonino, articola tramite whatsapp, ma quale analfabeta digitale!? Magari analfabeta e basta, di sicuro uno stronzo, probabilmente una merda fascista. E se sei una donna che dai della troia handicappata, anche senza h, di sicuro hai un’alfabetizzazione precaria in assoluto ed un correlato problema di deficit culturale pure.

Lorenzo. Peraltro è facile fare l’umanizzazione dell’ingiuria sessista passando dalla signora che raccoglie le verdure nel campo e si vergogna della sua rabbia repressa (manco più, grazie ai social network). Proviamo a farla intervistando il decerebrato del ‘92 e vediamo se non viene fuori un altro discorso. Ha ragione qui Jesurum, quando dice che non si può prendere un elemento del sistema e generalizzare, perché il concetto generale va poi declinato in tutte le sottoculture dalle quali scaturisce, altrimenti santifichi la povera donna analfabeta digitale, dimenticando che per il suo insulto ne puoi contare un milione di altri che provengono da matrici completamente diverse. E da questo punto di vista è proprio il presunto “giornalismo d’inchiesta” che si trasforma in sciacallaggio, non il fatto che la vittima delle aggressioni denunci i suoi aggressori. Dunque che c’è il ragazzino che inventa bufale razziste per farsi la paghetta. Ma sappiamo anche che il giorno dopo il ritorno a casa dell’assassino Amedeo Mancini, gli ultrà del Fermo espongono questo striscione qui:

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La cosa avviene dopo che – proprio a causa di questo processo che descrivi – da “razzista/fascista”, Mancini era stato “ripulito”, viste le sue origini “popolane”, per diventare un “ultrà”.  Qui la stampa aveva fatto ciò che i nazisti di Washington si erano autocostruiti. Lì entrava prepotentemente il tema della bucìa vera e propria, che viene sdoganata come elemento di verità (non siamo nazisti), la quale verità è falsa (perché in effetti sono dei nazisti). Ma, a pensarci bene, anche in questo caso siamo di fronte a una bugia strutturale e strutturante. La qual cosa, occorre ricordarla, è una costante storica del fascismo – parliamo di un mix di arroganza e di vigliaccheria, con l’attitudine a fare branco a fare da eccipiente.

Anatole. Possiamo insomma osservare, e questa è la parte che ci interessa, che, così come il culturalismo post-modern, anche la teorizzazione dei registri scatologici della letteratura popolare sia ritornata indietro tipo boomerang per colpirci dove non batte il sole. Paradossalmente, mutatis mutandis (e sperabilmente anche le mutande, considerata la natura della metafora in questione), ci si ritrova in una posizione non dissimile da quella dei militanti del cosiddetto islamismo radicale, anche se la differenza di codice è patente. I dileggiatori dilettanti, laggente che insultava Oppo e oggi ancora insulta Boldrini, sono e sempre resteranno (l’anacoluto è ormai grammaticalizzato) un branco di individui carichi di rabbia repressa, sessisti e misogini, mentre Charlie Hebdo è un giornale satirico, che ti può divertire o far schifo, con una responsabilità collettiva di carattere non solo legale, ma anche culturale. Ora, nel momento in cui il populismo corrente fa decadere la differenza tra questi due soggetti e tra i codici che sostanziano il loro agire, ecco che se non «stai allo scherzo» ti si sventola davanti che allora jesuisciarlì? Cioè, facevi tanto il difensore della libertà di espressione quando si trattava dei tuoi amici troskisti che dileggiano il pensiero religioso, mo’ che tocca a te invece sarebbe diffamazione? Il populismo dimostra da questo punto di vista la sua natura proto-fascista, mescolando i codici e cancellando le linee di confine che demarcano la differenza tra un genere espressivo e l’altro. Se non sei un comico, non stai facendo satira, stai soltanto insultando una persona. Non c’entra niente la libertà di espressione. L’autenticità del discorso scatologico ti qualifica davvero come testesso, cioè come una vera merda. Diciamo che diventi il testimonial del discorso scatologico che stai formulando, identificandoti con esso, presentandoti come la sua forma patetica.

Lorenzo. Poi è anche vero che quando il segretario FNSI dichiara alla Camera che “La rete messa a disposizione di qualsiasi cittadino può diventare un’arma letale” dice un’altra cosa ottusa. Non è un problema di rete, non è un problema di veicolo espressivo, quanto piuttosto di contenuti espressi, dei quali ci si preoccupa sempre meno per le ragioni che stiamo dicendo da mesi, che cioè c’è un prevalere del discorso mediatico, ingegneristico e sociologico quantitativo su ragionamenti di sostanza relativi a chi siamo veramente, cosa pensiamo, perché lo pensiamo e come lo diciamo. E, se valutiamo questi aspetti, ci rendiamo immediatamente conto che non possiamo ridurre tutta questa questione ad un problema di conversational divide, come fa Giovanni Boccia Altieri. Che mi significa proporre “percorsi educativi e di socializzazione” per “analfabeti digitali”? Se quelle persone avessero detto le stesse cose in contesto non digitale non le avremmo forse viste ma la gravità del loro dire non sarebbe minore. Togliendo il “digitale”, sarei d’accordo con Boccia Altieri. Parleremmo della scuola, di come farla funzionare di nuovo. Per di più all’indomani di cose terribili come Gorino o Fermo ecc., si cerca in tutti i modi possibili di mettere questa polvere sotto al tappeto e la cosa è quantomeno irresponsabile.

Anatole. Alla fine mi pare chiaro, ma è anche ovvio, che il divide digitale non può che essere parte di un più articolato discorso sul divide culturale. Non ci crederò mai che se adesso spieghiamo alla signora sessantenne come si usa facebook, allora ecco che la smette di dare della troia alla Presidentessa della Camera. Cioè, magari lo fa, ma il problema rimane, perché l’odio a quel punto represso dove cazzo lo metto? Sotto al tappeto pure quello? Da qualche parte mi salta fuori, non ci sono argini che lo tengano più. Specialmente quando i soggetti in questione sono meno apparentemente innocui e santificabili.

Lorenzo. Esatto. Ma ecco, ecco. In diretta dalla Camera dei Deputati su queste cose che diciamo noi, C’è Walter Quattrociocchi, c’è Boldrini. Anche Boccia Altieri. Be’, che dire? Qualcosa succede.

Anatole. Che se ne parli in sedi istituzionali è già qualcosa. La Boldrini dice, giustamente secondo me, che il problema non è l’odio, ma cosa ce ne vogliamo fare. L’odio non lo puoi eliminare, e di questo dobbiamo parlare in una puntata sulle emozioni che il discorso pubblico veicola, ma certo conta cosa te ne vuoi fare. Se vuoi camuffarlo da sberleffo, sperando di demistificarlo in questo modo, se vuoi cavalcarlo per vincere le elezioni, se vuoi provare a trasformarlo in un altro sentimento meglio spendibile e più costruttivo da un punto di vista della crescita delle dinamiche sociali. Di sicuro non si può parlare solo del mezzo che lo veicola, santificandolo o demonizzandolo, né profilare gli utenti inconsapevoli come fa la stampa del sensazionalismo d’inchiesta. Così rimani dentro la spirale dell’ignoranza, anzi la alimenti. Alimenti soprattutto quel protagonismo che ti fa sentire un sacco autenticamente testesso quando alzi i toni dello scontro, quando sale la temperatura del confronto, come capita nei talk show, oltre che in rete, ma anche un po’ sempre nella vita, indipendentemente dal mezzo.

Lorenzo. Sì, è necessario ritornare al punto delle emozioni, facendo tesoro di tutto questo, e con la consapevolezza che sì, ci abbiamo abbastanza preso. Il nostro scienziato di riferimento, Walter Quattrociocchi, con il suo Pandoors non andrà a caccia di fake ma di “temi sensibili”.

Anatole. La potremmo fare lunghissima, ricominciando con Lapo Elkann, massacrato per tutto il giorno da commenti omofobi, sessisti, qualunquisti, la somma dei quali dà bene la misura di cosa si possa intendere per populismo oggi.  Diciamo che a lui con la post-verità j’è annata male e chiudiamo qua?

Lorenzo. La simulazione di sequestro è troppo sgamata, almeno da Fargo in poi.

Anatole. Deve pigliare un addetto stampa che gli aggiorni le narrazioni.

Lorenzo. Che altrimenti parte il delirio scatologico.

Anatole. Ma de brutto proprio. Mettiamolo nel titolo per fare clickbaiting populista.

Lorenzo. Chi va cor zoppo…

Anatole. Ampara a zoppica’

Sentire voci, inventare lingue. Le narrazioni di Amitav Ghosh.

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di Anna Nadotti

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«Parole! Neel era dell’opinione che le parole, non meno delle persone, fossero dotate di una propria vita e di un proprio destino. Allora perché non c’erano astrologi a studiarne il kismat e a predirne il fato? L’idea che avrebbe potuto essere lui ad assumersi tale compito gli venne all’incirca all’epoca in cui cominciava a guadagnarsi da vivere come linkister – vale a dire durante i suoi anni nella Cina meridionale. Da allora, per molti anni, prese ad annotare regolarmente le sue divinazioni sul fato di certe parole.

da “Semivalori”

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di Virginie Poitrasson

 traduzione dall’originale francese di Robert Rüegger

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avrebbe potuto essere una grammatica

una grammatica delle verosimiglianze

La letteratura garibaldina: la retorica dell’antiretorica

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preziosi_25_9788898007608_0   di Luigi Preziosi

 

 

 

 

 

Lo sforzo di contenimento dell’enfasi retorica non comporta comunque una degradazione del tono epico della narrazione. Piuttosto, i racconti dei memorialisti garibaldini costituiscono un corpus che nel complesso esprime una forma di epica abbastanza coerente e piuttosto riconoscibile. È un’epica domestica, e al tempo stesso quasi un’ammissione di modestia.

Non cercare l’uomo capra – Irene Chias

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Anteprima del nuovo romanzo di Irene Chias

(Estratto dal capitolo « Le lettere di Assane »)

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Ma chère Simona,

questo è un messaggio di auguri per le tue nozze, che mi ha annunciato Luisa.

Oltre agli auguri più belli e all’elogio per il tuo coraggio, voglio darti alcuni consigli, che poi pensandoci bene si riducono a uno: non dare niente per scontato, e cerca, per quanto puoi, di fare in modo che neanche lui lo faccia.

Ho lasciato il Senegal a ventun anni e oggi mi rendo conto che se sposassi una senegalese, sarebbe un matrimonio misto anche per me. D’altra parte, con la moglie italiana che ho avuto, non era forse un matrimonio misto? Quindi forse il matrimonio è comunque misto, perché vi si incontrano e spesso scontrano due persone e quindi i due differenti universi che ciascuno ha costruito dentro di sé. È vero però che questi universi possono essere più o meno discordanti.

C’è ad esempio una cosa che per noi africani, almeno per gli africani delle mie parti (c’est-à-dire Senegal, Gambia, e direi anche Mali), non è tollerabile e che qui sembra invece normale. E devo ammettere che non mi ci sono ancora abituato, anche se misurando il mio tempo si vede che ho trascorso una porzione molto più ampia di vita in Europa che in Senegal. La cosa è questa, ma chère Simona: l’aggressione fisica delle donne nei confronti degli uomini. I ceffoni che si vedono nei film, ma anche i pugnetti ridicoli e impotenti dati per sfogare rabbia più che per fare male. Quando ci capitava di vedere dei film europei o americani a Dakar, prima che venissi in Italia, ricordo che restavamo disturbati da scene in cui una donna aggrediva un uomo. È una cosa che noi non tolleravamo. Ora non so come sia, ma a me è rimasto questo tabù. Perché, se per noi un uomo che picchia una donna è motivo di vergogna, una donna che picchia un uomo è proprio questo, un tabù.

Un tabù simile a quello che viene infranto quando in un film, o anche nella vita, sento un figlio che dice al padre o alla madre frasi come “sei un bugiardo” o “sei una bugiarda”. E lo stesso vale per i fratelli maggiori.

Questo, Simona, solo per dirti che potresti sorprenderti nello scoprire quante cose, che per te sono ordinarie, per tuo marito potranno essere lame acuminate che lo feriranno, e quante cose per te assurde e crudeli per lui saranno normali.

Noi africani, e soprattutto quelli dei piccoli villaggi, abbiamo l’ansia del controllo sociale. Beneficiamo dei vantaggi che questo controllo ci dà, della solidarietà, dell’assistenza, anche della sicurezza. Ma certamente paghiamo un prezzo in termini di discrezione.

Uno dei miei migliori amici dopo il mio arrivo in Italia era gambiano, si chiamava Tidiane. Parlavamo la stessa lingua, il wolof, ma io lo facevo inserendo parole francesi, lui inglesi. È davvero strano quello che succede con i gambiani. C’è uno stesso popolo, con la stessa religione e la stessa lingua, spesso sono membri di una stessa famiglia che nell’Ottocento è stata separata da una linea dritta e irreale tracciata da un francese e da un inglese. Diresti che è una linea immaginaria disegnata su una carta e che quindi non ha alcun effetto sulle persone che invece stanno sulla terra. E però non è così. Io posso testimoniare la differenza fra i gambiani e i senegalesi. Certo è minore e trasversale rispetto alla differenza fra la gente di campagna e la gente di città, eppure c’è. A Banjul, ad esempio, sono molto più pragmatici che a Dakar. E parliamo di due capitali. Ci sono differenze rispetto a noi che io collego alla presenza anglosassone. Ma parlo di persone che hanno fatto le scuole, che sono le scuole dei colonizzatori. Per me il rapporto con i gambiani è la dimostrazione di come la colonizzazione ha plasmato la nostra identità, anche se ci si illude di aver recuperato qualcosa di “precoloniale”che ovviamente non esiste più e si può solo inventare.

Non so che fine abbia fatto Tidiane. Partì per la Germania alla fine degli anni Ottanta, amico mio.

Le linee che separano Gambia e Senegal erano artificiali ed espressione di una ripartizione casuale della nostra terra. Ancora oggi non ci sono gambiani che non abbiano un parente in Senegal. Eppure, come ti dicevo prima, chère Simona, oggi le differenze ci sono. Siamo stati brevemente uniti anche amministrativamente, fra il 1982 e il 1989 formavamo la confederazione di Senegambia. Doveva creare una maggiore cooperazione fra i due paesi, ma poi venne dissolta da Dakar perché il Gambia si rifiutò di andare avanti nella progressiva unificazione.

So che tuo marito è mandingo e viene da un piccolo villaggio, probabilmente non ha neppure fatto le scuole, e questo sarà un ulteriore fattore di distanza fra di voi. Ma c’è un’altra cosa piuttosto triste che riguarda il Gambia e tutti i gambiani, o almeno questo è quello che ho capito da alcuni di loro: si trovano di fatto sotto una specie di dittatura. Quindi c’è un altro elemento da tenere in considerazione: molti gambiani che vengono in Europa fuggono da un presidente di cui hanno paura. Jammeh prese il potere con un colpo di stato quando non aveva ancora trent’anni. Era il 1994 e finora nessuno lo ha smosso da lì. Pare sia anche colpa sua se in Gambia non si studia, non ci sono università importanti, non c’è scambio. E forse è in parte anche un’eredità dell’occupazione inglese, quasi esclusivamente commerciale, che non ha lasciato strutture importanti per i cittadini. Ma stabilire le colpe in situazioni come questa è un’operazione talmente complessa che in questo momento preferirei chiuderla qui.

Prima di lasciarti però, mi preme parlarti di un altro elemento di tristezza, e questo riguarda più o meno tutti quelli che lasciano la terra in cui sono nati e cresciuti: dover abbandonare i propri cari. Vedere i propri genitori invecchiare è triste, ma non triste quanto non vederli invecchiare. Così come veder morire i propri cari è doloroso, ma lo è molto di più non essere lì quando ci lasciano, non aver condiviso con loro gli ultimi momenti della loro vita. Prova a tenerne conto, chère Simona, quando qualche volta tuo marito ti sembrerà scontento o nervoso e tu non capirai perché.

Concludo questa lunga lettera sul Gambia, sui wolof, sui mandingo e su me stesso, rinnovandoti i miei auguri più sinceri, perché i matrimoni sono tutti misti, ma alcuni lo sono di più.

 

Ba benen yoon

Assane Diouf

 

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Irene Chias, siciliana, vive a Milano. Nel 2010 è uscito per Elliot il suo romanzo Sono ateo e ti amo. Nel 2013 Mondadori ha pubblicato il suo Esercizi di sevizia e seduzionevincitore nel 2014 del “Premio Mondello Opera italiana” e del “Mondello Giovani”. Suoi racconti sono apparsi su Granta Italia, su Nuovi Argomenti, sulle pagine siciliane di Repubblica, su diverse antologie. Per Non cercare l’uomo capra, lo scrittore della migrazione Pap Khouma ha scritto la postfazione “Le Afriche inconsce che ciascuno ha dentro”.

les nouveaux réalistes: Anna Maria Carpi

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Srewot niwt

di

Anna Maria Carpi

                      

Cara Fatima, la dolcezza di questo paesaggio m’incanta. Case, alberi, vigne, frutteti, colori teneri, segni di pace. E poi amo viaggiare in treno, oziare col tempo davanti, e al tramonto rientrare in una pianura lasciandomi alle spalle il mare, e questa pianura arriva lontano, mi pare, fino alle Alpi, quelle alture che la orlano, lontano, a nord, sono, credo, già loro. Allah è grande.

Siamo in pochi, gente d’affari, come me, che ogni tanto telefona, sottovoce, per poi tornare alle sue carte, ai giornali. I giornali, eh? Titoli che bucano la pagina.

Alla stazione distribuivano gratis un giornaletto, e l’ho preso, anche quello: con l’uomo in giubba di carta gialla che lo distribuiva, ci siamo guardati un attimo negli occhi. Un orientale, forse indiano, pelle bruna, occhi neri come me, un remoto parente. Tra poco, forse, invece di affidargli questi lavoretti, li arresteranno, per motivi di sicurezza. Fratello, stavo per dirgli, tieni duro, che la riscossa arriverà. Invece gli ho gettato uno sguardo dall’alto: ogni paria non spera che verso l’alto, e non bisogna defraudarlo di questa speranza.

Anche questo foglio porta una piantina di Manhattan, coi colossi andati in briciole. Me li ricordo benissimo, per tutte le volte che ci sono passato, ma le piantine mi attraggono di per sé, come ogni carta geografica. Ci potrei star sopra delle ore, la terra in piccolo mi allarga gli occhi, il cuore, la misericordia e la ferocia.

Sintomatico che le due strade sul lato sud e ovest si chiamino Liberty Street e Church Street. Vogliono avere tutto costoro, libertà e religione, e questi giorni, dice la CNN, d’un colpo, dopo decenni di vuoto, le chiese hanno traboccato di devoti. Bella la foto in prima pagina – “Il day after” coi resti delle due torri: carcasse di balene preistoriche. Uno come me deve cavarsela con più lingue, e quel po’ d’italiano che capisco credo di doverlo al latino, a un mio caro amico che lo studiava, al college, in Inghilterra.

Giusto annunciare a caldo che il prezzo dei biglietti aerei aumenterà – per via dei maggiori controlli da eseguire d’ora in poi su ogni volo. Così si chiude la bocca ai clienti che, si capisce, vogliono volare sicuri, e la gente non registra che le astute compagnie non hanno perso un colpo, già si sono rifatte sfoltendo il personale. Anche i licenziati proveranno un’ineffabile sicurezza. Ma “Decisiva nel futuro sarà la fiducia dei consumatori”. Che continuino a consumare e a indebitarsi, crescete e moltiplicatevi. Lacrime negli occhi, il festival di Toronto e le sfilate di moda a Milano e a Parigi sono confermati, perché, dicono, sospenderli farebbe solo il gioco del nemico. In che senso? Chi lo sa. Lo sport: c’è chi sospende le gare e chi no, dipende dai conti. E gli artisti?

Questi sono gli eroi dell’Occidente. E in fondo pagina pubblicità di film: su sei film quattro hanno il titolo in inglese. Servi dell’America! Questi venduti che non sanno che le parole sono le cose, la propria anima, la sua salvezza eterna.

Notiziole marginali in coda: la barriera corallina sta morendo soffocata dai veleni e dai rifiuti – i loro sacrosanti rifiuti – e i boschi nel Portogallo bruciano. Semplice, dico io: metti a morte gli incendiari. Ma loro non ci pensano, sono teneri, confusi. Mi dispiace per il Portogallo: ci sono stato, una volta, quand’era ancora povero e selvaggio e a Lisbona e a Oporto, davanti all’oceano, si poteva ancora sognare di quando il Nuovo Mondo non era ancora stato scoperto.

mondoTo’, nella tasca sotto il tavolino c’è una rivistina delle ferrovie italiane: in tutto uguale a quelle delle compagnie aeree che te la fanno trovare nella tasca della poltrona. Odio, lo sai, la carta patinata e l’aggressione dei colori: non mi lasciano pensare. C’è un servizio che fa ridere ancor prima di leggerlo: “Carne reale: i signori della bistecca, del pollo e del maiale”. E il servizio sulla moda del prossimo inverno? Un po’ di mogli di sceicchi verranno di nuovo a fare shopping nelle capitali europee. A rigore, andrebbero frustate. Se chiudo gli occhi e penso a te, alla tua eleganza nativa, a com’è bello stare a guardare, mia Fatima, mia Dudu, mentre rapida, leggera, ti vesti e svesti sempre degli stessi panni. Ma, tu lo sai, ai particolari della realtà, anche ai più miserabili, io non dico mai di no, mi ci caccio dentro, potrei farne indigestione, come della pasta di mandorle. E qui c’è fotografato un uomo-donna, copricapo da guerriero del Sol Levante, seni nudi sotto una giacca di patchwork coi polsi di volpe, bisaccia da nomade, ombelico di fuori e pantaloni da cowboy con smaccate frange, rosso e verde, che arrivano appena sopra il pube. Vedi, non gli basta più essere uomo o donna come natura li ha fatti, vogliono la libertà di essere l’uno e l’altro, androgini, a capriccio…Sindrome da figli unici. E io che sono figlio della decima moglie di mio padre e diciassettesimo dei suoi cinquanta figli…

Uno speaker annuncia che stiamo arrivando nella stazione di…Verona, sì Verona, e invita la gentile clientela giunta a destinazione a non dimenticare i propri oggetti e bagagli a mano. Mi colpiscono sempre questi riguardi. E’ civiltà? No, sono solo le piccole incontinenze emotive di una società di bronzo, di pelo sullo stomaco e di corse agli ostacoli.

La città è su un fiume, su entrambe le rive: tutta abbastanza bassa, qualche timido grattacielo, qua e là una torre, un campanile. Antico, suppongo. Bello, nel sole del tramonto, quello laggiù, rossastro, che termina in un cono. Il bello si creava quando si usavano i materiali e le maestranze locali – pensa anche all’Alhambra, o al miracolo di Sana nello Yemen. Quando hanno incominciato a far venire i materiali da lontano, è finita; ma ormai sono secoli. Noi stessi negli ultimi anni abbiamo edificato porcherie internazionali.

Un gran bel fiume. Acqua, acqua, acqua, quanta ne hanno.

CNN ieri sera, stanotte, stamattina, a Venezia, in casa di…, casa principesca, tu sai chi intendo. Ma dopotutto preferisco ancora leggere – in pace, guardando fuori, questa dolce campagna coi suoi angoli segreti.

I giornali sono fantasiosi. Questo – si vede che ha mezzi – ha chiamato a raccolta gli scrittori. Anche stranieri. Odio gli scrittori. Perché questo racconta che si trovava per lavoro a New York, dove ha una casa, a Brooklyn, e che il vento soffiava verso Brooklyn e per il polverone sua moglie non poteva tenere aperti gli occhi…E questo Ashley, americano pare, che descrive i suoi presentimenti, sabato 9, a cena al ristorante dentro una delle due torri – da ubriaco fradicio, scommetto. E José Saramago? Ha come le mestruazioni. Quest’altro assicura – fatti suoi, al lettore cosa gliene importa? – di non aver mai amato tanto New York come davanti a quei dinosauri svuotati…Poi ci sono un francese, che si limita a un’alzata di spalle e a dire che trova l’Islam la più stupida di tutte le religioni, e un altro che esordisce con “io, come autore di gialli”. Assennato sarebbe, a volte, Tahar Ben Jelloun – se solo parlasse meno e non insegnasse alla sua bambina grossolanità del genere di “A loro non piace la musica, la pittura, la scultura, l’arte: è per questo che diventano terroristi”. Certo, è stato un errore marchiano, da bestie quali i talebani sono, far saltare quei Buddha.

E to’ chi si vede: la Sonntag. Io l’ho conosciuta, a Manhattan: una donna grande e grossa con una ciocca bianca sulla fronte, non è il mio genere di femmina – troppa testa. E’ una scrittrice famosa, però è onesta. Dice che si vergogna della puerilità dei suoi connazionali in questo frangente, che cerchino solo rassicurazione, “è tutto ok, sai? e tu non hai fatto niente e sei grande e forte”. Non sanno gestirsi il dolore, dice. Un intervento rispettabile, consono alla missione dello scrittore, che è d’indagare la verità. Ma gli scrittori occidentali è un pezzo che se ne…scusa, stavo per usare una parola da soldataccio che avrebbe offeso i tuoi orecchi. Brava quest’ebrea. Io lo so che questi ebrei, figli di Abramo come noi, avrebbero un’ottima stoffa se non fossero traviati; al meglio sono quando vanno raminghi, allora sono davvero illuminati, la patria, come a tutti, gli dà alla testa. Dov’è, scrive la donna, il “vile attacco alla civiltà, all’umanità, al mondo libero”? Quelli che quel martedì hanno provocato l’ecatombe non erano dei vili, vile è semmai chi attacca dall’alto, e in ogni caso il disastro è una “conseguenza di nostre specifiche azioni”.

Vedi, Fatima, tu che, come in genere le donne, sei ancora più estrema di me: di giusti ce n’è anche da questa parte. Un giusto è anche quest’altro, italiano – c’è scritto che vive da trent’anni in Medio Oriente. Ricordatevi, occidentali, dice, della guerra dell’oppio in Cina, e delle “navi nere” dell’ammiraglio Perry allo stupro di Yokohama. E Hiroshima e Nagasaki e il napalm sui villaggi vietnamiti? E il mezzo milione di morti di stenti, perlopiù bambini, per l’embargo in Irak? E Bophal in India, 1984, quando lo scoppio di quella fabbrica chimica ha ucciso poco meno di 20.000 indiani, e la multinazionale non si è nemmeno giustificata? E chi li ha pianti?

mela-mappamondoBravo italiano. L’Islam, dice, si presta bene, per la sua semplicità e il suo carattere di militanza, a essere “la fede dei dannati della Terra, di quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo occidentalizzato”. Vero. Salvo che…io dubito della fede, anche della nostra musulmana…In questo mondo la fede è sempre stata solo in un modo di dire, che figura più o meno in tutte le lingue, ed è un passivo “Dio me la mandi buona”.

Quelli che mi fanno più pena o ira, Fatima, sono però i russi, che ancora si ritrovano a domandarsi: siamo europei o siamo asiatici? I pasticcioni. Sono contento per quelle migliaia che sono stati acchiappati ed evirati sulle montagne afghane. Una bella partita fra uomini. Mi torna sempre in mente un mucchio di testicoli che marciva al sole, tra le mosche, finché, tra le risate degli uomini, sono arrivati gli sciacalli. Anche questi hanno diritto a qualcosa. Io lo sapevo mentre si costruivano i bunker per la CIA e i suoi talebančiki, che i russi sarebbero stati fatti a pezzi, come un secolo fa gli inglesi; l’Afghanistan è difeso dagli angeli, in particolare dall’arcangelo Gabriele, l’Afghanistan è Roncisvalle, dove mille anni or sono cadde il paladino Orlando e dei franchi si sperse l’eco di là dei Pirenei.

I russi. Presero il comunismo in Europa e continuarono a fare gli asiatici per altri settant’anni, e adesso che sono in rovina si aggrappano all’Occidente e strillano che loro sono europei e che hanno sempre amato l’America e offrono basi in Asia centrale. Dove siete, o miei umili ortodossi spazzati via dall’uragano comunista, o miei piccoli impiegati atei, un tantino ladri e molto buoni a nulla, col distintivo di Lenin all’occhiello, spazzati via dall’uragano capitalista?! Che poesia, che tempo che fu. E ora, essere lì spaesati, a metà strada… e per giunta avere in bocca – ti risparmio una parola più efficace – il dente marcio della Cecenia. Ma se t’infili nelle case moscovite…Sai che io con le inchieste, fasulle come sono, qualche volta mi diverto, come un gatto col topo, e la TV gli ha lanciato un test, “la vostra reazione alla tragedia americana”, con tre possibili risposte: uno sono scioccato, due mi spiace per le vittime ma non per gli USA, tre non so. Le risposte danno: 1100 scioccati, 815 dispiaciuti ma non per gli USA, 130 senza opinione.

Più di 2000 risposte sono un risultato significativo, L’articolista annota: un sollievo che la maggioranza abbia compassione, ma troppi sono, purtroppo, quelli che nutrono sentimenti di vendetta. Ma quel poliziotto-seminarista di Putin va molto più in là: quanto è accaduto, dichiara, è più grave dell’olocausto. Ma andiamo, ma su! Allora il nome Putin ti sta proprio bene: non mi dire che viene da put’, la via – quale via? Viene da pùtaniza, stato confusionale. E niente vsjo budet chorošò, cioè è tutto ok, questo lascialo dire agli americani: da te è l’inverso, è tutto ko. Putja, la natura ti ha fatto in economia. Succede, e avrà pure un senso: osso frontale sottile, tempie strette, una testolina che sembra lisciata con la lingua. Un burocrate esangue. Tu, Fatima, lo degneresti di uno sguardo? E, mia bella, degneresti di uno sguardo un Bush? Con quell’aria drammatica dell’inane profondo? Il figlio di papà, il ragazzo del rancho, di colpo si è trovato sbalzato in prima fila. Su, su, gli sussurrano i supporter alle spalle. A volte minacciano di dargliele: hai voluto la bicicletta? pedala. E adesso si trova peggio che mai: deve pur fare qualcosa di adeguato. Inutile che serri le labbra: e che cosa, che cosa? domandano gli occhietti errabondi. Catapultato a primo attore, è nel panico. Ma d’altra parte non gli par vero. Quest’evento ha salvato lui dall’inanità e i supporter dalla recessione. Si sono dati una manata sulla fronte: George, la guerra rianima l’economia! Devo fare Churchill, o Roosvelt? chiede lui, e gonfia il petto. Per intanto s’infila una popolare giacca a vento e corre in mezzo ai soccorritori: “Violenza senza precedenti, risponderemo uniti all’aggressione” e si appella all’art.5 del trattato NATO sul mutuo soccorso. Poi comincia a dare ordini, uno al giorno. Cina e India si fregano le mani: spazzare via quei quattro musulmani che danno fastidio entro i nostri confini, pensa la Cina, pigliarmi il Kashmir, pensa l’India. Ma in Europa tutti a lustrare la targa NATO.

240px-world_map_pietro_vesconteQuel bolso di Schröder, anche lui fra i lustratori – tutto purché non affiori il ricordo di chi è stato a scatenare l’ultima guerra mondiale. Ve’ come siamo buoni, dicono ogni momento i tedeschi, nell’ultimo mezzo secolo siamo stati a testa bassa su nient’altro che su industria e commerci, e urbi et orbi lui manda un bellissimo testo intitolato “La cultura contro l’odio”. Poi dimentica il titolo – lapsus freudiano – e dal principio alla fine parla d’altro, sfacciatamente, ossia dell’unico oggetto del suo desiderio, il profitto. Ma almeno una volta, signore, una, pro forma, rimettiamocela la parola cultura! Niente da fare: little Schröder va dritto alla meta. Lei scriva intima al suo ghost writer: l’odio non potrà prevalere sulle forze della crescita economica né a New York né in Germania né in Cina, la crescita mondiale sarà coronata da successo. Ai consumatori che oggi chiedono “che cosa dobbiamo fare?” rispondiamo: niente pessimismo e paura, avanti con gli investimenti e coi consumi.

La marionetta tedesca calzata sul pugno dei suoi burattinai. Non ha che la zucca e le manine, e sotto niente. Ti faccio una carezza sulla zucca! Perché anch’io sono un burattinaio, no? Ma del teatrino concorrente, ovvero…ogni tanto i teatrini si litigano, ma il teatro, il teatro del petrolio è sempre uno. Questa è la tragedia del mondo. Ma cos’altro potrebbe fare little Gerhard? Così è la democrazia, manine e zucca, star lassù e parlare sempre al modo giusto, altrimenti è la fine, e in basso, dove regnano le emozioni, non li rieleggono, e più in là, dove regna la ragione, gli danno il benservito. Che ne dici, Fatima? Venirgli in aiuto? Forse si potrebbe soccorrerlo col rompergli in due il grattacielo della Deutsche Bank a Francoforte. Non sarebbe male. Dati i loro trascorsi, i tedeschi non farebbero il putiferio degli americani; guaiolerebbero, con la coda fra le gambe. Fra tutti questi pallidi bambinoni non circoncisi sono i più buoni, i più aperti, il più tutto.

E’ così che si ritrovano in casa un certo stock di “belle addormentate” – tu sai cos’intendo: studiano con lo stipendio del babbo arabo, come facevo io in Inghilterra, stanno nelle loro università, prendono buoni voti e si tengono pronti agli ordini. Ma non è un caso: la Germania è di per sé fatta per le lunghe latenze. Hanno un’anima lenta loro, lenta e radicale.

A sentire di crescita, consumi, investimenti a me, filosoficamente parlando, viene la nausea della vita. Anche a te, vero? Solo in certe occasioni mi monta invece un ghigno satanico, un rigurgito di ghiaccio – e in questo, lo so, non puoi seguirmi, le donne non conoscono questo genere d’odio, nemmeno quando ti pugnalano alle spalle. Ma se così volete, mi dico, se oggi sono queste le coordinate della lotta, accetto. Il sapore di muffa della sconfitta non è per me, e poi: l’aldilà si guadagna ai punti nell’aldiquà.

Ma c’è un altro particolare che non finisce d’irritarmi. E’ l’uso improprio delle parole. Già “olocausto” mi dà un maledetto fastidio, e guardacaso l’hanno diffuso gli americani. E ora, Fatima, guarda: perché quel calcolatore da tasca del sindaco Giuliani di New York sarebbe un “eroe”? Al pari dei pompieri che si sono buttati tra le fiamme? Cosa devono pensare i pompieri? E perché i sei, cinque, tremila sventurati di quel giorno – starà ad Allah giudicarli – te li chiamano, con un colpo di mano, “caduti” e “martiri”? Dispiace, s’intende, erano carne viva anche quelli, ma cosa devono pensare i caduti autentici, nella guerra del Golfo e nelle giungle del Vietnam? Si rivolteranno nella tomba. Quanto ai “martiri”, prendi qualsiasi vocabolario – e più moderati dei vocabolari non c’è nessuno, sono il senso comune, lo spirito del tempo:   “martire”, dicono, è colui che muore testimoniando per un’idea. Bene: ma in Occidente gli ultimi esemplari si sono avvistati all’Est, ai tempi della cortina di ferro. Andrebbero reintrodotti, come si fa col coala o il panda gigante. Il fatto è che “martiri” è una parola superlativa, l’etichetta massima; più in su c’è solo “santi”, ma quest’articolo lo tratta solo la Chiesa cattolica.

Non è tutto come leggendario? Nel deserto del Nevada, favoleggia il popolo del Midwest, la NASA custodisce delle navi spaziali di ultraterrestri. Questo mondo vive sempre più di leggende. O sublime scimmione King Kong che, una biondina in pugno come un mazzo di chiavi, si affacciava sopra Manhattan. Geniale, profetico quel film del 1933. Lo scimmione o, come nel film di Woody Allen, la mamma che sgrida il figlio dal cielo di New York. Geniale anche questo. Ricordi? L’abbiamo visto assieme a Parigi. Mamma o scimmione: qui c’è tutta l’anima loro. Come vedi, io l’arte l’apprezzo.

Ma a noi, invece di apparire grandiosamente lassù, tocca farci piccini e filiformi e introdurci nei vasi capillari del sistema. Sull’autostrada Washington-Baltimora c’è la NSA, il Grande Orecchio che raccoglie ogni fremito e sospiro di quanto sulla terra striscia e vola: i dati di Echelon, la rete mondiale delle intercettazioni. Te lo devo aver già raccontato che fino a un anno fa quelli della NSA si divertivano a fare ascoltare ai visitatori i nastri di Bin Laden che dall’Afghanistan parlava con la sua mamma in Arabia Saudita, e ridevano a più non posso: lo scemo usa un telefono satellitare! Poi da un giorno all’altro lo scemo e la mamma non ci sono più: silenzio, scomparsi. Al pari dell’andirivieni nei campi d’addestramento afghani: i satelliti che ti leggono una targa d’auto e scorgono una sigaretta accesa da 300 chilometri d’altezza di colpo segnalano solo polvere, montagne, sciacalli. In men che non si dica, due ore dopo i dirottamenti, non c’è più nessuno. O to’.

mappamondoTu lo sai, perché anche tu ti ci diverti – e come sei graziosa quando dentro i tuoi lini immacolati, solo i piedini fuori, sporta in avanti, a ginocchia divaricate, clicchi qua e là alla ricerca di qualcosa di stravagante – tu lo sai, i motori di ricerca internet, come tante persone, non capiscono i contesti, gli dai una parola e vanno a sbattere Dio sa dove. Sai quante informazioni radunano i computer della NSA? Fino a due milioni all’ora. Pensa alle sviste, e ai costi: da sghignazzare. Ma loro confidano nei biscotti, i cookies. Restano attaccati al tuo computer quando visiti un sito. Tu attiri l’uomo in qualche sito che glieli appiccica, dopodiché ovunque vada è pedinato. Ma l’uomo pensa – e cosa fa? Tiene pulito il suo aggeggio personale e per navigare e mandare i suoi mail va fischiettando da qualche internet-cafè o biblioteca pubblica. Qualcuno negli USA adesso grida: bisogna tornare all’intelligenza naturale, ai vecchi 007, a James Bond, alle spie umane, pagare per pagare meglio pagare queste. Però si alza qualche mano: non infiltrerete un bel niente, non lo sapete che “là”, fra quei primitivi, non è come qua, che non si lasciano corrompere, che nelle loro cerchie si entra unicamente per legami di sangue o di nozze? Giusto – o quasi…Tutto in questo mondo è quasi, perché così impermeabili ai dollari non sono nemmeno quei primitivi, io ne so qualcosa. Anche i miei piccoli talebani si sono così abituati a quei rettangoli grigioverdi con la faccina di Washington che non possono più farne a meno e – l’Onnipotente li perdoni – coltivano l’oppio, con la scusa che nessuno è obbligato a drogarsi. Verissimo, se questo pensiero non fosse un po’ occidental-individualistico. E quel mastino del caro presidente pakistano? E’ ridotto a un hotdog: sopra ha i biglietti grigioverde che svolazzano, sotto i servizi segreti e il popolo che avversa gli USA, lui è come la farcitura, e non lo invidio.

Strano, dice il mondo, che gli USA non si siano accorti di niente. Ma è perché loro niente legami di sangue e nozze, loro prendono tutti, purché siano efficienti. Giusto, no? Però così si trovano pieni di traditori e non se ne accorgono. Proprio perché sono in mezzo a loro. Ah, dolce Fatima, se vuoi nascondere al meglio un oggetto che l’avversario non deve ritrovare, mettiglielo sotto il naso. E come quella storia della donna che diventa l’amante del miglior amico del marito – bada, se mai tu mi facessi questo, ti ucciderei nel più barbaro dei modi. Così un bel giorno il marito piomba non annunciato in casa dell’amico, nella stanza dove lui sta giusto a letto con la donna. Con una presenza di spirito degna di un terrorista, l’amico copre la testa di lei e ne scopre il corpo nudo, come per dire vedi, eh, non sono solo, e il marito…non vi riconosce la propria moglie, si scusa e se ne va. Io, con la mia passione per i particolari, ti riconoscerei anche su Marte, ma per i comuni mortali la cosa è assolutamente plausibile. Se non pensano che una cosa sia lì, la cosa non c’è. Ma a Baltimora succede ancora di peggio: ignorano ciò che in fondo sanno. Tu credi che non subodorassero l’attacco alle torri? Sono troppo crudele, Fatima? Ma con chi mente con se stesso non si può non esserlo. Perché questo è il più grande peccato che esista, è il peccato contro lo spirito.

Mentono, e giocano. Hai presente il Protocollo di Kyoto sulla questione del clima? Ho letto che gli ultimi quindici giorni di Kyoto furono un grandguignol. Liti furibonde nei corridoi, tumultuose sessioni notturne seguite da sbornie. 30 delegati finirono disidratati all’ospedale. Nella sessione finale che durò tutta la notte i delegati USA montavano sulla sedia cercando di farsi dare la parola dal presidente, altri già ronfavano con la testa sul banco. Il giorno dopo, aggiunte alcune formulazioni deliberatamente imprecise, il presidente diede il via alla votazione. Svegliati dal sonno, alcuni delegati in seguito ammisero di non sapere per cosa avevano votato. E dopo Kyoto in quattro anni non è successo più niente, ovvero sì: in Guatemala si sono piantati 52 milioni di alberi, si calcola che possano assorbire il carbonio emesso da un nuovo impianto a carbone nel Connecticut. Tu riderai: io ho pietà di quegli alberi.

Giocano. E hai notato, nei loro notiziari, la parola “missing”? Dispersi, cinque, seimilamila dispersi? Cavalcano la comprensibile speranza dei parenti, giacchè ognuno vorrebbe che il suo caro non fosse morto, potesse tornare. Però è grottesco: o eroi, caduti, martiri, o dispersi. “Morti”, semplicemente morti come tutti – mai. In Occidente la morte è all’indice, ovvero bisogna grattarla via, scioglierla come una macchia, coi migliori detersivi. Si chiama “elaborazione del lutto” – altra espressione che mi fa rizzare tutti i peli del corpo, anche i più intimi. A Manhattan da una settimana ci sono, ho letto, i “vetrinisti del lutto”, perché “l’elaborazione del lutto”, dicono, è un “processo di shift dei consumi”. Però pare che dal lunedì nero nei ristoranti si mangi di meno. Che quelle coorti di balordi che s’affogano di carne, pizza, gelato, pommes frites col ketchup abbiano aperto un occhio? Non so. Appena sentita la parola “guerra”, pare si siano affollati nei supermercati a fare incetta di scatolette e di surgelati. Poi il loro George ha cambiato “guerra” in “guerra infinita”, che è dopotutto meno pauroso, poi in un sublime “libertà duratura”: allora si sono calmati. Libertà duratura è ciò che già abbiamo, si sono detti, allora non c’è da agitarsi, e la crapula ha visto una nuova impennata. Ah, di sobri non restano che le femmine nevrotiche che digiunano per essere più interamente se stesse e gli intellettuali passati al vegetariano perché vuol dire salute e lunga vita, e la loro vita è assolutamente necessaria al mondo. E sul 10% di dimostranti pacifisti e straccioni del no global non farei molto affidamento.

A parte il cibo: cinema pieni, leggo, e vendite straordinarie di libri di fiabe. Eccellente. Quando la gente è ben nutrita vuole solo le fiabe o l’orrore. La verità no. E in quattro giorni hanno sfornato sul mercato tonnellate di t-shirt con la scritta “I Y N Y.” e tonnellate di poster con King Kong. Vendono anche i frammenti delle macerie in bustine di plastica. La verità è che non sentono più niente e vanno in tondo, alla cieca, come i pipistrelli all’imbrunire, di conseguenza non hanno più memoria, di conseguenza si attaccano ai souvenir, ai ricordini.. Ma ancora più commovente, su questo serissimo quotidiano nazionale che ho davanti, è un decalogo per gli adulti – adulti, ovvero facenti funzione di tali – su come gestire i “bambini del day after”. Questa me lo sono ritagliata e te la porto. A parte il decimo, “Farli addormentare con la luce accesa”, c’è un “Invitarli a tenere un diario” e un “Farli parlare di sé”. Hanno la follia del proprio sé.

mondiSe a queste masse piene di confusione si potesse praticare la carota, come si fa col suolo per stabilire cosa ci sia sotto, credo che da loro nel sottosuolo troveremmo: giacimenti di piacere. Tu sei sempre paradossale, mi dirai. Ma, togli i parenti delle vittime, a tutti gli altri è stata offerta o no? una grande emozione. Meccanizzati, informatizzati, cibati, usati e gettati, in orbita ventiquatt’ore su ventiquattro…tu puoi immaginare cos’è il piacere di poter piangere, schiumare, andar ciarlando nei bar, far petizioni in internet, scrivere sui muri o invocare “ammazzate tutti gli arabi” o minacciare il vicino arabo di Brooklyn di devastargli il negozio?

Corea, Vietnam non ce l’hanno fatta a diventare leggendari, la guerra del Golfo è stata una caricatura, Černobyl rumore umanitario e poi nulla, i 50.000 morti di Groznyj in Cecenia acqua che va: così dagli Urali al Pacifico, yankees e no, da cinquant’anni erano costretti, per avere qualcosa di grandioso, a friggere e rifriggere il nazismo e l’olocausto. E adesso, to’, hanno materia fresca! Ma intanto la storia vola a 300.000 chilometri al secondo e solleva le sabbie del nulla e annulla le orme, e tutto è ormai solo delirio. Come quello per la morte della principessa di Galles, ti ricordi? Allah abbia pietà di lei. Il mondo la piange, esequie in Westminster, una puttana da postribolo che nella cattedrale intona “Like a chandle in the wind”…poi…poi si passa ad altro. Passare ad altro, oh, questa è la segreta passione dell’occidentale.

Il mite sole di settembre è calato. L’ultimo oro si va spegnendo laggiù sopra chilometri di sobri alberi scuri e le colline si sono come sciolte dentro la terra. Milano, la grande città, non è lontana. Sono atteso, tu sai da chi. Ci sarà una ricca cena, immagino, un vero spreco per uno come me che vivrebbe di cipolle, riso e tè. Non così sarebbe per certi miei ricconi arabi, quei plebei, che sprecano come gli occidentali.

Ora ti confesso una debolezza – tu sai che le piccole cose concrete m’incantano: ho incaricato Ahmed a New York di comprarmi un altro orologio da polso, uno di quelli appena usciti, con King Kong e la donnina bionda sul quadrante. Pare che gli adolescenti USA e UN l’orologio da polso non lo vogliano più. S’impuntano contro il tempo, la necessità di far qualcosa, la responsabilità. Per me, sin da bambino, gli orologi da polso sono sempre stati una passione, ma è pressoché l’unico vizio che mi permetto. Nei piaceri, lo sai, sono un entusiasta che si modera, uno spartano che fa festa solo una volta tanto. Con la pasta di mandorle. La moderazione è l’unica cosa che renda calda la vita. Io non sono un talebano. E il mio dilemma è se restare con loro o allontanarmi, in che modo non so ancora. Sono diviso. Kabul l’hai vista, è un ossario abbandonato…case in rovina, come denti marci e cariati, donne dietro finestre sbarrate e quando escono, in quelle grottesche burke, sembrano tante tende scalzate dal suolo. Perché se la sono presa tanto con le donne, le loro sagge donne, cosa gliene viene? Ma è sempre così: le stupide dittature oscurantiste più che di comandare hanno l’ossessione di vietare. Sono un pugno di contadini e di cosiddetti studenti, e si sa che nella storia queste categorie hanno poi la peggio. Eppure c’è in atto una struggente ingiustizia: tutti li hanno usati, e adesso si coalizzano per schiacciarli. Se penso a questo, mi dico: non è sensato, ma non importa, ma io devo restare con loro.

Stazionari, negli USA, gli acquisti di bandiere, saliti del 70 % gli acquisti di armi ma alle stelle, fra le Kodak usa e getta, come poster e come asciugapiatti le cartine dell’Afghanistan e il volto di quello che si sostiene sia il mandante del vile attentato, con sotto “Wanted dead or alive” – ah vecchio West degli sceriffi! Variante: lui a tutta figura che sembra un santo, un Mosè, uno sciamano: sorridente, in bianco, tunica e turbante, salvo il mitra che gli pende dalla sinistra, come il violino a un suonatore che si applaude dopo l’esecuzione. Costo 20 dollari, mi dicono – cosa che un afghano ci vivrebbe tre mesi. Ha fatto bene, pensavo, il mullah Omar a sfuggire o quasi ai fotografi, così le leggende intorno a lui si rafforzano e aumentano l’amore. Già si narra, fra i brividi, che, colpito a un occhio da una scheggia di bomba russa, si sia strappato da sé l’occhio e l’abbia gettato via. Un gesto da antico giapponese, o da antico romano, ma giuro che nessuno sa più chi fosse Orazio Coclite ossia “occhio solo”, o Muzio Scevola, e meno che mai sanno che il loro Cristo ha detto “se un occhio ti è di scandalo, gettalo via da te, perché è meglio che perisca una parte piuttosto che l’uomo intero”.

Mister “Wanted dead or alive” invece si è visto in foto, video, TV, che parla, l’indice alzato come un maestro di scuola, ma la leggenda ugualmente lo circonfonde, perché non è solo un guerriero o un mullah, ma anche un onnipotente uomo d’affari – prossimo incarico: ampliare le moschee di Mecca e Medina – e si chiedono: chi è, com’è? e soprattutto: perché invece di organizzare atrocità non si gode in pace i suoi miliardi? Godere! Devono sempre ridurre tutto al loro piccolo formato! Al tempo stesso…non osano dirlo, ma sentono che lui è…come dire? lo spirito della terra, polimorfo e sempre uguale a se stesso, a sé e a tutti, che è come la natura e l’infinito che loro hanno perduto. E poiché con gli umani oltre ai soldi c’è sempre di mezzo l’amore – loro quest’uomo lo amano, sotto sotto, s’intende, nel loro segreto. Le donne mormorano fra sé “finalmente un uomo!”, altri provano per lui un amore ingenuo e delicato, come i russi per il loro mitico brigante Stenka Razin che rubava ai ricchi per dare ai poveri. E tutti, quando la storia lo spazzerà via, si sentiranno orfani per qualche ora.

imaginenations1C’è un cristiano, un russo di un secolo e mezzo fa, che ha avuto due visioni che dell’essere umano dicono tutto, e altro non occorre: le ha chiamate l’Uomo del sottosuolo e il Grande Inquisitore. Fra i loro scrittori io questo lo rispetto e venero, come anche l’altro, coevo, che da vegliardo non ne poteva più di tutti gli ipocriti volti noti, compreso il proprio, ed è andato a morire in una stazioncina sperduta, in mezzo agli ignoti. Poi a cercare la verità ci sono stati un ebreo di Praga morto di tubercolosi e un ebreo galiziano crepato d’alcool a Parigi e da ultimo forse – maledizione, sempre loro! – un paio di ebrei tedeschi.

Mia dolce Fatima, non guardare mai dritto davanti a te, ad altezza d’uomo, è solo uno sconforto, guarda in basso, ai tuoi piedi, agli insetti del deserto, o in alto, ad Allah. Se proprio vuoi, resta a metà, ai bambini.

I kamikaze? E perché mi dovrebbero piacere? Se ne dai una definizione pulita, da dizionario, “tipi che si suicidano per ammazzare gli altri”, sono solo stupidi, riprovevoli e possono dare un’emozione solo a chi trova romantici i delinquenti. Ma è quando poi vedo la paura di soffrire e di morire di questi altri, di tutto il cosiddetto primo mondo, che allora mi dico: be’, se proprio devo scegliere, preferisco quelli.

I media hanno spiegato alla gente, per sua tranquillità, che il movente dei feroci giovanotti è la puerile convinzione di essere attesi nell’aldilà da 72 vergini a testa e da una sedia alla destra di Allah. Non che la situazione sia mal pensata – risponde a due brame base, sesso e onori – però a crederci c’è solo qualche analfabeta di piccolo cabotaggio, che nessuno gliel’ha chiesto e lui si lancia in proprio, con una bomba alla cintura. Ma i professionisti delle Due torri te li vedi?!

Al solito al di qua e al di là dell’Atlantico non afferrano il nocciolo della questione. Forse perché non gli torna comodo. Tutti, in Occidente, dai direttori di banca ai taxisti, si riempiono la bocca del fastidioso “ho una vita sola” – i cristiani, in teoria, non dovrebbero, ma lasciamoli perdere. Io una volta, non so più a chi, ho obbiettato: se davvero ne abbiamo una sola, puah, per me perde ogni interesse, e buttarla non è più niente. Hanno riso. Hanno pensato che fosse una battuta. Ma poiché, ho continuato, di vite ne abbiamo invece anche un’altra, questa qui, se occorre, posso anche buttarla senza paura. Logico, no? Allora hanno scosso la testa e un ometto attempato, credo un ministro, mi ha borbottato il vecchio luogo comune: Dio è un’invenzione degli uomini.

Oppure vengono e ti dicono: la vita è sacra. Io dico: ma il sacro non l’avevate abolito? E poi: la vita di chi? Di chi si tratta come un gioiello, consuma per dieci, si lustra da mane a sera ed è pronto a farsi sostituire i pezzi, anche cuore e cervello, pur di continuare a esserci? Francamente, io qui di sacro non vedo più nulla. Ma il punto non è che non vogliono morire: è che non sanno nemmeno più soffrire. Come sai, sono anch’io un affarista e un assassino, però a sofferenza e morte dico: venite, vi ho messe nel conto.

Non so se verrà la guerra. Ma sì, verrà. Gli USA non aspettavano che una buona occasione per rimetter piede in Afghanistan, poi metterlo poi anche in Irak e in Iran. Ma dov’è lo stato da attaccare? Quei pezzenti degli stati non sono più responsabili di nulla, caos e debiti, funzionante e in attivo è solo il privato; anche il terrore è in mano al privato. Ma anche se verrà la guerra, tu, mia Fatima, mia cerbiatta, mia bella tagika, in Tagikistan sarai al sicuro: anche il cuore ex sovietico dell’Asia salterà in aria, giusto quello, per via del suo grasso sottosuolo, ma c’è tempo. E la causa sarà sporca – come un mare inquinato – ma sulla causa galleggeremo tutti, come resti di un naufragio, kamikaze e damerini, obesi e anoressici, donne, vecchi e bambini. E poi mi dicano che l’umanità non ha bisogno di Dio.

Per ora, ossia questa settimana, e sia grazie ad Allah onnipotente, gli USA vogliono prima provare a spedire sulle piste afghane del saudita, degli esperti, mezzi militari mezzi spie, e li stanno addestrando alla dura vita di grotta, di caverna – alla vita dei talebani, capisci? Per addestrarli li hanno piazzati parte in Virginia, in certi umidi sotterranei ribattezzati “Bin Laden Lane”, parte in un puzzolente garage di New York. Bush ne è rimasto impressionato, non immaginava proprio: l’America, ha comunicato per TV, deve sapere che ci sono uomini e donne che da giorni, per la sicurezza di tutti, dormono sul pavimento, mangiano pizza fredda e telefonano ai figli la sera per scusarsi se non possono tornare a casa.

Non li odi tu? Io le Twin towers le chiamo Srewot niwt. Perché, mi domandano, e io rido: no, non è arabo né ebraico, è solo il loro nome alla rovescia, le torri rovesciate.

Da ultimo mi sono riguardato alcune foto che ho di Osama Bin Laden. Ti piaccio sempre, cerbiatta? Il cranio robusto, la fronte dritta come nell’ariete, il viso che sotto la barba si affina, le labbra rosee che ti hanno tanto baciata? A trent’anni, quando venivo in Afghanistan alla caccia col falcone – è una vecchia tradizione dei principi sauditi – ero uno splendore, ero il desiderio di tutte le donne. Adesso non caccio più animali, sono cacciatore o persuasore di uomini, li ammaestro, li minaccio…col dito alzato. Eppure detesto di predicare, e persino di parlare in pubblico, e si dovrebbe già capire da come tengo il microfono, in punta di dita.

Tu dici che per via dei sopraccigli che al centro vanno leggermente in su io ho un’espressione dolcemente malinconica, a volte persino smarrita, e che dei miei occhi il destro, un po’ più grande, guarda o come dentro di me o come in lontananza – lo chiami l’occhio geografico, e che il sinistro, più stretto, più freddo, guarda nel tempo che fu – e lo chiami l’occhio storico. Adoro le donne che sanno esprimersi come te, per immagini, l’immagine è donna, e quando abbracciandomi mi dici queste e altre cose, anche come mi trovi affascinante quando scendo dalla limousine e balzo a cavallo e via come il vento verso le gole, mi sento così deliziosamente descritto e individuato che potrei rinunciare a tutto il resto. Ma tu ridi e mi colpisci sulla guancia: ah, Osama, rinunciare alla vita sì, però finché sei vivo non rinuncerai al tuo sogno di fondare uno stato islamico, che controlla gas, petroli, anime. Gli stati, dici, non sono più attuali? Ma il tuo tenebroso cuore, Osama, è proteso alla conquista della terra. Touché, mia uri, mia fata, colpito nel segno, confesso. Come ha bisogno di voi lo stupido fallo maschile, che se non agisce gli pare di non esserci.

Sai che un grafologo inglese intervistato dal “Times”, studiata la mia firma su non so che documento, ha stabilito che, tronfia nel complesso, contiene però un “bozzolo”, ossia, nel loro gergo di grafologi, un bisogno di protezione? Inoltre tira al basso – s’intende a sinistra, che per l’arabo è la coda. Lo sceicco del terrore, conclude il professore, è ambizioso e creativo, ma è un infelice cronico. Ma scusi, Sir: lei non ha preso che la definizione dell’homo sapiens dal vocabolario.

Però è vero, mia Fatima, io a volte potrei piangere per come sono infelice, e a volte lo faccio, il viso nascosto nella manica, nel braccio piegato. Sai che piacere sono le caverne afghane!

Nemmeno del mullah Omar mi fido. Ha sposato una mia figlia adolescente, la più cara, ma qui da un giorno all’altro non si sa più chi è il più forte e chi ha dietro di sé, e se e chi tradirà chi, anche la truppa comincerà a passare al nemico – non si può pretendere che tutti siano eroi. Possono uccidermi. Non mi meraviglierei. O mandarmi sotto processo, qui o negli USA. A un processo negli USA avrei l’immensa gioia di rivelare al mondo cose che da sé taglierebbero in due alcune altre torri. Ecco perché, a patto che non parlassi mai più, mi offrono un asilo segreto, da loro, o in Florida o nel Nevada. Ho fatto un sogno grottesco l’altra notte: che mi affidavano l’incarico di ricostruire le Twin. Tu credi che sia proprio escluso? Niente è mai escluso. E per quanto tempo l’Islam resterà Islam? Ah, tutto sta diventando Occidente.

Morire è meglio. Un cavallo nero, già bardato, ti guarda, nitrisce, batte con lo zoccolo, e tu gli salti in groppa, e via…di là, nell’altra vita, della quale sono molto curioso. Oh non credere che non mi dorrebbe di perdere te e mia madre, e tante cose, anche questa morbida serata italiana, e certi piatti di riso, e i miei orologi. Il bello della vita, di questa, sono le piccole cose, l’altra non le avrà. Oh, niente, niente potrà competere con la dolcezza di questa.

Resterei, se morissi, nel tuo cuoricino? Chissà. Nel mondo già non resterà di me nulla. Mi succederà come alla principessa di Galles.

Eppure le opere valgono pure, più degli uomini che le compiono. Perché? Questo è un mistero che mi affascina.

Da «sticazzi…» a «mecojoni!»: lo spoof del complottismo e il ghost in the machine

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. So che ci eravamo ripromessi di parlare del tema forse nodale attorno al quale ruotano i ragionamenti sul consenso nell’epoca della postverità veicolata dai social media, ma non so resistere al richiamo complottistico della storia di questo account twitter intestato a una certa Beatrice di Maio, denunciata per diffamazione da Luca Lotti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, scopertosi appartenere a Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, moglie dell’ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta. Avevamo accennato al fatto in coda al nostro ultimo dialogone sul concetto di postverità e il modo in cui la realtà che abitiamo non è necessariamente il riflesso di un discorso veritiero, essendo inevitabilmente definita nei suoi contorni anche da notizie false, menzogne, credenze di vario genere. Ora qui mi pare che siamo forse al capitolo finale del tema complottismo, quello in cui siamo costretti a trattare della parodia del genere, lo spoof, cioè l’equivalente de L’aereo più pazzo del mondo per i film di catastrofe, della Pallottola spuntata per i film polizieschi, di Scary movie per quelli dell’orrore, eccetera. Andrea Zitelli su Valigia Blu, blog collettivo molto coinvolto nel dibattito sulla veridicità del discorso giornalistico, ha ricapitolato tutta la cronistoria fino all’intervista a Libero della protagonista della vicenda, additata da Jacopo Iacoboni come “account chiave” di una propagandistica algoritmicamente automatizzata del Movimento Cinquestelle.

Lorenzo. Sì, quando l’altra volta parlavamo di quegli operatori dell’informazione bravi mi riferivo anche a Valigia Blu. Li amo, in effetti. Nella reality-based community italiana (perché di essa e con essa ci riduciamo a parlare, talvolta, purtroppo) c’era (e ancora parzialmente c’è) quest’uso di intitolare le cose “Cosa sappiamo di ciò che è successo a [luogo del fatto+data o argomento]”. Tipo, in riferimento alla strage di Charlie Hebdo: “Cosa sappiamo di cosa è successo a Parigi ieri”. La cosa avviene un po’ perché Google digerisce bene il titolo, un po’ perché è necessario identificarsi in qualche modo come estensori di un tentativo di descrizione di realtà fattuali. Mi commuove molto il titolo: “Cosa sappiamo della ‘cyber propaganda pro Movimento 5 Stelle’.

Anatole. Infatti hai ragione tu a dire che di qualsiasi cosa non se ne può più parlare nelle 36 ore che seguono il fatto, perché in quel periodo si affastella una tale quantità di rumore, che qualunque cosa dici rischia di essere una stronzata atomica.Il problema è che precisamente in quel lasso di tempo si determina l’impatto del fatto sul pubblico di prosumer del telefonone. E comunque questa storia della Moglie di Brunetta (che già rivaleggia con l’Hacker russo per l’Oscar di Best Complottema 2016) è meravigliosa da tanti punti di vista. Primo perché va anche molto oltre quello che dicevamo a proposito del complottismo, che collega fatti irrelati in maniera abusiva costruendo un senso, un’idea di realtà abitabile. Qui siamo proprio al colpo di scena comico, con un cast che davvero manco a Hollywood avrebbero saputo fare di meglio. Secondo perché dimostra come i saccentoni del “te lo spiego io il complotto” siano così immersi nella cultura del complotto da costruire teoremi complottisti a loro volta, autocadendo dentro trappole screditanti che loro stessi costruiscono ai loro danni. Diciamo che ognuno è un po’ un complotto contro se stesso, ormai.

Lorenzo. Vogliamo poi parlare del debunking, cioè dell’altra forma di saccentismo? Dando seguito ai nostri discorsi sull’autenticità e a quelli sulle emozioni appena abbozzati (ma riprenderemo il discorso), il debunker di complottismi – intendo qui un debunker “puro”, cioè uno che fa solo quello – è un personaggio mostruoso. La sua autorialità è per statuto subordinata a quella del complottista, che nella contesa appare di fatto il vero ideatore di tutta la vicenda. Le emozioni che il suo debunking veicola sono più o meno sempre deprimenti, poiché egli si pone nella posizione dell’umile servitore pubblico, che si consacra al tentativo di “smontare” qualcosa che non è tecnicamente smontabile. Una specie di croce rossa non richiesta, perché intenderebbe sottrarre al potere della menzogna persone che non hanno alcuna intenzione di essere salvate, i famosi prosumer del telefonone dei quali stiamo parlando. Il debbunker (meglio con due b) è una specie di crocerossino seriale 2.0, che spera di sentirsi dire una cosa come “bravo, quanto sei bravo” o anche “grazie”. A dirglielo sono, seguendo quello che ormai è un fatto assodato dal punto di vista scientifico, persone già convinte. Gli ziliardi di persone che invece avevano piaciato (ormai transitivo de facto, mi si fa notare qui che è più corretto “piaciato” rispetto a “piaciuto”, che avevo utilizzato in origine) la storia del complottista quel dubbunking (meglio con 2 b, ancora) non lo leggeranno nemmeno. Il complottista ti mette al centro del mondo, costruendo una narrativa avvincente che collega abusivamente fatti irrelati, mentre iI debbunker ti dice che sei un coglione, che non avevi capito niente. Perché mai leggerlo al supermercato mentre stai decidendo fra bufala e fior di latte?

Anatole. La mia conclamata intolleranza al lattosio mi mette in difficoltà di fronte a questa tua, peraltro pertinente, contestualizzazione. Di sicuro tutto questo incredibile nulla, impacchettato in chiave complottistica, funziona strabene come infotainement utile a dar senso all’acquisto di tecnologia sottoutilizzata al centro commerciale nel weekend, come dicevamo nella puntata sul Grande Complotto che dà senso al Telefonone.

Lorenzo. Sì, il telefonone è centrale. Non sapendo che cosa effettivamente sia di diverso da un parallelepipedo sottilissimo e luminoso che un 3enne usa meglio di te, sarai portato a pensare che abbia il potere di dirti la verità. E il modo più breve di illustrarne una è certamente, come si diceva, la formula super-semplificante di un complotto. Che poi sta verità sia vera è assolutamente secondario, perché me l’ha detto Mauro – dirà Peppe – Mauro chi? Ma come chi? Mauro! Quello che lavora con me, sta sempre al telefonone e trova un sacco di roba. Dai, non te lo ricordi? Quello che stava cacciando faine sul monte Vettore quando c’è stato il terremoto! Ah, sì, Mauro… Certo, pure sta cosa del terremoto… Ci deve stare sotto qualcosa. Ma è ovvio che c’è sotto qualcosa, guarda il sito! Vabbè, ma comunque il mondo scompare nel 2017, guarda qui, lo dice Supereva.

Anatole. Dialogo estremamente realistico. In sostanza anche il caso della Moglie di Brunetta sembrerebbe verificare l’idea che il complottismo sia un grande concept per l’elaborazione più o meno volontaria e in un certo senso collaborativa di contenuti da veicolare sul telefonone, col quale non sappiamo ancora bene cosa fare. Potremmo paradossalmente osservare che la Giovannone, Lotti, Iacoboni e tutti gli altri partecipanti a questo grande delirio, concatenando ciascuno per la sua parte in maniera causale fatti che in realtà non c’entrano un cazzo gli uni con gli altri, hanno determinato l’emergere di un senso, contribuendo ciascuno a suo modo a delineare i contorni di una realtà abitabile, della quale abbiamo l’illusione di capire le regole, oltre alle relazioni tra gli oggetti che la compongono. Come ricordava Marco Giusti nel suo necrologio su Dagospia del 2 giugno 2015, fu Alberto De Martino «l’inventore della celebre formula, che fu poi ripresa da Enzo G. Castellari, “Me cojoni o Sti cazzi”, per scoprire la validità del titolo di un film. Il titolo buono, ad esempio Per un pugno di dollari, ti fa dire subito “Me cojoni”, il titolo sbagliato, ad esempio L’assassino è al telefono, ti fa dire mestamente “Sti cazzi”». Ecco, forse il complottismo è soprattutto quella cosa in base alla quale una notizia che veramente «sticazzi…» diventa «mecojoni!». Insomma, un grandissimo espediente drammaturgico.

Lorenzo. Assolutamente. Una delle cose che mi hanno più colpito durante la lettura di Otranto 1480 di Vito Bianchi (Laterza, 2016) è che gli Ottomani, per evitare che le spie capissero quali fossero le intenzioni del Sultano durante la preparazione di una guerra, cioè dove il sultano volesse colpire, diffondevano un numero indefinito di voci false. Queste voci, interagendo fra loro, creavano un rumore di fondo nel quale la soffiata vera si mescolava, si confondeva. A Roma, a Firenze, a Venezia, a Napoli arrivavano storie fantastiche, facilmente malleabili per chi aveva un interesse di parte. Dal 1480 non è cambiato granché, ho pensato. La propaganda di guerra è per definizione la diffusione di falsi ideologici. E si nutre di visioni complottiste del mondo per nascondere verità indistinguibili da ciò che è falso e rendere più complicati i processi decisionali dell’avversario. Abbiamo già accennato alla spy litterature, ma qui siamo un passo oltre. Ora: il tema è che la propaganda – che è costruita per essere credibile, è cioè un costrutto ideologico “well formed”, ed è formattata sul Grande Concept del complottismo – è perfettamente compatibile con tutti i meccanismi di informazione disintermediata, cioè si immerge a meraviglia nell’ecologia liquida del social network. Faccio l’esempio della propaganda di guerra: 1. perché ho a che fare con essa ogni giorno; 2. perché essendo così patentemente pataccata è di più facile lettura. Ma la cosa avviene in ogni situazione in cui vi siano due o più parti in competizione – vedi il sì e no al referendum costituzionale. Mi chiedo, addirittura, se la propaganda di guerra non sia il prototipo narrativo del complottismo. In fondo ogni complottismo, o quasi, sottintende una presa di posizione forte, un “siamo in guerra”, ogni complottismo fornisce un’argomentazione in qualcosa che è rappresentabile come una “guerra di parole”, una dialettica conflittuale, spiegando bene il fatto che in una discussione con un complottista si proceda per argomentazioni e non per fatti.

Anatole. Verissimo, non è un caso che questa immagine, confezionata in maniera piuttosto sofisticata, con precisa intenzione di mantenere un registro low-fi caratteristico di tutti i populismi correnti, dal blog di Grillo a Breitbart News, è frequentemente associata al temone da film di guerra, al quale ci fa schifo anche solo accennare (cioè il referendum demmerda che izzio lo fulmini):

 

brunetta

 

Sarebbe: «volete votare una riforma costituzionale fatta da staggente, che scambia la Moglie di Brunetta per un algoritmo e invece è una tanta brava ragazza? Vogliono mettere il bavaglio al webbe perché sono nemici della libertà!». E funziona bene perché accanto hai tutti i nomi, dalla responsabile comunicazione PD, ai più attivi antagonisti webbe del Movimento Cinquestelle. C’è una guerra in corso, o almeno così ci si vuol far credere, come nel caso della presunta Crociata contro l’ISIS, che ha il perfetto complemento speculare nella propagandistica ISIS, la quale ti chiama «Crociati» gli occidentali in Medio Oriente. La verità è che non c’è nessuna guerra, che nessuno vince o perde granché, ma il clima che si crea alzando la temperatura dello scontro sul webbe è sufficiente a determinare un ecosistema sopportabile ai prosumer del telefonone, che in una situazione a bassa tensione tornerebbero a rompersi il cazzo appresso alla loro vita quotidiana. Si torna, se vuoi, al problema-chiave che si provava a descrivere illustrando ideale e realtà della microborghesia grillina. Sei un impiegato delle poste o una cassiera, la crisi ti ha riportato ad una dimensione di subalternità sociale, culturale e morale, dalla quale la proiezione ideale del berlusconismo ti aveva distratto? La tua racchetta di Decathlon appare nella sua patetica realtà di oggetto da ventisei euro e non ti senti più Federer o la Sciarapova? Che ti lascino almeno insultare chi cazzo ti pare sul webbe, ‘ste maledette élite liberal colluse con la finanza internazionale. Il loro è un complotto per imbavagliarci, per farci sentire inferiori e ricacciarci nell’anonimato. Ed è qui che le autopromosse élite renziane, sottosegretari ministeriali e giornalisti della Kasta, anch’esse in guerra contro un paese disfunzionale e poco efficiente, fanno praticamente la stessa cosa, giuocando al disvelamento del complottismo, che diventa complottismo a sua volta, cosicché il movimento complottista, quello delle scie chimiche e dei vaccini autistici, finisce per smascherare gli smascheratori di complotti, in una circuitazione ermeneutica senza fine. Al centro di tutto ciò emerge questa meravigliosa figura di Tommasa Giovannoni Ottaviani, detta Titti, il vero ghost in the machine, che sminchia la teoria dell’algoritmo, facendo saltare gli schemi, come quelle forme di vita emergenti descritte da William Gibson in Neuromancer, i loa della rete, costrutti mitologici che vivono di vita propria dentro un sistema automatizzato.

Lorenzo. Definitiva, su questo, è l’intervista di Jacoboni a Walter Quattrociocchi, lo scienziato di Misinformation, libro che ho più volte citato in queste nostre conversazioni. Iacoboni il 17 novembre è già tutto lanciato sull’impacchettamento del complottone grillino fatto di algoritmi e comportamenti bot sui profili twitter. Titola: “Cyber propaganda pro M5S, Quattrociocchi: ‘Anche da noi architetture organizzate sul web’”, lasciando intendere inequivocabilmente che Quattrociocchi parlerà di questa cosa qua. Invece Quattrociocchi parla di tutt’altra cosa, essendo uno scienziato. Cioè spiega in forma molto puntuale ciò che dicevo prima sulle propagande, che si attaccano ai complotti, citando specialmente i russi. Quattrociocchi non studia “come falsa informazione, propaganda e black propaganda, e non di rado calunnie, diffamazioni seriali e veri e propri reati, stanno inquinando pesantemente lo spazio pubblico. Anche nelle democrazie”. Se Iacoboni avesse letto il libro saprebbe che, invece, Quattrociocchi studia i comportamenti umani nei social network, le echo chambers e il confirmation bias al di là dei contenuti veicolati. Non a caso il suo studio principale prende in considerazione un’ecologia complottista da una parte e una ecologia “scientista” dall’altra. Quattrociocchi fa degli esempi molto intelligenti, spiega molto bene la differenza che passa fra lo spontaneo montare di monnezza – un qualcosa che surfa il web al grido di “mecojoni!” – che spesso ha anche scopi economici (si veda il paesino della Macedonia, citato da Quattrociocchi, in cui nascono alcuni fra i siti più cliccati dai trumpisti, o anche la vicenda del ragazzino che scriveva bufale razzistissime pe fa du spicci, poi circuitato dai razzisti) e l’ingegnerizzazione di questa monnezza, cioè l’uso propagandistico che ne fa un Trump (o un Salvini nel caso delle bufale razziste). Quattrociocchi definisce Cernovich – l’ingegnerizzatore di Trump che abbiamo citato qualche puntata fa – “un genio”, ed effettivamente se lo paragoniamo a Iacoboni possiamo anche noi tranquillamente definirlo così. Per quest’ultimo le parole dello scienziato confermavano una cosa che invece non c’era: Iacoboni dimostrava, senza saperlo, gli studi di Quattrociocchi sul confirmation bias. E fra l’altro, come dimostra quella pagina che hai messo, c’era una echo chamber già pronta ad accogliere la non-notizia. Ultima ironia: è molto probabile, stante tutto questo, che – come in principio sottolinea Quattrociocchi stesso – qualcuno in questo preciso momento stia ingegnerizzando a scopo propagandistico. Cioè: questa roba c’è eccome, ma siamo certi che non sarà Iacoboni a svelarcene i contorni.

Anatole. A meno che….

Lorenzo. A meno che?

Anatole. A meno che lui in realtà non sia un grillino che ha fatto tutto questo per screditare il PD e vincere le elezioni

Lorenzo. [sotto al tavolo dal ridere]

Anatole. Va bene, oggi finisce così. Da domani si parte con l’altro temone, che qui abbiamo solo lambito ma è fondamentale.

Lorenzo. Va bene. Ripartiamo dalla guerra di parole e dalla distanza dai fatti.

Anatole. Ok, featuring Leosini, Sciarelli e Boldrini.

Lorenzo. E l’immancabile ISIS

Anatole. Esatto. Buona serata.

Miti Moderni/21: violent femmes

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cielodi Francesca Fiorletta

 

L’odore intenso di dopobarba, fra le pieghe delle lenzuola, l’alba che stenta ancora un attimo fuori dai vetri, l’umidità pesante di un nuovo fine settimana. Era sembrato troppo facile, svegliarsi, persino per un’assassina come lei, seriale.

La memoria di Old Jack

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di Wendell Berry

“La memoria di Old Jack” è appena uscito nella traduzione italiana di Vincenzo Perna per le edizioni Lindau. Qui tutte le informazioni.

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Lui la conquistò coi suoi difetti, lei lo accettò come una sorta di «terreno di missione», e il risultato fu il naufragio dell’esistenza di entrambi. Lui la legò a sé rinnegando l’energia che in verità lo congiungeva a lei. Lei gli si legò grazie a un’immagine di lui molto al di sopra della realtà – e che Jack, anzi, né capiva né desiderava, e lui le si legò grazie a un’immagine che Ruth, in seguito, avrebbe scoperto essere molto al di sotto di sé. L’ambizione di Ruth sarebbe sempre rimasta per Jack estranea e straniante, esattamente quanto per lei l’ardore e la forza del desiderio del suo compagno. Gli risulta crudele adesso, col senno di poi, rivederli gettare le basi della loro sofferenza futura. Lui era stato uno sciocco – uno sciocco e un ingenuo – a innamorarsi al punto di contemplare la grazia e lo slancio della propria gioventù riflessi negli occhi grigi di una donna, non per amore o desiderio autentico, ma per ciò che oggi sa essere stata paura – paura di ciò che lei istintivamente sapeva essere il suo opposto, addirittura il suo nemico. Lei l’aveva accettato come senza dubbio l’avrebbe persuasa ad accettarlo san Paolo – come una sfida alla speranza e alla volontà. Si trattava di due persone straordinarie, non c’erano dubbi. Se non fosse stato così, se non fossero stati tanto diversi, la loro lotta – perché questo era stato – forse sarebbe terminata prima del matrimonio. Invece fu costretta a proseguire, ad accettare i termini della sconfitta definitiva di entrambi. Ormai Jack era vicino all’estinzione dei debiti, ed era convinto di poterle chiedere la mano. Aveva anche un po’ di denaro da parte. Lo spese interamente, e se ne fece prestare un altro po’, per ridipingere la vecchia casa e rendere la proprietà presentabile e vivace in vista delle nozze. Con l’aiuto di zia Ren e zio Henry, ripulì la casa da cima a fondo, aprì e arieggiò le stanze abbandonate lasciandovi penetrare luce e vento. Spacchettarono, pulirono e rimisero al loro posto sul buffet e nella credenza della sala da pranzo gli argenti e le porcellane che erano stati di sua nonna. Fu un momento di grande spasso per tutti e tre: per Jack, che recitò nel modo più teatrale possibile la parte del promesso sposo inquieto e ignaro delle raffinatezze dei gusti femminili, deridendo quelli che molto spesso erano i suoi reali dilemmi, e per zia Ren e zio Henry nella parte di coloro che sapevano, ma, per ragioni che Jack avrebbe capito soltanto in un secondo momento, avevano deciso di rimanere in silenzio. Mentre spacchettavano le porcellane nella stanza sul retro del primo piano, si ritrovarono per le mani il decoratissimo vaso da notte di suo nonno. «Ecco un magnifico piatto da portata, zia Ren, – diceva Jack. – Me lo immagino pieno di zuppa». «Poveretta, – diceva zia Ren. – Povera testolina bionda». E zio Henry rideva, finché le lacrime agli occhi gli colavano dal naso. «E poi, zio Henry, viene il momento di andare a dormire, sali con lei in camera da letto, ti spogli e t’infili sotto le coperte, questo lo so. E dopo cosa fai?». Jack continuava su quel tenore per farli ridere, ma soprattutto perché era felice e non riusciva a trattenersi. Si preparava a dare a Ruth sé stesso e tutto ciò che aveva soltanto in cambio di lei. Sentiva spalancare dentro di sé gli abissi di una generosità che non aveva mai conosciuto. Durante i preparativi, passeggiava di notte per la casa contemplando quanto avevano predisposto, immaginando l’arrivo di Ruth e la sua approvazione. Una volta sposati, pensava, una volta che l’avesse condotta là e avesse consegnato nelle sue mani la propria casa e la propria vita, la reticenza della donna sarebbe scomparsa. Non avrebbe più dovuto andare sempre verso di lei, attrarla sempre verso di sé imponendole le sue attenzioni, ma lei si sarebbe volta spontaneamente verso di lui, grata di ciò che lui le aveva dato. Si sbagliava in pieno e non se n’era accorto. Le forze che li avevano attratti e con le quali avevano giocato, che li avevano fatti avvicinare, si erano prese gioco di loro, e loro non se n’erano accorti. L’idea lo fa gemere ad alta voce e scrollare la testa. La scuote, si volta, e mentre la visione torna in lui, fissa la strada che sale attraverso il paese come se attendesse soccorso da quella direzione. Ma non riesce a ricacciare indietro il pensiero. È stato ingannato non da Ruth ma dal suo desiderio di lei, talmente intenso da fargli credere a ciò che vedeva e immaginare possibilità inesistenti. E Ruth – un’antica tenerezza sgorga in lui come un torrente in piena ingombro di rottami e detriti – anche Ruth è stata ingannata, da lui, dalla sua stupida decisione di conquistarla acconsentendo alle sue idee sbagliate. Ciò che la donna sperava, forse, non lo sapeva nemmeno lei. Però non c’erano dubbi che non avesse ottenuto quanto aveva sperato. Niente nella sua esperienza l’aveva preparata ad apprezzare – e ancor meno a dar valore – a un uomo come Jack Beechum. Anni prima suo padre aveva aperto un negozio di ferramenta in città, affidando i lavori della propria fattoria a una sequela di fittavoli e braccianti. Gli affari non andavano bene – e sarebbe continuato così fino alla morte e al subentro dei due figli maschi – e in quelle circostanze nemmeno la fattoria. Prima che Ruth nascesse, a ogni modo, l’ambizione di famiglia era già passata dalla terra natia all’attività commerciale nella cittadina di Hargrave, complice il mito della prosperità imminente che aleggiava sulla confluenza dei due fiumi. Ma la prosperità che la cittadina attendeva, in realtà, non derivava affatto dal traffico fluviale sui fiumi Kentucky e Ohio: che se ne rendesse conto o meno, dipendeva già dalla ferrovia – la quale, quando giunse, scansò Hargrave di parecchie miglia. L’attività dei Lightwood, in ogni caso, sembrava promettere loro una comodità e una ricchezza che era impossibile aspettarsi dall’agricoltura, e una volta diretta l’attenzione verso la città non si voltarono indietro. Visto che abitavano poco fuori Hargrave, divennero a tutti gli effetti gente di città. L’abbondanza rurale rappresentata da cucina, orto, frutteto e affumicatoio serviva semplicemente a intrattenere gli ospiti cittadini: commercianti e professionisti, giovani e brillanti ministri di varie chiese. E dunque, quando divenne marito di Ruth, Jack non occupò un vuoto: usurpò il posto di qualche giovane pastore, avvocato o dottore ben istruito, il cui nome e volto madre e figlia forse non conoscevano ancora, ma la cui collocazione era tuttavia già stabilita. Quella figura ipotetica e nebulosa aveva fornito a Ruth il modello da esibire a Jack. Lui non era certo uomo su cui fosse possibile nutrire sogni grandiosi: aveva i piedi troppo piantati in terra. Così le illusioni e le false speranze del corteggiamento non sopravvissero all’intimità del matrimonio, e nel fallimento del corteggiamento fallì anche la loro unione. Dai piaceri ignari della giovinezza, la prima notte di nozze la scaraventò nel martirio della santità sessuale. Quello fu quanto. E quanto sarebbe stato – anche se a lui ci sarebbero voluti anni a darsi per vinto. Il giorno del matrimonio, da parte di Ruth non c’era stato alcun arrivo gioioso, alcuna riconoscente accettazione del luogo e di lui stesso e dei suoi preparativi per l’ingresso della sposa. Una volta conclusi matrimonio e festeggiamenti e allontanatisi dalla folla beneaugurante della casa paterna, infine liberi dai vincoli delle convenzioni e delle cerimonie, era rimasto soltanto un vuoto terribile, in cui entrambi capirono, prima che il calesse percorresse le due miglia di strada sterrata che conducevano al luogo remoto in cui lei aveva accettato di vivere, di essere completamente estranei l’uno all’altra, di non conoscersi affatto. «Spero che la casa ti piaccia», disse lui improvvisamente a disagio, vedendo l’edificio da lontano, come pensava lo vedesse lei per la prima volta. «Oh, sono certa che mi piacerà, – disse lei. – Mi piacerà perché è tua». Ma lei non guardava Jack. Era distante da lui. E lui se ne accorse, e si rese conto che ciò che aveva fatto cominciava a vacillare dentro di sé. «Ma è tua, – replicò. – Non deve piacerti soltanto per educazione». Lei non disse nulla, e lui guidò per un altro mezzo miglio prima di riuscire a parlare di nuovo. «Aspetta e vedrai. Con zia Ren e zio Henry, l’abbiamo rimessa a posto da cima a fondo». Quando raggiunsero l’edificio lui l’aiutò a scendere, si caricò del suo bagaglio e le fece strada in casa. Il sole era basso sull’orizzonte: la vecchia casa, silenziosa come se non fossero là, era piena d’ombre senza forma e dell’odore di vuoto delle stanze a lungo disabitate. Avvertì l’improvviso sconforto della moglie. Posò i bagagli nell’ingresso e aprì la porta di una stanza ai piedi delle scale. «Questo è il soggiorno. Devo andare a occuparmi del cavallo. Torno subito. Tu intanto mettiti comoda». Pochi minuti più tardi, quando tornò dalla stalla e si affacciò alla porta della cucina, Jack trovò Ruth seduta su una sedia scostata dal tavolo su cui zia Ren aveva apparecchiato e coperto con un panno la loro cena di matrimonio. Guardava in basso in campo aperto, in direzione del bosco. Era una sera tranquilla e tiepida di tarda primavera. Jack ne avvertì l’incanto ed entrò in casa piano, arrestandosi appena oltre la soglia. Per un attimo lei rimase immobile. Poi si alzò, si volse e camminò verso di lui senza guardarlo, come seguendo qualche vaga istruzione. «Hai dato un’occhiata in giro? Va tutto bene?». Lei annuì. «Tutto bene». Ma evitava di guardarlo. E continuò a farlo anche quando lui allungò il braccio per attrarla a sé e abbracciarla. Un anno e mezzo dopo, quando Jack vendette il raccolto, tornò a casa e mise il documento di estinzione del prestito nelle sue mani, si ripeté la stessa scena. Sperava che lei gioisse, che si voltasse ad abbracciarlo felice. Sapeva che la donna era consapevole del suo desiderio. Ma lei non ne fu capace. Conscia delle sue mire, non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia. A quel punto Jack capì che la moglie provava una sorta di paura morale nei suoi confronti. Aveva imparato a riconoscere quella paura e a percepirla. Capì che il tocco delle sue mani era diventato ripugnante per lei, e capì perché. Le mani di Jack non erano schizzinose, e lei ne aveva conosciuto i modi, la disponibilità a compiere qualsiasi gesto: ad afferrare qualunque presa fosse loro offerta, a castrare e macellare animali, a imporre l’obbedienza a muli e cavalli, a ricoprirsi di qualsiasi porcheria, sporcizia o sangue fosse necessario. Erano mani che non esitavano e non cercavano di blandire. Che facevano con convinzione, e addirittura con entusiasmo, ciò che prima lei aveva visto fare soltanto di malavoglia da mani nere. Jack aveva scelto liberamente di compiere azioni che lei credeva un uomo potesse fare soltanto per obbligo. Che adesso lui la toccasse, posasse le mani su di lei in modo altrettanto aperto e convinto, con lo stesso entusiasmo che manifestava nel posarle su qualunque altra cosa gli garbasse toccare, lei non poteva sopportarlo. Sotto la sua mano, la carne di lei si contraeva. L’avvertiva ritrarsi al suo tocco. Lui la opprimeva. Il suo corpo curvo su di lei nell’oscurità era come una foresta di notte, affollata di vasti spazi e ombre, e grida di creature distanti di cui non conosceva il nome. Rappresentava per lei un mondo del tutto estraneo e isolato. E si sentiva doppiamente sola perché lui non aveva paura di nulla: apparteneva a tal punto al posto in cui l’aveva condotta, che neppure l’isolamento del luogo significava solitudine per lui. Jack era un uomo tutto d’un pezzo, sostenuto da una tradizione cui lei aveva rinunciato, o cui qualcun altro aveva rinunciato per lei prima della nascita – la tradizione di autosufficienza del piccolo proprietario terriero, di fedeltà al proprio luogo d’origine. Il fatto che si trovasse a suo agio in quelle condizioni di vita, e di conseguenza di fronte alle proprie necessità si comportasse in modo del tutto diretto, senza finzioni o eufemismi, lo rendeva alieno agli occhi di Ruth. Lui non faceva caso agli abiti da lavoro che puzzavano di letame, sudore di cavallo e del suo stesso sudore. Lei scoprì con sgomento che d’estate Jack andava in giro senza calze, e in inverno dormiva con la camicia addosso. Glielo fece notare cercando di modificare le sue abitudini, e lui, finché ci riuscì, fece ciò che gli era stato richiesto. Studiò i desideri della moglie e cercò di esaudirli meglio che poteva. Ma era plasmato troppo in profondità per poter cambiare, a meno di obbedire a una deferenza che non nasceva dal desiderio per lei, ma dalla propria delusione. Deferenza che per giunta diventava sempre più superficiale e svogliata, perché, incapace di mascherare la sua disaffezione e disapprovazione per i modi rozzi del marito, lei cercava semplicemente di costringerlo a smettere di essere ciò che era, spingendolo così ad assumere un atteggiamento provocatorio. Ruth invece possedeva la spietata integrità ideologica nata dall’ambizione, la calma severamente ordinata della propria famiglia e delle proprie abitudini. E Jack le minacciava entrambe con la sua sregolatezza, la sua passione per l’oscurità, che lei non provava né capiva, e dunque temeva. Non poteva seguirlo nelle tenebre. Non poteva lasciarsi andare a ciò che non conosceva, a ciò che non vedeva e non prevedeva. Non perché lui le usasse violenza, ma perché le chiedeva di fare violenza a sé stessa: quando la mano rude s’infilava nel corpetto o s’insinuava all’interno della coscia, mentre l’occhio vigile, prima con allegria e poi con trepidazione, scrutava la reazione della donna alla sua mano – tutto le chiedeva di lasciarsi domare, di desiderare ciò che non poteva offrire, di aprirsi a un compimento di cui sarebbe stata in seguito sempre e soltanto un frammento. E così, pur se la mano di Jack procedeva nel suo cammino, esplorava i crepacci e i luoghi più remoti della sua carne ed entrava in lei con la soggezione di un pellegrino, pur se lui penetrava in lei come il conquistatore di una città e la burrasca del desiderio infine lo gettava a riva su di lei, docile e senza forze come un bambino addormentato, lei continuò a trattenere una ricompensa, un dono vitale per sé. Gli negò gli occhi. Come già prima del matrimonio, rimase per lui un continente sconosciuto. Non gli offrì alcun approdo, alcuna via tracciata. Ogni volta che lui si faceva largo verso di lei, avveniva come per caso, come l’ultimo arrivato che brancola nel buio. Le si avvicinava ogni volta con maggiore trepidazione, e sempre maggior fatica. Tra le sue braccia, sorpresa e trattenuta nelle ultime, violente folate del suo desiderio, Ruth si sentiva tradita e vittima: le sembrava che il tetto e le pareti della vecchia casa crollassero, lasciandola esposta alle stelle e all’oscurità distante. Le sembrava di non essere affatto là, ma sola, persa, esule nel mezzo di una landa buia, dove aveva persino terrore di alzare le mani per toccare gli alberi. E restava paralizzata, col timore che qualche creatura o cosa la potesse udire, ad ascoltare il vento e le grida lontane. Lui era la sua croce, e lei lo sopportava con una sottomissione che più tardi gli ha fatto gelare le ossa. Stesi in solitudine uno a fianco all’altra, i due giacevano rigidi e con gli occhi sbarrati come effigi. Fu così che Jack, quando gli consegnarono nel lenzuolo inzuppato di lacrime della madre il corpicino dell’unico figlio maschio, morto, vi scorse il proseguimento di un’infelicità pregressa e familiare.

Essi vivono

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[Nell’ambito del Primo Festival di DeriveApprodi 25/26/27 novembre, Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, presentano presso il Nuovo Cinema Palazzo “L’invasione aliena”, il nuovo almanacco di Alfabeta2, coedito insieme a DeriveApprodi Editore. Presento qui il mio testo incluso nel volume. Indicazioni sugli autori e i materiali raccolti, in coda al post. a. i.]
 .

di Andrea Inglese

Essi vivono malgrado i nostri tentativi di reperimento per pattugliamenti celesti e radiocronache degli spazi profondi, essi vivono oltre i nostri sforzi d’immaginarli in formato cinematografico,

La postverità e il pallone sbagliato dalle veline dell’ISIS ai tronisti della «loi travail»

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Anatole. Forse si può riprendere la questione del complottone per elaborare qualche idea su come funzioni la verità del discorso corrente, cioè per ragionare su cosa significa oggi dire una cosa vera. Disponendo sull’asse delle ordinate un gradiente di menzogna/verità e su quello delle ascisse populismo e democrazia, il complottismo si situa al punto di intersezione. È un po’ il grado zero di questa configurazione, che peraltro disegna abbastanza bene il quadro politico delle democrazie contemporanee, ossessionate dalla ricerca del consenso. Si potrebbe anche dire che il complottismo sia il punto in cui il rodimento di culo cosiddetto populista e la suadente risposta tecnocratica dei regolamenti si trovano a confliggere su cosa sia vero o falso e lì vuole stare la politica oggi, perché quello è il vero point break dell’onda di consenso: quando sei sopra vuoi surfarla all’infinito. E per populismo sarà bene spiegare che intendiamo quello che diceva Alessandro Lanni in Avanti Popoli, cioè l’emergere di queste categorie del tipo di «Popolo della Rete», che nascono come semplificazioni giornalistiche, ma ritraggono scenari economici, come nel caso del «Popolo delle Partite IVA», o politici, come in quello del «Popolo Viola» (per chi se lo ricorda) o in maniera più nota del «Popolo della Libertà», in maniera trasversale rispetto alle tradizionali appartenenze di classe.  Ad ogni modo, finché è in corso un conflitto su cosa sia vero o falso, la tenuta democratica sembrerebbe garantita. È però anche chiaro che all’interno di questo conflitto c’è sempre più spazio per visioni centrate su ipocrisia o, peggio, veri e propri deliri.

Lorenzo. tipico di un mondo pre-scolare (o post-scolare, se vogliamo), mi vien da dire, che surroga l’educazione con le competenze passive accessibili dal telefonone, posto che, come abbiamo ricordato nella puntata precedente, una ampissima maggioranza delle persone nel mondo è solo spettatrice e “replicatrice” (memetica) della comunicazione telematica.

Anatole. Credo che sia proprio così, soprattutto se pensiamo alla scuola come il luogo dove sei costretto fin da bambino a misurare la tua condizione percepita con quella degli altri, dunque con un’idea di realtà che emerga dalla sintesi di questa prospettiva dialettica in cui la tua idea di te stesso non dipende soltanto dal modo in cui ti percepisci da solo o nello scambio coi tuoi più stretti familiari. È ben evidente che se devi relativizzarti in base al modo in cui ti pensano persone diverse da te e anche in relazione al fatto che sei in condizione di pensare gli altri diversi da te, poiché la scuola ti mette a contatto con loro, con il loro modo di vita e di intendere il mondo, ecco che difficilmente potrai pensare che tutto ciò che diverge dalla tua prospettiva originaria sia un complotto contro di te.

Lorenzo. Tutto ciò potrebbe condurci a sviluppare qualche riflessione appuntata sul nostro file aperto a proposito di «Tecnocrazia e populismo nel mondo globalizzato del doposcuola», ma, seguendo i ragionamenti sulla grande truffa del decostruzionismo (ma vedi anche questo bell’articolo, uscito dopo a dir la verità), è forse il caso di prendere di petto questa questione del rapporto tra vero e falso, realtà e finzione, cronaca e narrazione. Specialmente perché abbiamo passato settimane a situare queste categorie nella dimensione del grande complottone, per poi scoprire che l’affabulatore numero uno è proprio Zuckerberg, il capo di Facebook, quando vorrebbe spiegarci che «Of all the content on Facebook, more than 99% of what people see is authentic. Only a very small amount is fake news and hoaxes» (lo si legge ad esempio sul Guardian).

Anatole. Questo pensiero percorre un esile sentiero tra un baratro e l’altro, contrapponendo l’autenticità dei contenuti alle fake news e agli hoax (concetto interessante, che rimanda a questioni di carattere filologico fin dalle sue origini, riconducibili al libro di Tomas Ady A candle in the dark, or a treatise on the nature of witches and witchcraft  del 1666, come osservava già Robert Nares nel secolo XVIII). La questione dell’autenticità è davvero delicatissima, specialmente se, come fa Zuckenberg, la metti in relazione alla verità o meno di un fatto. Vero e autentico sono in realtà aspetti diversi del rapporto di un racconto con la realtà: hanno di sicuro molto a che fare l’uno con l’altro, ma troppo spesso vengono sovrapposti abusivamente.

LorenzoAuthentic è la parola centrale: autentico, genuino, vero nel senso di non artefatto. L’autenticità è un attributo che si può applicare al falso. “E’ un autentico falso” si può dire, si può concepire, così come – in diplomatica e nel diritto – l’idea di “falso autentico”. Mi vengono fra l’altro in mente tutte quelle microstar della De Filippi che dicono “sono una persona vera”, che non è una tautologia (le persone sono tutte vere), ma una dichiarazione di genuinità, di autenticità. Eppure non riesco a pensare a qualcosa di più pataccato di una microstar della De Filippi. C’è chi dice che la maggior parte dei contenuti di Facebook non è né verificabile, né falsificabile, ad esempio Alexios Mantzarlis su Poynter, e in questo senso l’affermazione di Zuckerberg è in un certo senso un falso. Io però andrei più a fondo perché, al di là di questo dato incontrovertibile che gli scienziati mettono sul piatto, l’affermazione di Zuckerberg è anche vera – nonostante sia ovvio che egli ne strumentalizzi le implicazioni.

Anatole. Nathan Jurgenson, il fondatore di Real Life Magazine e ricercatore a Snapchat, riconduce il problema all’algoritmo che filtra l’utenza di notizie su Facebook, osservando che: «getting rid of obvious fake news doesn’t make people informed when you’re only seeing a targeted sliver of reality». Dice che, in sostanza, puoi distinguere una sezione di contenuti controllati, affidabili, trasformandoti di fatto in un editore, oppure mettere gli utenti in condizione di scegliere da loro che genere di contenuti ricevere nel feed. Di sicuro, aggiunge, il fatto stesso che si chieda a Facebook di diventare responsabile del mondo in cui informa mediante i contenuti che veicola spiega di per sé la ragione per cui non accadrà: perché la filosofia è quella di dare agli utenti quello che vogliono, non ciò di cui avrebbero bisogno. Indugiare sul piano etico di «cosa gli utenti vogliono» e ciò di cui «gli utenti hanno bisogno» ci ricondurrebbe a questioni inerenti la scuola, la formazione, cioè la necessità di alzare drammaticamente l’asticella del sapere critico in una società centrata sull’informazione. Per rimanere al livello in cui ci stiamo muovendo, quello del rapporto tra autenticità e verità, c’è sicuramente da osservare che i contenuti veicolati dai social network spesso non sono veri, nel senso che non reggono ad una falsificazione basata su evidenze positive, ma sono autentici nel senso che sono autenticamente formulati dalle fonti che li producono. Ci sarebbe davvero da sviluppare una teoria filologica dell’informazione, per evitare di confodere verità, autenticità e realtà di un determinato fatto veicolato da un discorso pubblico, che ormai è un discorso in generale, poiché di discorsi privati sembrerebbe che non ne esistano più. Forse si potrebbe fare anche una filologia del tronista, ma forse è esagerato. Di sicuro mi viene da pensare che questa cosa dell’essere se stessi, del presentarsi in maniera non artefatta, che poi deriva dalla cultura del rap, quel get real che ti configura come credibile, espone ad una continua verifica del piano di autenticità. Un po’ come se ci si dovesse dimostrare credibili in base ad un principio di conformità rispetto al modo in cui ti pensi e appari, piuttosto che in considerazione del fatto se hai detto una cosa vera o una stronzata atomica. Se ti qualifichi come uno che dice stronzate atomiche, allora è quasi meglio che continui a dirle, perché se per caso dici la verità non sei più credibile, in quanto inautentico.

Lorenzo. Esatto. L’autenticità implica un piano di autorialità, non necessariamente un piano di verità. La Donazione di Costantino è falsa, ma il documento che la descrive è autentico. Un documento che, fra le altre cose, sancisce la nascita del potere temporale della Chiesa e lo mette in ruolo. In altre parole: se io su Facebook scrivo che i rettiliani mi hanno rapito dico una cazzata autentica, oltre che un’autentica cazzata. E l’algoritmo di Zuckerberg non andrà a scovare il mio post per cancellarlo, il ché è sostanzialmente corretto, perché quel post è autentico, cioè non lo ha scritto qualcuno in mia vece, registra una (qualche) realtà, non una verità. D’altra parte è corretto anche il discorso sulla non verificabilità/falsicabilità di un post sul rapimento rettiliano: la cosa avviene perché sostanzialmente quel post è narrativa.

Anatole. Certo, c’è un piano di verità che trascende la verità dei fatti. Ci sto lavorando a proposito della verità del romanzo nelle sue forme più antiche, con un confronto tra due opere francesi della seconda metà del secolo XII, il Roman de Rou di Wace, un’opera di carattere storico, e il Chevalier au lion di Chrétien de Troyes, un romanzo vero e proprio. Se Wace dice che è andato a cercare la fonte meravigliosa di Barenton nella foresta di Brocéliande e non l’ha trovata, biasimando se stesso per il fatto stesso di averla cercata, Chrétien non si fa scrupolo ad impiegare il luogo letterario screditato di valenza storica. Questo perché la verità del romanzo non dipende dall’effettiva consistenza dei luoghi in cui gli eventi si svolgono, quanto piuttosto con quella delle emozioni dei personaggi, con ciò che provano, che sentono, nella prospettiva idealizzata in cui il loro autore li situa. Nel prologo del Chevalier au lion Chrétien dice chiaramente che i cavalieri di Artù amavano davvero, mentre quelli del tempo in cui vive e scrive hanno trasformato Amore in fable e mançonge, finzione e menzogna, perché dicono di essere innamorati, ma in realtà non provano davvero quel sentimento. La verità del Chevalier au lion risiede nell’autenticità del sentimento che Yvain prova per Laudine de Landuc, verificato attraverso tutta l’estensione del romanzo, non già in quella dei luoghi attraverso i quali la storia si svolge.

Lorenzo. Proprio in virtù di questo parallelo possiamo forse archiviare l’idea che “Trump ha vinto grazie a Facebook”, per quanto sia vero che sempre di più le persone “si informano” sui social network, cioè non leggono notizie ma storie (questo è il motivo per cui Zuckerberg dice una mezza verità). In un contesto come il social network i “fatti” (veri o falsi che siano) discendono dalle argomentazioni e non viceversa. Secondo la nuova retorica “l’uditorio è tutto” e Zuckerberg questa cosa deve averla capita bene se, invece di mettere il bottone “vero/falso”, ha messo il bottone “mi piace/sono orripilato/mi fa ridere/ mi fa piangere”.  Su FB sono in contatto con diversi operatori dell’informazione che della verità fanno la loro bandiera. È una cosa meritoria, assolutamente. Mi piace questa cosa che fanno, sorrido, metto un cuore. Approvo il loro argomento, ma la compresenza di informazione e narrativa, la sovrapposizione di queste due categorie, la confusione a volte, è tale da rendere necessario un altro approccio alla questione.

Anatole. Esatto. C’è un problema evidente di sovrapposizione di registri, cioè di racconti di finzione che si spacciano per notizie, di notizie mascherate da racconti di finzione, o filtrate mediante il registro del sarcasmo, commenti che sono racconti, racconti che sono commenti, come in un grande zibaldone che confonde i registri e mescola tutto con tutto. A questo proposito cade bene il fatto che la parola dell’anno dell’Oxford Dictionary sia il sostantivo “Post-truth”, anche preferita ad “alt-right”, venuta di sodissima soprattutto dopo la vittoria di Trump alle presidenziali americane. È interessante osservare che la parola abbia una storia lunga alle spalle, poiché, come riporta il Guardian «the first time the term post-truth was used in a 1992 essay by the late Serbian-American playwright Steve Tesich in the Nation magazine» relativo allo scandalo Iran-Contra e la Guerra del Golfo. In particolare, Tesich diceva che «we, as a free people, have freely decided that we want to live in some post-truth world», denunciando la già avvertibile predominanza di una propaganda volta a mistificare i dati di realtà al fine di produrre effetti politici e militari di rilievo planetario. La forma stessa della parola evidenzia, d’altra parte, addentellati evidenti con la teorizzazione postmoderna, che, come diciamo fin dal primo di questi dialoghi, appare sempre più una profezia che si auto-avvera, cioè un progetto politico e culturale, più che un’analisi della realtà.

Lorenzo. A proposito di vero e falso, autentico e genuino nell’epoca postmoderna della postverità l’esempio che subito mi viene in mente in relazione ai miei interessi mediorientali è la storia del mercato degli schiavi nei territori di Stato Islamico. Il meme che ancora circola in rete, che non ha mai smesso di circolare, è questa fotografia che ritrae donne in abaya e niqab che, incatenate, si dirigono da qualche parte accompagnate dai loro aguzzini.

 

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La fotografia, pubblicata nel 2011 da Le Monde, è autentica. E’ stata scattata in Libano, durante le celebrazioni della Ashura, una ricorrenza dell’Islam sciita che assumono talvolta la forma di rievocazioni allegoriche. Cioè è una foto autentica che registra la realtà di una allegoria messa in scena da una denominazione religiosa che con Stato Islamico non ha nulla a che fare, anzi attualmente gli si oppone. 

 

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L’articolo che linko qui è molto chiaro su questa cosa. Dice: “Many Yazidi women captured by the Islamic State (IS) group have been forced into slavery. After months of speculation while photos claiming to show their plight circulated online, the group finally confirmed these rumours in its online magazine Dabiq. However, all of the photos of these slave women circulating on social networks are fake. Even though the jihadists boast about enslaving these women, they keep them hidden away”. Ossia: il mercato degli schiavi è una cosa reale, lo conferma anche la rivista di Stato Islamico, ma le foto sono false (cioè false in relazione alla notizia perché, nei fatti, sono autentiche). Un capitoletto recita: “A reality illustrated by false images” ma quello ciò circola sono proprio quelle “false images”, il meme è quello. Non è finita, però. Il pezzo linkato è dell’11 giugno 2014 ma ancora nel novembre seguente l’International Business Time, una testata online dalla buona diffusione, usava ancora quell’immagine in un articolo in cui si parlava di un presunto documento dello Stato Islamico in cui si riportavano i prezzi degli schiavi. Il documento era a sua volta un falso: portava la data del 16 ottobre 2014 ma era intestato allo Stato Islamico di Iraq, un’organizzazione antesignana dello Stato Islamico di Siria e Iraq (aprile 2013) e dello Stato Islamico (giugno 2014). Nessuno si chiese chi potesse averlo fabbricato, cioè chi ne fosse autore: scoprendolo avremmo ricavato una notizia vera riguardante persone e gruppi che fanno circolare dei falsi. Si preferì “smontare” il documento e basta, quello che rimase fu la conferma dell’esistenza di un mercato degli schiavi da parte di Stato Islamico e il “discorso” su questo fatto.  A un certo punto, l’anno dopo, era all’inizio di agosto, una rappresentante dell’ONU disse di aver effettivamente visto circolare un prezzario degli schiavi nei territori di Stato Islamico. Non disse che quel documento “emerso” l’anno precedente era autentico, disse che aveva visto coi suoi occhi una lista dei prezzi degli schiavi bambini fra le mani di combattenti di Stato Islamico in Siria e Iraq. Ciò però non impedì ai redattori di Russia Today di scrivere“After circulating for almost a year, the UN has finally confirmed the authenticity of the Islamic State Sex Price list being offered to their fighters and other men trying to purchase sex slaves as young as one for $165”. Russia Today in quell’articolo riportava un tweet in cui compariva indovinate cosa:

 

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In un marasma come questo è ovvio che non si riesce più a parlare “bene” di questi maledetti schiavisti di Stato Islamico – come di qualsiasi altra cosa – senza che qualcuno ti metta in dubbio che alla base ci sia un fatto vero. Ricordo un mio “amico” di Facebook, Oussama Abu Musab, che parteggiava per l’ISIS (poi una volta parliamo degli amici di Facebook, con calma). Ogni giorno portava tonnellate di argomenti basati sul debunking di storie simili. In un’ecologia come quella appena drscritta lui ci sguazzava benissimo. E avendo pascolato (con sofferenza) nel network di Stato Islamico posso dire che questa dinamica è pressoché obiqua. Mi viene da pensare che anche Trump e i suoi abbiano potuto contare su una situazione simile. In questo non c’è alcuna differenza fra lui e Abu Bakr al-Baghdadi.

Anatole. Tra i tanti fatti di casa nostra che si potrebbero associare a questo che presenti, mi viene in mente la foto fotoscioppata di un corteo contro la loi travail in Francia alla fine del maggio scorso, quella che ritraeva i manifestanti dietro uno striscione della CGT (Confédération Générale du Travail, la CGIL francese per capirci) sul quale ci sarebbe stato scritto «Nous ne ferons pas la fine de l’Italie». Si trattava chiaramente di un falso, un’elaborazione grafica, dunque racconta un fatto mai avvenuto. Fatti linguistici puntavano inesorabilmente in questa direzione, senza che ci fosse nemmeno bisogno dell’intervento del filologo. Senza calcolare l’improbabilità del costrutto maccheronico «ne ferons pas la fine de l’Italie», quindi l’incongruenza sintattica, la parola «fine» è in francese aggettivo femminile, qui scambiato per il sostantivo «fin» e corretta in «fin» in versioni più recenti della stessa elaborazione grafica. L’immagine la trovavi condivisa sulle pagine dei social network dell’autore di corsivi antigovernativi al vetriolo de Il Fatto Quotidiano, senza nemmeno la decenza di una parola di scusa nei confronti delle centinaia di (più o meno) ingenui lettori, che l’hanno a loro volta propagata a macchia d’olio. Anzi, il nostro giornalista professionista provava poi addirittura a farci lo splendido, additando al pubblico ludibrio una povera disperata che richiedeva per Renzi lo status di dittatore e la pena di morte per i dissidenti. Il fatto di aver procurato l’isteria di una povera di spirito non rendeva meno grave che un giornalista professionista diffonda un conclamato falso senza verifica.

 

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Si potrebbe commentare che tra il rilancio di una foto adulterata e lo scatto superpiacione di Renzi con Obama ci passa un abisso, almeno in termini di professionalità: la narrazione epica renziana sarà stucchevole quanto vogliamo, ma almeno le foto del Presidente che siede pensieroso su un gradino all’Arsenale a Venezia o gioca alla Playstation con Orfini mentre si vota l’Italicum, come quelle della Boschi con la bambina africana che le fa la treccina, sono vere, cioè raccontano fatti realmente accaduti. Ma è più interessante notare che la cura del dato positivo, il fatto verificato, l’evento prodottosi tende qui, e in tanti altri casi, ad identificarsi con la sua interpretazione, fino al punto che la seconda produce il primo. Molte delle argomentazioni di chi provava a giustificare il contributo alla propagazione della foto manipolata suonavano, infatti, nel senso di «anche se è un falso, questo argomento è stato usato dai lavoratori francesi in lotta», motivo per cui il falso non sarebbe poi così falso.  Cioè, la postverità, almeno in questo caso, è una cosa falsa che confermerebbe un pensiero corrente vero, una sorta di emblema della verità.

Lorenzo. In effetti la traiettoria “emotiva” è la stessa rispetto al tema “mercato degli schiavi” dell’Isis. Uguale proprio. Il risultato, in questo caso, è che non riesci a parlare della loi travail in maniera sensata (nell’altro si trattava di parlare con sensatezza del mercato degli schiavi di stato Islamico) perché ti trovi in una situazione in cui tutti intorno a te hanno indossato la casacca, e anche l’arbitro è uno scemo. Stanno giocando una partita a pallavolo con un pallone da basket e non se ne sono accorti. E se vai lì e gli dici:«scusate, avete sbagliato pallone» ti guardano pure male.

Anatole. Appare piuttosto conseguente che l’esclusione dal dibattito sulla democrazia e il suo funzionamento delle discipline che accertano la verità dei fatti su base documentaria conduca alla definizione di un sistema di opinioni centrate su un giudizio che si produce in anticipo rispetto all’accadimento dei fatti dai quali dovrebbe scaturire, o magari anche in loro assenza, cosicché non sorprende che il giudizio arrivi anche a produrre il fatto, secondo un capovolgimento dell’ordine naturale delle cose.

Lorenzo. Sì, ritorniamo al punto individuato nel primo nostro dialogo, quello intitolato “Cinque matti…” ma la cosa si allarga. Già nel 2004 Ron Suskind sul New York Times ci raccontava che nel 2002 un senior adviser di George W. Bush aveva già un nome per quelli che «believe that solutions emerge from your judicious study of discernible reality». Li definiva in maniera derisoria una “reality-based community”. Siamo a un anno dall’11 settembre e a pochi anni dalle teorie sulla “fine della storia”, sul “conflitto di civiltà” e altre panzane. Già allora qualcuno pensava che “quelli che credono che le soluzioni emergano da uno studio giudizioso di una realtà distinguibile” debbano essere descritti come una “comunità”, cioè che il problema della realtà non riguardi l’intera umanità bensì, in definitiva, quattro scemi che parlano in salotto (raccontavi, nell’articolo che abbiamo citato all’inizio, di come a Stanford a voi filologi vi definissero positivist). Flaminia Saccà lo ha spiegato molto bene nel suo Culture politiche, informazione e partecipazione nell’arena politica 2.0 (in Sociologia, L, 3, ottobre 2016, p. 38) aggiungendo:

La realtà viene qui chiaramente intesa come una scelta di appartenenza, come una delle variegate possibilità caratterizzanti la società umana. Non un fattore di coesione, non una condizione comune, non una necessità, bensì una delle tipologie identitarie fra le tante. Minoritaria, verrebbe da dire, perché “questo non è più il modo in cui funziona il mondo oggi”, come venne spiegato al giornalista […].

Un’osservazione come questa mi riporta a ripendere una cosa che mi è cara. Siamo ancora nel 2004 quando John K. Galbraith in L’economia della truffa scrive:

le opinioni condivise, che altrove ho chiamato ‘sapere convenzionale’, sono altra cosa dalla realtà […] Non sorprendentemente, tra le opinioni e la realtà ciò che conta, alla fine, è la seconda […] in seguito a pressioni economiche e politiche e alle mode del momento, tanto l’economia quanto realtà politico-economiche ancora più vaste coltivano una versione della verità. La quale non ha necessariamente qualche rapporto con la realtà.

È per questo che se uno dice che Stato Islamico è una organizzazione criminale globalizzata di tipo mafioso molti ti guardano male come se avessi detto quella cosa del pallone sbagliato.

Anatole. Questa sintesi iconica del pallone sbagliato mi pare perfetta. Mi piacerebbe calciarlo nella direzione del complottema per eccellenza, quello de “L’HACKER RUSSO”, il vero cattivo che si profila all’orizzonte, passando dal ritratto dei manifestanti americani antitrump come comparse pagate da Soros (la finanza internazionale con la quale noi élite liberal intellettuali saremmo colluse) di cui parla bene Martino Mazzonis, e il complotto filorusso del Movimento Cinquestelle in Italia denunciato da Iacoboni e ripreso da Salamida.

Lorenzo. Aspetta, Fermati qua. Hai dimenticato la polemica su questa gif fotoscioppata, o forse l’hai rimossa:

In realtà quella persona reggeva un cartello che diceva: «WE LOVE YOU JOIN US». Bello, no? Ti ho fatto male al pancreas? Non hai idea del panico che ha generato su twitter… Complotto!

Anatole. … [sgrana gli occhi] L’idea del movimento complottista che complotta a sua volta stabilisce una circuitazione ermeneutica da sbrocco senza precedenti, che riporta tutto il ragionamento sull’autenticità e la verità al piano sul quale ci siamo mossi nelle ultime settimane. Mi rendo però conto che già così abbiamo tirato giù una lenzuolata illeggibile (ma il superlong form dialogato è l’unica risposta possibile alla retorica del complotto).

Lorenzo. Effettivamente si è fatta una certa e non abbiamo ancora iniziato la partita a Illuminati

Anatole. Ok, allora concluderei con un commento sulle ultime parole di Albus Dumbledore a Harry Potter nel finale della serie a proposito del concetto di realtà.

Lorenzo. Sei sicuro di ciò che stai facendo, vero? Con Potter partono treni, autostrade, navi spaziali.

Anatole. La dico e basta: «of course it is happening inside your head, Harry, but why on earth should that mean that it is not real?».

Lorenzo. … [fissa Anatole]

Anatole. … perchè mi guardi così?

Lorenzo. No, vabbe’. Spiegala.

Anatole. Cioè: una cosa che accade anche soltanto nella tua testa ha una sua realtà, nel senso che determina il modo in cui vedi le cose, dunque incide sulla realtà, interagisce con essa, la modifica. Anche la più inverificabile delle notizie, la più apertamente falsificata, voglio dire la più atomica cazzata, ha un suo statuto ontologico non dissimile da una notizia vera, poiché incide sulla realtà, non solo quella che prende forma nella testa dei patiti del complotto, ma anche quella di chi si trova costretto ad interagire, magari anche solo indirettamente, con ciò che seminano nella semiosfera dei social network. È un po’ il punto che segnala giustamente Alessandro Lanni, interpretando l’articolo dell’Economist sul fatto che “Mere” speech has powerful consequences alla luce del concetto di «gesto linguistico» formulato da Peirce, cioè con «l’idea che il significato delle parole non sia un fatto là fuori ma che abbia a che fare […] con gli effetti che esso mette in moto». Insomma, la realtà che abitiamo non è soltanto il prodotto di dati fattuali, trascende la cronaca giornalistica, dialoga con la verità assoluta, ma anche con un sacco di altre cose, che sono vere solo in senso molto relativo (perché ad esempio qualcuno le pensa) o non lo sono proprio. Non si può escludere che si possa sconfiggere il Male facendosi paladini della verità e rimanendo determinati a questa sola ed unica causa, ma quello che sappiamo di certo è che si può sconfiggere il Bene dicendo un sacco di cazzate.

Lorenzo. …

Anatole. ….

Lorenzo. Ok, siamo a posto. Da qui ripartiremo per nuove avventure, sicuramente.

mater (# 10)

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di Giacomo Sartori

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In una foto

 

in una foto sulla neve

(sfondo di pareti

simili a pandori)

hai calzoni rastremati

di protosportiva

scarponi di pelle

“Antologia di Spoon River”, la riedizione

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di Edgar Lee Masters

traduzione di Luigi Ballerini

[Come alcuni classici letti troppo presto, letti con troppa foga, Antologia di Spoon River è stata per alcuni di noi una lettura distratta, sorvolante. Le nuove edizioni, che includono come in questo caso una nuova traduzione, con tanto di saggio critico, biografia e note del traduttore, hanno anche questo prezioso compito: scuotere una memoria intorpidita e pregiudiziale, sollecitare una nuova lettura, più consapevole, agguerrita. Luigi Ballerini non poteva essere curatore e traduttore più adatto, per ridare all’opera di Edgar Lee Masters l’impatto di un classico fronteggiato a contropelo, in grado di giungere a noi come un contemporaneo.

La letteratura è viva e lotta insieme a noi

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di Roberta Salardi

Antoine Volodine, Angeli minori, traduzione di Albino Crovetto, L’orma editore, Roma 2016, pagg 213, euro 15,00

 

Sorgevano dubbi che fosse ormai completamente oscurata e superata da cinema e serie televisive, soffocata da tonnellate di libri di consumo e di scarsa qualità, nascosta e talvolta introvabile negli stessi luoghi dove la si cercava, tradita da mecenati e investitori ad altro interessati, ignorata da sempre maggiori quantità di persone, strette dal bisogno e occupate unicamente da problemi di lavoro e sopravvivenza … ma nonostante le condizioni avverse resiste, anche se molti non lo sanno, non vengono informati. La letteratura è viva e lotta insieme a noi! Lo testimonia per esempio Antoine Volodine, autore francese di origine russa, col libro Des anges mineurs, Angeli minori, per cui è risuonata da più parti la parola ‘capolavoro’ (“Angeli minori ha tutte le caratteristiche del capolavoro: potenza, forza evocativa e visionarietà”, The Literary Review), tradotto in italiano da una piccola casa editrice, L’orma editore.

Che cosa mi fa esclamare con entusiasmo che si tratti di un’opera letteraria degna d’ammirazione?

Innanzitutto la forma.

L’autore non si è limitato a inserirsi in canali narrativi convenzionali e lineari. Ha inventato il genere narrat: “istantanee romanzesche che fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginazione e ricordo” (pag 6). Più nello specifico i narrat che compongono il testo, queste apparizioni degli angeli minori, che all’interno della letteratura italiana potremmo associare in qualche modo a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino o a Centuria di Manganelli, sono “immagini organizzate su cui si fermano, nella loro erranza, i miei mendicanti e i miei animali preferiti, nonché qualche vecchia immortale”. E con questo arriviamo a un altro generatore di potenza del libro: il mito inventato. L’invenzione intorno a cui ruotano le immagini, le sensazioni e narrazioni dei personaggi minori eppur protagonisti è la seguente: in un paesaggio desolato da fine del mondo, mentre l’umanità e molti animali sono in corso d’estinzione, per motivi imprecisati ma continuamente allusi come una guerra feroce mai finita fra capitalisti e comunisti, esalazioni o piogge di materiali tossici diffusi ovunque, un gruppo di donne pluricentenarie, divenute involontariamente e inspiegabilmente immortali, decide di unire le proprie forze magiche, sciamaniche o divine per dare la vita a un bambolotto di stracci “incubato” in un letto nel segreto di una casa di riposo semiabbandonata. Il futuro semidio, indottrinato fin nella culla, dovrà riportare nel mondo in pieno disfacimento un sistema sociale improntato alla solidarietà e alla fratellanza in grado di far rifiorire una vita vivibile sulla terra. Poiché vi è qualcosa d’imprevedibile nelle conseguenze delle nostre azioni, l’eroe farà tutto il contrario di quello che le sue madri-nonne desideravano, supponendo che sia la libera iniziativa, l’impresa capitalistica la forza capace d’imprimere dinamismo a tutto che è. Passati alcuni decenni, continuando a peggiorare le condizioni di vita sulla terra, le vecchie decidono di arrestare e condannare a morte la loro creatura. L’esecuzione però viene continuamente rinviata dal pentimento del colpevole e dai narrat che egli, novello Sherazade, comincia a raccontare. Il tempo trascorre in mezzo al bestiame e alle tende di queste dee nomadi tornate allo stadio in cui l’umanità era formata da gruppi sparsi nelle steppe e nelle pianure, mentre l’eroe narratore viene risparmiato e una anziana delle più convinte decide di partire per andare a uccidere gli ultimi capitalisti e portare a termine il suo piano salvifico. Sembra riuscire nel suo intento e dalla figlia di colui che è creduto l’ultimo capitalista verrà concepita una bambina, anch’essa messa insieme dalla sola madre in qualche modo con l’aiuto di un veterinario.

Nell’ultima pagina dell’opera si accenna a un concepimento fra uomo e donna, tuttavia in molti punti chiave del romanzo emerge l’idea che le maggiori (se non le uniche) portatrici della vita e del bene siano le donne, pur sempre nell’estrema precarietà del tutto.

Vi sono personaggi fra gli angeli minori che anelano a donne eternamente sfuggenti o scomparse, cercate, ritrovate, sognate, perdute di nuovo. Viceversa vi sono donne fra gli angeli minori che non smettono di ricordare e sognare uomini amati, un tempo scrittori, combattenti, perseguitati per la causa dell’eguaglianza. Fra gli innamorati si possono instaurare momenti di grande comprensione e fusione (“per il tempo di un’oscillazione eravamo posati sul confine delle parole, stando in silenzio e vibrando insieme, pronti al reciproco incontro mentale”, pag 86), ma anche d’improvvisa estraneità (“nella luce del sole nascente mi appariva di colpo animata da pensieri e da ricordi inaccessibili, estranei. E tutto era di nuovo come all’inizio, difficile da credere.” pag 88).

Sopravvissuti, sebbene a pochi passi dal nulla, compaiono diversi animali, considerati alla stregua degli uomini, di pari dignità, dotati di nome e cognome. L’unico amico, l’unico affetto che l’eroe Will Scheidmann ricorda della sua avventura fra gli uomini è un cane ed egli stesso in un narrat sostiene di essere morto nelle sembianze di un lupo. Qui si apre un altro ampio e profondo tema del libro: quello dell’identità. Abbiamo detto che l’eroe stesso in un narrat dice di essere morto in forma di lupo mentre all’apparenza, con gli occhi degli altri personaggi, egli è sempre più simile a una pianta, ricoperto come si ritrova di escrescenze cutanee simili ad alghe. In un altro narrat una narratrice di romance afferma di sognare di essere lei stessa Scheidmann, anzi di esserlo a un certo punto diventata. Altri personaggi entrano ed escono da sogni e da incubi che per loro sono più reali del reale.

Accanto ad essi, la regressione delle società umane a forme di vita povera e primitiva mostra scene orribili, come la brutalità delle continue uccisioni reciproche e un cannibalismo diffuso, soprattutto nelle città abbandonate, dove l’attraversamento di strade e quartieri assume perfino i caratteri di un’esplorazione in mari sconosciuti e mortali (con qualche ironia, poiché alcune azzardate esplorazioni, che costano vite e terribili atti cruenti, approdano in zone improbabili in cui la vita è rimasta come prima, come se non si profilasse all’orizzonte nessuna estinzione o guerra o carestia e non ne fosse giunta nemmeno notizia; così come in alcuni punti si parla di strade percorse da auto e da bus come prima: quasi che l’autore abbia voluto mostrare un rovescio della medaglia, la nostra società com’è ora, ignara di trovarsi sull’orlo di un baratro).

La comunità tribale delle anziane dee-pastore di pecore e cammelli in ogni caso rappresenta uno dei paradisi terrestri possibili.  Qui regna la lentezza. Gli stessi narrat sono statici, dipingono situazioni più che storie e la fabula retrostante si intravede e compone molto gradualmente.

“Scheidmann,” domanda a un certo punto una delle giustiziere al figlio-nipote, “perché ci abbindoli con questi strani narrat? Che cosa sono? Perché strani, poi? Perché sono strani?”, alludendo forse all’incompiutezza e all’enigmaticità di alcuni di essi. Questi vorrebbe “urlare attraverso la notte calda che la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato” (pag 93), ma preferisce tacere.

In un altro momento ne parla invece come di “luoghi in cui coloro che amo possono riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla” (pag 6).