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Sotto il manto dell’orso

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di Michele Cocchi

Questo racconto è apparso sul numero III/IV della rivista cartacea e online dell’associazione Palomar.

C’è un piccolo dosso, e poi lo stradello di terra battuta curva leggermente a sinistra, lasciandosi definitivamente alle spalle l’ampio recinto del lupo.
Mio figlio mi stringe un po’ più forte la mano e io ricambio la stretta. Se ne sta in silenzio e io a quel silenzio mi accordo. Dev’essere l’effetto che nell’uomo provoca la vista del lupo. Un rispetto innato e primitivo. Mentre lo guardava trottare avanti e indietro tra i balzi erbosi, mio figlio ha detto: – È come un cane.
– Sì, è come un cane. Te l’ho detto che non faceva paura. Sono parenti stretti.
– Che significa parente?
– Che fanno parte della stessa famiglia. Come tuo zio Michele, e tua zia Sara.
– È più bello di un cane.
Ho sorriso. – Sì, è vero. È più bello di un cane. – Ho pensato di dirgli che il lupo ha qualcosa di più selvaggio, ma ho preferito non insistere.
Adesso cammina silenzioso e io so bene che sta rimuginando su questa cosa del lupo, per cui preferisco rispettare i suoi pensieri e non parlare, nonostante siamo a ridosso del recinto dell’orso, e io l’orso già lo veda, lento e goffo, camminare tra gli arbusti. Mio figlio no, non può vederlo, è troppo basso, e il muricciolo sulla sinistra che delimita la vasca dei pinguini gli copre la visuale.
Non mi sono mai documentato, ma immagino che l’orso provenga da qualche zoo siberiano, o da una villa di privati che lo tenevano incatenato nel parco per mostrarlo agli amici; per via di quel suo strano comportamento ritualistico. L’orso, infatti, compie sempre lo stesso percorso, un centinaio di metri attorno alberi e rocce. Non posso constatarlo, ma sono quasi sicuro che poggi le zampe esattamente sulle sue stesse impronte impresse sul terreno. Vederlo muoversi così è angosciante, come angosciano certi bambini che vedo nella mia stanza di terapia, quando ossessivamente ripetono lo stesso gioco ora dopo ora, seduta dopo seduta. È a questo punto che ho l’immagine di un orfanotrofio. Una di quelle Case dei bambini dove i piccoli senza famiglia dell’est europeo trascorrono i primi anni della loro vita. Ho pensato che fosse stato l’orso a guidarmi verso quest’immagine. Poi la mia attenzione si è spostata su un ragazzino con un impermeabile blu che se ne stava affacciato alla balaustra a guardare l’animale. Un tredicenne circa, di cui vedevo il profilo affilato. Il mio cervello lo aveva registrato prima che io ne fossi consapevole. Quanto prima? Prima che pensassi all’orfanotrofio? O anche prima che riflettessi sul passato traumatico dell’orso? Non importa. Il ragazzino era Gabriel e il mio cervello lo sapeva molto prima di quanto non lo sapessi io.
Isso mio figlio sulle spalle e gli dico: – Lo Vedi?
– Dove?
– Laggiù. Quello che cammina intorno alle rocce. Guarda quant’è grande.
– Eccolo!
– L’hai visto?
– Sì. È grande!
– Certo che è grande.
– Andiamo più vicini.
– Ora andiamo. Aspettiamo ancora un poco. Da qua lo vediamo meglio.

Gabriel è cresciuto. Si è fatto alto e sottile. Eppure c’è qualcosa nella sua figura che richiama il suo modo di essere spavaldo e graffiante. Incurante del rischio. Forse un certo modo di sporgersi dalla balaustra. O di tenere la testa diritta e il mento sporgente. Non so, non so dire. Lo fisso ancora un poco, da una distanza tale che non possa riconoscermi. Poi invento una scusa a mio figlio, gli dico che dobbiamo tornare indietro per un pezzetto di strada e che dall’orso torneremo più tardi. Lui protesta, ma lo convinco con la promessa che la tigre non lo deluderà.

A casa, il giorno dopo, cerco il quaderno con gli appunti delle sedute. Gabriel era un abile narratore e i giochi erano chiari e diretti. Trame articolate ma ben orchestrate che io seguivo, inscenando i ruoli che lui mi attribuiva. Frequentemente, però, mi scoprivo a pensare: Come devo sentirmi, Gabriel? Guidami, per favore. Cosa devo provare? Sono un personaggio triste? Arrabbiato? Confuso? Tu non me lo dici, e io non riesco a capirlo.
Ora lo so: il problema era proprio questo. Più di tutto il resto. Più del fatto che fosse stato adottato. O che fosse un potente provocatore. O che si mostrasse arrogante coi suoi genitori adottivi. Gabriel non sapeva cosa avrebbe dovuto provare in una certa situazione. Forse perché, a lungo, era vissuto nella condizione di non avere adulti con cui condividere le emozioni. O forse, le emozioni, aveva dovuto ricacciarle in profondità, nelle caverne buie che lui costruiva nei suoi giochi di fantasia.

Nella steppa siberiana c’è un piccolo villaggio. Cespugli, pochi alberi solitari. La terra dura e fredda e case di legno squadrate dove vivono poche famiglie. In una di queste un uomo ha cresciuto due orsi fratelli. Li tiene nel giardino della casa, si prende cura di loro. Non si conosce la loro età, ma sicuramente sono ancora cuccioli. Ogni mattina l’uomo va a lavoro. Prende il suo furgoncino e guida fino a un grande cantiere dove è impiegato come carpentiere. Lavora fino a sera, poi torna a casa dalla moglie e dai due orsi.
Una mattina, improvvisamente, qualcosa cambia. L’uomo, diretto al cantiere, lascia la casa come se fosse intenzionato a non farvi più ritorno. Appare freddo e distante, disinteressato ai due cuccioli e alla donna. I due orsi devono cogliere il cambiamento, perché corrono dietro al furgoncino, lo vorrebbero raggiungere per bloccarlo e non farlo andar via. Ma l’uomo guida indifferente lungo la strada senza accorgersi di loro. Oppure fa finta di non vederli. – L’uomo, – spiega Gabriel, – pensa che gli orsi siano diventati appiccicosi, si è stancato di loro. – Quello dei due che corre più veloce riesce a raggiungere il furgoncino e affiancarlo, così che l’uomo possa vederlo dal finestrino. Il furgoncino improvvisamente sterza e lo colpisce a una zampa, gliela calpesta con la ruota. L’orso è ferito e deve fermarsi, non può proseguire. Rassegnato, guarda il furgoncino allontanarsi e perdersi all’orizzonte. Il fratello si ferma per soccorrerlo, lo aiuta a trascinarsi fino a casa.
– Hanno paura? Sono arrabbiati? – Domando. Gabriel non sa rispondermi.
Io mi sentirei sconvolto, ma io non sono quei due orsi. Non posso dire come mi sentirei io. – E l’uomo? Come si sente?
– Non lo so. Decidi tu.
Lui non mi aiuta e io, nonostante mi sforzi, non provo alcunché. Non sento le emozioni dell’uomo, né quelle della moglie, né quelle dei due orsi. Il terreno emotivo è come quello dove sorge il villaggio: brullo e indurito dal freddo.
Nelle settimane successive gli orsi attendono invano il ritorno dell’uomo. Le notti si susseguono ai giorni con regolarità. Il sole siberiano non arriva mai a scaldarli davvero, è soltanto un cerchio pallido velato di nubi. Loro non soffrono il freddo, hanno pellicce folte che scaldano. Non escono mai dal giardino, lo sguardo puntato nella direzione della strada, nella speranza di vedere il furgoncino ritornare. Eppure gli orsi non appaiono particolarmente ansiosi, o addolorati, o furiosi. Questa è la loro storia e loro la affrontano, come se non esistesse un’alternativa.

La mia stanza di terapia di allora era molto ampia. Addossata a una parete, una sabbiera dove Gabriel costruiva il villaggio con le casette di legno. L’uomo – un pupazzetto di legno e corda – sedeva nel furgoncino e si allontanava, percorreva un lungo tratto di pavimento, saliva sopra il tappeto, scompariva sotto la poltrona, nascosto alla vista dei due cuccioli.
Molte volte ho chiesto a Gabriel cosa provassero gli orsi, cosa pensassero.
– Gli orsi non pensano niente.
– Niente.
– Niente.
– E cosa provano?
– Niente.
– Né pensano, né provano emozioni, – dico.
– Esatto.
– Probabilmente è meglio così. Se lo facessero, per loro sarebbe molto doloroso.
Gabriel indossa questo mantello che lo tiene caldo e sufficientemente distante dagli altri. Allungare una mano verso di lui è penetrare nello strato di pelle, grasso e peli della pelliccia dell’orso. Non lo si raggiunge mai per davvero. Cosa c’è sotto il mantello? È rimasto qualcosa del cucciolo? C’è mai stato un cucciolo Gabriel?

Le giornate siberiane hanno avuto temperature molto rigide. Quella dentro il gioco, e quella che io sentivo correre tra di noi. Un freddo che non si può mitigare. Nemmeno per mezzo della voce che cerco di far uscire avvolgente. L’entusiasmo che metto nella seduta. – La mia zampa. La mia zampa è ferita, – dico con dolore. – Il mio padrone l’ha colpita. Come ha fatto a non accorgersi di me? Eppure ero lì, proprio lì vicino al furgoncino. Doveva vedermi. Forse non ha voluto. Sono un orso appiccicoso. Un piccolo orso appiccicoso e inutile.
Un giorno, l’uomo torna a casa e uccide i cuccioli. Gli spara. – Era stanco di loro, – spiega Gabriel. È un’esecuzione rapida e pulita. Nella notte, mentre loro festeggiano il suo ritorno, lui punta il fucile e spara.

Gabriel non mangia carne. Nemmeno un pezzetto. Non ne sopporta la consistenza. Strano incontrare un orso che non mangia carne, ho pensato. Ha sette anni. Gli occhi grigi come certe pietre di fiume. Le labbra piegate in un sorriso amaro. I capelli biondi arruffati. Piccolo di corporatura, i muscoli sempre in tensione, pronti a fargli spiccare un balzo in avanti. A casa trascorre gran parte del suo tempo giocando nei campi. Si arrampica sugli alberi. Costruisce strumenti per la caccia in pietra e legno. Trappole. Scava buche profonde, cerca nascondigli naturali, anfratti e crepe nelle rocce sufficientemente larghi da contenerlo. Colleziona reperti naturali: sassi, ossi, pigne, animali morti, ogni tipo di seme che riesce a raccogliere.

In realtà, nelle nostre storie, gli orsi la carne la mangiano, carne di pesce che cacciano nel lago ghiacciato vicino casa. Incidono il ghiaccio con le loro forti unghie e con un colpo della zampa fanno saltare fuori i pesci. Non sono morti. Le ferite riportate non erano mortali. Se la cavano con un po’ di riposo e qualche impacco a base di erbe medicinali. Il maggiore si prende cura del minore. Quando finalmente possono sciogliere le bendature, rimane soltanto un circolo di pelle privo di pelo. Una cicatrice che ricorderà loro dove l’uomo ha colpito.
Insieme lasciano la casa e intraprendono un viaggio, diretti al grande mare. Giunti al porto, osservano le piccole imbarcazioni lasciare la terra ghiacciata e dirigersi a sud, verso terre più miti. Un pomeriggio, mentre guardano le persone salire sulle barche, i due orsi intravedono il loro padrone. L’uomo, in procinto di partire, si sporge dall’alto parapetto di una nave che trasporta uomini e merci. Gli orsi corrono verso di lui, ma non fanno in tempo a raggiungere la scaletta fuoribordo. La nave sta salpando e loro decidono di gettarsi nell’acqua gelida. Nuotano controcorrente, mentre l’acqua fredda punge loro il naso e gli occhi, e le onde prodotte dal movimento della nave li respinge e minaccia di farli affogare. Eppure loro non desistono, nuotano disperatamente, chiamano, gridano, vogliono raggiungere l’uomo.

Mentre scrivo questo racconto, sento l’angoscia assalirmi. La paura e il dolore. Ma allora non sentivo niente. Gli appunti sono chiari: nella seduta non provo alcun sentimento. Come se non potessi permettermi di provare emozioni. Come non potessero permetterselo i due orsi. Pena: un dolore troppo grande. Inconcepibile.
– Sei sicuro Gabriel?
– Sicuro di cosa?
– Sicuro che lottino con tutte le loro forze e rischino la vita per un padrone che ha sparato loro contro?
– Tu che dici?
– Non lo so. Io non sono sicuro che lo farei. Non sono sicuro che potrei ancora fidarmi.
– Loro lo fanno.
– Forse hanno paura.
– Forse.
– Io l’avrei.
– Loro invece stanno bene.
Ha ragione lui. Sto usando la testa, non il cuore. Adesso è troppo presto per usare la testa. Questi pensieri devo tenerli per me. Lui ha bisogno che gli orsi lottino per raggiungere l’uomo. E io devo ascoltare questo bisogno.
Uno dei due fratelli riesce nell’intento. Raggiunge la nave, lo issano a bordo. L’altro deve arrendersi.

Gabriel cresce e sta meglio. È meno provocatore. Smette di farsi la pipì addosso la notte. Comincia a interessarsi agli altri bambini. La carne, però, ancora non la mangia.
All’orso rimasto in Siberia crescono lunghe zanne affilate. Le zanne sono ottime per difendersi dai predatori, utili per uccidere, ma ingombranti se si ha necessità di incidere la carne per mangiarla. Sono uno strumento di difesa molto efficiente, ma allo stesso tempo rischiano di farlo deperire e morire di fame. L’orso sonnecchia tutto il giorno, si lima le zanne con una pietra speciale per tenerle sempre appuntite, esce di sera con la luce soffusa del tramonto, respinge gli attacchi dei lupi famelici scesi dalle montagne in cerca di cibo.
– L’orso non caccia?
– Non caccia. Tanto non saprebbe come mangiare la carne.
– Allora come fa a nutrirsi?
– Senza carne.
– Ci riesce?
– Ci riesce.
– Certo che è inusuale trovare un orso vegetariano.
– Lo sai. Ha le zanne troppo lunghe.
– Sì, lo so. Secondo te perché?
– Perché cosa?
– Perché gli sono cresciute queste zanne?
– Ne aveva bisogno.
– Per difendersi?
– Per difendersi.
L’orso raccoglie carcasse di animali morti. Le trascina dentro la caverna, un ampio spazio circolare con una volta a botte. Le scuoia. Le spolpa con le unghie. Spezza le ossa e le trita. Versa il trito nell’acqua e beve la mistura. Le sue zanne diventano sempre più lunghe e robuste. Questo orso teme la sua stessa natura, penso. Uccide solo se è davvero indispensabile alla sopravvivenza.

Nella foresta fredda del nord un orso ha la tana dentro un grosso tronco cavo. Vive con il suo cucciolo di pochi mesi. Caccia le prede con forza e agilità, le azzanna al collo, le uccide e le squarta. Mangia la carne, e altra carne la porta nella tana per il piccolo. Il piccolo deve crescere, ha bisogno di molto cibo, così l’orso deve allontanarsi per trovare nuove prede. Ha paura. Teme che un altro orso possa entrare nel suo territorio, fiutare l’odore del cucciolo, ucciderlo o portarlo via. Così si muove circospetto, annusa con attenzione ogni pietra, albero o cespuglio, compie movimenti concentrici attorno alla tana, allontanandosi progressivamente, torna costantemente a controllare che il cucciolo stia bene.
– Chi è questo orso?
– In che senso?
– È l’orso che ha raggiunto la nave?
– Quella è un’altra storia.
– E l’orso che può arrivare chi è?
– Un orso.
– Vive lontano?
– Non troppo lontano.
– Potrebbe essere l’orso dalla zanne affilate?
– Sì. Potrebbe essere lui.
– Secondo te è davvero pericoloso?
– Potrebbe venire. Lo sai, uccide le prede senza mangiarle.
– Perché lo fa?
– Cosa.
– Perché uccide?
– Non lo so.
– Potrebbe essere per paura?
– Forse sì. Potrebbe essere.
– Oppure?
– Oppure è cattivo.
C’è un fratello lontano, penso. Un fratello molto impaurito. A lui è andata peggio: non ha cuccioli, ha fame, il cibo scarseggia. Potrebbe tornare incattivito. Potrebbe tornare accecato dall’invidia e uccidere suo fratello. Ucciderne il cucciolo. Non comunico a Gabriel questi pensieri. Perché non so da dove provengano. Se provengono da lui, allora provengono da luoghi molto remoti di lui.

Alla fine il timore si materializza. Un orso scende dai monti del sud, si avvicina al territorio di Gabriel e trova rifugio in una grotta, non troppo distante dal tronco cavo. Non è l’orso dalle lunghe zanne affilate, oppure, sei è lui, ha perduto le zanne. Come l’altro, ha un cucciolo da proteggere.
Devo procedere gattoni sul pavimento. Costruire una grotta di cuscini e coperte. Scegliere un peluche da portarmi sempre dietro. Il nuovo orso sono io.
Usciamo fuori dalle nostre tane, portiamo i nostri cuccioli con noi. Stringiamo delicatamente tra i denti la loro collottola e loro si abbandonano. Zampe e testa molli che dondolano assecondando i nostri movimenti. Mi avvicino alla tana di Gabriel e vi entro. Lui entra nella mia. Occupo il suo territorio. Lui il mio. Ci scambiamo: Io sono lui, lui è me. Siamo simili eppure diversi. Finché un giorno io esco a caccia e lascio il cucciolo nella tana pregandolo di non uscire. Gabriel fa la stessa cosa. Due immagini speculari. Due fratelli. I cuccioli sono curiosi, intraprendenti, escono disattendendo le raccomandazioni. Si allontanano troppo. Io catturo il suo, lui cattura il mio. Va bene così: a lui il suo cucciolo non manca, a me non manca il mio. Iniziamo a scambiarceli, tanto uno vale l’altro, non c’è differenza.

I due orsi portano ai cuccioli la carne che strappano dagli ossi delle prede. Spolpano le carcasse. I cuccioli crescono e i due orsi decidono di unire i loro territori. Vanno alla ricerca di un’unica grande tana tra le rocce. Sono maschi? Sono femmine? Gabriel non lo sa. Penso ai due fratelli orsi divisi dal mare che si sono ritrovati. I loro cuccioli diventano fratelli a loro volta. La storia si ripete ciclicamente.

Arriva un mattino in cui la foresta è immersa in uno strano silenzio. Irreale. Gli uccelli non cantano. Le scimmie non gridano. Gli orsi cuccioli sono fuori dalla tana, si sono avventurati ben oltre il loro territorio. All’orizzonte vedono animali che non avevano mai visto. Esseri che camminano con due zampe e utilizzano le due zampe libere per trasportare bastoni e altri oggetti. Sanno dell’esistenza degli uomini, i due orsi adulti ne hanno parlato spesso.
Si avvicinano e gli uomini puntano loro contro i bastoni, gridano qualcosa in una lingua incomprensibile e si abbassano. I bastoni non assomigliano affatto a dei bastoni. Sentono un suono e un dolore cupo. Provano a scappare ma dopo pochi metri le zampe posteriori cedono sotto il peso di una invincibile stanchezza. Si accasciano sulle foglie. Quando si risvegliano sono dentro una gabbia. Una grande gabbia con sbarre di metallo.
Il sole acceca loro gli occhi. Hanno fame e sete. Nella gabbia gli uomini hanno lasciato loro acqua e cibo. Io mi aspetto che i due cuccioli si avvicinino, si tocchino, trovino conforto un con l’altro. Ma non accade, è un bisogno mio, non un bisogno di Gabriel. Gabriel non ha paura, almeno apparentemente. Davanti a noi, fuori dalla gabbia, pali di legno ben piantati nel terreno delimitano il territorio del lupo. – Dove siamo? – Gli chiediamo.
– Non l’avete capito?
– No, non l’abbiamo capito.
– Gli uomini vi hanno catturato. Siete in uno zoo.
– Possiamo scappare?
– Perché dovreste?
– Non vogliamo stare in uno zoo. Vogliamo essere liberi,– dice Gabriel.
– Qua stiamo bene, – dice il lupo. – A noi animali non manca niente. Abbiamo cibo, acqua, un recinto spazioso.
– Ma siamo in prigione.
– Dipende da te, – dice il lupo. – Puoi pensare di essere in prigione, oppure in un posto tranquillo in cui vivere.
Passano i giorni. Gli uomini ci nutrono e noi li guardiamo sospettosi.
– Secondo te che succede, Gabriel?
– In che senso?
– I due orsi hanno paura?
– Non hanno paura.

Finalmente ci trasferiscono. Gli uomini si fidano abbastanza di noi per portarci dentro un recinto. Credono di averci addomesticato. Credono che non fuggiremo. I pali di legno sono alti, ma non abbastanza da non permetterci di fuggire, se lo volessimo. Lo vogliamo? Non lo so. Gabriel non me lo dice. Probabilmente non lo sa nemmeno lui.
– Difficile decidere, – dico.
– Decidere cosa?
– Se restare o andare.
– È semplice invece
– Tu che hai deciso?
– Non te lo dico. Dillo prima tu.
È una trappola. Non posso scegliere io per lui. Non sarebbe giusto. Dico che non lo so, sono combattuto. Da una parte vorrei andarmene, tornare in libertà, nella foresta. Dall’altra qua si sta bene. Gli uomini con noi sono buoni. Ci danno cosa buone da mangiare. Ci hanno costruito una tana robusta dove riposare. Si prendono cura dei nostri bisogni. E poi abbiamo fatto amicizia: il lupo, la tigre, la zebra. Sarebbe doloroso perderli.
Non è soddisfatto, lo sento. Finalmente sento qualcosa: la sua insoddisfazione. Allora lo dico: – Lo so. Le mie risposte sono insoddisfacenti. Sono un fratello orso che non sa scegliere la strada. Il problema è che non so se posso fidarmi.
– In che senso?
– Fidarmi degli uomini. Ti ricordi i due orsi in Siberia? L’uomo, il loro padrone, tentava di ucciderli.
– Ma poi sono guariti.
– È vero. Ma gli orsi hanno dovuto separarsi. Uno è diventato buono, l’altro cattivo. L’hai detto tu stesso.

Gabriel decide di fuggire via. Nella stanza di terapia c’è una bella luce. La giornata è solare e calda. Tra poco ci saranno le vacanze estive. Lui ha sentito un richiamo. Non ha resistito. Gabriel mi guarda, sull’estremo limite del tappeto che delimita il nostro recinto. – Tu che fai? – Mi domanda.
– Cosa vuoi che faccia?
– Devi decidere tu.
Provo a uscire dal personaggio: – Secondo te, Gabriel, cosa dovrebbe fare l’orso?
– Te l’ha detto: devi decidere tu.
Decido di seguirlo. Ma è una scelta che faccio razionalmente, non emotivamente. – Altrimenti finisce come l’altra volta. – Dico
Gabriel annuisce. – Esattamente.
– Uno era andato e uno rimasto. Ma non era stata la scelta migliore.
Girovaghiamo per due giorni in cerca di cibo. Siamo stanchi e deboli. Le iene ci attaccano. Dobbiamo difenderci. Lo facciamo insieme, siamo uniti nella lotta. Io penso allo zoo, là stavo bene, mi mancano i miei amici ma non dico niente. Finalmente me lo domanda: – Cosa pensi?
– In che senso?
– Abbiamo fatto bene?
– Comincio a pensare che questa libertà sia molto faticosa. Nello zoo non eravamo liberi, ma ci sentivamo contenti.
Così decidiamo di tornare. Gli uomini e gli altri animali festeggiano il nostro ritorno. Finalmente i due fratelli sono davvero uniti. O almeno così sento io. Due orsi uniti. Ma anche qualità opposte che possono integrarsi: la ferocia e la bontà. L’intraprendenza e la mitezza. Il senso di indipendenza e quello di dipendenza. Il carnivoro e l’erbivoro.

Ho visto i genitori adottivi di Gabriel. Il padre ha spesso gli occhi lucidi. Lei spaventati. Chiedo come vadano le cose a casa, poi racconto i progressi che vedo. I movimenti emotivi di Gabriel. Gli racconto che il tema del fratello per lui è importante. È un fratello immaginario? È un’altra parte di sé? Difficile a dirsi. Entrambi spalancano gli occhi, si agitano sulla poltrona. Il padre sospira due volte rumorosamente.
– È un tema spinoso? – Domando. – Ho la sensazione di avervi messo in agitazione.
– Crede che sua sorella c’entri qualcosa, dottore?
Per un attimo non capisco. Strizzo un po’ gli occhi come faccio solitamente quando qualcosa non mi è chiaro. – Sorella, – dico a bassa voce.
– Si ricorda? Gabriel ha una sorella. Una sorella maggiore che è rimasta in Polonia.
Non me lo ricordavo. Eppure lo sapevo. Loro me lo avevano raccontato. Appena usciti dalla stanza, sono corso a recuperare il quaderno degli appunti. Sfoglio le prime pagine, quelle che ho scritto durante gli incontri coi genitori. Sorella. L’avevo scritto, e a margine del foglio avevo anche fatto tre piccoli freghi verticali per segnalare che era un’informazione importante. Eppure lo avevo dimenticato. Com’è possibile che abbia dimenticato un dato di realtà così rilevante?
Gabriel non sa di avere una sorella. Il padre e la madre hanno deciso di non raccontarglielo. Non per adesso, almeno. Di lei, all’epoca dell’adozione, non si avevano tracce. Era stata portata in un’altra Casa, per bambini più grandi, e poi probabilmente adottata. Anche se loro avessero voluto, non sarebbe stato possibile portarla con loro. Avrebbero voluto? Mi domando. Forse non è una domanda importante. La domanda importante è: Gabriel sa di avere una sorella? La ricorda?
Certamente sì, se non la ricorda a un livello consapevole, la ricorda sicuramente a un livello inconsapevole. La ricorda il suo corpo: da qualche parte l’esperienza di una bambina che ti accarezza o ti colpisce; da qualche parte la sua voce, i suoi pianti e le sue risate; da qualche parte il tuo sentimento di ammirazione e la tua gelosia. Eppure io l’ho dimenticata. Come Gabriel. Qualcosa mi ha indotto a dimenticarla. Qualcosa di mio o qualcosa di suo?

Con mio figlio sono tornato molte volte allo zoo. Superato il recinto del lupo, ho sempre una certa fretta di raggiungere quello dell’orso. Gettare un’occhiata in lontananza nella speranza di vedere il ragazzino con l’impermeabile blu. Adesso non avrei timore di andargli incontro e salutarlo. Adesso che ho dato un ordine alla sua storia e ai miei pensieri. Ma Gabriel non l’ho più visto, chissà se il suo manto di orso, nel tempo, si è fatto più spesso o più sottile.

Overbooking: Carla Stroppa

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I viaggi d’Anima e il farmaco di Sophia

di

Lucio Saviani

Siamo nei pressi del fiume Amelete. La giornata si avvia alla fine, le anime si sono accampate sulla riva del fiume dopo giorni e giorni di cammino. Durante il viaggio, sono state per sette giorni in un luogo divino: c’erano due coppie di voragini contigue, una in cielo e l’altra in terra, e tra esse sedevano i giudici delle anime. Da due di queste voragini scendevano e risalivano anime reduci da un viaggio di mille anni, in cielo o sotto terra. Ora, raggiunto il fiume Amelete, le anime che stanno per reincarnarsi sono chiamate a bere l’acqua del fiume, ma in una giusta misura, che della vita precedente salvi sia la dimenticanza sia la memoria. L’anima che berrà oltre misura dimenticherà tutto. A sera le anime si addormentano, ma un terremoto notturno le getterà nell’evento della nascita.

E’ la parte finale del mito di Er, che Platone pone al termine della Repubblica. Un congedo mitico, di gran risalto, memorabile.

A queste anime rinascenti per acqua, al dormiveglia sulle sponde del fiume, all’arida e afosa pianura del Lete, che sembrano il perfetto doppio della terra desolata e delle morti per acqua nei versi di Eliot, tornerò commentando il libro di Carla Stroppa Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura (Moretti & Vitali, Bergamo, 2016).

Queste pagine danno vita a un lungo cammino, che è un viaggio nei meandri delle pluralità dell’in-dividuo, come attraverso un arcipelago. E’ una scrittura ulissiaca, tra ombre, specchi d’acqua, sirene, terre emerse, isole nascoste, approdi e scuri abissi. La lettura a cui chiama è un viaggio nel viaggio. E’ viaggio e labirinto. Molto presente, anche in agguato, nel libro di Carla Stroppa l’immagine del Labirinto: “Certo, finché si è dentro il labirinto non si potranno eludere gli inganni dell’occhio, le strade a fondo chiuso, gli specchi deformanti, i doppi perturbanti e gli sconcertanti cambi di registro, i colpi di scena. Tant’è, fanno parte del viaggio in Anima. Fanno parte del femmineo labirinto che lei stessa è, e di cui lei stessa offre il filo per uscire” (249). Nel labirinto ci si può smarrire, come nel naufragio di un viaggio per mare, o come nell’Ombra, dove ci si può ritrovare in una via senza uscita. Perché un labirinto è sempre doppio, proprio come l’immagine sacra della labrys. Un ingresso porta nel labirinto; il labirinto porta ad una uscita e, nello stesso istante, all’ingresso in una nuova condizione: è come un percorso tra due soglie. Come attraversare la doppia superficie di uno Specchio. Un modello iniziatico: al labirinto è sempre legata l’idea della morte e di un passaggio ad una nuova condizione.

Nell’Iliade, nel diciottesimo canto, vediamo come un disegno sullo scudo di Achille: è una danza labirintica. La danza esegue lo schema del labirinto cretese, doppio come la labrys che ne è simbolo: da Oriente ad Occidente e da Occidente a Oriente, e riproduce le peregrinazioni di Ulisse, l’eroe protetto da Apollo – dio del “percorso giusto”; Ulisse è l’uomo dall’ingegno acuto ed è colui che si smarrisce: è insieme, Dedalo e Teseo.

Scrittura ulissiaca, composizione labirintica quella all’opera nel libro di Carla Stroppa: riflessione esistenziale, esperienza clinica, immaginario letterario. E scrittura del doppio. Perché doppio è il tema che lo attraversa; qui tema può essere inteso nel senso musicale, un periodo musicale proposto inizialmente nella sua forma originale e successivamente riproposto più volte attraverso variazioni, aggiungendo o togliendo note, modificando le sfumature relative all’intensità del tema: il simbolo (syn-ballein, unire, armonizzare, mettere insieme) e il Diavolo (dia-bàllein, lanciarsi attraverso per separare: il calunniatore, colui che crea attraverso l’inganno una frattura nell’anima), il Faust di Goethe e l’eterno femminino, tensione spirituale dell’anima e maschera sociale della Persona, anima, animus e processo di individuazione, tema psicologico e topos letterario, scienza e umanesimo: “Scienza e umanesimo dovrebbero collaborare all’insegna dell’etica che è un attributo dell’anima capace di mediare il sentimento col pensiero. Per ribadire il tema: possiede il doppio sguardo si una conoscenza superiore. Intreccia, reintegra, connette le parti”. (29)

Il tema attraversa la tessitura del libro proprio come un respiro (il vento, il soffio vitale, il respiro esprimono fin dai primordi una delle fondamentali dimensioni attribuite alla realtà dell’anima).

Chi è Sophia? Cosa indica questo nome? In che consiste (e a cosa mira) il suo doppio sguardo? Ecco il tema che ritorna attraverso le sue variazioni “La donna nel suo evolvere (in quello ideale beninteso) passa dall’elemento più semplice e legato alla Madre natura rappresentato da Eva, a quello più spirituale legato alla figura gnostica di Sophia. I miti e la storia dell’immaginazione tutta narrano che per realizzare questa evoluzione ideale, la donna passa attraverso lo stadio romantico ed erotico rappresentato dall’Elena pagana, e attaverso quello di spiritualizzazione rappresentato dalla Maria cristiana. Sophia, la sapienza superiore, è il traguardo ideale, il compimento più alto in cui gli elementi del femminile e delle differenti religioni convergono” (82-83); “Ebbene, proprio questa capacità di riconnettere i frammenti appartiene alla visione affettivo-emotiva e assieme cognitivo-simbolica dell’anima” (81); “per ricontattare la scintilla di anima che rende un individuo se stesso (…) Jung ha previsto l’attraversamento di tre fasi esistenziali che corrispondono a tre fasi del processo individuativo: differenziazione dell’Io dall’inconscio collettivo, affermazione dell’Io, che trova i suoi confini e il suo luogo nel mondo; ritorno creativo e consapevole dell’Io alla fenomenologia dell’anima, che attinge alle immagini e alle emozioni dell’inconscio collettivo mediate dai simboli finalmente diventati percepibili in virtù di uno sguardo che vede il doppio o l’altra parte dei fenomeni. Il suo luogo sarà quello della conoscenza profonda e misterica della Sophia gnostica, la sapienza superiore del femminile iniziatico che riconnette le polarità separate col suo doppio sguardo” (30).

E’ attraverso questo sguardo doppio che torniamo ora al mito di Er. Prima di giungere sulle sponde dell’Amelete, le anime sono state messe in fila e presentate a Lachesi da un araldo. L’araldo ha preso dalle ginocchia della Moira delle sorti e dei paradigmi di vita annunciando: “Anime, che vivete solo un giorno, comincia per voi un altro periodo di generazione mortale. Non vi otterrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton). La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile” (617d). (Nel libro di Carla Stroppa la responsabilità è una variazione attraverso cui il tema più volte ritorna).

Nella mitologia greca, il dàimon è la creatura divina che presiede alla sorte di ciascuno. Ma in questo racconto, ciò che siamo dipende dalle scelte che facciamo.

La maggioranza delle anime sceglierà i paradigmi di vita sulla base delle abitudini della vita precedente: Agamennone sceglie la vita di un’aquila e Ulisse, stanco di avventure, la vita di un uomo comune.

E’ il racconto di Er, il valoroso soldato caduto in battaglia che ritorna in vita con la memoria dell’aldilà, di quelle doppie coppie di abissi, una diretta in cielo e l’altra nelle profondità della terra e dell’acqua, rimedio e danno, oblìo e memoria, doppi come ogni pharmakon. E con il ricordo di quelle anime pronte a prendere corpo, il loro ambiguo, doppio domicilio.

La “nostra sovrannaturalità domestica”, così Jankélévitch chiama l’anima. La cura domestica dell’anima, come la filo-sophia, è amore per l’impossibile da possedere. Addomesticare l’ignoto, non per dominarlo ma per renderlo familiare, cioè accoglierlo.

L’anima prepara la domus per tale accoglienza.

Il dislivello vertiginoso “tra il Quaggiù e l’Ulteriore” che separa l’empirico dal “tutt’altro ordine” dell’incomparabile superlativo mantiene, in Jankélévitch, i due estremi nella loro radicale differenza ma sempre ponendoli nell’assoluta necessità di un contatto.

Al subitaneo, sempre imprevedibile contatto del kairòs la cura domestica dell’anima ci prepara. Come la “metafisica concreta” di Florenskij, la sua parola di “verità vivente, che respira”, essa prepara ad accogliere quel segreto lampo di tenebra in cui i due mondi si toccano, l’attimo in cui “invisibile, soffia un alito che non è di quaggiù”.

Una delle radici più forti del ‘labirintico’ cammino di pensiero di Jankélévitch è la cultura slava, con il suo caratteristico tono di nostalgia verso una ‘patria mistica lontana, ovunque e in nessun luogo’, “quella specie di realismo mistico che è una delle costanti del pensiero russo”, come dice Jankélévitch nella sua opera giovanile dedicata ai Temi mistici nel pensiero russo contemporaneo, E’ proprio a questa tradizione di pensiero che, in una pagina del suo libro, Carla Stroppa fa riferimento: “Sophia è il valore stesso della trasformazione. Per seguirne i passi sul piano teologico occorrerebbe rivolgersi all’Oriente, ai mistici della chiesa ortodossa e a quella conoscenza che Sergej N. Bulgakov ha definito Sofiologia” (91). Nei temi mistici del pensiero russo contemporaneo è presente anche la “pneumatologia”, propria della tradizione cristiana. E’ attraverso l’interpretazione pneumatologica che si comprendono tanti personaggi di Dostojevskij, che, ad una analisi psico-logica, restano destinati ad apparire anime bizzarre, contraddittorie, paradossali.

“Così come il mondo è doppio, una parte è materia e l’altra è intelligibilità, l’essere umano possiede un doppio sguardo, uno che si conosce, l’altro che conosce il mondo: una parte comprende l’altra”. A commento di questo nota di Melchior-Bonnet, Carla Stroppa presenta e interpreta la formidabile galleria di autori e personaggi di cui si compone la seconda parte del libro: Musset, Hoffmann, Nerval, in particolare Carmilla di Le Fanu e Biondetta del Diavolo innamorato di Cazotte: protagonisti di un mondo in cui il doppio “lungi dal risolversi in sintesi simbolica, a dire in quella pienezza di sguardo che contempla in unità i poli opposti dei fenomeni, insidia la psiche come rischio di scissione e di disorganizzazione psicotica” (141). Ai personaggi convocati da Carla Stroppa si potrebbero accompagnare alcune figure del Perturbante come l’Uomo nero di Sergej Esenin, il Romanzo di Mac Millen di Karasek, o il Principe di Homburg, la cui vicenda è forse tutta un sogno, una storia che comincia con il sonnambulismo e termina con uno svenimento…

Sono proprio queste storie, infatti, a fare da sfondo, fondamento e fertile humus della ermeneutica di Carla Stroppa: ”Si dovrebbe scrivere un libro apposito sulla soglia sottile che divide la ragione dal sogno, o meglio li intreccia al di là di ogni “ragionevole illusione” di controllo (…) Hermes, il divino mediatore tra le altezze dello spirito e le valli dell’anima, trapassa i muri, il tempo e lo spazio (…) Si vede il rovescio dei fenomeni, il doppio di ogni cosa e si intercetta un valore aggiunto che è in grado di spostare i piani di interpretazione e attribuire significati non convenzionali ai fenomeni. Le mode del “pensiero” medio collettivo e gli scontati consensi che ne derivano vengono insidiati, ivi compresi quelli che riguardano un’idea troppo sommaria dell’emencipazione femminile, che non fa i conti con il mondo interiore. Certo questa attitudine inquieta la coscienza, perché lungi dall’adagiarla nei consueti alvei dell’appartenenza allo spirito del tempo, le fa fluttuare tutt’attorno un sospetto, un’inquietudine, un che di estraneo e perturbante, ma per la solita legge dei doppi, quel perturbante è anche salvifico e seducente: traghetta verso la visione simbolica. Anche per questo la mia riflessione sull’anima oltrepassa quella relativa al genere sessuale” (34).

E’ un esito del libro annunciato in una nascosta anticipazione nelle prime pagine. Uno tra i non pochi caratteri di preziosità del libro di Carla Stroppa risiede proprio in questa occasione che la sua “riflessione sull’anima”, sul femminile e su Sophia come sapienza superiore del femminile iniziatico rappresenta per la filo-sofia: il doppio sguardo come pharmakon filosofico, come assunzione misurata di memoria, scelta e appassionata responsabilità.

 

 

 

 

 

 

 

Gianni Montieri. Auto-antologie-5

6

di Gianni Montieri

 

Risparmi

Io sto al sud proporzionalmente
appartenenza più che somiglianza
porto tracce degli umori, la durezza
-certi sguardi-

(ci allenavamo a sognare
davanti alla chiesa di San Giovanni
certi che Dio non sarebbe passato
ma questo ci ha reso tenaci
indossiamo una pazienza
non concessa altrove)

se non fai attenzione
nei miei occhi non vedrai le briciole
di una purezza conservata a stento
sotto strati di maglioni a fibra mista

dicono che non ho l’accento
particolare privo d’importanza
le parole tronche, questo conta
sono tutti i miei risparmi

(all’una tornavamo a casa
l’appuntamento per la partita
il pomeriggio di nuovo urla, risate
altri sogni).

*

Stagione di concerti

È un rarefarsi lento d’aria livida

un colpo battuto in terra di nessuno

questo sintomo di vento umido

che non scompone foglie

su noi non lascia traccia

 

non piove in segno di rispetto

in memoria di un’estate troppo breve

di nuotate in vasca corta

 

mentre è già stagione di concerti

di code ai botteghini.

 

*

Restyling

Di questi tempi è pieno di gru

la città si espande verso l’alto

da ottomila al metro quadro

 

(non ci sfioriamo, non ci parliamo

gli extracomunitari puzzano

la 90 prendila tu)

 

anche Marta va in analisi

non cena mai al cinese

“vai a sapere che ci mettono in quei fritti”

 

Milano sarà perfetta, in tempo per l’expo

piazza Duomo ripulita ancora più rettangolare

-via i piccioni, via i neri e i braccialetti-

 

stamattina ci siamo salutati

ti ho detto ciao, mi hai dato un bacio

io uno zaino, tu una borsa

io Londra, tu altrove

cos’ha Milano che non va?

 

*

Abitudini

Non saranno più le scarpe fuori posto

un nome al suono della sveglia

fra qualche tempo sapremo dirci: è giusto

che abbiamo avuto tanto

 

io, io non lo so davvero

se saprò dare un senso

alle porzioni monodose, alla cottura crisp

addormentarmi voltato dal tuo lato

senza tremare, senza farci caso.

Da Futuro Semplice, Lietocolle, 2010

 

 

Milano mi somiglia, non il fiume

che l’attraversa all’ora dell’aperitivo

l’aprire e chiudere il giornale,

il doppio giro al collo

che fa la sciarpa in pieno inverno

nemmeno stasera che è bello

e me ne vado in bicicletta verso casa

 

a volte è il grigio che disegna la Ghisolfa

o il suono secco della parola Lambro.

Cose che si tengono da parte

come vestiti che non vuoi buttare.

 

Mi somiglia nei pomeriggi estivi

quando stiamo zitti entrambi

stupefatti dal colore che fa verso le sei

il sole, quando piomba in fondo al viale.

*

Invecchiare così, da adesso in poi

contarsi le rughe sulla fronte

i passi, le varianti di ogni sorriso

lo scricchiolare umido delle ossa

 

dicono che un posto valga l’altro

e invece no, è questo solo questo

il tempo nostro, riflesso addosso

nello specchio d’acqua

 

che rimanda l’intreccio di due mani

soltanto due: la mia, la tua.

*

Sant’Angelo all’alba, guardo Rialto

e saluto il solito signore coi baffi

mi hai detto “ciao” da dentro il sonno

e “torni presto?” poi un bacio

 

mentre l’1 scivola sul Canal Grande

mi guardo indietro a San Silvestro,

a Ca’ d’oro, ti ripenso quando dormi

appoggiata ai vetri del vaporetto

le gocce d’acqua che sbattono contro

la morte, mai stata così lontana.

*

La Madonna viola ha un pugnale nel petto
più sotto una dark scatta una fotografia
il metallo della lama, degli anelli, dei piercing
tra i banchi un uomo prega al cellulare
la schiena di un Cristo, palme sulle braccia
trans in borghese fanno spesa al market
ragazzini crackati la fanno tra la spazzatura

eccoli dormire ripiegati sotto le luci di Sampa
città infinite – una dentro l’altra –
sottoterra cinque linee della metropolitana
e una più sottile di candele accese
rosario che divide la vita dalla morte.

*

Tutto quello che ti è cucito sul cuore
tutto il metallo, il ferro arrugginito
il ricamo irregolare lungo il tessuto
del muscolo, tutti i vestiti raccolti
in fondo all’armadio, i medicinali
scaduti, il cappello che hai regalato
a tuo padre, l’inutilità perpetua
di un ottavo di Coppa Italia, i quattro
quarti musicali che non hai mai capito
il tempo tolto all’amico perduto
l’amore (questa parola e non un’altra)
salvo, già salvato, ancora da salvare.

*

Dalla seconda parte: (sud) in caso di morte

*

I

Gli spararono in faccia

che tutti sapessero, che tutti ricordassero

la sera stessa in piazza

commenti da stupidi ventenni

stabilivamo con una birra in mano

il grado di importanza di una morte

(chi lo conosceva, quanti colpi

se c’era tanto sangue, quanta polizia)

 

qualcuno stava zitto, qualcuno parlava

pochi minuti per tornare all’ordinario:

la biondina in jeans tagliati  a chi la dava

il centravanti squalificato, il motorino truccato.

*

III

Ai funerali di mio nonno non ho pianto

e tutti a chiedersi: ma come lui non soffre?

Domanda lecita, pare fossi il nipote preferito

da noi se non piangi, non urli, non ostenti

vuol dire che non t’importa

 

ora vivo al nord, il dolore qui è privato

la sua mancanza che non racconto

che non dichiaro.

*

VII

Le vecchie sedute fuori dai cortili

sulle spalle scialli fatti a mano

il pettegolezzo mischiato alla preghiera

assolvere o benedire ogni passante

tessevano ricami delicati, uncinetti

uccidevano una donna in tre parole.

*

XII

Io morivo, naturalmente

fingendo fosse sacrificio

ma se si muore è per pigrizia

per omessa volontà

si muore per cazzeggio.

*

XXII

Per esempio mia nonna

era il punto più distante

dalla morte. Nonna era il bianco

quella che restava in piedi

sulle macerie, tra le briciole

(sempre poche) da spartire.

Lei era di un altro Sud

sorrideva, non moriva.

*

XXVIII

Se posso telefonare a mia madre,
a mio padre, e chiedere da routine
come state? Che fate? Credimi
è per culo, se mia sorella sta bene
se riesce a uscire e a entrare da casa,
prendere suo figlio a scuola, convinciti,
è per culo. La terra dove lo tengono
il culo, quello vero, non è terra
è modificata da altro materiale,
scarto territoriale altrui, dal saldo
positivo su conti correnti sconosciuti.
Se passa l’autobus in orario, segnatelo,
è per culo, se la vicina quarantenne
muore troppo presto è chimica.
Arrivare in tempo al lavoro o non morire
hanno lo stesso numero di probabilità.
Restare vivi è culo, è matematica.

*

XXIX

Non pensare che fosse indifferenza
la nostra piuttosto un modo di vivere
le cose così come si vivono:
tutte insieme, una per volta.
La sparatoria dietro l’angolo,
la partita di calcetto i compiti da fare,
poi uscire la sera il bar, la storia di tutti,
tutti tornavamo a casa per cena.

Da Avremo cura, Zona, 2014

 

Alcuni testi inediti da un libro in costruzione: “Sui segni” (titolo provvisorio)

*

Il palmo della mano
esteso, teso, verso l’alto,
una sola spanna tra il gesto
e il soffitto, dove va a morire
l’aria, una sola azione
si produce dal letto al sonno,
tra il fiato e il niente.

*

Non sapere come sia andata
immaginare la mano che forma
il cappio con un tessuto,
il braccio che tira verso l’alto
e provoca uno strappo,
qualcosa si scuce:
c’era un difetto nella trama.

*

Un corpo morto s’abbraccia
a una madre, c’è vita
in questa doppia morte
così l’acqua dello Stretto
appiccica col sale, non separa
ciò che è stato vivo
due volte, chi ha tentato
disperato la terza via.

 

*
Pollice e indice, li unisco,
poi li separo, e così dico.

Il resto del mio peso
è una carcassa che mostro
come ultima protesta.

*
Hanno girato un video:
più di ottanta ore, pensate
la durata, pensate la stanchezza
dell’operatore, nel filmato
ci sono io legato a un letto,
mani e piedi al mio morire;
soffro anche ora che non sono,
mentre guardo la mia mano
che tenta l’allungo al comodino,
al cibo portato dall’infermiere,
anche nel replay dell’azione
la mano non arriva, e prima
che io muoia ritirano il vassoio.

*
Un gesto quando arriva
e si sistema, le ginocchia
sulla borsa, giù dall’Accademia,
l’altro quando allunga
il bicchiere vuoto di Grom
ad aspettare le monete,
la testa bassa sui masegni
ma quello non è un gesto,
è soltanto un segno.

 

Nota.

Ho scelto di inserire in questa breve nota poesie tratte da Futuro Semplice e Avremo cura, e alcuni inediti che, con ogni probabilità, contribuiranno a formare la prima parte di un libro in costruzione. Se penso ai due libri editi, mi pare ora chiaro che i discorsi del luogo, del tempo e della memoria abbiano sempre fatto parte della mia idea di scrittura; ciò che è cambiato nei quattro anni trascorsi tra le due pubblicazioni è il modo in cui si sono concretizzati. I luoghi del sud, ad esempio, prima erano racconto, ma come di un altro, qualcosa di accaduto ma distante, addirittura da dimenticare. In Avremo cura sono tornati ad essere ciò che erano, scansione perfetta della memoria, testimoni e complici di nascita e vita, personale e collettiva. Il tempo ha fatto la sua parte, il tempo ha misurato e ha deciso quando si poteva far pace, quando quella realtà poteva essere misurata e messa in poesia. Il passato, finalmente, guardato per quello che è, qualcosa che accade continuamente, nella ripetizione dei giorni e nei salvataggi della memoria, consente – ed è in quella direzione che va letto Avremo cura – il rimedio, l’attenzione e un’idea possibile di futuro. Tra il primo e il secondo libro ho capito che quello che ci riguarda davvero non si dimentica, si trasforma. Milano merita un discorso a parte, perché è la città  che è stata riparo, rifugio, salvezza, crescita. Se non ci fosse stata Milano non avrei mai scritto una sola parola. Per quello che riguarda l’aspetto formale, credo che mi sia sempre interessata un’armonia generale, che a volte rispettasse la metrica, altre no, ma che sempre consentisse un suono il più diretto possibile e quindi più efficace. Per questo preferisco i testi brevi, ho bisogno di quell’accelerazione che solo la poesia consente. Questi temi non mi abbandoneranno mai, suppongo. Sempre mi riguarderanno le persone, il racconto della realtà passa attraverso l’uomo, a quello che fa o che sceglie di non fare. I testi inediti che ho scelto di inserire qui sono stati scritti dopo l’ascolto di un discorso fatto da Luigi Manconi al Festival dei Matti, a Venezia, nel maggio 2015; Manconi fece un bellissimo discorso sui segni e sui gesti, quando diventano l’ultima cosa che resta. Da quello sono partito per scrivere le nuove poesie, ovvero tentare di vedere con gli occhi di un altro, quando gli rimane poco o niente; immaginarmi, poi, in un altro e per entrambi pensare a quello che resta, dopotutto. Il libro futuro sarà – forse – un resoconto sulle rimanenze. Tutto quello che ho scritto è servito a far ordine e a non avere paura.

Gianni Montieri

 

Bio-bibliografia

Gianni Montieri è nato a Giugliano, provincia di Napoli nel 1971. Vive da molti anni a Milano.

Ha pubblicato: Futuro semplice (Lietocolle, 2010) e Avremo cura (Zona, 2014)

Suoi testi sono rintracciabili nei numeri sulla morte (VIXI) e sull’acqua (H2O) della rivista monografica Argo e sui principali siti letterari italiani.

Ha riscritto la fiaba Il pifferaio magico per il volume Di là dal bosco, Le voci della luna 2012.

Sue poesie sono incluse nel volume collettivo La disarmata, Cfr edizioni 2014.

È stato redattore della rivista monografica Argo. Scrive di calcio su Il Napolista.

È capo redattore del litblog Poetarum Silva e membro di Progetto Santiago.

 

[Auto-antologie prosegue con Gianni Montieri e il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada ,  Vincenzo Frungillo ,  Francesco Filìa,   Viola AmarelliEugenio Lucrezi e a Renata Morresi.  Sul lavoro di Gianni Montieri è possibile leggere un mio intervento qui   B.C.]

 

mater (# 5)

1

di Giacomo Sartori

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Il tuo fascismo

il tuo fascismo

era la voluttà della neve

l’asprigno di resina

Susan Sontag, le metafore e l’amore

5
gelatin silver print, 1975 NPG.2005.33 National Portrait Gallery, Smithsonian Institution © Estate of Peter Hujar Picture 049
gelatin silver print, 1975 NPG.2005.33 National Portrait Gallery, Smithsonian Institution © Estate of Peter Hujar Picture 049
National Portrait Gallery, Smithsonian Institution © Estate of Peter Hujar

[Nel 1978 Jonathan Cott intervista lungamente Susan Sontag in due tempi, prima a Parigi, poi a New York. L’intervista è stata pubblicata da poco da Il Saggiatore con il titolo Odio sentirmi una vittima. Intervista su amore, dolore e scrittura con Jonathan Cott, traduzione di Paolo Dilonardo.
Ne pubblico qui di seguito due estratti, ringraziando l’editore. o.t.]

*

J.C. In «Sullo stile», lei scrive: «Parlare dello stile è un modo di parlare della totalità di un’opera d’arte. Come tutti i discorsi sulle totalità, anche quello sullo stile deve ricorrere alle metafore. E le metafore sono ingannevoli». Come si pone, in generale, rispetto alle metafore?

S.S. Voglio darle una risposta più personale. Sin da quando ho cominciato a riflettere, mi sono resa conto che, per giungere a una comprensione teorica di qualcosa, dovevo coglierne le implicazioni, o i paradigmi e le metafore soggiacenti – per me era una forma di comprensione naturale. Ricordo che quando, a quattordici o quindici anni, cominciai a leggere la filosofia, fui molto colpita dall’uso delle metafore. Se la metafora utilizzata fosse stata un’altra, mi dicevo, la conclusione sarebbe stata diversa. Ho sempre provato questa specie di agnosticismo rispetto alle metafore. Molto prima di sviluppare le mie idee in merito a una questione, so che non appena individuo la metafora posso dirmi «ecco, è questa l’origine dell’idea», ma anche comprendere che se ne potrebbe usare un’altra. So che ci sono molte teorie al riguardo, ma non vi presto molta attenzione, preferisco seguire il mio istinto di scrittrice.
Quel che più mi interessa nella scrittura modernista, d’avanguardia o sperimentale, o semplicemente nella buona letteratura, è la purificazione dalla metafora. È la qualità che mi ha attratto in Beckett e Kafka. E un tempo, quando ammiravo molto più di adesso i romanzieri francesi come Robbe-Grillet, ad attirarmi era il loro progetto, l’idea di evitare il ricorso alle metafore.

J.C. Dunque quando parla di purificazione dalle metafore ne propone l’eliminazione.

S.S. In un certo senso sì, o perlomeno voglio esprimere un estremo scetticismo verso le metafore. Le metafore sono essenziali al pensiero, ma bisognerebbe usarle senza crederci – bisognerebbe sapere che sono una finzione necessaria, o forse non necessaria. Non riesco a immaginare una riflessione in cui non siano implicite delle metafore, ma ciò non fa che rivelare i limiti del pensiero. E io sono sempre attratta dai discorsi che esprimono questo scetticismo e che vanno al di là delle metafore, verso qualcosa di più limpido e trasparente o, per dirla con Barthes, verso il «grado zero» della scrittura. Certo, si può anche andare nella direzione diametralmente opposta, come fece James Joyce, e stipare nel linguaggio il maggior numero di metafore possibile, ma in tal caso non si tratta più di metafore, ma di un gioco con il linguaggio stesso e con tutti i diversi significati che una parola può assumere, come accade in Finnegans Wake di Joyce. Ma so che quando mi imbatto in una metafora come, per esempio, «Il fiume scorreva sotto le arcate del ponte come le dita di un guanto»… come le sembra? [ride]

J.C. Meravigliosa!

S.S. Be’, quando mi imbatto in una metafora del genere sento – ed è una sensazione viscerale, primitiva – di essere stata afferrata per la gola. Nella mia testa si produce una specie di cortocircuito, colgo il fiume e colgo il guanto, ma uno interferisce con l’altro. Perciò sto parlando di qualcosa che, per me, è una sorta di propensione caratteriale.
Potrei, in un certo senso, dare l’impressione di voler escludere tutta la poesia – pensi ai sonetti di Shakespeare. Ma non è affatto così – al contrario, le cose che leggo di più sono la poesia e la storia dell’arte. Ma, nella misura in cui esiste una cosa chiamata prosa ed esiste una cosa chiamata pensiero, continuo a pormi il problema della funzione della metafora. Non è come una similitudine: se dici che una cosa assomiglia a un’altra, be’, va bene, le differenze rimangono chiare… anche se a volte non chiarissime, perché la poesia può essere molto densa. Ma dire, per esempio, che «la malattia è una maledizione» a me sembra una sorta di tracollo del pensiero – una maniera per smettere di pensare e congelare gli altri in certi atteggiamenti. Il mio progetto intellettuale è, in effetti, un progetto di critica, nel senso più profondo del termine, che implica inevitabilmente la creazione di nuove metafore, poiché per pensare bisogna utilizzarle. Ma almeno bisognerebbe essere critici e scettici rispetto alle metafore ereditate, in modo da sbloccare il pensiero, sgombrare il campo e far entrare aria fresca.

***

J.C. […] Torniamo all’opposizione tra reticenza e apertura…

S.S. È una questione molto complessa perché ho in mente alcune idee – anche se non so quanto possano valere – su ciò che significa essere bambini o adulti. Questi pensieri mi girano e rigirano nella testa, e a volte mi dico che non c’è differenza, che si tratta di una distinzione puramente artificiale. Certo, invecchiamo, la pelle diventa più coriacea, e allora? Chi se ne importa? Che importanza ha l’età anagrafica? Non dovremmo cercare di imporre l’idea che ci si debba comportare in un determinato modo perché certi comportamenti ci appaiono adulti e altri infantili.
[…] Le nostre idee sull’amore sono strettamente connesse all’ambivalenza con cui guardiamo a queste due condizioni – alle connotazioni, positive e negative, che attribuiamo all’età adulta e all’infanzia. E credo che, per molti, l’amore significhi un ritorno ai valori rappresentati dall’infanzia, che sembrano censurati dall’arido mondo meccanizzato degli adulti, fatto di coercizioni lavorative, regole, responsabilità e impersonalità. L’amore è sensualità, gioco, irresponsabilità, edonismo e leggerezza, e si tende a considerarlo come uno stato di dipendenza, in cui si diventa più deboli, ci si assoggetta a una sorta di asservimento emotivo, trattando la persona amata come una specie di figura genitoriale o di fratello maggiore. Si riproduce, in parte, la condizione vissuta da bambini, quando non si era liberi e si dipendeva totalmente dai genitori e, soprattutto, dalla madre.
Chiediamo tutto all’amore. Gli chiediamo di essere anarchico. Gli chiediamo di essere il collante che tiene insieme la famiglia, che regola la società, che assicura i processi di trasmissione da una generazione all’altra. Ma io credo che la connessione tra amore e sesso sia molto misteriosa. L’ideologia moderna dell’amore presume, tra le altre cose, che amore e sesso siano sempre connessi. Suppongo che ciò sia possibile, ma se accade, secondo me, accade a detrimento dell’uno o dell’altro. E forse il più grande problema degli esseri umani è che non sono affatto connessi! Perché la gente vuole innamorarsi? È una questione molto interessante. In parte, ci si vuole innamorare allo stesso modo in cui si vuole ritornare su un ottovolante – anche se si sa già che ci si ritroverà ancora una volta con il cuore spezzato. Quel che mi affascina sono le attese culturali e i valori attribuiti all’amore. Mi hanno sempre stupito le persone capaci di dire: «Mi sono innamorato, ero follemente innamorato e abbiamo avuto una relazione». Vi descrivono ciò che hanno provato e poi, quando chiedete «quanto è durata?», vi rispondono «una settimana, non ce la facevo più».
Io non sono mai stata innamorata per meno di un anno o due. Sono stata innamorata raramente, ma ogni volta che mi è successo è stato qualcosa di duraturo, che poi si è concluso – nella maggior parte dei casi – con un disastro. Non so cosa voglia dire essere innamorati per una settimana. Quando dico di essere stata innamorata, intendo dire che ho vissuto insieme a una persona: abbiamo abitato insieme, siamo stati amanti, abbiamo viaggiato, abbiamo condiviso tante esperienze. Non sono mai stata innamorata di una persona con cui non fossi andata a letto, ma conosco molte persone che si dicono innamorate di qualcuno con cui non hanno avuto rapporti sessuali. Per me vogliono semplicemente dire: «Ho provato attrazione per qualcuno, ho avuto una fantasia e dopo una settimana la fantasia è finita». Ma so di avere torto, e probabilmente questo è uno dei limiti della mia immaginazione.

Il cinese

4

di Stefano Zangrando

E va bene, stia a sentire: mio nonno paterno fu il figlio bastardo di un’avventura di guerra con un soldato austro-ungarico.
La notizia fu diffusa tra i parenti più stretti, poco dopo la morte del vecchio, da una cugina di mio padre, una distrofica di fede comunista. Era una tipa tosta, militante, sempre al corrente del peggio che si potesse affermare sulla classe governante di turno. Come abbia saputo lei di quella debolezza di guerra, rimane un mistero. Forse la confidenza di un parente ormai estinto, non so. Ma di lei, se mio padre non mente, ci si può fidare. E io mi fido innanzitutto di mio padre, quel povero saggio dilettante, tanto più che è politicamente molto diverso da quella cugina in trincea: non filisteo, non credulone, tuttavia inspiegabilmente esposto alle correnti dominanti. Del resto, la dimensione privata è sempre stata il solo ambito in cui il suo amor di verità potesse trovare conforto. Lei – si chiamava Tilde – la vidi soltanto due o tre volte intorno ai vent’anni, prima di andarmene di casa, quando ci fece visita assieme al compagno, un ex-seminarista calvo e placido, uno di quei tipi ascetici molto versati nell’informatica. La grande notizia mi giunse invece proprio da mio padre, che pochi giorni dopo il funerale del nonno a Bolzano aveva incontrato Tilde, assente alle onoranze funebri a causa di un’improvvisa infezione polmonare, nel corso di un tour parentale nel Cadore.
Tilde si spense poco tempo dopo quel gossip – pare che sulla cerchia dei Marinel quella notizia abbia avuto davvero l’effetto di uno sconveniente svelamento. In mio padre, tuttavia, a quell’altezza era già sbocciato il quantum d’ironia che l’iperuranio gli aveva concesso per aver intrapreso una minima cura dell’anima dopo troppi decenni di sottomissione alle verità precostituite. Quel giorno ero a pranzo dai miei, un sabato o una domenica. Mio padre raccontò la cosa durante il secondo. Martina, mia sorella, gridò allo scandalo. Mia madre rimase zitta e sparì in cucina con i piatti sporchi. Io assecondai incerto il sorriso intenerito di mio padre: quella notizia gettava di colpo una luce straniante sul ricordo che ciascuno di noi aveva del vecchio Astolfo. Voglio dire che la seriosità con cui mio nonno andava fiero del proprio cognome, e con cui aveva sempre indotto figli e nipoti a fare altrettanto, mi appariva all’improvviso non solo in tutta la sua fragilità, ma tanto più giustificata dalla natura meramente civile di quell’appartenenza – voglio dire non-biologica, generata unicamente dall’atto di responsabilità di quel primo Marinel che, prima ancora che mio nonno nascesse, scelse di riconoscerlo come figlio proprio. Provi a immaginare il grumo di amore, odio e ammirazione che dovette avere mio nonno per quell’uomo! Ma forse a questo punto è opportuno che le racconti un po’ più da vicino come andarono le cose.
Lina, così era chiamata quella mia bisnonna dai compaesani cadorini – doveva chiamarsi Carolina, o Adelina –, era stata una donna sfortunata. Il suo primo marito l’avevano trovato all’inizio del bosco con la gerla semivuota ancora in spalla, stecchito da un arresto cardiaco mentre raccoglieva rami secchi da farci fascine per la stagione fredda. Non aveva neppure trent’anni, ma era obeso, e in Cadore si beveva molto alcol. I maschi dei ceti più bassi invecchiavano presto. Rimasta vedova, Lina si divise tra l’economia domestica – orto, pollaio – e la chiesa, dove il parroco le dava qualche soldo per tenere puliti e in ordine banchi, altare e pavimenti. C’era anche una perpetua, ovviamente, ma quella il don se la teneva in casa; Lina, per così dire, era la responsabile del suo spazio d’intervento comunitario, la sua public manager. Solo quando il prete la raggiungeva tra i banchi deserti per soddisfare un appetito particolarmente invadente, solo allora, dopo aver accondisceso suo malgrado, Lina lasciava un ricordino in un angolo, vicino al confessionale o al seggio dietro l’altare – mai vicino al tabernacolo –, facendo credere all’uomo in nero che ci venissero a pisciare i ratti. Non lo faceva con rabbia, no, era solo una forma di sofferenza, una lacrimazione sui generis.
Allo scoppio della guerra, la vita si fece più dura. Il fronte italo-austriaco era a due passi, non era raro dover accogliere e confortare, in molti sensi, soldati stremati dalla guerra di posizione. E fu ancora nell’estate del ’17, ben prima di Caporetto, che un fante ramingo dell’esercito imperial-regio sbucò dallo stesso bosco dove due anni prima era crollato il marito di Lina e cercò rifugio nella baracca che ospitava la legnaia e il pollaio. Ma la cosa più strana, come notò Lina appena ci entrò per raccogliere le uova fresche, era che quel soldato aveva gli occhi leggermente a mandorla e la pelle brunastra. Era un chirghiso, capisce? Va bene che l’Impero austro-ungarico era un pot-pourri di lingue e nazionalità, ma un muso del genere in uniforme blu scura era tra le rarità più esotiche che un contadino veneto di cento anni fa potesse aspettarsi di trovare tra le proprie galline.
Ora, mi crede se le dico che quel soldato straniero fu il primo, tra tutti i militari che Lina aveva incontrato, a degnarla di un vero corteggiamento? E poiché il disertore non poteva certo uscire allo scoperto, tutto si svolse nella penombra di quella baracca. All’inizio bastava poco: quando Lina gli portava qualcosa da mangiare, una zuppa di patate o un pezzo di polenta con un po’ di vino, il soldato fingeva di contraccambiarla porgendole con goffa cortesia un uovo che aveva sottratto poco prima alle galline – non c’è bisogno che le ricordi quale significato simbolico abbia l’uovo, non solo nella nostra cultura. Così Lina e il soldato iniziarono subito a sorridersi. Poi si sforzarono di comunicare un po’ di più – la seduzione, si sa, è tutto un gioco di segni, e il chirghiso, cosa insolita ma non impossibile per un soldato in quelle condizioni, pareva incline al temporeggiamento, a un gentile rinvio. Masticava un discreto tedesco, Lina però se la cavava male, così cominciarono a darsi lezioni l’un l’altro tra l’impettito chiocciare delle galline e i canti sempre più rassegnati e pro forma del gallo, il quale dopo una certa aggressività iniziale per la violazione della sua zona di copula si era presto sottomesso alle pedate della padrona. Da “uovo, Ei” e “vino, Wein” – polenta è intraducibile – si passò presto ad “acqua”, “lavarsi”, “dormire” e poi, un giorno, “sogno” e, pensi un po’, “vestito bianco”, quando il soldato cercò di raccontarle che la notte precedente lei gli era apparsa in una veste chiarissima e si era addormentata accanto a lui, sul pagliericcio. Lina arrossì incredula, inspirando confusa il puzzo acre degli indumenti dell’uomo mescolato all’olezzo naturale degli uccelli domestici.
Cose come questa accadevano tra l’alba e il tramonto, quando la luce penetrava almeno un poco in quella baracca senza finestre. Nei primi giorni Lina non entrò mai lì dentro nelle ore buie. Solo una sera, nella prima oscurità, quando udì dei gemiti prolungati provenire dal pollaio, Lina osò uscire con cautela e attraversare l’orto verso la baracca, se non altro per intimare a quel bizzarro traditore imperial-regio di tacere o di fare più piano, qualunque cosa stesse combinando. Non era ingenua, sapeva che il soldato era un uomo anche lui, e il fatto che fino a quel momento non avesse osato allungare le mani, preferendo indugiare in quel flirt da giovinetti, più che indispettirla l’aveva incuriosita.
Lina si sbagliava di poco: trovò il soldato con le mani tra le cosce, ma non intento nell’atto che lei si aspettava. Era vestito e lamentava dolori. Dovette mostrarle i genitali. Lina inorridì. Il chirghiso, ammutolito dalla vergogna, le lasciò intendere con pochi sguardi quel che era successo. Anziché arrangiarsi, si era sfogato con le galline e si era preso un’infezione.
Quando Lina girò i tacchi per correre in casa a preparare un impacco curativo, a metà orto udì chiamare il suo nome dalla strada. Il parroco, di ritorno dalla visita a un morente, la pregò di ospitarla brevemente per un bicchiere di vino. Lina ne fu spaventata, fino a quel momento il pretaccio non aveva mai osato disturbarla in casa. Lina cercò di sottrarsi con una scusa, disse che il gallo stava male, molto male, che doveva occuparsi del gallo, ma il prete non si lasciò dissuadere e avanzò oltre il cancelletto aperto.
Così quella sera, per la prima volta, Lina dovette sottostare all’incontinenza ansimante del parroco nella stessa alcova dove aveva dormito il suo compianto marito, sperando fino all’ultimo che il religioso, troppo preso dalle proprie voglie, non scambiasse i gemiti del gallo per quel che erano veramente.
Tutto andò liscio, per fortuna, e già quella notte, smammato l’uomo in nero, Lina poté prendersi cura del soldato. Ma a quel punto lui non poteva stare lì ancora a lungo, perché se il prete avesse iniziato a bussare più spesso alla porta di Lina, come lei temeva, il rischio che lo scoprisse diventava una minaccia per entrambi. Lui sarebbe finito prigioniero, lei svergognata di fronte all’intero paese – a letto con il nemico! Così, appena il soldato iniziò a star meglio, dovettero separarsi. Una mattina, alle prime luci dell’alba, il chirghiso le disse “A presto”, le baciò le mani e sparì nel bosco dal quale era sbucato qualche settimana prima.
Lina tornò, non senza qualche sospiro, alla vita di prima, certa che non avrebbe mai più rivisto quello strano disertore che forse, chissà, era già morto sotto i colpi di fucile di un alpino. Poi ci fu la disfatta di Caporetto e fu occupato anche il Cadore. Gli austriaci non andavano per il sottile, sequestravano bestiame, foraggi e ogni bene possibile, e anche Lina, benché fosse sola, dovette subire il destino comune. Finché, un giorno della primavera del ’18, mentre spolverava i banchi in chiesa, udì aprirsi la porta della sagrestia. Si rabbuiò in volto, già quasi sentendo le mani del prete girarle sui seni e presagendo il bisogno impellente che l’avrebbe colta dopo, ma nessuno la chiamò per nome, come faceva sempre lui prima di arrivare a toccarla. La presenza silenziosa le si avvicinò da dietro e Lina, prima ancora di voltarsi, sentì il puzzo di soldato, poi una voce nota le sussurrò all’orecchio: “Vestito bianco…”
Ecco, mio nonno fu concepito così, tra i banchi di una chiesa in piena guerra mondiale, nell’unione di una vedova cadorina e un fante austro-ungarico di origine chirghisa. Il soldato – Dio solo sa come avesse fatto a ritornare indenne nelle file dell’esercito che aveva abbandonato – si era intrufolato in quel luogo sacro, come scoprì Lina alla fine di quel miracoloso incontro, dopo aver legato il prete a una sedia e averlo costretto, sotto gli occhi atterriti della perpetua, a bere un uovo crudo dietro l’altro finché non aveva vomitato tutto per terra, dritto dritto sulla chiazza di orina ed escrementi che già aveva rilasciato per la paura. Lina era troppo felice per restare davvero schifata da quell’obbrobrio, riuscì solo a fingere malamente, al cospetto della perpetua in lacrime e del parroco umiliato, lo sconvolgimento per la presunta violenza subita, senza potersi togliere di mente le parole misteriose con cui l’amante si era congedato, stavolta per sempre, sparendo oltre la soglia del portone principale: “Seni seviyorum,” le aveva detto.  Significa “ti amo”, è turco. Il che non significa che io abbia – anche – origini turche, ma che quel soldato arrivava chissà da dove, che una parte del mio sangue affonda le sue radici in un oriente insondabile. In ogni caso, ora sa da chi ho preso questi occhi e questa carnagione; mentre io, quando conobbi la storia svelata dalla cugina di mio padre, vidi illuminarsi un dettaglio che mio nonno Astolfo mi aveva citato spesso, ma sempre sconnesso, assoluto, senza darmene una spiegazione. “Al paese mi chiamavano il cinese,” mi diceva, con una serenità di cui solo oggi riesco a riconoscere l’artificio, ogni volta che finivamo a parlare degli occhi che mi aveva trasmesso saltando, chissà come, quel conformista di mio padre.

 

(questo racconto è stato pubblicato sul mensile UCT (Uomo-Città-Territorio), numero 486, luglio 2016, Trento)

Parigi. The Great Smog

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di Jamila Mascat

Londra nel 1952 andrò in fumo a causa di un’emergenza ambientale – the Great Smog  – che annebbiò la città al punto da impedire la circolazione di individui e mezzi di trasporto, e che nel giro di quattro giorni (dal 5 al 9 dicembre) causò più di 12mila morti.

Le foto che seguono sono state scattate da Jean SeguraAlhil Villalba durante la mobilitazione contro la Loi Travail tra i mesi di aprile e giugno di quest’anno.

Il fumo è stata la cifra dominante delle manifestazioni di piazza grazie all’uso massivo e sistematico di gas lacrimogeni da parte della polizia.

L’ordine delle immagini non è cronologico, ma ideologico.

9avrilManifestazione, Place de la Nation, Parigi, 9 aprile.

 

28rueManifestazione,  Place de la Nation, Parigi, 9 aprile.

cheminot in fumoManifestazione dei ferrovieri à Montparnasse, Parigi, 10 maggio.

28grèveSciopero generale contro la Loi travail, corteo da Place Denfert-Rochereau a Place de la Nation, 28 aprile.

28nuageSciopero generale contro la Loi travail, corteo da Place Denfert-Rochereau a Place de la Nation, 28 aprile.

28marcheSciopero generale contro la Loi travail, corteo da Place Denfert-Rochereau a Place de la Nation, 28 aprile.

fiori_26maggioManifestazione contro la Loi Travail, Place de la Nation, 26 maggio 2016.

invalides_estintore fumoManifestation contro la Loi Travail, Esplanade des Invalides, 14 giugno 2016.

police in fumoManifestazione contro la Loi Travail, verso l’Esplanade des Invalides, 14 maggio.

corridore in fumo 26 maiManifestazione contro la Loi Travail, Place de la Nation, 26 maggio 2016.

monnezza in fumoManifestazione contro la Loi Travail, Esplanade des Invalides, 14 maggio.

black block in fumoManifestazione contro la Loi Travail, Place de la Nation, 26 maggio 2016.

28istanbulManifestazione contro la Loi Travail, verso l’Esplanade des Invalides, 14 maggio.

racchetta manManifestazione contro la Loi Travail, Place de la Nation, 26 maggio 2016.

Passione per il western

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di Ugo Cornia

La passione per il film western è un fenomeno che accomuna molti genii. Notissimo il caso di Ludwig Wittgenstein e di John Maynard Kejnes, insieme all’amico Pietro Sraffa, che grazie ai soldi di Wittgenstein avevano rilevato un piccolo cinema di Cambridge, dove proiettavano esclusivamente e continuamente i film western che poi andavano a guardarsi, mangiandosi dei sacchetti di carne di maiale fritta.

Programma della festa indiana: a Torino il 24 e 25 settembre

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La festa indiana si terrà dal 24 al 25 settembre a Torino, e presso l’Unione Culturale Antonicelli. Ecco il programma.

 

Unione Culturale Franco Antonicelli

Via Cesare Battisti, 4, 10123 Torino

011 562 1776

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Ferragosto a Milano

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in fila per il pranzo di ferragosto

di Gianni Biondillo

Una piazza del Duomo piena di gente il 15 di agosto non l’avevo mai vista. File interminabili di gente che aspetta paziente di entrare nella cattedrale. La Milano estiva della mia infanzia è vuota, spettrale, tutt’altra dalla Swinging Milano che mi appare sotto gli occhi. Turisti, sopratutto. Stranieri. Moltissimi gli arabi, curiosi di conoscere il nostro stile di vita, le nostre bellezze artistiche. I loro vestiti, i veli che coprono il capo delle donne, non li fanno sembrare pericolosi. Appaiono come principi di favole esotiche. Non fanno paura. Sono altri quelli che spaventano il popolo rabbioso della rete, quello che urla proclami contro l’invasione in atto. Non i turisti, ma i profughi, quelli che fuggono da fame, guerra, disperazione. I poveri, sono loro che ci fanno paura. Decido allora di inforcare la bicicletta e di muovermi verso la stazione Centrale. Lì, il popolo rabbioso dei social nei sui commenti lividi e grevi, mi assicura che è pieno di terroristi, mangia pane a tradimento, furbi approfittatori della nostra ricchezza e del nostro buonismo.

Il sole è alto. Li vedo dormire su fazzoletti di prato alla ricerca dell’ombra delle chiome frondose. Sono maschi, in maggioranza, soprattutto africani. Alcuni fanno capannello seduti sui muretti, vicino a turisti che fanno selfie a ripetizione. Noto una famiglia magrebina al completo, più appartata un’altra famiglia, ad occhio e croce direi siriana. Poi ragazzi. Ragazzi ovunque. Eritrei, etiopi, sudanesi. All’imbocco con via Vittor Pisani c’è un bivacco di uomini, raggruppati sotto un albero. Almeno cinque seduti, un paio dormono ancora, appoggiato al tronco c’è una catasta di valigie. Questi hanno un aspetto più trasandato, macilento, straccione. Pochi passi più avanti una ragazza bionda prende il sole. In piazza, nel frattempo gli operatori dell’Amsa stanno passando l’idrante per ripulire i rifiuti. Spazzano via bottiglie, bicchieri di plastica, lattine di birra. I migranti (profughi, clandestini, come devo chiamarli?) si muovono assieme verso un altro cono d’ombra. Alcuni stazionano sotto la scultura di Michelangelo Pistoletto, l’enorme “mela reintegrata” pensata per Expo e ora installata qui. Si spostano lenti con il girare del sole, come lancette di un orologio. Passo di fronte al padiglione posto di fronte all’ingresso della stazione. Un tanfo d’orina mi pervade le narici. Ovunque macchine della polizia locale e dei carabinieri. C’è pure una camionetta. Tutto sembra sospeso. Sembra di vivere dentro un’infinita attesa. Di cosa?

Prendo la bicicletta, costeggio tutta via Sammartini tenendomi lo spiccato ferroviario sulla destra, in prossimità di Greco vedo un nugolo di persone. Qui forse avrò la risposta. “Aspettano di partire” mi spiega Alice, del Progetto Arca, una realtà che lavora da un ventennio sul tema dell’accoglienza. Senza tetto, anziani, migranti. Senza distinzioni. “È un flusso continuo” mi spiega. “Arrivano a Milano, cercano di superare le frontiere, raggiungere i parenti in Germania o in Svezia. Fosse per loro non si fermerebbero”. Ma le frontiere sono chiuse. A Como, a Ventimiglia. Quindi tornano indietro, si fermano qui, per qualche giorno. Cercano un posto dove dormire, un pasto caldo, degli abiti. Poi tornano verso la stazione, instancabili, verso il loro destino. Nei tre anni che l’Hub d’accoglienza è operativo, non s’è visto un aumento del flusso migratorio. I numeri sono gli stessi degli scorsi anni. Sono quelli che tornano, rimandati indietro, che sono aumentati. L’Italia è ormai un grande cul de sac, la convenzione di Dublino ha garantito le frontiere interne dell’Europa addossando agli stati più esterni il compito di gestire l’emergenza. Avete firmato l’accordo? Arrangiatevi, insomma. E la Germania con i siriani allora?, chiedo. “Si sono mossi bene e in fretta” è stata la risposta di Hani.

Hani parla con un cadenza che è più milanese della mia. È di origini egiziane, il suo ruolo è fondamentale. Non solo perché parla arabo, che è come il latino era per noi nel medioevo, una lingua franca che gli permette di comunicare con chi non conosce inglese o francese; non solo perché si occupa di identificare e registrare tutti le persone di passaggio per poi distribuirle nei vari centri d’accoglienza; non solo per il suo lavoro insomma. Ma anche perché ha un sorriso talmente accattivante che sembra impossibile non fidarsi di lui. Mentre mi parla ci passa vicino un gruppetto di ragazzine eritree. Una di queste lo saluta e poi corre avanti vergognosa. Hai fatto colpo, gli dico. Lui quasi arrossisce. Alice lo prende in giro: “Piace molto alle ragazze”, lui, forse per cambiare argomento, riprende il suo discorso. “La Merkel ha colto al balzo l’occasione. I siriani sono i profughi più ricchi e più colti. Anche quando arrivano qui si distinguono. Stanno fra loro, raramente interagiscono con gli altri. Una volta ho visto una famiglia prendere un taxi per andare al centro accoglienza di via Mambretti.” Ma di siriani, comunque, se ne vedono sempre meno. Non c’è una logica d’arrivo, mi dice Alice. Certe volte arrivano ondate di donne con bambini, altre di vecchi. “Noi qui potremmo ospitare solo 75 persone a notte, ma in situazioni d’emergenza siamo arrivati fino a 400 in una notte. C’erano così tante brande che di notte non si riusciva ad alzarsi per andare in bagno senza camminare sui letti.”

Ci viene a salutare Ahmed. È un ragazzino egiziano. Un minore non accompagnato, per essere fiscali. È in Italia da quattro mesi, mi racconta. Da due è stanziale qui, è diventato un po’ la mascotte del centro. Ha una faccia vispa, uno sguardo vivido. “Spesso va da solo davanti alla stazione, recupera un po’ di migranti e li accompagna qui al centro”, mi dice Alice. Ahmed afferma di avere quattordici anni ma non gli credo, ne dimostra un paio di meno. Di certo ha le idee chiare. “Voglio fare qualcosa di importante, qui in Italia” ci dice. “Quando sarò grande studierò medicina, oppure ingegneria.” Abbiamo un ottimo Politecnico, gli rispondo, augurandogli di realizzare i suoi sogni.

Mi guardo attorno. La maggior parte degli ospiti bivacca seduto sui bordi del marciapiede, come li vedevo nei miei viaggi in Ciad, Uganda, Etiopia. Aspettano. Hanno raccolto tutti i loro averi, pagato fino a 6000 dollari per il viaggio, attraversato il deserto. La maggior parte delle donne, raggiunta la Libia, hanno conosciuto l’umiliazione e la violenza brutale dello stupro, si sono imbarcati su gommoni precari, hanno visto morire annegati o disidratati i loro compagni di viaggio. Aspettare non è certo un problema. “In tre anni che lavoro qui” mi dice Hani “Non ho mai assistito ad una rissa. Sanno di essere tutti sulla stessa barca.” Quella che li ha traghettati qui. Si avvicina una signora, sembra mia zia. “Mi chiamo Graziella” ci dice “Vorrei dare una mano”. La Milano che urla livorosa sembra esistere solo sui social o nei commenti degli articoli on line. Quella silente si presenta per dare una mano. “Almeno 30 persone al giorno” mi dice Alice. “Vengono e portano vestiti, generi alimentari, giochi per i bambini. Noi cerchiamo di indirizzarli sulle nostre pagine Facebook o sul nostro sito, chiedendo di volta in volta le cose di cui abbiamo bisogno.” La Milano silente si muove. E s’organizza. Questo Hub è già un modello, vengono da molte parti d’Europa per studiarlo. Qui differenti realtà del terzo settore si sono messe in rete. Non c’è solo il Progetto Arca, ma anche Save the children, l’Albero della Vita, il Banco Alimentare, oltre al Comune di Milano.

Forse il governo centrale è distratto ma Milano c’è. Al di là delle logiche di bassa cucina politica. L’Assessore Majorino è una presenza fissa, mobile, attiva. Così come non è raro che vengano esponenti dell’opposizione e, non ostante i rituali distinguo, finiscano per donare il loro tempo e il loro denaro a questo miracolo d’accoglienza. Alberto Sinigallia, il Presidente di Progetto Arca, stima una spesa di 5000 euro al giorno per far muovere l’intera macchina. I pasti, oltre 600 al giorno, i posti letto, l’assistenza sanitaria, la logistica. Per tutti, ben inteso. Non solo i migranti, anche per i senza tetto italiani. Che nessuno resti indietro.

I miei ospiti mi mostrano le strutture. Si stanno apparecchiando i tavoli, è quasi ora di pranzo. Guardo lo spazio dedicato ai bambini, i loro disegni appesi ai muri, come in un qualunque asilo infantile. Fra questi ce n’è uno. Una bandiera somala circondata da un cuore, affiancata da una bandiera italiana. “Thanks to Italy” c’è scritto, con mano incerta. Fuori si sta organizzando la fila per la distribuzione del pasto. Alcuni volontari separano gli uomini dalle donne e i bambini. Il più attivo è Gianluca, un uomo dalla parlata spiccia, capelli bianchi raccolti in una coda. “Sono un leghista” mi dice, cercando di provocarmi. “Sono per il territorio e contro il buonismo. Ma la prima accoglienza deve essere per tutti, non pigliamoci in giro” poi mi sciorina un discorso di meravigliosa incoerenza, che fonde ordine, razionalità, sentimento e rabbia. “Pensa che oggi c’era l’inaugurazione del bar di mio figlio, a Omegna. Solo che qui stanotte c’è stato un allarme antincendio e allora sono rimasto a dare una mano”. Conosco anche Bianca. Viene dalla Toscana. Non sapeva come passare l’estate, non era interessata a mangiare l’anguria sotto il solleone di Rimini. Ha prenotato un albergo a Milano e da due settimane fa la volontaria. “Mi sento arricchita”, mi dice. Che paese incredibile siamo.

Nessuno, qui, ha la bacchetta magica. E, a dirla tutta, non tocca a loro trovare la soluzione ad un cambiamento di tale fattura nel nostro tessuto sociale. Loro, però, che stanno in prima linea sono quelli che hanno più chiaro il problema. Ne hanno una visione più lucida. “Ci vorrebbe una accoglienza diffusa” mi dice Gianluca, per quanto i suoi amici sindaci della Lega non vogliano ospitare nessuno. “Piccoli gruppi da distribuire nel territorio. Si creerebbero meno tensioni.” La soluzione prospettata, invece, è quella di aprire un grande centro d’accoglienza in una caserma. “Meglio quella” mi dice Alice “Che nulla”. Qui si sta andando avanti con le donazioni e la buona volontà. Non basta. Da Roma non si ha una visione progettuale su che fare in Italia dopo la prima accoglienza. I profughi aumenteranno, lo sappiamo tutti, la politica dello struzzo non basta più.

Oggi Sirte è stata liberata, dico. “La sai una cosa?” mi dice Gianluca. “Prima o poi arriveranno anche i profughi libici.” Quelli che magari s’arricchivano con la tratta dei profughi, fustigavano gli uomini e stupravano le donne. “Io non so cosa succederà quando questi ragazzi eritrei o sudanesi li riconosceranno.” Hani annuisce e, per la prima volta da quando sono qui, non lo vedo sorridere.

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(pubblicato in una versione più breve su Panorama dello scorso 24 agosto 2016, corredato dalle belle fotografie di Luca Rotondo)

Le parole liberate dagli outsider

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di Giacomo Sartori

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Le parole che leggiamo sono prigioniere, se ne stanno rassegnate nelle loro gabbie modulari, hanno gli occhi spenti. Sono stufe di loro stesse, stufe di noi.

Un gesto di cavalleria

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di

Azra Nuhefendić

Tra i candidati idonei fu scelto Joza F. per fare il corrispondente dalle Nazioni Unite. Aveva quello che agli altri aspiranti mancava: una zia che viveva a New York e che poteva ospitarlo.

All’inizio degli anni Sessanta, la Bosnia era un paese povero, il quotidiano di Sarajevo non poteva pagare un alloggio in affitto a New York per il suo corrispondente, perciò il fatto che la zia poteva ospitarlo fu decisivo.

Per i giornalisti accreditati presso le Nazioni Unite, all’epoca, si organizzava un grande ricevimento annuale. I nuovi arrivati, entrando nella sala, per consuetudine, si presentavano esclamando ad alta voce il proprio nome, cognome, la testata e la tiratura del giornale. E così fece anche Joza: “Joza F., Oslobođenje di Sarajevo, trentamila copie.”

Lo stesso Joza raccontava che, in quell’occasione poco dopo essersi presentato, mentre si aggirava tra corrispondenti, politici, ambasciatori e camerieri, fu preso in disparte da un collega il quale in modo confidenziale e amichevole gli disse: “Non dire mai più che sei corrispondente di un giornale con una tiratura così irrilevante. La gente potrebbe pensare che sei una spia e che il titolo di corrispondente è solo una copertura. Nessuno al mondo potrebbe avere un corrispondente dalle Nazioni Unite stampando solo alcune decine di migliaia di copie.”

Eccetto la Bosnia!

Dell’evento si parlò per anni, e quando lo sentii per la prima volta, mi parve una barzelletta inverosimile. Invece, una cosa analoga capitò anche a me, in un ambito più piccolo e sul terreno nazionale, in Bosnia.

Mi avevano mandato a Kupres, una cittadina della Bosnia centrale, come inviata speciale, ma solo perché mia sorella Esa viveva nella città vicino, a Bugojno. Dormivo da mia sorella, feci il servizio in una giornata e non occorrevano le spese per il pernottamento.

Negli anni Settanta la Jugoslavia stava attraversando una grave crisi economica. Da noi però la parola “crisi” non veniva pronunciata mai e da nessuno. Presumibilmente per non corrompere l’idea che la nostra società era il massimo della democrazia e della prosperità umana, e come tale non poteva soffrire dei mali “tipici dei paesi capitalisti”.

Nei discorsi dei politici, sui giornali e nelle notizie della radio e della televisione non si parlava della crisi, ma della “stabilizzazione economica”. Erano precauzioni inutili, perché “la stabilizzazione” ci colpiva quotidianamente: mancava la carta igienica, l’elettricità, la benzina, l’olio, la farina, lo zucchero, il caffè, gli assorbenti e quant’altro.

I membri del partito comunista erano invitati a dare l’esempio della “stabilizzazione” che, negli altri paesi, si chiama “risparmio”. Ai media fu decretato di promuovere la campagna, e i giornalisti dedicavano ampi servizi su come e cosa si faceva nelle piccole città riguardo alla “stabilizzazione economica”.

Da Sarajevo a Bugojno ci vogliono circa tre ore di autobus. La strada è una statale, di quelle costruite negli anni Sessanta grazie al cosiddetto samodoprinos. La parola vuol dire qualcosa come “autotassazione”, era una misura imposta che andò avanti per anni.

Stretta e piena di curve, la strada si dirige verso la Bosnia centrale, passa per Busovača (che nella lingua colloquiale è sinonimo di luogo retrogrado, provinciale e insignificante), poi Vitez, Turbe. Scorrono le cittadine anonime, monotone e quasi identiche. Solo con la guerra, negli anni Novanta, abbiamo scoperto che in tutte queste cittadine di provincia erano collocate le fabbriche militari.

Il pullman si ferma a Travnik, tipica kasaba, parola turca che significa “cittadina di provincia”. Su entrambe le parti della via principale, le case sono basse, costruite senza alcun’ordine e nessuna bellezza. I palazzi nuovi nascondono i veri gioielli architettonici pervenuti dai tempi passati, come i resti della fortezza medievale, diverse moschee, le scuole coraniche e le tradizionali abitazioni bosniache.

Per la sua posizione geografica la cittadina non fa eccezione in Bosnia: è incastonata nella stretta valle del fiume Lašva, con alti monti intorno. La sua posizione nel passato era considerata strategica. Durante il periodo dell’occupazione ottomana, la città fu residenza del Visir, il governatore del Sultano. Qui è ambientata la storia del romanzo del premio Nobel Ivo Andrić: La cronaca di Travnik.

Dopo quindici minuti di sosta si riparte. Davanti a me i nuovi passeggeri, seduti in tre su sedili da due, chiacchierano, ridono e parlano senza badare se qualcuno li ascolta. Capisco che sono paesani, muratori, e che stanno tornando a casa dopo mesi di lavoro stagionale sulla costa dalmata, in un campo nudista. Si stanno ancora meravigliando di quanto visto, delle donne nude che passeggiavano “con disinvoltura”, degli uomini super attrezzati… Si interrompono l’un l’altro: “Hai visto quella tedesca di Amburgo?”, e poi la descrive come vuole il più comune stereotipo: grassa, con delle curve improbabili e dalla sessualità esagerata. L’altro gli ricorda di “quel francese che, con la scusa di essere occupato in qualcosa, rimaneva nella camera e se la faceva con le ragazze e le mogli degli altri”. “Giustamente”, commenta l’altro e, senza nascondere l’invidia, descrive le doti eccezionali del francese. Vanno avanti con questi discorsi per circa un’ora. Scendono a Vakuf, un’altra kasaba bosniaca, ma prima si giurano reciprocamente di non proferire parola di quanto visto alle proprie mogli.

Mi fermo a dormire a Bugojno da mia sorella che vive e lavora lì. Negli anni Settanta era considerata una città prosperosa grazie all’industria militare. Ma la fama l’aveva ottenuta perché il presidente Tito si recava spesso lì per la caccia.

I boschi e le montagne bosniache, spesso di una bellezza rara e dalla natura intatta, non servivano solo per mascherare le fabbriche militari, gli aeroporti sotterranei e i bunker, ma erano e sono ancora ricchi di animali selvaggi, come gli orsi, gli obiettivi preferiti dell’eccellente cacciatore: il presidente Tito.

01Ci veniva spesso, e per Tito fu costruita a Bugojno la villa “Gorica”. Si diceva che i bosniaci catturassero l’orso in anticipo, e lo tenessero per il presidente. Giravano barzellette su vari politici bosniaci che tenevano personalmente con le proprie mani l’orso finché Tito, ormai vecchio, non lo uccideva.

Dopo la caccia, il presidente incontrava i politici bosniaci. Non è chiaro se questi incontri avessero anche rafforzato il legame e la fiducia tra Tito e i politici bosniaci. Fatto sta che, negli ultimi anni della sua vita, Tito si fidava sempre di più dei burocrati della Bosnia-Erzegovina.

Da Bugojno a Kupres ci vuole mezz’ora di macchina. Ma se nevica non si passa per giorni. La strada taglia in due una montagna boscosa di fitti e alti pini. Circa a metà strada bisogna passare per un valico detto “Kupreska vrata” (porta di Kupres). Mai visto un posto che corrisponda così tanto al proprio nome. Durante l’inverno basta quel poco di neve per far sì che la “porta” si chiuda al traffico.

Passato il valico, la strada scende in fretta e sbocca in un vasto altopiano, Kupresko Polje (il campo di Kupres), una delle quattro pianure carsiche della Bosnia-Erzegovina occidentale.

Kupresko Polje si estende su una superficie di 93 kmq ad un’altezza di 1.200 metri ed è circondato ovunque da alte montagne. Proseguendo dritto si arriva alla costa dalmata.

Sul bordo dell’altopiano c’è l’omonima città di Kupres. Piccola, di forma circolare. Si accosta al margine occidentale della pianura come se avesse paura di esporsi a quella vastità piatta che non ti dà riparo dal vento e dalla neve.

Il pullman si ferma, per un istante, e fugge da quel posto isolato. Sono l’unica a scendere. Mi giro intorno, non c’è anima viva. Seguo con lo sguardo il pullman che si allontana sulla strada dritta, in mezzo alla pianura, diventando sempre più piccolo fino a trasformarsi, all’orizzonte, in un puntino nero.

Nel centro della città c’è la piazza rotonda dal diametro di 50 – 70 metri al massimo e nel mezzo un giardinetto con le rose. Intorno alla piazza le case a due piani. Su una è esposta la bandiera statale. È la sede del comitato locale del PC.

Mi presento, mi stanno aspettando. Il primo incontro è con il segretario del comitato locale del PC, un certo compagno Mile. Parla piano, con voce monotona elenca le parole senza cambiare espressione del volto. Mentre parla, fissa la penna che gira tra le dita. Non sa cosa dire. Ripete le frasi già scritte nei lunghi e noiosi rapporti del partito: “bisogna”, “dobbiamo”, “di sicuro”, “al più presto”. Macché stabilizzazione economica! A Kupres avevano appena costruito una fabbrica, così, solo per avere un’industria qualsiasi, senza neanche la materia prima. E adesso non sanno cosa fare, non possono né chiudere né andare avanti, la fabbrica “produce” solo perdite.

Poi lo saluto, vado a parlare con il sindaco e il presidente del Socijalistički savez (Alleanza Socialista). Era un’organizzazione che, ufficialmente, doveva raccogliere vari pareri e interessi della società al di fuori del PC. La sede è dall’altra parte della piazzetta, Mile insiste per accompagnarmi.

Usciamo, davanti alla porta è parcheggiata una “Mercedes” nera, la macchina preferita dai nostri politici. Il compagno Mile mi apre la portiera e insiste per darmi un passaggio. Per fare solo 50 metri da una casa all’altra! Stupita, non riesco a rifiutare. Ci voleva più tempo per sedersi e mettere la macchina in moto che attraversare la piazza a piedi.

Finisco il lavoro nel primo pomeriggio, vado alla stazione dei bus. Lo sportello è chiuso, intorno non si vede nessuno. Aspetto un po’, non succede nulla. Busso alla porta di una casa privata e chiedo se c’è qualche bus per Bugojno. La signora ride: “Ma che Bugojno, cara, da qui fino a domani mattina non si va da nessuna parte, se non si ha l’auto”.

Mi vergogno all’idea di tornare dagli interlocutori per chiedere un passaggio. Lascio la città e mi metto sul ciglio della strada ad aspettare. Tornerò in auto stop, penso.

Passa un’ora e non si vede neanche una macchina. Comincio a preoccuparmi. Fisso l’orizzonte con la speranza di vedere un’auto in lontananza. Non si muove nulla, eccetto il vento che è costante. A Kupresko polje, il sole tramonta presto, la temperatura precipita in fretta. È luglio, ma comincio ugualmente a sentire un po’ di freddo.

Se non fossi preoccupata per come tornare a Bugojno, potrei godermi il paesaggio. A perdita d’occhio si estende un campo quasi perfettamente piatto, coperto d’erba, l’aria è limpida, arricchita dal profumo delle erbe aromatiche. Il silenzio è spaziale.

All’improvviso ho la sensazione di non essere sola. Mi volto e, per lo spavento, indietreggio di un passo. Là, vicinissimo, non saprei dire con certezza quanto distante, c’è un cavallo che mi fissa.

L’animale mi guarda con attenzione e curiosità palese. Come se si chiedesse “e tu cosa ci fai qui nel mio regno?”. Mi fissa con quegli occhioni grandi e intelligenti, con uno sguardo penetrante e di sfida. Bello, forte, sembra una statua di marmo, se non ci fosse il vento a muovere i peli della sua criniera lunga e spettinata.

Per un momento ci fissiamo, stupiti l’uno dell’altra. Mi sembra di vivere una scena da film: la figura del potente animale in primo piano, e sullo sfondo la verde vasta pianura che, lontano nell’infinito, si abbraccia con il cielo perfettamente blu.

Il cavallo, come se fosse impaziente, batte lo zoccolo sinistro per terra. Adesso, penso, quello si trasformerà in una principessa bellissima, come in una favola. Ma si è solo stancato dell’incontro improvviso. Con una mossa decisa l’animale tira la testa all’indietro, la criniera sventola e lo fa assomigliare a una creatura mitologica, emette un nitrito e si allontana galoppando. Non ho sentito il rumore dei suoi passi. “Per il vento” mi spiegheranno dopo.

Era uno dei cavalli selvaggi di Kupresko Polje. Sono i discendenti degli stalloni che, negli anni Sessanta, la gente locale non voleva e non poteva tenere più, e così li rilasciava in natura. In quegli anni, molti dalla Jugoslavia andavano a lavorare nell’Europa occidentale. In Germania li chiamavano “gastarbeiter” che significa lavoratore in visita. Questa parola da noi, ancor oggi, ha una connotazione negativa. Indica della gente rozza, ignorante, senza cultura ma con soldi da spendere.

I nostri “gastarbeiter” lavoravano in Germania, mentre a casa loro mancava la manodopera. Inoltre, con i soldi guadagnati, compravano le macchine agricole. Di conseguenza i cavalli erano diventati superflui, inutili.

Ai paesani dispiaceva uccidere gli animali, e così li liberavano. I cavalli liberi si sono arrangiati benissimo. Dai primi settanta cavalli, il numero, con gli anni, è cresciuto a 150.

Durante l’estate la mandria si divide in gruppi più piccoli, si arrangiano con il cibo e l’acqua. Sbucano all’improvviso, bellissimi, liberi e imprevedibili, e spariscono come il vento. Ogni tanto attraversano la statale. I rari passanti, impauriti per aver evitato lo scontro, e increduli di aver realmente visto dei cavalli, frenano l’auto bruscamente, escono e cercano di vedere e capire cosa sia successo. Ma della mandria, un attimo dopo, si vede solo una nuvola che si allontana.

Durante l’inverno i cavalli selvaggi di Kupresko Polje si ritirano, insieme in un’unica mandria, sulle montagne che circondano l’altopiano per ripararsi dal vento e dalla neve. Gli esperti dicono che nel branco esiste e si onora una gerarchia precisa, basata sull’età e sul sesso degli animali.

Con le spalle rivolte verso la strada, osservo la pianura nella direzione in cui è sparito il cavallo. Cerco di ricostruire, nella memoria, tutto quello che ho appena visto. Sapevo che a Kupresko Polje ci sono i cavalli selvaggi, ma come molti prima e dopo di me, non mi aspettavo di vederli.

Poi sento un rumore, mi volgo verso la strada, e vedo un camion che si avvicina. Sono così confusa che non alzo neanche il pollice per fermarlo. L’autista, però, si ferma comunque, abbassa il finestrino e mi fa: “Dove si va, bellezza?”.

Hmm, non mi piace il suo aspetto né il suo modo di rivolgersi a me. Non sono una bellezza, ma una giornalista del più importante quotidiano della Bosnia-Erzegovina. Ma se non salgo sul camion, come me ne vado da questo posto?, penso tra me e me. “Bugojno”, rispondo velocemente. “Monta su, bellezza”, dice quello e mi apre la portiera.

Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

Overbooking: Flavio Ermini

1

il-giardino-conteso 

Esperienza poetica, memoria del principio

che non ha fine

Nota su Il giardino conteso di Flavio Ermini

di

Lucio Saviani

Questa nota intende essere un tentativo di corrispondere all’invito di Flavio Ermini ad una esperienza. Un’esperienza di verità che, in quanto vera esperienza, è sempre “negativa”, ossia trasforma ad ogni passo colui che la compie. Come un viaggio, in cui chi ritorna non è mai lo stesso che era alla partenza e in cui si coappartengono l’arrivo e il ritorno: “il cammino non serve a fornire una conoscenza dei luoghi, ma un nome a chi è in cammino” (100). L’approdo raggiunto è vissuto, nell’invito di Ermini, come esperienza dell’inizio, del punto ortivo.

L’origine è l’ombra che accompagna ogni passo nel viaggio del Giardino conteso di Flavio Ermini. Il viaticum è la provvista che il peregrinus, colui che va per agros, porta con sé. Proprio come un viaticum, questa scrittura è àncora e vele, transito e passeur, viaggio e libro di bordo, diario (‘diarum’, dei giorni, diurnale, giornale) e notturnale, viaggio nel dies della vita che risplende e nella nox che rimanda alla ‘nex’, alla morte.

Il viaggio, in origine, è un nome dell’esperienza. Ex-per-ientia, ex-perire: andare attraverso (le cose) provenendo da. Ma si è sempre in cammino e, sempre, chi va proviene da un’altra parte, da altrove. Se dunque l’ex può essere taciuto come ovvio e naturale, resta il per-ire, l’attraversare, il divenire esperti o periti, che è aumentare la provvista del peregrinus ma anche tra-passare e decedere, in quel trapasso che è l’esperienza aporetica per eccellenza. L’empeiria greca del ‘provare’ si arricchisce del perior latino, e del pericolo. “Nel venire al mondo, l’essere umano è già esposto al pericolo di non entrarvi” (47).

Ma come pensare quell’ex del per-ire lasciato cadere nell’ovvio? In quale linguaggio può prendere parola quell’origine (provenienza, scaturigine, derivazione, principio) taciuta? È la domanda che dà inizio, sostegno e senso del cammino al Giardino conteso. Ed è l’appello di Flavio Ermini a cui queste note stanno cercando di corrispondere.

Ho letto Il giardino conteso durante un mio lavoro di scrittura e in un viaggio in due terre lontane, in cui Giardino si dice ‘zahrada’ (dal verbo ceco ‘zahradit’: delimitare, chiudere, anche per prendersi cura), come delimitazione per impedire il cammino alla natura circostante e sylvatica, e si dice ‘kepos’, come recinto protetto. Ma la parola greca Kepos ha il duplice significato di giardino e di grembo materno. Un significato che rimanda al germinare e al fiorire.

Queste due parole, che arrivano da terre così distanti, condividono il significato del Giardino di cui parla il libro di Ermini. Questo giardino è il luogo di una contesa sempre in atto: tra l’essere e l’ingannevole apparire.

“Quali sono le vie che portano l’essere ad apparire? Come si manifesta l’essere? Dove si cela? Ogni sua manifestazione è davvero illusoria? Ce ne parla questo libro, indicandoci quali conseguenze comporta fare esperienza del mondo e del suo incessante scaturire” (13).

L’appello dell’incessante scaturire del mondo è la questione che attraversa come un fulmine, da cima a fondo, il libro di Ermini. È la domanda intorno alla parola che possa dire quell’origine taciuta proprio mentre si pronuncia “l’esperienza del mondo”.

La parola originaria, come parola dell’origine, unisce le parti che solo apparentemente, ma necessariamente, dividono il viaggio attraverso luci e ombre, tenebre e bagliori della contesa: la natura dell’apparire, il fuoriuscire delle cose dall’illimitato, “il mistero della notte albale”; la natura come continuo nascimento e declinare nel nascondimento, la caducità delle cose e l’immutabilità dell’essere; il risalire dalla molteplicità delle apparenze all’unità della sostanza che le compone (“Dobbiamo tornare là dove il divenire si è scollato dall’essere e ha preso a vivere sulla terra. Ma il nostro sguardo non può accontentarsi di seguire ciò che è vicino e si muove e muore. Noi dobbiamo guardare a ciò che non tramonta”, 121); lo smarrimento e il risveglio dalle illusioni; la parola poetica che, spogliatasi della hybris umana si fa esperienza poetica e apre il linguaggio all’accadere dell’essere, nel suo esito più alto consiste nel cedere la parola all’essere: “In questo senso mi sento autorizzato a parlare di ricerca della verità: trovare nomi nuovi per consentire all’inespresso di risuonare e in pari tempo di essere custodito come inviolabile segreto, irriducibile alla rappresentazione” (173). È in questa verità che ritorna dunque quell’ex del per-ire taciuto e silenziosamente dimenticato. Il linguaggio poetico segnala allora che “è ancora viva la memoria di quella lingua originaria, una lingua che viene alla luce da parole che ancora non nominano, parole che ancora non sono il corrispettivo della cosa, parole, dunque, da ascoltare come una remota ingiunzione rivolta al pensiero” (176). In questo senso, “la scrittura che si espone al dire vuole rimanere irriconoscibile. È la madre il cui grembo appare come un leggero mantello che racchiude e germina il principio del nascituro. La scrittura è uno spogliatore: uno che toglie. Toglie l’inessenziale, ciò che sta tra noi e le cose nella loro apparenza” (184). È proprio in questo “grembo” evocato d a Ermini che sembra venire alla luce quel significato di Kepos, giardino, come grembo materno.

Nelle pagine del Giardino conteso, l’origine è detta alla luce aurorale del pensiero greco arcaico, premetafisico: “Ogni origine si affaccia sull’incertissimo che ne costiuisce l’arché. Insomma, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l’ignoto. Come avanzare la pretesa di riconoscerlo? Come giungere all’inizio essenziale? “ Eppure: “Grande è la difficoltà che si incontra nel cammino verso l’origine, per poterla veramente attingere; perché forse non c’è vera origine, ovvero un fatto, un essere, un dato ultimo cui sia possibile riferirci come fondamento del tutto” (114).

La realtà principiale, l’albale groviglio della physis, “l’apeiron nominato da Anassimandro, l’informe indefinito e indefinibile”, (144) è pensata ascoltando le parole fondamentali del pensiero delle origini: Physis, Arché, Kosmos.

Ciò che dà origine a tutte le cose, proprio in quanto origine, non può essere tra le cose originate. È incipienza continua, origine che rigermina di continuo, inesauribile riserva. Di nuovo, il duplice significato del Kepos: “L’infanzia del mondo è energia inesauribile dell’inizio primo. Ciò detto, non significa che il principio sia innocuo. L’infantile principiale è altra cosa rispetto al puramente recintato, al circondato da una siepe” (25).

Physis è la dimensione del continuo nascimento, del fiorire e poi dileguare delle cose. È il regno da sempre in fieri, del divenire, del doloroso transito (panta rhei) di tutte le cose (res), dolore sopportabile proprio perché sempre mobile, come un reuma. L’arché è principio, non solo come inizio ma anche come legge (universale) che dà senso, elemento che sostiene, fondamento che regge, potere che governa e tiene insieme. È ciò che garantisce alla physis di diventare Kosmos, cioè mondo ordinato e non chaos. Il kosmos è la splendente disposizione delle cose alla luce dell’essere e dell’arché che ne dà ragione; è il mondo ordinato che i latini chiameranno mundus, cioè ordinato e pulito, mondo di misura e proporzione, dunque di bellezza (il mondo della cosmetica).

“Pensare davvero significa andare alla produttiità originaria dell’essere che si dispiega” (41).

La parola originaria non è se non parola ‘dell’’origine, dove l’origine è l’oggetto del genitivo, il detto della parola. Tuttavia, proprio la parola poetica non ‘dice’ se non che l’origine non è una cosa. La cosa, il ‘detto’ dell’origine è la questione “originaria” del disvelamento.

La parola poetica dice e cor-risponde all’appello oscuro dello svelamento.

Nel suo svelare, l’origine si sottrae a favore delle cose che lascia-essere. Corrispondere al dono dell’essere non può mai, dunque, “dire” l’origine come presente. Il potere originario della parola poetica è nel suo “ricordare” l’origine, la presenza nella sua provenienza (“Conservare la memoria dell’origine”, 120) ma, necessariamente, senza rap-presentare – presentificandola – la provenienza stessa: una parola che “dice” il proprio oggetto sempre differito. L’essere che si dispensa e si sottrae, nel suo svelare e occultare apre il gioco tra il fatum (il “detto”, la “parola pronunciata”) nel senso di destino allontanante e l’originaria in-fantia del dire dell’essere.

Nel Giardino conteso il pensiero aurorale è evocato ricorrendo a Eraclito, Parmenide, Senofane, Anassimandro, Heidegger, Nietzsche ma, più spesso, in ascolto di Rilke, Musil, Novalis. Su tutti, e sempre nei momenti decisivi del “viaggio”, Hölderlin: “Un enigma è il puro scaturire. Anche/ il canto non può rivelarlo. Più di tutto può il principio”.

È Hölderlin ad annunciare che l’approdo del nostro cammino è un luogo in cui saremo un dialogo: “Dunque c’è un luogo che ci chiama e che ci ingiunge di seguire un cammino: è il cammino che si intraprende affinché, dopo l’esilio cui siamo esposti nascendo, si possa concepire un ritorno. In questo movimento verso il luogo che ci chiama, l’esperienza di ciò che è straniero – ovvero di ciò che avviene fuori dalla vita, e quindi al buio – non è solo una fase del viaggio ma il suo momento decisivo, perché solo allora è possibile assentire alla ricerca di un inizio più originario e non soltanto all’esperienza di un’alterità irriducibile alle consuetudini. La posta in gioco è quel punto ortivo dove possiamo trattenerci come un elemento estraneo. È un approssimarsi che nega ogni idea di appaesamento e di possesso. È un dire-di-no, che non è ascesi, ma pura presa di distanza: è l’occasione di un’attesa, per accogliere il richiamo di una voce e diventare un dialogo” (115).

Questa nota sul Giardino conteso di Flavio Ermini ha preso avvio seguendo il senso della parola “esperienza”, proprio perché intendeva essere un tentativo di corrispondere all’invito di Ermini ad una esperienza di verità. Questa nota allora non può trovare il proprio compimento che in queste parole di Ermini: “Nell’ascolto una lingua è ospitata da un’altra lingua; il dialogo prende forma e ritmo: diventa esperienza. L’ascolto è proprio il racconto di questa esperienza” (210).

La macchina perfetta

3

(Alessandro Gioia Chiappanuvoli è stato ad Amatrice. Ha scritto un resoconto che reputo importante leggere. Qui di seguito ve ne copio una parte, il resto, foto comprese, lo trovate sul suo sito. G.B.)

Il primo pensiero è stato devo andare. E come sette anni fa, sono andato.
Quel che di buono sono riuscito a fare non è importante. Quel che avrei potuto fare in più è un rimpianto che porterò sempre con me.
Ogni singola persona che ho incontrato la mattina del 24 agosto merita di essere lodata anche solo per aver avuto il coraggio di esserci. Non a loro è rivolta la rabbia con cui scrivo questo testo. La ricostruzione che faccio della prima fase dell’emergenza è frutto solo della mia osservazione diretta, ma condivisa con molte altre persone che quel giorno c’erano, e quindi spero, fortemente spero, del tutto sbagliata.

Sono arrivato tra le 5.30 e le 6.00. Entrato in paese, le parole del Sindaco Pirozzi, «Mezzo paese è crollato», mi sono subito sembrate un nulla: Amatrice non c’era più.
Per capire come muovermi, ho fatto un breve giro di perlustrazione durante il quale ho incontrato, oltre agli abitanti di Amatrice e a parenti e amici accorsi da Roma, solo una squadra del Soccorso Alpino aquilano munita di cane (3 persone), un paio di poliziotti, una manciata di Guardie Forestali e alcuni medici giunti dall’Aquila.
Verso le 7.00 sono cominciate ad arrivare le prime squadre di Vigili del Fuoco e delle Protezioni Civili locali, almeno nella zona dove mi trovavo. Lungo il corso, invece, c’erano quattro o cinque capannelli di persone al lavoro, a occhio, non più di cinquanta, cento unità ma a grande maggioranza civile. Molti gli aquilani, e non sarebbe potuto essere altrimenti.
A metà mattinata, attorno alle 10.00-10.30, c’erano diverse squadre di Carabinieri, Finanzieri, militari, poliziotti, Soccorso Alpino, Soccorso Speleologico, Unità Cinofile (ne ho incontrate almeno 6 o 7), Croce Rossa, gruppi di operai d’imprese edili, oltre ai VVFF e ai volontari della PC. E tanti, tanti civili. Una forza lavoro non sufficiente, ma finalmente degna di nota, nell’ordine di qualche centinaio di persone.
I primi mezzi meccanici, bobcat di ditte private in particolare, li ho visti quando era già mezzogiorno. Le strade potevano essere liberate e i soccorsi potevano muoversi con più rapidità. Da allora in avanti, a quasi otto ore dal sisma, mi sento di dire che la macchina dei soccorsi era in piena efficienza. O meglio, sarebbe potuta essere in piena efficienza. 
Perché non è una mera questione di numeri, lo sottolineo con forza, bensì di come il lavoro di soccorso è organizzato. Mi spiego. La finalità di quanto scrivo è che vorrei che si potesse imparare dagli errori, una buona volta; e non emettere una mera sentenza che lascia il tempo che trova.

(il seguito potete leggerlo qui)

La bambina celeste (un estratto)

1

bambina celeste copertinadi Francesco Borrasso

Ho odiato le pacche sulle spalle, gli occhi tristi o fintamente tristi che ti osservano, ho odiato le parole di conforto, gli abbracci di sconforto, ho odiato tutti i discorsi che sono incominciati con “lo so che non posso capirti”; ho odiato chi ha cercato di capire; ho odiato il funerale, la bara bianca, vaffanculo. Ho odiato la chiesa piena, il prete e i suoi inutili discorsi, le lacrime piene, le ore, subito dopo il lutto, mai vuote, senza riposo. Ho odiato le condoglianze, le telefonate senza argomenti, le presenze dentro casa, i sorrisi di circostanza. Ho odiato il letto vuoto di Giorgia, non lo sto più guardando; la stanza morta che non ci sto più entrando; ho odiato i pranzi d’asporto e le cene silenziose, che la coppia iniziava la scissione. Ho odiato il sole quando non ce n’era più bisogno; ho odiato i negozi di giocattoli perché non servivano più e la faccia di Victoria quando le ho proposto di avere un altro figlio.

Io e mia moglie abbiamo creato una distanza; come due sentinelle immobili alle estremità di un ingresso; senza alcuna distrazione, facciamo una guardia spietata; entrambi convinti di poter riconoscere la morte un attimo prima che faccia il suo ingresso.
La chemioterapia è stata un vampiro, ha succhiato via dal corpo di Giorgia ogni rimasuglio di forza; la sua testolina senza capelli pare reggersi quasi per un gioco di prestigio su un collo che ha perduto potenza ed elasticità.
Giorgia sempre meno, passeggia sempre meno.
È domenica, il giorno di festa di quel Signore lì. La porto al parco, le ruote del passeggino sfrigolano sul cemento umido della mattina; domani è la vigilia di Natale. Sto provando a fare mia l’idea che potrebbe essere l’ultimo di noi tre, sto provando a prendere confidenza con questo tipo di riflessione.
Due fontane circolari, due vasche sono il bacino di piccoli pesci che nuotano a giro.
Sull’erba: due altalene, un girotondo, due scivoli, tanti bambini, genitori. Mia moglie è a casa, sta provando a preparare un pranzo che possa avere la parvenza di un giorno di festa, ci hanno raggiunto i miei genitori, vogliono passare un po’ di tempo con la bimba, vogliono essere di supporto; ma come spiegargli che non posseggono gli strumenti?
Forse ho fatto una cazzata a portarla qui, tutti i bambini corrono energici, sudano, urlano, ridono; lei è una statua di sale in un passeggino che ormai avevamo perso l’abitudine di utilizzare.
Giorgia ha quattro anni e un cancro al cervello.
«Papà, mi voglio alzare».
La voce di mia figlia fa come un vetro che va in frantumi, lo stesso rumore di debolezza.
Ascolto la sua richiesta e osservo che cosa c’è intorno a noi: nuvole bianche che si gonfiano nel cielo, aria ferma, freddo, punge la pelle, alberi, che nella loro immobilità vivono senza il bisogno di gridare; guardo tutto come se potessi scongiurare l’arrivo di un avvenimento nefasto; nella follia che mi cresce dentro ho la convinzione di poter individuare il male e recargli ostruzione.
Sgancio la clip della cintura che la tiene legata al passeggino; il rumore è simile a quello di un ramoscello che si spezza. Il cappellino blu e giallo è di lana e le copre la testa fin quasi sulle orecchie, la pelle del viso mette in mostra delle screpolature rossastre, e poi è bianca, tanto che a volte pare di poter vedere le ossa del cranio. Le metto le mani lungo i fianchi per darle un’aggiunta di forza, per far leva e aiutare i suoi muscoli a mettersi in piedi; non ha più carne, attorno alle ossa non c’è sostanza, c’è solo pelle, pare potersi strappare con un gesto avventato.
Ha un equilibrio imperfetto, è debole, ma questo scintillio degli occhi le fa sfidare la sorte.
Faccio qualche passo indietro, calpesto foglie secche e il rumore è uguale allo scroscio del bacio che le lascio ogni notte su una guancia. Giorgia fa qualche passo, ancora, ancora, la strada che la separa dagli altri bambini sembra poca, la strada che la separa dalla sua vecchia vita sembra molta, ma poi si arrende, si gira con la testa per cercare me, vedo che sta per piangere, imposta il broncio prima della lacrima; l’ingiustizia di una bambina che deve scoprire l’impotenza del corpo contro la malattia.
Sono già vicino a lei.
«Che succede amore?».
Due gocce cadono nel vuoto, una le bagna la punta della scarpa.
«Sono stanca, non ce la faccio a camminare, a giocare con gli altri, voglio tornare nel passeggino».
«Quando sarai guarita potrai giocare tutte le volte che vorrai».
«Papà?».
Sono le domande accennate, troncate di netto, lasciate senza continuazione, che mi fanno assalire da un’incertezza primitiva.
«Dimmi».
«Guarirò?».
«Certo amore».
Mi sento meschino, sporco; avverto una sconfinata debolezza che fa l’amore con ogni spazio dentro il mio corpo, tra le spalle e i muscoli, tra i muscoli e le ossa, tra le ossa e gli organi, tra gli organi e basta, dopo non c’è niente.
«Se muoio?».
Non lo so da dove provenga questo concetto né in quale momento abbia deciso di rapportarlo al suo stato.
«Non succederà».
«Se muoio, posso diventare una fata?».
«Non morirai».
«Ma se muoio…».
«Tu sei già una fata».
Si imbroncia, arriccia le labbra umide, due bollicine di saliva si formano e si rompono al lato destro della bocca.
«Ma non posso volare».
La stringo energico lungo i fianchi e la porto in alto, a ballare con l’aria senza astio dell’inverno, la porto ancora più in cielo, è sopra la mia testa, le mie braccia tese.
«Allarga le braccia Giorgia, vola».
Schiude le ali, libra distesa nel vento, e i movimenti delle mie braccia la mantengono lontana dalla terra meschina.
Fa un salto tra le nuvole, le sporcano il viso, sono morbide e fresche, con una mano afferra il cielo, lo trattiene con insistenza, la sua ostinazione silente nel non voler mollare la vita; forse cerca Dio, forse non lo trova, appena mi torna vicina ne avverto l’energia che come una matita segue tutto il contorno della sua figura.
«Così…».
Grida.
«Così sono la bambina vicino al cielo».
«Sì amore, voli, sei la bambina celeste».
«Sono la bambina celeste».
La cercherò lì per sempre, in quel cielo; farò finta che si nasconda tra le nuvole quando piove, farò finta che si macchierà di tempera nera quando sarà stesa sulla volta rabbiosa di pioggia; farò finta di vederla vestita di stelle, mentre parla con la luna, la sposta, mischia la notte. Cercherò nel cielo, non in quello di Dio, in quello terrestre, in quello reale, una vicinanza con la mia bambina dopo la vita, con la mia piccola Giorgia.

Non ricordo come siano stati i giorni più intensi della malattia, ho solo ben presente un male assoluto che avvolgeva tutti i posti, i luoghi, tutte le ore, gli oggetti, tutti i dialoghi.
Non ricordo cosa io abbia sentito quando mia figlia è morta, nel momento; non ne ho memoria, credo sia stata una disperazione distruttiva che il mio corpo ha scartato per sopravvivere.
Non sono più stato l’amante pieno di fuoco, né il marito amorevole che cercava conferme di sè nella relazione, né un uomo paziente, né una persona pacifica.
Ho una cicatrice brutta, uno sfregio che mi fa somigliare ad un mostro.
Sul mio petto c’è il tatuaggio invisibile della nostra felicità passata.
Come si supera il lutto di un figlio? Come si accetta un movimento che la natura decide di fare contro sé stessa?
La notizia dell’avvento di una bambina e la sua dipartita sono due giganti stupori, simili e diversi; in entrambi i casi si resta con il tempo sospeso, si annulla ogni immagine prospettica del domani.
Resta solo il suono delle parole che ti vengono concesse, e una parte di te, che viene riempita o svuotata a seconda dei casi.

Concerto n° 3 per elefante suonabile

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di Ugo Cornia

 

Allora, l’improvvisazione. Per esempio c’è John Cage che va a uno spettacolo della tele americana e fa un’improvvisazione dove suona anche un frullatore. Cioè, per esser più precisi, per prima cosa inizia suonando un pianoforte a coda ma per suonarlo usa un pesce di plastica che butta direttamente sulle corde, poi però suona anche una vasca da bagno con acqua, il famoso frullatore e una pentola a pressione, che le toglie il cappuccio così fa fsch, fsch. Poi c’ha anche un vaso di fiori e un innaffiatoio. Allora li suona un po’ tutti.

So long, Tommaso

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Tommaso Labranca

Ho appena ricevuto una notizia che mi ha tolto il fiato. Milo Miler, un caro amico dal Ticino, in lacrime, mi ha detto che questa notte è mancato Tommaso Labranca. Non sappiamo cosa sia successo, non sappiamo niente. Sappiamo solo di essere disperati.

Ho chattato con lui fino a pochi giorni fa. Coerente con la sua visione pessimista dei social (lui parlava esplicitamente di odio) aveva deciso di scomparire dalla rete mandando i suoi post a pochi amici, via WhatsApp, a una lista che aveva chiamato “LabrancaForDummies”.

Delle cose che Tommaso, clandestinamente, aveva messo on line in questi anni non c’è più nulla. La sua sembrava una lotta fra un mondo culturale che sembrava lo avesse dimenticato e lui che cercava di far scomparire le tracce della sua presenza in un paese ingrato come l’Italia. (mi auguro che un archeologo digitale sappia far riaffiorare tutto quel materiale di straordinaria intelligenza. Un vero tesoro. Forse Tommaso non apprezzerebbe questa mia morbosità, avrebbe preferito restare nell’ombra. Ma i vivi questo fanno: approfittarsi di chi non c’è più).

Aveva trovato un piccolo spazio d’ascolto proprio in Ticino. (questa la sua ultima intervista che ho trovato sulla radio svizzera). Milo Miler gli aveva affidato la direzione di una rivista culturale che nelle intenzioni di Tommaso doveva abbattere il confine culturale italosvizzero. Il nome della rivista è Tipografia Helvetica. In questi giorni si stava chiudendo il nuovo numero (ho avuto l’onore di scriverci un pezzo). Inutile dire che mentre nel versante ticinese gli abbonamenti non sono mancati, in Italia era come non fosse mai stata pubblicata. Ricordo una presentazione della rivista in un’aula del Politecnico vergognosamente vuota.

Il suo ultimo libro “Vraghinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte” è così bello che leggerlo m’aveva semplicemente entusiasmato. Se lo era pubblicato praticamente in casa, dato che le case editrici italiane lo chiamavano solo per biografie di attori o cantanti trash-pop.
Tommaso era di una intelligenza lucida e geniale. Era un intellettuale nella accezione più nobile che si possa dare a questa parola. Ci sono scrittori che usano le parole degli altri. E, rarissimi, ci sono scrittori che “inventano” parole e concetti che tutti poi usano (spesso senza citare la fonte). Tommaso era uno di questi. Era un inventore di pensieri collettivi.

In questi giorni ci sarà chi verserà lacrime di coccodrillo sulla sua bara. Gli stessi che avrebbero potuto dare spazio al suo genio ma l’avevano accantonato perché troppo “rompicoglioni”. Ci sputo sopra fin d’ora.

Essere uno spirito libero in Italia significa essere rompicoglioni. Tommaso lo era. Ha rinunciato (conosco direttamente la fonte di questa notizia) a collaborazioni fruttuosissime in televisione per evitare di umiliare la sua intelligenza leccando i piedi al cantante-scrittore-attore-disinistra-etc. del momento. Ha preferito vivere al limite dell’indigenza per mantenersi puro.

Non ce lo siamo mai meritati. E lui, coerentemente, ha tolto il disturbo.

So long, Tommaso. Che la terra ti sia lieve.

 

Educazione sentimentale/4: Frankenstein, o il moderno Prometeo

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di Francesca Fiorletta

Poster_Frankenstein_film_1910La mia educazione sentimentale è passata attraverso libri assai differenti tra loro.
Il primo pianto, probabilmente, dirotto, l’ho fatto certamente durante l’esemplare morte della sorella Beth in Piccole Donne, di Louisa May Alcott; il primo brivido, per nulla vago, con Agatha Christie, quando vennero rinvenute tracce di noci in uno spray per l’asma, io sono allergica alla frutta secca, e – con tutta evidenza – anche la vittima di quel giallo; il primo, fortissimo, senso di libertà, con Caterina Contini, che in Ipazia e la notte descriveva minuziosamente gli slanci romantici e ribelli della geniale scienziata ante litteram, pure figlia di cotanto padre; la prima pulsione erotica, credo, con gli interminabili amplessi de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, e anche con i “lascia e prendi” degli eroici amanti ne La casa degli spiriti di Isabel Allende. E fin qui, siamo intorno ai dieci anni.

Cose turche

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caffe-turco
di

L’ultima epidemia di vaiolo in Europa fu nel marzo 1972. Nei trent’anni precedenti si credeva che la malattia fosse stata sradicata, ma riapparve a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Un trentacinquenne kosovaro era tornato dal suo pellegrinaggio alla Mecca e aveva portato il virus. 175 persone si ammalarono e 35 morirono.

L’ospedale dove furono sistemati i primi ammalati fu letteralmente sigillato. Le porte, le finestre e la fognatura, tutto venne sbarrato e intorno fu messo un cordone di poliziotti con l’ordine di sparare se qualcuno avesse provato a scappare.

In tutto il paese fu dichiarato lo stato di emergenza, fu introdotta la quarantena statale obbligatoria, limitato rigorosamente il movimento di tutti i suoi abitanti.

In un mese e mezzo furono vaccinati diciotto milioni di jugoslavi su una popolazione di ventun milioni di abitanti. L’epidemia finì dopo due mesi. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità lodò le autorità jugoslave per come avevano soppresso l’infezione.

Dopo giorni di agitazione tutto si calmò, e presto l’evento non fece più notizia, fu rimosso dalla nostra attenzione.

Si va in Turchia

Mi preparavo per un’estate al mare, dopo aver finito il primo anno di università. Ma all’inizio di luglio arrivò il “contrordine del compagno papà”: si va in Turchia.

Con nostro papà si facevano escursioni lavorative e viaggi educativi, per vedere e imparare, mai per divertimento. Tutti in famiglia trovarono qualche scusa per non andarci. Mi opposi anch’io, tirai fuori varie scuse, addirittura il fatto che c’era stata l’epidemia e che poteva essere pericoloso andare in Turchia.

La Jugoslavia era l’unico paese in cui il vaiolo era comparso, ma noi avevamo ugualmente la strana idea che era tutta colpa degli altri e che il focolaio dell’epidemia fosse altrove, “nel sud” o in Oriente.

L’epidemia era sconfitta, il pericolo non c’era più. Mi toccava proprio andare a Istanbul. La partenza fu fissata per metà luglio. Era il 1972.

Eravamo un gruppo strampalato con interessi diversi: papà, io, e una coppia di coniugi suoi amici. La donna ci andava perché voleva comprarsi dei gioielli, o meglio, qualche oggetto d’oro e una collana di perle, il marito l’accompagnava, mio papà voleva vedere un po’ di mondo, ed io mi trovavo lì per forza.

Jugoslavia-viaggio-in-TurchiaPiuttosto che andare a Istanbul, avrei preferito ascoltare “The Beatles” a Londra, passare insieme alle dive cinematografiche per via Veneto a Roma, passeggiare in minigonna per gli Champs Elysées a Parigi. L’Occidente piuttosto che l’Oriente era la meta preferita dei giovani di allora.

La macchina la guidava papà, l’unico in possesso della patente. Era una “Moskvich 408”, un’auto russa, orgoglio famigliare, la più grande in tutto vicinato. Gli altri, all’epoca, possedevano una Fiat “Cinquecento”, almeno due volte più piccola della nostra.

Papà non era un autista appassionato. La macchina la portava in giro, ogni tanto, “perché non si scaricasse la batteria”, diceva. Nel garage la copriva “per non farle prendere freddo”, scherzavamo in famiglia.

Prima di partire mi dettò i compiti: dovevo occuparmi delle gomme, controllare se erano abbastanza gonfie, tenere i vetri puliti, e fare attenzione alla segnaletica stradale. Quest’ultimo incarico mi lasciò un po’ perplessa. Non avevo la patente, non guidavo, non conoscevo il significato dei segnali stradali. Ma se lo diceva papà!

Il viaggio

Dalla Bosnia Erzegovina a Istanbul ci sono circa 1.200 chilometri. La strada passa per la Serbia, attraversa la Bulgaria ed entra in Turchia dalla città di Edirne. Oggi, un autista esperto la può fare, volendo, anche in un’unica tappa. Noi ci impiegammo due giorni e mezzo.

Lasciammo Sarajevo alle quattro del mattino. “Ci è andata bene”, dichiarò papà verso le nove, quando eravamo già vicino a Belgrado percorrendo strade quasi vuote.

Da Sarajevo ci sono due vie principali verso la Serbia. Una che attraversa la Bosnia orientale e va verso il fiume Drina, e l’altra che va in direzione nord, verso il fiume Sava. Noi andavamo verso nord, in direzione di Belgrado. Nella città di Orasje, attraversammo il ponte sul fiume Sava e poi prendemmo l’autostrada detta “Bratstvo i Jedinstvo” (della Fratellanza e Unità) (B&J).

All’epoca l’autostrada B&J era l’unica via moderna della Jugoslavia, anche se aveva solo due corsie, una per ogni direzione. Fu costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta e collegava la Jugoslavia da nord a sud, dal confine con l’Austria al confine con la Grecia.

La costruzione dell’autostrada B&J fu un’opera epica. Vi parteciparono più di trecentomila giovani volontari da tutte le parti del paese e tanti stranieri. Per molti fu anche una sorta di scuola di vita o per la vita. Dopo otto ore di lavoro venivano organizzati vari corsi, anche per analfabeti, e molti ottennero il diploma che cambiò loro la vita.

L’autostrada della Fratellanza e Unità è la via più breve che collega l’Europa occidentale e il Medio Oriente. Negli anni Sessanta ebbe inizio il grande spostamento stagionale dei gastarbeiter, che in tedesco vuol dire “lavoratori ospiti”. All’epoca i più numerosi gastarbeiter in Europa erano turchi, italiani, spagnoli e jugoslavi.

Durante i mesi estivi, per l’autostrada “Bratstvo i Jedinstvo” passavano migliaia di macchine, in entrambe le direzioni. I gastarbeiter turchi avevano pochi giorni di vacanza, tanta strada da percorrere, guidavano senza sosta, giorno e notte, e molti trovavano anche la morte su quelle corsie. Su ambedue i lati della strada erano piantati dei platani, per rompere il paesaggio monotono della pianura pannonica, ma gli alberi erano causa anche di molti incidenti mortali.

Dovettero passare molti anni ed esserci decine di morti, prima che qualcuno si decidesse a tagliare gli alberi “mortali” che fiancheggiavano l’autostrada.

Dopo aver pernottato a Belgrado, il secondo giorno proseguimmo a sud, verso il confine con la Bulgaria. La strada segue il fiume Morava e passa per i distretti della Šumadija e di Pomoravlje. Un paesaggio bellissimo che ricorda la Toscana, tanto verde, con le colline basse, la terra fertile. Più a sud il panorama cambia, le morbide colline lasciano il posto alla Gola di Sićevo (Sićevačka Klisura).

Circa 250 chilometri più a sud c’è la città di Niš. Sotto l’impero ottomano il suo nome era Naissus (“Città delle ninfe”). Là nacque nel 271 d.C. l’imperatore romano Costantino I che costruì la nuova residenza imperiale di Bisanzio e la chiamò Nuova Roma. In suo onore i Romani chiamarono questa città Costantinopoli, l’odierna Istanbul, la nostra meta.

A Niš volevamo vedere un monumento unico nel suo design, la Torre dei Teschi (Ćele kula) che racchiude al suo interno dei teschi umani. Fu fatta nel periodo degli Ottomani, con 950 teschi dei serbi ribelli, come monito a tutti quelli che pensavano di opporsi all’occupazione. Oggi sono rimasti incastonati nella pietra solo una cinquantina di teschi, ma quel macabro monumento fa ugualmente impressione.

L’ultima città serba prima di passare in Bulgaria è Pirot. Da cinquecento anni è il centro della produzione di tappeti tradizionali. I kilim di Pirot, apprezzati per la loro bellezza, varietà dei colori e motivi, sono fatti di lana, sono molto leggeri e resistenti.

Noi andavano in Turchia per comprare gioielli e vestiti da pochi soldi, mentre gli antiquari turchi viaggiavano per la Jugoslavia e compravano, a buon prezzo, i tappeti antichi fatti a Pirot, che noi vendevamo volentieri perché ci piacevano di più le moquette moderne.

Tra Serbia e Bulgaria il confine non è solo amministrativo. Da una parte all’altra della frontiera il paesaggio cambia come se fosse tagliato con il coltello. In Serbia, prima del confine, la strada spacca le montagne, s’insinua con fatica per il terreno duro, avanza quasi a zig-zag, si perde in tante gallerie, è pericolosa, un attimo di distrazione e può essere fatale.

In Bulgaria la strada attraversa la pianura, va dritta e tranquilla. Su entrambi i lati è affiancata da alberi di mele, ordinati, con i tronchi imbiancati, che danno un senso di ordine e pulizia. Dietro gli alberi, si estendono a perdita d’occhio campi coltivati di grano e di mais. In uno di questi dormimmo la seconda notte del nostro viaggio.

Ci fermammo sul bordo della strada per mangiare. Papà dichiarò che era stanco e che non se la sentiva di proseguire. Non sapevamo quanto fossimo distanti dalla città più vicina. La signora brontolava sottovoce, suo marito stava zitto guardando davanti a sé, io fissavo una mela dell’albero e stavo per afferrarla.

Papà intuì le mie intenzioni e, senza guardarmi, mi intimò: “Non ti azzardare!”. Rispettava ancora gli ordini dei partigiani che, secondo i racconti, tenevano così tanto alla disciplina che addirittura fucilavano quelli che prendevano la frutta dagli alberi altrui.

La mattina seguente, il terzo giorno del viaggio, ci svegliammo presto, tutti con la schiena a pezzi, stanchi, arrabbiati, con i vestiti stropicciati. Nessuno guardava l’altro, né proferiva parola.

Gambe nude

Da lì in breve varcammo la frontiera tra la Bulgaria e la Turchia. A Edirne, la prima città turca dopo il confine, facemmo una sosta per bere un bel caffè. Nel centro trovammo un bar con la terrazza. Uscimmo dall’auto.

Esaminavo, come mi aveva detto papà, le gomme. Battevo il piede contro la gomma (come avevo visto fare da altri, anche se non sapevo perché e che cosa aspettarmi), e mi accorsi che qualcosa non andava. Alzai lo sguardo e vidi che tutti gli avventori del bar, i maschi, erano ammassati sulla ringhiera e ci guardavano.

Confusi, ci ispezionammo anche noi per un attimo. Fu la signora a capire per prima cosa c’era che non andava. Indossavo, secondo la moda, un paio di pantaloncini corti e attillati, gli “hot pants”, per cui i maschi, dal bar, erano tutti intenti a fissare le gambe di una ragazza poco vestita per le abitudini locali.

“Entra, si parte”, ordinò papà.

I turchi si meravigliavano delle gambe esibite, mentre io mi stupivo nel vedere i carri armati, all’entrata a Istanbul con i cannoni puntati verso la strada (un anno prima l’esercito turco aveva preso il potere con un putsch militare). Io mi stupivo nel vedere le donne paesane vestite in una sorta di doppia larga gonna nera che fungeva anche da copricapo ribaltando uno dei due strati di dietro, nel vedere i turchi bere il tè, piuttosto che il “caffè turco”, come noi bosniaci, dei numerosi monumenti, grandi e importanti che mi facevano capire quanto piccolo e insignificante fosse il mio Paese.

Arrivammo a Istanbul nel primo pomeriggio. Papà accostò la macchina sul bordo della strada per chiedere indicazioni sulla pensioncina che avevamo prenotato. Ferma il primo passante, gli parla in tedesco, quello non capisce, prova con il francese, niente. Frustrato, papà si gira verso di noi e dice in serbo-croato: “Questo qui non capisce nulla”. A quel punto il turco si mette a ridere e, nella nostra lingua, il serbo-croato, ci chiede se eravamo jugoslavi.

Era un discendente dei bosniaci emigrati in Turchia all’inizio del diciannovesimo secolo.

Oggi in Turchia ci sono almeno due milioni di persone di origine bosniaca. Dalla Bosnia Erzegovina i musulmani scapparono dopo la disfatta dell’impero ottomano quando la Bosnia Erzegovina passò sotto il protettorato dell’Impero Austro Ungarico.

I primi bosniaci scappavano perché non volevano stare sotto un governo non musulmano, altri perché temevano per la propria vita, oppure erano convinti che in Turchia avrebbero potuto preservare la propria ricchezza.

Dopo le guerre balcaniche emigrarono anche i musulmani da Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. L’esodo continuò per cent’anni. Non tutti lasciavano la casa di propria volontà. La migrazione dei musulmani fu incoraggiata con la politica statale, con la forza, le minacce e le misure amministrative che, secondo i documenti ufficiali, dovevano rendere la vita dei musulmani impossibile, per cui l’emigrazione veniva vista come l’unica soluzione per loro.

In Turchia dovevano cambiare il cognome, ma molti avevano conservato anche il cognome bosniaco, la lingua e le abitudini. Ci sono alcuni villaggi, in Turchia, popolati prevalentemente dai discendenti dei bosniaci dove, dopo un secolo dal loro arrivo, ancora oggi si parla serbo-croato.

Un turco-bosniaco

Il nostro turco-bosniaco apparteneva alla terza generazione dei bosniaci espatriati dalla città della Bosnia del nord, Banja Luka. Nato a Istanbul parlava ottimamente la nostra lingua, con un accento forte e utilizzando alcune parole arcaiche. Era entusiasta dell’incontro casuale, era molto cordiale, gentilissimo, ci dava pacche sulle spalle e voleva invitarci a casa sua.

Papà, insospettito di questo entusiasmo secondo lui sproporzionato, s’irrigidì, diventò molto formale e pronunciò una serie di risoluti NO: “No, non se ne parla neanche”, “No, grazie”, “No, abbiamo già prenotato”, “No, vedremo”, “No, no, no, forse”.

Quel poveretto, deluso, ci guardava come un bambino che non capisce perché gli proibiscono di fare una cosa innocua. Ci accompagnò all’albergo, lasciò un pezzo di carta con l’indirizzo e il numero di telefono, rinnovò l’invito di andare a casa sua “almeno per una cena” e ci salutò.

Nella camera dell’albergo papà, come prima cosa, buttò nel cestino la carta con l’indirizzo del turco e si pulì le mani come se fossero contaminate, dicendo che “con gli stranieri non si sa mai… chissà chi era quello… meglio stare alla larga dagli sconosciuti… ci sono imbroglioni, ladri…” etc.

Papà mi portava in giro per i posti storici e i musei di Istanbul tenendomi per il braccio sopra il gomito come fanno i poliziotti quando accompagnano le persone arrestate. Di sera, in albergo, ci vedevamo con i compagni di viaggio, la signora mi mostrava le cose che aveva comprato, e io descrivevo le meraviglie che avevamo visto. Invano: a parte le compere, il resto l’annoiava.

Il terzo giorno a Istanbul, tornando in albergo, ci trovammo di fronte il “nostro turco”. Ero contenta di rivederlo, i coniugi pure. Papà, invece, “freddo come uno spritz”, aspettava zitto, presumo delle spiegazioni. Il “nostro turco” voleva invitarci a cena a casa sua. “Sì!”, rispondemmo noi tre all’unisono. A quel punto papà non poteva opporsi, ma era chiaro che l’idea non gli piacesse. Per tutta la serata ci fecero domande su come si vivesse in Jugoslavia, se fossimo liberi di viaggiare, se possedessimo macchine private, case, il telefono, qual fosse la situazione lavorativa, se il regime comunista fosse pericoloso, se si potesse visitare la Jugoslavia e poi poter tornare a casa propria. C’erano le moschee? La religione, era proibita?

Edhem, così si chiamava il “nostro turco”, viveva con i genitori e i fratelli in una bellissima casa affacciata sul Bosforo. Ci accolsero tutti affettuosamente. Si cenava nel giardino con una meravigliosa vista sul mare. Uomini e donne insieme. Si parlava nella nostra lingua.

Ci divertivano le loro domande. Sembravano quelle che fanno i bambini su cose e fatti ovvi. “Certo che si può visitare… è ovvio che abbiamo il telefono… naturalmente che nessuno vi ferma per forza… macché regime, da noi si vive, lavora e viaggia liberalmente”, rispondevamo noi.

Verso la fine della serata, Edhem timidamente chiese: “Posso venire con voi? Mi piacerebbe visitare la Jugoslavia, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai stato.”

Tutti noi, insieme ai padroni di casa, guardavamo mio papà aspettando il suo giudizio. Seguì un attimo di silenzio, troppo lungo, a mio avviso.

Mi piaceva il “nostro turco” e mi piaceva l’idea di portarlo in Jugoslavia con noi, di fargli vedere il nostro paese, le nostre città, il nostro modo di vivere.

Fissavo papà, anzi lo supplicavo con lo sguardo.

“Ma certo”, disse papà sorridendo, come se non avesse mai avuto alcun dubbio sul “nostro turco” fin dall’inizio.

Dopo cinque giorni a Istanbul eravamo sulla strada del ritorno. Il “nostro turco” stava seduto dietro tra i due coniugi. Contento, sorridente, disponibile, di buon umore. Canticchiava.

E canticchiò instancabilmente, per due giorni, quanto durò il nostro viaggio di ritorno. Da lui, sentii per la prima volta l’antica canzone popolare bosniaca “Put putuje Latif-aga”, che parla di un abitante di Banja Luka che sta per partire per un lungo viaggio, saluta tutti e non sa se potrà mai far ritorno.

Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

Il caso Meursault

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DAOUD

di Gianni Biondillo

Kamel Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, 130 pag, 2015, traduzione Yasmina Melaouah

C’è un uomo, un algerino, che parla, in una bisca di Oran. E c’è un ragazzo che lo ascolta. Probabilmente uno studente francese, che ha nella sua borsa Lo straniero di Albert Camus. L’uomo ha voglia di raccontargli una storia. Lui è il fratello del morto. Sì, proprio “l’arabo” che muore nel romanzo di Camus. Romanzo geniale – secondo l’autore di questo contro-romanzo, Kamel Daoud – ma anche romanzo crudele, che non si degna neppure di dare un nome e una identità alla vittima. “L’arabo”, viene chiamato da Camus. Una funzione narrativa, non una persona.

Sta in questa idea semplice e geniale il fulcro de Il caso Meursault. Un romanzo che vuole essere come un risarcimento per tutte le vittime dimenticate. Rileggere la storia dal loro punto di vista. Dare loro un nome, una identità, un passato.

Il romanzo è una lunga e confusa confessione dove non si segue un preciso ordine cronologico. Molte delle riflessioni, politiche, filosofiche, religiose, della voce narrante sono evidentemente riflessioni dello stesso autore, cosicché personaggio e scrittore sembrano sovrapporsi. E, per aumentare la confusione dei piani narrativi, spesso, si cade nel paradosso di sapere che il morto di cui si parla è un personaggio letterario, morto solo sulla carta, ma che la voce narrante (personaggio tanto quanto) tratta come avesse vissuto e incontrato per davvero la morte su una spiaggia algerina per mano di un francese che ha fatto la sua fortuna letteraria grazie a quell’omicidio.

L’idea potente che regge tutto il romanzo è però anche il suo limite. Senza conoscere il romanzo di Camus si perde molto del continuo dialogo filosofico che Daoud intesse idealmente con il collega francese. Il caso Meursault, essendo una controinchiesta, dà per scontata la lettura del romanzo a cui si ispira, perdendo così una autonomia che ogni opera dovrebbe pretendere per sé.

(pubblicato su Cooperazione n° 48 del 24 novembre 2015)