di Giacomo Sartori
Le parole che leggiamo sono prigioniere, se ne stanno rassegnate nelle loro gabbie modulari, hanno gli occhi spenti. Sono stufe di loro stesse, stufe di noi.
di Giacomo Sartori
Le parole che leggiamo sono prigioniere, se ne stanno rassegnate nelle loro gabbie modulari, hanno gli occhi spenti. Sono stufe di loro stesse, stufe di noi.

di
Tra i candidati idonei fu scelto Joza F. per fare il corrispondente dalle Nazioni Unite. Aveva quello che agli altri aspiranti mancava: una zia che viveva a New York e che poteva ospitarlo.
All’inizio degli anni Sessanta, la Bosnia era un paese povero, il quotidiano di Sarajevo non poteva pagare un alloggio in affitto a New York per il suo corrispondente, perciò il fatto che la zia poteva ospitarlo fu decisivo.
Per i giornalisti accreditati presso le Nazioni Unite, all’epoca, si organizzava un grande ricevimento annuale. I nuovi arrivati, entrando nella sala, per consuetudine, si presentavano esclamando ad alta voce il proprio nome, cognome, la testata e la tiratura del giornale. E così fece anche Joza: “Joza F., Oslobođenje di Sarajevo, trentamila copie.”
Lo stesso Joza raccontava che, in quell’occasione poco dopo essersi presentato, mentre si aggirava tra corrispondenti, politici, ambasciatori e camerieri, fu preso in disparte da un collega il quale in modo confidenziale e amichevole gli disse: “Non dire mai più che sei corrispondente di un giornale con una tiratura così irrilevante. La gente potrebbe pensare che sei una spia e che il titolo di corrispondente è solo una copertura. Nessuno al mondo potrebbe avere un corrispondente dalle Nazioni Unite stampando solo alcune decine di migliaia di copie.”
Eccetto la Bosnia!
Dell’evento si parlò per anni, e quando lo sentii per la prima volta, mi parve una barzelletta inverosimile. Invece, una cosa analoga capitò anche a me, in un ambito più piccolo e sul terreno nazionale, in Bosnia.
Mi avevano mandato a Kupres, una cittadina della Bosnia centrale, come inviata speciale, ma solo perché mia sorella Esa viveva nella città vicino, a Bugojno. Dormivo da mia sorella, feci il servizio in una giornata e non occorrevano le spese per il pernottamento.
Negli anni Settanta la Jugoslavia stava attraversando una grave crisi economica. Da noi però la parola “crisi” non veniva pronunciata mai e da nessuno. Presumibilmente per non corrompere l’idea che la nostra società era il massimo della democrazia e della prosperità umana, e come tale non poteva soffrire dei mali “tipici dei paesi capitalisti”.
Nei discorsi dei politici, sui giornali e nelle notizie della radio e della televisione non si parlava della crisi, ma della “stabilizzazione economica”. Erano precauzioni inutili, perché “la stabilizzazione” ci colpiva quotidianamente: mancava la carta igienica, l’elettricità, la benzina, l’olio, la farina, lo zucchero, il caffè, gli assorbenti e quant’altro.
I membri del partito comunista erano invitati a dare l’esempio della “stabilizzazione” che, negli altri paesi, si chiama “risparmio”. Ai media fu decretato di promuovere la campagna, e i giornalisti dedicavano ampi servizi su come e cosa si faceva nelle piccole città riguardo alla “stabilizzazione economica”.
Da Sarajevo a Bugojno ci vogliono circa tre ore di autobus. La strada è una statale, di quelle costruite negli anni Sessanta grazie al cosiddetto samodoprinos. La parola vuol dire qualcosa come “autotassazione”, era una misura imposta che andò avanti per anni.
Stretta e piena di curve, la strada si dirige verso la Bosnia centrale, passa per Busovača (che nella lingua colloquiale è sinonimo di luogo retrogrado, provinciale e insignificante), poi Vitez, Turbe. Scorrono le cittadine anonime, monotone e quasi identiche. Solo con la guerra, negli anni Novanta, abbiamo scoperto che in tutte queste cittadine di provincia erano collocate le fabbriche militari.
Il pullman si ferma a Travnik, tipica kasaba, parola turca che significa “cittadina di provincia”. Su entrambe le parti della via principale, le case sono basse, costruite senza alcun’ordine e nessuna bellezza. I palazzi nuovi nascondono i veri gioielli architettonici pervenuti dai tempi passati, come i resti della fortezza medievale, diverse moschee, le scuole coraniche e le tradizionali abitazioni bosniache.
Per la sua posizione geografica la cittadina non fa eccezione in Bosnia: è incastonata nella stretta valle del fiume Lašva, con alti monti intorno. La sua posizione nel passato era considerata strategica. Durante il periodo dell’occupazione ottomana, la città fu residenza del Visir, il governatore del Sultano. Qui è ambientata la storia del romanzo del premio Nobel Ivo Andrić: La cronaca di Travnik.
Dopo quindici minuti di sosta si riparte. Davanti a me i nuovi passeggeri, seduti in tre su sedili da due, chiacchierano, ridono e parlano senza badare se qualcuno li ascolta. Capisco che sono paesani, muratori, e che stanno tornando a casa dopo mesi di lavoro stagionale sulla costa dalmata, in un campo nudista. Si stanno ancora meravigliando di quanto visto, delle donne nude che passeggiavano “con disinvoltura”, degli uomini super attrezzati… Si interrompono l’un l’altro: “Hai visto quella tedesca di Amburgo?”, e poi la descrive come vuole il più comune stereotipo: grassa, con delle curve improbabili e dalla sessualità esagerata. L’altro gli ricorda di “quel francese che, con la scusa di essere occupato in qualcosa, rimaneva nella camera e se la faceva con le ragazze e le mogli degli altri”. “Giustamente”, commenta l’altro e, senza nascondere l’invidia, descrive le doti eccezionali del francese. Vanno avanti con questi discorsi per circa un’ora. Scendono a Vakuf, un’altra kasaba bosniaca, ma prima si giurano reciprocamente di non proferire parola di quanto visto alle proprie mogli.
Mi fermo a dormire a Bugojno da mia sorella che vive e lavora lì. Negli anni Settanta era considerata una città prosperosa grazie all’industria militare. Ma la fama l’aveva ottenuta perché il presidente Tito si recava spesso lì per la caccia.
I boschi e le montagne bosniache, spesso di una bellezza rara e dalla natura intatta, non servivano solo per mascherare le fabbriche militari, gli aeroporti sotterranei e i bunker, ma erano e sono ancora ricchi di animali selvaggi, come gli orsi, gli obiettivi preferiti dell’eccellente cacciatore: il presidente Tito.
Ci veniva spesso, e per Tito fu costruita a Bugojno la villa “Gorica”. Si diceva che i bosniaci catturassero l’orso in anticipo, e lo tenessero per il presidente. Giravano barzellette su vari politici bosniaci che tenevano personalmente con le proprie mani l’orso finché Tito, ormai vecchio, non lo uccideva.
Dopo la caccia, il presidente incontrava i politici bosniaci. Non è chiaro se questi incontri avessero anche rafforzato il legame e la fiducia tra Tito e i politici bosniaci. Fatto sta che, negli ultimi anni della sua vita, Tito si fidava sempre di più dei burocrati della Bosnia-Erzegovina.
Da Bugojno a Kupres ci vuole mezz’ora di macchina. Ma se nevica non si passa per giorni. La strada taglia in due una montagna boscosa di fitti e alti pini. Circa a metà strada bisogna passare per un valico detto “Kupreska vrata” (porta di Kupres). Mai visto un posto che corrisponda così tanto al proprio nome. Durante l’inverno basta quel poco di neve per far sì che la “porta” si chiuda al traffico.
Passato il valico, la strada scende in fretta e sbocca in un vasto altopiano, Kupresko Polje (il campo di Kupres), una delle quattro pianure carsiche della Bosnia-Erzegovina occidentale.
Kupresko Polje si estende su una superficie di 93 kmq ad un’altezza di 1.200 metri ed è circondato ovunque da alte montagne. Proseguendo dritto si arriva alla costa dalmata.
Sul bordo dell’altopiano c’è l’omonima città di Kupres. Piccola, di forma circolare. Si accosta al margine occidentale della pianura come se avesse paura di esporsi a quella vastità piatta che non ti dà riparo dal vento e dalla neve.
Il pullman si ferma, per un istante, e fugge da quel posto isolato. Sono l’unica a scendere. Mi giro intorno, non c’è anima viva. Seguo con lo sguardo il pullman che si allontana sulla strada dritta, in mezzo alla pianura, diventando sempre più piccolo fino a trasformarsi, all’orizzonte, in un puntino nero.
Nel centro della città c’è la piazza rotonda dal diametro di 50 – 70 metri al massimo e nel mezzo un giardinetto con le rose. Intorno alla piazza le case a due piani. Su una è esposta la bandiera statale. È la sede del comitato locale del PC.
Mi presento, mi stanno aspettando. Il primo incontro è con il segretario del comitato locale del PC, un certo compagno Mile. Parla piano, con voce monotona elenca le parole senza cambiare espressione del volto. Mentre parla, fissa la penna che gira tra le dita. Non sa cosa dire. Ripete le frasi già scritte nei lunghi e noiosi rapporti del partito: “bisogna”, “dobbiamo”, “di sicuro”, “al più presto”. Macché stabilizzazione economica! A Kupres avevano appena costruito una fabbrica, così, solo per avere un’industria qualsiasi, senza neanche la materia prima. E adesso non sanno cosa fare, non possono né chiudere né andare avanti, la fabbrica “produce” solo perdite.
Poi lo saluto, vado a parlare con il sindaco e il presidente del Socijalistički savez (Alleanza Socialista). Era un’organizzazione che, ufficialmente, doveva raccogliere vari pareri e interessi della società al di fuori del PC. La sede è dall’altra parte della piazzetta, Mile insiste per accompagnarmi.
Usciamo, davanti alla porta è parcheggiata una “Mercedes” nera, la macchina preferita dai nostri politici. Il compagno Mile mi apre la portiera e insiste per darmi un passaggio. Per fare solo 50 metri da una casa all’altra! Stupita, non riesco a rifiutare. Ci voleva più tempo per sedersi e mettere la macchina in moto che attraversare la piazza a piedi.
Finisco il lavoro nel primo pomeriggio, vado alla stazione dei bus. Lo sportello è chiuso, intorno non si vede nessuno. Aspetto un po’, non succede nulla. Busso alla porta di una casa privata e chiedo se c’è qualche bus per Bugojno. La signora ride: “Ma che Bugojno, cara, da qui fino a domani mattina non si va da nessuna parte, se non si ha l’auto”.
Mi vergogno all’idea di tornare dagli interlocutori per chiedere un passaggio. Lascio la città e mi metto sul ciglio della strada ad aspettare. Tornerò in auto stop, penso.
Passa un’ora e non si vede neanche una macchina. Comincio a preoccuparmi. Fisso l’orizzonte con la speranza di vedere un’auto in lontananza. Non si muove nulla, eccetto il vento che è costante. A Kupresko polje, il sole tramonta presto, la temperatura precipita in fretta. È luglio, ma comincio ugualmente a sentire un po’ di freddo.
Se non fossi preoccupata per come tornare a Bugojno, potrei godermi il paesaggio. A perdita d’occhio si estende un campo quasi perfettamente piatto, coperto d’erba, l’aria è limpida, arricchita dal profumo delle erbe aromatiche. Il silenzio è spaziale.
All’improvviso ho la sensazione di non essere sola. Mi volto e, per lo spavento, indietreggio di un passo. Là, vicinissimo, non saprei dire con certezza quanto distante, c’è un cavallo che mi fissa.
L’animale mi guarda con attenzione e curiosità palese. Come se si chiedesse “e tu cosa ci fai qui nel mio regno?”. Mi fissa con quegli occhioni grandi e intelligenti, con uno sguardo penetrante e di sfida. Bello, forte, sembra una statua di marmo, se non ci fosse il vento a muovere i peli della sua criniera lunga e spettinata.
Per un momento ci fissiamo, stupiti l’uno dell’altra. Mi sembra di vivere una scena da film: la figura del potente animale in primo piano, e sullo sfondo la verde vasta pianura che, lontano nell’infinito, si abbraccia con il cielo perfettamente blu.
Il cavallo, come se fosse impaziente, batte lo zoccolo sinistro per terra. Adesso, penso, quello si trasformerà in una principessa bellissima, come in una favola. Ma si è solo stancato dell’incontro improvviso. Con una mossa decisa l’animale tira la testa all’indietro, la criniera sventola e lo fa assomigliare a una creatura mitologica, emette un nitrito e si allontana galoppando. Non ho sentito il rumore dei suoi passi. “Per il vento” mi spiegheranno dopo.
Era uno dei cavalli selvaggi di Kupresko Polje. Sono i discendenti degli stalloni che, negli anni Sessanta, la gente locale non voleva e non poteva tenere più, e così li rilasciava in natura. In quegli anni, molti dalla Jugoslavia andavano a lavorare nell’Europa occidentale. In Germania li chiamavano “gastarbeiter” che significa lavoratore in visita. Questa parola da noi, ancor oggi, ha una connotazione negativa. Indica della gente rozza, ignorante, senza cultura ma con soldi da spendere.
I nostri “gastarbeiter” lavoravano in Germania, mentre a casa loro mancava la manodopera. Inoltre, con i soldi guadagnati, compravano le macchine agricole. Di conseguenza i cavalli erano diventati superflui, inutili.
Ai paesani dispiaceva uccidere gli animali, e così li liberavano. I cavalli liberi si sono arrangiati benissimo. Dai primi settanta cavalli, il numero, con gli anni, è cresciuto a 150.
Durante l’estate la mandria si divide in gruppi più piccoli, si arrangiano con il cibo e l’acqua. Sbucano all’improvviso, bellissimi, liberi e imprevedibili, e spariscono come il vento. Ogni tanto attraversano la statale. I rari passanti, impauriti per aver evitato lo scontro, e increduli di aver realmente visto dei cavalli, frenano l’auto bruscamente, escono e cercano di vedere e capire cosa sia successo. Ma della mandria, un attimo dopo, si vede solo una nuvola che si allontana.
Durante l’inverno i cavalli selvaggi di Kupresko Polje si ritirano, insieme in un’unica mandria, sulle montagne che circondano l’altopiano per ripararsi dal vento e dalla neve. Gli esperti dicono che nel branco esiste e si onora una gerarchia precisa, basata sull’età e sul sesso degli animali.
Con le spalle rivolte verso la strada, osservo la pianura nella direzione in cui è sparito il cavallo. Cerco di ricostruire, nella memoria, tutto quello che ho appena visto. Sapevo che a Kupresko Polje ci sono i cavalli selvaggi, ma come molti prima e dopo di me, non mi aspettavo di vederli.
Poi sento un rumore, mi volgo verso la strada, e vedo un camion che si avvicina. Sono così confusa che non alzo neanche il pollice per fermarlo. L’autista, però, si ferma comunque, abbassa il finestrino e mi fa: “Dove si va, bellezza?”.
Hmm, non mi piace il suo aspetto né il suo modo di rivolgersi a me. Non sono una bellezza, ma una giornalista del più importante quotidiano della Bosnia-Erzegovina. Ma se non salgo sul camion, come me ne vado da questo posto?, penso tra me e me. “Bugojno”, rispondo velocemente. “Monta su, bellezza”, dice quello e mi apre la portiera.
Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso
Esperienza poetica, memoria del principio
che non ha fine
Nota su Il giardino conteso di Flavio Ermini
di
Lucio Saviani
Questa nota intende essere un tentativo di corrispondere all’invito di Flavio Ermini ad una esperienza. Un’esperienza di verità che, in quanto vera esperienza, è sempre “negativa”, ossia trasforma ad ogni passo colui che la compie. Come un viaggio, in cui chi ritorna non è mai lo stesso che era alla partenza e in cui si coappartengono l’arrivo e il ritorno: “il cammino non serve a fornire una conoscenza dei luoghi, ma un nome a chi è in cammino” (100). L’approdo raggiunto è vissuto, nell’invito di Ermini, come esperienza dell’inizio, del punto ortivo.
L’origine è l’ombra che accompagna ogni passo nel viaggio del Giardino conteso di Flavio Ermini. Il viaticum è la provvista che il peregrinus, colui che va per agros, porta con sé. Proprio come un viaticum, questa scrittura è àncora e vele, transito e passeur, viaggio e libro di bordo, diario (‘diarum’, dei giorni, diurnale, giornale) e notturnale, viaggio nel dies della vita che risplende e nella nox che rimanda alla ‘nex’, alla morte.
Il viaggio, in origine, è un nome dell’esperienza. Ex-per-ientia, ex-perire: andare attraverso (le cose) provenendo da. Ma si è sempre in cammino e, sempre, chi va proviene da un’altra parte, da altrove. Se dunque l’ex può essere taciuto come ovvio e naturale, resta il per-ire, l’attraversare, il divenire esperti o periti, che è aumentare la provvista del peregrinus ma anche tra-passare e decedere, in quel trapasso che è l’esperienza aporetica per eccellenza. L’empeiria greca del ‘provare’ si arricchisce del perior latino, e del pericolo. “Nel venire al mondo, l’essere umano è già esposto al pericolo di non entrarvi” (47).
Ma come pensare quell’ex del per-ire lasciato cadere nell’ovvio? In quale linguaggio può prendere parola quell’origine (provenienza, scaturigine, derivazione, principio) taciuta? È la domanda che dà inizio, sostegno e senso del cammino al Giardino conteso. Ed è l’appello di Flavio Ermini a cui queste note stanno cercando di corrispondere.
Ho letto Il giardino conteso durante un mio lavoro di scrittura e in un viaggio in due terre lontane, in cui Giardino si dice ‘zahrada’ (dal verbo ceco ‘zahradit’: delimitare, chiudere, anche per prendersi cura), come delimitazione per impedire il cammino alla natura circostante e sylvatica, e si dice ‘kepos’, come recinto protetto. Ma la parola greca Kepos ha il duplice significato di giardino e di grembo materno. Un significato che rimanda al germinare e al fiorire.
Queste due parole, che arrivano da terre così distanti, condividono il significato del Giardino di cui parla il libro di Ermini. Questo giardino è il luogo di una contesa sempre in atto: tra l’essere e l’ingannevole apparire.
“Quali sono le vie che portano l’essere ad apparire? Come si manifesta l’essere? Dove si cela? Ogni sua manifestazione è davvero illusoria? Ce ne parla questo libro, indicandoci quali conseguenze comporta fare esperienza del mondo e del suo incessante scaturire” (13).
L’appello dell’incessante scaturire del mondo è la questione che attraversa come un fulmine, da cima a fondo, il libro di Ermini. È la domanda intorno alla parola che possa dire quell’origine taciuta proprio mentre si pronuncia “l’esperienza del mondo”.
La parola originaria, come parola dell’origine, unisce le parti che solo apparentemente, ma necessariamente, dividono il viaggio attraverso luci e ombre, tenebre e bagliori della contesa: la natura dell’apparire, il fuoriuscire delle cose dall’illimitato, “il mistero della notte albale”; la natura come continuo nascimento e declinare nel nascondimento, la caducità delle cose e l’immutabilità dell’essere; il risalire dalla molteplicità delle apparenze all’unità della sostanza che le compone (“Dobbiamo tornare là dove il divenire si è scollato dall’essere e ha preso a vivere sulla terra. Ma il nostro sguardo non può accontentarsi di seguire ciò che è vicino e si muove e muore. Noi dobbiamo guardare a ciò che non tramonta”, 121); lo smarrimento e il risveglio dalle illusioni; la parola poetica che, spogliatasi della hybris umana si fa esperienza poetica e apre il linguaggio all’accadere dell’essere, nel suo esito più alto consiste nel cedere la parola all’essere: “In questo senso mi sento autorizzato a parlare di ricerca della verità: trovare nomi nuovi per consentire all’inespresso di risuonare e in pari tempo di essere custodito come inviolabile segreto, irriducibile alla rappresentazione” (173). È in questa verità che ritorna dunque quell’ex del per-ire taciuto e silenziosamente dimenticato. Il linguaggio poetico segnala allora che “è ancora viva la memoria di quella lingua originaria, una lingua che viene alla luce da parole che ancora non nominano, parole che ancora non sono il corrispettivo della cosa, parole, dunque, da ascoltare come una remota ingiunzione rivolta al pensiero” (176). In questo senso, “la scrittura che si espone al dire vuole rimanere irriconoscibile. È la madre il cui grembo appare come un leggero mantello che racchiude e germina il principio del nascituro. La scrittura è uno spogliatore: uno che toglie. Toglie l’inessenziale, ciò che sta tra noi e le cose nella loro apparenza” (184). È proprio in questo “grembo” evocato d a Ermini che sembra venire alla luce quel significato di Kepos, giardino, come grembo materno.
Nelle pagine del Giardino conteso, l’origine è detta alla luce aurorale del pensiero greco arcaico, premetafisico: “Ogni origine si affaccia sull’incertissimo che ne costiuisce l’arché. Insomma, ogni elemento noto contiene in sé costitutivamente l’ignoto. Come avanzare la pretesa di riconoscerlo? Come giungere all’inizio essenziale? “ Eppure: “Grande è la difficoltà che si incontra nel cammino verso l’origine, per poterla veramente attingere; perché forse non c’è vera origine, ovvero un fatto, un essere, un dato ultimo cui sia possibile riferirci come fondamento del tutto” (114).
La realtà principiale, l’albale groviglio della physis, “l’apeiron nominato da Anassimandro, l’informe indefinito e indefinibile”, (144) è pensata ascoltando le parole fondamentali del pensiero delle origini: Physis, Arché, Kosmos.
Ciò che dà origine a tutte le cose, proprio in quanto origine, non può essere tra le cose originate. È incipienza continua, origine che rigermina di continuo, inesauribile riserva. Di nuovo, il duplice significato del Kepos: “L’infanzia del mondo è energia inesauribile dell’inizio primo. Ciò detto, non significa che il principio sia innocuo. L’infantile principiale è altra cosa rispetto al puramente recintato, al circondato da una siepe” (25).
Physis è la dimensione del continuo nascimento, del fiorire e poi dileguare delle cose. È il regno da sempre in fieri, del divenire, del doloroso transito (panta rhei) di tutte le cose (res), dolore sopportabile proprio perché sempre mobile, come un reuma. L’arché è principio, non solo come inizio ma anche come legge (universale) che dà senso, elemento che sostiene, fondamento che regge, potere che governa e tiene insieme. È ciò che garantisce alla physis di diventare Kosmos, cioè mondo ordinato e non chaos. Il kosmos è la splendente disposizione delle cose alla luce dell’essere e dell’arché che ne dà ragione; è il mondo ordinato che i latini chiameranno mundus, cioè ordinato e pulito, mondo di misura e proporzione, dunque di bellezza (il mondo della cosmetica).
“Pensare davvero significa andare alla produttiità originaria dell’essere che si dispiega” (41).
La parola originaria non è se non parola ‘dell’’origine, dove l’origine è l’oggetto del genitivo, il detto della parola. Tuttavia, proprio la parola poetica non ‘dice’ se non che l’origine non è una cosa. La cosa, il ‘detto’ dell’origine è la questione “originaria” del disvelamento.
La parola poetica dice e cor-risponde all’appello oscuro dello svelamento.
Nel suo svelare, l’origine si sottrae a favore delle cose che lascia-essere. Corrispondere al dono dell’essere non può mai, dunque, “dire” l’origine come presente. Il potere originario della parola poetica è nel suo “ricordare” l’origine, la presenza nella sua provenienza (“Conservare la memoria dell’origine”, 120) ma, necessariamente, senza rap-presentare – presentificandola – la provenienza stessa: una parola che “dice” il proprio oggetto sempre differito. L’essere che si dispensa e si sottrae, nel suo svelare e occultare apre il gioco tra il fatum (il “detto”, la “parola pronunciata”) nel senso di destino allontanante e l’originaria in-fantia del dire dell’essere.
Nel Giardino conteso il pensiero aurorale è evocato ricorrendo a Eraclito, Parmenide, Senofane, Anassimandro, Heidegger, Nietzsche ma, più spesso, in ascolto di Rilke, Musil, Novalis. Su tutti, e sempre nei momenti decisivi del “viaggio”, Hölderlin: “Un enigma è il puro scaturire. Anche/ il canto non può rivelarlo. Più di tutto può il principio”.
È Hölderlin ad annunciare che l’approdo del nostro cammino è un luogo in cui saremo un dialogo: “Dunque c’è un luogo che ci chiama e che ci ingiunge di seguire un cammino: è il cammino che si intraprende affinché, dopo l’esilio cui siamo esposti nascendo, si possa concepire un ritorno. In questo movimento verso il luogo che ci chiama, l’esperienza di ciò che è straniero – ovvero di ciò che avviene fuori dalla vita, e quindi al buio – non è solo una fase del viaggio ma il suo momento decisivo, perché solo allora è possibile assentire alla ricerca di un inizio più originario e non soltanto all’esperienza di un’alterità irriducibile alle consuetudini. La posta in gioco è quel punto ortivo dove possiamo trattenerci come un elemento estraneo. È un approssimarsi che nega ogni idea di appaesamento e di possesso. È un dire-di-no, che non è ascesi, ma pura presa di distanza: è l’occasione di un’attesa, per accogliere il richiamo di una voce e diventare un dialogo” (115).
Questa nota sul Giardino conteso di Flavio Ermini ha preso avvio seguendo il senso della parola “esperienza”, proprio perché intendeva essere un tentativo di corrispondere all’invito di Ermini ad una esperienza di verità. Questa nota allora non può trovare il proprio compimento che in queste parole di Ermini: “Nell’ascolto una lingua è ospitata da un’altra lingua; il dialogo prende forma e ritmo: diventa esperienza. L’ascolto è proprio il racconto di questa esperienza” (210).
trad. isometra di Daniele Ventre
Muse, per noi quale dio, chi mai ha inventata quest’arte?
Dove la nuova perizia degli uomini trasse principio?
Un fuggitivo mandriano, Aristeo, da Tempe Peneia,
perse le api per morbo e per carestia, com’è fama,
triste alla sacra sorgente di un fiume remoto ristette
molto gemendo e parlò con queste parole alla madre:
“Ah, madre, madre Cirene, o tu che di questa corrente
reggi l’abisso, perché da gloriosa stirpe di dèi,
(se come dici, mio padre è davvero Apollo Timbreo),
mi generasti nemico del fato? E dov’è quel tuo amore
verso di me? perché m’hai forzato a sperare nel cielo?
Ecco che adesso anche questo onore di vita mortale,
che a gran fatica l’accorta custodia di grano e bestiame
nel mio tentare ogni via mi donò, abbandono -e ho te madre!
Tu di tua mano oramai travolgi le fertili selve,
getta alle stalle la fiamma nemica e distruggi le messi,
brucia i raccolti, arma contro le vigne una salda bipenne,
se così greve fastidio in te suscitò la mia gloria”.
La madre sua dentro il letto del fiume profondo si accorse
di quel lamento. Le Ninfe filavano lane milesie
presso di lei, colorate di carica tinta azzurrina:
Drimo e con lei anche Xanto e Ligea e Fillòdoce insieme,
che per i candidi colli spandevano fulgida chioma,
E poi Nesea e Speiò e Talía e Cimòdoce accanto,
quindi Cidippe e la falba Licòride, vergine l’una,
l’altra da poco passata per le traversie di Lucina,
Clio e poi Bèroe, sua sorella, Oceànidi entrambe,
d’oro precinte ambedue, ambedue di pelli screziate,
Èfire ancora e poi Opi e l’asiatica Deiopea
e la veloce Aretusa, infine deposti i suoi dardi.
E di Vulcano la vana angoscia narrava fra loro
Clímene e insieme gli inganni di Marte e i suoi furti soavi
e sin dal Caos elencava i frequenti amori dei numi.
Mentre dal canto rapite le morbide lane dai fusi
svolgono, ancora una volta colpisce le orecchie materne
il lamentio di Aristeo e sui loro troni in cristallo
tutte stupirono: prima delle altre sorelle Aretusa
sporse, guardando, a fior d’acqua allora la bionda sua testa
e di lontano: “Oh, non certo invano per tale lamento
tremi, sorella Cirene: è lui, la tua cura più grande,
il contristato Aristeo, che all’onda del padre Peneo
sta fra le lacrime e te per nome proclama crudele”.
E a lei la madre, percossa da ignoto timore nel cuore:
“Guidalo, su, da noi guidalo; a soglie di numi gli è dato
giungere” disse: e già impone al profondo fiume di aprirsi
per ampio tratto, ove spinga il giovane i passi. Ecco a lui
l’onda d’intorno si alzò curvata in aspetto di monte,
lo ricevé nel suo grembo immenso e l’accolse nel fiume.
Già della madre ammirava le case e il suo umido regno
e le lagune racchiuse in spechi e le selve fruscianti,
vi si accostava e stupito dal moto possente dell’acque,
sotto la terra spaziosa osservava scorrere i fiumi
differenziati secondo i luoghi: ecco il Fasi e poi il Lico
e il primo fonte da cui erompe l’Enípeo profondo,
quello del Tevere padre e quello d’Aniene fluente,
d’Ipani rumoreggiante di rocce e di Miso e Caíco
e di quel gorgo dorato, due corna sul volto di toro,
di quell’Erídano, fiume di cui per le pingui campagne
altro nel mare purpureo non va con maggiore violenza.
Come alle volte sospese di pomice della dimora
egli fu giunto e Cirene ebbe inteso i pianti infruttuosi
del figlio suo, le sorelle in ordine dànno alle mani
limpide stille e poi recano i panni di lane ben rase;
altre ricoprono i deschi di cibi e le coppe ricolme
pongono, sopra gli altari ravvivano fiamme panchee.
Ecco la madre: “Tu prendi le coppe di Bacco Meonio;
si liberà per Oceano!” escalmò. Pregava al contempo
il genitore di tutto, Oceano, e le Ninfe sorelle,
cento che vegliano i boschi e cento che vegliano i fiumi.
Sparse tre volte su Vesta accesa il suo nettare chiaro
e per tre volte la fiamma brillò, spinta al sommo del tetto.
Rassicurata al presagio nell’animo, quindi incomincia:
“Dentro l’abisso nettunio di Carpato c’è un indovino,
Pròteo ceruleo, colui che percorre l’ampia distesa
con il suo carro trainato da pesci che han due piedi equini.
Questi ora torna a vedere i porti d’Emazia e Pallene
Patria; costui veneriamo noi Ninfe e perfino il longevo
Nèreo in persona: poiché l’indovino ha chiara ogni cosa,
quello che è, quel che fu, quel che ormai si appresta a venire;
certo ha deciso così Nettuno, di cui egli pasce
sotto l’abisso le greggi immani e le sordide foche.
Figlio, da prima dovrai tu stringerlo in ceppi, a che tutta
egli ti esponga la causa del morbo e secondi gli eventi.
Senza violenza non lui ti offrirà consiglio, e nemmeno
lo piegherai con preghiere: di vincoli e dura violenza
fa’ uso e prendilo: allora cadranno i suoi inganni infruttuosi.
Io, non appena a metà il sole avrà acceso i suoi ardori,
quando hanno sete anche l’erbe e l’ombra è ormai grata alle greggi,
ti introdurrò nei rifugi del vecchio, là dove dall’onda
stanco si trae, che a tuo agio l’afferri sopito nel sonno.
Quando però lo terrai fra le mani e i vincoli stretto,
ti inganneranno apparenze mutevoli, volti di belve.
Diverrà subito un irto cinghiale, una tigre nerigna,
drago squamoso, nonché leonessa a fulva cervice,
emetterà truce suono di fiamma e dai ceppi in tal modo
proverà a togliersi oppure a sfuggire sciolto in lievi acque.
Ma quanto più tenterà di mutarsi in tutte le forme,
tu, figlio mio, tanto più tenderai i tuoi vincoli saldi,
fino a che poi non avrà, mutato d’aspetto, la forma
in cui l’hai scorto che gli occhi offuscava al sonno recente”.
Disse così poi profuse una chiara essenza d’ambrosia,
di cui coprì tutto il corpo del figlio; ecco allora che a lui
una soave fragranza spirò sui capelli acconciati,
agile venne il vigore alle membra. Un’ampia caverna
s’apre nel fianco d’un monte corroso, a cui l’onda in gran massa
è risospinta dal vento e vi torna in cerchi discissi.
Ai naviganti sorpresi fu un tempo fidissimo scalo;
Pròteo vi si rinchiude col peso d’un grande roccione.
Qui nei meandri la Ninfa sottrasse quel giovane al giorno
e lo occultò; poi in disparte ristette, oscurata di nebbie.
Torrido e rapido Sirio oramai sugli Indi assetati
stava bruciando nel cielo e il sole infocato compiva
già metà corso, arsa l’erba, i raggi cuocevano i fiumi
cavi di foci essiccate e li intiepidivano in fango,
quand’ecco Pròteo dai flutti diretto agli spechi consuenti
vi si accostava: a lui intorno esultanto l’umida gente
del vasto mare spargeva dovunque l’amara rugiada.
Sopra la sponda disperse si sdraiano al sonno le foche;
e tuttavia, come un tempo sui monti un guardiano di stalle,
quando i vitelli dal pascolo il Vespro riporta alle case,
e dànno stimolo ai lupi gli agnelli spargendo belati,
egli sedé su uno scoglio nel mezzo e ne fece la conta.
Come però se ne offrì l’occasione per Aristeo,
lascia posare all’antico appena le membra disfatte,
poi gli si avventa con gran clamore e l’afferra dai polsi
mentre riposa. Non certo immemore delle sue arti,
egli per contro si muta in ogni prodigio di forme,
in formidabile fiera, in fuoco, in un liquido fiume.
Ora, poiché non dà scampo alcuna fallacia, sconfitto
torna in sé stesso e gli parla infine col volto d’un uomo:
“Giovane troppo fidente, chi ti comandò d’accostarti
alle mie case? Che cerchi quaggiù?” Così dice. Al che l’altro:
“Pròteo, tu sai, tu lo sai, né c’è cosa mai che ti sfugga;
smetti di opporti però. Seguendo precetti divini
vengo quaggiù per cercare risposta all’avversa fortuna”.
Egli parlò. L’indovino infine con grande fatica
torse dai lui le pupille lucenti di glauco bagliore
e con un fremito greve aprì così il labbro ai destini:
“Sono senz’altro gli sdegni di un dio che ti stanno colpendo:
grande è la colpa commessa. È Òrfeo a destartele contro,
misero lui senza colpa qual è, se non ostano i fati,
simili pene, infierisce così per la sposa a lui tolta
Mentre fuggiva da te con impeto, lungo un ruscello
la moritura fanciulla non vide nel folto dell’erba
sotto i suoi piedi annidarsi alle rive un orrido serpe.
Dunque il coetaneo corteggio di Driadi riempì di clamore
anche le cime più alte: le vette rodopie hanno pianto
e l’elevato Pangeo e la marzia landa di Reso,
e così i Geti e con loro poi l’Ebro e l’attiade Orizía.
Lui consolando con cava testuggine il triste suo amore,
te, dolce sposa, te in mezzo al lido deserto, in disparte,
te col venire del giorno e te al suo morire cantava.
Anche le foci Tenarie, immane portale di Dite,
anche la selva offuscata di caliginoso terrore
egli passò, si accostò ai Mani e al sovrano tremendo,
cuori incapaci di farsi mansueti alle umane preghiere.
Ma dagli abissi profondi dell’Erebo, smosse dal canto,
ombre avanzavano tenui, fantasime prive di luce,
quanti gli uccelli a migliaia si celano in mezzo alle foglie,
quando li spinge dai monti il Vespro o la pioggia d’inverno,
madri e con esse mariti, nonché dei magnanimi eroi
spettri ormai privi di vita, fanciulli e illibate fanciulle,
giovani posti sui roghi dinanzi allo sguardo dei padri;
e del Cocito d’intorno il limo nerastro e le informi
canne, e la tarda palude e ben poco amabile l’onda
li circonfondono e Stige con nove correnti li serra.
Anche le case di Morte stupirono e anche l’impervio
Tartaro, e anche le Eumenidi avvolte le chiome di serpi
cerule, Cerbero stesso fermò le tre bocche, anelante,
e con il vento la ruota del gorgo issionio ristette.
Ripercorrendo il cammino, ormai superava ogni rischio,
e ricondotta tornava Eurídice alle aure superne,
standogli dietro (Proserpina impose per lui questa legge),
quando improvvisa follia sull’incauto amante discese,
da perdonarsi senz’altro, sapessero i Mani perdono:
egli ristette e alla sua Eurídice ormai nella luce
vinto nell’animo, immemore, ahimè riguardò. Fu in quel punto
persa l’intera sua impresa e i patti del truce tiranno
caddero, triplice tuono s’udì dallo stagno d’Averno:
ella gridò: “Chi ci perde, ahi, Òrfeo, te e me sventurata?
Che sciagurata follia? Ecco, ancora indietro i crudeli
fati mi chiamano, il sonno i miei occhi incerti nasconde.
E ora addio. Vado via, ché una notte immensa mi serra,
mentre ti tendo, oramai non più tua, le deboli mani”.
Disse e d’un subito agli occhi fuggì come fumo sottile
misto alle brezze, lontano da lui, e mai più da quel giorno,
ella lo vide benché si tendesse a stringere invano
l’ombra e volesse parlarle a lungo; il nocchiero dell’Orco
non consentì che passasse mai più la nemica palude.
Che farà mai? Dove andrà? Due volte la sposa gli è tolta.
Con quale pianto commuovere i Mani o che dèi con la voce?
Ella già fredda viaggiava ormai sullo stigio vascello.
Dicono ch’egli da solo e per sette mesi di fila
sotto una rupe svettante piangesse sull’onda del vuoto
Strímone e queste sventure narrasse fra gelide grotte
domesticando le tigri, piegando col canto le querce:
come nell’ombra d’un pioppo, afflitta com’è, filomela
leva lamento dei figli perduti che il duro aratore,
fatta la posta, sottrasse implumi dal nido; ma quella
piange di notte, posando su un ramo e ripete il suo canto
misero, e riempie gran tratto i luoghi di meste querele.
No, non più Venere piega il suo cuore, non gli imenei:
solo fra i ghiacci iperborei e su fino al Tanai nevoso
per le campagne che mai di brine ripee sono prive
peregrinava, piangendo Eurídice toltagli e i doni
vani di Dite; le madri dei Cíconi, in spregio a quel bene,
fra i sacrifici agli dèi e le orge di Bacco notturno
fecero a pezzi e poi sparsero il giovane in vaste campagne.
Pure anche allora, staccato dal collo marmoreo il suo capo,
mentre nel mezzo dei gorghi con sé l’Ebro Eagrio lo porta
e lo sballotta, la stessa sua voce e la gelida lingua
chiama “Ah Eurídice, Eurídice afflitta!” esalando la vita:
e risuonavano i lidi “Eurídice” in tutto quel fiume”.
Pròteo disse e d’un balzo si immerse nel fondo del mare,
dove si immerse, levò sotto il picco un’onda spumosa.
Ma non Cirene: per prima al trepido figlio si volse:
“Figlio, le angosce infelici t’è dato deporle dal cuore.
Qui tutto il seme del morbo: per questo le Ninfe con cui
ella nei boschi profondi soleva animare le danze,
diedero all’api infelice destino. Tu supplice porgi
doni chiedendo la pace e adora le miti Napee;
venia daranno a quei voti, ti condoneranno gli sdegni.
Quale sia il modo a placarle io dirò con ordine prima.
Quattro dei meravigliosi giovenchi d’altera prestanza
che per te brucano adesso le vette del verde Liceo
scegli e altrettante giovenche dal collo tuttora indomato.
Quattro tu innalzane d’are per loro davanti ai santuari
delle deità, poi dai colli tu spillane sacro del sangue,
ma le carcasse dei bovi abbandona al bosco frondoso.
Poi non appena la nona Aurora il suo sorgere mostri,
funebre dono per Òrfeo i Letei papaveri manda
quindi una pecora nera immola e rivisita il bosco:
con un’uccisa vitella Eurídice venera e placa”.
No, non più indugi: all’istante adempie i precetti materni;
presso i santuari si reca, innalza gli altari indicati,
quattro dei meravigliosi giovenchi d’altera prestanza
guida e altrettante giovenche dal collo tuttora indomato.
Poi non appena la nona Aurora al suo sorgere apparve,
funebri doni per Òrfeo offrì e rivide anche il bosco.
Ecco che allora improvviso, mirabile a dirsi un prodigio
vedono, in mezzo alle entragne dei buoi liquefatte, dal grembo
tutto ronzare le api, fra costole rotte sciamare,
e sollevarsi con nugoli immensi e dall’albero in cima
già rampollare e dai rami pieghevoli scendere l’uva.
Questo cantai sui lavori dei campi e così delle greggi
come degli alberi, mentre il possente Cesare in guerra
lungo l’Eufrate profondo brillava e le leggi a volenti
popoli offriva in trionfo, si apriva la via per l’Olimpo.
In quell’età la soave Partenope riconfortava
me, quel Virgilio, che lieto fra studi d’anonima quiete,
canti provai di pastori e già audace di giovinezza,
Titiro, te celebrai al fresco d’un faggio frondoso.
(Alessandro Gioia Chiappanuvoli è stato ad Amatrice. Ha scritto un resoconto che reputo importante leggere. Qui di seguito ve ne copio una parte, il resto, foto comprese, lo trovate sul suo sito. G.B.)
Il primo pensiero è stato devo andare. E come sette anni fa, sono andato.
Quel che di buono sono riuscito a fare non è importante. Quel che avrei potuto fare in più è un rimpianto che porterò sempre con me.
Ogni singola persona che ho incontrato la mattina del 24 agosto merita di essere lodata anche solo per aver avuto il coraggio di esserci. Non a loro è rivolta la rabbia con cui scrivo questo testo. La ricostruzione che faccio della prima fase dell’emergenza è frutto solo della mia osservazione diretta, ma condivisa con molte altre persone che quel giorno c’erano, e quindi spero, fortemente spero, del tutto sbagliata.
Sono arrivato tra le 5.30 e le 6.00. Entrato in paese, le parole del Sindaco Pirozzi, «Mezzo paese è crollato», mi sono subito sembrate un nulla: Amatrice non c’era più.
Per capire come muovermi, ho fatto un breve giro di perlustrazione durante il quale ho incontrato, oltre agli abitanti di Amatrice e a parenti e amici accorsi da Roma, solo una squadra del Soccorso Alpino aquilano munita di cane (3 persone), un paio di poliziotti, una manciata di Guardie Forestali e alcuni medici giunti dall’Aquila.
Verso le 7.00 sono cominciate ad arrivare le prime squadre di Vigili del Fuoco e delle Protezioni Civili locali, almeno nella zona dove mi trovavo. Lungo il corso, invece, c’erano quattro o cinque capannelli di persone al lavoro, a occhio, non più di cinquanta, cento unità ma a grande maggioranza civile. Molti gli aquilani, e non sarebbe potuto essere altrimenti.
A metà mattinata, attorno alle 10.00-10.30, c’erano diverse squadre di Carabinieri, Finanzieri, militari, poliziotti, Soccorso Alpino, Soccorso Speleologico, Unità Cinofile (ne ho incontrate almeno 6 o 7), Croce Rossa, gruppi di operai d’imprese edili, oltre ai VVFF e ai volontari della PC. E tanti, tanti civili. Una forza lavoro non sufficiente, ma finalmente degna di nota, nell’ordine di qualche centinaio di persone.
I primi mezzi meccanici, bobcat di ditte private in particolare, li ho visti quando era già mezzogiorno. Le strade potevano essere liberate e i soccorsi potevano muoversi con più rapidità. Da allora in avanti, a quasi otto ore dal sisma, mi sento di dire che la macchina dei soccorsi era in piena efficienza. O meglio, sarebbe potuta essere in piena efficienza. Perché non è una mera questione di numeri, lo sottolineo con forza, bensì di come il lavoro di soccorso è organizzato. Mi spiego. La finalità di quanto scrivo è che vorrei che si potesse imparare dagli errori, una buona volta; e non emettere una mera sentenza che lascia il tempo che trova.
(il seguito potete leggerlo qui)
di Ugo Cornia
Allora, l’improvvisazione. Per esempio c’è John Cage che va a uno spettacolo della tele americana e fa un’improvvisazione dove suona anche un frullatore. Cioè, per esser più precisi, per prima cosa inizia suonando un pianoforte a coda ma per suonarlo usa un pesce di plastica che butta direttamente sulle corde, poi però suona anche una vasca da bagno con acqua, il famoso frullatore e una pentola a pressione, che le toglie il cappuccio così fa fsch, fsch. Poi c’ha anche un vaso di fiori e un innaffiatoio. Allora li suona un po’ tutti.

Ho appena ricevuto una notizia che mi ha tolto il fiato. Milo Miler, un caro amico dal Ticino, in lacrime, mi ha detto che questa notte è mancato Tommaso Labranca. Non sappiamo cosa sia successo, non sappiamo niente. Sappiamo solo di essere disperati.
Ho chattato con lui fino a pochi giorni fa. Coerente con la sua visione pessimista dei social (lui parlava esplicitamente di odio) aveva deciso di scomparire dalla rete mandando i suoi post a pochi amici, via WhatsApp, a una lista che aveva chiamato “LabrancaForDummies”.
Delle cose che Tommaso, clandestinamente, aveva messo on line in questi anni non c’è più nulla. La sua sembrava una lotta fra un mondo culturale che sembrava lo avesse dimenticato e lui che cercava di far scomparire le tracce della sua presenza in un paese ingrato come l’Italia. (mi auguro che un archeologo digitale sappia far riaffiorare tutto quel materiale di straordinaria intelligenza. Un vero tesoro. Forse Tommaso non apprezzerebbe questa mia morbosità, avrebbe preferito restare nell’ombra. Ma i vivi questo fanno: approfittarsi di chi non c’è più).
Aveva trovato un piccolo spazio d’ascolto proprio in Ticino. (questa la sua ultima intervista che ho trovato sulla radio svizzera). Milo Miler gli aveva affidato la direzione di una rivista culturale che nelle intenzioni di Tommaso doveva abbattere il confine culturale italosvizzero. Il nome della rivista è Tipografia Helvetica. In questi giorni si stava chiudendo il nuovo numero (ho avuto l’onore di scriverci un pezzo). Inutile dire che mentre nel versante ticinese gli abbonamenti non sono mancati, in Italia era come non fosse mai stata pubblicata. Ricordo una presentazione della rivista in un’aula del Politecnico vergognosamente vuota.
Il suo ultimo libro “Vraghinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte” è così bello che leggerlo m’aveva semplicemente entusiasmato. Se lo era pubblicato praticamente in casa, dato che le case editrici italiane lo chiamavano solo per biografie di attori o cantanti trash-pop.
Tommaso era di una intelligenza lucida e geniale. Era un intellettuale nella accezione più nobile che si possa dare a questa parola. Ci sono scrittori che usano le parole degli altri. E, rarissimi, ci sono scrittori che “inventano” parole e concetti che tutti poi usano (spesso senza citare la fonte). Tommaso era uno di questi. Era un inventore di pensieri collettivi.
In questi giorni ci sarà chi verserà lacrime di coccodrillo sulla sua bara. Gli stessi che avrebbero potuto dare spazio al suo genio ma l’avevano accantonato perché troppo “rompicoglioni”. Ci sputo sopra fin d’ora.
Essere uno spirito libero in Italia significa essere rompicoglioni. Tommaso lo era. Ha rinunciato (conosco direttamente la fonte di questa notizia) a collaborazioni fruttuosissime in televisione per evitare di umiliare la sua intelligenza leccando i piedi al cantante-scrittore-attore-disinistra-etc. del momento. Ha preferito vivere al limite dell’indigenza per mantenersi puro.
Non ce lo siamo mai meritati. E lui, coerentemente, ha tolto il disturbo.
So long, Tommaso. Che la terra ti sia lieve.
di Francesca Fiorletta
La mia educazione sentimentale è passata attraverso libri assai differenti tra loro.
Il primo pianto, probabilmente, dirotto, l’ho fatto certamente durante l’esemplare morte della sorella Beth in Piccole Donne, di Louisa May Alcott; il primo brivido, per nulla vago, con Agatha Christie, quando vennero rinvenute tracce di noci in uno spray per l’asma, io sono allergica alla frutta secca, e – con tutta evidenza – anche la vittima di quel giallo; il primo, fortissimo, senso di libertà, con Caterina Contini, che in Ipazia e la notte descriveva minuziosamente gli slanci romantici e ribelli della geniale scienziata ante litteram, pure figlia di cotanto padre; la prima pulsione erotica, credo, con gli interminabili amplessi de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, e anche con i “lascia e prendi” degli eroici amanti ne La casa degli spiriti di Isabel Allende. E fin qui, siamo intorno ai dieci anni.

L’ultima epidemia di vaiolo in Europa fu nel marzo 1972. Nei trent’anni precedenti si credeva che la malattia fosse stata sradicata, ma riapparve a Belgrado, allora capitale della Jugoslavia. Un trentacinquenne kosovaro era tornato dal suo pellegrinaggio alla Mecca e aveva portato il virus. 175 persone si ammalarono e 35 morirono.
L’ospedale dove furono sistemati i primi ammalati fu letteralmente sigillato. Le porte, le finestre e la fognatura, tutto venne sbarrato e intorno fu messo un cordone di poliziotti con l’ordine di sparare se qualcuno avesse provato a scappare.
In tutto il paese fu dichiarato lo stato di emergenza, fu introdotta la quarantena statale obbligatoria, limitato rigorosamente il movimento di tutti i suoi abitanti.
In un mese e mezzo furono vaccinati diciotto milioni di jugoslavi su una popolazione di ventun milioni di abitanti. L’epidemia finì dopo due mesi. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità lodò le autorità jugoslave per come avevano soppresso l’infezione.
Dopo giorni di agitazione tutto si calmò, e presto l’evento non fece più notizia, fu rimosso dalla nostra attenzione.
Mi preparavo per un’estate al mare, dopo aver finito il primo anno di università. Ma all’inizio di luglio arrivò il “contrordine del compagno papà”: si va in Turchia.
Con nostro papà si facevano escursioni lavorative e viaggi educativi, per vedere e imparare, mai per divertimento. Tutti in famiglia trovarono qualche scusa per non andarci. Mi opposi anch’io, tirai fuori varie scuse, addirittura il fatto che c’era stata l’epidemia e che poteva essere pericoloso andare in Turchia.
La Jugoslavia era l’unico paese in cui il vaiolo era comparso, ma noi avevamo ugualmente la strana idea che era tutta colpa degli altri e che il focolaio dell’epidemia fosse altrove, “nel sud” o in Oriente.
L’epidemia era sconfitta, il pericolo non c’era più. Mi toccava proprio andare a Istanbul. La partenza fu fissata per metà luglio. Era il 1972.
Eravamo un gruppo strampalato con interessi diversi: papà, io, e una coppia di coniugi suoi amici. La donna ci andava perché voleva comprarsi dei gioielli, o meglio, qualche oggetto d’oro e una collana di perle, il marito l’accompagnava, mio papà voleva vedere un po’ di mondo, ed io mi trovavo lì per forza.
Piuttosto che andare a Istanbul, avrei preferito ascoltare “The Beatles” a Londra, passare insieme alle dive cinematografiche per via Veneto a Roma, passeggiare in minigonna per gli Champs Elysées a Parigi. L’Occidente piuttosto che l’Oriente era la meta preferita dei giovani di allora.
La macchina la guidava papà, l’unico in possesso della patente. Era una “Moskvich 408”, un’auto russa, orgoglio famigliare, la più grande in tutto vicinato. Gli altri, all’epoca, possedevano una Fiat “Cinquecento”, almeno due volte più piccola della nostra.
Papà non era un autista appassionato. La macchina la portava in giro, ogni tanto, “perché non si scaricasse la batteria”, diceva. Nel garage la copriva “per non farle prendere freddo”, scherzavamo in famiglia.
Prima di partire mi dettò i compiti: dovevo occuparmi delle gomme, controllare se erano abbastanza gonfie, tenere i vetri puliti, e fare attenzione alla segnaletica stradale. Quest’ultimo incarico mi lasciò un po’ perplessa. Non avevo la patente, non guidavo, non conoscevo il significato dei segnali stradali. Ma se lo diceva papà!
Dalla Bosnia Erzegovina a Istanbul ci sono circa 1.200 chilometri. La strada passa per la Serbia, attraversa la Bulgaria ed entra in Turchia dalla città di Edirne. Oggi, un autista esperto la può fare, volendo, anche in un’unica tappa. Noi ci impiegammo due giorni e mezzo.
Lasciammo Sarajevo alle quattro del mattino. “Ci è andata bene”, dichiarò papà verso le nove, quando eravamo già vicino a Belgrado percorrendo strade quasi vuote.
Da Sarajevo ci sono due vie principali verso la Serbia. Una che attraversa la Bosnia orientale e va verso il fiume Drina, e l’altra che va in direzione nord, verso il fiume Sava. Noi andavamo verso nord, in direzione di Belgrado. Nella città di Orasje, attraversammo il ponte sul fiume Sava e poi prendemmo l’autostrada detta “Bratstvo i Jedinstvo” (della Fratellanza e Unità) (B&J).
All’epoca l’autostrada B&J era l’unica via moderna della Jugoslavia, anche se aveva solo due corsie, una per ogni direzione. Fu costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta e collegava la Jugoslavia da nord a sud, dal confine con l’Austria al confine con la Grecia.
La costruzione dell’autostrada B&J fu un’opera epica. Vi parteciparono più di trecentomila giovani volontari da tutte le parti del paese e tanti stranieri. Per molti fu anche una sorta di scuola di vita o per la vita. Dopo otto ore di lavoro venivano organizzati vari corsi, anche per analfabeti, e molti ottennero il diploma che cambiò loro la vita.
L’autostrada della Fratellanza e Unità è la via più breve che collega l’Europa occidentale e il Medio Oriente. Negli anni Sessanta ebbe inizio il grande spostamento stagionale dei gastarbeiter, che in tedesco vuol dire “lavoratori ospiti”. All’epoca i più numerosi gastarbeiter in Europa erano turchi, italiani, spagnoli e jugoslavi.
Durante i mesi estivi, per l’autostrada “Bratstvo i Jedinstvo” passavano migliaia di macchine, in entrambe le direzioni. I gastarbeiter turchi avevano pochi giorni di vacanza, tanta strada da percorrere, guidavano senza sosta, giorno e notte, e molti trovavano anche la morte su quelle corsie. Su ambedue i lati della strada erano piantati dei platani, per rompere il paesaggio monotono della pianura pannonica, ma gli alberi erano causa anche di molti incidenti mortali.
Dovettero passare molti anni ed esserci decine di morti, prima che qualcuno si decidesse a tagliare gli alberi “mortali” che fiancheggiavano l’autostrada.
Dopo aver pernottato a Belgrado, il secondo giorno proseguimmo a sud, verso il confine con la Bulgaria. La strada segue il fiume Morava e passa per i distretti della Šumadija e di Pomoravlje. Un paesaggio bellissimo che ricorda la Toscana, tanto verde, con le colline basse, la terra fertile. Più a sud il panorama cambia, le morbide colline lasciano il posto alla Gola di Sićevo (Sićevačka Klisura).
Circa 250 chilometri più a sud c’è la città di Niš. Sotto l’impero ottomano il suo nome era Naissus (“Città delle ninfe”). Là nacque nel 271 d.C. l’imperatore romano Costantino I che costruì la nuova residenza imperiale di Bisanzio e la chiamò Nuova Roma. In suo onore i Romani chiamarono questa città Costantinopoli, l’odierna Istanbul, la nostra meta.
A Niš volevamo vedere un monumento unico nel suo design, la Torre dei Teschi (Ćele kula) che racchiude al suo interno dei teschi umani. Fu fatta nel periodo degli Ottomani, con 950 teschi dei serbi ribelli, come monito a tutti quelli che pensavano di opporsi all’occupazione. Oggi sono rimasti incastonati nella pietra solo una cinquantina di teschi, ma quel macabro monumento fa ugualmente impressione.
L’ultima città serba prima di passare in Bulgaria è Pirot. Da cinquecento anni è il centro della produzione di tappeti tradizionali. I kilim di Pirot, apprezzati per la loro bellezza, varietà dei colori e motivi, sono fatti di lana, sono molto leggeri e resistenti.
Noi andavano in Turchia per comprare gioielli e vestiti da pochi soldi, mentre gli antiquari turchi viaggiavano per la Jugoslavia e compravano, a buon prezzo, i tappeti antichi fatti a Pirot, che noi vendevamo volentieri perché ci piacevano di più le moquette moderne.
Tra Serbia e Bulgaria il confine non è solo amministrativo. Da una parte all’altra della frontiera il paesaggio cambia come se fosse tagliato con il coltello. In Serbia, prima del confine, la strada spacca le montagne, s’insinua con fatica per il terreno duro, avanza quasi a zig-zag, si perde in tante gallerie, è pericolosa, un attimo di distrazione e può essere fatale.
In Bulgaria la strada attraversa la pianura, va dritta e tranquilla. Su entrambi i lati è affiancata da alberi di mele, ordinati, con i tronchi imbiancati, che danno un senso di ordine e pulizia. Dietro gli alberi, si estendono a perdita d’occhio campi coltivati di grano e di mais. In uno di questi dormimmo la seconda notte del nostro viaggio.
Ci fermammo sul bordo della strada per mangiare. Papà dichiarò che era stanco e che non se la sentiva di proseguire. Non sapevamo quanto fossimo distanti dalla città più vicina. La signora brontolava sottovoce, suo marito stava zitto guardando davanti a sé, io fissavo una mela dell’albero e stavo per afferrarla.
Papà intuì le mie intenzioni e, senza guardarmi, mi intimò: “Non ti azzardare!”. Rispettava ancora gli ordini dei partigiani che, secondo i racconti, tenevano così tanto alla disciplina che addirittura fucilavano quelli che prendevano la frutta dagli alberi altrui.
La mattina seguente, il terzo giorno del viaggio, ci svegliammo presto, tutti con la schiena a pezzi, stanchi, arrabbiati, con i vestiti stropicciati. Nessuno guardava l’altro, né proferiva parola.
Da lì in breve varcammo la frontiera tra la Bulgaria e la Turchia. A Edirne, la prima città turca dopo il confine, facemmo una sosta per bere un bel caffè. Nel centro trovammo un bar con la terrazza. Uscimmo dall’auto.
Esaminavo, come mi aveva detto papà, le gomme. Battevo il piede contro la gomma (come avevo visto fare da altri, anche se non sapevo perché e che cosa aspettarmi), e mi accorsi che qualcosa non andava. Alzai lo sguardo e vidi che tutti gli avventori del bar, i maschi, erano ammassati sulla ringhiera e ci guardavano.
Confusi, ci ispezionammo anche noi per un attimo. Fu la signora a capire per prima cosa c’era che non andava. Indossavo, secondo la moda, un paio di pantaloncini corti e attillati, gli “hot pants”, per cui i maschi, dal bar, erano tutti intenti a fissare le gambe di una ragazza poco vestita per le abitudini locali.
“Entra, si parte”, ordinò papà.
I turchi si meravigliavano delle gambe esibite, mentre io mi stupivo nel vedere i carri armati, all’entrata a Istanbul con i cannoni puntati verso la strada (un anno prima l’esercito turco aveva preso il potere con un putsch militare). Io mi stupivo nel vedere le donne paesane vestite in una sorta di doppia larga gonna nera che fungeva anche da copricapo ribaltando uno dei due strati di dietro, nel vedere i turchi bere il tè, piuttosto che il “caffè turco”, come noi bosniaci, dei numerosi monumenti, grandi e importanti che mi facevano capire quanto piccolo e insignificante fosse il mio Paese.
Arrivammo a Istanbul nel primo pomeriggio. Papà accostò la macchina sul bordo della strada per chiedere indicazioni sulla pensioncina che avevamo prenotato. Ferma il primo passante, gli parla in tedesco, quello non capisce, prova con il francese, niente. Frustrato, papà si gira verso di noi e dice in serbo-croato: “Questo qui non capisce nulla”. A quel punto il turco si mette a ridere e, nella nostra lingua, il serbo-croato, ci chiede se eravamo jugoslavi.
Era un discendente dei bosniaci emigrati in Turchia all’inizio del diciannovesimo secolo.
Oggi in Turchia ci sono almeno due milioni di persone di origine bosniaca. Dalla Bosnia Erzegovina i musulmani scapparono dopo la disfatta dell’impero ottomano quando la Bosnia Erzegovina passò sotto il protettorato dell’Impero Austro Ungarico.
I primi bosniaci scappavano perché non volevano stare sotto un governo non musulmano, altri perché temevano per la propria vita, oppure erano convinti che in Turchia avrebbero potuto preservare la propria ricchezza.
Dopo le guerre balcaniche emigrarono anche i musulmani da Sangiaccato, Kosovo e Macedonia. L’esodo continuò per cent’anni. Non tutti lasciavano la casa di propria volontà. La migrazione dei musulmani fu incoraggiata con la politica statale, con la forza, le minacce e le misure amministrative che, secondo i documenti ufficiali, dovevano rendere la vita dei musulmani impossibile, per cui l’emigrazione veniva vista come l’unica soluzione per loro.
In Turchia dovevano cambiare il cognome, ma molti avevano conservato anche il cognome bosniaco, la lingua e le abitudini. Ci sono alcuni villaggi, in Turchia, popolati prevalentemente dai discendenti dei bosniaci dove, dopo un secolo dal loro arrivo, ancora oggi si parla serbo-croato.
Il nostro turco-bosniaco apparteneva alla terza generazione dei bosniaci espatriati dalla città della Bosnia del nord, Banja Luka. Nato a Istanbul parlava ottimamente la nostra lingua, con un accento forte e utilizzando alcune parole arcaiche. Era entusiasta dell’incontro casuale, era molto cordiale, gentilissimo, ci dava pacche sulle spalle e voleva invitarci a casa sua.
Papà, insospettito di questo entusiasmo secondo lui sproporzionato, s’irrigidì, diventò molto formale e pronunciò una serie di risoluti NO: “No, non se ne parla neanche”, “No, grazie”, “No, abbiamo già prenotato”, “No, vedremo”, “No, no, no, forse”.
Quel poveretto, deluso, ci guardava come un bambino che non capisce perché gli proibiscono di fare una cosa innocua. Ci accompagnò all’albergo, lasciò un pezzo di carta con l’indirizzo e il numero di telefono, rinnovò l’invito di andare a casa sua “almeno per una cena” e ci salutò.
Nella camera dell’albergo papà, come prima cosa, buttò nel cestino la carta con l’indirizzo del turco e si pulì le mani come se fossero contaminate, dicendo che “con gli stranieri non si sa mai… chissà chi era quello… meglio stare alla larga dagli sconosciuti… ci sono imbroglioni, ladri…” etc.
Papà mi portava in giro per i posti storici e i musei di Istanbul tenendomi per il braccio sopra il gomito come fanno i poliziotti quando accompagnano le persone arrestate. Di sera, in albergo, ci vedevamo con i compagni di viaggio, la signora mi mostrava le cose che aveva comprato, e io descrivevo le meraviglie che avevamo visto. Invano: a parte le compere, il resto l’annoiava.
Il terzo giorno a Istanbul, tornando in albergo, ci trovammo di fronte il “nostro turco”. Ero contenta di rivederlo, i coniugi pure. Papà, invece, “freddo come uno spritz”, aspettava zitto, presumo delle spiegazioni. Il “nostro turco” voleva invitarci a cena a casa sua. “Sì!”, rispondemmo noi tre all’unisono. A quel punto papà non poteva opporsi, ma era chiaro che l’idea non gli piacesse. Per tutta la serata ci fecero domande su come si vivesse in Jugoslavia, se fossimo liberi di viaggiare, se possedessimo macchine private, case, il telefono, qual fosse la situazione lavorativa, se il regime comunista fosse pericoloso, se si potesse visitare la Jugoslavia e poi poter tornare a casa propria. C’erano le moschee? La religione, era proibita?
Edhem, così si chiamava il “nostro turco”, viveva con i genitori e i fratelli in una bellissima casa affacciata sul Bosforo. Ci accolsero tutti affettuosamente. Si cenava nel giardino con una meravigliosa vista sul mare. Uomini e donne insieme. Si parlava nella nostra lingua.
Ci divertivano le loro domande. Sembravano quelle che fanno i bambini su cose e fatti ovvi. “Certo che si può visitare… è ovvio che abbiamo il telefono… naturalmente che nessuno vi ferma per forza… macché regime, da noi si vive, lavora e viaggia liberalmente”, rispondevamo noi.
Verso la fine della serata, Edhem timidamente chiese: “Posso venire con voi? Mi piacerebbe visitare la Jugoslavia, ne ho sentito tanto parlare ma non ci sono mai stato.”
Tutti noi, insieme ai padroni di casa, guardavamo mio papà aspettando il suo giudizio. Seguì un attimo di silenzio, troppo lungo, a mio avviso.
Mi piaceva il “nostro turco” e mi piaceva l’idea di portarlo in Jugoslavia con noi, di fargli vedere il nostro paese, le nostre città, il nostro modo di vivere.
Fissavo papà, anzi lo supplicavo con lo sguardo.
“Ma certo”, disse papà sorridendo, come se non avesse mai avuto alcun dubbio sul “nostro turco” fin dall’inizio.
Dopo cinque giorni a Istanbul eravamo sulla strada del ritorno. Il “nostro turco” stava seduto dietro tra i due coniugi. Contento, sorridente, disponibile, di buon umore. Canticchiava.
E canticchiò instancabilmente, per due giorni, quanto durò il nostro viaggio di ritorno. Da lui, sentii per la prima volta l’antica canzone popolare bosniaca “Put putuje Latif-aga”, che parla di un abitante di Banja Luka che sta per partire per un lungo viaggio, saluta tutti e non sa se potrà mai far ritorno.
Articolo pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso

di Gianni Biondillo
Kamel Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, 130 pag, 2015, traduzione Yasmina Melaouah
C’è un uomo, un algerino, che parla, in una bisca di Oran. E c’è un ragazzo che lo ascolta. Probabilmente uno studente francese, che ha nella sua borsa Lo straniero di Albert Camus. L’uomo ha voglia di raccontargli una storia. Lui è il fratello del morto. Sì, proprio “l’arabo” che muore nel romanzo di Camus. Romanzo geniale – secondo l’autore di questo contro-romanzo, Kamel Daoud – ma anche romanzo crudele, che non si degna neppure di dare un nome e una identità alla vittima. “L’arabo”, viene chiamato da Camus. Una funzione narrativa, non una persona.
Sta in questa idea semplice e geniale il fulcro de Il caso Meursault. Un romanzo che vuole essere come un risarcimento per tutte le vittime dimenticate. Rileggere la storia dal loro punto di vista. Dare loro un nome, una identità, un passato.
Il romanzo è una lunga e confusa confessione dove non si segue un preciso ordine cronologico. Molte delle riflessioni, politiche, filosofiche, religiose, della voce narrante sono evidentemente riflessioni dello stesso autore, cosicché personaggio e scrittore sembrano sovrapporsi. E, per aumentare la confusione dei piani narrativi, spesso, si cade nel paradosso di sapere che il morto di cui si parla è un personaggio letterario, morto solo sulla carta, ma che la voce narrante (personaggio tanto quanto) tratta come avesse vissuto e incontrato per davvero la morte su una spiaggia algerina per mano di un francese che ha fatto la sua fortuna letteraria grazie a quell’omicidio.
L’idea potente che regge tutto il romanzo è però anche il suo limite. Senza conoscere il romanzo di Camus si perde molto del continuo dialogo filosofico che Daoud intesse idealmente con il collega francese. Il caso Meursault, essendo una controinchiesta, dà per scontata la lettura del romanzo a cui si ispira, perdendo così una autonomia che ogni opera dovrebbe pretendere per sé.
(pubblicato su Cooperazione n° 48 del 24 novembre 2015)

di Orso Tosco
Le montagne dalle cime arrotondate scendono verso il mare trasformandosi in una valle di pietra e sabbia coperta da pietre e sabbie di colore diverso. Intenso è il lavoro del terriccio e della ghiaia per indagare le tonalità dell’ocra. Nel centro esatto della valle, lungo i bordi del sentiero che dal nulla delle montagne conduce al nulla del mare, le pietre sono chiare e grigiastre, quasi color della cenere. Quasi, perché del giallo si fa strada, come a creare un impasto di cenere e grano sbiadito. Ma subito dopo, poco oltre, in un punto che si potrebbe raggiungere anche solo sputando, il grigio giallognolo lascia spazio a un’ocra virato al viola. Un tono morbido e cupo, da lavanda fuori stagione, un viola ampio e fragile che in qualche modo sa di muschio, e che in certi momenti della giornata, specie quando il sole si lascia portare altrove, fa credere che persino il deserto abbia dei rimpianti.
I boschi, appunto. E le ombre perenni. La neve, persino.
Ma ecco che continuando a scendere la sabbia e la pietra acquistano un tono più uniforme, da legna asciutta, un marrone pieno e stabile che è lì per smentire i rimpianti, come dopo una crisi, come si beve un sorso d’acqua dopo un brutto sogno per tentare di tornare a dormire senza paura.
Apparentemente disordinati e casuali appaiono i bassi, rari cespugli secchi, quasi verdi, quasi grigi.
Forse si tratta di costellazioni, ed è soltanto a causa della pigrizia e della sbadataggine di chi li osserva se il disegno complessivo rimane sconosciuto: incomprensibile partitura del deserto, melodia aliena che il vento confonde oppure protegge soffiando senza sosta, lasciandola sottotraccia.
Il vento è forte, teso, trasporta manciate di sabbia e con quelle flagella i corpi dei due uomini seduti sotto l’ombra dell’unico albero presente nel raggio di chilometri. I due uomini di tanto in tanto si puliscono la bocca e gli occhi, inutilmente. Dimostrano un’età sicuramente diversa da quella reale, ed è quindi superfluo citarla. Basti dire che i loro volti sono di cuoio vecchio, i vestiti che indossano sembrano essere stati dissotterrati da poco, e una patina grigiastra ricopre le loro camicie, forse verdi, e i pantaloni di tela, i sandali.
-Ho le labbra sempre rotte perché dico bugie.
-No. È colpa del sole, del troppo sole.
-Se tu hai ragione, allora, lo vedi, ho ragione anch’io.
I due uomini sono appoggiati contro il tronco scheletrico dell’albero, provano a ripararsi sotto l’ombra sottile e frammentaria offerta dai magri rami, così asciutti, così aguzzi da sembrare gigantesche fauci sbrecciate. L’uomo dalle labbra rotte è rivolto verso le montagne, l’altro verso il mare, dove sono diretti.
La valle che dirada verso la costa appare rossa e pulsante, con aree gialle e parti color ruggine, seguite da linee di vegetazione sbiadite, un grigio che tende al bianco, al bianco delle garze.
Di solito, chi riposa sotto quest’albero e ha gli occhi fissi verso la costa, è colui che non riuscirà a raggiungerla. Perché questo è un luogo che richiede tenacia, una tenacia feroce, ma che disprezza ogni volontà troppo chiara, troppo esibita. Questo è un luogo che esige la fatica, lo sforzo, ma soltanto quel tipo di sforzo che è proprio delle cime da ormeggio, quando sono costrette a trattenere il peso delle barche che la corrente e il vento e le onde vorrebbero strappare al molo e che, seppur impegnate in uno sforzo immane, non producono altro che uno stridulo, strozzato miagolio.
L’uomo che si pulisce la bocca dalla sabbia e prova a sputare senza riuscirvi e guarda verso la costa, ha voglia di arrivare. Ha bisogno.
Ed è proprio questa voglia, questo bisogno, che glielo impediranno.
O forse, forse l’uomo che non riesce a sputare ce la farà. Arriverà fino a noi, Dottore.
E lei, pur conoscendo già la risposta, mi domanda il perché. Lei che è venuto via mare, con la bocca umida la testa all’ombra e le mani morbide da bambino, lei mi domanda: perché questi uomini e queste donne mettono a rischio le loro vite per arrivare fino a noi? La verità, come spesso accade Dottore, è poco più di un bicchiere vuoto osservato da lontano, troppo da lontano per sapere se qualcuno abbia bevuto ciò che il bicchiere conteneva, o se invece il bicchiere non sia mai stato riempito.
Dovrei tornare indietro nel tempo, per risponderle. Dovrei ricordare il motivo che mi spinse a fuggire. Ma anche il motivo è distante. Non bicchiere ma grumo, matassa di piante nemiche le cui radici affondano nel terreno e in altri casi sbucano dai muri in pietra, persino dall’acqua.
Difficile separarle tra loro, le ragioni della mia fuga, difficile persino giudicare, ormai, dove sia iniziata una decisione e dove un’altra sia terminata o cambiata.
Sono nato in un paesino bello per essere bambini o vecchi. Lo abbandonai a vent’anni e scelsi di vivere nelle città del Nord. Lo ricorda lei il Nord, Dottore? Forse è troppo giovane per ricordarlo. Era fatto di terra sempre bagnata e mattoni, di avena e cibi cresciuti nel fango. Spesso era composto di isole e coste abbaglianti contro cui s’infrangevano onde nere e grigie, sovrastate da cieli bassi e bui. Il verde dei prati bastava da solo a togliere la sete. Erano terre di banchieri e donne dalle splendide cosce bianchissime, liquori, migrazioni incessanti e difficili.
Vissi nelle città del Nord facendo lavori stupidi che giustamente nessuno ricorda più. Non ero abbastanza abile per ottenere quelle soddisfazioni che m’illudevo di meritare e nemmeno sufficientemente stupido o saggio per non dolermene. Scelsi allora di andare via.
Lavorai in una fabbrica di dolciumi in cui venivano prodotte caramelle gommose destinate agli orfani e ai mutilati. Realizzare caramelle è come scrivere poesie, credo. In entrambi i casi si lavora sugli scarti, o comunque su prodotti iniziali che vengono poi trasfigurati a risultato compiuto. Per fare caramelle si raccolgono assieme tendini, miscugli poco nobili di sostanze chimiche, avanzi di dolcificanti, midollo, coloranti, e tutto viene tritato assieme. Dunque si cerca di dare una forma e un colore gradevoli a questo impasto, modellandolo a forma di banana, orsacchiotto, oppure si lavora nella geometria, nell’astrazione, producendo cerchi, linee, persino linee attorcigliate e scure che sembrano la forma fossile del DNA umano. Non ha mai mangiato caramelle Dottore? Erano già finite? Poco male.
Io, comunque, venni licenziato nonostante quel lavoro mi piacesse: era meschino e futile, eppure mi dava l’impressione di partecipare a un processo alchemico, quasi magico. Era divertente osservare ciò che ribolliva nelle vasche, mi dava gioia essere vittima del senso di nausea causato dai fumi: a quei tempi, deve sapere, andava di moda credere che l’utilità personale di una persona povera, fosse direttamente proporzionale al disgusto provato nel compiere l’attività che le permetteva di restare povera. Svolgere mansioni detestate, e spesso inutili, a fronte di scarse retribuzioni, veniva considerata una condizione sacrosanta ed essenziale per far parte di quella che veniva allora definita società. Non le so dire esattamente da cosa nascesse questa moda o credenza popolare. Le posso dire però che era molto diffusa.
In ogni caso venni licenziato. Dopo il licenziamento decisi di spostarmi verso Sud. Procedevo in senso opposto rispetto alle carovane che tentavano di raggiungere e superare le barriere del Nord, sempre più massicce, aggressive, impenetrabili. Furono giorni di carestia e rappresaglie, le campagne erano devastate, le strade contenevano a malapena il flusso di corpi in marcia, i roghi lambivano gli accampamenti provvisori, con le baracche sorrette dai teli di nylon laceri e le tende. Forte era l’odore della febbre e quello delle erbe bollite. Poco distanti dagli accampamenti, le carcasse dei cani, precedentemente utilizzati nelle cucine di fortuna, venivano ammassate a formare gigantesche cattedrali sempre sul punto di crollare e mai del tutto crollate.
Fu un sollievo raggiungere le città del Sud. Le deserte, calme, pestilenziali città del Sud. Lei non può sapere quanto piacere provai nell’osservare quegli edifici morbidi, bianchi come meringhe. Dopo così tante lamiere, dopo così tante urla e barricate, mi sembrò di aver raggiunto luoghi mortali ma dissetanti, mi pareva di poterle bere, le città del Sud, con le loro piazze vuote e alberate e l’odore di fiori marci nell’aria, i cortili interni, Dottore, i cortili interni e le ossa dei gatti, le fredde scale di pietra e le piastrelle lucide dei bagni pubblici.
Fu allora che la incontrai. Di notte. Mentre dormivo sdraiato in terra, stordito dalla fame, lei mi venne vicino. Si sedette vicino a me e mi raccolse come si raccolgono gli oggetti preziosi e quasi perduti, con mano generosa, con dita riconoscenti. E io mi sentii fortunato Dottore, perché sapevo di non essere prezioso, ma avevo così tanta voglia di non ricordarlo più, d’illudermi di essere altro, un altro, qualcosa di nuovo e inaspettato. Ed è ciò che lei mi fece provare, risvegliandomi con una breve pressione della mano sulla spalla e offrendomi un frutto lungo e storto, sbucciato soltanto a metà, fresco, quasi ghiacciato. Era una donna dall’aspetto sgradevole, sgradevole e necessario. Non parlammo di nulla. Camminammo attraverso il centro storico della Città del Sud, un labirinto di pietra e terrazze malandate senza punto d’ingresso e senza possibilità d’uscita, silenzioso, mollo, distorto appena da alcuni rantolii provenienti da cantine sotterranee. Non m’innamorai di lei, Dottore, se è questo che vuole sapere. Nessuno s’innamora di lei. Noi tutti, noi tutti che l’abbiamo incontrata, abbiamo bisogno di lei, ma non l’amiamo affatto. Abbiamo bisogno di lei perché averla vicina significa interrompere una malattia, significa provare una sensazione stupenda, che soltanto colui che si è salvato appena in tempo da una dissenteria mortale può comprendere. Lei, la donna dall’aspetto sgradevole e necessario, controlla le ghiandole e il respiro, il sudore e il flusso sanguineo, in lei si dimentica la sete, e dimenticando la sete si riposano le ossa e si riposano le tempie: è tutto in ombra, con lei e in lei, un’ombra salvifica che salva fingendo di non saperlo, quando tutto il resto è sole immenso e duro, parco giochi abbandonato che si chiude in se stesso e crolla come un gigantesco fiore secco e croccante.
Ma lei si addormenta Dottore. La faccio addormentare. Sicuramente è colpa mia, no, non mi contraddica; la colpa è mia, è spesso mia. Ho esagerato nel parlare di lei. Ma l’ho fatto cercando di rispondere alla sua domanda, alla sua curiosità. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario è il motivo per cui sono giunto sino a qui. La sola notte trascorsa assieme nel centro storico della Città del Sud è bastata a farmi capire che avrei seguito i suoi consigli, i suoi suggerimenti; i suoi ordini.
Attraversai il deserto, come stanno provando a fare quei due sotto l’albero, perché lei mi diede appuntamento qui, in questo paese costruito tra le rocce, in questo paese dalle case senza spigoli, in questo paese senza ombre, esposto al mare e al sole e al cielo stellato.
Rischiai di morire, nel deserto, come tutti, come tutte. E come tutti e tutte pensai che forse, forse la donna dall’aspetto sgradevole e necessario mi aveva teso un tranello, invitandomi a raggiungerla nell’unico villaggio della costa, che forse lei, durante quella notte di passeggiate e pressioni della mano, non aveva fatto altro che ingannarmi e che, mentre io rantolavo sulla terra scura e sulla sabbia, lei fosse appostata da qualche parte, e mi guardasse, e ridesse di me e dei miei sforzi. Un pensiero di questo tipo avrebbe dovuto gettarmi nella sconforto, avrebbe dovuto farmi infuriare, e invece io provai una calma improvvisa. Quasi che qualcheduno, o qualcosa, mi avesse appena sussurrato all’orecchio una risposta a lungo cercata e a lungo, troppo a lungo mai trovata. Mi misi immediatamente a scavare, in un punto poco distante dall’albero sotto il quale quei due uomini riposano oppure si spengono. Scavai con le unghie, e finite le unghie scavai con la carne. Non sapevo cosa avrei trovato, ma sapevo che avrei trovato qualcosa. Mi bastava. Mi diede la forza necessaria per andare in profondità, oltre i colori della sabbia e le tonalità della terra. Raggiunsi il letto del deserto, un banco d’argilla nera e umida. Dentro l’argilla trovai piccole radici, poco più grandi di un mignolo, trasparenti, con un punto scuro al centro del corpo simile a una vescica. Le mangiai, me le feci esplodere in bocca come fossero gocce di pioggia. Avevano un gusto leggermente salato. Mi rannicchiai nella buca, schiacciai il viso ustionato contro l’argilla nera, provai la necessità di piangere e vomitare e pisciare e masturbarmi e cacare, e al tempo stesso il bisogno di aspettare, di non fare nulla, di vivere quel conflitto interno, di navigarlo, di lasciare che il conflitto stesso, quel contorto grumo di bisogni, si esprimesse per conto proprio, intatto, senza nessun mio intervento che non fosse l’attesa.
Il vento crebbe in intensità, impose alle nuvole di lanciare ombre sulla terra, ombre veloci e scure, simile al manto di un felino. E le nuvole trascinarono via il sole, lasciarono la notte a prendersi cura di me e del deserto silenzioso.
Il giorno successivo raggiunsi il villaggio. Gli abitanti mi avevano visto camminare nel deserto e si dissero felici di sapere che il deserto non mi aveva spento. Ci vollero mesi, forse anni, per scoprire che tutti gli abitanti del villaggio erano ugualmente in attesa della stessa persona che mi aveva spinto a andare laggiù. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario era la ragione per cui ci trovammo, e ancora ci troviamo, a vivere assieme. I più sensibili e i più permalosi col passare del tempo hanno iniziato a rinnegare le loro motivazioni, certi dicono di essere nati e cresciuti in questo posto, e che nessuna donna ha detto loro di fare alcunché: si spacciano come pescatori figli di pescatori, oppure avventurieri, ricercati dalla polizia in fuga. Io ascolto le loro bugie e do loro ragione. Che senso avrebbe costringerli a dire la verità davanti a me? Quando io stesso, e tutti gli altri, li ascoltiamo piangere e pregare di notte, affinché lei rispetti la parola data e venga a noi.
È questa la storia del nostro villaggio, una storia di promesse e attese, nel deserto, davanti al mare.
E lei giustamente penserà che siamo degli sciocchi, non è forse vero? Ma cosa c’è, mi dica, cosa c’è di più dolce che essere degli sciocchi in penombra? Lei, lei sa proporre di meglio che far finta di essere stati amati, e restare così, come gomitoli di lana sulla pietra, così, come nuvole apparecchiate per una cena eternamente rimandata? Sa far di meglio, lei, nascosto dietro i suoi occhiali da sole che riflettono un’adolescenza infinita e guasta?
Oh, Dottore, ci fosse meno correttezza nelle diagnosi e maggiore precisione nella compassione, non sarebbe forse bello? Sapessimo dire le cose giuste, poche cose, simili al silenzio, ma a un silenzio che non è restrizione, un silenzio naturale, che sgorga come acqua da una sorgente, come fiato, Dottore, come l’ultimo o il penultimo respiro prima di annegare.

di Ornella Tajani
Althénopis di Fabrizia Ramondino, recentemente riedito da Einaudi, si apre con l’apparizione folgorante, numinosa, di una vecchia sempre vestita di nero e avvolta da vivaci fiamme variopinte, còlta mentre attraversa con incedere impetuoso, disordinato eppure ancora erotico, la piazza del paese. È la nonna della narratrice, uno dei personaggi più attraenti del romanzo, indimenticabile quando smette di occuparsi dei poveri e sceglie di dedicarsi alla cucina, mettendo a soqquadro mezza casa e inaugurando una festa di creme favolose, fritti e millefoglie, per la gioia dei nipoti e la rabbia degli adulti, costretti alla parsimonia dalla guerra. La sua entrata in scena è una visione, come chiarisce la primissima delle molte note a piè di pagina in cui l’autrice interviene con commenti, parziali spiegazioni linguistiche o filologiche, fantasiose glosse: «Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare. Né però spiegare».
È una visione baluginante questa della nonna, che torna in seguito a illuminare altri passaggi del romanzo, fungendo spesso da termine di paragone con la madre dell’autrice, molto più riservata e ombrosa, molto più Madre, con la maiuscola che le sarà attribuita nell’ultima parte del romanzo, in quel momento capitale della formazione della Figlia in cui il ruolo inghiotte la persona. Basti ricordare la differenza fra le mani dell’una e dell’altra genitrice: «L’odore della mano della nonna, di incenso, olio, polvere, cera e fiori, mi calmava; la mano di nostra madre era invece inquietante, pareva sempre cancellare “sciocchezze”, lavare via qualcosa, fresca e odorosa di sapone».
Questa visione, non dimenticabile e non spiegabile, incisiva e quasi ultraterrena, con quel tocco di realismo magico che spesso si ritrova nelle infanzie vissute in qualche sud del mondo, scandisce sin da subito il passo della scrittura di Ramondino, che alterna dettagliate descrizioni dal respiro lento a esplosioni ricche di potenza immaginifica, attraverso le quali s’indovina, nelle parole dell’adolescente, la donna che verrà e che nel 1981 firmerà, ormai già ultraquarantenne, questo suo primo romanzo. Althénopis è un’altalena di paesaggi campani e costieri, una folla di familiari dai nomi greci e altisonanti (Alceste, Callista, Adone) o farciti di stucchevoli diminutivi (Ninì, Chinchino), una sfilata di ambienti e arredi quasi dotati di vita propria, come quei mobili pieni di cassetti e storia, che già per Rimbaud erano un piccolo tesoro nascosto in «un fouillis de vieilles vieilleries». Si tratta però di un’altalena spesso interrotta da un io che straripa dalle note a piè di pagina e si allarga nel testo «come una pianta che crescesse a dismisura». È questo io che con pazienza spiega al lettore i termini castigliani o partenopei del suo lessico famigliare (l’autrice ha vissuto la prima infanzia a Maiorca), o che, fingendo di chiarire, confonde le acque dell’etimologia che trasforma Napoli in Althénopis, in un lungo gioco di toponomastica creativa, o che, ancora, sceglie di intervenire spumeggiante e caustico con una postilla storica o culturale come la seguente, vale la pena citarla per intero:
Sebbene allora la moda non fosse un fatto di massa come oggi, il buon gusto nulla o quasi nulla aveva a che fare con essa. Tutte le edizioni di Gallimard erano di buon gusto, tutto Wilde e Shaw; riservati ai pedanti i classici latini e greci. I merletti (coperte, centrini, colletti, copricuscino) non erano più apprezzati; lo erano invece i tessuti orientali e contadini; non però le cineserie. I mobili ottocenteschi ammessi, gli altri in stile, tranne che nelle antiche case patrizie, erano visti con sospetto; lo stile Liberty e quello 1930 era per nuovi ricchi, per amici dei gerarchi, non per quelli della ex casa regnante. Le signore che andavano in chiesa nascondevano questa debolezza. I neonati non dovevano tenerli in braccio le ciociare, ma le schwester svizzere. Bene i cani, ma non i gatti. I cammei e i coralli erano tabù. Si dovevano ascoltare Wagner e il jazz, ma non Verdi e Beethoven. I pianisti non erano più apprezzati tranne, in privato, Renato Caccioppoli, un matematico di fama internazionale. Il dialetto tollerato solo nei patrizi di antica nobiltà. I tailleur erano di tweed, il principe di Galles abolito. Il visone selvaggio, non l’astrakan. Avere più di tre figli era volgare. Non era più chic morire di tisi.
Nonostante il titolo, Althénopis non è un romanzo su Napoli, che anzi compare più che altro a sprazzi, così come la guerra resta soprattutto un’eco; Napoli è perlopiù lo sfondo in lontananza, è la città che sempre definisce per contrasto lo spazio circostante, l’agglomerato più o meno informe dei paesi per i quali il faro non può essere che uno.
Con una lingua che ama spingersi ai limiti della sintassi, usando la scrittura come uno strumento abituale eppure alla sua prima prova letteraria, Althénopis è una successione di quadri narrativi che soltanto visti dall’alto rivelano il movimento complessivo della formazione dell’autrice, perché di formazione non si può evitare di parlare, dato che la scena finale – il cui tono allegorico è sottolineato, come già detto, dalle lettere maiuscole – è la morte della Madre, la quale trapassa «come un capo tribale». Questa però è soltanto la chiusa di un libro che racconta piuttosto «quelle lunghe stagioni infantili, – come opportunamente si ricorda in quarta di copertina, con le parole di Natalia Ginzburg – che parevano eterne ma sospese nella perenne attesa d’uno scompiglio, d’uno sgombero, d’una partenza, d’un prossimo esilio»; stagioni spesso del colore dell’estate, che in napoletano è la Stagione per antonomasia, forse perché costituisce l’intervallo che scandisce lo scorrere degli anni, o forse perché è il tempo straordinario in cui tutto può succedere.
[F. Ramondino, Althénopis, prefazione di Silvio Perrella; Torino, Einaudi, 2016, € 23]
di Fabio Rea
Salire al patibolo e sentire il tuo odore che marcisce sottoterra. Un condannato a morte è un poeta, scalino, dopo scalino, con le tue ombre e i tuoi fantasmi che stavolta hanno vinto, ti stringono i polsi, ti segano la pelle, bruciano sotto le tue ferite. Sei stato schiacciato dai tuoi incubi, Jan, ed ora ti aspettano.
Di Andrea Inglese
Questo intervento ha un obiettivo specifico. Voglio cercare di mostrare che combattere l’islamofobia, o forme di razzismo esplicito antiarabo, che prosperano nell’opinione pubblica occidentale, non implica disconoscere o mettere in sordina la battaglia per la laicità, che considero sia, ovunque nel mondo, attraverso espressioni che possono avere storie e forme diverse da cultura a cultura, una precondizione indispensabile per una visione radicalmente democratica della società.
di Antonio Sparzani

Sembra che d’estate ci si possa concedere di darsi anche a letture cosiddette leggere, non so perché, veramente, visto che appunto d’estate si ha più tempo anche per meditare su letture più impegnative. Io comunque mi dedico, per esempio, a Thomas Mann, ma, per variare, ho pensato di concedermi una lettura che, dal titolo, certo suonava più leggera: si tratta del volumetto Noleggio arche, caravelle e scialuppe di salvataggio di Riccardo Ferrazzi (Fusta editore, 2016, € 13,00, ottima prefazione di Giuseppe Panella). Veramente c’è un sottotitolo – breve discorso sul mito – che dovrebbe avvertire che non di frivolezze si tratta bensì di riflessioni di peso e di interesse ben maggiori.
di Ilaria Seclì
.
andando via dal tempio velatevi il capo,
slacciatevi le vesti e alle spalle gettate le ossa della grande madre
Ovidio, Metamorfosi, Libro I
la palude ha voce, annega
l’albero ammaestra la frusta
metallo di collana nel sangue
il pastore in fumi fiamminghi riparerà
nella casa i piedi e la pupilla nel paiolo.

Il Comune di Caorle
in collaborazione con Libreria Diffusa presenta
FLUSSI DI VERSI 9a Edizione Festival di poesia
26/27/28 Agosto 2016
—————————-
PROGRAMMA
Venerdì 26 Agosto
17:00/18:00
Caorle tra i dialetti.
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco
Ospiti: Luciano Cecchinel presentato da Paolo Steffan Luigina Lorenzini presentata da Giuseppe Nava
20:00-22:00
Reading e letture di
Marthia Carrozzo Francesco Terzago Giacomo Sandron Giovanna Frene Alfonso Maria Petrosino
Lello Voce & Frank Nemola
Sabato 27 Agosto
11:00 Laboratorio di poesia e lettura ad alta voce per bambini e genitori.
A cura di Dome Bulfaro
13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.
A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa) Interventi di: Franco Buffoni (poeta e traduttore)
Maria Borio (Nuovi Argomenti) Luigi Socci (direttore artistico de La Punta della Lingua)
16:00 Inaugurazione della mostra di Dino Ignani
“INTIMI RITRATTI, i volti dei poeti”
17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco Ospiti: Fabio Franzin presentato da Julian Zhara
Giacomo Vit presentato da Francesco Terzago
19:00 Performance “Golden Hour”
di Tiziana Cera Rosco
21:00-22:00 Reading e letture di
Dome Bulfaro Franca Mancinelli Tommaso di Dio Francesca Matteoni Maria Grazia Calandrone Luigi Nacci
Domenica 28 Agosto
05:30 Performance “Golden Hour”
di Tiziana Cera Rosco
06:00 Le notti chiare erano tutte un’alba.
Letture dei poeti soldati nella Prima Guerra Mondiale al sorgere del sole.
11:00 Laboratorio Poesia e Fiaba per bambini e genitori
A cura di Francesca Matteoni
13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.
A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa)
Interventi di: Gian Mario Villalta (direttore artistico Pordenonelegge) Francesco Forte (Oedipus Edizioni)
Laura Liberale e Francesca Diano (Carteggi Letterari)
17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco
Ospiti: Piero Simon Ostan presentato da Christian Sinicco Ivan Crico presentato da Giuseppe Nava
19:00 Premiazione a Franco Buffoni
20:00-22:00 Reading e letture di
Bernardo Pacini Andrea De Alberti Maria Borio Luigi Socci
Gian Mario Villalta Franco Buffoni
22:00- 22:45 Hip Hop Poetry
Concerto di Eell Shous
22:45-23:30 Electric Poetry Party.
A cura del pj luigisocci
POESIA ESPRESSA durante tutto il Festival, in Piazza Papa Giovanni un poeta a turno, scriverà delle poesie espresse per i passanti.
La mostra di Dino Ignani “INTIMI RITRATTI, il volto dei poeti” ci sarà per tutti e tre i giorni consecutivi. Inaugura Sabato 27 alle 16:00 Centro Civico di Caorle, Piazza Vescovado.
Le letture e i reading avverranno in Piazza Vescovado (in caso di maltempo le letture si sposteranno nel Centro Civico di Piazza Vescovado)
Il reading di poesia dialettale si terrà sotto i Portici del Centro Civico in Piazza Vescovado L’Electric Poetry Party e L’Hip Hop Poetry si terranno al Bafile Gran Cafè, piazza Matteotti 1
La PERFORMANCE DI TIZANA CERA ROSCO avverà al tramonto sul lungomare della Spiaggia di Ponente. All’alba sul lungomare della Spiaggia di Levante.
Organizzazione: Libreria Diffusa Direzione artistica Julian Zhara Ufficio Stampa Alessandro Burbank
Contatti flussidiversicaorle@gmail.com
di Francesca Fiorletta
anche oggi ho visto qualcosa
che di continuo ritorna
anche oggi ho visto qualcosa
indistintamente
Pubblicato ad aprile 2016 da Nino Aragno Editore, nella bella collana i domani, curata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno, Tutto accade ovunque è l’ultima raccolta poetica di Italo Testa.

di Andrea Inglese
Ho letto Il Galateo in Bosco molto giovane e ovviamente poco ne capivo. Non ricordo neppure se fosse il primo libro che mi trovassi a leggere di Zanzotto, ma ancora oggi, passati molti anni, e sedimentate molte letture, Il Galateo è come se rimanesse, per me, il libro di Zanzotto, il libro riassuntivo ed esemplare, quello che, alla fine, ho letto più spesso, e quello che ho sempre nuovamente voglia di leggere. È senza dubbio un libro legato al percorso auto-iniziatico della poesia, e custodisce, quindi, quelli che, molto presto, considerai dei valori fondamentali del testo poetico moderno e contemporaneo: oscurità e godimento.