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Cinque matti alle crociate: un islamista e un medievista provano a capirci qualcosa

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

(Il dialogo aiuta. Ci siamo messi a parlare, ci siamo dati una grammatica. Che poi da piccoli volevamo essere Wu-Ming pure noi. Di recente abbiamo scoperto che invece eravamo Arya Stark, ma non ci abbiamo più l’età per fondare un collettivo)

Lorenzo. Stavolta l’assassino ha detto “Allah akbar” proprio alla fine, prima di venire ucciso. Beveva, amava la salsa, non faceva il digiuno, nessuno l’ha mai visto in moschea, a Nizza. Era un violento che picchiava la moglie, era stato in prigione per reati comuni, aveva debiti. Ciò che lo lega all”integralismo islamico” sarebbe suo padre. Il quale, rivelano, in Tunisia è iscritto a Ennahda, cioè quel partito che dopo la rivoluzione del 2011 ha governato la Tunisia per qualche anno, ha perso le elezioni, è passato all’opposizione, ha formato un governo di coalizione coi vincitori, ha sancito nelle ultime settimane la propria separazione dalla famiglia dell’islam politico, da cui proviene. O sarebbero non meglio identificati “parenti” – con i quali non aveva più rapporti da anni – che “sarebbero stati condannati durante il regime di Ben Alì, e avrebbero poi approfittato dell’amnistia per uscire di prigione” (cit.). Incidentalmente dal padre dell’assassino veniamo a sapere qualcosa che un padre generalmente sa: suo figlio era un depresso. Forse avremo contezza di cosa c’era in casa sua, nel suo computer. Troveremo certamente qualcosa che riguarda lo Stato Islamico, il suo “percorso di radicalizzazione” che, ancora da quanto dichiarava ieri Cazeneuve, sarebbe avvenuto “très rapidement”.

Anatole. Il profàilin del terrorista che emergeva già nelle prime ore di venerdì da un articolo del Guardian lascia in effetti piuttosto disorientati. Innanzitutto non si capisce bene se Lahouaiej Bouhlel fosse cittadino francese di nascita tunisina o tunisino con permesso di lavoro in Francia. Secondo poi emerge che trattavasi di avvenente criminale da strapazzo, vagamente somigliante a Clooney, con una confermata passione per la salsa e la figa. In terza istanza, ma forse è il dettaglio fondamentale, scopriamo anche che “non salutava mai”, anzi era spesso piuttosto imbronciato.

Lorenzo. Né la cosa ha preso un aspetto più spiegabile col tempo. Alla fine si è capito che era tunisino con ex-moglie francese di origini tunisine. Divorziato e incazzato per questo. Ma appunto diciamo che il profilo non cambia di molto. Capiamo che andare a vedere cosa diceva nel 1938 il fratello di suo nonno non porta a granché, cioè, non viene fuori il ritratto morale di Saladino tracciato da Ibn Shaddad nel Nawadir Sultaniyya, diciamo. Forse serve a rafforzare il pregiudizio di conferma di qualche islamofobo. Certo potremo provare a farne letteratura, a un certo punto, con risultati sicuramente discutibili. È la sindrome del cronista che voleva fare lo scrittore di gialli hard boiled.

Anatole. Nel disperato tentativo di collegare questo personaggio equivoco al Califfato, a poche ore dai fatti e senza alcuna rivendicazione pervenuta, Le Figaro si affretta a spiegarci che «en septembre 2014, un important cadre de l’Etat islamique appelait ses partisans à utiliser n’importe quel moyen pour tuer, y compris des véhicules-béliers». Quello che a noi sembrava una versione sbroccata debbrutto di GTA San Andreas, è in realtà quasi una fatwa di un importante “quadro” dello Stato Islamico, che con tutta probabilità scoatta pure lui al celebre videogioco sul telefonone. La notizia è l’Isis e ce lo devi mettere per forza, roba che davvero, paradossale quanto possa sembrare, Guglielmo di Tiro nel XII secolo mantiene margini di maggiore obiettività deontologica, fin dal titolo, forse proprio perché mette i fatti in prospettiva storica.

Lorenzo. Di sicuro se in Francia fosse in ruolo il reato di “integralismo islamico” così come viene definito da Meloni&friends in una petizione popolare che avrebbe l’ambizione di essere discussa in parlamento, propagandata in pompa magna con tanto di poster giusto il 14 luglio, non avremmo evitato la strage. Certamente avremmo dato un argomento in più a uno come Mohamed Lahouaiej Bouhlel. Avrebbe pensato che questa sua radicalizzazione lampo poteva avere ancora più senso. Avesse connotati di realtà, a fronte di un crimine che stava per commettere.

Anatole. Comunque la Francia, nel suo tentativo di voler somigliare all’idea che la Francia vorrebbe avere di sé stessa, se ne avesse una, coniuga la Marianne con Luigi IX, in un sincretismo che definirlo postmoderno è riduttivo. Secondo la scaletta della narrazione a una certa Méssier le Presidànt deve orientare lo storitèllin dei tragici fatti, spiegandoci nei seguenti termini come un corriere sui trent’anni alla guida di un TIR abbia ammazzato circa ottanta persone: «la France a été frappée le jour de sa fête nationale, le 14-Juillet, symbole de la liberté, parce que les droits de l’homme sont niés par les fanatiques et que la France est forcément leur cible». Siamo già apertamente nel campo dello scontro di civiltà, anzi, della civiltà conquistata liberando la Bastiglia, contro la barbarie di chi nega la validità della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Fa seguito un rinnovato appello allo stato di emergenza, prolungato oltre il 26 luglio: «j’ai également décidé de faire appel à la réserve opérationnelle, c’est-à-dire à tous ceux qui à un moment ont été sous les drapeaux ou dans les effectifs de la gendarmerie pour venir soulager les effectifs de policiers et de gendarmes, a-t-il ajouté». Ad esso si abbina con pertinenza veramente labile un discorso sulla sicurezza delle frontiere: «nous pourrons les déployer sur tous les lieux où nous avons besoin d’eux et en particulier pour le contrôle des frontières». Pareva infatti di capire che l’attentatore avesse regolare permesso di lavoro, mentre quelli quelli operativi contro Charlie Hebdo, al Bataclan, al Carillon, allo Stade de France avevano proprio il passaporto. Sennonché, con tutta evidenza, l’associazione tra il terrorismo dell’Isis e l’emergenza dei profughi che scappano dalla guerra in Siria è troppo ghiotta perché anche il presidente di uno degli stati più potenti del mondo possa sottrarsi. È questo il trampolino logico che Hollande impiega per tuffarsi nel proclama della guerra santa: «nous allons renforcer nos actions en Syrie et en Irak». Sottolineando che «nous allons continuer à frapper ceux qui nous attaquent dans leur repaire», ci ricorda che noi europei stiamo facendo questa cosa da un bel po’ di tempo, così da aver qualcosa da dire quando ci domandano cosa si stia facendo per impedire che ottanta persone trovatesi là per caso muoiano così, senza un vero motivo che le riguardasse davvero, neanche remotamente, come d’altra parte centinaia di migliaia di altre in ogni parte del globo terraqueo, soprattutto in Siria e in Iraq. E bisognerebbe ricordare a Hollande che Luigi IX avrà anche conquistato Damietta, ma è morto di diarrea nel 1270, dando battaglia all’emirato di Tunisi per dar retta a Carlo d’Angiò.

Lorenzo. E chiaro che la Francia, nonostante le mutatissime caratteristiche di questo suo popolo, non è riuscita a definirsi mai altro che una Nazione compatta e coesa su ideali e concetti cristallizzatisi ormai da troppo tempo: patriottismo, laicité ecc. Il coro francese era già stonato dopo Charlie Hebdo, quando alcuni facevano notare che in certe aree di Parigi, e anche altrove, le marsigliesi non risuonavano affatto e le retoriche unitarie proprio non facevano breccia. In questa cosa Hollande o Figaro sono uguali. E spasmodicamente cercano in qualche paffuto criminale che si diverte a fare i Bignami del terrore una conferma al loro argomento. Il ché finisce per dare un rilievo gigantesco al criminale stesso, il quale poi se la ride sapendo che domani potrà ruttare su Twitter trovando un certo riscontro. E comunque tutto ciò non significa che abbia ragione chi dice che questa non conformità debba essere cancellata. Significa invece che occorrerebbe uscire da un vicolo cieco in cui gli unici a giocare sono i Le Pen e i terroristi.

Anatole. Certo i picchi di svalvolamento che si toccano in Italia, da nessuna parte mai. Esempio top è il mirabile scambio twitter tra Paola Ferrari, giornalista sportiva, e Rita Dalla Chiesa, presentatrice e giornalista, forse, pure lei. La prima delle due s’inalbera affermando che “loro fanno a pezzi donne e bambini, noi rispondiamo con le cerbottane”. Loro chi? Gli “slamici”? Noi chi? Veramente boh… Poi arriva a proporre di revocare il passaporto europeo ai magrebini arrivati negli ultimi vent’anni, figli compresi, senza che sia chiaro cosa sia il passaporto europeo (ogni Stato rilascia un passaporto nazionale, poi l’accordo di Schengen regola il transito transfrontaliero), né quando e in quale paese europeo si sia deciso di conferire così, scialla, la cittadinanza a un magrebino sopraggiunto negli ultimi vent’anni. È il paradigmatico caso raccontato da Guzzanti nel famoso sketch de Il caso Scafroglia, al telefono col solito ascoltatore che confonde una parola per l’altra, nel caso specifico “la Fallaci” con l’ipotesi che la guerra al terrorismo “la fa l’ACI” (ma anche le “leggi laziali” invece che “razziali” in altro meraviglioso analogo sketch).

Lorenzo. Se anche volessimo prendere per buoni questi vaneggiamenti, che peraltro riecheggiano cose dette da Donald Trump, se cioè anche ci si mettesse con la tigna a cacciare tutti i musulmani o supposti tali dall’Europa ci ritroveremo un tedesco squilibrato che accoltella gente nella metropolitana di Monaco urlando “Allah akbar”. E allora, forse, procederemmo alla eliminazione di qualsiasi “contenuto islamico” (qualsiasi cosa ciò voglia dire) dal web, dal mondo dell’informazione, dai libri. Bandiremmo qualsiasi cosa che potenzialmente serve a una donna per coprirsi la testa, anche. Non so, fate voi, il fatto è che così non si va da nessuna parte, o meglio: si dà ragione a una infame banda di criminali che ha capito come farsi pubblicità a gratis. E, in cambio, si diventa Israele.

Anatole. Ad ogni modo, non si fa in tempo a provare tutto lo scoramento del caso che, fermi tutti, alle 12:30 arriva a Uno Mattina l’intervista al classico “italiano a Nizza”. Secondo la sua rivelazione scùp pare che non sia per niente bello trovarsi inseguiti da un TIR guidato da uno che spara, mettendo sotto chiunque trovi sulla sua strada. E comunque, se non ce ne fossimo accorti, la polizia è intervenuta male e in ritardo. Grazie, era venuto anche a noi il sospetto che altrimenti il “camion della morte”, già così battezzato a quel punto, difficilmente sarebbe arrivato sulla Promenade des Anglais durante la festa del 14 luglio (dopo averla perlustrata col camion nei giorni precedenti, come si scopre in seguito) così, andando a passeggio, in una città che il sindaco ha trasformato nella casa del Grande Fratello, installando 1000 telecamere. Dopodiché, nel pomeriggio, il sistema infomediatico ci giudica pronti per le analisi sociogeopolitologicomilitari, tra le quali merita certamente una menzione Bremmer, che intervistato dal Corriere della Sera, ci spiega come «circa l’8% della popolazione non si sente francese». Viene fatto di pensare che a Castropignano, invece, si sentano tutti molto molisani e per questo nessuno ammazzi ottanta persone alla festa del santo patrono col trattore.

Lorenzo. Ma dice che bisogna fare qualcosa, sennò non sai cosa ti puoi aspettare quando esci di casa. Ma come fai a prevenire il fatto che magari uno, a una certa, decide di andarsi a suicidare in maniera stragista chissà dove? Semplice: lo devi integrare. Integra l’integralista. A forza proprio: adesso ti integro, faccio proprio una legge, speculare rispetto a quella che vuole Meloni. Che così arriviamo a fare come in Israele: “un Paese democratico dove però popoli di diversa origine vivono in modo separato” (cit.). Stranissima idea di integrazione, ma se ci evita di morire sotto un TIR, e non lo so se funziona eh, che ti devo dire, stiamoci…

Anatole. … (riflette)

Lorenzo. Altri ancora riportano che il modello israeliano “va per la maggiore”. Dopo gli attentati di Bruxelles il mantra era la debolezza del Belgio, stato fallito che fa finta di essere Europa. Stavolta il coniglio dal cappello è il “modello Israele”. Come dice l’esperto di sicurezza Carlo Biffani, “bisogna sviluppare una mentalità diversa per la propria sicurezza, proprio come avviene in Israele”. Diciamo che di fronte al rischio Eurabia si paventa un rimedio: Eusraele. Ma davvero?

Anatole. Ad ogni modo, a concludere questo delirante percorso nell’infotainment di un comune venerdì estivo, uno dei tanti possibili nella giungla digitale, tutti ugualmente deliranti, ecco che arriva il video di quando la polizia spara il terrorista, presentato con entusiasmo dal New York Post, ma probabilmente da infinite altre testate di analogo spessore in giro per il mondo.

Lorenzo. … (riflette)

Anatole. Quando tutti hanno detto tutto, cioè praticamente niente, e si profila l’arrivo della sera, con l’inevitabile profluvio di demenza politica televisiva, ecco che provvidenzialmente piove la notizia del colpo di stato in Turchia. È come quando stai per rassegnarti al Processo del lunedì e invece scopri che la Roma gioca il posticipo. Folle che sia, pare che la cronaca permanente sta sostituendo l’approfondimento giornalistico e la politica. È una continua emergenza, alla quale non si fa neanche a tempo a rispondere. Dacca, Brexit, Nizza, la Turchia e adesso qualcosa d’altro, speriamo, così da poter evitare di pensare. Mentre a quel punto si rincorrono le speculazioni sul colpo di stato turco, si rimane di fatto con l’impressione che si aveva ieri o l’altrieri, o il giorno prima e quello prima ancora, almeno da quando abbiamo scoperto che potevano spararti per strada mente cazzeggiavi così con una birra in mano, al Carillon, per esempio. Che cioè questo terrorismo, forse tutto il terrorismo, funziona che il terrorista afferma una cosa non vera sparando a qualcuno o tirando giù un palazzo con una bomba o un aereo o in tutti quei modi molto terroristici. Se nell’ambito del consesso democratico colpito dall’azione terroristica si fosse tutti d’accordo che la cosa affermata dal terrorista è falsa, non perché affermata in maniera terroristica, ma perché proprio falsa, si potrebbe catturare il terrorista, punirlo secondo la legge e la cosa con grande probabilità finirebbe là. Invece all’interno del consesso democratico comincia un dibattito surreale tale che, paradossalmente, quelli che si presentano come i maggiori avversari del terrorista sostengono che il terrorista abbia ragione.

Lorenzo. E qui torniamo a Meloni. Seguendo la sua fine logica giuridica potremmo promuovere una legge sul reato di Meloni. Torniamo anche a Trump, le cui immaginate espulsioni di nonsisacchì, sono auspicate dal portavoce del Neocaliffo proprio per eliminare tutto quello che c’è in mezzo fra Trump e Stato Islamico, cioè noi. Come dice Francesco Strazzari: ”Vogliono fare di tutto l’Occidente un gigantesco Israele”. E noi che facciamo? Diciamo: “Sì, in effetti è una buona idea”. Ma questa visione del terrorista che vuole israelizzare il mondo è una cosa mezza matta, come se il terrore avesse come scopo il terrore e basta, la vendetta magari. Da GTA San Andreas a Game of Thrones, praticamente.

Anatole. Certo, tanto da questo dibattito il terrorista è completamente escluso, non solo come interlocutore, la qual cosa è inevitabile, ma anche come soggetto portatore di un argomento dotato di una qualche concreta validità, o meno. All’interno del consesso democratico che era originariamente l’obiettivo del terrorismo si creano due partiti che configgono tra di loro. Da una parte si schierano quelli che danno ragione al terrorista, anche se in apparenza sembrerebbe che stiano dandogli contro, dall’altra quelli che dicono tutto il resto, qualunque cosa pensino, ma vengono etichettati come coloro che sono dalla parte del terrorista, anche se dicono che ha torto.

Lorenzo. I leggendari buonisti. Il cancro dell’Occidente. Quelli che Breivik vuole genocidare avendo già dato prova di saperlo fare. Oggi su Facebook mi è capitata una tipa che, sotto sotto, mi riteneva responsabile del massacro di Nizza perché ho scritto un libro divulgativo sull’Islam. Le spiegavo che nel libro si racconta dei primi attentati suicidi ma niente, era fissa su Nizza, anche osare un argomento rimontante al giorno prima era per lei una specie di dichiarazione di colpevolezza, di correità. Come se non avesse senso ragionare su come tutto ciò ha avuto inizio. Come se il terrorista non lo si debba studiare, per provare a sconfiggerlo bene. Sempre che il vero nemico continui ad essere il terrorista, perché dopo un tot, quando la minaccia si abbassa, viene più spontaneo prendersela col buonista.

Anatole. Il terrorista, volendosi mettere per un istante dalla parte sua, se non altro per capire come possa confrontarsi con questa paradossale situazione, non aveva naturalmente capito nulla del consesso democratico che egli ambisce a terrorizzare, che cioè si trattasse in ultima istanza una gabbia di matti, ed è altamente probabile che rimanga molto disorientato lui stesso. Sulla base della reazione ai suoi gesti, può fare una cosa e una sola, cioè ripetere la cosa falsa che aveva detto allo stesso modo in cui l’aveva detta, magari tirando ottanta persone sotto a un camion mentre spara a quelli intorno, alla maniera di uno di quei videogiochi che l’iconoclastia del suo mal recepito credo, ben abbinato, si diceva, alla salsa e alla fica, dovrebbe vietargli, ma, come anche s’è accennato, una botta di GTA San Andreas sul telefonone di sicuro ogni tanto gliela dà. Dagli e dagli, coloro i quali si sono costruiti un personaggio schierandosi ferocemente contro di lui, anche se in realtà gli danno ragione, vincono la battaglia all’interno del consesso democratico, dimostrando, paradossalmente, che l’argomento falso sostenuto dal terrorista è invece vero.

Lorenzo. E quindi va a finire, ripeto, che dobbiamo fare come Israele, Bremmer appunto. Cioè, sempre ammesso che il terrorista abbia davvero come finalità il terrorismo e nient’altro, cioè, non è che gli diciamo “fatti una vita” in qualche modo. No, anzi, gli creiamo il contesto ideale per continuare a fare il suo terrorismo, come se piacesse anche a noi. Cosa che in un certo qual senso è anche vera. Cioè, non a noi, ma a quelli che di casa non vogliono proprio uscire, animati dallo stesso rosico sociale del terrorista nei confronti di chiunque abbia una vita.

Anatole: Certo, il terrorismo è la situazione ideale per quello che “ci aveva judo”, che alla festa non l’avevano invitato. Quindi questa di “e noi fare-emo / come Isdraele”  è una nuova, che va ad aggiungersi alla grandissima al conflitto di civiltà, alle nostre donne da difendere, allo scandalo del velo, all’isolamento delle periferie, all’islam moderato che non si schiera, alla minigonna, al crocefisso in classe e tutti i santi in colonna, alle abitudini alimentari difformi, al colonialismo, al postcolonialismo, al transpostcolonialismo, alla barbetta del profeta, alla tunica e i jeans del ricchissimo armamentario degno di un sussidiario delle elementari degli anni sessanta. Solo noi non avevamo capito che erano chiari indizi di una guerra di religione, che in realtà nessuno sta veramente combattendo. Però suona così facile al pubblico dei canali generalisti, alla gente comune, a coloro i quali, in ultima istanza, non hanno idea di cosa si stia parlando, né gliene frega niente, perché trattasi di fenomeno che riguarda nei fatti solo chi esce di casa sua ogni tanto, cioè pochissimi, che alla fine “vabbene, dai, facciamo che era una guerra di religione e diciamo che la stavamo combattendo davvero”. “Io ero Goffredo di Buglione e tu Pietro l’Eremita, andiamo a liberare il Santo Sepolcro”, anche se non sappiamo chi fossero né l’uno, né l’altro e trattasi di fatti capitati circa mille anni fa’ (“e comunque Pietro l’Eremita fallo te, che io voglio lo spadone +5, tu pigliati la mazzarocca +3 contro gli infedeli o il bastone che diventa un zerpente”).

Lorenzo. Certo, i martiri di Otranto, l’assedio di Vienna, Marco da Aviano, la battaglia di Lepanto, la Lega santa. Tutta roba che ritorna in circolo al netto della critica storiografica, che in questo presente non esiste più (con eccezioni come questa). Se vuoi raccontare una crociata deve essersi svolta una crociata, o almeno dovrà essere in corso, altrimenti devi inventarti una serie di cose che ci somigliano, senza nemmeno sapere come dovrebbe essere una crociata. E se vuoi raccontare una crociata che non c’è, se proprio vuoi cimentarti nell’arte dello storitèllin, almeno leggiti come la raccontavano i professionisti, che ne so, Usama bin Munqidh, Ibn Wasil. Abu Shama al-Maqdisi e così via: c’è la traduzione di Gabrieli per Einaudi, si tratta di aprire un libro, daje…

Anatole.  Ma anche Guglielmo di Tiro, o la sua traduzione francese nel manoscritto francese 22495 della Bibliothèque Nationale de France, ci sono pure le figure. Evidentemente la vulgata postmoderna si figura e rende meglio la crociata come il mischione del videogioco d’azione in cui corri forte sul camion, possibilmente armato, con un’avventura di Dungeons & Dragons narrata male. Forse se te la devi leggere sul telefonone a colori viene meglio così. Certo, se vuoi raccontare una crociata che non c’è senza nemmeno sapere cosa sia, è naturale che fai fatica, ecco. E qui si apre una volta ancora il capitolo dell’emarginazione dei saperi storici dal dibattito su tutto, dunque dello schiacciamento sul presente di ogni riflessione sul presente, esclusivamente spiegato sulla base del presente, col risultato che le minacce del presente certo ci appaiono molto presenti.

Lorenzo. Mmmsì… Effettivamente questa cosa di trovarsi a dover raccontare una crociata che non c’è senza saperla spiega molto dell’affanno giornalistico. La cosa ha a che fare anche coi tempi dell’infotainment e i tempi della storiografia, che sono ormai asincroni. Chi scrive sul giornale, oggi, non si sogna nemmeno di poter fare della storia, la cosa non è alla sua portata, e neanche una sua ambizione. Non era così prima dei telefononi. Quanto ai destinatari della monnezza che ne deriva sono immersi in una situazione paradossale: la globalizzazione li sovrasta, li determina, e loro possono solo incazzarsi con le persone sbagliate, ad esempio i politici, che effettivamente decidono ben poco e quindi, by the way, fanno al massimo storitellin. La scappatoia esistenziale che rimane, quando non ci si vuole raccontare questa verità, è teorizzare complotti. Ma vabbene, questa cosa esula un po’. Bisognerà tornarci però.

Anatole. Si, c’è anche, forse, la questione del genere letterario. La cronaca succede in sostanza quando devi fare storia di fatti contemporanei, presenti. Evidentemente il divorzio tra lo storico e il cronista non viene bene quando devi parlare di crociate, un fatto storico, che ti proietta di necessità dentro la storia. La cosa del genere letterario va approfondita perché anche la cronaca, come tutti gli altri generi, nasce nel medioevo e, come il romanzo, è una degenerazione del racconto storico. Lo storico e il cronista e il romanziere erano tipo la stessa persona. Solo adesso il cronista non sa la storia, e il romanziere non sa niente.

Lorenzo. (dopo una lunga pausa) Vabbene. Pare a questo punto che il colpo di stato in Turchia sia stato sventato. C’è chi inneggia alla democrazia salvaguardata dal popolo, chi invece tifava golpe, chi parla di autocolpodistato (tutta una parola come autogol?), chi suggerisce che sia stato organizzato dal think-tank di Fassino, mentre il Ministro del Lavoro di Erdogan dichiara pubblicamente che sono stati gli amerikani.

Anatole. Per oggi facciamo che stiamo?

Lorenzo. Ci possiamo stare. Il complottismo e anche questa cosa del genere letterario la facciamo quando ci abbiamo un attimo. Mo gna famo, veramente.

Di cosa è fatto il niente

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lecture_on_nothing28042016153340Lecture on Nothing di Robert Wilson al Festival dei 2Mondi

di Maria Anna Mariani

Lecture on Nothing: quali aspettative si schiudono per lo spettatore davanti a un titolo così, un titolo che ostenta il niente come tema di una conferenza presentata a teatro? Chi compra il biglietto e poi una sera di luglio si incammina su per le salite di Spoleto verso il teatro Caio Melisso, perché lo fa? Forse perché sa che c’è Robert Wilson a portare in scena quel testo di John Cage che pretende di articolare il nulla, di plasmarlo con le parole e srotolarlo nel tempo. E dunque anche se il contenuto della rappresentazione minaccia di essere vuoto, il contenitore – il corpo sonoro di Bob Wilson – dovrebbe valere, di per sé, la scalata su per i vicoli puntuti di sassi e la sosta a teatro per un’ora e poco più, a slogarsi il collo da un posto disgraziato, da dove non si vede nulla, nulla.

Bracciate # 5 – Manuel Maria Perrone

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Il quinto racconto della rubrica  Bracciate è «Il polpo in insalata», testo vivo e fresco di Manuel Almereyda Perrone, svizzero di origine napoletana, di stanza a Marsiglia, dove ha fondato l’Agence de l’Erreur (www.lerreur.fr), con cui sviluppa i suoi progetti teatrali e cinematografici.

 

Il polpo in insalata

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Mia nonna non la chiamo tutte le domeniche.

E quando la chiamo, so che prima devo fare stretching, rilassare la respirazione, sorridere allo specchio, dopodiché prendo la cornetta, compongo, dico “ciao-nonna-sono-io-Manuel” tutto d’un fiato e ascolto, per dieci buoni minuti, un flusso ininterrotto di lamentele.

Sono momenti in cui mi sento responsabile dei mali del pianeta, anche se i mali in questione sono solo quelli di mia nonna.

“Tu non chiami mai. ”

Sto chiamando- penso.

“Tu mi fai morire! ”

Strana forma di omicidio l’assenteismo- penso.

“Pensa alla buon’anima di tuo padre! ”

Ancora? Son venticinque anni che è morto, è vero non lo chiamo mai neanche lui, ma c’è un perché.

“E di tuo nonno !”

Ci sto pensando e mi viene il magone e un sentimento di colpa anche per cinque milioni d’ebrei, gli armeni, i curdi, i palestinesi, e tutti gli oppressi del pianeta.

“Mi sono fatta vecchia vecchia, na vecchiarella”

A occhio e croce conosco mia nonna da quando sono nato, tolti alcuni anni di coscienza informale da bebè, sono una trentina d’anni che la conosco e che sta inesorabilmente diventando vecchia vecchia: quanto può durare l’invecchiamento? Una vita intera?

“Ho fatto solo la quinta elementare, però l’educazione la so.”

Su questo non me la prendo: lo so che ha diritto a vendicarsi su di me per aver lasciato i quaderni per la zappa a dodici anni.

“Non sono intelligente ma la so.”

Mi dispiace che mia nonna confonda istruzione con intelligenza: vorrei presentarle tutta una serie di professori e luminari perché chiarisca questo qui pro quo.

A questo punto in genere si rilassa, mi racconta i cancri delle sorelle con un piacere morboso per i dettagli, la cecità di Velia, la sua preferita che vive in Inghilterra da sempre, e che la chiama due o tre volte al giorno

“Uh quanto chiama quella, ma non ha niente da fare? Mi fa morire! ”

Ma come: anche lei? Ma si sa: gli estremi si toccano.

Poi, in apnea, continua per altri dieci minuti sulla vita, morte e miracoli degli abitanti del paese – per fortuna che è uno di quei paesi quasi fantasma di vecchi e bambini in cui quasi tutti sono emigrati da tempo – e alla fine mi fa ridere con i suoi proverbi e le sue dicerie che mi fanno capire che in fondo tutto funziona uguale da sempre.

Ho trovato una tecnica, per schivare questa sua inclinazione a incriminarmi di tutte le nefandezze del pianeta, che funziona anche quando non la chiamo da mesi.

“Nonna – dico subito- sto cucinando. Mi chiedevo… i calamari meglio chiuderli con lo spago o con uno stuzzicadenti? Sì, non li riempio troppo, certo, se no esplodono.”

Come per magia in quei casi non esiste nient’altro, nessun conflitto ci separa e anzi una sottile linea si disegna e ci ricongiunge nel tempo e nella distanza: non siamo più rivali ma diventiamo complici, gomito a gomito, davanti ai fornelli.

Se una ricetta si interpone tra di noi tutto il resto scompare.

Mi è successo vivendo a Buenos Aires, a diecimila chilometri e cinque fusi orari di distanza. Mi succede anche in Francia. È successo così per il polpo in insalata.

 

Purtroppo, o per fortuna non so, l’ho chiamata giusto quando Elvira, la sua vicina – amica e nemica del cuore – era passata a trovarla.

“Passa sempre quella”

“Meglio, no?”

“Meglio cosa? Viene qui per controllare.”

“Controllare cosa?”

“Quello che cucino, poi torna a casa e lo fa pure lei.”

Mia nonna da poco ha messo una telecamera di sorveglianza sopra il portone.

Anni di Raiuno riescono a convincere l’ultimo dei sottoproletari che condivide gli stessi problemi di un Rockefeller.

E la telecamera, a circuito chiuso, si affaccia su un monitor, che lei può riuscire a controllare anche mentre cucina. È così che ha scoperto chi da anni le fa lo scherzo del campanello; chi suona e poi scappa.

Si: Elvira… Ma non le darà mai il gusto di dirle che lo sa.

Penso che sia amore il loro. Amore vero.

Comunque ai tempi di questa telefonata ancora non aveva la telecamera e Elvira era lì.

E quando ha sentito mia nonna dire “polpo” le ha strappato la cornetta di mano e ha preso i comandi della conversazione.

“Per ogni chilo di polpo tu ne metti il doppio di patate. Dopo aver bollito le patate, le metti sul fondo e le copri col polpo e il suo succo, che vedi che prendono il sapore e poi tutti ti dicono che buono e mangiano le patate credendo che è polpo! ”

Ha riso: era contenta. Fiera di quell’intelligenza meridionale che trasforma un problema in una soluzione. Quella stessa intelligenza che fa si che per una stessa zucchina o melanzana esistano centinaia di pietanze diverse.

Ho ringraziato, mi ha ripassato mia nonna, che ha borbottato qualcosa, stranamente taciturna, e ho appeso.

 

Un paio d’ore dopo mia nonna mi ha richiamato in panico.

“Lo fa per umiliarmi.”

“Ma cosa?”

“Le patate.”

“Che patate?”

“Come che patate? Quelle del polpo. Ti ha detto così per trattarti da straccione, per umiliare me.

Tu non devi mettere così tante patate che se no sembra che sei un morto di fame.

Non avrebbe mai detto una cosa così ai suoi di nipoti ! Mai ! Ma me, mi voleva umiliare.”

“Ma nonna….”

“Niente ma. Le patate non devono mai essere più del polpo. Se no che figura ci fai?”

L’ho rassicurata che avrei immediatamente cambiato la ricetta, adattandola alla verità che mi aveva appena rivelato: non potevo deluderla e l’ho sentita contenta.

Però io le patate le avevo già messe e già le avevo ricoperte di polpo, non potevo più tornare indietro.

Non so se era vero: se Elvira l’aveva detto per umiliarla o se era solo un complesso di mia nonna. Però devo dire che era buono, e alla gente è piaciuto.

Da allora l’insalata di polpo continuo a farla così.

Le polpette, la parmigiana, le lasagne, le zucchine alla scapece, i calamari ripieni, i peperoni al forno, i cannelloni, la pasta fresca: tutto, tutto glielo devo a mia nonna e alle nostre conversazioni telefoniche.

Il polpo in insalata no, quello è di Elvira.

 

 

Parole sotto la torre – X edizione

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Parole-2016

Nόστοι, i ritorni

Da un approfondito esame delle sceneggiature delle pellicole di produzione hollywoodiana sembra che la battuta più ricorrente della storia del cinema di tutti i tempi sia “Back home”. “Tornare a casa”.

Tutta la narrazione occidentale è fatta, in buona sostanza, di due storie: una guerra fratricida durata dieci anni, e un ritorno a casa durato altrettanto. Da tremila anni a questa parte non facciamo altro che combinare questi due elementi primari per raccontare la nostra storia, la nostra identità culturale.

Il ritorno, in letteratura, significa molte cose. Per tornare bisogna innanzitutto essere partiti. Aver lasciato la terra natia, o le proprie idee, i pregiudizi, il mondo conosciuto, sempre identico a se stesso, per poi scoprire l’altro mondo, nella sua molteplicità e nelle sue differenze. Farsi straniero, conoscere la solitudine, intrecciare amori, amicizie, gioie e dolori. Tornare, poi, vuol dire scoprirsi diversi. La patria tanto amata non ci somiglia più, noi siamo cambiati e forse il nostro sguardo e la nostra esperienza saprà cambiare, in parte, la terra dei nostri padri.

“I ritorni”, in letteratura, non implicano necessariamente un viaggio fisico. Può avvenire anche nell’animo. Ogni romanzo in fondo è il percorso di un essere umano attraverso la scoperta del suo vero io. Le identità non sono mai fisse. I protagonisti che abbiamo conosciuto nelle prime pagine del libro, saranno differenti nelle ultime. Leggere resta il modo più semplice e più avventuroso di conoscere se stessi, conoscendo al contempo il mondo intero. Leggere. Tornare a leggere.

Programma

MERCOLEDÌ 20 LUGLIO

Ore 21
Proiezione del cortometraggio: L’amore… tutta un’altra cosa
Di e con Ignazio Vacca e Petula Farina
Conduce Andrea Contu

GIOVEDÌ 21

Ore 21
Tornare al territorio
Giacomo Sartori, Sebastiano Venneri
Conduce Lello Caravano
In collaborazione con Legambiente Sardegna

Ore 22.30
Il ritorno a scuola
Edoardo Albinati
Conduce Gianni Biondillo

VENERDÌ 22

Ore 19.30
Partire è tornare
Ilario Carta, Anna Maria Falchi
Conduce Stefania De Michele

Ore 21
Non si fugge dalla storia
Alessandro Mongili, Giorgio Todde
Conduce Nicolò Migheli

Ore 22.30
Il Vento – Storia di Gavino e di altri dispersi
Spettacolo teatrale di e con il Theatre en vol

SABATO 23

Ore 21
Il ventre molle della nazione
Roberto Costantini, Francesco Recami
Conduce Gianni Biondillo

Ore 22.30
La fine della storia
Marco Balzano, Gigi Riva
Conduce Marco Zurru

DOMENICA 24

Ore 21
L’isola dei sogni ricorsivi
Cristian Mannu, Gesuino Nemus
Conduce Marco Zurru

Ore 22.30
Il ritorno delle stagioni
Samuel Bjork
Conduce Anna Rita Briganti
Interprete Virginia Dessì

Ho ucciso l’Anticristo

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di Matteo Pascoletti

l43-cagliari-mostra-marco-130613182501_bigQuando Luciano decise di rubarmi i pensieri avevo diciotto anni e lui quaranta. In paese l’ammiravano tutti perché faceva il chirurgo, ma siccome non poteva aprirmi la testa e prendermi i pensieri dal cervello, trovò un’altra via. Eravamo poveri, così una domenica mattina andò al campo, da mio padre, a dirgli che voleva sposarmi, e lui acconsentì. Quella sera, a cena, quando dissi che non volevo, perché Luciano era vecchio e gli puzzava l’alito, mio padre mi prese a schiaffi davanti a mamma impietrita. Allora mi piegai.
Da sposati, Luciano prese a frugarmi i pensieri. La prima volta provai paura, ribrezzo e dolore, e infatti persi sangue; poi solo paura e ribrezzo. M’invadeva e cercava, sbrigandosi: quando trovava un mio pensiero lo sradicava e fuggiva, lasciando dentro i propri, come immondizia abbandonata di notte per strada. I suoi erano pensieri sudici, perché poi mi diceva sempre “vatti a lavare”. Solo che, per quanta acqua e sapone usassi, lo sentivo che mi restavano dentro. E se provavo a resistere Luciano mi prendeva a schiaffi e pugni, e se picchiava troppo forte e finivo all’ospedale, un suo collega scriveva che ero caduta per le scale o inciampata. E quando uscivamo in paese e parlavamo con le persone, Luciano mi prendeva in giro dicendo che ero maldestra.
Dopo un anno trascorso a rubarmi i pensieri, ho capito cosa sarebbero stati quelli di Luciano dentro di me: sarebbero diventati l’Anticristo. Così sono andata in Chiesa per chiedere aiuto a Gesù, ma lui non ha detto nulla, e nemmeno suo padre. Mi raccoglievo sul legno freddo della panca, piangendo li imploravo che scacciassero l’Anticristo prima che mi deformasse la pancia, altrimenti non avrei più potuto nasconderlo a Luciano. Ma loro niente, e intanto Luciano continuava a nutrirlo coi suoi pensieri sudici. Allora ho parlato col prete, ma lui m’ha cacciata via dicendo che aiutarmi non sarebbe stato esorcismo, ma omicidio. Tornata a casa Luciano era ancora all’ospedale, così ho usato i pensieri rimasti per preparare da me l’acquasanta, e l’ho bevuta. Ma l’Anticristo ha iniziato a lottare dentro il mio corpo: mentre si dibatteva ho sentito le fiamme nella gola e nello stomaco, ho avuto paura di morire e ho chiesto aiuto. I vicini sono arrivati e hanno chiamato l’ospedale, così Luciano ha scoperto che avevo ucciso l’Anticristo. Insieme ad altri maschi, dottori come lui, m’ha chiusa in un carcere a forma di reparto, da cui non si poteva uscire.
In carcere noi detenute avevamo la divisa bianca, come un sacco coi buchi per la testa e gli arti. Le guardie semplici avevano la divisa verde, mentre le guardie capo avevano la divisa bianca come noi detenute, ma aperta davanti. Le detenute e le guardie erano tutte femmine, gli unici maschi ammessi erano i parenti da fuori, durante le visite. Mio padre è venuto una volta sola, con mamma. Quando l’ho visto gli ho sputato in faccia e non è più tornato, e nemmeno mamma.
I capi venivano a visitarmi tutte le mattine, mentre un pomeriggio a settimana lo passavo discutendo con un capo solo, che mi chiedeva “Lo sa perché è qui, Bruna?”, e io dicevo “perché ho ucciso l’Anticristo e mio marito è Satana”, e lei mi guardava severa, anche se era femmina. Da principio non capivo il motivo, poi ci sono arrivata. Era un trucco: solo noi detenute eravamo femmine, infatti usavamo un bagno diverso dalle guardie, che in quei giorni ci guardavano con disgusto, come fanno i maschi. Le guardie e i capi si travestivano da femmine per raggirarci: infatti le detenute che stavano lì da più tempo o parlavano poco, o per niente, o dicevano frasi senza senso. Perciò avevo sbagliato a dire la verità sull’Anticristo: rischiavo informassero Luciano, e non volevo sapesse che m’erano rimasti dei pensieri. Così un giorno, a colloquio privato con la guardia capo, gli sono saltata addosso, a quel truffatore, aggrappandomi alla parrucca riccia. Poi l’ho graffiato per strappargli la maschera da femmina, però le sue urla hanno fatto arrivare le altre guardie. M’hanno presa di forza e buttata in una cella senza sbarre o letto, con le pareti che sembravano cuscini. Addosso avevo una divisa diversa: sempre bianca, ma con le cinture che si allacciavano dietro. Non potevo muovermi bene, avevo paura che Luciano entrasse da un momento all’altro, così ho iniziato a gridare, ma poi mi sono stancata e ho smesso. Non so quanto tempo è passato, però a un certo punto mi hanno riportata nella camera e legata al letto; anche lì ho avuto paura, perché da immobile se veniva un maschio e provava a rubarmi i pensieri mica potevo difendermi. Così appena avevo fiato gridavo “ladri, vigliacchi”. Allora le guardie semplici mi hanno messo uno straccio bianco in bocca e le parole le potevo solo pensare. Poi hanno iniziato a farmi le punture, e giorno dopo giorno mi sono resa conto che le punture mi facevano sparire i pensieri.
Così il carcere funziona che prima provano a rubarti i pensieri, e poi se non ci riescono te li ammazzano uno a uno, come fossero mosche. Io però sono riuscita a prendere questo pensiero e a nasconderlo bene, dove nessuna siringa e nessuna guardia potrà trovarlo, e nemmeno Luciano. Quando muoio lo do alla Madonna, perché è femmina.

Allons enfants de la Patrie

4

https://www.youtube.com/watch?v=lu3eSNi__4w

Hannah Sanghee Park, 4 poesie

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Empusa_pennata_redpit

Spoglia

Come una cornice incorniciata il fossile
conteneva una carcassa, una corazza,

e il proprio cofano in un altro cofano,
il proprio, naturale sarcofago.

Non ho mai raccontato a nessuno questa storia:
un’estate come questa mangiai una nettarina

fino al nocciolo grezzo di velluto a coste, seguitai
a rotolarlo e a masticarlo finché non si

schiuse, e un ragno inerte, seduto
in un ciuffo bianco, era all’interno come un gioiellino.

Com’è che una cosa si sente reale. Gli strati
che mi costituiscono sono, riduttivamente, soffici

duri, soffici, una facile separazione fino alla verità,
ma la vendita diretta e l’inghiottire vanno fatti lo stesso.

 

 

Il corpo elettrico

Tracciami: (x, 0) (0, x) sul corpo

il corpo che pompa: gruppo sanguigno O (si spera) il corpo

che elabora: O (elemento)

 

facciamo x (moltiplicazione) racchiudiamo x (moltitudini)

 

o me: XXX (orcio del moonshine marcato) o
te: la O accesa della tua sigaretta

 

Perché non roviniamo insieme i nostri organi in un modo lento

annerendoci nella o del tuo colosseo e nella x del mio sacrificio

 

 

Q

Posso domare amore, disfare ardore
far fuori ciò che ci fa ardere?

Posso sfrecciare per i tendini
all’osso? O la fatica fa parte

di guadagnare fiducia? Posso sbucciare
e limare il tuo corpo, aprendolo alla mia

freccia cupìda? Posso trovare
la risposta alla chiamata del corpo

(se la voglia ti lascia volere)?

 

 

E una bugia

La domanda era dubbiosa.
E il dire tutto detto.
E quindi, in tandem,

Anatema, ed antifona.
La verità era sospesa,
Sforzarsi troppo stancante.

E la lana fu tirata
All’insù da isolante.
Nessun occhio si tenne aperto.

Il mio iride, ignorai
La verità, ora diffido
Di tutto ciò che si vede, e questa

Sfiducia, segnale sfrenato di strazio
Chiamato e chiamato e procurato dalla tua dama.

 

 

*

 

 

Strip

Like a frame within a frame the fossil
carried a carcass, a carapace,

and its own casket in another casket,
its own natural sarcophagus.

I never told anyone this story:
in a summer like this I ate a nectarine

until its rough corduroy pit, continued
rolling and chewing it until it hinged

open, and an inert spider, sitting
in white wisp, was inside like a small jewel.

How does a thing feel real. The layers
comprising me are, reductively, soft

hard, soft, an easy sift to the truth
but the hard sell and swallow done anyway.

 

 

The Body Electric

Plot me: (x,0) (0,x) on the body

the body pumping: blood type O (one hopes) the body

processing: O (element)

 

we can x (multiply) we contain x (multitudes)

 

or me: XXX (jug of marked moonshine) or
you: the burning O of your cigarette

 

Why don’t we ruin our organs together in a slow way

blackening in the o of your coliseum and the x of my immolation

 

 

Q

May I master love, undo its luster
do in the thing that makes us lust?

May I speed through the body’s sinew
to marrow? Or is toiling a part of

the gaining of trust? May I pare and narrow
your body down, and open it to my

cupidity’s arrow? May I find my
response to body’s unanswered call,

(if the want leaves you wanting, at all)?

 

 

And a Lie

The asking was askance.
And the tell all told.
So then, in tandem,

Anathema, and anthem.
The truth was on hold,
Seeking too tasking.

And the wool was pulled
Over as cover.
No eyes were kept peeled.

My iris I missed
The truth, now mistrust
All things seen, and this

Distrust, the sounded distress signal
Called and called and culled from your damsel.

 

 

*

 

Hannah Sanghee Park (Tacoma, 1986) ha vinto il Walt Whitman Award 2014 con il libro inedito The Same-Different, giudicato così pieno di “chiasmi, giochi di parole, rime che le figure si avvitano su se stesse come filamenti di DNA o scalinate di Escher”. Tra le altre cose Park scrive per il cinema e la televisione. Queste traduzioni sono di Isabella Livorni.

 

 

Atti osceni in luogo privato

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missiroli di Gianni Biondillo

 

Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, Feltrinelli, 249 pagine

C’è un punto di non ritorno fra l’infanzia e l’adolescenza. Per alcuni può diventare un trauma. A Libero Marsell, dodicenne franco-italiano, capiterà di scoprire il tradimento della madre, una sera a cena, col migliore amico del padre. Il sesso per il non più bambino si svelerà un mondo incomprensibile, un polo di attrazione e di mistero, di dolore più che di liberazione.

Quello raccontato da Marco Missiroli in Atti osceni in luogo privato è a tutti gli effetti il classico romanzo di formazione borghese. Dove più che gli avvenimenti, le avventure, gli incontri straordinari, saranno i sommovimenti del mondo interiore a far maturare il giovane Libero.

Il protagonista cerca nel suo corpo una spiegazione al mistero della sessualità, trova nello sfogo onanista una sorta di affrancamento dal trauma infantile. Negli anni incontrerà amori, amicizie, mentori che gli daranno una mano a liberarsi dai suoi tormenti.

La scrittura è controllatissima, incapace di colloquialità, letteraria. Spesso fatta di sentenze e aforismi freddi e perfetti. La narrazione è in prima persona, come una sorta di memoriale. Forse anche per questo Missiroli decide di spostare gli avvenimenti di questo romanzo che cerca un respiro “europeo” fuori dai confini geografici e temporali della sua biografia. Libero, sembra dirci, non è Marco, non si fa voyerismo in queste pagine. È fra Milano e Parigi, nel cuore degli anni Ottanta, che si muove il protagonista. Anche se potrebbe essere dieci anni prima o dopo, dato che la Storia sembra essergli indifferente. Chiuso fra i libri che legge e le donne che frequenta, Libero sembra involontariamente inconsapevole che tutto in quegli anni stava cambiando, non solo lui.

(pubblicato su Cooperazione n° 17 del 21 aprile 2015)

Il doppio sguardo di Sophia

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di Susanna Mati
doppio sguardo di Sophia
Divagazione politico-filosofica a margine del volume: Carla Stroppa, Il doppio sguardo di Sophia, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pagg. 262, €20,00.

Da quando il femminile ha preso la parola, ed è cioè diventato capace di tenere il discorso (prerogativa riservata per millenni quasi esclusivamente al maschile), si sta recuperando con impensabile velocità il tempo perduto. Esiste attualmente in tutti i campi una grande ricchezza di contributi autointerpretativi da parte delle donne, tanto che oggi è piuttosto il maschile ad essere ormai ammutolito, e a rivelarsi nei suoi caratteri di estrema fragilità e, assai spesso, come le cronache testimoniano, di arretratezza – che sono poi la fragilità e l’arretratezza non tanto di singoli individui, ma di un intero sistema culturale di valori giunto al tramonto, con lo sconcerto e lo smarrimento che questa perdita degli orientamenti tradizionali comporta. La morte di Dio e del Padre genera poche volte nostalgia, talvolta violenza, più spesso lamento, incertezza e paura del nuovo.

Il maschile ha ormai poche parole, è oggi connotato da una povertà di discorso, perfino da uno sbandamento tangibile, e per lo più tenta ancora debolmente di identificarsi con i residui di quel discorso che il pensiero femminista ha definito patriarcale. Al contrario, il femminile ha avuto modo di rivelare sempre di più la sua natura generatrice, creativa, anche nel regno – finalmente – della parola e del pensiero; e se le prime scrittrici vere e proprie, consapevoli di questo ruolo, risalgono all’Ottocento, e le prime filosofe vere e proprie al Novecento, l’essenza affabulante e mitologica del femminile – che ovviamente è sempre esistita – è giunta finalmente in luogo pubblico. Anticamente, Diotima poteva sì parlare, ma in quanto donna, straniera, sacerdotessa (dunque invasata dal dio), poteva parlare proprio perché era esclusa dalla polis. Platone, nella cui città ideale anche una donna sarebbe potuta diventare filosofo-re (anzi, filosofa-regina), aveva avuto eccezionalmente il coraggio di darle la parola, per esporre il più eversivo dei discorsi, quello su eros. Potremmo ricordare pochi esempi di questo tipo – fino ad oggi.
Tuttavia: il discorso femminista – che prendiamo qui genericamente, nel suo complesso, senza distinzioni che pur sarebbero opportune -, che così tanto ha dato negli ultimi decenni, riuscendo a modificare – mai ancora abbastanza – la società, può forse esaurire l”essenza’ del femminile, la sua immagine, la sua totalità? Ed esiste poi davvero questa ‘essenza’, al di là delle proiezioni che il maschile ha elaborato per secoli? Lasciamo stare le proiezioni, e poniamo che questa caratteristica peculiare, in qualche modo, esista, seppure in modo complesso, metaforico e anche ambiguo e contraddittorio (è per questo che la parola essenza è tra virgolette, essendo intesa in un significato antimetafisico del tutto improprio); e che riguardi in realtà, come cercheremo di dire più avanti, il futuro di entrambi i generi. Oggi la donna pare avervi la chance di un accesso privilegiato.
È appunto su questo terreno che, con una posizione di grande originalità, si pone il libro di Carla Stroppa – scommettendo temerariamente su un aldilà possibile rispetto al discorso esclusivamente sociologico e politico sul femminile. Un aldilà, naturalmente, anche rispetto al ‘semplice’ discorso biologico e perfino al discorso di genere. Una tensione verso l’alto percorre questo libro, come se Carla Stroppa ci dicesse: sì, va bene, nessuna di noi vuole tornare indietro, ma… ma, rispetto al piano delle rivendicazioni, c’è anche qualcos’altro, un elemento ulteriore, meno caratterizzabile, meno afferrabile, anche meno discorribile e categorizzabile, e tuttavia necessario a connotare la grande varietà e contraddittorietà del femminile, nonché le sue più intime risorse. C’è un in più, più sfuggente, più sottile, più profondo, che connota la donna – il femminile – come tale. Una specie di essenza, appunto, una caratteristica ineludibile, preziosa.
Il pensiero analitico junghiano, in questo caso, viene in aiuto nel tentativo di guardare una totalità – quella del femminile – nella sua interezza, senza nascondersi le sue ombre, con un “doppio sguardo” che ha origine nella complessità contraddittoria dell’inconscio. Lo scopritore dell’inconscio, Freud, si era arrestato davanti al presunto ‘mistero’ del femminile (che poi, magari, non era affatto tale: ma sconosciuto ed enigmatico rimaneva a questo sguardo maschile), facendo al massimo della donna un maschio manchevole, con peculiarità esclusivamente deficitarie – e ‘misteriose’, appunto. Ma nella mitologia archetipica esisteva invece da sempre una certa parità di genere, per così dire; le grandi dèe mediterranee, vicino-orientali, le “signore del labirinto”, stanno all’origine della nostra cultura. Prima di Dioniso, il più grande dio dell’Occidente, a Creta c’era già Arianna. E solo attraverso il loro temperato dualismo, talora convergente in uno, talora divergente, e la loro armonica differenza, la loro diversa eguaglianza, l’intero panorama dell’umano può trasparire e trasfigurarsi nello specchio ampio del divino. (Premesso che questo percorso è appunto un labirinto, un percorso mai in pace, forse mai concluso).
Continuando a parlare per immagini mitologiche, c’è una Sophia che è dentro entrambi i generi, insieme per unirli, dividerli e trascenderli. Possiamo dare un nome a questo elemento comune e ulteriore? Forse il suo nome – come l’antica sapienza filosofica occidentale ci avrebbe detto – è anima. L’autrice nota giustamente la significativa circostanza di come “l’accezione simbolica di anima sia da sempre ascrivibile alla fenomenologia femminile, e supponiamo che questo non sia un caso” (p. 11). No, non è un caso, perché appunto pare che il femminile sia portatrice, specialmente oggi, della possibilità di un diverso ordine del discorso, di una vera e propria rivoluzione. Ma da dove partirebbe questa rivoluzione?
Ridiscendiamo sulla terra, tenendo in mente questa immagine dell’anima: il femminismo, sempre benemerito, cerca di superare le debolezze storicamente patite, “ma troppo spesso”, scrive Carla Stroppa, “eludendo il confronto con il proprio mondo interiore e con i propri limiti” (p. 17); da ciò deriva il pericolo di “un’idea troppo sommaria dell’emancipazione femminile” (p. 34), se essa viene limitata a rivendicazioni sociali e politiche, in cui questo mondo interiore, in effetti, non trova alcuno spazio, alcuna voce. Per questo motivo, sostiene ancora l’autrice, rischiamo “di raggiungere la parità di opportunità nell’alienazione, nella scissione tra pensiero e corpo emozionale” (p. 59). Il pericolo, evidentemente, esiste. Questa ricerca di parità non deve essere basata “unicamente sulla dimensione sociale e orizzontale, ma su un sentimento di valorizzazione dell’umana dignità che si inoltra nel profondo e si protende verso la trascendenza” (p. 63), creando dunque un ordine, un cosmo davvero alternativo; altrimenti “la donna, a forza di prendere distanza dalle proiezioni d’anima che l’uomo fa su di lei e cercando di definire sempre meglio l’ambito del proprio Io, rischia di prendere le distanze anche dall’anima transpersonale, col risultato paradossale di assomigliare sempre di meno all’immaginario dell’anima che l’uomo proietta su di lei, questo sì, ma sempre di più all’Io evidente, mondano, arrampicatore dell’uomo” (p. 66).
Non importa essere addentro ai termini della psicologia junghiana per comprendere il nucleo di questo discorso: per non rimanere schiacciate (e schiacciati) sul modello maschile di potere, con i suoi risvolti negativi (cos’hanno mai di femminile, nella loro azione, le potenti governanti che, fortunatamente, stanno affacciandosi sempre più nella politica mondiale?), questo modello bisogna superarlo in altezza, in verticalità, e non certo pretendere di parificarsi ad esso. Perciò “la mia riflessione sull’anima”, scrive l’autrice, “oltrepassa quella relativa al genere sessuale” (ivi). Questa riflessione è infatti egualmente valida anche per l’uomo: sia l’uomo che la donna devono superare il modello maschile di potere, così decaduto e deprivato di anima.
Anima che è la più efficace immagine occidentale di memoria, desiderio, cultura, ricerca di significato. Rispetto all’adeguamento all’ordine del discorso ormai in sfacelo, e alla parificazione ad esso, il pensiero dell’anima può consentire l’accesso ad un totalmente altro, ad un novum.
Si sarà capito dove voglio arrivare: nel ricchissimo libro di Carla Stroppa si forniscono alcuni elementi inediti per rimettere tra l’altro in questione, con uno sguardo comprensivo e originale, nientemeno che i rapporti tra la politica e l’anima. Quello che è in fondo il problema platonico per eccellenza (come può darsi società giusta, quando è composta da anime ingiuste?) ritorna urgentemente alla nostra attenzione, declinato al femminile. Ma ritorna anche un altro punto fondamentale della riflessione platonica: cioè che, per cambiare la società e il mondo, e ancor prima noi stessi, dobbiamo ‘possedere’ un sapere, uno sguardo e una visione non orizzontali (per ripetere l’aggettivo usato dall’autrice), bensì che trascendano il mondo stesso – come avviene al filosofo della Repubblica platonica. Solo la “saggezza iniziatica” dell’anima (p. 67) – anch’essa, come la filosofia, assai più una ricerca che un possesso – ci dà questo potere alternativo, capace di futuro, per tutti i generi.
In questa direzione, tutta da percorrere e da scoprire, la psicoanalisi e la psicologia del profondo possono offrire un contributo importantissimo per una critica dell’appiattimento e dell’adeguamento ai vecchi modelli invalsi di potere – e per una reale fuga al di là di essi.

Il corpo del libro : La Steppa di Sergio Baratto

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di Mariasole Ariot

SteppaCi sono luoghi mentali – e fisici – in cui la parola si carica di peso, luoghi in cui l’estrazione  o la rimozione di una singola frase – anche solo una – aprirebbe un buco, un foro da cui sottrarsi o in cui cadere, ma con cui inevitabilmente sarebbe necessario fare i conti. E ci sono libri in cui quel peso si fa tratto distintivo, dove ogni frase appare (in un flusso che però  sorpassa il chirurgico per diventare carne – per mostrare la carne sottostante)  inserita nel testo in un processo quasicorporeo : un corpo duro, solido, in cui testa e arti si muovono all’unisono, coordinati perfettamente. Dove in quel corpo convivono diverse età, in un presente che è già passato e che sta diventando futuro : tutto è lì, di fronte e non di spalle, tre tempi concentrati in un organo pulsante.

La Steppa di Sergio Baratto, romanzo d’esordio con cui l’autore ha vinto il Premio Berto, è uno di quei libri : un libro-corpo, in cui tutto – dal movimento della narrazione al contenuto della stessa – porta il segno dell’autenticità e del necessario.
Ho letto il testo in un maggio di frontiera, in cui non solo io mi ritrovavo fisicamente confinata, ma in cui il silenzio dello spazio in cui arrancavo per sopravvivenza  si appoggiava alle pareti costruite dal testo : la lettura è diventata allora – ma lo sarebbe stata a prescindere – un corpo a corpo con il reale. Un reale in cui – per contraddire Sartre per il quale ” tutti gli autori sono concordi nel notare la povertà delle immagini che accompagnano la lettura d’un romanzo” – lo sguardo della parola è qui al contrario uno sguardo che non solo può vedere, ma produce esso stesso visione. I luoghi descritti – Arimiate, Ortonago, la Steppa – diventano allora produttori di Immaginario, i protagonisti della vicenda s’interfacciano con i luoghi in un continuo movimento di andata e ritorno : spazio, tempo, e persona(ggi) vivono l’uno nell’altro e l’uno dell‘altro, e ogni parola diventa fondante e fondativa, pietra e carne.

La Steppa, in cui, come scrivono i giurati del premio Berto ” un angolo della provincia lombarda si allarga a contenere il mondo intero” è esattamente questo: siamo nel microcosmo di una scena vicina, che ci appartiene biograficamente e generazionalmente, dove folle di corpi militarizzati e centurie sparano alla cieca nel tentativo di preservare una realtà “pulita”, da sterilizzare – ma siamo anche trasportati in un al-di-là che è già qui, in un mondo a tratti spaventoso, segnato dalla ferita, dal brutale e dalla paura che non è solo una rappresentazione di una realtà distopica, ma è pure qualcosa che già ci appartiene, che è già davanti agli occhi, solo sotterranea. Il velo con cui ci copriamo il volto per “non volerne sapere” si lacera, si aprono feritoie attraverso cui l’autore ci mostra qualcosa che già stiamo vivendo.

Un uomo correva in mezzo alla strada con la testa coronata di fuoco, stringendo sotto l’ascella un grosso raccoglitore, e a ogni passo le fiamme gli scendevano un po’ di più lungo la schiena e le braccia. Incrociandoci, mi ha fissato per un attimo con lo sguardo incredulo. Era il sindaco Due. Pochi metri dopo è crollato sull’asfalto e ha continuato a bruciare, immobile, finché non è stato che un puntolino ardente nello specchietto retrovisore.

Verso la periferia le strade erano disseminate di auto incendiate. Gente che aveva cercato di fuggire ma era stata raggiunta dalla colata lavica, forse qualche camerata non così coraggioso da farsi massacrare con onore in battaglia. Tra le vampe vedevo balenare all’interno degli abitacoli sagome annerite, ormai fuse con i sedili e i poggiatesta, o braccia carbonizzate sporgere come rami secchi dai finestrini esplosi.
Fuori città, all’imbocco dello stradone che attraverso i quartieri industriali virava a nord verso il canale, ci siamo fermati per un istante a guardare dietro di noi.
Arimiate bruciava. Una muraglia di fumo grigiastro si levava alta contro il cielo nero, sciogliendosi man mano nella luce vermiglia dell’immensa fornace che ardeva spalancata sopra i tetti dei palazzi in fiamme.

Eppure, in questo spavento, nello svelamento in cui Sergio Baratto ci accompagna, là dove lo scabroso del Reale riemerge, non c’è freddo : tutto resta delicato e commovente : l’amore e la scintilla della bellezza sono elementi altrettanto fondativi che aumentano la densità del romanzo, il suo peso specifico.

Sono i capelli bianchi di Aili, la fiaba infilata nella tasca interna del giubbotto del protagonista nel trascorrere degli anni, il volto e la mano di Fiammetta, gli occhi azzurri del figlio di Emelian morto di febbre, il corpo fumoso di Stragačić quando dice “Uno cerca di fuggire dal passato, crede di esserselo lasciato alle spalle, e invece il passato è lì che lo aspetta al varco. Davanti, non dietro”, l’allergia ai gatti, le risate adolescenziali (sì, perché La Steppa è anche un romanzo di formazione) l’amore di Zeno nei cimiteri di notte.

“Dove siamo?”
“In un posto sicuro. Sottoterra.”
“Sottoterra?”

“Scaviamo buchi e ci mettiamo lì, quando fuori fa troppo freddo o dobbiamo scappare”

La potenza di questo libro vive (anche) di questo : di questo parlarsi, di questo scavare buche nel dolore per potersi proteggere, del riemergere dallo scavo quando, con quel dolore, è necessario farci i conti per poter salvare la quota di bellezza che nonostante tutto riesce a sopravvivere. Come una pianticina che se muore in un punto rispunta dalla terra in un nuovo altrove, impossibile da sradicare del tutto. Perché nell’indicibile e nel terrore qualcosa fa scarto, una lucina continua incessantemente a brillare, ad illuminare un angolo di mondo che dev’essere – mi azzardo a dire per dovere etico – protetto come si protegge un figlio.

Quando mi sono assopito, disteso sull’erba umida, Aili e Fiammetta si stavano abbracciando in silenzio, e forse ridevano e piangevano insieme. O forse era solo il pigolio degli uccelli appena nati nei loro nidi sugli alberi del bosco, che piano piano si svegliavano e aprivano i becchi ancora molli, le ali ancora nude, gli occhi ancora ciechi.

E se Sergio Baratto, con una lingua viva e densa, nell’intenso, sembra dirci con perfetta lucidità e ancoraggio al quotidiano : guardatelo : l’orrore esiste, è già qui, è davanti e non dietro; guardatela : esiste l’ipocrisia, la violenza, il brutale, la volontà di mantenersi rigidi e risoluti nella volontà di far fuori “un nemico” e la sua marginalità;  guardatela : esiste la catastrofe e non è distante ma è anzi già abitata; sembra anche indicarci una zona residuale, un interstizio dove sotto le macerie, o forse sopra, permane il segno della parola e del nome, la commozione, la quota di bellezza che sporge da un corpo dilaniato, verso cui è altrettanto necessario e doveroso dirigere lo sguardo.

Eadweard Muybridge e le GIF di fine Ottocento

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di Ornella Tajani

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Philip Glass A Gentleman’s Honor

Nel 1872 l’allora governatore della California, Leland Stanford, sospettava che ci fosse un attimo in cui, durante il galoppo, nessuna zampa del cavallo toccasse il suolo. Chiese così al fotografo inglese Eadweard Muybridge di provare a verificare la sua ipotesi. Muybridge sistemò dodici fotocamere una dopo l’altra, lungo il percorso del cavallo, in modo da scattare in sequenza; dopo vari tentativi poté constatare che il governatore aveva ragione: c’era un momento in cui il cavallo al galoppo era sospeso nell’aria.

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Fu a partire da quel momento che Muybridge iniziò ad appassionarsi al modo di catturare in immagine ciò che non era possibile vedere a occhio nudo: si specializzò nel campo della fotografia in movimento e ideò lo zoopraxiscopio, uno strumento che permetteva la proiezione di scatti fotografici in sequenza: in sostanza, un antenato del proiettore cinematografico, dai risultati molto simili alle GIF di oggi.

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Nello stesso anno, Muybridge, cinquantaduenne, sposò la ventunenne Flora Stone. Due anni dopo scoprì che Flora, ormai incinta, aveva una relazione con il critico teatrale Harry Larkyns. Andò a casa di Larkyns e, dopo avergli detto “Buonasera, mi chiamo Muybridge, le ho portato la risposta alla lettera che ha inviato a mia moglie”, gli sparò.

Fu processato per omicidio e assolto dalla giuria per “justifiable homicide”.

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In seguito Muybridge proseguì le sue ricerche, sperimentando la cronofotografia e dedicandosi soprattutto allo studio del movimento negli animali e negli atleti; i frutti di queste ricerche hanno contribuito allo sviluppo della biomeccanica.
Il suo lavoro ha inoltre influenzato numerosi artisti di varie discipline, epoche e nazionalità, da Duchamp a Francis Bacon, a Jim Morrison. Il brano che state ascoltando è tratto da The Photographer, l’opera che Philip Glass ha composto nel 1982 ispirandosi alla sua figura e, in particolare, alla vicenda dell’omicidio di Larkyns; il libretto dell’opera ha tratto spunto anche dai verbali processuali e da alcune lettere di Muybridge alla moglie.

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Appunti su “Tutta un’altra storia” di Giovanni Dall’Orto

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di Carlo Alberto Frassanito

Quando ho letto per la prima volta Dall’Orto ero uno sbarbatello alle prese con l’etimologia dell’ingiuriativo “finocchio”. Non mi convinceva la vulgata, in auge allora come adesso, sui roghi sodomitici all’aroma d’anice. Tramite la rete, unico strumento di ricerca che potessi all’epoca permettermi, m’imbattevo casualmente nel checcabolario, dictionnaire raisonné dell’onomastica
omosessuale. E di lemma in lemma prima, di articolo in articolo poi, cominciavo ad avvicinare quel pozzo senza fondo di materiali e idee che era, ed è tuttora, giovannidallorto.com.

A secoli di distanza dalla pubertà, conclusa la lettura dell’ultima pubblicazione di Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra (edito da Il Saggiatore), la sensazione che ho avvertito è stata inaspettatamente la medesima dei miei lunghi anni imberbi, vale a dire quella di chi si rende conto di essersi perso un pezzo della storia, un pezzo bello grosso per giunta.

Nel suo libro Dall’Orto racconta svariate cose interessanti. La sua personale idiosincrasia nei riguardi dei luoghi comuni lo induce a capovolgere cliché storici putrefattisi da tempo nella nostra privata Weltanschauung. E se alcuni di questi smascheramenti provocano istantanei sollievi – è il caso della presunta bisessualità grecoromana, oppure dell’ascendenza biblica del pregiudizio sulla contranaturalità omoerotica, di origine in realtà accademico-stoica – altri generano un certo fastidioso imbarazzo (se non altro nel sottoscritto), come le prove di un’aspirazione al matrimonio egualitario risalente almeno al XVI secolo e de facto più vecchia di quanto era lecito aspettarsi; Altri ancora, poi, non è difficile vaticinarlo, susciteranno ulteriori occasioni di dibattito, primo fra tutti il rinvenimento di una concezione innatista dell’omosessualità databile all’età antica.

Tutta un’altra storia è per sua esplicita ammissione uno “strano” libro di storia. Eppure, la sua “stranezza” non risiede nel programmatico rifiuto dell’impostazione per exempla, dell’immancabile, e invero un po’ voyeuristico, martirologio delle checche illustri, né tantomeno nello stile, lontano anni luce dalla prosa sedativa a cui ci ha reso avvezzi l’accademia e che, se non temessi di essere frainteso, definirei “frocio”, vale a dire ironico, franco e scintillante. Si tratta, invece, di un libro “strano” perché costantemente e volutamente polemico.

Fin dalle premesse del suo discorso, Dall’Orto ingaggia una mordace battaglia contro coloro chedefinisce, con intento più critico che semplificatorio, “invenzionisti”, ossia i sostenitori della tesi, di derivazione foucaultiana, per la quale l’omosessualità rappresenterebbe una costruzione sociale formatasi tra il XVIII e il XIX secolo, piuttosto che una realtà ontologica o un’immanenza umana.

Alla confutazione di Foucault l’Autore ha dedicato finanche un intero capitolo che, per discutibili ragioni editoriali, è rimasto escluso dal volume cartaceo, benché reperibile online.

C’è da dire che la polemica non è affatto pretestuosa, la questione che s’intende discutere è tutt’altro che gratuita e da essa dipende lo statuto stesso del saggio: se non si dà l’esistenza dell’omosessualità cade di necessità la ragion d’essere di una storia della stessa.

I termini della diatriba, nondimeno, appaiono come offuscati da alcuni fraintendimenti di fondo. Se è vero che Dall’Orto dimostra, prove documentarie alla mano, che concezioni essenzialiste e performative dell’omosessualità si sono sovrapposte in pratica da sempre e ben prima del XVIII secolo, dall’altro non si può omettere, in primis, che Foucault non era, a suo stesso dire, uno storico
stricto sensu e che più volte nelle sue opere si premura di chiarire che le sue ricerche sono funzionali più al sostegno di un ragionamento, che all’accuratezza della ricostruzione storica; in secundis che, proprio in virtù della sua atipicità, Foucault muoveva da presupposti (speculativi) già di per sé antiessenzialisti, a prescindere dal fatto che si occupasse di sessualità, di follia o di checchessia.

L’intento di Dall’Orto appare peraltro più che nobile e s’intreccia alle motivazioni che lo hanno persuaso a scrivere una storia dei finocchi occidentali. Il ricercare nel passato le tracce di un’antica frocietà palesa il disegno di rinsaldare quell’identità omosessuale tanto a lungo e faticosamente costruita a partire dagli anni settanta del secolo scorso e così indebolita negli ultimi decenni.D’altronde, un effetto della prolificazione dei discorsi post-strutturalisti circa le nozioni di sesso, genere e orientamento sessuale, emblematizzato secondo Dall’Orto dall’infinita sequela di lettere giustapposte quotidianamente all’acronimo LGBT, è stato in modo incontestabile quello di frantumare man mano l’unità e la forza politica di una comunità minoritaria, un tempo conscia dell’importanza della sua compattezza e ad oggi focalizzata pressoché soltanto sulla propria
parcellizzazione individualistica.

In questo processo di minorazione della minoranza, analogo a quello riscontrabile in altri gruppi “minoritari” come quello delle donne, dei precari, dei migranti e via dicendo, non è infondato scorgere una futura dissoluzione della stessa e quindi del suo potenziale oppositivo e antisistemico.

L’evidenza, in più, che certi discorsi di moltiplicazione identitaria provengano dall’accademia nordamericana, quelli di Butler innanzitutto, e che, come ben rileva Dall’Orto, denuncino una certa tendenza all’esportazione di modelli di contestazione estranei a quelli nostrani, porta a sospettare che stiamo forse saggiando, per dirla con Foucault, degli inediti dispositivi di sapere e potere.

Lungi dal voler offrire, in questa o in altra sede, alcuna proposta risolutiva circa la vexata quaestio se froci “lo si è” oppure “lo si fa”, mi limito a suggerire come la negazione di una realtà ontologica all’omosessualità non escluda a priori la costruzione di un’identità omosessuale contingente. In altre parole, non vedo perché in un contesto storicamente dato non possa comporsi senza sensi di colpa un profilo identitario, quantunque socialmente e culturalmente fondato, che accomuni fra di loro gli invertiti e con essi le lesbiche, i bisessuali, i transessuali e qualunque altro individuo sia portatore di una sessualità alternativa alla norma.

Si obietterà che un siffatto esperimento di artefatta integrazione possa risultare castrante e riduttivo per i soggetti che vi sono coinvolti, che sia pericolosamente simile ad alcuni tentativi di fondazione identitaria studiati a tavolino, come l’italianità neoromana di matrice fascista o la padanità pseudoceltica della Lega ante Salvini, che finisca per essere eterodeterminato dalla norma perché si realizza nella negazione della stessa. Eppure tutti questi vizi di forma sono compensati dalla forza oppositiva che una comunità coesa eserciterebbe, e al contempo attenuati dalla consapevolezza che il collante sarebbe in ogni caso un’identità ideologica e non “reale”.

Si tratterebbe, in sostanza, di sostituire ad un’identità gay tout court un’identità gay indebolita quel tanto che basti a non scadere, alla stregua di tutte le ideologie, in derive autoritarie, gerarchizzanti, escludenti e colonizzatrici (come quelle di chi tenta di sbiancare Stonewall). Un’identità che si collochi nella contingenza, nell’Italia, ad esempio, in cui una legge dello Stato, salutata come progressista, non soltanto istituzionalizza una discriminazione, ma impone che il riconoscimento giuridico dei rapporti interpersonali sessualizzati passi in maniera esclusiva dallo scimmiottamento della coppia eterosessuale; oppure, per dire, nell’Occidente che sullo sfondo di una strage omofobica proietta l’arcinoto spettacolo sullo scontro di civiltà, mentre tace sulla liberalizzazione, imposta dalle lobby transnazionali, del consumo della violenza armata.

Nessuno nega che si parli di una possibilità molto semplice sulla carta, ma oltremodo più difficoltosa nella pratica, una possibilità destinata gratia sui a parecchi compromessi, errori e scacchi. Se non altro, tuttavia, assumendo una teoria identitaria del genere, in una prospettiva, mi si passi la locuzione vattimiana, di “sessualità debole”, una storia come quella di Dall’Orto può addossarsi il significato di quello che in effetti è: un’azione politica, l’atto sovversivo di un movimento di interpretazione omosessuale.

Giovanni Dall’Orto
Tutta un’altra storia
Il Saggiatore
ISBN 9788842818748
Pagine 728
€ 27.00

 

Da “Fiore inverso”

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(È da poco uscito Il fiore inverso, ultimo lavoro – libro+cd – di Lello Voce e Frank Nemola. Pubblichiamo qui un estratto del saggio Per una poesia ben temperata, incluso nel libro, e una traccia audio.)

 

di Lello Voce

(…) Una delle ragioni per le quali la poesia ‘muta’ e gli integerrimi custodi della letteratura, i critici letterari e i filologi, hanno avuto cura di rifiutare con costante fermezza ogni rapporto possibile tra poesia e musica, pur dinanzi all’evidenza storica di un dialogo costante e di una condivisione sentita a lungo come necessaria da entrambe le arti, è probabilmente proprio il bisogno di cancellare ogni memoria di un rapporto che, al solo ricordarlo, avrebbe posto di nuovo la poesia di fronte alla sua natura sostanzialmente orale e sonora.

Phyla – invertebrati

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di Mariasole Ariot20150911_192816

 

Sono nata da un’assenza. I volti appesi alle pareti grondano sulle cose, spargono dolore sui movimenti, zittiscono. Di questo silenzio non ci diciamo che millenni, piccoli rimasugli di terra nelle bocche che occludono il passaggio : chinàti a raccoglierci non facciamo ombra, siamo come mantidi dello stesso sesso che sputano i resti nello spazio.
Eppure a volte, nella congiuntura immobile delle gambe, responsabilizziamo un futuro per accogliere il passato  : anni di non dire, del non fare dimenticanza né vuoto, di paesi che immensano cascate, un cerchio imperfetto del reale.

Quanto non sentito, quanto non finito : l’intervento dell’irremediabile è combustione.

Poi arriva il sonno delle cause, il debole chiudersi di una corolla poco prima del risveglio : se non siamo che questo indicibile svenire, origliamo il rumore della parola e della pietra, annusiamo i ricordi e ci fermiamo.

Il tempo è chiuso, la cinta delle rocce ci contiene.

***

Ma nei primi giorni di caldo, le nostre facce si mettono a seccare, ci piantiamo ulivi per non piangere vergogna. Di questo esperimento della fine, del fine che fa uno col finire, resta un buco nel costato, una debole cavità della parola. Nella stanza ha un luogo l’ombelico – e sotto lo sterno, che brilla di postura e di selciato, si aprono contesti matricidi :  un occhio dentro l’occhio che non cade, sospeso al terrore minaccioso, un incubo pensato nel mattino.

Urla : lo spazio del silenzio. Preme : un luogo di materia, un sasso fosforoso come il niente.

Quando arriva il sonno districhiamo gli arti : braccia a braccia con il vuoto accade il germinare : di quanta indegnità circondo, di quanto non valere è il mio stupore? Resto accovacciata sul bordo della vita, scardino una mensola di libri, m’intossico di Indegno.

I giochi dei bambini sono nudi, la testa si fa fossa e si pronuncia.

***

Nelle ore più fredde ci asciughiamo il viso, il pianto forestale di una cavità terrestre. La mia paura è la nostra paura, cieca come un cane disperato dalla luce, un comodo abbassarsi e ritornare, un fuoco che scolpisce la mia parte, che porta in seno una miseria : il resto di uno scarto di frattaglie.
La cura è cominciare l’inatteso.

Ma : madre di costola e di fiume, dove si arresta il termine comincia il tuo lamento : un falso brulicare della mente. L’angoscia è questo cadere dal basso, le pupille dilatate, il non stormire. Muovi un passo, fraseggia i miei conati.

***

Poi ci sediamo. Mescoliamo le parole per vendetta [umida figura dell’udire]. Se non siamo sguardo, se non siamo ombra, se l’ombra ricade come oggetto, se il gettito di cosa non annuncia : pietrifica.
A tratti separiamo, dividiamo il fogliame dalla morte, da questo incunerasi del tentare. L’esistere è già caduto, un pallido imitare l’esistenza, un gatto imbalsamato per il lutto. Di quanto mondo è un mondo? , di quanto non finisce il non finire?
I torturati hanno addosso un Assoluto, vestono i vestiti della nebbia, si chinano sul bordo delle cose.
Se il vero è il già parlato, di cosa è materia il non vissuto?

***

Sulla scena del mondo piangono le donne, detriti derisi dall’umore – e io mi affaccio, striscio come un verme sugli oggetti, mi cibo della terra, il particolato sottile in sospensione. Lui scrive : intestini del suolo.

***

Dico – dici che sia un peccato
Perdere questa casa, quantificare
la perdita, durare.
Dici che sia
Quando non è dire ma adornare
Di piccoli gesti i giudizi, i falsi giochi
Le giunture.
Dico – dici che sia peccato
Piovere sulle cose
Quando è un come, il derivato, la deriva
Dici che sia, di gesti ingiusti, vittima.
Dici – Dico che sia vita.

 

 

Tolleranti a tutto. Preparati a niente.

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chimiary brilli

di Alessandro Trevisani*

Ci vuole rabbia, ferocia, determinazione e probabilmente anche premeditazione. Ci vuole parecchio di tutto ciò per uccidere un uomo con le proprie mani. Pare che il colpo letale, a Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, sia stato dato con un palo della segnaletica stradale. Una botta alla nuca che gli avrebbe spappolato il cervelletto, riducendolo in coma irreversibile, nella serata di martedì. Fino alla morte, avvenuta ieri sera. Piange la compagna Chimiary, 24 anni, che nella colluttazione coi due “ultras” della Fermana le aveva prese anche lei. Piange l’anima di tutto il Paese, almeno quello che non si lascia abbrutire da sottilizzazioni e crudeltà che fanno gelare il sangue – per averne un saggio leggete i commenti a questo articolo del Giornale.

La storia di Emmanuel e Chimiary, poi, era già agghiacciante prima del fatto: avevano perso i genitori e una figlia di 2 anni in un attentato di Boko Haram a una chiesa, in Nigeria. Lei ha perso un altro figlio durante la traversata nel Mediterraneo, per raggiungere quell’Italia dove il marito ha trovato la morte. E mentre c’è un indagato – un fermano 38enne, tale Amedeo Mancini, stando a CM – la sola cosa certa è che è successo tutto qui da noi, nelle Marche, in un humus di razzismo e provincialismo nutrito a Facebook e Quinta colonna, dove un distinguo benaltrista (“E a casa loro, figurati, come fanno?”)  è la premessa di un sillogismo pratico che autorizza a tutto. E finisce con le botte che uccidono, senza che nessuno si accorga, prima, che c’è qualcosa che non va, in curva, a scuola, in palestra. Che c’è gente fuori controllo che si regola “per contro proprio”.

Intanto, però, diamo la parola a Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, che da 8 mesi ospitava Emmanuel e quella che di fatto, pur non essendo sposati, era sua moglie. Prendiamo qualche frase da questa intervista telefonica a Radio Capital, pubblicata online da La Repubblica.

Sull’ambiente in cui si innesca l’episodio: “C’è un’arroganza gratuita nei confronti degli stranieri. Un mondo ristretto, ma violento, di una violenza gratuita”. 

Sugli autori del fatto: “Personaggi che si divertono a diventare coloro che salvano la patria, se la prendono coi preti che aiutano gli stranieri o fanno opera di accoglienza, approfittando della tolleranza che la gente ha. Teste calde che fanno una specie di circolo, coinvolgono i giovani…”.

Sulle Marche e il fermano: “Non è mai stata una terra di rifiuto e di razzismo. Chi sta al mare è sempre tollerante, ma questo fa da sostrato a questi picchi di arroganza che la passano liscia. Questa è gente conosciuta dalla polizia, condannata più volte. C’è una specie di sottovalutazione del fenomeno”.

Don Vinicio dice pure che gli autori del fatto sono del “giro delle bombe davanti alle chiese“. Noi ne avevamo scritto sulla nostra pagina Facebook: i luoghi di apostolato di Don Vinicio, da gennaio in qua, sono stati colpiti da quattro ordigni. Tre esplosi senza far vittime, davanti a tre chiese: Duomo, San Tommaso, San Marco alle Paludi, quella dove fa messa Don Vinicio. E un quarto inesploso, ma trovato sotto il portone della chiesa di San Gabriele dell’Addolorata a Campiglione di Fermo.

Partiamo da qui. Le bombe per Don Vinicio. Prete scomodo, criticato, prete dell’accoglienza. Prete che toglie le prostitute dalla strada, a Lido San Tommaso. Che organizza un’agenzia, Redattore Sociale, dedicata a emarginazione, handicap e integrazione, che ha fatto scuola nel mondo del giornalismo. Un prete che ricovera 124 profughi, tra cui 19 nigeriani, al seminario arcivescovile di Fermo (NB Emmanuel aspettava da almeno 7 mesi la risposta alla sua domanda di asilo – e fuggiva dagli islamisti tagliagole di Boko Haram, mica dalla Brexit, ne vogliamo parlare?). Ad ogni modo le bombe dirette a intimidire Don Vinicio avevano “conquistato” i titoli di apertura del Carlino, del Corriere Adriatico, dei nostri giornali. Ma questo sarebbe ovvio. E soprattutto non basta. Erano quattro bombe. QUATTRO. Sulle nostre chiese. Quanti, nelle Marche e fuori, conoscono questi fatti? Chi li ha messi a tema? Chi ci ha fatto un’inchiesta? 

Ma andiamo avanti. Noi Don Vinicio l’avevamo conosciuto due settimane fa, partecipando a un’affollata e bellissima serata de L’altro festival, alla terrazza di Capodarco. Si tratta di una kermesse di cinema condotta ogni anno dalla iena Andrea Pellizzari. Per farsi un’idea solo quest’anno c’erano ospiti Jasmine Trinca, la iena Pif, i Marlene Kuntz, in un pout pourri di lungometraggi, cortometraggi, degustazioni gratuite. Quella sera c’era Luca Marinelli, lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, che in mezzo a 400 persone si è rivisto un altro suo bellissimo film, Non essere cattivo, per poi concedersi a una cinquantina di entusiasti “selfisti”.

Con Don Vinicio, invece, avevamo scambiato due parole a fine serata. “Io la tengo d’occhio, Don Vinicio, per la prossima intervista che faccio”, fu il nostro approccio, “a proposito, le indagini?”. E lui: “Mah, i carabinieri di qui non hanno la logistica, non hanno i mezzi. Non ce la fanno”. Poi Albanesi aveva imboccato l’ingresso della Comunità e noi l’avevamo congedato con una frase amara: “Bene. Anzi, male”. Una chiacchieretta rachitica, che dice molto del nostro essere marchigiani, tolleranti, morbidi, cinici, e perciò, volendo, inclini ad ingoiare di tutto.

Proprio così. Stavamo parlando di bombe, e abbiamo fatto cadere il discorso. Come se un’intervista con Don Vinicio, per essere fatta, debba aspettare la prossima bomba – cosa che però è parte del giornalismo, che batte il ferro caldo, non ragiona a freddo, né fa dibattito su una bomba di 2 mesi fa, 2 settimane, anche 2 giorni fa, ma scherzi?, e infatti un settimanale aveva già declinato una nostra proposta d’intervista, a maggio. Non solo, Marchebbello su quelle bombe aveva preparato un post, Bomba o non bomba, che faceva un mazzo solo con l’ordigno inesploso trovato davanti al Tribunale di Ancona il 28 aprile scorso. Un pezzo che giace da due mesi nelle nostre “bozze”.

Eh già. Perché noi di Marchebbello siamo marchigiani pure noi, cosa credete. Mica stiamo lì col taccuino aperto e la videocamera carica 24h. Macché. Anzi. Sentiamo il terremoto all’alba nel letto, al largo di Numana, e ci giriamo dall’altra parte. Picchiano una ragazza incinta mandata a prostituire in pineta, a Porto Recanati, e lo lasciamo scrivere agli altri. L’Hotel House, 3mila abitanti, quasi 4 d’estate, è senz’acqua potabile da 7 mesi, e lo diciamo “di sbiffo” in un post di campagna elettorale. Perché ci vuole una bella dose di paciosa, criminogena, autolesionistica tolleranza, per dirsi marchigiani, oggi. Si indigna poco, il marchigiano, fa l’uomo di mondo. C’è puzza di riciclaggio intorno ai soldi dell’operazione “turistica”? “Evabbeh, chissà come li faranno gli alberghi, al giorno d’oggi! Eddaje!”, ti risponde un compaesano. “Oh, sarà pure la mafia, nomme frega: se fanne el resort io vojo sapè, venno più pizze?“, ci chiede un altro baldo conterraneo, due anni fa. E via languendo, tollerando. Uniformandosi.

Quindi ha fatto centro Don Vinicio, parlando alla radio. La nostra “tolleranza” non è comprensione. Ma il “sostrato”, lo sfondo dove tutto sta bene, tutto si incastra e convive: picchi di talento, generosità, inventiva, coraggio sportivo, ma anche squallore, violenza, ferocia, intimidazione. Tamberi, Di Francisca, Vale Rossi. Delitto Sarchiè, Banca Marche, strage di Sambucheto. Il marchigiano vede ma non contempla, sbircia ma non giudica, valuta, ma non apprezza, né condanna. “Strozza” tutto con la Passerina, con la crema fritta, con la Vernaccia.

E non si lascia colpire, il marchigiano, sfuggendo così alla teoria dello “choc”, enunciata da Walter Benjamin 100 anni fa, e diventata da tempo il principio regolatore della nostra società: per l’uomo moderno ogni esperienza è un piccolo knock out, un urto senza il quale non ci accorgeremmo di nulla (da cui la cultura della discoteca, la società dello spettacolo, il culto del corpo e dell’immagine). Ma il marchigiano “medio” – similmente a tanti italiani, per carità – è già oltre: non va mai KO, non si impressiona, metabolizza senza crescere, diventa “grande” senza fare imprinting, quindi senza prepararsi. Ha il pentagramma “alto”. Mette tutto tra le righe. Perdona. Anzi, dimentica. Anzi, fa finta de gné, fin dall’inizio. Gli occhi a mezz’asta, il fare scocciato, non si compromette, non si manifesta, non si espone. Non critica, si adatta. Non vive, sopravvive. Si comporta ammodo. E mal sopporta chi diverge dall’andazzo generale, anzi lo bacchetta, lo avverte, lo biasima a forza di co’ te frega?

Così stamattina verrà Angelino Alfano a Fermo. E si farà un giro “riverginante” tra i profughi, per aggiustarsi l’immagine stropicciata dal caso delle “nomine” e farsi bello coi giornalisti “de sinistra” e i partner di governo. E con Alfano ci rivergineremo anche noi: gli indifferenti, i malavoglia, i lassa ‘ndà. Ci sarà un bel po’ di “cinema”, altro che Marinelli, e i giornali confezioneranno qualche reportage su “Fermo violenta”, sulle frange del tifo impazzito. Qualcuno si offenderà, obietterà che “non siamo così, è un’immagine distorta”. E poi via come prima. Duri di testa, come gli scogli. Morbidi di atteggiamenti, come il ciauscolo. Fino al prossimo Emmanuel.

 

 

*L’articolo di Alessandro Trevisani è apparso su Marchebbello https://frontedelportoblog.wordpress.com/
TOLLERANTI A TUTTO, PREPARATI A NIENTE. PRATICAMENTE MARCHIGIANI
(7 luglio 2016)

La foto di Chimiary è di Ennio Brilli.

 

Extraterrestrial activity #3: Oscurità

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solar-darkness-8 copertina di reflector 2012 rivista di astrofotografia

Lord Byron*

Ebbi un sogno, che non fu per nulla un sogno

Diritto d’asilo: cosa stiamo aspettando ?

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il 18 ottobre 2013 pubblicavamo qui su Nazione Indiana un post, firmato da tutta la redazione, intitolato Diritto d’asilo: una proposta politica. Al quale rispondeva dopo sei giorni il diplomatico Domenico Fornara, spiegando in qualche modo cosa può fare la diplomazia internazionale e cosa non può.

Adesso è sotto gli occhi di tutti quello che accade: centinaia e centinaia di morti, e morte, in Mediterraneo, il “Nostro mare”. Noi ci chiediamo ogni giorno che passa: cosa stiamo ancora aspettando? Cosa aspettiamo per superare le ragioni dell’ufficialità diplomatica e ascoltare quelle di una ragione più alta, e in ogni caso, da ogni punto di vista, migliore?
È stata riferita in questi giorni la notizia, ancora non ufficialmente confermata, che i cosiddetti scafisti ammazzano chi non può pagare e vendono i suoi organi al mercato nero relativo.
Che cosa aspettiamo ad organizzare un trasporto legale, sicuro e gratuito per chi si affolla sulle coste nordafricane, con le nostre navi, visto che l’Europa sembra sempre più in altre faccende affaccendata; le nostre navi che, comunque e sacrosantamente, sono tutto il giorno in mare a recuperare corpi vivi e corpi morti, tutti i giorni e tutte le notti a rispondere alla disperazione e alla sofferenza. Noi crediamo che spenderemmo anche di meno ad istituire un simile servizio legale ed efficiente, metteremmo fuori gioco i sempre più ignobili scafisti (invece di arrestarli in Italia e poi subito rilasciarli che vadano a continuare il loro sporco lavoro), daremmo la possibilità a esseri umani, che fuggono dalla guerra e dagli orrori, di arrivare da noi con la certezza di non lasciare la pelle in mare. Cosa stiamo aspettando? Quanti morti e quante morte, uomini, donne e bambini dobbiamo ancora sacrificare sull’altare della ragione diplomatica?

Da una lingua caraibica: due poesie di Raffaele BB Lazzara

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di Raffaele BB Lazzara

( Nelle scorse settimane è mancato improvvisamente nella sua casa di Cormons Raffaele BB Lazzara, poeta in friulano ma anche in italiano alla ricerca di una lingua caraibica secondo le sue parole, membro del collettivo poetico dei Trastolons, militante anarchico. Ricordo qui il suo lavoro poetico con due sue poesie, g.m.)

 

Mattutino ( Collio friulano al mattino)

 Come l’uccello del mattino

che canta nella nebbia l’oro in bocca

così canta il bambino che suona i suoi tamburi

trabocca di sangue e vino la sua bocca margherita

e il suono risveglia le colline, alza le nubi, sa di vita

cenciando duri si rallegrano i questuanti neri

fra la meraviglia del destino e la chiglia della nave di rubino

che riporta alla tua porta l’escluso e poi l’imbocca

di parole ragnatele in una lingua che elemosina il ripudio

ed il cammino senza scorta d’ogni cuore buono

senza patria senza porta senza graffi di parole a un cuore stanco

ed è a matita che spunto questo sudore clandestino

‘ché dai colli discendono le fate

per fare dei prati lente rugiade di gemme e di zaffiro

nell’aria azzurra che respiro

e questo andare

in faccia al tondo mondo di bambole e bastardi

che “succhiami le croste fra i capelli radi”

che “svelami le tue caviglie” sempre tardi

e il ballo incombe sulle luminarie

fra i posacenere, Bacco, tabacco e Venere

piccola ala di piccolo uccelletto

apri la tenda, scoperchiami il tetto

e fra i diamanti nell’erba marcia e calda

acida e rara

spacca la tazza e ammazza la talpa.

 

Cormons 2011

 

Soredut ( Pachamama te veo tan triste)

 

Soredut

jo ‘o cròt

ch’a sedin sclets

i fruts ch’a nasin cole y crac

le bisebove

il farc

i vecjus mats e ju scauets

sclaudâts, scuincjâts,scuardâts

 

 

e cheste int scalembre

cjale le lûs dal ceil

tanche una bausie no

e podares fâ mai

 

tequile y tocai

pal tananai dal maj

pai stuarts e i sants

pai canai

in zouc

in dance dilunc dal fosai

 

sclets i fradis dal Cercli

dal blancunin, dal gneur

dal crot sclitsât

par l’asfalt cu l polear crevât

e le bighe sgonfle

lu zarviel pintât di zâl

tanche il flour dal violâr.

 

Camino al Tagliamento 2001

 

Soprattutto ( traduzione italiana dell’autore)

 

Soprattutto

credo

che siano veri

i bambini che si fanno di colla o di crack

Il tornado

la talpa

i vecchi matti

gli schiodati gli sconditi gli scordati

 

e questa gente storta

guarda la luce del giorno

come una bugia

non potrà mai

 

tequila e tocaj

per i casini del maggio

per gli storti e i santi

per i bimbi

in gioco in danza

lungo i fossi

 

soprattutto credo che

siano veri i fratelli del cerchio

del bianconiglio della lepre

della rana spiaccicata

lungo l’asfalto con il pollice tagliato

e il membro duro

il cervello pitturato di giallo

come il fiore del violâr

 

Nota:  violar è la violacciocca

Omaggio a Horcynus Orca

5

di Davide Orecchio

horcynus

C’era un uomo coi capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, quindi dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non cera nulla! Insomma, non sappiamo nemmeno di chi stiamo parlando. Meglio non parlare di lui mai più”. – Daniil Charms

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore italiano.

Se non fosse stato italiano, lo scrittore che io conoscevo, potrei dire della sua altezza media, dei suoi capelli soffici e neri, della sua lieve miopia. E che portava gli occhiali di John Lennon: rotondi, dorati, sottili. E che indossava felpe di cotone e pantaloni larghi. E giacche di velluto. E che mangiava kebab. E che non era interessato alle cose attuali della vita, alla cronaca, ai fatti e ai misfatti. E che amava i libri. E che cercava la vita nei libri.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo quindi anche un lettore. E se fosse stato solo un lettore, colui che io conoscevo, potrei dire della sua grandezza. Aristocratica. Perché molti anni fa, pochi anni fa, oggi: ciascun lettore che è solo un lettore, che non vuol essere altro, ha una grandezza. Aristocratica. Una libertà. Una completezza. Ed è raro. Ed è pregiato.

Ma lui, che io conoscevo, non era solo un lettore, era anche uno scrittore, era solo uno scrittore italiano e dunque dovrò dire che non era né alto né basso né di altezza media. Che non aveva capelli. Che non aveva occhi né occhiali. Che era nudo. Che non vestiva alcun abito. Che non mangiava. Che non beveva. Che era invisibile. Che nessuno aspettava la sua scrittura: non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni. Che a nessuno interessavano le sue correzioni, i suoi progressi, le prime stesure, le seconde stesure. Che nessun editore gli versava anticipi e attendeva consegne da lui.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Molti anni fa, pochi anni fa, oggi, nel nostro tempo questo scrittore italiano non aveva le mani per digitare sui tasti e non arrivava all’altezza del tavolo e, privo di un corpo, non poteva sedere, accendere, guardare, correggere, moltiplicare le pagine, mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Ma c’era la casa. Lo scrittore per sua fortuna aveva una casa. Piena di libri, questa era davvero la casa ideale per un lettore, e per lo scrittore. I libri erano migliaia ed erano creature che si offrivano come in un parco di giochi (sali sulla mia giostra), o come in un quartiere a luci rosse (scegli me, vieni a divertirti). La casa era la madre dei libri, o forse la ruffiana, e li conosceva tutti e nella casa lo scrittore non era invisibile. Nella casa lo scrittore aveva gli occhi, gli occhiali, l’altezza media, le mani per scrivere, le dita per accendere il computer, la forza di mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

E aveva i libri.

Alcuni li portò lo scrittore. Altri già erano nella casa, i più misteriosi: perché erano vecchi, più vecchi dello scrittore, perché erano nati prima di lui e avevano polvere, odore antico, un colore giallo di fossile, benda di mummia. Lo scrittore, che abitava la casa da sempre, si fidava di lei, la notte si addormentava sereno dentro di lei, non temeva spettri né fantasmi e nessuna imboscata nei corridoi fitti di scaffali e volumi. Ogni tanto prendeva un libro, lo leggeva e qualcosa di lui cambiava. Questa era la scrittura del mondo. E il mondo entrava nello scrittore.

Ma lui cercava una voce. Molti anni fa. Pochi anni fa. Prima ancora che io lo conoscessi. Lo scrittore era stato giovane. E aveva iniziato a cercare una voce. Questa voce, pensava lo scrittore, un giorno verrà fuori e sarà solo mia, inconfondibile, forse roca, forse acuta, ad alcuni piacerà, ad altri farà schifo, ma sarà pur sempre la mia voce e io non sarò più invisibile. Nel frattempo lui esercitava la voce. Perché aveva i libri per esercitarsi.

Lesse Carver e iniziò a scrivere frasi brevi per racconti concisi. Lesse Proust e per imitarlo si perse in un proprio journal intime di periodi incatenati. Erano solo stagioni della sua scrittura. Mentre cercava una voce. Esercitava lo stile. Non sapeva chi fosse. Rubava agli altri lo stile. Si infilava in un ventriloquio di stile. Erano solo stagioni. Molti anni fa. Pochi anni fa. Della sua scrittura. Lo scrittore ne usciva sempre. Lasciava Proust alle spalle. Lasciava Carver alle spalle. E andava avanti.

Finché da uno scaffale, una notte, tirò giù un libro.

E tutto, all’improvviso, cambiò1.

La copertina del libro era una cornice di blu. Il libro era enorme. Il libro contava più di mille pagine. Eppure lui non si scoraggiò, decise di leggerlo, aprì la prima pagina e il sole tramontò quattro volte sulla sua lettura e alla fine del quarto giorno e della quarta notte lo scrittore italiano che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, era diventato un marinaio, anzi un nocchiero, e viaggiava nel paese delle Femmine, e solcava i mari dello scill’e cariddi e il sole lo aveva raggiunto

 

«COL SUO FREDDO RIFLESSO DI MORTE. DALLE ISOLE, E OLTRE, DA GIBILTERRA, LA SUA LUCE RASENTE AL MARE APPRODAVA UN’ULTIMA VOLTA A QUELLA RIVA, SENZA PIÙ PESO NÉ FULGORE, E PIGLIAVA A SALIRE, OSCURANDO PER LA SPIAGGIA E LA PLAIA: DIETRO, FRA IMPROVVISE SERPENTINE, BIANCHE E ROSSE, DI FIAMMA, SI FACEVA VIAVIA L’OMBRA, COME SE GLI ULTIMI RAGGI SI CONSUMASSERO DA SOLI IN UN GUIZZO, RIDUCENDOSI IN CENERE E CARBONELLA, CONFUSI AI GRANELLI DI SABBIA».

 

E lui leggeva, viveva, s’inoltrava nel viaggio, arrivò persino a «nuotare un bel pezzo fra tenebre e trasparenze azzurrastre, andando e venendo in giro fra gli scogli sabbiosi (…) in un silenzio senza schiume». Nuotava «il nuotare del pesce che nuota nel verso del pelo marino». Però lo scrittore, che adesso era un lettore, e che abitava una lingua potente, «gira gira, non si ritrovava, qualcosa gli sfuggiva sempre e questo qualcosa gli pareva di averlo sempre alle spalle e gli pareva per questo di inseguire se stesso».

Insomma era pieno di dubbi, ma senza il tempo di coltivarli perché già gli appariva l’orcaferone che intitolava il libro di polvere dalla cornice di blu, e questo «animalone» affiorò proprio tra lo scill’e cariddi che lui andava leggendo, e aveva una «piagona sdilabbrata» il cui fetore raddoppiava nel sole e lui, lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, fece il gesto di turarsi il naso mentre la bestia enorme, terribile «andava sfilando» «da mare a mare e nella gran solitudine dello scill’e cariddi, attorno alla sua mole gigantesca, attorno alla sua sagoma tenebrosa e rabbrividente» e «sembrava spirare un alone di spaventevole fatalità, come di essere fantastico e irraggiungibile» e lo scrittore – ormai un lettore – pensò – nella lingua che lo possedeva tutto, con le parole esatte del libro che diventavano anche sue proprie, anzi era lui che apparteneva a quelle parole – di assistere a «un essere dell’altromondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due», e ascoltò poi «il fischio o sibilo, sgraziatissimo» dell’orcaferone che nel suo «massimo nuoto» gli passava accanto (a lui, allo scrittore che io conoscevo) e sfiatava, spruzzava, pigliava l’acqua «sfacciatamente». E si spaventò di quello che lesse e di quello che vide.

Al quinto giorno interruppe il libro. Si alzò dal letto. Accese il computer. Provò a scrivere ma non trovò più la sua voce. Trovò invece un pupazzo parlante. Il pupazzo parlava la lingua di Horcynus. Il pupazzo era lui. Legava i vocaboli in nuove parole. Lessicava in dialetto. Non faceva che nominare fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra. E vedeva solo lo Stretto, e le isole, e l’isola grande, e i delfini feroci, e il più grande dei pesci, e non aveva più nomi se non quelli nominati da Horcynus, e non aveva più verbi se non quelli coniugati da Horcynus. E di nuovo si spaventò. Anche ai pupazzi capita di spaventarsi. Avrebbe potuto fare l’inchino come un gatto di legno. E, come un orsetto di pezza, avrebbe potuto, fino all’esaurirsi delle sue batterie, cantilenare il verdone che, «si sa, è lui il vero pellesquadra, lui è lo sguardo di nome e di fatto, lui è l’origine, pelle per squadrare, rasposa come la cartavetrata».

Allora spense il computer. Pupazzo horcynusorcizzato. Scrittore di una scrittura d’altri. Immaginatore di fantasie in prestito. Creatore di creature già create. Pensò: faccio ancora in tempo a salvarmi? E già correva al libro dalla cornice blu. E lo prendeva. E apriva un ripostiglio di cappotti e coperte. E ci seppelliva il libro di Horcynus. E chiudeva il ripostiglio. E chiudeva la stanza dov’era il ripostiglio. E andava lontano, nella casa, nel punto più distante dal ripostiglio. E pensava: forse mi sono salvato, adesso riprendo a parlare e vediamo se sono ancora un pupazzo.

Molti anni fa. Pochi anni. Lo scrittore che io conoscevo parlò e gli tornarono in bocca fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra.

E gli tornò in bocca l’animalone.

Allora era finito. Era posseduto. Non aveva più la sua voce. Moriva la speranza di trovare una voce.

Moriva la speranza.

Ma da uno scaffale, a quel punto, cadde un libro. Questo volume s’intitolava Una storia di amore e di tenebra, ed era dell’israeliano Amos Oz. Il libro cadendo si aprì su una pagina. Lo scrittore che io conoscevo raccolse il libro e lesse la pagina, dove il padre di Oz (studioso di polvere, navigatore di tomi e biblioteche) raccontava questa storiella: “Se rubi la tua sapienza da un libro solo sei un ladro letterario. Un plagiatore. Ma se rubi a piene mani da cinque libri, non sei più un ladro bensì uno studioso, e se poi ti industri a saccheggiare da ben cinquanta libri, allora assurgi al grado di luminare”.

Adesso ho capito – esclamò lo scrittore rivolgendosi alla casa –, hai fatto cadere questo libro per mostrarmi la cura. Posso guarire da Horcynus solo con un altro libro e poi con un altro e un altro ancora. Centinaia di libri mi guariranno da Horcynus. Questo consiglia il padre di Amos Oz. Ma da dove iniziare? Io sto soffrendo. Cosa mi indichi?

E da un altro scaffale cadde un secondo libro. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierlo e subito lesse e si ritrovò in una squadra che ‘era giunta ai piedi dell’ultimo pendio’ e vide che Johnny sospirava ‘al calvario che esso comportava: era così plasmato di fango lievitante che la superficie ne pulsava tutta. L’argilla bulicante aveva pochissimi, quasi ironici cespi di erba fradicia’. Attorno non c’era mare, non c’erano mostri marini, né fere né animaloni. C’era giusto Johnny con la sua squadra, Johnny che ‘prese ad inerpicarsi sui ginocchi, ancorandosi al fango con la mano libera; s’inerpicò e ricadde. Così gli uomini’, così lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, ‘l’angoscia strappando loro bestemmie ed insulti. In una scivolata si perdeva in un lampo quel che era costato minuti di penosa ascesa. Il ricadente precipitava su quello che saliva speranzoso, ed entrambi crollavano al fondo in un abbraccio di disperazione ed ingiurie’.

 

Al fianco dello scrittore che io conoscevo ‘JOHNNY GIACEVA A MEZZA COSTA, ANSANTE E PAZZAMENTE ASSETATO, IN QUELL’ORGIA D’ACQUA; ATTRAVERSO LE MANICHE IL FANGO GLI SI ERA INSINUATO FINO ALLE ASCELLE. SI VOLTÒ A GUARDARE DALLA PARTE DEL NEMICO; FRA UNA FASCIA DI VAPORI VIDE L’AVANGUARDIA FASCISTA A MEZZO CHILOMETRO (…) ALLORA SBATTÉ PIÙ SU LA MITRAGLIATRICE, COME UN TRAGUARDO EMBEDDED NEL FANGO, LA RAGGIUNSE SALENDO SUL VENTRE, LA RISBATTÉ PIÙ SU ED ANCORA LA RAGGIUNSE, FINCHÉ EMERSE, UNA STATUA DI FANGO, SUL CIGLIONE’.

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che si rivolse al partigiano Johnny e gli disse: io qui, su questa altura, sono felice al tuo fianco. Adoro la tua lingua di foresti, valli e macchioni. Adoro la tua browning. Il tuo fango. I tuoi altipiani. Partigiano Johnny. Qui ci sono solo fascisti. Uccidiamo fascisti. Questa è vita. Questa è lettura. Forse sono guarito. Guarda laggiù verso il campo nemico: se tutti dormono, possiamo attaccare, e possiamo vincere. Raggiungeremo il campo passando per il lago che l’affianca. Non hai visto quel lago? Non c’è nelle tue pagine? Vieni con me. Il lago esiste. Immergiamoci. Nessuno ci vede. Il nemico dorme. Saranno poche bracciate. L’acqua non è fredda. L’acqua è calma. L’acqua ci è amica.

Ma molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo si sbagliava su tutto. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus. Perché nell’acqua di quel lago, mentre il partigiano Johnny spariva, mentre lo scrittore avanzava in un nuoto sottomarino, all’improvviso, ancora una volta, riassommò l’orcaferone, persino nell’acqua dolce, «aggallando come d’abitudine, veniva ormai da dire, simile a un isolotto lavico in ebollizione, che raffreddandosi si mostrava ribellato, qua e là, da macchie di filamenti bianchi, striato d’argentature, di tenebrosi luccichii».

E mentre lo scrittore che io conoscevo lo seguiva in silenzio, attentissimo, «e lui si metteva a sfiatare l’acqua imbarcata, impalmandosi la testa con lo zampillo», molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore, «come non si potesse trattenere», come se gli venisse proprio dal cuore, gridò all’animalone: «anima pia, animona generosa e pia», sono ancora il tuo pupazzo, sono ancora prigioniero di Horcynus.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che cercava una voce. Che perse la voce. Che si spaventò. Che lasciò il libro di Johnny. Che cadde sul pavimento della propria casa e le disse: non ha funzionato, sono perduto, tutto è perduto. Ma da un nuovo scaffale cadde un terzo libro, e poi ne cadde un quarto. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierli e subito lesse e si ritrovò su un sentiero di nidi di ragno assieme a un bambino di nome Pin, e tutti e due, bambino e scrittore, camminavano << nel gracidare delle rane >> che << nasce da tutta l’ampia gola del cielo >>, e << il mare è una grande spada luccicante nel fondo della notte >>. Camminano assieme << per i campi coltivati a garofani e a calendule >>. Cercano di tenersi alti << sul declivio delle colline, per passare sopra alla zona dei Comandi >>.

Poi scenderanno al fossato. Questi sono i loro luoghi.

 

<< FRA GRANDI SASSI BIANCHI E IL FRUSCIARE CARTACEO DELLE CANNE. IN FONDO ALLE POZZE DORMONO LE ANGUILLE, LUNGHE QUANTO UN BRACCIO UMANO, CHE A TOGLIERE L’ACQUA SI POSSONO ACCHIAPPARE CON LE MANI. (…) ECCO IL BEUDO, ECCO LA SCORCIATOIA CON I NIDI >>.

 

Riconoscono le pietre. Dissotterrano una pistola. Poi, il bambino Pin e lo scrittore che io conoscevo, si addormentano. E al risveglio vedono << i ritagli di cielo tra i rami del bosco, chiari che quasi fa male guardarli. È giorno, un giorno sereno e libero con canti d’uccelli >>.
Sereno. Così si sentiva lo scrittore leggendo. Immerso in una scrittura rasserenante. Perspicua. Ragionevole. Non mostruosa. Rispettosa di lui. Una scrittura che non l’avrebbe mai potuto trasformare in pupazzo. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo pensò che forse stava guarendo da Horcynus e prese l’altro libro e tutto andò sempre meglio intanto che lui viaggiava tra le città invisibili. Per un breve periodo visse a Sofronia, una città sottile che

 

<< SI COMPONE DI DUE MEZZE CITTÀ. IN UNA C’È IL GRANDE OTTOVOLANTE DALLE RIPIDE GOBBE, LA GIOSTRA CON LA RAGGIERA DI CATENE, LA RUOTA DELLE GABBIE GIREVOLI, IL POZZO DELLA MORTE COI MOTOCICLISTI A TESTA IN GIÙ, LA CUPOLA DEL CIRCO COL GRAPPOLO DEI TRAPEZI CHE PENDE IN MEZZO. L’ALTRA MEZZA CITTÀ È DI PIETRA E MARMO E CEMENTO, CON LA BANCA, GLI OPIFICI, I PALAZZI, IL MATTATOIO, LA SCUOLA E TUTTO IL RESTO. UNA DELLE MEZZE CITTÀ È FISSA, L’ALTRA È PROVVISORIA E QUANDO IL TEMPO DELLA SUA SOSTA È FINITO LA SCHIODANO, LA SMONTANO E LA PORTANO VIA, PER TRAPIANTARLA NEI TERRENI VAGHI D’UN’ALTRA MEZZA CITTÀ >>.

 

Proprio in questo intervallo lo scrittore che io conoscevo si stancò di Sofronia e decise di partire per Despina, << città di confine tra due deserti >>, città che si raggiunge in due modi: << per nave o per cammello >>, << e si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare >>. Lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, decise di raggiungerla dal mare e, << nella foschia della costa >>, dal ponte del veliero, già gli sembrava di scorgere la gobba di un cammello, ossia la città di Despina.

Ma si sbagliava. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus.

Al suo fianco, molti anni fa, pochi anni fa, c’era un marinaio. Viaggiava con lui. Lo scrittore però non s’era accorto di lui. Solo adesso lo vedeva. Studiò il suo profilo, il naso d’aquila, i capelli di corvo, e poi gli chiese: tu sei Calvino? E quello rispose: sono io, mentre tu sei un illuso.

Perché?, domandò lo scrittore che io conoscevo.

Perché non posso aiutarti, rispose Calvino, e tu non puoi fuggire da Horcynus.

Che vuoi dire? Io sono sereno nella tua scrittura. Raggiungeremo Despina. E poi un’altra città. Già si vede la costa.

Non è la costa che vedi, lo corresse Calvino. Quella gobba laggiù, che affiora dal mare, non è la città. Guarda bene. Cos’è che vedi? Non vedi?

Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo guardò meglio la gobba che affiorava dal mare. E iniziò a piangere. Senza rimedio. Perché vide che non era la gobba di un cammello, né quella di una città. Invece era il dorso di un animale che «brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno e sono già sotto i nostri piedi. La sua immensa mole» apparve «affusolata» allo scrittore che io conoscevo mentre «saliva preceduta dall’alta pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie. E qui, alla superficie, dall’apertura occhiuta dietro la grande testa incorporata, rigettava acqua soffiando come una tromba marina».

Era di nuovo il pupazzo, lo scrittore che io conoscevo. E la nave affondava. E Calvino annegava.

E l’animalone nuotava «sempre dov’era rema morta, come se lo attirassero acque d’abisso, fredde e ferme, in cui appiccionarsi senza temere sconzo. Era l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola».

Dava morte anche a lui, allo scrittore che molti anni fa, pochi anni fa, cercò una voce, e poi cercò scampo, e non lo trovò, e pianse, e nuotò nel suo pianto, e poi si stancò, e annegò nel suo vasto mare di pianto.

Ma, di nuovo nella casa, trovò l’ossigeno che serve per sopravvivere. Adesso sveglio. Rincasato. Risorto. Sconfitto. Horcynusorcizzato. Rimproverò la casa: non mi hai aiutato. Si alzò da terra. Raccolse i libri. Li chiuse. Li ripose negli scaffali. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo liberò il libro di Horcynus dal ripostiglio, poi disse alla casa: è evidente, il padre di Amos Oz il libro di Horcynus non lo conosceva. Il suo consiglio dunque non vale. Cento libri non nascondono il libro dell’orca. Io invece, che lo conosco, mi sottometto al libro dell’orca. Non fuggo più.

Che sia fatta la sua volontà.

 

***

 

Le citazioni
Tra « … »: Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca.
Tra “ … ”: Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra.
Tra ‘ … ’: Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny.
Tra << … >>: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Le città invisibili.

Nota
1 «Nei racconti si trova spesso questo “all’improvviso”. Gli autori hanno ragione: la vita è così piena di cose inaspettate». Anton Čechov, La morte dell’impiegato.

Questo testo è un intervento tenuto al convegno «Horcynus Orca. Il quarantennale», 9-10 ottobre 2015, Arcinazzo romano -Trevi nel Lazio. Successivamente è stato pubblicato su «Lo Straniero», Aprile 2016 – N. 190.

i poeti appartati: Christian Tito

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Copia di copertina tito

Ai nuovi nati

di

Christian Tito

Incisione

Alejandro Fernandez Centeno

ed. FIORI DI TORCHIO

Amici del Libro d’Artista Seregn de la Memoria Circolo Culturale

prefazione di

Corrado Bagnoli

 

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