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I poeti appartati: Giuseppe Acconcia

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Copia di ACCONCIA COP. 5.9

Cercando un altro Egitto

di

Francesco Forlani

Ho conosciuto Giuseppe Acconcia grazie a un incontro che si è svolto a Torino durante la presentazione del suo libro, Egitto Democrazia Militare  pubblicato dall’eccellente editore Exorma. Conosciuto di persona perché in realtà eravamo entrati in contatto qualche tempo prima per cominciare una proficua collaborazione con Nazione Indiana in merito a quanto succedeva in Medio Oriente. Giuseppe  è infatti corrispondente per il Manifesto e da anni porta avanti un discorso poco prudente in merito ai più recenti avvenimenti, rompendo l’onda delle opinioni correnti piuttosto che cavalcarle, come nella sua presa di posizione a dir poco critica nei confronti dell’autunno abbattutosi in medio oriente dopo le primavere ricche di democrazia e speranza per i popoli del Mediterraneo. Tali posizioni sono state anche attaccate, polemicamente, salvo poi rivelarsi mesi dopo, alla luce di terribili fatti come l’assassinio di Giulio Regeni in Egitto, a dir poco realiste  rispetto a quanto sta accadendo in questa nostra parte del mondo.

Introdurre una raccolta di poesie con una nota sulla produzione letteraria e giornalistica del suo autore  mi è sembrato giusto per due ragioni almeno. La prima è che in Italia abbiamo soprattutto in questi ultimi anni  dei poeti che da anni lavorano in campo politico e sociale con estremo rigore e con eccellenti risultati dal punto di vista teorico e militante. La seconda è che non v’è affatto anomalia nel rilevare tale esperienza della poesia in ambiti che sembrano troppo prosastici e realistici per lasciare spazio alla forma poetica, perfino al credere ancora in essa come azione letteraria sul mondo. Delle poesie di Giuseppe Acconcia sono allora lieto di condividerne con voi una breve selezione tratta dal libro e soprattutto l’approfondita analisi che ne ha fatta Eleonora Rimolo.

da Liberi Tutti (Oedipus)

Poesie

di

Giuseppe Acconcia

Quanto è alto Nero Wolfe?

L’unghia che entrava nella carne del mio dito
veniva curata ogni giorno con acqua e sale,
filamenti bianchi lunghi sguazzavano nella piccola
[conca blu,
la pelle bagnata era libera da un peso, il dito respirava,
ma il liquido giallo fluorescente crostoso
di un intenso odore di cicatrice perenne
ricompariva pochi minuti dopo,

fu in una di quelle notti che avvistammo
il cadavere di un uomo alto, coperto da foglie,
[sulla salita vicino casa,
sospeso sulla terra con un cappello,
nessun segno di colluttazione,
ma le ferite della pelle, come di Marina de Van,
squarciavano le sue gambe.

Poco prima era stato visto in un bar
senza gabinetto dietro alla stazione di Bologna,
buio, frequentato soprattutto da chi spazza,
[banconi pieni di pane,
sul fondo il rumore di una diligenza formata
[da carrozze sconnesse,
aperte e con due passeggeri, insospettabili:
bread, cantante dalla faccia sfigurata
[come fette di pane,
e una donna trafitta da frecce che ne attraversavano
[la carne senza ucciderla,
entrambi avevano appena assistito alla salita
di una cosca di uomini malfattori alla tavola
[alta della Mafia.

Pare che l’uomo sia entrato nel bar per pochi minuti
e per due battute azzeccate abbia ottenuto in regalo
una bottiglia di vino della Valpolicella,
[ancora intatta nelle sue tasche.

Poco prima era stato visto in un retrobottega
mentre amava una donna ninfomane
e veniva travolto dal suo ardore
con il suono di una chitarra
ed una voce impaurita e stentata a vibrare sulle corde,
immersi in un’estasi profonda
sfondarono le doghe del letto
mentre la donna moriva di febbre gialla a trent’anni.

Quella stessa sera fu visto su uno schermo
tra le vie di Ocklahoma City mentre interpretava
[Rusty James.

I ponti della città diventavano templi.
Padre e figli giocavano su un letto,
coinvolti in un’orgia sublime,
piccoli specchi riflettevano la scena.

Nel pomeriggio fu visto mentre chiedeva lavoro
a vecchi signori che lo scoraggiavano a vivere
mentre lui si sforzava di mostrare perfetto
[piglio anglosassone,
tradito da vaghi tentennamenti
e dal dubbio che nessun ufficio fosse fatto per lui.

Uno dei vecchi raccontò che quel ragazzo,
le visiteur du soir lo chiamò,
aveva il volto di chi strappa le foglie per strada,
che di per sé non vuol dire niente,
ma che lui associava a chi vuole giocare non lavorare,
a chi vuole vivere senza tempo,
persino la quotidianità precisa dei giornali era forse
[per lui un’oppressione,
a chi vorrebbe essere espansivo, ma si ferma
[per reticenza altrui,
a chi sarebbe morto solo se lo avesse deciso lui stesso.
Evidentemente il vecchio non aveva capito granché
vista la morte improvvisa dell’uomo.

Attorno a noi la folla cominciava ad arrivare
e le storie più assurde percorrevano le labbra:
una finestra lasciata aperta per trent’anni
avrebbe provocato la morte del giovane
oppure il pugnale amichevole
del fratello di infanzia avrebbe colpito alle spalle.
Da quel giorno, cresceva un bambino
nel mio petto destro. Sentivo formarsi
le prime radici dei suoi nervi duri e la pelle liscia
[del suo volto.

*

Le luci di Belgrado

Quel colore di sole
che ricorda la terra, ma
non quella coltivata,
penso piuttosto alla mai
toccata da piede di uomo,
sabbia indurita, suolo di Marte.

La luce di Belgrado
è di polvere gialla,
stesa sulle strade, lungo i tranvai,
tra negozi, baracche e alberi verdi
conformi ai suoi raggi.

La luce di Belgrado
è negli occhi segnati
di uomini e donne per strada,
sono sguardi di altro pianeta
sembrano fissi, immobili, spenti
senza riflessi o bagliori improvvisi,
sono di terra mai coltivata e
di polvere lasciata.

Le luci di Belgrado
sono ad Ada Ciganljia
la Sava incontra il Danubio,
gialla-verde-marrone,
macchiata di terra, di polvere, di luce del sole,
a lungo guardata da occhi immobili tanto da
darle un nuovo colore,
formaggio di burek o zuppa di pesce,
barconi sul fiume,
pelle gitana come jelen pivo.

*

Non inciampare nei giornali

Sono un mucchio
lì accatastati
tra riviste e giornali.

Sono centinaia di migliaia
formano grattacieli altissimi
raccontano, come si dice, notizie.

Sono carta coperta di inchiostro
distribuita nei piccoli
chioschi aperti all’alba.

Sono pieni di discorsi di nominati giornalisti
i più brillanti, i migliori dei migliori
accozzaglie di parole imprecise.
Sono comunicatori come altri
ma veramente artefatti,
per lo più capaci di parlare
di ogni argomento
senza alcuna conoscenza.

Un’intervista campata in aria,
un fatto nuovo,
un collegamento magistrale
entra in scena il comunicatore
per distorcere quella piccola storia.

Chi come me voleva raccontare,
era affascinato dalle notizie,
metodo infallibile per entusiasmarsi
a qualsiasi cosa,
ma adesso non può far finta di niente.

Non è stato difficile,
è bastato guardare le facce dei chiamati giornalisti,
nessuna serenità, nessuna verità,
ingabbiati loro stessi in cumuli
di parole inutili ed inventate,
ripetute all’infinito, intuizioni errate,
racconti distorti, fatti senza fondamenti
che acquistano ogni giorno potere essenziale.

Guardateli i contabili della scrittura
affaticarsi nei resoconti, nei prospetti, negli schemi,
negli stati patrimoniali,
nelle strutture linguistiche efficaci di comunicazione.

Non farti incantare dall’aria oscura,
dalle cartine ingiallite, dal volto del guru indonesiano
della libreria Odradek, dai vecchi mobili
[di una cantina, da redazioni postpseudocomuniste,
neppure quelle sono eccezioni,
è la velocità che rovina, la tecnica
[che ha colpito definitivamente,
senza alcun segnale di ripresa possibile.

Non pensare che gli esteri siano meglio,
se distingui l’uniformità del discorso politico
[bipolare del tuo paese,
allontanandoti da questioni politiche
tendenti monotonamente verso un infinito
[limite destro,
perché dovresti descrivere altri paesi
solo parlando dei loro altrettanto oligarchici
[affari politici?
Non pensare che i critici siano meglio,
se hai ben chiaro il vuoto della lettura
tra le righe o tra le immagini
senza vedere le righe e le immagini,
come puoi occuparti di raccontare trame o giudicare?
Non pensare che le cronache locali siano migliori,
gli affannati cronisti del mercato bovario
o dei funerali assassini che
facce toste devono avere per fare domande?

Non voglio denigrarvi,
ma non è necessario sapere le cose che raccontate,
anzi, quasi sempre, le poche verità necessarie
[sono altrove,
non serve recarsi a quel chiosco
né accendere lo schermo,
consiglio di mille professori.

Non perdiamo altre forze,
per favore, scavalchiamo quei mucchi di giornali.

Nota di lettura

di

Eleonora Rimolo

Per ricostruire il volto caleidoscopico di Liberi tutti vorrei partire da alcuni versi polemici rivolti da Giuseppe Acconcia nei confronti dei giornalisti, suoi colleghi, definiti i contabili della scrittura˗quasi questi fossero degli attenti burocrati interessati a tutto tranne che alla scrittura, che è l’opposto della burocrazia e della contabilità˗ e nei confronti dei critici letterari. I critici che giudicano e raccontano, (o meglio pretenderebbero di farlo) il vuoto della lettura tra le righe di un testo poetico. Mi sento per tale ragione chiamata in causa, dovendo intervenire criticamente sulle poesie dell’autore. Sappiamo, tuttavia, che la poesia parla soprattutto con i silenzi: le sue pause sono fondamentali, il ritmo non è scandito da ardite narrazioni da ordinare logicamente ma da sussurrate intuizioni inspiegabili, indomabili, afferenti ad una dimensione parallela a quella del naturale vivere comune, ma non udibile, non visibile.

Il mio proposito, dunque, non sarà quello di giudicare e/o raccontare i versi di Giuseppe Acconcia ma di ripercorrere, sulle tracce poetiche dell’autore, i suoi chiari e semplici (cerca di essere chiaro e semplice) sentieri del vuoto tra un verso e l’altro, considerando, come punti cardinali della sua opera, che la poesia è silenzio e menzogna (le bugie della poesia) e il poeta è un ragazzo alla sua lotta costante contro la dittatura della nascita, come se il nascere, leopardianamente, fosse per l’uomo la prima vera, incontestabile ed incontrovertibile imposizione nefasta della Natura maligna.

Considero, fin dalla prima lettura integrale di Liberi tutti, questo titolo, e di conseguenza globalmente questa raccolta, un grido di anarchica istigazione al Desiderio, dove per Desiderio intendo, alla maniera di Lacan, un’esperienza indistruttibile di apertura verso l’alterità che rigetta ogni solipsismo della psiche. Il Desiderio invoca dunque l’Altro, che è radice ultima dell’esperienza del nostro inconscio. E Giuseppe Acconcia cerca disperatamente l’Altro in diversi modi e sotto diverse forme. Cercherò, dunque, di esaminare quelle più persistenti, più rilevanti.

Il poeta riferisce apertamente, fin dalla sua primapoesia, di essere un apolide, poiché non riesce a trovare la propria collocazione nel mondo: mentre gli altri si affannano in mille inutili occupazioni (alcuni ragazzi entravano nella metropolitana puntuale […] altri vivevano in comune, segregati tra le montagne […] alcuni si affannavano alla ricerca/di un lavoro qualsiasi […] altri si immergevano in un lavoro lento,/perenne, immutabile, felicità […]alcuni trentenni si agitavano/e sospiravano nell’attesa del bambino […] altri, più vecchi, raggiungevano cerchi/per passare il loro tempo coccolati […]) il poeta è pronto a rimanere solo, come è giusto che sia per coltivare il silenzio precedentementeinvocato. Nonostante ciò, però, per quanto si ci sforzi di rimanere soli e in silenzio, qualche rumore giunge ancora alle orecchie come elemento disturbante che denuncia una realtà sbilanciata, inadeguata: anche se solo, in assenza di ogni rumore,/sento sempre il sibilo assordante di un acufene.

Giuseppe Acconcia considera la scrittura un accessorio del mondo, e le sue parole sono fatte della stessa materia del suo lardo (come se il mio lardo/fosse fatto di parole): la poesia ha dunque un peso, una corporeità, una materialità che non si può ignorare, poiché non galleggia nella leggera vaghezza di un mondo ultraterreno, ma si àncora alla terra e mette le sue radici via via nel corpo di chi la compone. La corporeità è un elemento essenziale della sua poesia, ed è il primo nucleo tematico: ne è un lampante esempio il grido d’invocazione della poesiaAggrappati al tuo corpo!. Sentire la propria corporeità è necessario per preservare la sopravvivenza, per gettarsi nel mondo e nello stesso tempo restare ancorati alle proprie radici, che si rivelano, però,prima o poi, sempre fragili e fittizie, perché si sta come su un balcone abitato senza parapetto, precari e illusi dell’invincibilità del nostro corpo mortale. Ma a cosa serve questa massa grassa di parole? E a cosa non serve?Sicuramente serve ad invocare ascolto: Ora parlami per favore è, ad esempio, una preghiera perentoria, poiché tutti i rapporti sociali e familiari sembrano, per la peculiare struttura interna del poeta, essere logorati da insopportabili tensioni interne (la tensione/del nucleo familiare/è incontrollabile). Di certo però la poesia non serve come sfoggio di un’erudizione che Giuseppe Acconcia non ha e non vuole avere: mi mancano troppe letture per essere pronto,/troppi film, troppo teatro./I libri sono lì,/sono pronto per leggerli. Perché è inutile affannarsi/dietro vivi che in un batter d’occhio/sono morti? Probabilmente il sospetto della finitudine, che man mano con l’esperienza del tempo assume sempre più i contorni netti della certezza, genera nel poeta un’angoscia che annichilisce, annientando ogni slancio vitale.Certo è che l’esigenza dello scrivere prescinde per Giuseppe Acconcia dalla dimostrazione e dallo sfoggio sterile di una conoscenza presunta, tutta nozionistica e teorica, perché spesso, quando ci si impegna troppo ad apparire, si ci dimentica di essere, e gli elementi che si pensa di conoscere in realtà non vengono interiorizzati e compresi appieno, ma solo accumulati ossessivamente e sterilmente. In questo splendido discorso metapoetico, Giuseppe Acconcia profetizza che prima o poi arriverà un uomo a cui basterà un rigo (Arriverà un uomo a cui basterà un rigo. Quello non farò fatica a leggerlo.), un rigo per spiegare ogni cosa. E se fosse già accaduto? Penso immediatamentead un unico, breve, apparentemente banale verso di Edoardo Sanguineti:E, lo vedi: è la vita. Niente da aggiungereal di fuori di quel che la vita ci mostra a chi è in grado di vedere e di accettare quel che è, nella sua infinita miseria e nel suo profondo mistero.

Giuseppe Acconcia rivela in più punti della raccolta di essere un genuino poeta flâneur, il viandante che attraversa le città, cogliendone gli aspetti più torbidi, più lerci, più interessanti, e osserva con lo spirito critico acuto che lo contraddistingue per deformazione professionale, gli accadimenti e i personaggi che animano le città che visita. Così in Gente 06Roma è animata in modo inquietante da una festa dove le folle confluiscono nelle piazze più grandifinché non arriva l’alba che spegne tutto. Le ambientazioni ricordano con prepotenza mnestica il tumulto delle città colossali descritte dal poeta flâneur per eccellenza, Dino Campana.

Atmosfere cupe su sfondo cittadino sono presenti anche in Quanto è alto Nero Wolfe, dove i ponti diventano templi in una città quasi trasfigurata da un delitto, un vero e proprio inferno cittadino˗sempre citando Campana˗.Un analogo inferno cittadino è anche descritto neGli assassini di Limerick, poesia ricca di presenze demoniache e colpevoli, mentre in Non ti perdereil poeta raccomanda al lettore di non perdere la via alla festa di Locri, o per i vicoli di Toledo, perché la città è, e lo dico di nuovo attraverso un verso di Dino Campana, una perfida Babele e se ci si perde poi si rischia di non sapere più se si ci è persi nel posto giusto o in quello sbagliato (Quali sono i due persi/e quali i due nel posto giusto?/chi può mai dirlo).

E ancora descrizioni cittadine le troviamo in Le luci di Belgrado, in La metropolitana di Mosca e in Le sponde del fiume, in cui il poeta sdoppia le città del mondo e le dispone su due diverse sponde: in una regna l’anarchia e nell’altra una democrazia, che poi si rivelerà una democrazia fantoccio.Queste due sponde sono dunque opposte e non complementari; sono due possibilità che contemplano in sostanza il contrario di ciò che il loro nome dichiara, che rivelano il gioco del rovescio implicito nell’esistenza umana, e anche, e soprattutto, nella Storia.

La città è protagonista anche della poesia senza titolo (Dicono…), insieme alla donna, personaggio cardine dei versi di Giuseppe Acconcia.Troviamo in questa sede un dialogo fittizio tra un Io e un Loro: esso svela un parallelo tra la città e la donna, non di certo estraneo alla storia della lirica˗basti pensare a Trieste e una donna di Umberto Saba, ad esempio, raccolta poetica in cui la città e la donna sono associate e amate per quello che hanno di proprio e d’inconfondibile˗. Tuttavia, per Giuseppe Acconcia, la città, da buon apolide quale ha dichiarato di essere, e di conseguenza da buon migrante, non può essere una sola: lui è affamato di visioni, di terre nuove, di volti diversi, tutti da possedere, da penetrare con il cuore, con l’anima, con tutti e quattro i sensi. Vagare da una città all’altra, nutrirsi di questo poliamore che si chiama cosmopolitismo, non può essere paragonata come esperienza all’esclusività che l’amore erotico per una donna porta con sé: quando si ama –in modo sano˗ una donna si vuole attingere a quella sola fonte. Ma per la città è diverso: è necessario scoparle tutte.

D’altra parte la donna è una presenza forte nella poesia di Giuseppe Acconcia ed è bene osservare che la sua descrizione procede sempre per vie spiazzanti, connotandosi di negatività, di minaccia occulta. I volti delle donne del poeta sono sfigurati, sfumati, intrisi di morte, febbre gialla, grasso nerastro, esoteriche abilità profetiche, mostruosità di varia natura, autoritarismi. La poesia più esplicativa di tutto questo discorso è Gli assassini di Limerick: volto di donna orribile,/baffi e sorrisi di denti nerastri,/morta o mai nata, assassina/incallita.

La città, la donna, la materia. A questa triade argomentativa associo un’ultima, grande presenza della poesia di Giuseppe Acconcia, che insieme riassume, ingloba e completa le precedenti: il mostruoso. Molti sono i personaggi e le situazioni mostruose che il poeta inserisce nei suoi versi, e il mostro si fa presenza del Perturbante in letteratura di freudiana memoria. L’inconscio del poeta rielabora gli accadimenti, e alla spietata ricerca di una logica che non c’è, partorisce mostruosità deformi con le quali categorizza il reale.

Il mostro più terrificante di tutti, il padre di tutte le altre mostruosità, è sicuramente il micrantropo, ossia il piccolo uomo, che dà titolo e voce ad una significativa poesia della silloge. Il micrantropo è un uomo piccolo, non naturalmente in senso fisico, ma in senso del tutto traslato: è colui che non si interessa di niente, non è capace di prendere una posizione, parla con le parole di altri, dipende con le idee dalla massa, o da chi lo sovrasta; è insomma quello che Lacan definisceun uomo senza inconscio: ossia un soggettoin grado solamente di rispondere ciecamente alle sue pulsioni alimentando così un desiderio egoico che non si apre all’Altro ma ripiega solo su se stesso. PerGiuseppe Acconcia questo non può che essere un mostro, il mostro dei mostri, quello che li racchiude tutti e di tutti gli altri è creatore: dei mostri deformi (ti hanno visto/circondato da mostri deformi), deI mostri della notte, e dei mostri descritti ne La spiaggia delle deformità (due nani dalle teste quadrate […] la vecchia violastra […] cinque donne sfigurate in volto […] donne pelate con/occhi e labbra ricurve […] bambini malfermi/legati agli ombrelloni/da fili di orrore). La descrizione di questa spiaggia terrifica, in particolare, ricorda un racconto di Hoffman, ed è quindi un esempio limite di quello che il Perturbante riesce ad evocare in un’opera letteraria attraverso l’attività inconscia del poeta. È un delirio onirico, una suggestione che tenta di dare una collocazione circoscritta a tutto ciò che del reale è avvertito come incongruo. Elementi onirici perturbanti emergono con prepotenza anche nella lirica Il sogno del cieco, in cui la reversibilità inquietante della Storia e della realtà viene denunciata da questi esaedri che si confondono in triangoli/fluorescenti e intermittenti, e lo sforzo interpretativo (esplicito negli ultimi versi) si risolve da parte del poeta in un nulla di fatto, in un’oscurità totale, in un’intempestanocte(richiamata anche neI mostri della notte, in apertura:in principio l’oscurità trasformava ogni cosa […] in un lampo la notte. Assenza di senso e spiazzanti presente inferiche(corvi, gufi, civette, megere, lupi) sono presagi terribili della legge del rovescio, che tutte le cose del mondo sono costrette ad osservare per natura, con i loro volti molteplici, multi prospettici.

Il poeta questi volti vorrebbe conoscerli tutti, sia perché la conoscenza è l’unica cosa che riesce ad eliminare totalmente ogni residuo di paura e di sospetto, sia per una congenita spinta al sapere, per quella curiositasimplicita e quasi ovvia che muove la professione di Giuseppe Acconcia. Ho fame di nuovo, invoca il poeta, e la sua fame di vivere aderisce a quella Legge del Desiderio che non è iperattivismo/mania di avventura,/ossessione esotica, erotomania, ma semplicemente capire il mondo, studiarlo/[…] scoprendo cose nascoste senza pensare/di traversare l’oceano in un giorno. Tutte attività che richiedono tempo, riflessione, ripiegamento su se stessi, attitudine alla lentezza, alla pazienza, alla consapevolezza e all’ammissione dei limiti umani. Ma da un uomo senza inconscio come quello da cui siamo circondati, da un micrantropo insomma, non ci si può attendere tutto questo. D’altrondese non esiste l’uomo vero/a che serve la psicologia?: se, dunque, non c’è attività inconscia, come potrebbero intervenire sul vuoto la psicologia o la psicoterapia? È con questi versi che Giuseppe Acconcia chiude la sua raccolta: prosegue poi, nell’ultima poesia, affermando con estrema limpidezza e incontrovertibilità che ci vuole autocoscienza. Perché, e qui viene citatoHegel,la ragione è la certezza di essere ogni realtà, ma il micrantropo non ha Ragione, e nemmeno potrebbe rendersi conto, cosa che invece sistematicamente tenta di fare il poeta con i suoi versi, che ogni realtà è materia plasmabile, malleabile, camaleontica, possibile.

Eppure la stanchezza è in agguato, e la solitudine ne aggrava i sintomi: i dolori che sento in tutto il corpo/mi ricordano che ho corso per mille chilometri/in una stanza silenziosa senza muovermi di un passo. È quello che, con altre parole, o meglio, con quello che potremmo definire tranquillamente come un solo verso, quell’unico rigoauspicato dal poeta in precedenza, Pessoa afferma inflessibile: Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto. E Giuseppe Acconcia è certamente uno che ha vissuto tanto. E noi con lui, leggendone i versi. Cosa rimane quando il suo libricino si richiude? Anche questa risposta è da ricercare nel testo: posizionati circa nella metà del testo leggiamo, infatti, lapidarie, queste poche parole: dopo aver letto/tutto, sentivo freddo.

Emanuele Tonon, «Fervore»

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di Mario Sammarone

fervore

In un monastero dell’Italia centrale, Renacavata, realmente esistente, si celebra questa piccola epopea personale situata in un tempo che però sembra del tutto metastorico. In realtà, leggendo, ci accorgiamo da alcuni particolari di trovarci ai nostri tempi, ma la vicenda potrebbe svolgersi nel Medioevo come pure nell’Ottocento: il protagonista, un ventenne senza nome che potrebbe essere ognuno di noi, vive il suo anno di noviziato in questo convento, in un esilio volontario dal mondo che non sappiamo se sfocerà nel perfezionamento del percorso fino ai voti, oppure sarà solo un episodio di un tratto di vita. In questo convento, fondato nel 1531 da Matteo da Bascio, riformatore cappuccino staccatosi dal tronco principale dei minoriti osservanti francescani, vivono la loro vita frati vecchi, che sembrano fatti di legno come gli stalli del refettorio, e frati giovani, ospiti per l’anno di noviziato, frati primaverili, fatti di nuova linfa vitale e accoccolati nel convento come in un ventre materno pronto ad accoglierli.

Il protagonista è fuggito da una vita insana, terribile e senza senso, da un lavoro in fabbrica che gli chiedeva l’esistenza in cambio di una perdita di memoria e di sé che lo perdesse ad ogni speranza. Si rifugia in questo che chiama il “Giardino”, prefigurazione dell’Eden come egli stesso con i suoi compagni sono prefigurazione della “glossolalia finale”, periodo nel quale ognuno parlerà nella sua lingua autentica e sarà capito, così come a sua volta intenderà quella degli altri. Un anticipo escatologico dunque, questo gruppo di ragazzi che vivono di dubbi e di meraviglie, di fede e capacità di vedere oltre, con un “Fervore”, appunto, come dice il titolo di questo libro di Emanule Tonon (Mondadori, 2016), che dovrà bastare loro tutta la vita, che dovrà essere come un’acqua da mettere da parte per la traversata del deserto che sarà la vita vera fuori del convento, arida e piena solo dell’infinita vanità del tutto.

Nel Giardino tutto è rivissuto in una dimensione estatica, che trasfigura ogni cosa o evento che accada, rendendo tutto poesia e fede assoluta, in un anelito ad impossessarsi di dio prima che Egli sparisca dalla loro vita, di assaporarne la presenza prima di perderlo, quando saranno usciti dal tepore di quel noviziato vissuto come un assoluto, un’occasione che mai più avranno di addomesticare il sacro, il loro Dio.

La via di Damasco del protagonista è stata una gita al santuario di Castelmonte, alla Madonna nera, dove un culto quasi misterico, catacombale, lo colpisce e lo chiama verso qualcosa che non sia più la sua fredda vita incatenata. Scopre una religiosità furiosa – come furiosa era la santità di Francesco, che aborriva la pompa mondana e la sapienza dei dotti per arrivare diritto fino a Dio senza mediazione. Trova nel convento i vecchi frati legnosi, arcaici, ignari della loro stessa santità, burberi ed innocenti, sporchi e sprezzanti di ogni concessione al mondo. Sono gli ultimi santi, disperati per questo, ma felici di avere Dio stretto a loro. Anche i giovani novizi vogliono farsi fontanelle di Grazia, sgorgare in un oceano d’amore, ossessionati di non lasciare da solo Cristo nel Getsemani, invocando una Parusia attesa, vivendo il calendario liturgico come tappe del tempo per arrivare ad essa.

Vivono una vita quotidiana fatta di preghiere mattutine, immersi ancora nel sonno non finito, in notti passate a combattere con un pensiero del peccato da cui sono attratti e respinti, umore tra gli umori primaverili della terra che lavorano in silenzio, rugiada tra le rugiade mattutine. Sono figli di contadini, che sono pagani per istinto, proni alla terra, ma loro vogliono vestire i panni di un’altra povertà. Cantano e pregano, tesi verso l’alto per non entrare troppo nell’abisso dell’anima, in cui la notte cela ogni incubo. Vivono ogni cosa con innocente gravità, nella nostalgia del Paradiso perduto, della Gerusalemme celeste: il Carnevale, con le sue vestizioni in cui ci si traveste per gioco compagni femminili, diventa l’occasione per creare l’essere androgino, l’unità dei sessi primigenia; le vipere, a cui dedicano una specie di culto bambino, che al pari degli angeli vegliano benevole su di loro, per morderli ai calcagni mentre giocano a pallone, per donare loro così in anticipo una scorciatoia per il cielo, vipere amiche perché in questo modo risparmierebbero loro il perdersi nella vita esterna, in balia del Signore di questo mondo.

Sono fraticelli ortolani, lavorano la terra inchinandosi ad essa, come poi nel coro si inchinano a Lui nel canto e nella preghiera. Le due Sante – con il nome di Teresa, d’Avila e di Lisieux, sono lette e meditate dal novizio protagonista nel silenzio della sua cella, frequentate in ore impensate, alle 5 del mattino così come la sera rubando tempo al sonno, e così questi giovani vivono una specie di continua trance, un dormiveglia in cui il loro bisogno adolescenziale di riposo vira verso un delirio continuo di allerta mistica, di ardente abbandono al Tutto, di essere solo un pensiero di Dio senza necessità di una coscienza di sé, in un delirante ardore di preghiera.

Francesco, lo “stregone medioevale” e certamente non ancora il Santo con le stimmate, funzionale alla Chiesa regnante, aleggia su tutto, presenza ed esempio, desiderio di tutti loro in un unico sogno collettivo che copre il convento come una coltre onirica. Quel convento, nascosto nel segreto dei boschi, come Francesco nelle grotte, dovrà essere abbandonato dopo l’anno di noviziato, il “ragazzo vestito di sacco” deve uscire dal “Giardino”, uscire dalla porta della sua cella che è Porta Santa, dalla culla segreta, dal suo Sabato del tempo e dal suo universo dove c’è tutto ed ogni cosa, e andare verso lo svelamento, verso il mondo. Oppure decidere di restare. Continuare a lavorare la terra con la stessa devozione che hanno verso Dio, sfinendosi di fatica perché tutto deve farsi pane. Non lasciare che la vita disperda il loro goffo, innocente fervore. Restare protagonisti della narrazione cosmica, immemore e necessaria affinché essa si racconti. Essere l’epifania inconsapevole, nel tempo, di ciò che è fuori del tempo. Essere trottole nelle mani di un Dio bambino. Tracciare, come piccole lumache, un segno di bava nel Giardino sicuro, accordati alla voce di Dio. Farsi vita allo stadio puro, iniziale, che crea il mondo e gli dà forma. Rimanere nel saio come in una nuova pelle. Essere carità e profezia fatte carne, fuoco sacro che arde senza bruciare, come il roveto ardente di Mosè. Restare nel ritmo divino, impresso al mondo all’inizio dei tempi: “Così fu sera, e poi fu mattina”.

Questa stupenda “storia di un’anima” scritta come un diario per concessione di Padre Gianni al protagonista, è un commovente ed intenso percorso mistico degno degli scritti di Teresa di Lisieux. La prosa di Tonon, visionaria e poetica, è in pieno accordo con il contenuto, che diventa esso stesso preghiera. Uno scritto raro nel panorama nel panorama letterario, è una vera “dossologia” narrativa che porta alla meditazione e ci dona una storia “laterale”, insolita, ma necessaria per ripensare ciò che siamo stati come comunità e, forse, non sappiamo più essere.

Il paziente crede di essere

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Roma, ​giovedì 2​8 ​aprile 2016, alle ore 18:​30

presso la Libreria ​Fahrenheit 451
​in piazza Campo de’ fiori 44

​Fabrizio Miliucci

presenta le prose e i microracconti del libro

Il paziente crede di essere

di Marco Giovenale

(Gorilla Sapiens, 2016)

​Interverrà con alcune annotazioni
Lidia Riviello

 

*

 

Anticipazioni: 

 

tre testi online su Nazione Indiana e

due su Carteggi letterari

Un’intervista (e letture): 

su Radio3 Suite (21.02.2016)

​​​Un’annotazione personalissima: 

su Slowforward​

​Una nota di Renato Barilli:

http://www.renatobarilli.it/blog/giovenale-la-prosa-come-giocare-a-domino/​

 

*

 

​​​L’in​​contro su facebook​:

https://www.facebook.com/events/1669715393293262/

 

​​Scheda editoriale:

 

​​http://www.gorillasapiensedizioni.com/libri/il-paziente-crede-di-essere

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Tutti i ragni 7 – Ragni come simboli

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di Vanni Santoni

Essere sta7morsa-ragno-in-casato morso da un ragno velenoso ribalta la mia prospettiva. L’evento, per essere tollerato, chiede di venire ricacciato nel territorio dell’immaginazione, di diventare uno di quei ricordi che non si sa bene se sono reali o sognati. Quel mignolo blandamente mutilato può ben diventare nella memoria il risultato di una piccola operazione o di un incidente domestico, e separarsi così dal ragno, dai ragni, che possono così a loro  volta avviarsi a diventare qualcos’altro.

Può capitare di rientrare in c
asa dopo una furiosa litigata con la propria ragazza e trovarne uno sulla parete dell’ingresso, minacciosa acuminata raggiera di zampe sul bianco, e rifarsela con lui, schiacciandolo con una scopa sulla quale si è messo un panno.

Può capitare di andare in campeggio e ricevere la visita di un ragno in tenda, a suggello di una bella litigata in quei due metri cubi.

Può capitare di rientrare dopo le vacanze, più stressati di prima poiché i giorni liberi sono serviti solo ad accumulare impegni da evadere, il tempo della vita che pare essersi improvvisamente accelerato, e la terra insensata che è il nostro futuro, ci appare nella forma di un ragno dalle zampe sottili intrappolato nella vasca da bagno, e allora ci vendichiamo con l’acqua, apriamo la doccia e lo spazziamo via, lo facciamo risucchiare da un gorgo e ancora spruzziamo acqua, apriamo anche il rubinetto e immaginiamo la corsa rotolante inarrestabile di quel ragno travolto, attraverso tubi e snodi e mondi sotterranei.

Ma può capitare di avere ora una diversa ragazza, che vive in terre fredde e lontane dove di ragni se ne vedono pochi, e un giorno che ne vediamo uno,  è un ragnetto solitario, piccolo, sul soffitto. Mi chiedo se possa mai cadere giù, se possa capitare di ritrovarselo sul letto, ma lui è sempre ben visibile su quell’intonaco bianco, tra pareti e imposte e mobili bianchi, colpito da luce bianca anche alle una di notte. I traffici di quel ragno – ma cosa fa? Perché oggi si è spostato laggiù? Perché ora va in là? Secondo te dorme di giorno o di notte? – e la sua caccia a prede invisibili, diventano per noi, stesi o abbracciati a giornate su quell’amplissimo letto bianco, un intrattenimento prima inevitabile, poi addirittura gradito. Il ragno prende le funzioni di un gatto: quel ragno nordico, dalla strana morfologia, le due zampe davanti più lunghe di tutte le altre, l’addome filante, il colore nero, di smalto, si fa domestico e dà sostanza alla nostra relazione, ne rimarca l’esistenza. Il nostro ragno. Io te e il ragno. Sono rimasto a casa col ragno. Dov’è il ragno? Ah, là nell’angolo.

Questo finché lei una mattina se lo trova in mezzo ai trucchi e lo schiaccia con un pezzo di carta igienica. Quando me lo comunica io me la prendo moltissimo, lei mi dice ma dai, chissà quanti ne avrai uccisi di ragni in vita tua. Magari ne hai pure torturati, insiste. Dico che non c’entra niente. Lei dice che finché stava sul soffitto era ok, ma quello non era il suo posto. La sua freddezza mi sgomenta. Purtroppo, aggiunge vedendo che non mi sono calmato, non è che puoi dargli uno scapaccione come a un cane, l’unica punizione possibile per un ragno è la morte. Le chiedo dove sia il corpo, lei mi guarda strano, poi indica il water.

[VII – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

Quarto capitolo

Quinto capitolo

Sesto capitolo

Come sono diventato terrorista

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di Salem

Questa storia risale a otto anni fa. Ho trentatré anni e non ho fatto scelte giuste allora. Quando ci penso, sento che in quel periodo ero lontano dal mio modo di essere e di pensare, dalla mia personalità, dai valori con cui sono cresciuto e da tutto quello che avevo vissuto in tutta la mia vita. Voglio raccontare come e quando sono approdato a quelle idee che, mi pareva, restituissero, a me e al mio popolo, l’orgoglio di appartenere alla sacra e giusta religione musulmana. Ero arrivato a pensare che chi non seguisse questa linea di pensiero era come se non esistesse e non meritasse di esistere. Nel 2005 mi sono trovato in un carcere del mio paese, la Tunisia, condannato a dieci anni di reclusione. Forse sette me li meritavo, ma credo gli altri tre mi sono stati dati ingiustamente.
Allora c’era tanta ingiustizia e per i giudici era indifferente attribuirti anche reati non commessi. Soprattutto se appartenevi alla classe lavoratrice che spesso non riusciva a guadagnarsi il pane quotidiano. Ma non era la povertà o l’indigenza che rendevano la nostra vita un inferno, anche se le difficoltà erano ingenti: noi ringraziavamo sempre Dio per il poco che avevamo e nutrivamo speranza nel futuro.
Erano inaccettabili, invece, la prepotenza, l’ingiustizia e lo sfruttamento di chi usava il potere con cattiveria: per questo la nostra vita era un inferno.
Così mi sono trovato nello strano mondo del carcere. Non era la prima volta per me, ma stavolta ho conosciuto a fondo quanto fosse spaventoso e duro. Dovevamo subire le prepotenze dei carcerieri. I loro bastoni colpivano tutti: piccoli, grandi, deboli e forti. Potevi solo rivolgerti a Dio. Così cominciò la mia trasformazione. Mi ero stancato delle ingiustizie subite da me e dagli altri. Avevo nausea delle torture, corporee e psicologiche. Erano insopportabili. Rattristava il cuore il solo fatto di vederle e sentire le lamentele dei torturati. Figurati quando tutto lo subivi tu sul tuo corpo. Dentro quel carcere ho trovato persone che mi davano ascolto. Le vedevo rivolgersi a Dio con preghiere giornaliere. In loro ho trovato una via di fuga dai miei misfatti e ho cominciato pian piano ad avvicinarmi e mischiarmi con loro anche se la cosa presentava molte difficoltà, visto i controlli rigidi dei nostri carcerieri. Loro stessi erano molto diffidenti. Comunque pian piano ero riuscito a scalfire la loro diffidenza e a guadagnare un po’ di fiducia. Insistevo a volermi avvicinare a loro perché mi dicevo che se non fossero stati nel giusto e le loro idee non fossero state corrette non ci sarebbe tutto questo interesse nei loro confronti. E se fossero stati insignificanti allora perché tutta questa paura di loro? Tutte queste considerazioni hanno fatto sì che la mia curiosità crescesse progressivamente spingendomi ad avvicinarmi a loro e alle loro idee ogni giorno di più. Il mio avvicinarmi a Dio era per loro come un visto per essere ammesso nella loro ristretta cerchia. Sentivo che Dio non era contento di me e ho trovato l’occasione per pregarlo, per leggere di più il Corano, fare il digiuno e tutto quello che avrebbe accontentato di me il mio Dio. Tutto questo mi faceva dimenticare le condizioni e il posto in cui mi trovavo. La mia posizione dentro la loro cerchia si rafforzava sempre di più. Cresceva anche il nostro comune odio verso i carcerieri e verso i motivi che ci avevano portato lì, ma soprattutto verso quel governo maledetto e i suoi complici nella tortura della gente. Odiavamo anche quelli che mancavano ai loro doveri verso Dio.
La mia mentalità cambiò radicalmente. Addirittura ero convinto che solo questi miei nuovi “fratelli” erano nel giusto. Mai mi veniva il minimo dubbio sulla giustezza e veridicità della loro/nostra causa. Mi avevano inculcato l’idea che tutti quelli che deviavano della legge di Dio e dalla sua sharia meritavano la morte per decapitazione. Sono arrivato al punto che quando ricevevo visite dai miei famigliari facevo loro richieste strane e bizzarre dette da me, vista la vita che facevo prima: insistevo che cambiassero il loro modo di vestirsi e sono arrivato al punto di ordinare a mio padre di lasciare il suo lavoro di venditore di sigarette in un chiosco perché, gli dicevo, le sigarette fanno male alla salute e tutto quello che fa male è peccato. Addirittura ho cominciato a considerare mio fratello come un nemico da combattere a uccidere solo perché faceva il poliziotto. Ero diventato come una bomba umana pronta a esplodere in qualsiasi posto e momento e ho cominciato a pensare e a considerare che, se la mia morte fosse avvenuta in un altro modo, sarebbe stata una morte da codardi. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello e mi hanno inculcato l’idea che l’Islam fosse questo. Sono arrivato al punto di attendere la mia uscita dal carcere solo per poter raggiungere i fratelli nella terra del jihad.
Nel 2011, grazie alla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia per rovesciare il governo sono uscito dal carcere avendo avuto uno sconto di pena. Mi sono ritrovato con nuovi amici, nuovi principii, idee radicali e nuove relazioni. I miei famigliari hanno notato questo mio radicale cambiamento. Mio padre e mia madre, musulmani praticanti che non mancavano mai a nessun dovere religioso, non erano d’accordo, anzi, erano terrorizzati da questo mio cambiamento e hanno subito informato il maggiore dei miei zii, imam nella moschea del quartiere. Lo zio guardava male questo mio modo di pensare, era totalmente contrario e diffidava di quelli che predicavano l’odio e manipolavano i giovani. Mi disse: «Questi non hanno niente a che fare con l’Islam. Sono solo terroristi, e questo loro modo di pensare sta sfregiando l’immagine dell’Islam, per colpa di questi terroristi ignoranti del vero significato dell’Islam. Figlio mio, l’Islam non è questo, l’Islam e pace e amore. Il vero musulmano è colui che non fa del male agli altri né con i fatti né con le parole. E il vero jihad deve essere jihad dell’anima. Cioè dobbiamo combattere gli istinti cattivi e maligni che ci sono dentro di noi. Dobbiamo poter dire di no al male e ai peccati che facciamo prima di guardare quelli degli altri. E il jihad non è uccidere e versare il sangue degli innocenti. Tutti i profeti e i messaggeri di Dio sono arrivati per fermare le ondate di sangue, omicidi, ingiustizie e odio. Dio ce li ha mandati per portarci messaggi di pace. Non a caso Dio volle che il nome di questa religione fosse Islam, cioè prostrazione alla volontà di Dio. E Dio non ha mai voluto che si versasse il sangue di innocenti. Nello stesso tempo la radice della parola Islam è Salam cioè Pace. In verità non è la differenza di religione che ci ha divisi nel tempo come popoli, ma sempre gli estremismi di ogni religione. E credo che hanno usato le religioni come scusa per legittimare le loro guerre e ingiustizie che facevano per i propri fini e interessi. L’unico colpevole reale di questo odio e queste guerre è l’estremismo. Con l’avidità e la superbia. Non dimenticare figliolo mio che noi tutti siamo creature dello stesso Dio anche se cambia il suo nome come cambiano i nomi delle religioni. Perciò figliolo non fare ciò di cui ignori le conseguenze e non passare da fratello e amico a carnefice e nemico che non vede l’ora di far scorrere il sangue, di uccidere innocenti e dividere famiglie. Le ingiustizie non si devono mai combattere con le ingiustizie.
Figlio mio non è questo il messaggio che Dio ci mandò con i suoi profeti? Dio è bene, Dio è pace, Dio ha proibito a se stesso l’ingiustizia, Dio è giusto e ama la giustizia. Dio è amore».
Le parole di mio zio furono come l’acqua ghiacciata che ebbe l’effetto di spegnere il fuoco dell’odio che avevo nel cuore. Ringrazierò sempre il buon Dio per avermi aperto gli occhi con il discorso di mio zio in tempo prima che facessi qualcosa di irreparabile. Questa chiacchierata con mio zio avvenne dopo i miei accordi con alcuni dei “fratelli” – così si presentavano i terroristi – per partire e combattere nelle terre del jihad. Mi avevano munito di un po’ di soldi e qualche informazione su dove e chi avrei dovuto contattare una volta arrivato in Libia. Credevano fossi pronto, e in un certo senso lo ero, se non fosse stato per le parole di mio zio. Dovevo solo esercitarmi a usare le armi da fuoco perché in carcere mi ero allenato fisicamente tanto e avevo rinforzato il mio fisico e i miei muscoli. Ringrazierò sempre mio zio di avermi aperto gli occhi…
Per non mettere in pericolo me e la mia famiglia non ho fatto capire niente ai “fratelli” del mio ripensamento e intanto venni a sapere da altri che c’era la possibilità di scappare in Europa clandestinamente rischiando la vita in un viaggio pericoloso via mare (harkha). Decisi di partire per mare pur di scappare da quell’inferno e crearmi un futuro lontano da tutto quell’odio e quella violenza. Nel contempo volevo salvare la mia vita visto che i “fratelli” sono molto severi nel punire chi si tira indietro e chi li tradisce. Fanno così per persuadere tutti quelli che tentennano a ubbidire ai loro ordini.
Come vediamo ci sono tante cose e tante condizioni che possono fare crescere questo tipo di terrorismo. Tanti giovani si ritrovano a essere terroristi, pedine pronte a uccidere, ma la cosa più grave è che sono convinti di quello che fanno perché loro danno ascolto a questi individui, che non posso neanche chiamare persone. Loro sono molto bravi a usare la religione come mezzo per lavare il cervello a chi non conosce veramente cosa sia l’Islam e prende per buono tutto quello che questi individui riescono a spacciare per dettami della religione, ma il loro scopo principale non è altro che usare i giovani che li ascoltano come bombe pronte a esplodere al loro comando. Ma odio semina odio, terrore semina terrore e ingiustizia semina ingiustizia. I posti scelti da questi assassini per i loro attentati e seminare il terrore, sono luoghi dove vive la gente comune e le loro vittime sono persone innocenti: donne, bambini, giovani e vecchi. Quello che fanno questi individui è un peccato verso la libertà, la vita, le religioni e Dio che in tutti i suoi libri sacri ci ha ordinato di evitare l’ingiustizia. Quello che fanno è un crimine contro l’umanità. E dicono che lo fanno nel nome di Allah, di Dio. No! No! No! Dio è più grande di voi, dei vostri crimini e del vostro terrorismo.
Amici miei non dovete in nessun modo ascoltare le prediche di questi assassini sia direttamente che tramite la rete. Vi diranno che è nel nome di Dio. No! No! No! Dio è innocente dei loro crimini. Non fatevi ingannare, amici. Come vedete dalla mia storia, ho rischiato di essere un terrorista.

 

NdR Questo è il memoriale nel quale un giovane detenuto arabo nel carcere di Trento racconta la propria esperienza di radicalizzazione jihadista in un carcere del suo paese, dove era rinchiuso per delitti di ordine comune. Il ragazzo, ora trasferito in un altro carcere, non parlava l’italiano, quindi il racconto è stato tradotto da un altro detenuto, la cui testimonianza è riportata qui sotto. I due testi sono stati pubblicati,  grazie a una persona che fa dei corsi nella struttura penitenziaria in questione, sul quotidiano Trentino, rispettivamente il 31.03.2016 e il 18.04.2016.

 

La testimonianza che ho raccolto per il TRENTINO è frutto di una lunga chiacchierata con un compaesano del mio stesso quartiere, Jebel-jeloud, nella periferia di Tunisi. È una zona molto povera dove la gente vive alla giornata con lavori malpagati. Da lì molte persone sono migrate in Europa già da anni. Io stesso sono venuto nel 1997 per aiutare economicamente la famiglia.
Visto che manco dalla Tunisia da così tanto tempo e non ho vissuto le recenti vicende, questo mio paesano mi ha raccontato la primavera araba e i cambiamenti che stavano succedendo in Tunisia. Non vi nascondo che ero rapito dal suo racconto. Avrei desiderato esserci anch’io per dare una mano a migliorare il mio paese anche se è strano come funziona l’informazione. Mi ricordo che in Italia si sapeva di più di quello che succedeva in Tunisia dopo la morte del venditore ambulante Mohamed Bouazizi. Telefonavo ai miei per chiedere informazioni, ma loro in città non sapevano nulla. Ne sapevo di più io.
Poi un giorno abbiamo visto alla tv un programma sul terrorismo e sull’ISIS. Non ricordo bene, ma penso che il programma fosse “Terra” di Canale 5. Parlavano dei cosiddetti foreign fighters e hanno detto che la percentuale più alta era quella dei tunisini. Non vi nascondo che cadevo dalle nuvole per quanto ero allibito. Il mio amico, invece, mi ha confermato che era tutto vero, e che c’erano e ci sono ancora tanti reclutatori abili nel manovrare i giovani e i più disperati, e spesso le loro vittime sono ragazzi pieni di rabbia e disperazione, e che non conoscono bene la nostra religione, perché se la conoscessero non cadrebbero mai nella trappola di questi fanatici.
Fatto sta che quella notte il mio amico mi raccontò tutta la sua storia. Dopo esserci coricati nelle nostre brande e spenta la luce ho fatto molta fatica ad addormentarmi. Ho pensato tanto a questa storia e a quanti ragazzi non fortunati come lui sono caduti nella trappola di questi manipolatori che hanno creato molto dolore. In quei giorni ho avuto modo di parlare con altri miei paesani e ho notato che tutti erano contro questi macellai ma soprattutto contro questa linea di pensiero che ha rovinato l’immagine dell’Islam e dei musulmani. Noi non siamo così, e tutto quello che c’è nel Corano è contro questa barbarie.
In quei giorni il mio amico ha maturato l’idea di scrivere la sua storia. Frequentava anche il laboratorio di giornalino in carcere e aveva bisogno di qualcuno che la traducesse. Nel frattempo però lo avevano cambiato di sezione e mi ha chiesto questo piacere parlandomi dalle finestre fra un piano e l’altro. Ci siamo visti per caso nell’area della scuola e mi ha dato i fogli scritti in arabo. Allora ho cominciato a tradurla. Mi sentivo in sintonia con quello che dice il Corano dove insegna che bisogna salvare le persone e se ne salvi una salvi tutta l’umanità. È un dovere per un buon musulmano. Spero che questa testimonianza possa aprire gli occhi alle persone e aiutarle a schierarsi contro la violenza. Da noi c’è un insegnamento importante: bisogna cercare di fare, se non si riesce a fare, bisogna dire e se non si riesce neanche a dire, basta anche pensare con l’anima.
Adesso non posso più parlare con il mio amico perché è stato trasferito in altro carcere. Ma se potessi gli direi che lo ammiro per il coraggio della sua scelta e perché ha saputo dire di no e tirarsi indietro in tempo. Gli sono grato anche perché ha raccontato questa storia.
Non ho timori a firmare questo testo perché penso che non bisogna avere paura. Anche perché so che tanti musulmani la pensano come me.

Farhat Selmi
Casa Circondariale di Trento, 6 aprile 2016

Una donna conosce una cavalletta

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di Mariano Bargellini

( pubblico un brano dell’ultimo romanzo di Mariano Bargellini Giocare a mangiarsi, ed. Effigie, Milano, 2015, G.M.)

In questo, trilla il telefono. Mi incantavano da bambino coi loro voli nuziali spettacolosi e tardi come d’alianti in miniatura dipinti in azzurro nero e rosso, ma anche simili a idrovolanti, certi insetti aerei incollati per il ventre e sovrapposti l’uno all’altro, con doppia ala diafana e la custodia rigida e opaca, sopra, di chitina metallizzata: inseparabile coppia, sposi in viaggio di nozze. Così ci siamo mossi, Olimpia e la cavalletta, suo partner da incubo, da fantasia erotica non per donnette, di una arditezza sconosciuta. Verso il telefono, infatti, che continua a trillare, si incammina Olimpia impacciata dal suo amatore, pesticciando, non volando, ingabbiata in due paia di braccia che la cingono da dietro. Braccia di ròbot, di scheletro galante, con le tibie irte di aculei come denti d’una spazzola robusta. Così s’incammina, verso il telefono che trilla, quella donna intendente di un Bello disumano e indenne dalla stupida fobia degl’insetti.

Era la mosca. Avrà capito che cosa stava succedendo? Furbo com’è, non lo escluderei. Olimpia qualche sospetto l’ha alimentato e una mezza confessione gliel’ha cantata, a suo marito, al mio editore. Apposta? Per mancanza di controllo? – Oh no! Oh sì! ‒, gli grida nel microfono, d’un subito. Contraddicendosi, l’ha esclamato. E sopratutto, l’ha esclamato a sproposito. – Ma sì, caro, mi ha pinzata sul collo. Ma te l’ho detto chi: la Locusta Hieroglyphus. Adesso la rimetto nell’insettario ‒. Invece m’ha trainato, piano piano, in guardaroba, di bel nuovo. Lì allo specchio abbiamo l’opportunità e l’agio, amanti stupefatti, di compiacerci di un viluppo amoroso laocoonteo finora mai tentato, nemmeno si suppone vagheggiato in fantasie erotiche bizzarre, da donne e animali galanti. La maschera di giada verde, tra cavallina e d’ariete, che mi occulta nei dominii del videogioco, e talora, quasi per un mini-spot, fuori dal monitor perfino, nella tivù verità della vita, adesso la vedevo, forse mia maschera definitiva, come in un fotomontaggio, spuntare dietro a Olimpia nuda e soprastarle, chinata su una sua spalla; e dal congegno della bocca in movimento colare sul seno della donna un rivoletto di saliva colore del letame, saliva d’una salterella, dei succhi tabaccosi. In realtà è rigida la mia testa, inchiavardata nel corsaletto. Non sono mica una mantide, capace di girarla e inclinarla, e di seguire con il moto del capo, misera preda, ogni tuo spostamento. E non per tanto io la chinavo su una spalla di Olimpia, come ho scritto, benché bloccata, la mia maschera cefalica: mi riusciva, la galanteria, grazie all’attitudine pensosa della mia testa, che per motivi aerodinamici sta reclinata, s’appoggia meditabonda al petto, ognora.

La donna e la cavalletta si copulavano, di lì a poco, in varie posizioni e ripetutamente, spostandosi qua e là per la casa. In principio all’impiedi, dipoi more locustarum (alla pecorina, tale quale), sui tappeti, sui divani, e sui letti, per finire. Di una immobilità ieratica, questo suo partner mostruoso, nessuna convulsione epilettoide e sbattimenti indecorosi (Locusta Hieroglyphus, sì, davvero!), però i gemiti di Olimpia testimoniavano (ad abundantiam, di là da ogni dubbio) che noi non si faceva per finta, il nostro non era sesso simulato. Io la squassavo, faccia astratta e meditativa, la mia abituale espressione, con una maschera di giada verde, immoto, in silenzio. Io me la lavoravo, coscienzioso, con una sorta di stantuffo autonomo e instancabile. Con un tremendo ovopositore! M’era spuntato a sorpresa, nell’atto di abbracciare Olimpia da dietro, l’ignoto accessorio, dal fondo di uno châssis perfetto, completo già in ogni suo dettaglio, lì tra i cerci, lì tra le corna deretane. Ma dunque sono una femmina? Era ozioso e futile interrogarsi sul sesso delle cavallette. Accontentiamoci, mi dissi, che questo ovopositore funga da organo sessuale, e di un partner maschio, nella colluttazione amorosa con una femmina di Homo sapiens. Essendo adibito, naturalmente, a trivellare la Madre Terra e a cacciarvi dentro un’ooteca, ero preoccupato, piuttosto, di non ingravidarla di uova, le nostre, di cavalletta, e inzepparla di larve. Ubbie, fantasie. Sta’ tranquillo, mi dissi.

Quasi piombato in un cespo d’erba, tra fili intricati e bagnati, che mi invischiano collosi (scagliatovi, dalla mia molla catapulta balestra, forse per un mio calcolo e di mia volontà?; al diavolo!, scagliatovi da lui, dal mio burattinaio alla console, toccando un tasto o manovrandomi col mouse, cliccando su chissà che icona; al diavolo!, scagliatovi dal deus ex machina del videogame, dal mio digitatore mai morto!; al diavolo!, che crepi, che crepi!), risalgo faticosamente da un vischioso e viscido buco. Io mi districo, tirate all’indietro le antenne, madide anche loro, nonché appiccaticce, e m’incammino su per il ventre di Olimpia. Mi fermo sopra il suo ombelico. La cavalletta è tornata alle sue dimensioni naturali.

 

 

 

 

 

 

La Non-Patagonia di Mariano Bàino

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di Daniele Ventre

La dimensione dell’estraneità, dell’uomo ἄπολις, clericus vagans e particella errante ed errata del corpo sociale, è una figura ormai tradizionale dello spazio letterario d’occidente. Accade tuttavia di imbattersi  in opere che interpretano questa antica dimensione in modo peculiare, non scontato: particelle ancora più rare nella materia oscura della scrittura senza patria. Nel secolo scorso ne fu esempio, nella Mitteleuropa, un Arno Schmidt, in Italia, in un ambito di ricezione più ristretto, un Emilio Villa; in questo primo scorcio del secolo folle è fra noi più di tanti Mariano Bàino, con la sua provocatoria parola di appartato e sorridente decostruttore, a incarnare di nuovo con serietà, senza pose usurate da melodramma intellettuale, e a dare testimonianza, in modo personalissimo, di questa forma di poesia estrema. 

Nel panorama assai frastagliato, da poligrafo, autore di prose e di versi, fra lingua regionale e italiano, dell’opera di Mariano Bàino, assume un ruolo peculiare l’ultimo libro, in (nessuna) patagonia, ed. ad est dell’equatore (2014). Si tratta di un testo che si libra al di fuori degli usuali confini che attraversano il vasto continente della prosa, distinguendo la narrativa dalla saggistica e il romanzo introspettivo dal racconto di viaggio e di esplorazione. In tal senso quest’opera di Bàino, con la sua non collocabilità, contiene già nelle sue premesse e nelle sue condizioni al contorno il suo centramento tematico paradosso in un non-luogo: un non-luogo che non è più utopia, essendo l’utopia ormai fuori contesto, “marxismo ormonale” senza giustificazioni storiche e ideologiche, per usare un’espressione dell’autore.

L’incipit del viaggio paradosso di Bàino in Patagonia è quanto di meno avventuroso si possa immaginare, dato che il romanzo si apre con una curiosa associazione di idee, la cui ouverture è non altro che la descrizione di una sedentarissima Corb Chaise lecorbusieriana foderata in pelle -forse pelle di vacca argentina, patagonica-, con la sua “vocazione di sedia a dondolo” e le sue “linee d’aeroplano”: un mezzo di trasporto per un viaggio mentale, la cislonga di pelle di bovino della Patagonia, forse inabissatosi in un ghiacciaio e ivi cristallizzatosi in fossile immaginativo male interpretato, come fu male interpretato il falso brontosauro (in realtà milodonte) di Bruce Chatwin, l’autore de Le vie dei canti e di In Patagonia, libro anch’esso anomalo, che per l’opera di Bàino assume il ruolo di ominoso metatesto.

Sin dal suo aire fra coordinate non locali e interpretazioni slittate e distorte, questo viaggio si connota soprattutto come un esilio: “L’esule volontario, anche quando in esilio virtuale (momentaneamente virtuale), ha pur sempre la patria in cuore… solo che neanche puoi tenertelo ad onore un simile esilio”, dallo Stato di dittatura mediatica, o di post-democrazia o di democratura: l’autore delinea da subito una fuga “via dall’unico paese che ha tre destre: liberale; clericofascista e populista; di sinistra”. L'”estraneità idiopatica” alla patria si fa così sin dall’inizio un connotato antropologico strutturale, tanto che l’esilio si configura nell’immediato, per lo scrittore, una dimensione esistenziale ineliminabile. L’Ich Erzäler di Bàino si costituisce così come una sorta di anarca poetico, geografico e culturale; la connotazione della sua opera è un non luogo nella tassonomia letteraria; il suo punto di partenza è un non luogo nell’area delle condizioni sociali e politiche possibili, stante che l’abitatore dello spazio politico di una democratura non è formalmente un suddito, ma non è nemmeno libero, e dunque è reso inopinatamente responsabile di scelte che non gli appartengono e che non può operativamente attuare (e perciò si porta addosso il carico delle colpe essendo di fatto innocente); il suo viaggio virtuale è un esilio, la cui destinazione, la Patagonia, è un altro non luogo, uno spazio geografico alieno, al limite dell’ecumene -e viene fatto di pensare a qualcosa di simile all’immagine del Saskatchewan, ipotetica destinazione e punto di fuga per tedeschi non asserviti, quale appare evocato da Arno Schmidt nel suo Aus den Leben eines Fauns. In tal senso questa (nessuna) Patagonia di Bàino parrebbe a tutta prima configurarsi come l’esemplare estremo della tipologia del non luogo-rifugio non utopico che l’uomo ipermoderno, ideologicamente decurtato, si riduce a concepire.

Cassati tutti gli altri viaggi, tramiti ordinari di estraniamento di massa verso superluoghi consacrati dalle infinite vie e motivazioni del turismo, e dunque sempre monetizzabili, riducibili a ragioni di controllo, dominio e profitto, la Patagonia diviene al principio l’unico non riducibile orizzonte di fuga. Si tratta, per l’autore, di chiudere (anzi di “kiudere”) con il proprio luogo di nascita e di non appartenenza: “Kiudo, come scrivono alcuni su Facebook quando non vogliono più chattare… Con questa itaglia, kiudo. “Io noto in Italia una sorta di ebetudine”, scriveva Croce a Laterza durante il fascismo. Ebete itaglia. La brutta addormentata nel bosco… Kiudo. Bisogno di spezzare l’aria. Sono un dispatriato…” L’evidente citazione di Emilio Villa, continuamente richiamato col ricorso a invenzioni linguistiche che a Villa sarebbero congeniali e alluso in quel deprecativo nome geografico deforme, itaglia (chiosato da Bàino in “l’umana compagnia italica o italiota. Stirpe che si fa guidare da imbecilli che hanno fama di essere machiavellici”), fornisce un’ulteriore chiave di lettura alle coordinate di partenza del viaggio e del libro: o meglio, alle sue coordinate di “spartenza”, di allontanamento, separazione e separatezza, ma anche di falsa partenza, partenza sbagliata, in cui l’uomo in esilio di Bàino è gettato. E per suprema, dissacrante ironia, nella sua partenza sbagliata e nella sua separatezza, l’io narrante è accompagnato, verso sud, verso la montagna bruna di nessun purgatorio, da una orazion picciola rovesciata: “considerate la vostra scemenza/ fatti voi foste a viver come bruti/ non per seguir virtute e conoscenza”, parole di un Ulisse à rebours che rinnega ogni possibile compagno e ogni possibile ritorno: un Anti-ulisse in spartenza per un esilio-non-viaggio senza ritorno da un non luogo verso un non luogo, che fa il paio con l’Edipo indifferente, senza sfinge, anti-edipico, appartato a mangiare un gelato in mezzo ai Tebani-italioti apatici, dell’ultimo componimento villiano de Le mura di Tebe; un Anti-ulisse che nell’evoluzione dell’opera di Bàino continua, ed estremizza, la formula dell’Anti-Crusoe alla base dell’inermità e dell’inabilità che domina la dimensione antropologica de L’uomo avanzato.

Nel percorso del suo esilio, più o meno virtuale, Mariano Bàino è scortato da memorie di viaggio di ogni tipo còlte col rampino dalla tradizione storico-letteraria -con la premessa anomala di due citazioni diametralmente antitetiche: il Lévi-Strauss che sbotta “detesto i viaggi e gli esploratori”, e il Busi che scrive, dal canto suo: “Detesto i diari di bordo e la letteratura di viaggio”. In tal modo, rispetto alla materia narrata, il narratore interno si pone in un curioso distacco, delocalizzandosi anche rispetto al suo contenuto, e guardandolo in tralice, come una specie di Ariosto prosastico che non potendo, per forza di cose, più credere al mito della scoperta, in un pianeta cognitivamente collassato in un punto, ironizza su sé stesso e sul suo stesso dispatrio. All’occhio distaccato dell’autore gli snapshot di viaggio e di esplorazione delle età trascorse ritornano tuttavia ossessivi: così le memorie di Pigafetta, con il loro “visto con gli occhi” del viaggiatore, darrighiano corrispettivo del “visto con gli occhi della mente” del narratore; l’aura da finis terrae, fin del mundo, che circonda Capo Horn, con il suo bollettino di naufragi; i sogni geografici di Don Bosco sulla Patagonia; le testimonianze di padre Alberto Maria de Agostini, alias don Patagonia; le Scalate sulle Ande di Clemente Onelli. Un ruolo particolare hanno poi le memorie delle donne occidentali che si trovarono ad abitare per la prima volta la Patagonia: così è per l’altezzosa Lady Florence Dixie di Across Patagonia, per la María Brunswig de Bamberg di Allà en la Patagonia, in cui si arriva a formalizzare l’immagine dell’ostilità liminare della regione che “non è un paese per donne”; così è per Elena Greenhill, la Inglesa Bandolera uccisa a tradimento, donna a capo di una schiera di banditi di prateria eppure dedita, in contrasto con la correzione ipermachista della sua esperienza di donna sulla frontiera del nulla, ad occupazioni insospettabilmente e assurdamente casalinghe -per esempio, quella di tessitrice di panni per i suoi figli, in una sorta di inconscio ruolo di filatrice/moira archetipale

L’estraneità di questa Patagonia che è teatro di questa molteplice antropizzazione paradossale, finisce per coincidere e collassare in una sorta di elusiva familiarità (a un tratto l’io narrante-viandante si trova anche di fronte una sede del locale partito demòcrata-cristiano, quasi si trovasse in una sorta di strapaese politico all’estremo limite meridionale del mondo), così che anche all’estremo dello spazio geografico in cui il paesaggio patagone è collocato, si riconosce, inopinatamente, la zavattiniana qualsiasità che fa di ogni punto della terra un luogo come un altro, rappresentazione antropologico-topologica di un sorprendente isomorfismo, di una quotidianità sempre banale, così che la spartenza-esilio dell’autore finisce, da ultimo e di principio, per chiudersi su sé stessa, in una struttura ad anello, vanificando il dissenso che l’esilio porta con sé, eppure accentuandone, nel contempo, l’inesorabile necessità: “Sento gli avversi numi, la sorte di Scazzetta, il negativo del karma. E in nessuna Patagonia potrò ridare all’Italia l’istituzione dell’esilio. L’Italia, del resto, ha perduto forse istituzioni anche più basilari. Per carità, espatriazione perpetua. In nessuna Patagonia troverò una notte che non sia scurissima, senza luna né stelle. In nessuna Patagonia potrò dimenticare queste infelici condizioni. Grave exiglio. Tristia. Anima pellegrina. Però, disitalianizzarsi.”

E all’autore resta soltanto, per disitalianizzarsi nel profondo, la possibilità di abitare questa distanza dall’ebete padritaglia, questa non località, esprimendola in una lingua che oscilla fra la limpidezza della cronaca di viaggio, l’andamento diaristico, e le ircocerviche neoformazioni di una parola estrema, debordante, aliena.

 

“Vivo, sono partigiano.” ANTONIO GRAMSCI
[22 gennaio1891-27 aprile 1937]

9

In conclusione: il mondo è grande e terribile e complicato, e noi stiamo diventando di una saggezza che diventerà proverbiale.

Lettera a Giulia Schucht
del 18 Maggio 1931

di Orsola Puecher

 
“Vivo, sono partigiano.” scrive Antonio Gramsci l’11 febbraio 1917, quasi cent’anni fa, e in questo imprescindible sillogismo, in questo cogito ergo sum fra vivere, essere vivo e partecipare, parteggiare nella vita della πολις, in questa esistenza politica, in questa politica esistenziale, sta in nuce il primo seme della futura Resistenza. Nel proto partigiano Gramsci, una condanna a morte lunga undici anni, fra confino e carcere, ai quali resistette con le sole armi della parola e del pensiero scrivendo i 32 ⇨ Quaderni del Carcere, e il composito patrimonio delle ⇨ Lettere dal carcere, c’è lo stesso coraggio, la stessa forza morale di quegli uomini e donne che scelsero, che non furono ⇨ indifferenti, che si opposero alla fatalità della storia e davanti alla morte reagirono con lo stesso spirito vitale.
 


[le uniche rare immagini filmate di Antonio Gramsci
al IV Congresso dell’Internazionale Comunista
Pietrogrado e Mosca 5 novembre – 5 dicembre 1922
]

 

Camilla Ravera a Giuliano Gramsci

Roma 20 dicembre 1972

[…] Circa l’incontro di Gramsci con Lenin a cui accenni, e di cui desidereresti qualche particolare, non posso dirti molte cose. Gramsci si riferì spesso a quell’incontro nel corso delle lunghe conversazioni che io ebbi con lui durante la mia permanenza a Mosca, tra la fine dell’ottobre e la metà del dicembre 1922; ma sempre accennandovi in rapporto alle questioni politiche di cui in quel momento particolarmente ci occupavamo. Non ricordo, ad esempio, se mi disse la data precisa di quell’incontro, o altri particolari circa il luogo e il modo, che dovettero essere poco diversi da quelli dell’incontro con Lenin che nei primi giorni del novembre potemmo avere Bordiga ed io.
[…] Lenin era malato; i medici non permettevano che avesse lunghe conversazioni politiche.
[…] Io ero arrivata a Mosca con qualche anticipo rispetto alla data di inizio del congresso: il IV congresso dell’I.C. di cui ero delegata. A Mosca avevo ritrovato Gramsci, che dal maggio di quell’anno rappresentava il P.C.I. nell’Esecutivo dell’I.C. […] Pensavo di dare qualche aiuto a Gramsci, che ritrovavo in non buone condizioni di salute. Era stato gravemente malato, e ricoverato in una casa di cura dall’inizio dell’ottobre.
[…] Durante quelle nostre conversazioni Gramsci mi disse di aver espresso a Lenin il suo profondo dissenso con Bordiga, non soltanto sul problema dei rapporti con il Partito Socialista, ma sul giudizio del fascismo, della situazione italiana, delle sue prospettive, e sulla politica del Partito, settaria, chiusa, e in definitiva inerte e inadeguata alle esigenze del momento.
[…] “Lenin, mi diceva Gramsci, conosce le cose nostre assai più di quanto supponiamo”
[…] Lenin volle conoscere direttamente il pensiero di Bordiga sui nuovi avvenimenti italiani.
[…] Ma ad interrompere quei discorsi tra me e Gramsci, giunse a Mosca la notizia della cosiddetta “marcia su Roma” e del governo instaurato in Italia da Mussolini; e arrivò a Mosca Bordiga portando di quei fatti la diretta testimonianza. […] Su di essi si manifestò la insuperabile diversità di pensiero politico esistente fra Gramsci e Bordiga: Bordiga sottovalutava le conseguenze dell’avvento fascista al potere; prevedeva per il nuovo governo la possibilità di una convergenza socialdemocratica; e si limitava a riaffermare la schematica e indifferenziata contrapposizione: Stato Borghese-Stato Proletario.
Lenin volle conoscere direttamente il pensiero di Bordiga sui nuovi avvenimenti italiani. […]Lenin ascoltò con evidente meraviglia le sue opinioni, rigide ed astratte; a cui indirettamente rispose poi nel suo discorso al Congresso, accennando agli insegnamenti che i comunisti italiani avrebbero dovuto trarre dalla propria esperienza in regime fascista.
[…] Forse, da quella conversazione avuta con Gramsci e dalla seguente con Bordiga, può essere derivata – in Lenin e nell’Internazionale – la decisione, presa dopo breve tempo che Gramsci, non rientrasse in Italia, ma si riavvicinasse al Partito, trasferendosi a Vienna, con un proprio ufficio, e là riprendesse la pubblicazione della rivista “L’Ordine Nuovo”, e quel lavoro verso i compagni che – sviluppato poi successivamente nell’azione politica in Italia – portò al superamento nel Partito del bordighismo, alla formazione di un nuovo gruppo dirigente; alla direzione politica di Gramsci, fino al suo arresto.

in La storia di una famiglia rivoluzionaria
APPENDICE / LETTERE
di Antonio Gramsci jr. pag 194-197
Editori Riuniti [2014]


 
L’8 novembre del 1926 il deputato comunista Antonio Gramsci, allora trentacinquenne, viene arrestato dalla polizia fascista.
Il Tribunale Speciale sentenzia “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare.
 

[Lettera alla madre del 25 aprile 1927]
 
La mia vita scorre sempre uguale. Leggo, mangio, dormo e penso. Non posso fare altro. Tu però non devi pensare a tutto ciò che pensi e specialmente non devi farti illusioni. Non perché io non sia arcisicuro di rivederti e di farti conoscere i miei bambini (riceverai la fotografia di Delio, come ti ho annunziato; ma Carlo non te ne aveva consegnata una nel 1925? quando Carlo venne a Roma? e Chicchinu Mameli ti aveva dato uno scudo di argento che avevo mandato a Mea perché si facesse fare un cucchiaino? e una tabacchiera di legno speciale per te? — mi sono sempre dimenticato di domandarti queste cose), ma perché sono anche arcisicuro che sarò condannato e chissà a quanti anni. Tu devi capire che in ciò non c’entra per nulla né la mia rettitudine, né la mia coscienza, né la mia innocenza o colpevolezza. È un fatto che si chiama politica, appunto perché tutte queste bellissime cose non c’entrano per nulla. Tu sai come si fa coi bambini che fanno la pipí nel letto, è vero? Si minaccia di bruciarli con la stoppa accesa in cima al forcone. Ebbene: immagina che in Italia ci sia un bambino molto grosso che minaccia continuamente di fare la pipí nel letto di questa grande genitrice di biade e di eroi; io e qualche altro siamo la stoppa (o il cencio) accesa che si mostra per minacciare l’impertinente e impedirgli di insudiciare le candide lenzuola. Poiché le cose sono cosí, non bisogna né allarmarsi, né illudersi; bisogna solo attendere con grande pazienza e sopportazione.


 
E Gramsci dai suoi scritti esce ancora vivo, lucido, ironico, tenero, disperato e insieme pieno di speranza per il futuro, con quell’intento pedagogico che dai primi anni della sua militanza non lo abbandonò mai, con cui cerca di educare attraverso favole, ricordi d’infanzia, raccomandazioni e consigli di lettura i figli lontani, in Russia con la moglie Giulia Schucht, Delio che poté vedere per solo pochi mesi e Giuliano, che non vide mai. Dal suo doppio carcere cerca tenacemente attraverso le lettere alla moglie e ai figli, alla madre, ai fratelli, alla cognata Tatiana, unici fili di contatto possibile, di tenere insieme i suoi affetti recisi.
 

[Lettera alla cognata Tatiana del 19 maggio 1930]
 
Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c’è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo, ecc. ecc.; – era già stato da me preventivato e come probabilità subordinata, perché la probabilità primaria dal 1921 al novembre 1926, non era il carcere, ma il perdere la vita. Quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall’essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma anche dalla vita famigliare ecc. ecc.


 
Nel ricordo lontano della sua vita di bambino nelle campagne aspre della Sardegna, il sogno della famiglia perduta rivive nella laboriosa famiglia di ricci, mamma, papà e tre riccetti che collabora alla raccolta delle mele una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna
 
 

da ⇨ Igelkottens träd [1987]
di Mari Marten-Bias Wahlgren

L’albero del riccio
di Antonio Gramsci
da ⇨ L’albero del riccio

 

Caro Delio,
      mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe. Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due piú grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio piú grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre piú spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno. Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa. Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e cosí li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano piú quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani. Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli. Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di RikkiTikkiTawi?
   Ti bacio.

ANTONIO


 
I bambini sono le prime vittime dei regimi dittatoriali, che tendono a plasmare le loro menti. Per non farli diventare piccoli automi plagiati, devono essere educati all’eguaglianza e alla libertà, devono imparare l’indipendenza di giudizio, a separare bene e male e ad avere principi morali saldi. Le favole rappresentano una percezione del mondo e come allegorie della realtà, servono a Gramsci per spiegare ai suoi bambini lontani la vita come se fosse un gioco. Il topo e la montagna è nella tradizione delle fiabe a catena che derivano spesso da filastrocche destinate a essere cantate, con una serie di elementi che si accumulano, finché la catena non si scioglie, risolvendosi e ripetendo il percorso in senso inverso. Il ciclo della speculazione capitalistica sarà contrastato dal topo, che concepisce un futuro, ancora attuale e disatteso “vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento.
 

Il topo e la montagna
da ⇨ L’albero del riccio

il-topo-e-la-montagna

[ illustrazione di Maria Enrica Agostinelli
per ⇨ l’edizione Editori Riuniti – 1966
]

      Carissima Giulia,
      puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di piú. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore.
      Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante.
      Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano.
      Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma che non serve a nulla corre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Cosí la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento.
      Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione dei bimbi.
      Ti abbraccio teneramente.

ANTONIO


 
Giulia Schucht a Mosca con i figli Delio nato nel 1924 e Giuliano nato nel 1926
Giulia Schucht – Julca – a Mosca con i figli
Delio nato nel 1924 e Giuliano nato nel 1926

David Ojstrach in ⇨ Légende Op. 17
di ⇨ Henryk Wieniawski [1835-1880]
[ suonato da Giulia Schucht nel 1918 al Concerto di Capodanno
a Mosca, a Lefortovo, nell’edificio dell’ex scuola di Alekseev
]


Il celebre scrittore sovietico Aleksander Serafimovicˇ diede una descrizione molto vivace delle impressioni ricavate dall’esecuzione di Giulia sul quotidiano Izvestija del 6 gennaio:
«[…] All’estremità del palcoscenico si avvicina timida una ragazza, con un vestito bianco e nero, un violino in mano e un dolce viso di fanciulla che chiede alla vita: “Che cosa sei? Che cosa nascondi?” Stringe il violino e lentamente, piegando in maniera strana e leggera il braccio avvolto in una manica trasparente, solleva l’archetto, mentre io abbasso lo sguardo. Eh, ha fatto male a scegliere la Légende… Si deve tenere conto del pubblico, non capiranno: comincerà lo strofinar di nasi, la tosse… Ha sbagliato… me ne stavo accigliato e con gli occhi bassi, e in quel secondo dalla scena si svolge lentamente verso quel mare umano un filo argentino e melodioso, ininterrotto, simile a tratti a una voce umana, ora è appena percettibile, sul punto di spegnersi, ora si raddensa in un lamento di petto emesso da un contralto basso, si svolge e spegne tutti i suoni, dominando.
E io levo lo sguardo…
Avete mai visto il mare quando è di vetro?
Vi rimangono sospese le nubi dimenticate, e vi si riflettono le montagne, e la riva, e il volo lontano di un gabbiano bianco.
Avete mai sentito ottomila persone che trattengono il fiato?
Ecco cosa dice il canto di questa ragazza dai capelli corvini, cosa dice da sotto il lungo, infinito archetto.
Cosa?
Dice che esistono gioia e amarezza, ed esiste un passato, e un futuro ignoto, velato di filamenti turchini…
La ragazza ha portato la sua mirabile arte, la sua opera; l’hanno accolta con cura e ora hanno ringraziato.
E io ho guardato felice i volti eccitati.».

in La storia di una famiglia rivoluzionaria
MIA NONNA GIULIA
di Antonio Gramsci jr. pag 62-63
Editori Riuniti [2014]


 
JUlca
Julca
Gramsci conobbe Giulia Schucht [1894-1980] insieme alla sorella Eugenia nel 1922, durante il ricovero nella casa di cura di Serebrjanyj Bor, Bosco d’Argento, vicino a Mosca. Dopo un breve legame con Eugenia, ricoverata per una paralisi alle gambe, rimane folgorato da Giulia. La famiglia Schucht di origini tedesche, con forte tradizione antizarista è amica di vecchia data di Lenin. Sono tornati in Russia allo scoppio della Rivoluzione, dopo lunghe peregrinazioni in esilio, tra Svizzera, Francia e Italia, dove Giulia studia violino all’Accademia di Santa Cecilia di Roma e dove si fermerà la terza sorella Tatiana, laureata in Scienze Naturali, che sarà accanto a Gramsci nei lunghi anni di prigionia e di malattia. Le difficoltà in cui si dibatte il paese pesano anche sugli Schucht, che vivono in estreme ristrettezze economiche.

Dopo la nascita del primo figlio Delio, in un unico momento sereno, Giulia e Antonio vivranno alcuni mesi a Roma, ma l’aggravarsi della situazione italiana induce il ritorno a Mosca. Giulia aspetta il secondo figlio, Giuliano. Antonio non lo conoscerà mai, ne mai più dopo l’arresto rivedrà Giulia. Il rapporto epistolare proseguirà fra alti e bassi. Antonio lamenta spesso i lunghi periodi di silenzio di Giulia, ma ignora che dopo il ritorno a Mosca la sua salute, già fragile, si è incrinata, soffre di epilessia e di continui esaurimenti nervosi, di cui non vuole far sapere nulla al marito, già in una situazione così difficile.
 

18 aprile 1927

Mia carissima Julca,
      riprendo a scriverti, dopo tanto tempo. Ho ricevuto solo pochi giorni fa due tue lettere: una del 14 febbraio e l’altra del 1° marzo e ho pensato tanto tanto a te; ho proprio fatto un inventario di tutti i miei ricordi e sai quale immagine m’è rimasta piú impressa? Una delle prime, di tanto tempo fa. Ricordi quando sei ripartita dal bosco di argento, dopo il tuo mese di vacanze? Io ti ho accompagnato fino all’orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare. Ci eravamo appena conosciuti, ma io ti avevo fatto già parecchi dispetti e ti avevo fatto anche piangere; ti avevo canzonato col comizio dei gufi e avevo avuto l’elettricità dei gatti quando tu suonavi Beethoven. Cosí ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell’altra la tua borsa da viaggio cosí pittoresca. Qual è adesso il mio stato d’animo? Ti scriverò piú a lungo le prossime volte (domanderò di scrivere una doppia lettera) e cercherò di descriverti gli aspetti positivi della mia vita di questi mesi (gli aspetti negativi ormai sono dimenticati); vita interessantissima, come puoi immaginare, per gli uomini che ho avvicinato e le scene alle quali ho assistito. Il mio stato d’animo generale è improntato alla piú grande tranquillità. Come posso riassumerlo? Ricordi il viaggio di Nansen al Polo ? E ricordi come si svolse? Poiché non ne sono molto persuaso, te lo ricorderò io. Nansen, avendo studiato le correnti mari ne ed aeree dell’Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiaggie della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano essere di origine asiatica, pensò di poter giungere o al Polo o almeno vicino al Polo, facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Cosí si lasciò imprigionare dai ghiacci e per 3 anni e ½ la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci. Il mio stato d’animo può paragonarsi a quello dei marinai di Nansen durante questo viaggio fantastico, che mi ha sempre colpito per la sua ideazione, veramente epica.
      Ho reso l’idea? (come direbbero i miei amici siciliani di Ustica). Non potrei renderla in modo piú breve e sintetico. Dunque non preoccuparti per questo lato della mia esistenza. Invece, se vuoi che io ti ricordi sempre con tenerezza (scherzo, sai!), scrivimi a lungo e descrivimi la tua vita e quella dei bambini. Tutto mi interessa, anche le minuzie. E mandami delle fotografie, ogni tanto. Cosí seguirò anche con gli occhi, lo sviluppo dei bambini. E scrivimi anche di te, molto. Vedi, qualche volta, il signor Bianco? E vedi quel curioso tipo di africanista che una volta mi promise un fritto di rognoni di rinoceronte? Chissà se si ricorda ancora di me; se lo vedi parlagli di questo fritto e scrivimi le sue risposte; mi divertirò un mondo. Sai che non faccio altro: pensare al passato e riandare tutte le scene e gli episodi piú buffi; ciò mi aiuta a passare il tempo, qualche volta proprio rido di cuore, senza neanche accorgermene. Cara, Tania mi annunzia altre tue lettere; come le attendo!
      Saluta tutti i tuoi.
      Ti voglio molto bene.
      

ANTONIO

      Tania è proprio una bravissima ragazza. Perciò io le ho dato parecchi tormenti.


 
La nave rimarrà incagliata fra i ghiacchi. In seguito a una campagna antifascista internazionale di protesta Gramsci, che non si piegò mai a chiedere la grazia, nel ’35 avrà la libertà condizionale per motivi di salute, sarà trasferito in clinica prima a Formia e poi a Roma. Otterrà la piena libertà il 21 aprile del 1937, ma il corpo sfibrato dalla malattia, la tubercolosi ossea che lo affliggeva fin da bambino, aggravata dalle privazioni della detenzione, cederà solo pochi giorni dopo, il 27 aprile.
 

Tutto il calcio minuta per minuta

0

di

Matteo Maria Orlando

Cheva, Via del Mare

 

 

Ernesto diavolo della pampa

figlio della tempesta

perfetta così come la palla

spedita appena sotto la traversa

sottratta, con l’inganno l’artificio

a Frey lasciato trafitto battuto

dal tuo nome

venuto al Via del Mare – a sabotare

il già visto il consueto, l’ordinario

Il conto che non torna

0

www.coldcasepedia.com

di Gianni Biondillo

Abbiamo imparato grazie alla televisione cos’è un “cold case”. Detto in inglese lo fa apparire come una cosa tecnica, persino indolore. Tradotto si mostra in tutto il suo cinismo: “caso freddo”. Fa venire i brividi. C’è una presa di distanza che sembra quasi indifferenza. Chiamarli “casi irrisolti” ci mette di fronte alla nostra inadeguatezza. Significa ammettere di non aver saputo svolgere le indagini, confermare quanto il mondo sia più complesso di un giallo, dove l’assassino trova sempre la sua punizione e il bene trionfa sempre sul male. Un caso irrisolto ci mette di fronte al fatto che il mondo è uno gnommero, come diceva Gadda. Un gomitolo indistricabile, spesso crudele, spesso insensato.

Non è raro che mi venga chiesto di scrivere o di parlare di casi di cronaca nera. Che sia una rapina, un assassinio d’impulso, una rapimento, un crimine efferato, uno stupro. C’è un curioso pensiero da parte di chi mi interpella. Tu che scrivi gialli di certo saprai entrare nella mente del criminale. Tu che fai svolgere le indagini al tuo personaggio seriale, saprai di certo capire chi è il vero responsabile, quello che la polizia non riesce a trovare. Tu sai. Tu puoi dirci come è andata a finire. Come fosse un romanzo.

Io resto sempre attonito di fronte a queste richieste. Io non so. Io non so nulla. E non mi permetto di ipotizzare alcunché. Ci sono persone che seguono i casi, da mesi, anni; professionisti, inquirenti, che ci stanno sbattendo la testa, con quale arroganza, io, che la giornata la passo davanti a un computer, posso permettermi di dire la mia?

Non fidatevi degli scrittori che pontificano in radio, degli esperti che traggono soluzioni d’accatto in televisione. Non fidatevi dei decantatori di plastici. Ne sanno meno, molto meno, di chi su quei crimini ci lavorano, colmi di frustrazioni per l’insondabilità, il mistero del crimine.

Ho sempre rifiutato gli inviti delle sirene della stampa. Forse sbagliando, perché, inutile nasconderlo, apparire di continuo in televisione, presentarsi come esperto di menti criminali e affini, di certo gioverebbe alle vendite dei miei romanzi. Ma io non riesco ad essere insincero con i miei lettori. Io nella mente di un criminale, uno vero, non ci so e non ci voglio entrare. Mi bastano i miei incubi personali, quelli privati. Mi bastano i miei romanzi.

Nei casi di cronaca, non dimentichiamolo, i morti sono veri. Bisogna averne rispetto. Ho sempre trovato morbosa questa attenzione mediatica, l’ho sempre trovata oscena. Qualcosa che, etimologicamente, deve stare fuori dalla scena, non deve essere rappresentata, perché manca di umanità nei confronti non solo delle vittime ma anche dei superstiti. Gli amici, i parenti. Decidere di mettere in piazza le proprie idee, dall’alto di non so quale autorità, cercare come una sciarada soluzioni alternative a quelle degli inquirenti, ipotizzare legami fra sospettati, accusare esplicitamente qualcuno di un crimine, fuori da un regolare processo, mi sembra oltre che immorale, pornografico.

Poi quando si tratta di “cold case” siamo addirittura alla sublimazione del cialtronismo mediatico. Figuriamoci se ci ricordiamo qualcosa di questi casi, alcuni vecchi di decenni, presi come siamo dai nostri problemi quotidiani. Eppure continuiamo a parlarne, a scriverne, a discuterne. Mi chiedo, allora: è solo morbosità la nostra? Siamo completamente assuefatti da questa idea di guardare dal buco della serratura, al sicuro delle nostre casa? Siamo solo questo? Cinici imbrutiti alla ricerca di traumi virtuali, di emozioni forti che la realtà quotidiana non sa più darci?

Vederla solo in questo modo non fa di me, alla fine, un intellettuale snob, che disprezza le basse passioni (o, come altri hanno detto meglio di me, le “passioni tristi”) del popolino?

Perché se è vero che noi non sappiamo nulla di queste tragiche morti, e se è vero che bisogna averne rispetto, non si può negare che l’insistenza da parte dei parenti di molte di queste vittime a voler riaprire i casi ha dell’eroico e del tragico. Me lo ha fatto capire mia madre. Donna del popolo, con una semplice quinta elementare nel cassetto, sempre davanti al televisore di casa. La persona che meno immagino a sbirciare da alcun buco della serratura, la meno morbosa che conosca. Non è scoprire chi è l’assassino, come in una partita di scacchi, quello che a lei interessa. È la pietà nei confronti dei vivi. Scoprire come sono andati i tragici eventi, ovvio, non ci restituisce la vittima. Ma quanto meno ci permette di seppellirla simbolicamente. Ci aiuta a organizzare un piccolo spazio d’ordine nel caos dell’esistenza. Un po’ come ci diceva Foscolo: i sepolcri servono ai vivi, prima ancora che ai morti. Queste vittime innocenti sono, mediaticamente, a noi vicine. Sono nostri figli, nostre sorelle. Non vogliamo sapere soltanto come sono morte – in fondo lo sappiamo già – ma perché, nel nome di quale follia, le stiamo piangendo. Alla ricerca del risarcimento di un conto che, purtroppo, non torna mai.

(pubblicato su Grazia, numero 15 del 6 aprile 2016)

a work in progress

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scarabeo campanodi

Francesco Forlani

Qui di seguito i primi dieci capitoli del nuovo romanzo a cui sto lavorando. Tutto è cominciato qui su NI e tutto finirà, come condivisione libera, con questa prima parte. Spero di annunciare in giugno la fine della stesura e  magari entro l’anno la sua pubblicazione. Dedico a Giovanni Lamanna questa mia azione per il lavoro che stiamo facendo insieme. Buona lettura. effeffe

*

Le tournant (romanzo, in preparazione) Corsica. Un’edicola votiva, memoriale di un automobilista morto in un incidente. Ma nella realtà non c’era stato nessun incidente e tanto meno il morto, inventato di sana pianta dal sindaco per indurre chiunque passasse di lì alla prudenza. Un’invenzione. Una fantasticheria che però aveva salvato un mucchio di persone. Così alla morte del geniale sindaco la giunta vuole commemorare l’uno, lo storico primo cittadino, e il secondo, il morto che non c’è, premiando quest’ultimo con una nuova vita, anzi vita tout court visto che non era nato nemmeno una volta. E lo fa ingaggiando uno scrittore per scrivere una storia; vitto e alloggio pagato in Corsica, per un anno. Il protagonista si chiama Franck, d’origine italiana ma in Francia da una mezza vita, fisarmonicista e scrittore; comincia a raccontare la saga familiare del morto, inventandosela dalla dominazione genovese, ai moti rivoluzionari dell’Ottocento e all’occupazione fascista degli anni Quaranta dopo la resa della Francia. Lo scrittore se la gode alla grande, come Ulisse da Calypso. Beve e mangia da dio, s’innamora, ma la vera notizia è che i suoi testi man mano pubblicati sulla gazzetta regionale riscuotono un successo che nessuno dei suoi libri aveva mai ottenuto. Tout baigne, direbbero in Francia. Solo che, a un certo punto, riceve un chiaro invito a fermarsi, quando scopre che sotto l’altarino c’erano davvero delle ossa…

 

Ouverture

 

Ci sono due modi per arrivare in Place des Vosges. Uno è percorrendo da Bastille il boulevard Beaumarchais prima di imboccare la rue du Pas-de-la-Mule; ben altra cosa però è raggiungere la meta sfilando lungo la rue des Rosiers, trecento metri di strada, rue des oubliés, des émigrés, des retrouvailles. In un angolo di giardino che precede la piazza, Franck osserva le panchine di legno disposte ad arco e le persone che se ne stanno sedute durante la pausa pranzo. Franck ne distingue i profili e ne indovina le conversazioni nonostante si trovi a una certa distanza e alle spalle. Ad attirare la sua attenzione è la panca di sinistra, dove due donne sulla quarantina hanno disposto nel mezzo alcuni dolci, Blancmange e Baklava, acquistati in uno degli innumerevoli ristorantini, falafel che popolano la strada.

Certamente è colpito dall’eleganza delle due signore, ma è la loro disinvoltura ad attirarlo, per i gesti con cui accompagnano le parole, per la semplicità dell’atto di mangiare una cosa su una panca in un giardino, semplicità rivestita di abiti di marca e calzante scarpe di lusso. Le osserva per un tempo infinito prima di avere come un presentimento di non essere solo. Con la coda dell’occhio ha infatti percepito, al termine di una diagonale che attraversa lo spiazzo, una presenza, concentrata come lui sulle donne, ma per altri motivi, in una prospettiva totalmente diversa dalla sua. Non sa dire se l’altro se ne sia accorto, per quanto, per un breve istante, abbia avuto l’impressione che i loro sguardi si siano incrociati tipo a metà strada, in campo neutro; l’assoluta perseveranza del suo alter ego aveva però dissolto ogni dubbio a riguardo e ne aveva dedotto che della sua presenza non se n’era affatto reso conto.

Una cosa però ora sa di certo; l’attenzione che aveva fino ad allora totalmente dedicata alle due amiche – la confidenzialità che la vicinanza dei corpi trasmetteva faceva pensare a un’amicizia di lunga data- era stata distolta e dedicata ad altro come se la triangolazione in atto tra lui, l’altro e le due donne, al pari di una catena di Sant’Antonio non si potesse rompere e trasformarsi in un accerchiamento. Così Franck osserva i pensieri e i movimenti dell’altro con meticolosa concentrazione, quasi convinto del fatto che qualcun altro stia osservando lui, e quello, a sua volta, sotto gli occhi di un altro ancora come del resto stava già accadendo alle due donne che non lesinavano affatto, tra una battuta e l’altra, una risata, occhiate ai passanti, specie se prestanti o da insicure donne accompagnati.

Ci sono due modi di vedere le cose, le persone. Si possono contemplare, ammirare, riconoscendone un valore superiore, quasi una possibilità di riscatto interiore in quella esperienza di bellezza o di sublime manifestazione di una presenza tanto inattesa quanto catartica, nei fatti; perché uno si sente migliore quando la bellezza diventa un viatico imprescindibile come le parole di un amico prima d’intraprendere un viaggio; lo sguardo allora si lascia fagocitare e allo stesso tempo nutrire e l’estasi indurre a un’immobilità per certi versi feroce dei muscoli se non si avvertisse dentro un movimento frenetico – il battito accelerato del cuore, il freddo alle ginocchia, le vertigini. Diverso è lo sguardo del predatore perché anticipa un movimento, una sequenza ripetuta mentalmente, un piano d’azione che non lascia adito al fallimento, non ammette sconfitta. In realtà esiste un altro modo di guardare ma si tratta piuttosto di un non vedere, come in effetti accade alle due donne sedute sulla panchina molto prese nella conversazione.

Al punto di non accorgersi affatto del topo che dopo averne registrato le pause, i movimenti, la durata delle distrazioni dai dolci- generalmente dopo averne preso uno dal vassoio e per buona educazione attendere la fine della frase prima di portarlo alla bocca- con una mossa del cavallo e un salto da dietro alla panca ne afferra quello più sul bordo, e per quanto grande, ben più grande del muso sgattaiola via sotto alcune lamiere di un cantiere in corso. Certamente Franck è colpito dalla rapidità del roditore ma è soprattutto l’agilità quasi felina del topo ad attirarlo, la precisione dell’azione tutta svolta nel silenzio e con una tale sapienza che le due signore non si sono rese conto di nulla. Franck abbandona la sua posizione dirigendosi verso di loro. Non ha voglia di dirglielo, avvisarle, non vuole interrompere il sodalizio che la giornata di sole, la freschezza del giardino ornato con piante di fico, una pausa pranzo dal lavoro, una certa spensieratezza ha reso possibile.

Ma quando se le ritrova quasi di fronte e ne nota lo stupore di non ritrovarsi uno dei dolci – il numero pari delle porzioni, calorie da spendere in parti uguali, dopo il furto, era ormai decaduto – gli viene un sorriso, lo stesso che la lettura di un’inserzione su Libèration poco prima gli ha provocato:

Cercasi scrittore. Vitto, alloggio, rimborso spese, gettone. Durata un anno. Disponibilità a trasferirsi.

Seguivano indirizzo mail a cui inviare la candidatura e referenze richieste. Franck non ha dubbi adesso. Sarà sa part de gateau.

 

 

 

Le journal

I

 

 

Un giornale che nel 1973 annuncia la sua nascita reclamando la restituzione della parola al popolo. Sartre, Mauriac e Serge July sono seduti al tavolo con altri e immagino il numero di posaceneri, le nubi di fumo che si aprono un varco attraverso larghe finestre che danno sulla rue de Lorraine, per raggiungere le acque immobili del canal de l’Ourcq. Libération dagli anni ottanta abita in un garage al numero 11 della rue Béranger, a una manciata di minuti dalla Marianne de la République.

Ci lavora Marongiu, alle pagine culturali, e Franck che di fatto è un musicista prestato al mondo delle lettere, tiene per lui dei corsi di fisarmonica, per arrotondare. Jean Baptiste, d’origine sarda, una volta alla settimana lo accoglie nella rue d’Alésia, estremo sud della città, per passare un’ora – generalmente la sera dopo aver consegnato il suo pezzo al compositore del giornale- sui tasti in madreperla di una vecchia Meister rossa acquistata al marché aux puces della Porte de Montreuil per pochi franchi. Quando Franck lo chiama, Jean Baptiste è in redazione, sta sorseggiando un caffé ed è convinto, sulle prime, che la telefonata abbia a che fare con il suo corso d’accordéon.

– No, Jean Baptiste, non ci sono problemi per il corso di domani, almeno per me; ti chiamo per un’altra ragione.

– Spara! Mentre lo dice tira fuori una sigaretta dal pacchetto per fumarsela dopo il caffé

– Sai l’annuncio uscito ieri sulle pagine cultura?

– Quello dell’isola? Non dirmi che anche tu! I centralini sono letteralmente impazziti; o qui sono diventati tutti scrittori o non ci ha una lira più nessuno. Lo sapevo che sarebbe finita così ma era un annuncio a pagamento e la mia nota di accompagnamento serviva soltanto per creare un effetto di rêverie.

– E ha funzionato. Infatti se ti ho telefonato è stato solo per via della tua nota

– Tra musicisti ci si capisce, no?

Franck sorride. la velocità con cui l’amico trova una battuta felice, è davvero sorprendente. Così prende fiato e riparte all’attacco quando Jean Baptiste gli chiede: e allora?

– Niente, pensavo che magari, chissà, potrebbe essere una buona idea per sbarcare il lunario…

– Da musicista desideroso di riapprendere a suonare mi guarderei bene dal dare al mio maestro una dritta che me lo porti via ma, c’è un ma; visto che su quell’isola ci passo tutte le mie vacanze, e che il maestro è un bravo scrittore, sai che ti dico?

Franck è sorpreso. Raramente gli ha sentito pronunciare la frase “bravo scrittore” ed è sicuramente per questa ragione che le sue recensioni sono molto seguite dai lettori, temute dagli scrittori per una sua etica inamovibile in materia. Pur frequentando molti autori nessun affetto, peraltro giustificato in certi casi da una vera condivisione e intimità, avrebbe interferito con la sua attività di critico.

– Dai dimmi

– Tra meno di un’ora passano quelli dell’annuncio per firmare un documento che avevano dimenticato di contrassegnare. Se ti precipiti da me ci parli direttamente e en plus ti faccio da garante.

– E in cambio ti pago un couscous chez Omar.

Franck non abita lontano dalla redazione di Libé. C’è un autobus diretto dalla rue Monge e se si dà una mossa- per Franck darsi una mossa equivale a una decisione tanto grave quanto imprescindibile- in una ventina di minuti dovrebbe arrivarci. C’è stato due volte in quella redazione; una per discutere con Jean Baptiste del corso e una seconda in occasione dell’uscita del suo libro che aveva voluto recapitargli di persona. Per accedere ai piani alti bisogna percorrere una rampa a spirale di quelle che in genere si trovano nei parcheggi. Più che un giornale è un’officina delle idee e per quanto lo stampino a St Denis e che al posto delle macchine da scrivere ci siano comodi computer da tavolo, si sente l’odore d’inchiostro, lo stesso che ti lascia le dita sporche di grasso come quelle dei meccanici. Lo accompagna una strana euforia mentre raccoglie curriculum, riviste, una rassegna stampa e un paio di copie salvate dal macero e dagli editori.

 

 

 

La commission

II

 

La sala riunioni della cultura è al quinto piano. Jean Baptiste abbraccia Franck con il solito aplomb da isolano. Alla profonda calma con cui si eseguono convenevoli e gesti consueti di benvenuto, generalmente, corrisponde nell’uso continentale una tale maniera, un tale grado di formalità che diventa difficile nelle metropoli determinare quanta benevolenza ci sia davvero in chi ti accoglie. Franck segue l’amico e con la consueta maldestraggine quasi trascina dietro di sé il portapenne di uno dei colleghi di Jean Baptiste che con prontezza riesce ad evitare il peggio agguantandolo prima che rovini al suolo. Franck vorrebbe fermarsi almeno per scusarsi ma è proprio questo a fargli segno di andare in fretta visto che i due assessori di Piana se ne sarebbero andati via di lì a poco.

– Bene, è appena arrivato l’amico di cui vi dicevo. Come scrittore posso dirvi che è tra i migliori che io conosca; come lavoratore – è il mio professore di fisarmonica, aveva aggiunto per inciso e con un certo orgoglio- ha il rigore di noi isolani, e per finire non è francese ma italiano, il che dovrebbe superare ogni diffidenza che è legittimo provare verso chi non è delle nostre terre solo per uno strano gioco del destino, ma che per carattere e indole sarebbe potuto essere un vostro compagno di scuola o di scorribande.

– La juste distance- aveva aggiunto quello che dei tre era sicuramente il più importante. perché era più anziano, e si sa quanto l’età conti su un’isola nella fabbricazione delle gerarchie, ma soprattutto perché, come aveva notato Franck entrando nella saletta era stato il primo ad alzarsi quasi prevedendo che a lui per primo Jean Baptiste avrebbe rivolto la parola. Cosa sapeva Franck della Corsica? Niente. Ne aveva vista solo la silhouette, il bianco delle scogliere di Bonifacio, dalla torre spagnola di Santa Teresa di Gallura, in Sardegna durante un viaggio reportage con il suo compagno di collegio Marco Murgia, di Cagliari. Più giusta distanza di quella, sinceramente, non poteva immaginarlo.

– Certo, quel mix di appartenenza e di estraneità che dà allo sguardo la possibilità di vedere oltre e soprattutto meglio il bene che vive in un luogo per fare in modo che chi vi abiti non abbia più dubbi sul proprio stare al mondo. Perché proprio quello è il migliore dei mondi possibili indipendentemente dal fatto che quelle radici non si siano scelte, ma soprattutto da quanto sia magnifica o terribile quella che i più con una certa enfasi dicono essere: terra mia.- aveva concluso Marongiu.

Alla parola radici Franck associa immediatamente l’immagine dell’enorme fico secolare che si trova nel jardin accanto alla Place des Vosges. Le braccia che si diramano tentacolari filo terra gli erano sembrate dalla prima volta in cui l’aveva scoperto, dei rami-radici, staccati da terra, aerei, sospesi. Il vice sindaco- perché al momento delle presentazioni era stato svelato l’incarico del più importante- ad ogni frase di Marongiu annuiva come per apporre un sigillo di verità ad ognuna delle affermazioni. Fisicamente somigliava un po’ al Gino Cervi di Peppone e Don Camillo, tanto più che il più giovane, l’assessore alla cultura aveva una vaga, molto vaga somiglianza con Fernandel che del prete manesco era riuscito a dare una rappresentazione quasi più fedele di quella contenuta nell’opera del Guareschi.

– Ha detto bene, Jean Baptiste – il tono confidenziale aveva suggerito a Franck che i due condividessero più di una striscia di mare- allora proverò a spiegare al suo giovane amico di cosa si tratta.

Si mise a sedere pregando Franck di fare lo stesso intorno al tavolo di cristallo che rifletteva tra gli incartamenti il cielo e i tetti del Marais rifratti dalle vetrate dei finestroni.

– Come vecchio vice-sindaco conosco la storia meglio di chiunque altro. Posso dirle ogni cosa dell’allora sindaco, delle sue gesta, della generosità con cui ha governato la Commune facendo in modo che non mancasse nulla ai suoi concittadini. E quando dico nulla mi riferisco non soltanto alle cose materiali ma anche, e soprattutto, ai valori che danno lustro a una comunità o la piombano nella cattiva reputazione. Sindaco dal trentasei fino al novantanove. Può immaginare allora quanta acqua è passata sotto ai ponti, almeno quelli che non furono fatti saltare in aria. Ma il motivo per cui siamo qui, la ragione dell’annuncio che ha potuto leggere ha a che fare solo in parte con il sindaco Angelini. Nel ‘69, infatti con l’unica rivoluzione che abbia veramente cambiato la nostra vita ovvero quella delle quattro ruote e della diffusione delle utilitarie può immaginare di quanto e con che grado di mortalità aumentarono gli incidenti sulle nostre strade. Strade che come avrà modo di vedere con i suoi occhi si arrampicano su per falesie regalando ai passeggeri viste mozzafiato, su cui la cautela deve essere massima e dove basta davvero la minima disattenzione per precipitare in mare senza che le cinture di sicurezza possano evitare il peggio.

Alla parola cinture i due accompagnatori del vicesindaco avevano avuto la medesima reazione di stupore, di quella meraviglia che precede una grassa risata ma che fu soffocata ancor prima di nascere in quella circostanza.

– Così Angelini Mario, di professione sindacalista e sindaco, (in italiano) ma a questo gioco di parole i francesi a differenza di noi corsi e italiani non ci possono arrivare, s’è inventato la storia del morto.

Alla parola morto Franck, completamente preso dal racconto, per lo stile che il vice sindaco riusciva a trasmettere con pause, sguardi, ritmo della parola, aveva chiesto: quale morto?

– Il morto non morto, per essere precisi nemmeno vivo se è per questo. Eravamo insieme proprio durante quei terribili sopralluoghi insieme alla stradale per recuperare una famiglia intera da un dirupo, sulla strada che da Piana porta a Girolata, quando gli è venuta l’idea. Mi aveva prima offerto una emmeesse, a proposito le fanno ancora in Italia? alla vecchia maniera sa? Con un colpetto, facendola scivolare dal pacchetto morbido e dopo averla accesa a entrambi, con una certa aria grave aveva esordito dicendomi: questa storia deve finire. In realtà ci sarebbe un modo e credo che ci si debba mettere all’opera subito. Hai presente il tornante? Certo gli avevo risposto. Non le solite nostre maledette curve, no no, dico le grand tournant quello della strada che porta da Piana a Sartène, sulla D355. Gli avevo fatto segno di aver capito. Con piglio deciso mi ha detto: Domattina ci si va con il necessario e gli uomini giusti e ci inventiamo il morto, il primo vero morto di questa rivoluzione sull’asfalto. Al che gli avevo obiettato che seppure finto un nome doveva pur avercelo, al che aveva ribattuto Ferrari, un genovese sarà perfetto. Costruiamo un’edicola, non un chioschetto mi segua, Vinciguerra – così Franck aveva appreso anche il cognome del suo maggiore interlocutore – e assicuriamo che ci siano sempre fiori, magari si mette a libro paga una delle nostre vecchiette o uno anticu, in modo che ci sia sempre qualcuno a onorare il morto. Sulle prime, le confesserò caro Franck che l’idea mi era sembrata un po’ bislacca, poi me ne convinsi e quando anno dopo anno cominciammo ad avere i primi risultati, u miraculu, ovvero meno incidenti mortali, raggiunsi la certezza che “il Morto” sarebbe riuscito a mantenere non poca gente in vita. La questione è che avremmo voglia di onorare il morto adesso, a trent’anni di distanza dalla costruzione dell’edicola. E onorare il nostro non più vivo sindaco, nella stessa occasione. Però può ben immaginare come sia difficile onorare qualcuno se il qualcuno non è mai esistito. Questo sarà il suo compito Franck – Franck si rese conto solo in quel preciso momento che il posto era suo- raccontare la vita di Paolo Ferrari, della sua famiglia, da quando sbarcò da Genova come dominatore fino al momento della sua morte. Se per lei va bene potrebbe cominciare anche domani.

E gli porse il bigliettino da visita. Ottavio Vinciguerra, vicesindaco. E così conosceva anche il suo nome, adesso

 

 

Hortus

III

 

Prepararsi a fare le valigie, chiudere casa, partire. Delle tre la più difficile è la casa, perché non la chiudi mica come una valigia e di certo non puoi portartela appresso. La casa abbastanza piccola e spoglia che l’unica cosa che sia davvero d’ingombro è molto probabilmente solo Franck, fisico imponente, andava lasciata a qualcuno. ma a chi? E poi se le cose non fossero andate nel migliore dei modi lì in Corsica come riprendere casa adesso che non ha nemmeno più uno straccio di busta paga in grado di assicurare agenti immobiliari e soprattutto i proprietari. Un anno non è un semplice tempo, è una durata, un concetto a cui Franck, da anni non è più abituato; la sua vita, e per vita si intende la sua esistenza, non è mai andata oltre la mesata, l’affitto da pagare, le varie scadenze amministrative e soprattutto i corsi da piazzare qui e lì dove e quando possibile. Certo c’erano i gatti e le piante. Da quando è andato a vivere da solo Franck ha sempre vissuto in quella che ama definire la catena Darwin, senza sapere se fosse una decisione legata alla salvaguardia della specie, la sua specie, o per non essere solo. La pianta è un partner ideale, un esercizio della cura da compiersi in silenzio e i gatti , due gatti trovati nel quartiere, figli ideali cui destinare le carinerie spesso ricambiate al momento dei pasti.

I gatti allora all’amico anarchico portoghese Mani e le piante a Fiammetta e Fortunato. Perché Fiammetta, che ha un laboratorio di ceramica poco distante, ha le mani d’oro e una perizia botanica da giardiniera provetta. Il passaggio da Mani che adora i gatti al punto di portarseli in boîte alla Java che gestisce da sempre è sempre costellato da frasi felici che nessun romanziere sarebbe in grado di sfornare, generalmente in piedi, tra una cosa e l’altra. L’arrivo di Franck alla Java è salutato da Christine con la simpatia che li lega da sempre e dunque senza particolari cerimoniali se non la luce degli occhi e un caldo abbraccio, cose da riservare a pochi, da distribuire con parsimonia altrimenti si rovinano. Sempre.

Mani è nella grande sala a seguire il lavoro dei due operai che stanno rimettendo il parquet e devono assolutamente finire entro le venti all’arrivo dei musicisti. Mani ha appena liberato il più giovane dal peso dell’auto rimossa dalla polizia municipale. Ha chiamato il deposito, pagato la contravvenzione in tempo reale e offerto al carpentiere gli estremi per il ritiro. La gratitudine accresciuta dal gesto si esprime nell’estrema diligenza con cui Mani gli indica come eseguire il lavoro. Perché le lamelle di betulla sembrano a un certo punto piegarsi à banane, e sfuggire all’allineamento. Mani osserva da vicino e dopo un attimo di silenzio dice:

– Sai, sono orbo da un occhio e per questo posso dirti quando le cose sono veramente allineate.

Mani ha perso un occhio da ragazzo, un incidente, ma ha una visione delle cose soprattutto della vita infallibile come quando ha risposto a Franck che gli chiedeva se frequentasse più i suoi amici ballerini:

– Vedi Franck, si cambia amici quando si cambiano le droghe.

Mani conosce i due gatti di Franck. Era già capitato in passato di occuparsene come del resto all’amico italiano quando durante la chiusura della Java Mani e Christine se n’erano partiti per lunghi viaggi in moto.

– Allora che ne dici di questa storia?- gli chiede mentre l’amico gli serve un calvados dal bar.

– Dici la Corsica? Beh ci mancherai, vuol dire che la sera farò un po’ di chiacchiere con loro per non abituarmi alla tua assenza. Tu droghe non ne prendi.

– Ma sei sicuro per la durata? Prima che mi sistemi per bene, di capire se me li posso portare sull’isola passerà almeno un mese.

– Non ti preoccupare, vorrà dire che te li portiamo noi e così ci faremo un po’ di mare.

Stanno per salutarsi quando l’amico anarchico gli porge un libro, pregandolo di leggere la dedica.

– Ma Mani, è la tua copia di quand’eri a scuola, sei sicuro?

– Luís Vaz de Camões ormai ce l’ho dentro. Leggilo, è il nostro Dante e poi il tempo non ti mancherà. Questa invece – intanto era uscito da dietro al bancone per recuperare dalla borsa accanto al casco una partitura- te l’ha presa Christine; l’ha trovata d’occasione su una bancarella e visto che ti mancava ha pensato bene di fartene omaggio.

Il commiato da chi si vuole bene è sempre un momento difficile soprattutto quando l’incertezza del tempo a venire non permette di determinare una data di ritorno.

Da Fortunato e Fiammetta accade lo stesso. Franck ha un numero di amici equivalente alla quantità di parole che riesce a mettere insieme, da sobrio, in una conversazione. Con Fiammetta sono andati all’Hortus della Rue des Rosiers.

– Cosa ci suonerai di bello?- gli aveva chiesto, dando un’occhiata ai fogli che aveva in una mano.

– Cage, Piano works 1935-1948. Dream. Questo è il pezzo che cercavo.

– Un amico spagnolo diceva: El anarquista del silencio. Come te, no?

– Sai Fiammetta, il nostro, per me che suono, per te che lavori con la scultura, non è mai silenzio, è risonanza. Ci sono strumenti, forme d’arte in cui la nota, un gesto muoiono nel momento in cui l’azione si arresta. Prendi una nota di piano, il disegno. Invece per la fisarmonica come per te la terra o la ceramica, si muovono, persistono, vivono, risuonano appunto e a lungo dal momento in cui li abbiamo toccati.

– Ributtano! – aggiunge Fiammetta infilandosi in uno dei sentieri che portano alla piccola serra e cogliere della cicoria ben cresciuta.

– Sai, pensavo alla storia del fico che c’è qui nell’area del sottobosco. Ai rami che sembrano radici. I fichi ributtano come gli ulivi, mi hai detto…

– Quando la pianta sembra essere morta, su un lato, prepara sull’altro la sua rinascita. A proposito visto che c’è Jocelyn, – da lontano sopraggiunge l’addetto comunale al verde pubblico, che nel giardino si occupa della parte a carico della Mairie lasciando il resto alle associazioni di cui si occupa tra l’altro Fiammetta – perché non gli chiediamo da quanti anni c’è il fico?

Jocelyn ha la tuta da lavoro e qualche attrezzo per le pulizie. Un grande sorriso e soprattutto una disponibilità totale verso quei volontari della terra, sempre alla ricerca di consigli utili o di precise diagnosi in caso di cattiva crescita o di funghi come quelli che avevano devastato una buona metà dei meli distesi lungo il muro a rami incrociati.

– Jocelyn, il fico da quanto c’è?

– Son trent’anni che lavoro qui e ai Blancs Manteaux, e c’era già. Ti ho detto del cassettone del compost?

– No, ho appena chiuso una buca che un porcospino s’è scavato per fare colazione coi vermi.

– Porcospini? No, Fiammetta sono topi, e non di taglia modesta. Da un mese a questa parte padroneggiano nel quartiere. Bisognerà fare attenzione ai cassettoni. Il vostro, per esempio va riparato.

Lo sguardo di Franck è assente, preso dall’eleganza delle quattro betulle i cui tronchi bianchi si stagliano contro il cielo. Ha appena ripassato a memoria il cartello informativo che c’è ai piedi del fico. Si dice che la creazione di quel sottobosco ha permesso il proliferare di un certo tipo di fiore, di pianta, d’insetti e perfino il ritorno dei trogloditi mignon.

– Jocelyn cos’è un troglodite mignon?

– Un passerotto, vivace. E se mai ve ne fossero ancora a mio avviso farebbero bene a tenere gli occhi aperti per non diventare un boccone prelibato.

– Per i gatti?

– No, per i topi

– I topi?

 

 

Ferry-boat

IV

 

 

Dalla Gare Maritime di Nizza ad Ajaccio ci vogliono circa sei ore. Quando la nave si stacca da terra il mare l’accoglie digrignando i denti, sferzando l’aria che è schiuma di fiocchi. C’è in questo mezzo di trasporto qualcosa di ancestrale quasi più di un vecchio carro, perché la naturalezza con cui un corpo può lasciarsi portare dalla corrente qui si ripete, nonostante l’artificio del ferro, delle ancore, dei motori. Franck ha trascorso le ultime ore parigine in compagnia di Fortunato, alla libreria. L’amico gli ha offerto il caffè, bien serré, spingendo la capsula nella macchinetta. Gli ha perfino regalato una cartina della Corsica per raccapezzarsi; nella mail il vicesindaco gli ha scritto che verranno a prenderlo in macchina a Bonifacio. Poi escono un attimo, lasciando Fabrizio alla cassa, per fumarsi una sigaretta. Franck gli racconta quello che è appena successo in metropolitana.

– A un certo punto è salito su, un pazzo, cioè mezzo matto, un matto gentile però; era ben vestito, da hipster, con barba e occhiali, e incollando la faccia al vetro delle porte appena chiuse ha cominciato un soliloquio dove era questione di gatti, di gatti e bambini. In realtà non era un soliloquio, non è mai un soliloquio, in questi casi, ma una conversazione in cui esiste un interlocutore anche se non si vede; è invisibile agli occhi di tutti come dio nelle preghiere di chi ci crede. Ora, lo sai Fortunà, il tono interlocutorio di solito è dato dalla maniera di formulare le frasi, dal loro rimontare verso il punto interrogativo della fine, no?

Fortunato ascolta, fuma, ne asseconda quel desiderio di parlare che in persone taciturne come Franck ha sempre qualcosa di sorprendente, quasi miracoloso, e sa che quando capita è perché il credito di parole, il loro peso dentro è al limite della sostenibilità e deve allora liberarsene.

– Invece questo ragazzo, ti assicuro, dai modi gentili, un po’ sopra le righe, perfino violento quando tagliava le frasi, come una litania ripeteva, dis-donc, e subito dopo, si chiedeva ma quasi ripetendo la domanda del suo interlocutore – qualcosa aveva suggerito però a Franck che si trattasse di una donna, tipo la sua donna- come si scrive? di i esse di o enne di ci.

– Non mi è mai capitato di sentire una cosa del genere- aveva replicato Fortunato

– Capisci? A che pro chiedere di ripetere la parola lettera per lettera, domandare come si scrivesse visto che il piano di scambio pareva tutto costruito sull’oralità e invece quella frase, quella richiesta pareva venire da qualcuno che stesse prendendo nota; e in quella strana domanda c’era una grazia, un’attenzione che faceva di quell’essere invisibile agli occhi dei più, una presenza benevola e consolatrice.

– Melogrammatica?

Franck era scoppiato a ridere. Con Fortunato condivideva tre grandi amori: il silenzio, che era d’oro, la buona letteratura, l’argento, e che di fatto gli dava da campare e un buon bicchiere di vino la mirra, quest’ultima solo per comporre tutta l’epifania laica del loro incontro.

Ora che la città vista dal ponte gli si stava disgregando a contatto con la distanza non un pensiero, non un ricordo, un pezzo di frase, un’immagine, un affetto lo tratteneva dalla partenza; le piante e il gatto erano in salvo, in buone mani e davanti a sé, oltre all’isola c’era una storia di cui non sapeva assolutamente nulla, e solo lo confortava il fatto che nessuno ne sapeva niente. Per fortuna il suo giubbotto di salvataggio ancora una volta era tutta in quella frase, per di più in latino appresa da ragazzo sui banchi dell’università. Fingunt simulque credunt, mutuata da un libro di Carlo Ginzburg, citata da un’opera di Gian Battista Vico. Frase che aveva mandato a memoria anche nella traduzione dello storico: quel che avevano immaginato, credevano dappoi.

Franck si guarda intorno. Il vento gli sferza la faccia e si alza il collo del cappotto per non esporre la gola a cedimenti. Adesso che è solo non rimpiange affatto, come invece gli era capitato fino al momento dell’imbarco, di essersi portato dietro la fisarmonica. L’enorme custodia la rende invisibile anche se non è tanto difficile indovinare dalla foggia di che strumento si tratti. Uno strumento da zingari diretto in un’isola di banditi. Gli ingredienti per un romanzo criminale c’erano tutti. Prende posto nell’enorme sala che c’è al primo piano. I televisori sospesi negli angoli fanno in modo che dovunque si giri la testa gli occhi ne verranno come stregati. Dagli altoparlanti si informano i viaggiatori della rotta di navigazione, delle condizioni del mare, di quelle metereologiche. Lui decide di cacciare lo strumento un po’ per fargli prendere aria, un po’ per controllare che nei vari passaggi, treno, nave, sia tutto a posto; ma forse lo fa perché nessuno abbia a temere che nasconda qualcosa di brutto, un’arma? una bomba? Da metà degli anni novanta, dall’attentato a St. Michel basta poco per farsi delle strane idee. Però ci piace pensare che Franck lo voglia mostrare per dare un volto al proprio amico del cuore, quello che se anche non si vede c’è e che quando si mette a parlare, quando libera i suoni dai bottoni di madreperla, li soffia, si resta sempre incantati.

Poi dà un’occhiata fuori dai finestroni. Un’altra nave, ma da crociera, enorme quasi li affianca. Gli pare di scorgere in quella silhouette la Vlora, la nave dolce che un mattino d’agosto apparve all’orizzonte di Bari con ventimila anime a bordo.

 

 

 

La bibliothèque

V

Corsica, anello tra le due nazioni. Così la definisce Nicolò Tommaseo che all’isola aveva dedicato le sue migliori energie e i versi che sono su un manifesto all’entrata della biblioteca:
L’ ombre ne’ miei pensier: vedrò ’l pallore

Umile e altero delle Corse donne

Percotermi nel cuor più che d’ amore,

Udrò simile alla cirnea vendetta

Urlar tra i sassi e le ulivete il vento,

E per le selci la levata fiamma;

E il Vócero che cupo a passo lento

Segue l’ombre de’ morti, e chiama sangue.

E te pur penserà, che dalla forte

Terra in cui l’adulato esule nacque,

Mandi del canto l’ospital saluto

 

Franck si aggira tra le sale lettura per trovare un posto tranquillo dove stare. Cécile, la responsabile della sezione manoscritti l’ha presentato al collega Alberto che gli ha già preparato una pila di libri da consultare. Sono passate poche ore dall’arrivo a Piana e già si sente uno di casa. La casa in cui starà ha una vista su più orizzonti. Dalle finestre della cucina si vedono le cime dei monti mentre dalla camera da letto letteralmente si sprofonda nella vista sul mare. I calanchi di Piana ce li avrà sotto al sedere ma non per questo non dormirà sonni tranquilli. Ci sarà una signora a sbrigare le faccende di casa due volte a settimana e con un piccolo supplemento, gli è stato detto, potrebbe perfino preparagli da mangiare. Franck deve abituarsi al lusso che il destino gli ha servito su un vassoio d’argento in un momento in cui non c’erano vassoi in casa a Parigi, ma soprattutto non c’era l’argent. Accade sempre in situazioni come queste che ci si senta come impostori, come dei clandestini – questa sostituzione della parola vita con destino non poteva  essere più appropriata- a meno che non si incorra in quello strano computo, nella sequenza causa-effetto inesorabile per cui se ci succede qualcosa di buono ora tale fortuna verrà pagata poi. In questi casi però Franck aveva elaborato una sua strategia che consisteva nel fare inversione di successione e giustificare il bene inaspettatamente ricevuto per tutto il male subito fino a poco prima. La Corsica ha due grandi biblioteche, una ad Ajaccio e l’altra a Sartene, nel Couvent Saint-Joseph. Ci lavorano cinque persone e la direzione è affidata a Cecile. Il fondo manoscritti è assai ricco e i primi titoli che Franck ha sotto mano sono:

Storia succinta delle rivoluzioni dell’isola di Corsica

Storia delle rivoluzioni dell’isola di Corsica e della esaltazione di Teodoro I al trono di questo stato

Scintille di Nicolò Tommaseo

Relazione della Corsica di Giacomo Boswell scudiere, trasportata in italiano dall’originale inglese.

Journal of a landscape  painter in Corsica di Busch.

Fotografa man mano le pagine che potranno servirgli per la sua saga tutta inventata. Vuole fare proprio il motto che uno storico aveva ripetuto ad una recente conferenza di uno storico italiano, Carlo Ginzburg all’Istituto di Cultura di Parigi. A un certo punto la direttrice aveva chiesto allo storico se nella sua idea di secolarizzazione, ovvero occupazione da parte dello stato degli spazi un tempo destinati al potere religioso vi fosse stato un qualche riferimento all’opera di Carl Schmitt . Il magister aveva avuto come un sussulto, un rigurgito intellettuale e aveva ribattuto assai stizzito che del pensatore nazista – il richiamo ideologico ovviamente era stato intelligentemente evitato da parte della sua interlocutrice- se ne sopravvalutava l’opera tanto a destra che a sinistra e che, comunque sia, ben prima di lui e di certo meglio, altri avevano ben descritto tale ” dinamica”, a partire dagli antichi e continuando con i moderni come Machiavelli e Hobbes. Degli antichi Carlo Ginzburg aveva inoltre ben spiegato la formula chiave, la formula di Tacito che dice: “credevano in ciò che avevano appena immaginato” . “Fingunt simulque credunt”, che tra l’altro Giambattista Vico avrebbe riportato in primo piano nella sua rifondazione delle scienze storiche. Franck aveva così immaginato che se si fossero trovati a un importante colloquio internazionale di medicina e sentito un ipotetico moderatore proporre all’invitato una relazione tra quanto appena detto e le scoperte di Mengele, probabilmente l’intero pubblico in sala avrebbe reagito come lo storico in questione. Allora perché questa differenza di trattamento? Lui comunque avrebbe sicuramente inventato e per quanto riguarda il crederci questo non era contemplato nel contratto. Di certo la cosa più importante era che i lettori vi credessero, ovvero appassionarsi alla storia della famiglia del tale che con la propria morte, con l’incidente in uno dei tornanti e la costruzione della piccola edicola a futura memoria aveva salvato tante vite. Ma allora da dove cominciare non gli era affatto assai chiaro. Certo a Franck sarebbe piaciuto mettersi sulle tracce, almeno nello stile di uno scrittore morto da poco in Sardegna, Sergio Atzeni che con la sua ultima opera, Passavamo sulla terra leggeri, aveva reinventato i miti fondatori dell’isola. Franck però non aveva questa ambizione; il suo sarebbe stato un racconto picaro, qualcosa di più simile a un romanzo d’appendice che a un poema epico. Sull’esempio di una delle storie che Alberto il bibliotecario gli aveva portato, avrebbe riassunto quindici secoli di storia in una ventina di pagine, magari ammantate di mistero, fino alla dominazione genovese e raccontato con più dovizia di particolari le rivoluzioni che tra settecento e ottocento avevano infuocato l’isola. Più o meno tra il trattato di Versailles e la nascita di Napoleone l’inizio per poi continuare con l’ottocento degli anarchici e il novecento dei fascisti. Mentre si lascia andare col pensiero a tutte queste riflessioni si è fatta ora. A cena sarà ospite del vice sindaco. Non vuole presentarsi a mani vuote e così si fa dire da Cécile dove acquistare del buon vino, del vino importante.

 

 

La femme de ménage

VI

 

Franck si muove con circospezione nella villa messa a sua disposizione; la vista sulle calanche ha in sé qualcosa di struggente e l’aria è talmente pura che rischia di farsene un’overdose, con tanta purezza. Pensa ai gatti lasciati a Parigi e alla loro felicità quando verranno a stare da lui. Il giardino è immenso e regolare ed è forse per questo che la villa l’hanno chiamata u pratu ; l’erba è forte e i muretti di cinta a proteggere la proprietà dai cinghiali gli ricordano le trincee della prima guerra mondiale visitate in Trentino anni prima. La signora che si occupa di lui si chiama Rosa. Quando l’ha incontrata in mattinata sulle prime era rimasto un po’ sorpreso; s’aspettava una donna vestita di nero con fazzoletto in testa, dalla faccia segnata dal sale, dalle braccia larghe e di poche parole, una signora. Invece Rosa è giovane, ha un paio di jeans strappati sulle ginocchia, stivaletti neri da pirata e una camicetta la cui scollatura lascia intravedere un reggiseno che ha l’aria di essere il pezzo di sopra del costume. Una ragazza che ama nuotare.

Mentre bevono in terrazza, immersi nel sole di pieno mattino, la curiosità di lei verso quell’uomo forestero è concentrata soprattutto sul suo lavoro; farsi pagare per immaginare storie, inventarsi le cose ecco questo non poteva capirlo. Non solo. Trova perfino ingiusto che si possa fare; in realtà Rosa ama leggere, scrivere, cantare come le capitava fino a poco tempo fa in un locale tenuto da una cugina e che d’estate si riempiva di gente per lo più turisti in cerca di qualcosa di veramente esotico quando nulla poteva esserlo su un’isola di un posto tenuto da sole donne; eppure lei non riesce a sedare la propria sete di risposte, con quanto Franck a volte imbarazzato, per lo più impacciato, le serve insieme alla birra ghiacciata. Franck ne è affascinato. La giovane età? Lo sguardo che occhi liquidi rendono invincibile, il potere di trascinare ogni cosa in chissà quali abissi dell’anima, e che allo stesso tempo come sospeso alle parole, ai gesti, diventa quello di una creatura perduta, perduta e sola, alla maniera di una ragazzina che avesse perduto per via delle correnti l’orientamento e al ritorno da una nuotata non riconoscesse più casa tra le file degli ombrelloni. In questo sono sicuramente simili, però se a salvare Franck è la musica, la fisarmonica, in lei, invece, è la rivolta, il seme della disobbedienza, a farle da angelo custode proprio quello che a Franck mancava e avrebbe sempre desiderato possedere perché qualcosa crescesse in lui.

 

–       Continuo a non capire…- ha aggiunto lei rientrando in casa. Si siede su una delle poltrone e aggiunge – comunque le prometto che mi spiegherò meglio la prossima volta. A proposito, prima di entrare ho sentito che stava ascoltando Janis Joplin

–       Little girl blue

–       È la mia preferita

–       A proposito della fatica, cioè del lavoro che non capisce come si possa definirlo tale, in un certo senso la capisco. Anche a me quando dico che mi guadagno da vivere così in genere il mio interlocutore mi ribatte che deve essere molto figo fare qualcosa che si ama fare, in cui può capitare perfino di divertirsi e in più essere pagato per questo

–       Riassume bene la cosa, questo che mi dice – ha aggiunto lei.

–       Però in realtà tutti dovrebbero campare facendo le cose che si amano, no?

–       Per lo più non è così

–       Infatti nemmeno per me, e faccio la fame

–       Un po’ sciupato lo è, se posso permettermi.

Solo in quel momento Franck realizza quanto siano differenti. Lei ha la pelle abbronzata, i tratti distesi e naturali. Perfino la leggera arrossatura sotto il labbro ha un suo perché come una mela acquistata a peso d’oro in un mercato bio del quinto arrondissement. Le sue mani levigate dai saponi sanno di terra e per la prima volta sente il desiderio di prendergliele tra le sue per poterne sentire le screpolature, alleviarne la durezza ma si trattiene dal passare all’atto. Si sono appena conosciuti e in più lei ora lavorerà per lui.

–       Sa che faccio? Ingrasserò capitolo dopo capitolo e quando sarò bello panciuto vorrà dire che sarò abbastanza voluminoso e pronto per andare in stampa.

–       Tanto lo sa che cucino io

–       Comunque mi ha dato un’idea

–       Cosa?

–       Domani vado in un caccia pesca e tutto sport e mi compro un paio di pesi per polsi

–       Cosa?

–       Sì quelli in piombo che usano i sommozzatori

–       Per andare a fare immersione?

–       In un certo senso, però sulla pagina. L’ho sentito dire a Ferdinando Camon in una conferenza a Parigi, al Pompidou

–       Chi? Cosa? – Rosa sembrava non seguirlo affatto ma il sorriso che aveva fatto seguire alla raffica di domande aveva una leggerezza e una sincerità che sembravano assecondare la voglia di parlare di Franck più che stabilire una distanza, quella rovinosa per cui la gente non si capisce.

–       Camon uno scrittore del nord est figlio di gente che lavorava i campi. Raccontava che aveva cercato di vincere la vergogna della propria emancipazione dalla fatica costringendosi a scrivere mettendo ai polsi i braccialetti da sub e far provare alle mani dello scrittore la stessa fatica dei padri contadini.

–       Se vuole la accompagno io. L’unico negozio che c’è in paese è di mio zio, il Buonarroti

–       Lo scultore?

–       No, l’anarchico, ma non per questo senza il martello

 

Les Innocents

Cap.VII

 

Per descrivere una passeggiata ci vogliono scarpe buone.

Franck non ricorda affatto in quale libro e per bocca di quale autore abbia sentito per la prima volta questa frase; eppure risuona in lui dalla mattina presto in cui la sveglia del mondo con una buona mezz’ora d’anticipo su quella digitale, l’ha tirato giù dal letto.

E insieme alla frase si ripete a mente l’incontro in municipio delle undici con il libraio dell’Adelfia, Cossu Giovanni che con Castellani in Place de la Fontaine si divide la piazza dei libri. Glielo ha presentato lo zio di Rosa, il Buonarroti della chincaglieria dove accompagnato dal vicesindaco si era recato poco prima per procurarsi i pesi per i polsi.

Lo aveva in verità un po’ sorpreso l’indifferenza con cui i due ospiti avevano accolto quella sua richiesta; il fisico da sub di certo non lo aveva, né tanto meno del culturista ma allora a che pro comprarsi quegli attrezzi? L’unico a esserne sorpreso, ma anche un po’ lusingato per la stranezza cui aveva voluto cedere, sembrava proprio lui mentre ne pesava la massa, passandoseli da un palmo all’altro delle mani, e controllato l’aderenza al polso. Se li era fatti regolare dal vicesindaco che sembrava più avvezzo all’uso; di certo adesso Franck poteva solo immaginare in che modo avrebbe influito sulla sua scrittura, quali movimenti condizionato nel battere le frasi al computer visto che se ne avesse mimato sul posto i gesti l’avrebbero rispedito nella capitale con un TSO. Il libraio, alto, leggermente claudicante e con forti labbra da isolano – la barba invece rada e brizzolata sulla faccia scura sembrava tradurre i segni di un mestiere di mare, di navigazione o di porto – si era subito portato disponibile a dare una mano per le sue ricerche d’archivio sciorinando tutta una bibliografia mentre l’anarchico Buonarroti seguiva tacendo e con pochi cenni del capo i consigli del letterato.

– Conosco bene l’Italia; a Firenze; ci ho lavorato a lungo negli anni settanta e animato perfino una comune insieme ad altri pazzi. A me e ai due sardi, di Porto Torres, ci chiamavano gli “incontinenti”

– Non aveva l’aria di essere un complimento- aveva detto Franck posando i pesi sul bancone e preparandosi a pagare

– In un certo senso sì; in quel gioco di parole c’era un sottile apprezzamento per l’intraprendenza di uno dei due, l’architetto e di riflesso la nostra, per semplice natura isolana. Mi ha detto Vinciguerra che ti ispirerai alla crociata dei fanciulli per far cominciare la dinastia del nostro eroe dei tornanti

– Sì, il primo Ferrari, in realtà l’ho immaginato come il figlio di Ugo Ferro uno dei due mercanti che s’era venduto come schiavi i ragazzini al Sultano imbarcandoli a Marsiglia con la promessa di condurli in Terra Santa

– Jolie famille!

– Il punto però è che lui non è come il padre, anzi farà di tutto per riscattare il nome. Sarà la sua personale crociata anche se la storia della famiglia sarà per i secoli a venire segnata da quella maledizione.

L’anarchico negoziante gli aveva lasciato il resto dei cinquanta franchi sul banco. S’era ritirato nel retrobottega per tornare con un libro: una vecchia edizione della Crociata dei fanciulli di Schwob, quella curata da Borges per Franco Maria Ricci. La copertina azzurrina faceva pensare alla carta da zucchero. Franck non conosceva quella edizione. Gli sarebbe tornata utile anche perché all’inizio non era chiaro ai committenti se le puntate della storia sarebbero state in francese o in còrso, salvo poi decidere più o meno all’unanimità che l’avrebbe scritta in italiano e in un secondo momento tradurle nelle due lingue, mttendo sullo stesso piano lingua dei dominatori e dei dominati. “La lingua di Paoli!” aveva sentenziato il vicesindaco alla fine della discussione.

Quando Franck torna a casa la prima cosa che avverte è la presenza di Rosa. Ne cerca ogni traccia di passaggio – la prima cosa che aveva notato era che avesse rifatto il letto nonostante vi avesse provveduto prima di uscire. Ogni stanza sapeva di Javel, e la lavanda sulla mensola della cucina si lasciava portare dalle correnti per coprire l’odore metallico di varichina. La lavatrice era ancora in funzione e sul ripiano aveva trovato una nota, stringata, della ragazza:

“ Ripasso nel primo pomeriggio per stendere i panni. Spero le convengano i detersivi che ho usato. Per strada ho raccolto della lavanda. Non so perché ma pensavo che potesse corrisponderle come profumo. A dopo, comunque. ”

Franck si avvia sul terrazzo grande come per sottrarsi a lei e sistema il tavolino bianco da giardino in modo da poterci appoggiare il computer e i primi libri recuperati in biblioteca e utili per cominciare il racconto. Ha già in mente il titolo, Le tournant, così in francese. Perché la parola suggerisce un luogo, quello per cui è stato chiamato a scrivere, e un personaggio che di colpo ritorna sulla scena per raccontare se stesso. Ferrari, Arturo Ferrari sarà il Revenant. Ha già una fotografia. L’ha trovata sulla rivista che aveva consultato in Biblioteca, una pubblicazione curata dall’associazione Ràdiche. Rappresenta il poeta corso irredentista Santu Casanova. Non sa se l’ha scelta per il nome o effettivamente per la faccia, poco elegante, estremamente ordinaria.

Quando avvicina la sedia in metallo al tavolo ha già indossato i pesi da immersione ai polsi. La prima impressione è di vigore, e quando una volta preso posto comincia a scaldarsi le dita sulla tastiera, non ne ravvede alcun impedimento ma ne percepisce lo sforzo fisico, quello inseguito da Camon e ora da lui realizzato. A penna su un post-it ha scritto due frasi veloci ripensando al bigliettino della lavatrice:

vederti a fior d’acqua lasciarti portare dalle correnti

come quando da bambini impariamo a fare il morto

Per immergersi ha bisogno di una spinta che lo faccia tuffare nel magma di voci e suoni che diventeranno parole, poi pagine, un libro. Tra i vari appunti contenuti in una cartellina rosa pastello emerge all’improvviso la stampata della voce Corsica di wikipedia.

Separata dalla Sardegna dal breve tratto delle Bocche di Bonifacio, emerge come una grande catena montuosa ricca di foreste dal mar Mediterraneo, segnando il confine tra la sua parte occidentale, il mar Tirreno ed il mar Ligure.

Ne ammira la precisione geometrica, la sintesi di una descrizione così concreta. Si chiede chi sia il compilatore ma anche se saprebbe rintracciarne il nome, visto che ha un amico registrato proprio come contributor, in realtà ad interessarlo è proprio la vita del tipo che per ragioni che gli sono oscure ha dedicato alla voce Corsica un periodo della sua vita ma soprattutto la sua eleganza di scrittura. La prima nota con sottolineatura gialla riguarda invece il compare di Hugues Ferro, ovvero Guglielmo Porco.

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Certo, l’idea di un naufragio a pochi anni di distanza dall’eccidio del 1212, che coinvolgesse il figlio di Ferro poteva funzionare e la cosa gli suonava talmente bene che per un attimo pensò al fatto che evocasse l’acqua di vite di terra sarda il filu ‘e ferru.

 

La stesura

Cap.VIII

 

 

Franck non si è accorto del tempo che è trascorso da quando ha cominciato a scrivere le prime dieci pagine del suo memoriale. Non si è reso conto nemmeno del peso ai polsi tranne quando in una delle pause sigaretta infilando istintivamente la mano in una tasca della giacca per tirarne fuori l’accendino poco mancava che ne strappasse il tessuto. Così mentre si porta la sigaretta alle labbra ha seguito la parabola del braccio come intento in un esercizio fisico e non l’ha sentita entrare preso com’era dall’osservazione del corpo che a questo punto non gli sembrava nemmeno più il suo – una tale estraneità l’aveva provata quando dopo una partita con i suoi amici a Vincennes si era storto una caviglia e costretto a inventarsi un modo di camminare diverso s’era sentito espropriato delle sue gambe. Il profumo di lei lo spinge voltarsi e a coglierla prima nell’atto di chinarsi sulla bacinella ricolma di panni appena lavati e a seguire in quello di stendere il primo dei capi sul filo di ferro teso da un capo all’altro del terrazzo. È una camicia bianca che porta le cifre di suo fratello Geppi. Ne distende le maniche con cura e l’immagine che ne ha è la stessa di una maestra di ballo intenta a mostrare all’allievo prediletto la posizione delle braccia. Per eseguire quell’operazione Rosa ha disteso le braccia e Franck rimane come turbato dall’aureola di peli radi che sotto le braccia nude si mostrano in tutta la loro naturalezza. Distoglie lo sguardo da subito come se provasse vergogna di essersi messo a guardare, invece di vedere l’amica nel suo insieme di presenza e ospite, violando il tempo e lo spazio della ragazza. La saluta con garbo per divenire d’improvviso presente. Rosa si volta e gli sorride per ricambiare.

– Rosa, grazie mille per tutto

– Lei lo sa che sono pagata per questo, no?

– Sì, ma non di farlo con la cura che le ho visto dedicare alle mie quattro cose. E comunque, lo sa che siamo in perfetta sincronicità? Sono anch’io alla mia prima stesura

– E allora? Soddisfatto?

– Non so ancora, però…- mentre le sta parlando nota come lo sguardo di lei si sia posato sui polsi inghirlandati dal piombo- ah, dimenticavo di ringraziarla per avermi indicato il negozio di suo zio

– Le stanno bene, sa, se fossi in lei li terrei anche per uscire la sera. Le danno un’aria da galeotto e su un’isola come la nostra è un punto a favore

– Potrebbe essere la mia fuga dai piombi. Intanto signorina le presento il mio protagonista, Casanova Santu_Casanova_-_from_L'Annu_Corsu_1927

Rosa ha preso la fotografia in mano dopo essersela asciugata sui jeans e con aria interessata ha chiesto come facesse di nome

– Santu, Santu Casanova, uno dei vostri più illustri poeti

– Io non ho poeti miei. Quelli che amo appartengono a tutti; per lo più esuli e rivoluzionari.

– Le posso chiedere una cortesia?

– Mi dica pure, però sappia che le toccherà parlare mentre continuo la mia stesura. Come diceva una signora buona da cui lavoravo, i panni appena lavati dopo un minuto muoiono se non li stendi e infatti perdono ogni profumo e puzzano di morte

– Ah già, scusi. Comunque volevo solo chiederle se potevo leggerle le prime dieci pagine del romanzo. La lettura ad alta voce è il primo esame da superare per una scrittura. Se non funziona te lo dice la voce. Però farlo da solo mi annoia; posso prenderle in prestito un orecchio? Non si preoccupi, non le chiederò se le piace

– E perché? Non si fida delle mie orecchie?- per dirglielo s’era voltata e l’aveva fissato tenendosi le orecchie con le mani e piegandole come fanno i bambini quando si trasformano in mostri.

– Allora se vuole, prenderò in prestito anche la sua anima.

– E in cambio?

– Cosa posso darle? Non ho niente

– Ho visto la fisarmonica in camera. Mi piacerebbe sentirla suonare, un’aria, quella che vuole, quando avrò finito il lavoro e chiaramente quando avrà terminato la lettura.

– Affare fatto.

Franck ha recuperato i fogli del primo capitolo e mettendosi a sedere poco distante comincia a leggere il manoscritto. Si è tolto i pesi e solo allora si rende conto dalla pelle arrossata quanto stringessero. L’attacco è perentorio:

“ A nessuno è dato di sapere il giorno, il mese, l’anno preciso in cui la piccola nave che salpata da Marsiglia fece naufragio lungo la costa occidentale della Corsica, da Capo Còrso a Capo Pertusato. Se una tempesta non si fosse abbattuta sul convoglio avrebbe proseguito lungo la Sardegna prima d’inforcare la Ruta de Las islas. Che tra i pochi sopravvissuti vi si trovasse in ceppi Martin Ferru, figlio legittimo di Hugues, nemmeno il padre lo venne mai a sapere e fu un bene per le cose che sarebbero in seguito successe(…)

Mentre dice il testo, assecondandone il passo, la falcata, nei momenti di maggiore enfasi e il suo oscillare tra nature e paesaggi incontaminati, attraversati dalla fatica dei personaggi, di tanto in tanto solleva lo sguardo per cogliere in un’espressione del volto di lei un segno, per quanto minimo di consenso o di perplessità magari di non comprensione di un passaggio o di indifferenza alla storia. E invece non solo in certi momenti Rosa si fermava come per capire meglio e riprendere subito dopo la molletta di legno per fissare un pantalone o una mutanda, ma rideva con gusto dove Franck avrebbe voluto che il lettore ridesse o corrugava la fronte quando l’eroe sembrava perduto come quando nella scena dei lupi il povero Martin si salva dal branco grazie al provvido intervento di un cinghiale gigante.

A un certo punto ha perfino colto in una contrazione del volto di Rosa, quel non so che di orientale che l’aveva colpito dal primo incontro.

Quando legge l’ultima frase si alza dalla sedia e rivolge alla ragazza la domanda che darà alla ragazza la possibilità di esercitare il diritto che spetta stipulato dal principio, l’inalienabile diritto di ogni lettore.

– E allora? Soddisfatta?

 

 

La bacheca

Cap.IX

 

 

Sulla Place de la Fontaine ci sono la Mairie, il café de la Mairie, L’Eglise de Sainte- Marie, e la libreria Adelfia. Qualsiasi cosa si voglia fare, dovunque si voglia andare, mare o montagna, che si abbia in testa di percorrere a piedi nudi la lunga spiaggia di Arona o rimanere in religioso silenzio sulle calanche rosse e chiedersi come fare per raggiungere la caletta che s’intravede, è da li che si deve passare. Franck ha approfittato della bella giornata per farsi accompagnare fin lassù da Rosa. La segue nei discorsi, nelle descrizioni e nelle storie che racconta molto più vive di quelle un po’ alla volta ricostruite attraverso i libri della biblioteca e le ricerche in rete. L’acqua è sicuramente l’elemento che domina ogni cosa. L’acqua e la pietra. Tanto più conosce meno sa Franck di quest’isola che gli avevano detto – perché l’aveva letto? Perché in Francia così si diceva di questa strana gente? Di tutti i popoli d’Europa gli isolani di Corsica sono i soli che siano nati per essere continuamente infelici. Eppure a Franck, per quanto cosciente del privilegio che gli era stato accordato per quel suo nuovo lavoro, i Corsi gli sembravano tutt’altro che infelici. Anarchici sicuramente, e altrettanto certamente consci della propria storia rivoluzionaria, memoria alimentata da elementi mitici capaci di tenere insieme giganti come Napoleone o bislacchi monarchi come lo fu Theodor Stephan von Neuhoff, detto anche Teodoro I di Corsica, che per nove mesi tentò in pieno settecento di liberare l’isola dal dominio dei genovesi. Un re improbabile pieno di debiti. Ma è l’acqua che affascina Franck più di ogni cosa e a un certo punto lo dice a Rosa che un’acqua così non l’aveva vista mai.

–       L’ochji sò d’acqua- ribatte lei tenendosi un po’ distante dalla ringhiera a strapiombo sul mare come chi soffra di vertigini mentre Franck ci tiene i gomiti appoggiati mentre parla. È alto, molto più alto di lei e seppure abbia poco più che quarant’anni in realtà ne dimostra una trentina. Da quando le ha suonato l’indifférence ha un solo desiderio ed è che lui le insegni a suonarla.

–       Cosa vuol dire?

–       Che quel che vedono i nostri occhi non è infallibile

Franck si è voltato verso di lei quasi a contraddire quanto appena detto. Potrebbe essere sua figlia e Franck non ha figli. Potrebbe essere però un’amica importante e poiché di amici ne avrà bisogno per un anno, bisognava pur cominciare da qualche parte. Così girandosi verso di lei voleva solo dirle che a lei, lui credeva e che se questo era stato possibile lo si doveva di certo agli occhi di lei, per come sembravano dire più di quanto la parola potesse, ma anche i suoi che ne avevano indovinato la profondità.

Rosa si è fatta avanti tirando un bel respiro come di chi debba vincere una paura sottile del vuoto e indicandogli un punto imprecisato della spiaggia deserta gli dice:

–       Lì, vedi, alla baia d’Arone, grazie a un sommergibile sbarcarono le armi per la Resistenza. 450 mitragliatrici e 60 000 cartucce.

–       E come si chiamava ?

–       Michel Bozzi

–       No, chiedevo il sottomarino

–       Casablanca

–       Nulla in quest’isola è lasciato all’immaginazione

–       E ancora non sa nulla

 

Quando sono ritornati nel pomeriggio in paese Franck non si aspettava di trovare un capannello di persone davanti alla bacheca esterna del municipio. Man mano che si avvicinava il presentimento che la cosa lo riguardasse sembrava dopo aver preso piede cominciato a battere in segno di vittoria. Il che non era affatto cosa nuova per Franck. Come tutti coloro che escono di rado dal silenzio, che non si lasciano erodere l’anima dal linguaggio, dalla voce, dal vento delle parole, anche lui s’era dotato d’una grammatica dell’ascolto e del sentire che lo aveva reso granitico nelle convinzioni  premonizioni e che per lo più si rivelavano vere. Non aveva nemmeno attraversato la piazza che un paio di loro, fino a pochi minuti assorti nella lettura, di un comunicato? Un annuncio del sindaco? Lo avevano raggiunto per complimentarsi con lui.

Franck faceva finta di aver capito annuendo e tendendo la mano a chi protendendo la propria ne richiedeva la stretta. Solo quando il vice sindaco Vinciguerra quasi sottraendolo alla foga, per quanto benevolente dei suoi concittadini, lo prende sottobraccio, gli rivela l’arcano; di come avesse deciso in mattinata, poco dopo aver ricevuto il primo capitolo di stamparlo e affliggerlo in bacheca.

–       Affliggermi?

–       Affliggere? Ma no, cosa ha capito, affiggere, afficher, affissà a historia nant’à i muri.- aveva replicato facendosi una grassa risata

–       E allora ?

Nel giro di poche ore per ben tre volte si era trovato davanti al muro di quella domanda. Chiunque abbia avuto l’occasione di fare qualcosa che non solo pretendesse un interlocutore, per sua natura, ma che dovesse a questi per forza piacere per onorare un contratto, sa bene quanto pesante possa essere quel tipo di domanda, pesantezza da cui soltanto la risposta insindacabile e positiva del committente poteva liberare. Il primo capitolo della sua storia, della storia di un’isola di cui non sapeva nulla, di cui non possedeva alcun ricordo o memoria poetica, cui non lo legava nulla, e di cui, ne era certo, mille altri avrebbero potuto molto meglio di lui dire, era piaciuta. Non poteva di certo sapere Franck se la decisione del vicesindaco di metterla in bacheca fosse legata a una sua incertezza, a un non sapere dire se quanto iniziato fosse nella giusta direzione, dunque prigioniero anche lui di un e allora? Oppure l’avesse messa proprio per dare lustro all’impresa che lui per primo aveva architettato per la città di Piana.

–       Lo sa che nel nostro paese di Porcu e Ferro ne trova quanti ne vuole?- dice facendo riferimento ai due mercanti che s’erano venduti i ragazzini delle crociate al sultano

Sono entrati nel café de la Mairie e Franck non ha potuto rifiutare il moresque che gli è stato appena offerto. Per la prima volta si trova a faccia a faccia con lui. Ne scorge la barba ruvida, la pelle segnata dal sole come la frusta di vento fa con la sabbia senza farla sanguinare. Ne sente il tabacco delle emmeesse, inconfondibile come l’incenso in chiesa, e prova una profonda invidia per quelle mani che pesano il doppio delle sue anche se le dita agili quando stringono il baffo sinistro o accarezzano il bicchiere sembrano quelle di un pianista.

– Lo so, Vinciguerra, ma forse quello che nessuno sa è che questa è un’isola abitata da fanciulli. E aggiunge- fanciulli felici.

 

 

 

 

 

 

Attesa, apparizione, scomparsa. Un Fort/Da di Sophie Calle

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 Où et Quand ? - Lourdes - de Sophie Calle © Actes Sud 2009 per l'Opificio di Letteratura reale
Où et Quand ? – Lourdes – de Sophie Calle
© Actes Sud 2009 per l’Opificio di Letteratura reale

[Questo articolo è tratto da Le Attese – opificio di letteratura reale /2, seconda pubblicazione dell’Opificio di letteratura reale, gruppo di ricerca nato in seno all’Università degli Studi di Napoli Federico II, creato e diretto da Francesco de Cristofaro e Gianni Maffei. Il volume, curato da Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello (Napoli, ad est dell’equatore, 2015), contiene testi di: Arrigo Stara, Elisabetta Abignente, Daniela Allocca, Pasquale Bellotta, Antonio Bibbò, Vincenzo Birra, Emanuele Canzaniello, Annalisa Carbone, Francesco Chianese, Mirta Cimmino, Federica Coluzzi, Bruna Corradini, Enza Dammiano, Francesco de Cristofaro, Giovanni De Leva, Giuseppina Dell’Aria, Paola Di Gennaro, Brigida Di Schiavi, Alberta Fasano, Carmine Ferraro, Luca Ferraro, Marianna Ferriol, Fernando Fevola, Carmen Gallo, Stefano Genua, Ida Grasso, Valeria Gravina, Fausto Maria Greco, Mara Imbrogno, Michela Iovino, Giovanni Maffei, Anastasia Manna, Natalia Manuela Marino, Marilisa Moccia, Elena Munafò, Gianluca Nativo, Alfredo Palomba, Dominique Pellecchia, Viviana Pezzullo, Francesca Piccirillo, Jacopo Pignatiello, Isabella Puca, Annarita Rendina, Andrea Salvo Rossi, Chiara Salierno, Maria Chiara Sassano, Gennaro Schiano, Assunta Claudia Scotto di Carlo, Giulia Scuro, Francesco Serao, Ernesto Severino, Gabriella Sgambati, Francesco Sielo, Laura Staiano, Nicole Suppa, Ornella Tajani, Mariangela Tartaglione, Marco Viscardi. o.t.

 

di Ornella Tajani

De tout consultant, quel qu’il soit, j’attends qu’il me dise :
« La personne que vous aimez vous aime et va vous le dire ce soir »

 

Si fa assumere come cameriera in un albergo veneziano e fotografa le tracce del passaggio dei clienti nelle varie stanze. Trova una rubrica sul marciapiede e contatta tutte le persone delle quali è indicato il recapito con l’obiettivo di ricostruire, partendo dai loro racconti, un ritratto del proprietario. Chiede a dei non vedenti dalla nascita di raccontarle quale sia la loro immagine della bellezza. In vari musei, domanda ai visitatori e allo staff di descriverle i quadri che mancano perché temporaneamente esposti altrove, o fotografa le pareti vuote lasciate dai quadri rubati. Fa installare, sul Pont du Garigliano, una cabina dotata di un telefono al quale lei sola può telefonare per dialogare con i passanti che avranno voglia di rispondere. Invita centosette donne a commentare, sulla scia delle rispettive specialità professionali, la lettera con la quale il suo compagno l’ha lasciata. Dedica più di un lavoro alla madre defunta.
Basta una rapida e sommaria panoramica delle performance che strutturano il lavoro di Sophie Calle per notare una costante: le sue operazioni artistiche ruotano spesso intorno alla dicotomia apparizione/scomparsa; del resto alcuni suoi titoli, come Les Anges, Fantômes, Last seen, Disparitions, lo confermano in maniera esplicita.
Nel 2013, invitata a partecipare alle ricerche dell’Opificio di Letteratura reale sul tema dell’attesa d’amore, Sophie Calle ha inviato un testo di sua scelta, inedito in italiano, tratto da Où et quand ? Lourdes (Actes Sud, 2009), secondo volume di una trilogia. In quest’opera Calle coniuga apparizione e scomparsa – già parzialmente evocate nel titolo, che racchiude il miracolo – con il binomio attesa/ricerca.
Non sono poche le figure dei Fragments d’un discours amoureux di Barthes, testo di riferimento per i nostri lavori sull’attesa d’amore, che possono farsi indicazioni teoriche del percorso artistico di Sophie Calle. D’altronde la stessa scrittura in frammenti è tipica di alcuni autori che, nel corso della loro carriera, hanno giocato con quella che nei Cahiers de la photographie veniva definita «photobiographie»: Roland Barthes in La chambre claire, Sophie Calle in tutte le sue opere e il loro comune amico Hervé Guibert, scrittore e magnifico fotografo, sono alcuni dei nomi interessati da questa pratica scrittoria, come racconta Magali Nachtergael nel suo articolo Photographie et machineries fictionnelles.

Al di là di questi punti in comune, è chiaro che c’è un legame affascinante, per quanto incongruo, tra i membri di questo trio improbabile formato dallo scrittore, il critico e l’artista. Il loro frequente utilizzo della fotografia, il gusto per le piccole storie e per il frammento finiscono per mettere in scena dei «soggetti autobiografici» le cui strade si incrociano, a volte anche nella vita quotidiana,

scrive Nachtergael (Nachtergael 2010. Trad. mia). Mettere in scena dei «soggetti autobiografici»: nelle gallerie che ospitano i lavori di Sophie Calle, quella di cui lo spettatore fruisce è sempre, prima d’ogni altra cosa, una autobiografia frammentata. Sta in questo utilizzo della modalità-frammento il primo punto di contatto tra Calle e Barthes.
Tornando ai Fragments, lasciando da parte la figura che il semiologo dedica all’attesa, ce n’è un’altra che si presta meglio come ouverture a un commento di Où et quand ? : è quella intitolata La dernière feuille e dedicata alla magia.

Magia. Nella vita del soggetto amoroso, non importa a quale cultura esso appartenga, non mancano mai le consultazioni magiche, i piccoli riti segreti e le azioni votive (Barthes, 1977: 132).

Questo lavoro su Lourdes inizia, come il precedente volume della trilogia, con la consulenza che l’artista chiede a Maud Kristen, famosa medium francese. La domanda che apre la lettura delle carte è sempre la stessa: «Dove e quando?» – un quesito, lo si nota subito, tutt’altro che estraneo all’innamorato che aspetta. Tuttavia, nel momento in cui lo si rivolge all’ignoto, la scena si cristallizza nell’attesa di un accadimento che non si conosce e si declina in maniera diversa rispetto alla Erwartung classicamente intesa: si trasforma cioè in qualcosa di più simile a una ricerca. Seguendo Barthes in La dernière feuille individuiamo una leggera ma ben codificata distinzione grammaticale che conferma quanto detto:

Per poter interrogare il destino, c’è bisogno d’una domanda alternativa (Mi amerà/Non mi amerà), di un oggetto suscettibile di una modificazione anche semplice (Cadrà/Non cadrà) e di una forza estrinseca (divinità, caso, vento) che contrassegni uno dei poli della modificazione. Io faccio sempre la stessa domanda (sarò amato?) e questa domanda è alternativa: o tutto o niente […]. Io non sono dialettico (ibid.).

In realtà, al cospetto di un indovino, la «question alternative» di cui parla Barthes, ossia l’interrogativa disgiuntiva, si trasforma spesso in una interrogativa totale: mi ama? La risposta può essere soltanto affermativa o negativa, non ci sono vie di mezzo: je ne suis pas dialectique. Invece, la domanda di partenza della Calle è qui un’interrogativa parziale: dove e quando? – domanda per la quale «Lourdes» rappresenta un sottotitolo, più che una risposta.
In questo volume chi pone la domanda iniziale non è una donna innamorata, bensì qualcuno che desidera «andare incontro al futuro, batterlo sul tempo», come l’autrice dichiara sin dall’incipit. In questo sta la prima e fondamentale differenza tra la Calle e il sujet amoureux di cui parla Barthes, al quale al contrario questo genere di gioco con il tempo è precluso, poiché egli non è in alcun modo in grado di dominarlo.
Come mai dunque l’autrice, sollecitata a prendere parte a un lavoro sull’attesa d’amore, ha scelto proprio un estratto di questo volume, se non è specificamente d’amore che il volume tratta? Vediamo il testo:

Come si saranno incontrati gli altri, quelli che si amano ancora? I luoghi. Le date. Le parole dette… Li avrei imitati, mi sarei messa in uno stesso posto, a una stessa ora. Avrei aspettato. E visto se il miracolo poteva ripetersi.
Ieri, d’un tratto, così, senza motivo, sono andata sul Pont du Garigliano, alle otto, e ho aspettato di incrociare un uomo con un giubbotto di pelle, com’era successo a Jeanne tre anni prima, un bell’uomo di quarantadue anni, bruno, un uomo di cui aveva sentito parlare spesso perché facevano lo stesso lavoro, ma che non aveva mai incontrato, un uomo che aveva fatto le ore piccole e tornava a casa a dormire in quel mattino ventoso.
Avrebbe sorriso, avrebbe rallentato il passo, mi avrebbe chiesto se ero proprio io quella donna di cui anche lui conosceva l’esistenza. E il vento forte ci avrebbe spinti a rifugiarci nel caffé più vicino, all’uscita del métro Balard.
Ieri c’era vento, ma nessuno mi ha sorriso. Sono passati due mendicanti con un carrello del supermercato, senza guardarmi. Un ciclista si è voltato verso di me, ma ha proseguito. Alle nove ho rinunciato. Nessun miracolo. Però mi piaceva. Simulare altri incontri, andare a sperare altrove… Se questo progetto andrà in porto, lo intitolerò Lourdes.
(Calle 2009: 19. Trad. mia per tutte le sue cit.).

In questo frammento ci troviamo di fronte a un singolare tipo di attesa d’amore (o meglio dell’amore). Calle non prova alcun tipo di delirio, non ha la possibilità di dire: «Je suis celle qui attend. L’autre n’attend jamais», poiché l’altro non esiste, o non ancora. Nel constatare l’assenza dell’altro, lei non pensa: «je suis moins aimée que je n’aime». Piuttosto, si tratta di una sfida: è come se l’artista sperimentasse l’attesa in via preventiva, con la speranza che un objet aimé si manifesti, si materializzi di colpo. Calle riutilizza la scenografia dell’attesa di amori altrui, sperando che il miracolo dell’incontro possa compiersi una seconda volta.
L’attesa «che qualcosa accada» è il fil rouge dell’intera operazione messa in scena in Lourdes, all’interno della quale Calle si trasforma in una sorta di semiologo non dissimile da quello che, nei Fragments, Barthes identifica con il sujet amoureux. Una volta nella città santa – dove, su indicazione dei tarocchi, è andata a cercare qualcosa che non conosce, forse una rivelazione – l’artista studia i segni. Il 23 gennaio, ad esempio, annota sul suo diario che, passeggiando per strada, ha trovato un’insegna con il suo nome, Sophie: «pista sbagliata», commenta immediatamente. Poco dopo si ritrova davanti all’hotel Sainte Monique, e Monique è il nome della madre: un altro segno? Qui Calle svela qualcosa in più, usando una citazione: «tutte le scorciatoie iniziano a convergere sulla tua ossessione» (Calle: 113). L’ossessione di questo volume è proprio la madre morente, Rachel Monique, come da titolo di un’altra sua opera. L’artista parte per Lourdes già sapendo che la madre è in fin di vita: il volume si apre con un ironico autoritratto in cui lei si mostra con il capo coperto da uno scialle fucsia e il trucco sciolto, come una madonna Kitsch, e si conclude con un’istantanea che Calle si scatta dietro prescrizione telefonica della veggente; in questa ultima fotografia l’artista appare stanca, pallida, provata. «Torni subito» (Calle: 143), recita infatti la didascalia.
Al termine del libro, il lettore scopre di aver accompagnato l’autrice durante una sorta di attesa luttuosa e al contempo purgatoriale, poiché la morte rappresenta in ogni caso una liberazione. Al centro del volume sono poste sessantasette pagine di carta velina, semitrasparenti, in bianco e nero, sulle quali figurano i nomi delle malattie miracolosamente guarite dalla Madonna di Lourdes. Nella lista compare soltanto per imbroglio dell’artista il male di sua madre, inserito in maniera posticcia e truffaldina, certamente con un intento esoterico e bene augurante.
«Ciò che lei sta andando a cercare a Lourdes è di ordine guerriero. Un modo di celebrare il suo lutto in grande» (Calle: 97), predicono le carte prima della partenza. Il termine deuil è qui carico di due significati: il lutto è certamente quello, imminente, della madre, ma è anche l’attente-deuil barthesiana; un’attesa del lutto, in questo caso. Sophie Calle non è nuova a esperimenti di manipolazione del tempo, nei quali gioca con la ripetizione (Les dormeurs), la durata (Douleur exquise) o l’incompiutezza della fine (En finir). Alla manipolazione si aggiunge qui il gioco fantasmatico dell’alternanza tra apparizione e scomparsa, cui l’artista si riferisce esplicitamente in più di un caso: «una scomparsa comporta un’apparizione» (ibid.), annota prima di partire, quasi si trattasse di un mantra.
In effetti, in Lourdes si può pensare che l’autrice dialoghi con l’attesa, la scomparsa, le coincidenze attraverso un personalissimo gioco del Fort/Da di stampo freudiano. Analizzato nel secondo capitolo di Al di la del principio di piacere, il cosiddetto «gioco del rocchetto» è quello osservato da Freud nel nipotino di diciotto mesi, consistente nel gettare oltre la culla un rocchetto con uno spago, per poi recuperarlo, accompagnando il tutto con i due vocalizzi «o-o-o/a-a-a», che Freud identifica con i due termini «Fort» (via, lontano) e «Da» (qui, ecco). Nella lettura freudiana, per il bambino il rocchetto rappresenta la madre, laddove l’altalena fra i due fonemi è il simbolo della possibilità della sua perdita.
Come ben sintetizza lo psicanalista Jacques Sédat, Freud propone due diverse interpretazioni del gioco:

  1. Il bambino, da passivo che era, abbandonato dalla madre, diviene attivo mettendo in gioco una «pulsione di appropriazione» […] che consiste nel «rompere» in qualche modo l’oggetto, in mancanza del potere di elaborare la sua assenza.

  2. Attraverso la duplice sequenza Fort e Da, il bambino può fare a meno dell’oggetto senza doverlo distruggere, costituendolo al di fuori come oggetto perduto; egli cioè elabora psichicamente l’assenza dell’oggetto separandosene, mediante un’operazione in cui l’oggetto materno è privato della sua onnipotenza e in cui, in effetti, egli acquisisce la possibilità di assentarsi da esso (Sédat 1998).

Il primo caso rappresenta l’opzione semplice del gioco, ossia quella che prevede soltanto il “Fort”. Invece, il caso della Calle è evidentemente il secondo: l’artista si allontana dalla madre morente (Fort) per recarsi a Lourdes, quasi a caccia del miracolo che possa salvarla (Da). Mentre è in viaggio commenta: «Il mio riflesso nel finestrino del treno appare e svanisce continuamente. Inizio a scorgere ciò che sono venuta a cercare. La scomparsa» (Calle: 101), il che riconduce nel dominio del Fort. Tuttavia, l’ultimo suggerimento della veggente è: «Torni subito […]. Non ci sono segni. Tutto resta nella scomparsa» (Calle: 141). Nella città santa si resta nella scomparsa: è esattamente questo il motivo per il quale occorre tornare subito a Parigi (Da), dove la madre sta per morire.
Apparizione, scomparsa, attesa vissuta come un rito da compiere per accelerare il destino, per «andargli incontro»: è questo il triangolo intorno al quale si muove la Calle in Où et quand ? – domanda che alla fine resta inevasa. Il sottotitolo Lourdes non è altro che la traccia più evidente dell’«idéal féminin maternel» che l’artista continuamente insegue e rifugge, e intorno al quale finisce per girare disordinatamente, ma con costanza, perché esso rappresenta una delle sue più possenti ossessioni. È per questo che la dinamica del Fort/Da mi è parsa prestarsi particolarmente bene come chiave interpretativa di questo lavoro. Del resto, Catherine Mavrikakis aveva già fatto riferimento alla medesima analisi freudiana in occasione di altri lavori della Calle, come Les Aveugles:

Se Sophie ha scritto sui non vedenti e se ha lavorato sulla cecità, è evidente che il fulcro del suo lavoro è la necessità di essere vista, pedinata, fotografata, filmata. Ha bisogno di giocare con la sparizione in un fort-da freudiano che governi l’assenza e la presenza e che le metta in scena, senza che sia sempre possibile sapere se è la presenza o l’assenza a essere rappresentata, senza che sia possibile pensare l’apparizione senza la scomparsa (Mavrikakis 2006: 133. Trad. mia anche per la succ.).

Il movimento dialettico è ormai chiaro: avvicinamento/allontanamento, apparizione/scomparsa. Al suo interno, l’attesa diventa così un tentativo di giocare con il tempo: allontanando l’evento negativo che si sta aspettando, come in Lourdes (Fort); o cercando di «attirare» gli accadimenti desiderati (Da), come nel caso del frammento d’argomento più «amoroso» con il quale la Calle ha scelto di partecipare ai lavori dell’Opificio. Queste due diverse declinazioni di uno stesso esperimento di manipolazione del destino, delle coincidenze e del passato sono le coordinate di quella «volontà di creare una presenza spettrale, […] di restituire il mondo alla vita» (Mavrikakis: 136) che costituisce una delle cifre artistiche di Sophie Calle.

 

Bibliografia

Barthes, Roland, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 2001 (1979)
Calle, Sophie, Où et quand ? Lourdes, Arles, Actes Sud, 2009
Freud, Sigmund, Tre saggi sulla teoria sessuale. Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 2012
Mavrikakis, Catherine, Quelques r.-v. avec Hervé. Quand Sophie Calle rencontre encore Hervé Guibert, in «Intermédialités : histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: History and Theory of the Arts, Literatures and Technologies», n. 7, 2006
Nachtergael, Magali, Photographie et machineries fictionnelles. Les mythologies de Roland Barthes, Sophie Calle et Hervé Guibert, «Épistémocritique», VOL. VI – Hiver 2010
Sédat, Jacques, Pour introduire l’amour en Psychanalyse, in F. Perrier, L’amour, Paris, Hachette, 1998

Inutilità del concorsone #2

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Come se non bastasse l’Inutilità del concorsone #1 gli avvenimenti dei giorni scorsi consentono una Inutilità del concorsone #2. Esse (le inutilità), nella mia testa, si armonizzano in una gigantesca Inutilità globale che finisce, tra le altre cose, per rivelare il graduale infiltrarsi dell’impolitica laddove meno te la aspetti, ovvero nella politica governativa. Che certe scelte del Governo in carica siano politicamente suicidali (sia a breve che a lungo termine) mi sembra ovvio, ma di questo mi importa relativamente. Che la politica italiana non sia in grado di uscire dal pantano in cui siamo immersi da tanto (mixando débâcle della Prima Repubblica, ventennio berlusconiano, avvento dei populismi, ecc.), giocando pericolosamente con l’ideale democratico, mi preoccupa assai di più. Prima delle riflessioni generali, però, la hit parade delle Inutilità del concorsone della settimana.

Bracciate #2- Dario De Marco

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Il secondo racconto della rubrica Bracciate è « Il triangolo del crimine », raccolto da Dario De Marco. Costui ha fatto il giornalista per quindici anni, collaborando con prestigiose testate (Repubblica, Sole24ore, Mattino, Blow up…) e contribuendo a fondare il compianto mensile Giudizio Universale; poi si è disintossicato e oggi lavora in una pizzeria in provincia di Torino. De Marco ha pubblicato finora due autobiografie, una in forma di romanzo (Non siamo mai abbastanza, 66thand2nd, 2011) e una in forma di saggio (Mia figlia spiegata a mia figlia, LiberAria, 2014). Aristide Maselli è suo cugino.

IL TRIANGOLO DEL CRIMINE

un finto noir di Aristide Maselli

Ponte Estaiada

 

Destino paradossale quello di Aristide Maselli. Brasiliano puro, ma con un nome-e-cognome che ne denuncia le chiare origini italiane, eppure pressoché sconosciuto qui da noi. Nato e cresciuto nello Stato di Minas Gerais, e quindi mineiro, che alla lettera vuol dire minatore, è invece di famiglia tanto ricca che non ha mai dovuto lavorare per vivere. Tessitore di trame linguistiche complesse, che ibridano il portoghese letterario con localismi dialettali e perfino inserti di lingue indie, è inedito in patria e pubblicato solo in Argentina, quindi in traduzione spagnola; beffa suprema, la sua gauchissima casa editrice ha un nome brasiliano, Grande do Sul.

È uscito l’anno scorso il suo secondo o forse terzo libro, che l’editore ha con scarsa originalità intitolato El triàngulo criminoso (nel risvolto di copertina si lascia intendere che il titolo caldeggiato dall’autore fosse un altro, senza però rivelare quale). È una storia la cui geometrica semplicità sfiora i limiti del didascalico.

[Attenzione: spoiler. Nelle righe seguenti viene rivelata in tutto o in parte la trama dell’opera]

Guilherme Blanco detto Billy, investigatore privato alla fine di una carriera che non è mai iniziata davvero, riceve un incarico inaspettatamente prestigioso, da parte dell’industriale Arnaldo Antunes. È lo stesso Antunes che piomba personalmente a chiedergli aiuto (non ci viene risparmiato il topos del noir vecchio stile, l’incipit con il cliente che entra nell’ufficetto mentre l’eroe indolente fuma e beve con i piedi sul tavolo: ironia metaletteraria? Speriamo), e Billy accetta anche se il compito gli sembra subito superiore alle proprie capacità. Sostiene Antunes che tale Francisco “Chico” César (l’azione si svolge tra i sobborghi e la City di una São Paulo irreale) si è messo in testa, chissà perché, di ucciderlo. Ma siccome appunto le motivazioni sono oscure e gli indizi labili, l’industriale teme che a proteggerlo siano insufficienti i gorilla di cui dispone a iosa, e tanto più l’intervento delle forze di polizia. Blanco dovrebbe seguire i movimenti di César, carpirne il movente e nel caso prevenire gli attentati alla vita di Antunes. L’investigatore si mette all’opera.

Man mano che l’indagine va avanti e gli elementi di prova si accumulano, Billy Blanco si imbatte in luoghi circostanze e persone che gli ricordano i vari episodi di una carriera costellata di insuccessi: delitti irrisolti, omicidi non evitati, tradimenti rimasti nascosti, fughe di notizie non arginate. Si inseriscono quindi nel romanzo tanti segmenti narrativi autonomi, a volte brevi, a volte invece brevissimi; un espediente che ci piacerebbe definire postmoderno, ma che alla fine è antico almeno come Boccaccio o le Mille e una notte. Questo procedere per frammenti ha però l’effetto, non si sa quanto voluto, di distogliere il lettore da un fatto rilevante. Prima ho scritto: man mano che l’indagine va avanti, che gli elementi di prova si accumulano. Avrei dovuto scrivere: man mano che l’indagine non va avanti e gli elementi di prova non si accumulano. Quasi subito infatti Billy scopre l’essenziale su Chico César: passa quattordici ore al giorno nel suo negozio di ferramenta, uscendo solo per tornare a casa; all’apparenza è una persona pacifica e fisicamente è tutt’altro che un energumeno; non sembra figurare tra le conoscenze, presenti o passate, di Arnaldo Antunes, né vengono a galla collegamenti anche indiretti tra le vite dei due. Con un ritardo esasperante, quasi surreale (d’altra parte il fatto che i protagonisti abbiano tutti e tre il nome e il cognome che iniziano con la stessa lettera, come i personaggi dei cartoni animati; il fatto che queste lettere siano A, B e C, proprio come gli angoli di un triangolo; il fatto infine che tutti e tre si chiamino come famosi cantanti brasiliani: sono cose che non contribuiscono certo al realismo del libro), finalmente Billy capisce che c’è qualcosa di losco, e che è su Antunes che dovrebbe indagare. In un lungo e appassionante capitolo il detective scava a fondo nel passato del capitano d’industria, gettando luce sulla sua misteriosa ascesa nel panorama della capitale economica, e scopre legami imbarazzanti, corruzione, sfruttamento di minori e altre efferatezze; è al fine in grado di mettere a frutto le sue capacità investigative, sente che la sua mediocre vita è riscattata; purtroppo nell’ultima riga del capitolo si capisce che è solo un programma, meglio una fantasia, un sogno a occhi aperti di Blanco.

Il giorno dopo, mentre per l’ennesima volta parla con Chico fingendo di essere un cliente, Billy ha l’illuminazione: non è César che vuole uccidere Antunes, ma Antunes che vuole morto César; e il braccio armato, tanto più efficace in quanto non consapevole, il killer designato sarebbe proprio lui, l’investigatore. Billy interrompe la conversazione e si precipita verso la porta, deciso a uscire per sempre da quel negozio, e da quella storia, quando l’anziano ferramenta che già era sospettoso (non si entra più di due volte in un negozio semideserto della periferia, facendo domande da inetto al lavoro manuale, senza farsi notare) lo aggredisce con una chiave inglese. Segue l’unica scena veramente d’azione di quello che pretenderebbe di essere un noir: la colluttazione è lunga e patetica, Billy cerca di difendersi con un trapano spento, ma senza troppa convinzione, sembra quasi che preferirebbe morire piuttosto che assecondare il piano diabolico di Antunes. Mentre César sta per sferrare il colpo decisivo, Blanco ha un’altra intuizione, che capovolge nuovamente la lettura della trama: il regista malintenzionato è sempre Antunes, ma la vittima predestinata non è il commerciante, bensì lui stesso; è l’investigatore che deve morire. E muore, perché quando cerca di sottrarsi (per salvarsi la vita, ma anche per sventare la trama del criminale, per non morire da marionetta com’è vissuto), è troppo tardi.

A questo punto avvengono ben due colpi di scena, uno stilistico e uno propriamente di intreccio. Bisogna premettere che il Triàngulo è scritto tutto in seconda persona, cioè al protagonista Billy Blanco lo scrittore dà del tu, oppure, specularmente, il lettore viene chiamato Billy, identificato con lui. È una scelta stilistica non frequente, ma neppure del tutto inedita, e nel caso di Maselli addirittura ripercorre la strada seguita nel suo romanzo d’esordio, Stringiamoci a corte: che è una finta autobiografia del suo alter ego italiano – della persona che Aristide avrebbe potuto essere se i suoi avi non fossero in massa emigrati nel nuovo mondo – e contemporaneamente una storia moderna d’Italia vista attraverso la lente del calcio, delle partite della nazionale ai mondiali. Diciamo che lì il “tu” aveva una ragione anche in relazione al contenuto, mentre qui può sembrare un semplice artificio. Fino alla fine del penultimo capitolo, che termina così: “Lo capisti solo allora, lo intuisti in che senso girava quel perverso triangolo virtuale, proprio un attimo prima che quell’esagono (un esagono! Quell’inutile superfetazione d’infiniti triangoli) fin troppo reale, fatto di inossidabile acciaio, entrasse dalla tempia sinistra nel tuo cervello, ponendo fine al suo incessante montaggio e smontaggio della realtà. E un attimo prima di perdere, per una volta vincesti. O almeno, questo è quanto piace pensare a me”.

Si gira pagina e si scopre che la voce narrante, la mai esplicitata prima persona, appartiene a Eliane Elias, la fidanzata del detective. Che ricostruisce a posteriori tutta la vicenda; e nell’ultimo capitolo vi entra in prima persona, diventando protagonista, anzi deus ex machina. La sua azione decisa ci riserva infatti un altro colpo di scena sicuro, e forse uno ulteriore ancora nelle ultime righe: pur non essendoci un vero e proprio “finale aperto” (quest’altro parassita del postmodernismo), Maselli affaccia un sospetto, e quasi con sprezzo l’abbandona alla malizia del lettore, ne faccia egli quel che vuole. A questo punto, però, raccontare oltre è davvero impossibile.



 

Inattuali

4

di Gilda Policastro

n.13

Nel dolorificio tu non tormenti gli amici con le ubbie matrimoniali
non spieghi la metafora a tua figlia con sei bella come il sole
(nella fase dei perché apocalittici e mamma come nascono)
o se, per un caso sui miliardi possibili, la incontri dove non dovrebbe stare
non accorri a documentarla, perché no, non ha alcun interesse per me,
nel dolorificio, di quanti private message sfilaccino
la tramatura dei se e dei perché non –

Nel dolorificio ci sono i pescecani o anche i cani soli,
io so e darò le prove: testimone
del non so dov’era né com’è andata,
ma se c’erano dei sorveglianti l’hanno calata
nel dolorificio e la madre spera (non pratica l’ellissi,
ogni minuto particolare)
nell’altrovevita se non altro per fotterli, fuor di metafora

Nel dolorificio mancano loro, e ne parlavi subito
ma adesso mai, perché quando era presto riavvolgeva da capo
il filo della pesca à rebours e adesso l’intervallo-ἐποχή alterna lo sconcio
del caro rimembrare con l’ombra secca dei cumuli lapidari:
sei, nel dolorificio: stecco
			     chiuso
			     giallo

Quando esci dal dolorificio ti aspettano di sotto, oppure: no,
non sanno di preciso come muoversi dentrintorno      Tutti lo fingono,
ma nessuno veramente lo apprende      tu, tu solo, nel dolorificio hai capito
la morte e la spalmi sulle nostre diatribe quotidiane come burro ontologico:
grasso che cola se non ce ne andiamo tutti come in Giovanni 
										le cose di prima non saranno
nel dolorificio a vestircene la bocca e foderarci il teschio
travisato dal make-up secolare
Quando ci siamo noi, che ne parliamo, ne parliamo sempre e non ne
profittiamo
se ci spianano la strada: un’idea nuova e l’agone dei perché nei social epitaffi
e le squadre di chi lo sa e chi no
						tu, per esempio,
l’incalzare delle fiamme di cui parlava
la depressa nel romanzo, e dall’altra parte falling man che pareva
											il sollievo ed era,
rispetto alla cosa (specie quando non erano le effettivamente fiamme
nel dolorificio, a braccarti), un modo soltanto, malgrado i differenti squilibri
e per qualcuno hobby quello che ad altri è patto
Quanto più sei giovane sarai divertito se no buh, fuori
									nel dolorificio
PG non guarisce le ossa spolpate dall’a tutti i costi dieta
con la Ferrari: ha 27 anni,
e in tre soli rapidi mesi la risolve PZ, a 41, da cirrosi in morte subitanea
LP ne ha 63 quando l’ospedale la studia da cavia degli endoscopici i più invasivi:
un successo l’intervento con tutte le metastasi
tranne quando non si evidenziavano, che poi difatti muori
nel dolorificio, d’incidente o di cancro
e se trascolori nelle giornate vuote finisce che balli
e se traballi che resta, che resta di te
fino a domani, fino a tutti i domani in cui la terra vive come opaco –
e mamma, allora, che cos’è la metafora, che cos’è
una cosa che dici con altre parole e una vita che vivi come fosse ogni giorno
morte da illeso morte e nient’altro, fin quando puoi,
e per il resto
			passo:
non sono brava, con i finali

———

NOTA: Il testo originale ha una distribuzione nello spazio e nei versi leggermente diversa, che qui si perde a causa della formattazione. [23.4.2016: formattazione sistemata. N.d.I.]

Tratto da Gilda Policastro, Inattuali, Transeuropa 2016

Per Roberto di Marco, l’avanguardia intransigente

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di Nadia Cavalera

È da poco uscito per le edizioni Pendragon “Scritti e libri” di Roberto Di Marco. Il primo libro di una serie che intende far conoscere adeguatamente un intellettuale  di punta del secondo novecento italiano, esponente del “Gruppo 63” e autore con Filippo Bettini dell’antologia “Terza Ondata. L’ultimo movimento della Scrittura in Italia” (Synergon 1993).
Questo primo volume  comprende un saggio inedito su Roberto Roversi  e il testo d’esordio pubblicato nel n.5 di “Menabò” (diretto da Elio Vittorini).
In appendice un primo elenco di preziosi  libri posseduti da Roberto di Marco, la cui vendita mira a finanziare la pubblicazione dell’intera opera dell’autore.

 

Ho conosciuto tardi Roberto di Marco, come scrittore, in concomitanza dell’esperienza di Bollettario, che, realizzata alla fine degli anni ottanta con Sanguineti, mi ha spinto anche a conoscere meglio i componenti del Gruppo 63.
E lui ne era tra i fondatori quale esponente della sperimentale  “Scuola di Palermo”, titolo di un’antologia  che ha fortemente  contestato perché equivocabile, suscettibile di far scambiare il libro per un testo didattico (mentre presentava  tre racconti  di tre autori: Roberto Di Marco, Michele Perriera, Gaetano Testa- pubblicato da Feltrinelli nel 1963, qualche mese prima che nascesse il Gruppo 63). Ma utile evidentemente per Alfredo Giuliani come base del lancio del futuro Gruppo 63.
Avrei voluto leggere subito quanto più possibile su di lui, ma all’epoca trovai in biblioteca a Modena solo Telemachia   (e ancora oggi la situazione non è cambiata), poi  mi procurai L’orto di Ulisse del 1986, recuperai Fughe a Pavullo e per la prefazione I fioretti di San Francesco a Castelnuovo Rangone. Quindi nel 2006  La donna che non c’è.
Purtroppo non conosco a tutt’oggi molto della sua ricca produzione di saggi teorici, di critica letteraria, né gli scritti politici sociologici di critica economica, disseminati in riviste introvabili (e che mi auguro ora vengano ripubblicati in toto, compresi quelli scritti per Bollettario). Solo stralci, recuperati negli anni qua e là.
Utili comunque a delineare ai miei occhi la figura a tutto tondo del  materialista comunista che lui amava essere: un intellettuale coerente e combattivo  fino alla fine contro la becera Cultura dominante. Contro le ferree leggi di  mercato che seppelliscono sempre più la letteratura “nella grande discarica della merce” .
Convinto dell’incompatibilità tra sviluppo di arte e poesia e condizioni sociali capitalistiche, è nell’impegno politico della ora tanto bistrattata lotta di classe che vedeva qualsiasi significanza operativa.
Così che è stato prima fiero oppositore , tenace contestatore della letteratura, boicottandola dall’interno (alla maniera di Sanguineti), poi instancabile assertore della sua morte.
Sempre  a caccia di un Oltre, di un Altro , dell’al di là della poesia, di un narrare differente , di una espressività diversa, non coincidente con la poeticità e affettività, ma  quale «successione di “micro-catastrofi” di senso e appunto espressioni (cioè di microformalizzazioni di atti ideo-affettivi e/o immaginativi)».
Fino a far coincidere la nozione di Avanguardia, passando attraverso la fase dell’ Avanguardia di Strada (e non del Museo di sanguinetiana memoria),  nell’Assenza della Letteratura .
Straordinari, lungo questo percorso, i suoi romanzi-saggio, o meglio saggi-romanzi, dove il tradizionale sviluppo di una traccia narrativa minima veniva a perdersi, a smarrirsi fagocitato dalla marea dei commenti sempre più politici del narratore.
Che sembrava avesse il solo fine di fare dello spettatore-lettore un lettore-osservatore (come ebbe a dire lo stesso Sanguineti nella postfazione di “Telemachia”), che messo di fronte ai fatti formulasse finalmente sue osservazioni, suoi personali punti di vista. Il testo come una ineliminabile quasi dependence del fuori, in cui ravvisare il suo vero centro. La letteratura da abitare, senza mai dimenticare che la sua centralità è nelle contraddizioni economico-sociali-politiche. Che sono fuori.
Una sorta di opera maieutica nell’invito al lettore perché facesse “egli stesso il libro, leggendolo”  e considerasse questo suo intervento capitale perché il libro si facesse. Anzi questa richiesta che avanzava costituiva «tutto il programma di lavoro dell’autore».
Poi gli pseudoracconti senza nessi e «senza una logica narrativa normale», in un’alternanza continua di miti smitizzati, incongruità di senso e gusto, il  «narrare scombinato»…
A ricordarci costantemente che la letteratura era per lui  una «locanda malfamata dalla quale occorreva fuggire subito».
E lui lo ha fatto. Si  è tirato fuori dal contesto generale che chiamava “Azienda”. Anche se questo gli è valso l’isolamento.  «Sono un escluso, un lebbroso,  ma non è la fine del mondo», confessa serenamente ne L’orto di Ulisse  .
Un legame così stretto il suo tra teoria e pratica, da farne il protagonista di un’avanguardia riservata, ma estrema, nel suo atteggiamento critico contro la stessa avanguardia più sponsorizzata negli anni sessanta e nei successivi convegni autocelebrantesi.
Perché l’accusava di essersi arenata in «storie di piccole carriere, melanconiche ripicche di letterati senz’anima, idee fasulle, tanta presunzione e un’incommensurabile voglia d’allori».
«Un’operazione culturale ben riuscita, (…)- sosteneva amaramente – anche a soffocare, depistare e accademizzare l’avanguardia potenziale che conteneva»
Non che lui credesse in un’Avanguardia permanente, ma avrebbe sperato per quella degli anni sessanta una vita più lunga.
Ecco questo l’unico punto che mi trovava dissenziente da lui e peraltro da tutti gli altri, essendo il mio sogno  proprio quello di formare una Avanguardia, pur in mutate forme,  non elitaria, di massa, rispettosa del concetto di umafeminità, e soprattutto stabile. Come d’altronde stabile e mutevole è il Capitalismo a cui si oppone. L’Avanguardia come  «polimorfico indomito contraltare del mutante capitalismo». Ne ho già parlato al Convegno “Avanguardia e comunicazione”, nel 1996.
Anche per Roberto di Marco l’Avanguardia non si può creare a tavolino o evocarla: è un exploit che normalmente rientra[1].  Ma che può ritornare anche a breve. E seppur deluso, da instancabile qual era, ne aveva intravista un’altra avvisaglia nei primi anni novanta, quanto insieme a  Filippo Bettini pubblicò La Terza Ondata. L’ultimo movimento della scrittura in Italia (Synergon, 1993). Fu questa  l’occasione del nostro primo incontro condiviso.
Che mi porterà poi nel 2005 ad inaugurare il Premio Alessandro Tassoni, col conferimento a lui dell’ honoris causa.

 

RAPPORTI CON BOLLETTARIO
Nel primi anni novanta Di Marco lesse i miei scritti che gli erano stati proposti da Bettini e io, volendolo tra i collaboratori di Bollettario, gli feci avere i primi numeri pubblicati.
Mi rispose il 12 agosto del 1992, comunicandomi innanzitutto l’inserimento nell’antologia Terza Ondata, la cui pubblicazione lui riteneva imminente (ottobre 1992) e che invece sarebbe avvenuta nel marzo 1993. Espresse perplessità sul ruolo di Sanguineti e apprezzando l’inserto su Corrado Costa (n.  19/20) mi preannunciò un convegno (che non so se sia stato mai fatto)su di lui in primavera.
Ha scritto precisamente:
« Tu, com’è giusto, sarai , con altri pochi autori, nella prossimissima (il libro esce a ottobre) Terza Ondata d’Avanguardia italiana. Del libro ti parlerò in dettaglio appena ci vediamo (telefonami: ……………).
Ho letto tutti i numeri del Bollettario  che hai avuto la grazia di spedirmi. Non mi è chiaro il ruolo di Sanguineti, che si lascia mosaicamente intervistare ma non firma mai un testo o un articolo. Sembra un semplice mallevadore. Nei tempi che si aprono occorre altro.
Ottimo l’inserto su Costa, ma faremo su di lui un convegno di studio in primavera a Reggio.». Seguono Ringraziamenti e  saluti.

Sul ruolo di Sanguineti abbiamo avuto modo di chiarirci poi. Ciò che diceva era comunque più che giusto. Ma pur di portare avanti l’iniziativa in cui credevo (la rivista l’avevamo fondata insieme ma l’input era stato mio), come stimolo alla ripresa dell’azione, la sua presenza era indispensabile, e a me andava bene così.

Personalmente ci conoscemmo a Reggio Emilia, in occasione del “Convegno di dibattito e proposta 63/93 Trent’anni di ricerca Letteraria”, tenutosi a Reggio l’ 1.2.3 Aprile 1993.
Le giornate erano scandite in questo modo:
-la prima, dedicata alle relazioni introduttive di Barilli e Luperini + serata della poesia (con vecchi autori: i Novissimi, Spatola, Vicinelli e Costa + qualche nome nuovo: Frasca, Frixione,  Voce).
– la seconda legata alla poesia + serata di narrativa. Io Leggevo in questa di venerdì 2 aprile (2 poete – io e Alessandra Berardi- e 7 poeti:  Mariano Baino, Piero Cademartori, Giuseppe Caliceti, Michelangelo Coviello, Paolo Gentiluomo, Giuliano Mesa e Enzo Minarelli)

Di Marco era tra i relatori  del 3 aprile (con lui Angelo Guglielmi e Francesco Leonetti), giorno dedicato alle letture di prosa (tra le autrici anche la figlia Mariarosa) . E in conclusione una tavola rotonda.

In seguito tante le occasioni di incontro, per festival o le varie presentazioni di “Terza ondata” a Milano, Roma, Bologna, Modena (due volte, alla festa nazionale dell’Unità e a quella di Rifondazione), anticipate proprio dal Convegno di Reggio Emilia.
Dove l’antologia era stata accolta con diffidenza dalla maggior parte dei convegnisti, tanto che Renato Barilli anni dopo, nel 2000, si è sentito autorizzato ad appropriarsi di quella sigla per epurarla evidentemente da interpretazioni, secondo lui,  improprie, e oscurare l’esperienza precedente con la sua personale panoramica.
“E’ arrivata la terza ondata. Dalla neo-alla neo-neoavanguardia” (Test&Immagine 2000) è per me un’operazione evidente di revisionismo, una mistificazione dei fatti plateale.
In questa pubblicazione si identifica la Terza Ondata in poesia  con gli autori presenti al Convegno di Reggio Emilia e definiti, per mantenere la similitudine militare che la definizione evoca, come l’ «avanzata di una falange armata procedente tetragona e compatta portandosi dietro anche, come era giusto, qualcuno degli infelici rari nantes trovatisi ad operare nei difficili e ingrati anni Settanta , come per es. Michelangelo Coviello e Enzo Minarelli». Così Barilli alle pagg. 81-82.
Nella terza ondata barilliana scompaiono, di quei nove, soltanto  Giuliano Mesa e la sottoscritta, forse adombrati nella figura degli «infelici rari nantes» ma tali da non essere meritevoli nemmeno di citazione.
Ignorata dunque l’unica  poeta dell’antologia canonica (l’unica invitata a quel Convegno proprio da Sanguineti…) e il cui libro preso in considerazione Vita Novissima  sarebbe stato definito proprio da Roberto Di Marco (in una lettera del 2003) «Testo stupendo nonostante certo sanguinetismo dello stile» ). Ignorata anche la nascita di Bollettario, a cui secondo me andava invece ascritta la percezione nell’aria del «clima nuovamente teso ed energico»  (pag. 80) che aveva costituito l’antefatto della Terza Ondata e aveva forse convinto Nanni Balestrini e lo stesso Barilli a celebrare il trentennale della fondazione del Gruppo (che in futuro divenne poi una triste consuetudine) .

Se Edoardo Sanguineti si era avventurato per la prima volta a fondare nel 1990  una rivista letteraria, forse era tempo che si rimettesse in campo la ripresa  sì, ma controllata, della Ricerca, si saranno detti Balestrini e Barilli.. Da lì il primo RICERCARE.

Sì secondo me proprio la rivista Bollettario con la scesa in campo di Sanguineti  (era alla sua prima esperienza in tal senso[2]) aveva contribuito in modo rilevante al rinnovo dell’impegno. Aveva costituito un esempio. Ed era stato questo il motivo per cui io mi ero rivolta a lui nel 1989. «C’è ancora bisogno di avanguardia»  avevo esordito nella prima lettera che gli scrissi per invitarlo a fondare con me una nuova rivista.
Comunque l’operazione barilliana non ha avuto il successo auspicato, tant’è che proprio di recente è stata ristampata invece “Terza Ondata” (Abeditore, 2014), l’edizione canonica cui bisognerà dare finalmente tutta l’attenzione che merita.

______________

[1]

Rientro da me deprecato e in cui vedo la causa di ogni insuccesso dell’Avanguardia finora registrato. Invece di un saltuario Coitus persino interruptus, come mi è già capitato di definire soprattutto il Gruppo 63, la mia proposta è sempre stata di una regolare e costante pratica (di cui può essere metafora il volo delle anatre, splendidamente descritto da Eduardo Galeano in “Memoria del fuoco”:  «Per salvarci dobbiamo raggrupparci. Come le dita di una stessa mano. Come le anatre di uno stesso stormo. Tecnologia del volo collettivo. La prima anatra si lancia e apre la strada alla seconda che indica il percorso alla terza; la spinta della terza fa spiccare il volo alla quarta che trascina la quinta; lo slancio della quinta provoca il volo della sesta che fa coraggio alla settima….. Quando l’anatra esploratrice si stanca, raggiunge la coda dello sciame e lascia il posto ad un’altra che risale alla punta di questa V capovolta che le anatre disegnano in volo. Tutte a turno prenderanno la testa e la coda del gruppo. Nessuna anatra si considera animale super per il fatto che vola davanti, né animale minore se vola in coda .».
[2] Sanguineti aveva diretto “Cervo volante” con Achille Bonito Oliva, ma per soli due anni

La melancolia come simbolo della condizione umana

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Melanconiadi Pierangelo Schiera

Quarant’anni di ricerche di Pierangelo Schiera, storico delle dottrine politiche, raccolti nel volume Società e Stato per una identità borghese. Scritti scelti. Già solo una lettura dell’indice restituisce l’immagine di un’intelligenza fluttuante, libera di muoversi in diversi ambiti storiografici – storia, storia dell’arte, della scienza, delle idee… – e capace di tenere insieme, in particolare grazie al concetto-guida di “melancolia”, riflessioni sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, sul significato socio-culturale della musica di Bach, sulla concezione weberiana di disciplina, sulla costituzione dell’identità borghese, insieme a molte altre trame. Con il consenso dell’autore condividiamo su Nazione Indiana un estratto dal capitolo “La melancolia come fattore originario del romanticismo: appunti sul caso tedesco”. Il libro, pubblicato come Quaderno n. 4 di Scienza & Politica, è interamente scaricabile in open access a questo link: < http://scienzaepolitica.unibo.it/pages/view/supplement > – altro merito del volume e dell’autore. (Alberto Brodesco)

Interrogarsi sul rapporto fra melancolia e romanticismo significa innanzi tutto chiedersi che cosa s’intenda per melancolia prima di quest’ultimo. L’ampia letteratura esistente sull’argomento mostra quanto profondamente radicata fosse la struttura della melancolia nella storia della cultura occidentale. Essa non fu assolutamente, come si sa, un’invenzione del romanticismo: bisognerebbe semmai porsi la domanda opposta, se cioè, in qualche modo, non sia stato proprio il romanticismo una creazione della melancolia. A tanto probabilmente non arriveremo, ma non ci fermeremo molto distante da lì nella nostra ricostruzione. Una cosa certa è che, nell’impiego plurisecolare, se non ultra-millenario, che il termine ebbe in tutte le lingue occidentali colte, si succedettero molti significati, anche concorrenti o in contraddizione fra loro (basti pensare alla contrapposizione più vistosa: quella fra melancolia intesa come segno di genialità o come segno di isolamento e di follia).

Tali mutamenti del campo semantico coperto dal nostro termine corrisposero sempre, com’è comprensibile, a trasformazioni profonde del modo di concepire l’uomo e la sua posizione nel mondo. Cosicché si può certamente adottare il punto di vista presentato per primo da Aby Warburg che colse nella melancolia (come espressa in particolare da Dürer nella sua famosa incisione del 1514) il puro e semplice simbolo della condizione umana. Ciò che, d’altra parte, corrisponde perfettamente alla semantica stessa del concetto di simbolo, recante in sé la radice nostalgica, se non già melancolica, della condivisione di un ricordo e di una speranza comune, forse da ricomporre in un futuro lontano.

Orbene, secondo tale interpretazione, la melancolia non può che acquistare un significato diverso tutte le volte che si afferma una nuova antropologia, una nuova concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Ciò equivale a collegare la storia della melancolia alla storia della modernità, in quanto è proprio quest’ultima a segnare le svolte nell’interpretazione di volta in volta data, sul piano filosofico come su quello empirico, all’esistenza mondana dell’uomo.

È sulla base di considerazioni di questo genere che io stesso condivido l’opinione di chi vede l’inizio di una nuova storia della melancolia proprio nell’epoca in cui si afferma per la prima volta in Occidente (ed è in tal modo che, a mio avviso, nasce l’idea stessa di Occidente) la possibilità di interrogarsi liberamente sul senso dell’uomo. Ciò accade solo a cristianizzazione avvenuta, cioè dopo la svolta del Mille, allorché si può ritenere universalmente accettabile il nuovo codice basato sulla possibilità di esistenza di un mondo tendenzialmente popolato di uomini liberi, laici, responsabili e razionali, cioè moderni. Da allora in poi, la melancolia ha accompagnato (spesso dotandole di peso e di qualità particolari) le fasi successive di modernizzazione dell’umanità occidentale, scandendo fra l’altro anche il carattere più tipico di quest’ultima nella sua stessa storicità politica: che è stato – almeno fino a oggi o a poco fa – la straordinaria capacità di socializzazione e dunque di sempre più sofisticata istituzionalizzazione dell’obbligazione politica.

Non è questa la sede per diffondersi su queste cose, ma era necessario prenderla così da lontano per comprendere il possente abbrivio, la forza d’inerzia che l’idea di melancolia già possiede quando incrocia il nascere del movimento romantico di cui vogliamo occuparci qui.

Tanto più importante, allora, è tornare a sottolineare che col romanticismo la melancolia acquista un significato del tutto nuovo. Si tratta però di chiedersi, a questo punto, se è il romanticismo a dare alla melancolia quel significato o se è quest’ultima a fare del romanticismo ciò che esso è stato. Dall’XI a tutto il XVII secolo, la melancolia era stata sempre studiata e considerata all’interno della fondamentale dottrina dei temperamenti. I quattro elementi empedoclei stavano alla base della più antica fisica e filosofia greca, i temperamenti erano a loro volta la base della costituzione individuale, in cui si condensò per secoli l’intero regimen sanitatis. A parte ogni altra complicazione va ricordato che, benché il regime migliore e la costituzione ideale fossero sempre ritenuti quelli dominati dal temperamento sanguigno, fu tuttavia a quello melancolico che venne prestata l’attenzione maggiore. Al punto che il termine impiegato per designare l’umore (melancolia, appunto, nel senso etimologico di bile nera) giunse ben presto a indicare il temperamento corrispondente, cosa che non accadde per nessuno degli altri tre umori (sangue, bile gialla e flegma).

Vero o non vero che ciò sia dipeso dalla prima avvertenza, attraverso il dolore (il mal di pancia, la colite), dell’oggettività e dell’autonomia corporea da parte dell’uomo greco, è assai attendibile riconoscere nella melancolia il segno di un’individualità, ma anche forse di un’umanità, che nel contesto occidentale sarebbe appunto diventata simbolica, come ci ha suggerito il già citato Warburg. Melancolia, sofferenza, individualità, umanità, dunque. Una plurima valenza a cui la nostra idea non riuscirà mai a sottrarsi lungo tutta la sua storia, a dimostrazione dell’intrinseca bipolarità che segna l’intima strutturalità che essa ha rappresentato per la storia dell’uomo occidentale. Tale plurivalenza si traduce nel modo più indicativo sul piano stesso della politicità, che rappresenta forse il campo in cui gli uomini occidentali si sono maggiormente distaccati, nel corso di pochi secoli, dagli altri gruppi culturali umani.

Rispetto alla politica, il melancolico svolge un ruolo profondamente ambiguo. Egli è, tendenzialmente, rustico e solitario, cioè a-sociale. Egli è malcontento e intollerante di ogni “conversazione”. Egli è sedizioso ed eretico e può essere ricondotto alla ragione solo grazie all’unico strumento di cura che la sua dis-ragione (la melancolia appunto) conosce, che è la disciplina.

Ma, contemporaneamente, il distacco dal mondo sociale proprio del melancolico è la qualità più richiesta dalla politica stessa a chi si deve far carico del governo delle sorti individuali: del sovrano in primo luogo, che come garante del patto sociale è opportuno che stia sopra le parti, distaccato dagli interessi in gioco e volto soltanto alla coltivazione e al perseguimento del bene comune. Si spiega forse così la grande fortuna moderna dell’antica giustificazione aristotelica, poi anche rinascimental-neoplatonica, della melancolia in capo ai sovrani, oltre che ai filosofi, agli artisti e ai grandi anacoreti. Come si spiega anche l’opposta, maniacale insistenza sulle più diverse pratiche di disciplina per tutti gli altri soggetti-sudditi, obbligati ad apprendere, a indottrinarsi, a disciplinarsi, per rendersi capaci di una seria e reale vita sociale e dunque, per tale via, per incivilirsi.

*img : Melanconia, acquaforte di Luigi Conconi, 1852-1917

Hai sentito il terremoto. Memorie dal sottosuolo

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di Davide Orecchio

gibellina

– In Italia 25mila persone, attraverso un sito web, descrivono terremoti. Compilano questionari. Alcune di loro rendicontano la paura, le sensazioni che hanno provato, l’intensità delle oscillazioni sismiche, gli effetti sulle case che abitano. I racconti si sedimentano in un archivio digitale che va oltre la sismologia, si fa memoria e fonte dei sismi. –

*

Si potrebbe cominciare dalla notte. E da una ragazza. Sei anni fa. All’Aquila. Esce dalla Casa dello studente. È aprile. La primavera già lenisce il freddo e il buio dove s’incammina quando le appare “un fenomeno molto strano”, e lo ricorderà, e lo riporterà: verso Coppito affiora la luce intensa di un colore blu, ma una luce “che non viene dall’alto”, come un fulmine che sgorghi dalla terra, rovesciato. Eppure non piove. Non c’è temporale. La ragazza vede il lampo, però. Non l’ha sognato. Lo manda a memoria. S’allontana dalla Casa che poche ore dopo deve crollare, e deve uccidere studenti. Una luce blu.

Altrove, non distante nel tempo ma nello spazio: un appartamento, un uomo solo. Mentre il sisma piega l’abitazione ai gesti di un personaggio che prende vita e paura prima di morire forse, prima di abbattersi al suolo forse, e comanda le finestre a scuotersi, le ante a oscillare, gli scaffali a inclinarsi, l’uomo si concentra solo sull’assito e gli pare che il gres sia mutato in ghiaccio. L’uomo percepisce ghiaccio. L’uomo scivola due volte su un pavimento che “sembra ghiaccio” e lo ricorderà, e lo riporterà: “Non riuscivo a restare in piedi”.

“Ho provato confusione totale. La terra è bollente.
Piccoli insetti volano bassi e tutti insieme”

Un altro invece dorme. Poi le scosse lo svegliano assieme alla compagna. Cosa ricorda? Cosa riporta? “Ho provato confusione totale”. Ma resta calmo: “Per proteggere mia moglie”. Il letto sbatte “da avanti a dietro”, s’impenna “dalla schiena, non so di quanto, forse 30 centimetri”. Gli armadi grandi attorno non cadono. Solo quelli piccoli (“scarpiere, librerie”). Finiti i sussulti esce per strada. Fuma una sigaretta. Ha l’impressione che le nuvole si siano avvicinate alla terra. E la terra, quella, “è bollente”, il contrario del ghiaccio, e “piccoli insetti volano bassi e tutti insieme”. Mentre i gatti restano immobili con le code raccolte, negli angoli di un cortile terremotato.

*

Queste memorie hanno dei custodi. Tre geologi e un webmaster dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) – Patrizia Tosi, Paola Sbarra, Valerio De Rubeis e Diego Sorrentino – curano un sito (www.haisentitoilterremoto.it) che nel corso degli anni è diventato punto di riferimento e incontro tra la comunità scientifica e i cittadini. È qui che i quattro ricercatori hanno archiviato, e continuano ad archiviare, segnalazioni, testimonianze personali, informazioni. “Il sito – leggo nel disclaimer – è nato per monitorare in tempo reale gli effetti dei terremoti italiani e per informare la popolazione sull’attività sismica. La sua realizzazione è resa possibile grazie al contributo di ogni persona che, compilando il nostro questionario macrosismico, descrive la propria esperienza”.

Sì, c’è un questionario da compilare. Pone domande molto precise. Dove ti trovavi quand’è avvenuto il terremoto? In un edificio? A quale piano? Stavi all’aperto? In un mezzo di trasporto? Cosa facevi: dormivi, eri fermo, oppure eri in movimento? Le risposte alimentano un database immenso che, filtrato ed elaborato dai computer, ha consentito al gruppo di ricercatori di pubblicare studi e statistiche innovative sulla percezione dei sismi e di dimostrare, tra l’altro, che l’attività dell’osservatore incide più della sua posizione sull’intensità con cui avverte la scossa. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ad esempio, una persona ferma all’aperto percepisce il terremoto più chiaramente rispetto a una in movimento, ma chiusa nel piano alto di un edificio.

Ma non finisce qui. La homepage del sito espone una cronologia di cartine. Sono le “mappe dei risentimenti dei terremoti avvertiti dalla popolazione”, elaborate utilizzando i dati dei questionari. Fino a oggi haisentitoilterremoto.it ha raccolto più di 700 mila questionari, ha rappresentato oltre 9 mila terremoti e conta su una rete di 24 mila 500 “corrispondenti fissi”. Ogni volta che la sala di sorveglianza sismica dell’Istituto segnala un terremoto, mi spiega Patrizia Tosi, “il nostro sistema invia una mail ai corrispondenti geolocalizzati nell’epicentro e oltre la stretta zona epicentrale, fino a lambire la zona del ‘non avvertito’”. Tutta l’area, infatti, è d’interesse scientifico. Inoltre, prosegue Tosi, “dal punto di vista sociale è importante far comprendere che un terremoto (o meglio i suoi effetti) non è confinato nella stretta area epicentrale, non è quindi solo causa di tragedie, ma si esprime senza soluzione di continuità dalle intensità più alte fino alle più impercettibili vibrazioni”. Le risposte inviate dai corrispondenti aggiornano automaticamente le mappe on line: “Non solo ci forniscono dati scientificamente utili, ma anche informazioni preziose per comprendere la situazione e organizzare i primi soccorsi”. E se non arrivano risposte? “È un segnale grave”, risponde Patrizia. All’Aquila nel 2009, nelle prime ore, andò così. C’era un buco di silenzio. L’epicentro taceva. Anche quella, anzi soprattutto quella, fu un’informazione.

L’Ingv si trova a Roma, sulla via Laurentina, vicino all’Eur. Quando arrivo, vedo sul confine dell’area parcheggi, oltre una rete, un gregge di pecore pascolare tra un prato e un boschetto di canne. “Qui accanto c’è un istituto agrario”, mi spiega Valerio De Rubeis sorridendo. Poi mi accompagna dentro; in questa storia. Valerio e Patrizia non sono solo compagni di ricerca. Lo sono anche di vita. “Già eravamo fidanzati ai tempi dell’università, a Geologia”, mi spiega lui mentre completiamo la visita di rito all’Ingv. “Abbiamo studiato assieme. Ci siamo corretti e migliorati a vicenda”. Adesso condividono una famiglia, dei figli adolescenti, un progetto scientifico, una stanza piena di computer.

La rete mondiale dei sismometri nasce con la guerra fredda

Entriamo nella sala di sorveglianza sismica. Qui è dove controllano 24 ore su 24 le scosse in Italia. Un orologio atomico scandisce il tempo. Dodici schermi su una parete intera di metri quadrati rilevano i segnali dalle stazioni sismiche e dai sensori. Ogni simbolo sugli schermi rappresenta una stazione sismica. La magnitudo varia sulla mappa in sfere di colori diversi. Il rosso è il più grave. C’è anche un telefono rosso, e uno bianco: servono per comunicare col ministero dell’Interno e la Protezione civile. Da questa mattina sono avvenuti già tredici terremoti, in poche ore, non percepiti da nessuno probabilmente. Valerio mi indica il quattordicesimo. Succede proprio adesso: uno schermo brilla all’altezza di Modena, la magnitudo è inferiore a 2. La rete mondiale dei sismometri – spiega Valerio – nasce con la guerra fredda. Presero a fare i test nucleari sotto terra, e a camuffarli nelle zone sismiche, dentro le onde sismiche. Così, per avere intelligenza gli uni degli altri, e dell’altrui potenza nucleare, svilupparono la scienza dei sismometri, e la tecnologia che ci resta.

Usciamo. Sulle scale Valerio si ferma e asserisce: “La verità è che i terremoti si collocano al centro esatto tra imprevedibilità e determinismo”. Mi sembra un luogo irraggiungibile, questo “centro esatto”, e caotico, e letale. Mi vengono in mente le immagini dell’Irpinia, di San Giuliano di Puglia, dell’Abruzzo. Ora entriamo nella stanza dov’è il resto del gruppo. Inizio a farmi spiegare. Loro, a differenza dei colleghi nella sala di sorveglianza, studiano gli esseri umani, il rapporto tra individuo e sisma, l’intensità, la percezione, non la magnitudo (o ampiezza) delle scosse telluriche. Alcuni considerano il loro campo obsoleto, “pre-strumentale”, ma tant’è, vanno avanti. Patrizia è – credo – la vera anima del progetto. Fu sua l’idea di creare il sito, nel lontano 1997 (con Fortran, nei labirinti dell’html). Nel 2007 l’hanno ristrutturato. Nel 2009, dopo l’Aquila, haisentitoilterremoto.it è diventato più importante e seguìto, una fonte di crowdsourcing dati e uno strumento di informazione pluridirezionale. Ancora Patrizia mi spiega che i sensori, le macchine certo sono più precise ma non basteranno mai a controllare tutta l’Italia; ce ne vorrebbero troppe. “Invece tante persone interagiscono con noi e danno sempre informazioni esatte. Anche la descrizione della paura è esatta. Non è mai sproporzionata rispetto all’intensità del sisma. Si comportano come strumenti. Sono accelerometri umani”. Il sito, in cambio, ‘libera’ i corrispondenti dall’esperienza del terremoto come un evento puramente distruttivo, un cataclisma dal quale non si torna indietro; sollecitando descrizioni, interazione, racconto, li aiuta a convivere col “fenomeno naturale”, a comprenderlo, e rinsalda anche un legame di fiducia tra gli ‘esperti’ e le persone.

“Stiamo raccogliendo le testimonianze.
Molte sono davvero suggestive”

“Da qualche tempo – aggiunge Valerio – abbiamo affiancato ai questionari un’area di compilazione libera. Qui gli utenti possono caricare i loro testi, descrizioni, storie, senza limitarsi a rispondere alle domande. Stiamo raccogliendo moltissime testimonianze. Molte sono davvero suggestive”. I ricercatori non hanno ancora deciso che uso fare di questi materiali, ma sono convinti che l’esperienza del sito, nata da motivazioni scientifiche, si stia allargando sempre più a un piano sociale ed etico.

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Si potrebbe parlare di una madre. E di sua figlia che, preoccupata, la racconta. Abita in una grande città, la signora, al terzo piano di un condominio, e non s’è accorta del terremoto. Eppure, durante la notte, “ha avuto tachicardia inspiegabile, con vampate di sudorazione atipiche per lei”. La figlia chiede: cosa significa? Devo preoccupami? Poi preme il tasto di invio.

Un uomo usa un linguaggio tecnico che si nutre di “onde non sinusoidali” non della stessa intensità ma che cambiano “con accelerazioni e decelerazioni”. Descrive poi “una sensazione di nausea e un effetto acustico onnidirezionale. Evidentemente [il terremoto] era sotto la soglia dei 200Hz, con spostamenti da destra verso sinistra”.

“Vedo la casa come una trappola.
Andare a dormire è angosciante,
temo per me e per i miei figli, ho paura dei crolli”

Una donna scrive dal sud. Confessa: “Vedo la casa come una trappola”. Abita in un palazzo degli anni sessanta, in cemento armato, ma ha paura lo stesso. Vive a un piano alto. Non rincasa più volentieri. “Andare a dormire è angosciante, temo per me e per i miei figli, ho paura dei crolli. Chissà quanta gente vi scrive con queste angosce”. Scrivere dal sud. Scrivere da una zona qualsiasi d’Italia dove non si fa più manutenzione. Neppure quel minimo che serve a non avere paura. Cosa teme davvero la donna: il terremoto o chi ha costruito la casa? Ipotizza di prendere calmanti. “La tv”, aggiunge, “non aiuta”, “trasmette in continuazione e su tutti i canali scene terribili”. Manda servizi che dicono: alla prossima scossa il centro storico della città crollerà in venti minuti. Una donna scrive dal sud: “Perché non controllano tutte le case quando il terremoto non c’è?”. Perché non ci salvano prima?

“Una grande lenta spinta come quando a un lungo treno fermo si aggancia un nuovo vagone e noi siamo all'altra estremità; ma molto meno brusca”

Si potrebbe parlare di un uomo che ha deciso di descrivere tutto. Quasi un diario di bordo. Un prodigio della memoria. Gli è sembrato “di udire qualcosa di abbastanza simile a un leggero fruscio, molto lieve, come una folata di vento; subito dopo c’è stata non una oscillazione, ma uno spostamento, come se l’edificio intero avesse ricevuto una sorta di ‘spinta’ secondo una direzione approssimativamente est-ovest”. Trattenere e rilasciare osservazioni. Prima di premere il tasto invio. “Una grande lenta spinta come quando a un lungo treno fermo si aggancia un nuovo vagone e noi siamo all’altra estremità; ma molto meno brusca”. Testimoniare. “Poi è iniziata una sorta di oscillazione moderata. Il cambio di direzione era relativamente brusco, con una ‘frenata’ netta. Quindi non un’oscillazione pendolare, in cui verso l’estremità la velocità rallenta”. Venti secondi. Poi tutto finisce. Ma il diario prosegue: “Non particolarmente impressionante sul piano emotivo perché si è trattato di uno scuotimento regolare, che non peggiorava di ampiezza e ritmo (dunque non dava la sensazione di poter evolvere in modo grave)”. Nel 1980 (Irpinia) lui viveva già qui, in questa casa. Ricorda tutto. “Rammento benissimo”. E oggi “l’oscillazione residua dei lampadari è stata assai meno ampia, ma il ‘cambio di direzione’ in ogni oscillazione nettamente più ‘secco’ e ‘bruscamente frenato’”. Clic.

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Nell’ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki, Si alza il vento, c’è una scena indimenticabile e terribile. Raffigura il terremoto del Kantō (1923): una forza si solleva dalla terra, travolge un treno, campagne, villaggi, sembra che mugugni mostruosamente, volge verso Tokyo con le sue onde cantilenate e la devasta. Chiedo ai ricercatori dell’Ingv se sia una scena realistica e Paola, la più giovane dei tre, annuisce: “Quando passano le onde sismiche, la terra è come un grande altoparlante”.

Beppe Sebaste, uno scrittore che s’è innamorato di questo progetto, ha scritto: “Difficile non ammettere che il terremoto sia percepito dal senso comune come un disastro, un deragliamento dai binari”, come un evento “ostile, alieno”, “una sorta di capriccio venuto da una Natura ‘matrigna’. Oppure ancora come se si trattasse di un imperdonabile atto terroristico da parte di ignoti incarnati dalla Natura stessa”. “Uno dei primi importanti effetti del questionario – prosegue Sebaste – è abolire questa distanza, far acquisire una familiarità con la natura dei terremoti, creare delle relazioni naturali tra i moti della terra e i moti dell’anima umana (andare, in un certo senso, all’origine stessa di questa parola, di questa metafora, di questo paradigma)”.

Mentre li ascolto, mi convinco che questi geologi, coi loro metodi tra la teoria e l’empiria, con l’uso del web e delle parole, stanno reinventando la sismologia, la portano nella sociologia, nell’antropologia e, giorno dopo giorno, archiviano la storia stessa dei sismi percepiti dagli italiani.

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“Avete notizia di altri casi simili al mio?”

Da una casa. Da un computer. Un uomo avvisa che il suo corpo potrebbe essere un mezzo, uno strumento che percepisce e prevede. Il terremoto. Mette le mani avanti, però. Si vergogna: “Ho una certa età. Non vorrei diventare un fenomeno da baraccone. Sicuramente ci sono altre spiegazioni a queste mie sensazioni premonitorie”. Eppure le dice, le scrive. C’è un dolore “tra coscia e inizio ginocchio” che a volte gli scuote le gambe e si trasforma in “scossette”. Ha notato che, durante la sua permanenza nella città di X, “a seguito di queste sensazioni avvenivano delle scosse telluriche, a distanza di poche ore”. Una notte, di nuovo, il dolore alla gamba gli diventa uno spasmo muscolare: “I soliti ‘sintomi’ che provo prima del sisma. Di lì a cinque, sei ore, ecco che si è verificata la scossa”. “Avete notizia di altri casi simili al mio?”. Clic.

 “Dormivo e mi sono svegliata pensando
di essere in una culla, così oscillava il letto.
Sembrava di essere in mare”

Vive in una grande città, in un vecchio palazzo, al quarto piano. Anche lui ha un problema, e lo riporta: “Riesco a percepire lievi movimenti del pavimento che, in seguito a controlli, ho scoperto essere riflessi degli spostamenti tellurici”. Vuol’essere preciso: “Per intenderci, se viene registrato un terremoto di 2,5 gradi Richter, io, non so perché, riesco ad avvertirlo. Sono quasi dieci giorni che avverto oscillare il pavimento”. Spera di non essere diventato pazzo, eppure avverte le scosse anche quando cammina per strada “e le altre persone non percepiscono nulla”. Sente “come delle onde, delle oscillazioni”. È così: spesso sentono onde lievi, oscillazioni. Specialmente se si trovano lontani dall’epicentro, se l’intensità è bassa, se l’ampiezza è minima. Una donna racconta: “Dormivo e mi sono svegliata pensando di essere in una culla, così oscillava il letto. Sembrava di essere in mare”.

Spesso. Non sempre.

Un uomo ricorda tutta un’altra esperienza. E la riporta:

Per rendere l’idea della sensazione che ho provato, immaginate un elastico teso. Un elastico che, improvvisamente, si spezza”.

Clic.

(Pubblicato su Pagina 99, Anno III, n. 3, 16-22 gennaio 2016).

(Immagine: Gibellina vecchia, il Cretto di Alberto Burri).

Tutti i ragni 6 – Ragni che attaccano

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di Vanni Santoni

6migale1Due anni più tardi, da una diversa città nordeuropea, mi aggrego a una carovana di tekno traveler, incurante del fatto che potrei non trovare da tornare indietro in tempo per il mio volo. Ora, costoro possiedono effettivamente un soundsystem ma ben presto scopro che sono soprattutto dediti all’acquisto in stock di sostanze e alla rivendita delle medesime in occasione di teknival e feste varie. Salendo sul loro camion mi ritrovo a correre per le strade spoglie dell’est Europa, a schivare pattuglie sgarrupate e sonnolenti posti di blocco, a dormire in appartamenti occupati alla periferia di Tallinn, mi ritrovo un giorno nella casa del guardiano di uno zoo ceco.

La ketamina è un anestetico per uso pediatrico e veterinario: se negli ospedali è posta sotto stretto controllo, per gli zoo ottenerla è più semplice, così come è semplice sovrastimare gli ordini e rivendere il surplus. Ed ecco i miei accompagnatori che vanno da questo guardiano ad acquistare qualche centinaio di flaconi di Ketaset. In casa ha dei terrari. Spiega che una volta lo zoo aveva una sezione con ragni, serpenti, iguana. Poi gli iguana sono morti e la sezione ha chiuso e allora lui si è preso in casa questi quattro ragni, per fargli compagnia, dice, e mentre mi spiega sento un urlo e Tchou-tchou, un francese della carovana, si tiene la mano e grida e sul palmo e sull’interno dell’indice e del medio ha degli aculei, sottilissimi, come se avesse agguantato un cactus, e il guardiano gli dice coglione o qualcosa del genere in ceco e lo spinge via e chiude il coperchio del terrario della tarantola red knee e Tchou-tchou, grande grosso e cattivo, Tchou-tchou che a Linz due giorni prima aveva rotto i denti a uno con una testata, piange come un marmocchio e guarda quei piccoli aculei e non crede ai suoi occhi e Sylvie e Rex e Thea e io ridiamo come matti e lui si incazza e dice vorrei vedere voi figli di puttana e intanto il guardiano rientra con una pinzetta e un batuffolo di cotone facendo nx nx nx.

Il mio amico Staderini, più solerte di me e dunque laureatosi ingegnere oltre che chierico, forte di un 110 e lode si trasferisce a fare un dottorato in Texas.

Al Czechtek dell’anno prima la polizia ci ha sgomberati con la forza; in tutta Europa quel movimento a cui tardivamente mi ero aggregato subisce repressioni. Alcuni amici, gente che non vive sui camion, gente a cui interessano in fin dei conti solo le feste, iniziano ad andare per festival goa, hanno del resto uno stpendio e preferiscono pagare un biglietto e farsi una settimana di rave tranquilli piuttosto che vivere il sogno dei free party e rischiare sgomberi e mazzate. La cosa mi deprime un poco e per quell’estate decido di andare a trovare lo Staderini.

Texas, la casa del ragno eremita. Quante volte avevo sfogliato il mio libro a quella pagina; quante avevo osato scrivere quelle due parole su Google images e visto uscir fuori gallerie di ferite piagate, di dita maciullate, di primi piani di questo ragno affilato, scattante, immancabilmente definito “vicious”.

Sapevo che il vicious brown recluse mi aspettava lì. Del resto nella suburbia di Houston non ci sarebbe stato molto da fare e il mio amico non era il tipo che sapeva andar dietro alla scia di locali ed eventi. Faccio dunque la valigia immaginando di andare incontro a quel ragno, già scherzando con l’idea di riportarne indietro una coppia per errore, nascosta nel bagaglio, e dare luogo a un’invasione di ragni eremita in Toscana.

Quando ne parlo al mio amico, lui mastica il suo controfiletto e dice che non ne ha mai visto uno.

L’incontro avviene al terzo giorno, mentre leggo steso sul letto, un futon ad altezza suolo. Volto il capo a sinistra e lo riconosco. Sta lì, a poco più di un metro di distanza. Inevitabile. Brandisco il libro, ma appena l’ombra del mio braccio incoccia il ragno, quello scatta via. Si nasconde in un mucchio di vestiti. Vado al mucchio, lo percuoto con una sedia, non vedo movimenti, lo percuoto ancora un po’. Inizio a lanciar via gli indumenti uno per uno, e al terzo che tiro via lo sento che mi punge. Grido e scaglio in terra quella felpa, la pesticcio e pesticcio mentre la punta del mignolo mi diventa livida. Il dolore è intenso, ma non terribile. Tuttavia sento un capogiro, mi sale una specie di febbre. Ricordo di aver visto un ospedale lì vicino, nei giorni precedenti. Prendo la macchina del mio amico e ci vado. Mi anestetizzano e mi asportano la parte avvelenata, necrotizzata. Mi mettono cinque punti sul polpastrello del mignolo, che rimarrà come smussato, rispetto alla pienezza dell’altro. Che è successo, te l’ha mangiato un ragno? Sì.

[VI – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

Quarto capitolo

Quinto capitolo

 

aforismi e dintorni/2

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Modesti tentativi per tramandare un ricordo di Nuvola scrittore

di Damiano Sinfonico

(inediti)

Attese una lettera tutta la vita; quando arrivò, diceva soltanto: “Qui piove”.

Ossequiava i suoi interlocutori con un silenzio fragoroso.

In giro chiedeva se qualcuno fosse stato in Nepal, per caso o per errore.

La sua ombra era più corta delle altre.

I racconti inediti di Bove

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di Emmanuel Bove

Bove_-_Una_visita_serale_443Come mai ero così triste? I miei libri, tutti i miei libri, riposavano nella biblioteca. Nessuno aveva parlato male di me. Nessuna preoccupazione affliggeva la mia famiglia e i miei amici. Sentivo di avere tutto sotto controllo. Non avevo motivo di temere che gli eventi prendessero una direzione per me impossibile da modificare. Non ero scontento di me. E, anche se lo fossi stato, ciò non sarebbe bastato a giustificare il sentimento che provavo.
Erano le undici di sera. Una lampada senza paralume rischiarava il mio tavolo di lavoro. Non ero uscito per tutto il giorno. Quando il mio viso non ha modo di prendere colore all’aria aperta, non mi sento a mio agio. Le mie guance sono più lisce. Trovo sgradevole la setosità della peluria che le copre. E mi disturba dovermi coricare con tanta vitalità inespressa.
Me ne stavo appisolato in poltrona. La cucitura della stoffa rossa era fissata al legno da chiodini con la testa dorata. Nel punto in cui un chiodino mancava, la sutura era più lasca. Me ne stavo immobile. Tuttavia, la mia mano tirava la cucitura, senza che me ne accorgessi, cercando di far cedere il chiodino successivo.
Fu solo quando raggiunsi tale scopo che mi resi conto di quel che facevo. Questa scoperta mi diede una gioia leggera. È così ogni volta che mi sorprendo ad agire senza averne coscienza o che scopro in me un sentimento che ignoravo. Ciò mi rallegra quanto un raggio di sole o una buona parola. Chi mi rimprovera questa piccola gioia non mi potrà mai comprendere. Mi sembra che cercare di conoscersi sia la più pura delle cose. Rimproverarmi di riflettere troppo su me stesso sarebbe come rimproverarmi di essere felice.
Bisogna però dire che questa gioia è assai fragile. Non è uniforme come quella che ci regala un raggio di sole. Sparisce rapidamente e devo cercare in me qualcosa che la rinnovi. In questi momenti, sento che tutto mi è ostile e chi ho intorno, abituato a gioie più semplici, mi appare più felice di me.

***

Stavo leggendo, quando bussarono alla porta. Era il mio amico Paul. Entrò come un colpo di vento e la porta che aveva spinto dietro di sé per chiuderla rimase semiaperta.
˗ Che cos’hai, Paul?
˗ Niente.
Il suo viso era pallido. I suoi occhi, più scuri del solito. Crollò sul divano, che sapeva essere morbido.
˗ Ma che cos’hai?
Si alzò, camminò per la stanza mentre posavo il mio libro, si accese una sigaretta, poi si rimise a sedere. Fumava come fanno i nervosi, tenendo la sigaretta mollemente. Di tanto in tanto, sputacchiava pagliuzze di tabacco.
˗ Ti supplico, Paul, dimmi cosa ti è successo.
Lo guardai. Mi sforzavo di trovare nel suo comportamento un gesto, un’espressione che mi rassicurasse. Ma niente. Se avesse avuto in mano un qualche oggetto, le sue dita avrebbero tremato. Doveva esserne consapevole perché evitava di toccare alcunché.
˗ Paul, sono tuo amico. Raccontami tutto. Sai bene che se posso fare qualcosa per te, non esiterò. Mi fa male vederti così, senza poterti aiutare.
Era in preda a un tale nervosismo da non sentire neppure le mie parole. Le vedevo passare sopra la sua testa senza mai raggiungere le sue orecchie. Sembravano pallottole indirizzate male. E proprio nel momento in cui, spossato dalla sua distrazione, io stesso non prestavo più attenzione a quanto dicevo, egli parve ascoltarmi.
Mi si avvicinò con titubanza. Come se temesse che anche il minimo rumore mi avrebbe fatto chiudere la bocca, che guardava strizzando le palpebre mancanti di alcune ciglia. La luce della lampada scivolava sulla rotondità dei suoi occhi, occultandone il colore. Scoppiò a ridere. Sì, scoppiò a ridere. Le sue dita tremavano una dopo l’altra. Alcuni denti, a me sconosciuti, apparvero dal fondo della sua bocca, denti simili agli altri ai quali però non ero abituato. Mi rivelavano qualche mistero fisico. Capii di non avere più di fronte un amico, ma un uomo come me.
˗ Perché ridi?
˗ Eh! Non lo so… È vero… non dovrei…
E continuava a ridere. Il naso sembrava più lungo in mezzo alle contrazioni del suo viso. La bocca, che aveva perduto il ritmo della respirazione, cercava di ricomporsi. Poiché in questo subbuglio, malgrado tutto, doveva respirare, il fiato gli vibrava sul palato prima di uscire.

…..

 

NdR: questo è l’inizio del primo testo della raccolta di racconti inediti in italiano pubblicata recentemente da Fusta Editore (CN), nella collana Bassa Stagione (a cura di Marino Magliani e Stefano Costa), nella traduzione di Claudio Panella.
Emmanuel Bove (1898-1945) è stato un autore molto prolifico, firmando una trentina tra romanzi e raccolte di racconti in appena due decenni di attività. La carriera di Bove ebbe inizio proprio grazie a un racconto, che convinse la celebre scrittrice Colette a favorire la pubblicazione del suo libro d’esordio, Mes amis (1924), tradotto in Italia nel 1991 con il titolo I miei amici da Beppe Sebaste per Feltrinelli, che lo ha ristampato nel 2015. Bove è un autore di culto ancora troppo poco conosciuto in Italia, soprattutto per quanto riguarda le sue prose brevi in cui esercitò al meglio un talento straordinario e di cui Una visita serale e altri racconti costituisce la prima raccolta italiana.
I protagonisti dei suoi racconti sono personaggi maschili, per lo più scrittori, che si guardano da fuori, che si guardano vivere; si tratta di uomini che desiderano controllare la propria vita ma sono perseguitati dai fantasmi del proprio insuccesso, della propria inettitudine.

 

su questo libro si veda anche: il primo amore e margutte

 

sarà presentato a Torino alla libreria Luna’sTorta (via Belfiore 50), mercoledì 4 maggio ore 20.30