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Mind the gap. Da Chaucer a Les Blank

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di Jamila Mascat

zahn

 

 

 

 

 

 

 

C’è uno spazio di piccole dimensioni che, nonostante tutti gli odiosi dispositivi cyborg usati per sopprimerlo, continua a resistere a oltranza: quello tra i miei due incisivi superiori.

Il nome di battesimo è diastema (dal greco, ovviamente, διάστημα) e indica negli esseri umani un vuoto d’essere che si insinua generalmente tra i due denti anteriori della mascella superiore. Erbivori come i cavalli (famosi per le gigantesche distese che separano i canini dai premolari) e roditori (privi di canini tra incisivi e molari) lo esibiscono con disinvoltura. Così anche i bambini piccoli, la cui dentizione primaria spesso presenta un corridoio d’aria in bocca, che intenerisce e in ogni caso non turba né disturba. Ma se, come talvolta accade, l’imperfezione si ripresenta quando arrivano i denti definitivi, c’è bisogno di correre ai ripari con apparecchi ortodontici di varia forma e fattura che nel giro di qualche anno dovrebbero risolvere la questione e riserrare i ranghi. Se il problema persiste, e per qualche ragione lo si vuole eliminare a tutti i costi, la chirurgia interviene per rimuovere il frenulo labiale sovradimensionato o applicando faccette di ceramica per tappare i buchi. Sembra che alla fine sia tutta colpa delle gengive, e che il fattore ereditario abbia un ruolo determinante nel 49/% dei casi.

Assurto tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, grazie a Brigitte Bardot, Lauren Hutton, Madonna e Vanessa Paradis, a difetto più quotato nel firmamento delle dive, e poi ostentato con spudoratezza dalle mannequins del terzo millennio, stile Lara Jagger, che ne hanno fatto un’arma di ribellione contro le ingiunzioni al perfezionismo della moda démodée – il diastema, in tempi non sospetti e lontani dal glamour, aveva stregato Chaucer già nel Trecento.

Il contributo dei Canterbury Tales (1387-1400) alla canonizzazione estetica del diastema – un’ironica e irriverente canonizzazione al femminile nel segno della voluttà – è cosa nota ai cultori della materia.

Nel prologo generale dei Racconti, dove Chaucer introduce i 29 personaggi in pellegrinaggio da Southwark a Canterbury, tra il profilo di un Dottor fisico che “amava l’oro sopra ogni cosa” e “metteva tutto da parte quel che guadagnava in tempo di pestilenza” e il ritratto di un “povero parroco di campagna” che “tuttavia era ricco di pensieri e d’opere sante”, fa capolino un cammeo della brava comare di Bath*.

“Ricca di meriti” (She was a worthy womman al hir lyve /  She was a worthy woman all her life), infaticabile viaggiatrice e amante del riso e della chiacchiera, iniziata fin da giovanissima alla buona compagnia e al divertimento ed esperta in fatto di rimedi d’amore, arte di cui vantava profonda conoscenza, la wife of Bath esibisce un aspetto e una postura che tradiscono le sue inclinazioni: donna dal viso impertinente e dal colorito acceso, seduta a cavallo e finemente vestita, con scarpe morbide, calze rosso scarlatto e un immenso cappello posato sul capo.

Peccato, era un po’ sorda” (But she was somdel deef, and that was scathe /  But she was somewhat deaf, and that was a pity), nota Chaucer, e “avesse i denti spaziati, a dire il vero” (Gat-tothed was she, soothly for to seye / She had teeth widely set apart, truly to say). La versione di E. Barisone (Utet, Torino, 1981) traduce: “i suoi denti infatti erano radi”, sottolineando la scarsità più che la spaziatura a cui l’aggettivo gap-toothed invece rimanda, caratteristica a quanto pare diffusa tra i pellegrini, che, così vuole la leggenda, il gap proteggeva e destinava alle cure di una buona stella. Ragion per cui l’autore dei Racconti collega il diastema all’abitudine di girovagare (She koude muchel of wandrynge by the weye / She knew much about wandering by the way).

Nel prologo che precede il suo tale (il sesto), la Comare di Bath si racconta in prima personaVedova di cinque mariti – “E benvenuto il sesto, quando capiterà!” (Welcome the sixte, whan that evere he shal) – nata sotto il segno di Venere e Marte – “Venere mi ha dato passione e cuore, e Marte il mio trepido ardimento” (Venus me yaf my lust, my likerousnesse/ And Mars yaf me my sturdy hardynesse) – rivendica con fierezza la propria devozione all’amore (Allas, allas! That evere love was synne!/I folwed ay myn inclinacioun/ By vertu of my constellacioun) e un disinvolto e generoso appetito sessuale: “Dio mi perdoni, ma non ho mai saputo amare con discrezione. Ho sempre seguito il mio appetito, corti o lunghi, neri o bianchi che fossero; purché mi amassero, non stavo a guardare se erano poveri o di che rango” (I ne loved nevere by no discrecioun, But evere folwede myn appetit, Al were he short, or long, or blak, or whit;I took no kep, so that he liked me, How poore he was, ne eek of what degree).

Dai presunti eccessi di Venere associati al diastema discende la mitologia della pessima (o ottima) reputazione delle sue portatrici sane. E anche se non si conosce ad oggi nessuna evidenza scientificamente comprovata del rapporto tra l’esuberante attività libidica e la distanza che separa gli incisivi superiori, l’erotizzazione (maschile) del diastema (femminile) e di altre imperfezioni dentarie rimane un’idée reçue, tutta eterocentrata, dura a morire e sorprendentemente senza confini.

Nel 2015 l’Australian Dental Association (ADA) lanciava l’allarme della nuova moda dei denti-Dracula, cioè dei canini artificialmente allungati e appuntiti, divampata in Giappone nel corso degli ultimi anni e che minaccia di contagiare tutta la regione australo-asiatica. Paragonato a piercing e tatuaggi, questo intervento di dentistica cosmetica appartiene al novero di quelle pratiche di modificazione anatomica a cui in tanti si sottopongono con fierezza ed entusiasmo per ragioni che altrettanti considerano un arcano sciocco e ingiustificabile. Il trend dei denti-Dracula (in giapponese yaeba, espressione che designa precisamente denti di forma irregolare e tagliente) sarebbe diventato un vezzo diffusissimo tra le giovanissime, desiderose di apparire ancora più giovani proprio grazie a questa curiosa imperfezione concepita per restituire al sorriso un delizioso sapore infantile.

In Nigeria (e in altri paesi dell’Africa occidentale), dove il diastema è diventato un simbolo di autenticità, bellezza e fertilità e va per la maggiore, il ricorso diffuso alle ricostruzioni artificiali dei denti spaziati è stato indagato parallelamente da studi etnografici e odontoiatrici che testimoniano dell’importanza di questo fenomeno.

Sorprendentemente, invece, in Francia “les dents du bonheur” rivelano una genealogia tutta maschile. Infatti, una delle spiegazioni (non documentate ma diffuse) di questa felice designazione (l’altra allude alla dentizione decidua dei bambini, spaziata perché alterata dalla suzione del pollice, che in età adulta ricorderebbe i piaceri dell’infanzia) risale al tempo delle guerre napoleoniche, quando i soldati in guerra dovevano usare i denti per ricaricare i fucili, per aprire cioè le cartouches papier, le confezioni di carta che imballavano la polvere da sparo e i proiettili. Gli uomini che non vantavano una dentatura impeccabile venivano esentati dalla leva e potevano per questo ritenersi fortunati (da cui anche l’espressione “dents de chance”).

 

gap

Questa immagine è la foto di una mela morsa da un morso inconfondibilmente diastemico – niente a che vedere con i morsi levigati e seriali delle mele incise sul dorso di computer e cellulari. 

Il diastema è, tra le altre cose, un sigillo inscritto nel cibo, la traccia inequivocabile di un atto compiuto,  la prova schiacciante di un divieto alimentare trasgredito:

 

Les Blank (1935-2013) è un regista dalle curiose ossessioni orali – mi riferisco al cavo orale, al palato e al gusto.

Nel 1980 aveva girato una docu-inchiesta sull’aglio intitolata “Garlic is as good as ten mothers” (ispirata al detto fatidico Garlic is as good as ten mothers…. for keeping the girls away).

L’anno prima, nel 1979, aveva filmato la cerimonia di lancio all’UC Theatre di Berkeley di Gates of Heaven, opera prima di Errol Morris, durante la quale Werner Herzog onorava la promessa di mangiare una scarpa cucinata tra i fornelli di Chez Panisse con l’aiuto della cheffe Alice Waters. Addentando pezzi di tomaia, discorrendo nel frattempo di cinema, volontà, sapori e sentimenti, il regista di Fitzcarraldo teneva così fede alla scommessa fatta al suo allievo qualche anno prima: se Morris avesse completato la pellicola, Herzog avrebbe divorato una scarpa cotta. “Le scarpe, precisa, sono quelle che indossavo quando ho scommesso con Errol, perché ho pensato che avrei dovuto prendere le stesse. Avrei potuto mettermi delle scarpe più leggere, ma non avrebbe avuto senso. Non mi piacciono i codardi”. Così Werner Herzog eats his shoe (e rende omaggio a Chaplin in The Gold Rush):

Nel 1987 realizza Gap-toothed women, un documentario di 37 minuti costruito sul montaggio di récits di donne diversissime – tra cui l’attrice Lauren Hutton e l’allora giudice della Corte Suprema Sandra Day O’Connor, insieme ad altre meno note – che la natura ha unito nel segno del diastema. Ciascuna racconta la propria esperienza di una vita vissuta con lo spazio tra i denti con vergogna, fierezza, rassegnazione o, perfino, misticismo. La telecamera inquadra una dopo l’altra queste dentature vistosamente imperfette – come nell’estratto video postato poco sopra – per rendere omaggio al gap. E alle fantasie amorose del regista da adolescente: [il video che segue sembra uguale al primo, ma non lo è. Si tratta di un’intervista a Les Blank che racconta la sua infatuazione per una gap-toothed girl alle medie]:

 

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*E c’era una brava Comare dei dintorni di Bath, ma, peccato, era un po’ sorda. A tessere il panno era così pratica, da battere quelli di Ypres e di Gand. In tutta la parrocchia non c’era donna che avesse il coraggio di passarle avanti a far l’offerta: se mai qualcuna s’arrischiava, a lei veniva una tal bile, che usciva fuori d’ogni grazia. I suoi fazzoletti erano di tessuto finissimo: giurerei che pesavano dieci libbre quelli che si metteva in capo la domenica. Le sue calze erano d’un bel rosso scarlatto, ben attillate; le scarpe morbidissime e nuove. Aveva un volto impertinente, bello, di colorito acceso. Era una donna ricca di meriti, che in vita sua aveva condotto ben cinque mariti sulla porta di chiesa, senza contare altre amicizie di gioventù… ma non è il caso di parlarne proprio ora. Tre volte era andata a Gerusalemme, e di fiumi stranieri ne aveva attraversati molti: era stata a Roma, a Boulogne, a San Giacomo in Galizia e a Colonia. Aveva insomma parecchia pratica di viaggi: i suoi denti infatti erano radi. Sul cavallo sedeva comodamente, ben avvolta da un soggólo, con un cappello in testa largo come un brocchiere o uno scudo; una gualdrappa intorno ai larghi fianchi, e ai piedi un paio di speroni aguzzi. In compagnia sapeva ridere e chiacchierare; e doveva intendersene di rimedi d’amore, poiché di quell’arte conosceva certo l’antica danza“.

[G. Chaucer, I racconti di Canterbury (versi 445-476), a cura di E. Barison, Utet, Torino].

In inglese:

445         A good WIF was ther OF biside BATHE,
There was a good WIFE OF beside BATH,
446         But she was somdel deef, and that was scathe.
But she was somewhat deaf, and that was a pity.
447         Of clooth-makyng she hadde swich an haunt
She had such a skill in cloth-making
448         She passed hem of Ypres and of Gaunt.
She surpassed them of Ypres and of Ghent.
449         In al the parisshe wif ne was ther noon
In all the parish there was no wife
450         That to the offrynge bifore hire sholde goon;
Who should go to the Offering before her;
451         And if ther dide, certeyn so wrooth was she
And if there did, certainly she was so angry
452         That she was out of alle charitee.
That she was out of all charity (love for her neighbor).
453         Hir coverchiefs ful fyne weren of ground;
Her kerchiefs were very fine in texture;
454         I dorste swere they weyeden ten pound
I dare swear they weighed ten pound
455         That on a Sonday weren upon hir heed.
That on a Sunday were upon her head.
456         Hir hosen weren of fyn scarlet reed,
Her stockings were of fine scarlet red,
457         Ful streite yteyd, and shoes ful moyste and newe.
Very closely laced, and shoes very supple and new.
458         Boold was hir face, and fair, and reed of hewe.
Bold was her face, and fair, and red of hue.
459         She was a worthy womman al hir lyve:
She was a worthy woman all her life:
460         Housbondes at chirche dore she hadde fyve,
She had (married) five husbands at the church door,
461         Withouten oother compaignye in youthe —
Not counting other company in youth —
462         But thereof nedeth nat to speke as nowthe.
But there is no need to speak of that right now.
463         And thries hadde she been at Jerusalem;
And she had been three times at Jerusalem;
464         She hadde passed many a straunge strem;
She had passed many a foreign sea;
465         At Rome she hadde been, and at Boloigne,
She had been at Rome, and at Boulogne,
466         In Galice at Seint-Jame, and at Coloigne.
In Galicia at Saint-James (of Compostella), and at Cologne.
467         She koude muchel of wandrynge by the weye.
She knew much about wandering by the way.
468         Gat-tothed was she, soothly for to seye.
She had teeth widely set apart, truly to say.
469         Upon an amblere esily she sat,
She sat easily upon a pacing horse,
470         Ywympled wel, and on hir heed an hat
Wearing a large wimple, and on her head a hat
471         As brood as is a bokeler or a targe;
As broad as a buckler or a shield;
472         A foot-mantel aboute hir hipes large,
An overskirt about her large hips,
473         And on hir feet a paire of spores sharpe.
And on her feet a pair of sharp spurs.
474         In felaweshipe wel koude she laughe and carpe.
In fellowship she well knew how to laugh and chatter.
475         Of remedies of love she knew per chaunce,
She knew, as it happened, about remedies for love
476         For she koude of that art the olde daunce.
For she knew the old dance (tricks of the trade) of that art.

[dal General Prologue].

Collana Croma K (Oèdipus): un’anticipazione + un programma minimo

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[Proponiamo un’anticipazione delle prossime uscite (Durante, Frungillo, Scaramuccia, Padua, Sirente) della collana Croma K (Oèdipus) curata da Ivan Schiavone, con un testo programmatico del curatore]

 

da Quarantore di Lorenzo Durante – Croma k 1

 

[1]

 

A chi il Nostro Figlio, il Nostro Ideale, il Nostro Cammino?

A Noi. Ti sopravviviamo, estremi, postremi, mal congiunti…

 

Nella notte cosmica

3

di Roberta Durante

Una storia a pezzi, il mondo che è finito e unica testimone una vecchia bambina che fa la Sirenetta intorno al globo domandandosi se sia davvero tutto qui. Oppure un viaggio a tappe, dove si oscilla continuamente tra il

dis-astro e la perfezione, il viaggio dell’umanità e delle cose verso la dissoluzione cosmica o l’involuzione dell’universo.

La Terra, limitata e condizionata dal tempo, dove il viaggio comincia; il Cielo, stato cuscinetto che assorbe le miserie del mondo e infine la Luna, sconosciuta e attraente, dove tutto finisce ma per ricominciare e come un metallo fuso si riforma, nel buio che fa sparire ogni cosa. E non resta che fingere che sia tutto vero.

 

Terra

 

la luna m’interruppe “troppo entusiasmo – disse non va bene
che tu non creda – continuò
che farti un giro senza gravità ti renda più leggera”;

la gravità del mondo avrei capito dopo

non era trasformabile in veste d’astronauta

*

e continuai come un elenco
a dire tutto ciò che mi passava per la testa:
le fantasie represse
i passi falsi già studiati
tutte le finte raccolte fino ad ora in una scatola

svuotata come al porto la mattina
coi pesci mezzi vivi e mezzi morti sulla strada

 

 

 

 

 

Cielo

 

non c’era carica né forza “eppur mi muovo”

dissi poi borbottando già in quel modo

neanche una chiave sulla schiena tipo bambola

facevo il carillon in carne ed ossa

giravo su me stessa
con asse al centro quella corda

poco più di kebab colava la mia essenza sulla terra

 

*

l’immagine era questa:
le nuvole sotto di me fatte a tappeto bianco tipo pelle polare
e il mio colore rosa pallido di pelle molle che da sotto lo bucava;
divenni così l’iniezione nel cielo
l’ago che da terra
forava ed apriva tutto il manto stellare

 

 

Luna

 

era la prima volta
che mi sentivo proprio nello spazio
aprivo e richiudevo le mie braccia
le gambe lisce come tazze
si aprivano nell’aria senza traccia di cammino:

facevo la Vitruvio distante anni luce
dalla mia gravità

 

 

Aiace paranoico

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Ajax_suicide

 

di Alfredo Palomba

Così come lo dipinge Sofocle nella tragedia omonima, l’eroe Aiace reca in sé tutti i segni della paranoia e può essere preso a modello esemplificativo e caso-limite per rappresentare come la condizione paranoica agisca sull’individuo, sia esso antico o contemporaneo, empirico o narrativo. La tragedia sofoclea si apre a fatto già compiuto: beffato da Atena, che ha suggerito «immagini fallaci alle sue ciglia» (Sofocle; v. 62), Aiace ha compiuto una strage di greggi e pastori, convinto invece di aver sterminato l’esercito degli Achei. Il pomo della discordia è costituito dalle armi del defunto Achille, reclamate da Aiace in virtù della sua forza, ma assegnate ad Odisseo: le voci più grosse della giuria sono infatti quelle di Menelao e Agamennone, alleati del figlio di Laerte. Il migliore dei greci è dunque l’abile Odisseo, non il forte Aiace: non ne possiede, quest’ultimo, la complessità, le sfaccettature, le doti ‘femminili’ di intelligenza e pragmatismo. Il suo unico interesse, l’unico, pulsante intento che lo muove è, come ci conferma Luigi Zoja, dimostrare al mondo di essere l’eroe più potente:

Avendo un solo interesse, esistendo solo in quell’interesse, il suo modo di vita è la solitudine. Aiace si nutre di pensieri solitari. Ma il vuoto di persone e di interessi è contrario alla natura della psiche, che reagisce riempiendolo. Pian piano le presenze rifiutate nella realtà riappaiono nella mente. Rigettate come realtà, riappaiono come incubi e ossessioni. È il ritorno vittorioso di quel che si voleva negare. La vita mentale di Aiace è sospetto pronto a esplodere. (Zoja, 2011; 9)

Aiace è un solitario. Non chiede aiuto agli dèi, sente di non averne bisogno. Tale tracotante ostinazione, unita a una convinzione semplice e sfacciata di sentirsi nel giusto, lo rendono inviso ai numi, che non tollerano l’indifferenza. Aiace, pur sempre umano, si sente onnipotente e ciò lo mette di fronte a rischi gravissimi. Zoja riflette su come pensiero tragico e pensiero paranoico non siano compatibili, anzi:

Sono due opposti. La tragedia non voleva solo intrattenere, ma educare: insegnare che la vita è contraddittoria: l’uomo vuole il bene ma contribuisce al male, la volontà è niente perché non sa cosa vuole davvero.

Aiace non sbaglia perché sbaglia, ma perché, cedendo alla paranoia, è dominato da un’unica idea, sorda alla complessità umana. Da quando quella idea fissa gli si è rivelata, crede di aver capito l’essenziale. (Zoja, 2011; 10, 11)

Quest’unica idea lo isola dal mondo, lo spoglia del sostegno di dèi e compagni, lo mette in competizione con gli altri guerrieri. E le armi di Achille sono state negate proprio a colui al quale spettavano di diritto. «Poco alla volta, la mente di Aiace non vede più alternative. Le armi di Achille non sono più un premio, una possibilità, sono una necessità. Le armi sono tutto. E le armi si riscattano con le armi» (Zoja, 2011; 11). L’enormità della sua ossessione è tale da farlo sentire circondato da nemici che hanno complottato contro di lui e da non permettergli più di aspettare. Infatti, tra tutti i nemici che il soggetto paranoico vede intorno a sé, uno dei più infidi è l’impersonale tempo. Una volta concepita la sua idea il paranoico non può attendere, deve attuarla subito: «Come non accetta spazi vuoti nel pensiero, così non li accetta nel tempo. Non vuole rinviare» (Zoja, 2011; 12).

Così Aiace esce nottetempo dalla tenda per uccidere Agamennone, Menelao e l’odiato Odisseo, ed è solo grazie alle immagini false di Atena che l’ira viene sviata e la strage evitata. «La sua trappola è stata l’autoinganno di chi troppo si affida alla solitudine e al sospetto» (Zoja, 2011; 12). Già folle di rabbia e spintosi troppo in là nelle sue fantasie persecutorie, Aiace è stato ulteriormente ingannato: e la beffa è delle più crudeli. Il possente, tremendo eroe ha bagnato la terra del sangue di pastori e pecore. Il successore del prode Achille, il braccio armato della Grecia è stato ridotto, da Atena, a vile macellaio. «E rider d’un nemico è il più bel riso» (Sofocle; v. 95), sussurra la dea a Odisseo.

La paranoia rende ridicoli. Ma possiamo anche rovesciare la prospettiva: le risate degli altri risvegliano la paranoia dormiente. Chiunque può diventare ansioso, se gli altri ridono di lui e non sa perché. Il riso, infatti, contagia il gruppo proprio come l’aggressività. Spesso è aggressività trasformata. Quando il sospetto vede nemici, il nemico più atroce è quello armato non di spada, ma di una risata. Il sospetto, però, scopre nemici o li crea? […]

L’incapacità di ridere è il più antico indicatore di paranoia. La capacità di farlo è la più istintiva difesa contro questo male: non per niente è un tradizionale strumento di difesa per un popolo vittima di attacchi paranoici, quello ebraico. Il derubato che sa sorridere, ha detto Shakespeare, ruba a sua volta al ladro. (Zoja, 2011; 12)

Sostanzialmente vuota e refrattaria al riso, la mente di Aiace non può riempirsi d’altro che di sospetto e attesa di un nemico da sgominare; «chi vive in mezzo alla diffidenza non vive fra uomini, vive fra avversari. E il solo dovere verso gli avversari è sconfiggerli» (Zoja, 2011; 14). Quando la questione delle armi di Achille gli fornisce un movente per passare all’azione, egli è pronto. Tuttavia il mattino, che con la moglie Tecmessa ha portato la notizia della reale entità del massacro, non riserva oro ad Aiace, ma il sapore plumbeo della disillusione e l’orribile paura del pubblico scherno. Il «risveglio non lo libera, ma lo rinchiude nell’eterna prigione del rimorso» (Zoja, 2011; 14). L’unica via d’uscita dal dolore, per l’eroe, è quella di darsi una morte onorevole: dopo aver conficcato nella sabbia l’impugnatura della spada regalatagli da Ettore in cambio della sua cintura, Aiace le corre incontro e si lascia trafiggere: «fa, di quella spada, un uso capovolto. Il rovesciamento dei processi simbolici è una tragica ricorrenza nei paranoici di ogni tempo: nelle menti armate di sospetto la creatività dei simboli si trasforma in distruttività, il processo vitale in processo mortale» (Zoja, 2011; 17, 18).

Aiace può a ragione essere considerato un modello paranoico per la tendenza a creare un sistema chiuso di sospetti e immagini fasulle che si autoalimenta e costringe l’eroe tragico ad agire al di fuori della norma, ma conformemente a una norma che egli stesso ha creato e ritiene coerente e ‘giusta’. L’eroe rivela la propria folie raisonnante o folie lucide, delle molte denominazioni di “paranoia” quella più antica, usata in Francia già ai primi del diciannovesimo secolo. La paranoia, allora, appartiene sia al sistema di pensiero della ragione che a quello del delirio; essendo così ambivalente essa riesce a dissimularsi ed è, rispetto ad altri disturbi della personalità, molto più difficile da riconoscere. È un vero e proprio ‘stile sragionante’ che «non solo non si oppone alla ragione, ma finge di collaborare con lei» (Zoja, 2011; 20): passibile di colpire anche il più insospettabile tra gli uomini e da considerarsi sempre più come possibilità che come malattia. Possibilità che colpisce in genere un soggetto di età media e intelligenza media o superiore alla norma, tendenzialmente insicuro e propenso a proiettare all’esterno le ragioni di insuccessi e frustrazioni personali, capace di offrire informazioni minuziose, se atte a convincere l’interlocutore delle proprie ragioni, ma attento a non esporsi troppo perché consapevole della facilità con cui gli altri potrebbero fraintenderlo. Un soggetto che, come Aiace, si isola dal mondo. «Poco alla volta perde i sentimenti, mentre si raffina come macchina, fino a costruire un sistema razionalmente plausibile, che ha al suo centro un complotto organizzato contro di lui da una coalizione crescente di nemici» (Zoja, 2011; 24).

Questa sua solitudine, che è causa ma anche conseguenza della sospettosità, è spezzata dalla fantasia di essere al centro dell’interesse di tutto il mondo. Il motivo per cui le persone non gli riconoscono alcun merito non risiede nella sua effettiva carenza di qualità, ma in una coalizione dovuta alla gelosia altrui, che gli impedisce di riscuotere il successo ambito e dovuto. Il delirio di grandezza, in questo modo, non fa che crescere all’interno di un circolo autotelico e autoreferenziale che sempre più esclude il paranoico dalla società e da una onesta presa di coscienza delle proprie reali capacità, attitudini, debolezze. È facile a questo punto incrociare «le componenti «laterali» più frequenti della paranoia: megalomania e invidia, che vengono attribuite ai rivali ma in realtà appartengono al soggetto» (Zoja, 2011; 24). La bipolarità del paranoico, quindi, pone lui da un lato e il resto del mondo dall’altro, in un regime di sospetto che alimenta se stesso radicalizzandosi e distorcendo sempre più il reale. Nei casi di paranoia estrema, da questo regime può scaturire la cosiddetta sindrome da accerchiamento accompagnata dalla convinzione che attorno a sé si stia architettando un complotto. E proprio come una bestia che si crede accerchiata, quando è convinto di aver subito un torto il paranoico agisce con sproporzionalità, con la replica esagerata ed esasperata di chi crede che quel torto sia solo la punta di un iceberg, l’inizio di una persecuzione.

Ogni forma di paranoia completa è una costruzione logica edificata a partire da un nucleo delirante e da un assunto di base falsificato. Col paranoico si può discutere la parte logica del suo pensiero, ma il nucleo centrale, anche se chiaramente falso, rimane indiscutibile e incorreggibile. Esso precede la logica. Non appartiene alla razionalità ma alla vitalità. […] [Il paranoico] Possiede una verità immediata che non richiede giustificazioni, ma che a sua volta tutto giustifica. (Zoja, 2011; 25)

Abbiamo visto come Aiace, caso emblematico di megalomania e delirio di persecuzione, faccia un uso allusivamente ‘capovolto’ della spada di Ettore, conficcandola nella sabbia per l’elsa e trafiggendo con la lama colui che è divenuto il suo peggior nemico, se stesso: l’inversione delle cause è infatti un elemento molto frequente nel soggetto paranoico. Se l’assunto di base è falsificato (o rivoltato), di tutte le prove che ne smantellerebbero la tendenziosa interpretazione viene fatto un uso a sua volta opposto: esse non riportano il soggetto alla realtà tramite l’evidenza e la logica, ma ancor di più lo isolano, radicandolo nelle proprie convinzioni. Le prove al contrario alimentano il circolo vizioso della paranoia, accumulandosi e trasformando il sospetto in evidenza. «Si attiva in tal modo un’altra caratteristica di questo male, l’autotropia: una volta posta in moto, la paranoia ha la capacità di alimentarsi da sola» (Zoja, 2011; 25). E il circolo vizioso tende vieppiù a chiudersi, perché i vari sintomi che lo sostanziano si trovano in rapporto di reciproca dipendenza e si tengono tra loro, incastrandosi e combaciando come i tasselli di un puzzle. Il paranoico, convinto delle macchinazioni ai suoi danni operate da altri o da un ‘Altro’, diventa riservato, tendente a non dichiarare a gran voce, in pubblico, le sue teorie. Egli circonda cioè di un segreto quasi religioso le sue convinzioni, che assumono i connotati di una ‘fede’ rivelata, coesa e funzionante alla perfezione.

Una variante del segreto è […] l’allusione (in inglese innuendo, espressione latina che significa «fare appena un cenno», anche senza parlare). Essa lascia in vita l’equivoco e aperte le interpretazioni. L’allusione paranoica, però, non si limita a «dire senza dire»: contiene anche una minaccia e una sfida. «Fra coloro che mi ascoltano», sottintende, «c’è il nemico. Egli sa che parlo a lui e che lo combatterò».(Zoja, 2011; 25, 26)

Il paranoico ha ben chiaro, in conclusione, il sentiero da percorrere, e può cominciare a percorrerlo con una certa lentezza. Tuttavia, abbiamo già visto come egli consideri il tempo uno dei suoi nemici: ha fretta e, guarda caso, il sentiero che decide di percorrere non è mai in piano, ma inclinato. Prima o poi la sua pendenza diverrà tale che egli, rigido e fragile al contempo, non potrà più controllare il suo passo, mutato in corsa e, infine, in caduta libera. Il paranoico, anti-autocritico, «logico e impossibile, coerente e contraddittorio, umano e disumano» (Zoja, 2011; 28), precipita lungo la strada imboccata più o meno consapevolmente, con la sua maschera da personaggio tragico, «che però non copre il volto di un eroe, ma quello di un essere radicalmente insicuro, che inganna anche se stesso» (Zoja, 2011; 28).

 

Bibliografia

  • Sofocle, Aiace, Venezia, Marsilio, 1999
  • Luigi Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011

 

Le concrezioni e i precipitati del senso nella poesia di Martina Campi *

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di Sonia Caporossi

Sette giorni in ospedale.

Sette giorni di odissea e smarrimento, di caduta a picco nei meandri stordenti della propria identità franta. La stessa durata del viaggio di Dante nei tre Regni. Lo stesso periodo della Genesi.  E in questa sorta di Bildungsroman in forma di poemetto, per certi versi quasi mistico ma anche molto legato al verumfactum delle proprie concrezioni di realtà, si raddensa la dimensione esperienziale messa in versi da Martina Campi. La saggezza dei corpi racconta infatti un viaggio dentro gli “asettici inferni” (Sereni) delle corsie dell’ospedale in cui la poetessa è stata ricoverata per un malore la scorsa estate, episodio di vita vissuta che apre un percorso autobiografico di riconoscimento allo specchio in cui, poeticamente, l’Autrice vuole in qualche modo superare i ristretti confini della propria singolarità per cercare (e trovare) il bandolo della matassa universale periodicamente disperso e ingarbugliato dall’umanità tutta, dibattendosi col tema, proverbialmente carico di difficoltà espressive (e filosofiche), del senso e della perdita di senso.

Per ottenere un tale risultato poetico, e soprattutto per renderlo con quella leggerezza di immagini, ritmi e suoni che è da sempre tipica del suo versificare, Martina Campi rabbercia e rinsalda con i punti di sutura del linguaggio “l’anello che non tiene” (Montale), riallacciando brano a brano, in una definizione unitaria, lo spazio nel tempo e il tempo nello spazio, facendo tornare sinolo ciò che nel male e nel dolore si dà per scisso. L’Autrice, alla fine del proprio viaggio all’interno di se stessa, giunge così alla consapevolezza che il cronotopo, quando la patologia inganna i sensi, non è altro che una convenzione poetica, per cui ci vuole ben altro rispetto al semplice individuarne i confini e le modalità per potersi dire vivi o anche solo presenti a se stessi. Ecco perché il nesso tra lo spazio e il tempo può essere sciolto e ricucito come e dove l’esperiente vuole, anche e soprattutto in certe situazioni di vita al limite, come nella fenomenologia dello spaesamento e del distacco dalla linearità del tempo tipiche della malattia.

Per riuscire a tradurre in poesia un’esperienza di tale profondità e coinvolgimento, alla Campi è sufficiente la pratica poetica di ciò che si potrebbe definire come il circolo ermeneutico fondante che collega descrizione e sensazione, tale che, partendo dall’abituale descrizione di sensazioni, la poetessa riesce a esprimere l’inusuale, lo scarto, la sensazione delle descrizioni, fondendo dimensione interiore ed esteriore, soggettiva e oggettiva, all’interno d un dominio topologico compiutamente estetico.

L’ingresso in ospedale, in questo senso, è vissuto come un’ectopia della mente, un esodo dai sensi e dal senso delle cose (“è un fiume oggi la ferrovia / dal quale straripano i binari e oltre / gli argini folli i fogli, i sedili / galleggiano e si allontanano, lasciati (andare, / via) c’è una mano tra i palazzi e un muso / tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora / da dove vieni? dov’è trascorsa la notte?”). Il mondo esterno si allontana, si sfalda, perde le sue certezze e i suoi punti fissi in una catabasi straniante all’interno delle proprie asfittiche paure, la principale delle quali, la perdita del controllo di sé, del proprio corpo e dell’interazione col macrocosmo circostante, è espressa attraverso espedienti poetici ben delineati, come ad esempio le ripetizioni (“non c’è acqua? Non c’è acqua?”, frase rivelatrice delle prime avvisaglie del malore); oppure attraverso l’uso di parentesi rivelatorie, epifaniche (“forse sono gli occhi, ed è un tentativo / quanta è la realtà dentro (agli occhi) / cedevole e ondeggiante, e distesa e sensibile / quanta, ne puoi (toccare con gl’indici), questa / o la pianta dei piedi, un divenire (divampare) / in linea retta per la via / il corridoio, (quanta) nelle braccia / aperte, camminando / e se fosse molto, molto più mossa / (di quella che si può restituire) / e se fosse molto / molto più rotonda?”); o ancora, attraverso l’uso di immagini ricolme di densità semantica e aggettivale, come improvvise finestre che si spalancano sui significati abituali cogliendone l’essenza immediata ma contemporaneamente cercando di riottenerne il dominio semantico ad ogni istante e ad ogni passo, per non smarrirsi (“avremmo forse voluto spalancare (preferendo) / le braccia, tra l’oggi / e il domani di carta carbone / raccontato, necessario, riverso / mescolarci forse alla pioggia / tradurci nella luce / avvicinarci / un poco, di più, almeno / concederci un’adeguata quantità / di sguardi amorevoli / disarmare gli elefanti / credere alle mani / avremmo forse preferito (davvero) / trattenere le armate / sconfinare sorrisi, a tavola / scambiarci il sale e il pane”).

Ed ecco che, in ospedale, la condizione di “straniera alla vita” (Pagliarani) che la poetessa mostra senza remore e senza veli, si riverbera in quieta ob-sessione attraverso l’enumerazione morbida e ovattata degli oggetti e dei fantasmi sfuggenti della corsia (“gli aghi nel braccio e le coperte di lana /  il freddo disumano della stanza”), attraverso la considerazione scarna e minimale dei gesti così nuovi e alienanti eppure immediatamente divenuti abitudinari, avvolti dal feltro protettivo e tranquillizzante di una normalità autoimposta proprio a contrasto con l’eccezionalità di una situazione eteroimposta: quella del ricovero in nosocomio improvviso e indesiderato.

L’immersione evanescente delle cose quotidiane nella cappa diafana del color bianco che avvolge e permea le pareti, le lenzuola, le luci al neon dei corridoi e delle stanze, strappa sistematicamente quegli stessi oggetti dal loro contesto d’uso, li pone in evidenza, li ionizza e ne fa galleggiare il substrato di realtà nell’amnio di una parvenza disvelata in senso heideggeriano, laddove l’aletheia altra non è che la surreale presa di coscienza della perdita di coscienza che subito diviene un livello superiore di coscienza. Il bianco è il colore degli ospedali, il bianco è il colore dei manicomi che accolgono il Degente Archetipico e lo proteggono nell’alveo sospeso e atemporale delle sue cannule, dei suoi aghi e delle sue brande; e la “terra straniera”, così, non è più dentro la corsia, è “fuori”, se è vero che il ricovero è paura e malattia ma anche, nella dimensione evenemenziale della krisis, l’ottenimento confortante e salvifico di una consapevolezza: quella di essere “scampate al sospetto /  della bruta follia”.

Tra l’incipit che riguarda l’entrata in ospedale e la fine che inquadra la strada percorsa a ritroso, in un rientro verso l’ovocita familiare delle quattro mura di casa, nel panta rei esteriore del nostos e del ritorno, scopriamo che lo straniamento non riguarda i giorni e le ore trascorsi nel ricovero all’interno del quale invece la protagonista si è subito adattata ricostruendo una dimensione ovattata e familiare  (“andiamo a farci una nuotata, a turno / nel nostro bagno in comune e in accordo / e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì / al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso): / quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi / e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito) / guardiamo i morti passare / nei silenzi, che le voci bisbigliano rosari”); lo straniamento, piuttosto, come si scopre fin dal secondo giorno, riguarda invece lo scollamento e il discidium col fichtiano Non – Io, cioè col mondo esterno all’ospedale, che solo era prima considerato reale (“perché fuori è una terra straniera / fuori è tutta un’altra storia / e anche loro che arrivano, con l’amore / nelle borse, e le migliori intenzioni”).

Come in un gioco di specchi e di maschere pirandelliane, insomma, si scopre che l’esser stata sradicata dalla propria quotidianità a causa della veemenza della malattia ha consentito alla poetessa di raggiungere un livello superiore di percezione e di ermeneusi del mondo, laddove il poeticum risiede nel segno che è imago a se stesso, nel prepotente divario tra dentro e fuori o, con le parole della Campi, nella scissione tra “vita normale/vita in sospeso, chiusa, malata, condivisa con perfetti estranei; che poi, anche se il tutto è durato pochi giorni, erano loro il mio mondo, e stranieri invece i visi di tutti i giorni, gli affetti, le abitudini”. E così, prima o poi si rompe il nuovo equilibrio, come se l’unico equilibrio consistesse nel tornare ogni volta a smarrire il lume della candela (“e so che dovrete andare / e so che dovrò andare anch’io / per diverse stanze, corridoi / che non s’incontrano più / abitudini che attraversano il caldo / agguantano i bianchi del giorno irreversibili / le ore / scorrono / non curanti / dalle terrazze / dalle sale d’attesa / dalle stanze con la televisione”). Ecco che, oltrepassando il cancello del nosocomio dopo la dimissione, quasi accecata dalla luce esterna che apre un rinnovato squarcio sull’antica ferita dell’autoriconoscersi (“troppo il sole / in una volta, sola”), i parenti, gli amici accorsi a prenderla divengono all’istante “sconosciuti alla fretta / sconosciuti alle conversazioni / ai come stai / che te ne pare”; e allora diventa difficile riallacciare i rapporti con ciò che la stessa poetessa, in un colloquio privato, ha avuto modo di definire in questi termini: “il sole, guardarsi indietro, il silenzio, le conversazioni di convenzione, ricercando la normale familiarità con la propria vita”.

In una tale esperienza emozionale di inversione di contesto si fatica molto, in genere, a tornare in se stessi, a recuperare la vestizione della maschera, ma si ottiene in compenso la vantaggiosa condizione del cecchino che può sparare sulle macchie, sulle incongruenze e sui punti oscuri del sistema heisenberghianamente osservato cogliendo le asperità scabre delle concrezioni di realtà in costante mutamento e rivoluzione: un sistema aperto, quello del proprio microcosmo irriducibilmente in conflitto col macrocosmo, e proprio per questo, modificato e modificabile nel momento esatto in cui viene guardato, ovvero versificato; finché poi, alla fine “[…]  tutto ritorna com’è / e tutto intorno s’aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti”.

Martina Campi è riuscita, in questo breve poemetto, a lanciare uno sguardo oltre il confine del senso, giacché, come scrive Emilio Garroni,  “l’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non senso; così come, non esemplarmente, ci stiamo tutti”: compito dell’arte e, precipuamente, della poesia, è proprio scardinare le certezze convenzionali della norma e la stessa aderenza del circolo ermeneutico tra significato e segno, per aprire squarci dis-velatori (sempre con Heidegger), che possano generare costruttivisticamente barlumi di alterità all’interno delle precipitazioni chimiche del qui-ed-ora. Altra funzione, a ben vedere, la poesia non ha: e Martina Campi dimostra con questa sua opera matura di saperlo molto bene.

* Prefazione a Martina Campi, La saggezza dei corpi, L’Arcolaio, Forlì 2015.

Tre racconti dell’astratto

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di Hugo Bertello

IL PONTE DI DARJEEN

 

Racconto perché si deve pur continuare

 

 

 

…tua madre deve averti detto ieri di non sporgerti su questo pozzo senza fondo tu le chiederai ancora stanotte perché non ha fondo e nuovamente ripetendosi lei ripeterà perché esce dall’altra parte del mondo.

GUILLHERMO CABRERA-INFANTE: TRE TRISTI TIGRI

 

 

 

1 Il principe Darjeen sapeva solo una cosa: detestava il mare. 2 Il principe Darjeen desiderava soltanto una cosa: vedere cosa ci fosse oltre, al mare. 3 Recatosi di fronte al seggio, disse, «Padre, vorrei implorare il vostro aiuto.» 4 «Per quale motivo figlio mio?», rispose il sovrano. 5 «Per la costruzione di un ponte.» 6 «La vostra richiesta mi pare ragionevole, eppure non conta ponti a sufficienza il nostro regno? 7 Più di venti uniscono le sponde del fiume Pajal, altri dieci legano ad occidente e ad oriente le terre d’Urlad, due altissimi e solenni portano alle nostre residenze sul lago, 8 mentre infiniti altri superano gli infiniti ruscelli che donano vita a tutto ciò che io possiedo e che un giorno tu possiederai.» 9 «Mio padre e mio re, capisco le vostre rimostranze, ma il ponte di cui vi parlo non ha nulla in comune con quelli che già si innalzano sulle nostre acque.» 10 «Non capisco, di che ponte si tratta, figlio mio? 11 Dove dovrebbe sorgere? E quali terre vorrebbe avvicinare?» 12 «Padre, invero non vi sono terre che vorrebbe avvicinare. 13 Il mio ponte avrà una sola sponda: partirà dalla costa e proseguirà dritto verso il mare.» 14 «Figlio mio, le tue parole sono per me motivo di grande sorpresa. Ero certo che avessi giovato dei precetti più sensibili ed educati, 15 come sei giunto ad una considerazione tanto spropositata quanto un ponte con una sola sponda?» 16 «Mio re, il proposito è notoriamente schiavo della conoscenza. 17 Dovete sapere che tale ponte porterebbe i più grandi vantaggi al regno.» 18 «Abbi la grazia di spiegare.» 19 «Da molti decenni i nostri uomini migliori come le navi dagli scafi più robusti e le polene pregiate si perdono nell’intenzione di trovare una nuova terra che sorga oltre l’orizzonte, 20 quella terra promessa al popolo e della quale non si ha avvisaglia da tanto tempo, 21 il cui ricordo risiede solamente nei libri degli antenati.» 22 «Il fato non ci è stato certo d’aiuto.» 23 «Con la costruzione di questo ponte, la ricerca di ciò che si cela dietro l’orizzonte si farebbe finalmente più agevole. 24 Gli uomini, anziché affidarsi a bordo di fragili vascelli alle cieche volontà del mare, potrebbero lavorare di giorno alla costruzione di robuste volte e campate, 25 e di notte fare ritorno ai propri figli ed alle proprie mogli, percorrendo a ritroso la strada alle loro spalle.» 26 «Certo, tale istanza parrebbe vantaggiosa.» 27 «Inoltre voi, padre, sareste capace di verificare l’avanzamento dei lavori di persona, in qualsiasi momento, 28 e se a distanza di pochi mesi – o piuttosto di anni – dovessimo arrivare alla terra anelata, voi potreste raggiungerla montando in sella al vostro cavallo, 29 e non ci sarebbe limite alla quantità di pietre preziose e di animali esotici che potreste riportare nel regno, 30 meravigliando i vostri sudditi.» 31 «Caro figlio», concluse il sovrano, «il vostro ingegno mi sorprende. Vi dono la mia più incondizionata approvazione.» 32 La costruzione del ponte di Darjeen venne annunciata dal suo inventore a bordo di un calesse d’oro, 33 e la notizia fu accolta tra le grida di gioia del popolo. 34 I lavori iniziarono all’alba del tredicesimo giorno. I sudditi del regno, senza eccezione alcuna, si misero immediatamente al servizio della grande impresa. 35 Non ci fu sarto, fabbro, contadino, allevatore, scultore, maniscalco o manovale che non dedicò tutto sé stesso per favorire il più rapido avanzamento dell’opera. 36 Nelle prima due settimane, il ponte avanzò di più di tre campate al giorno, e più il suo limite ultimo si allontanava, più l’entusiasmo di Darjeen e dei suoi uomini cresceva, 37 consapevoli che la meta si stava poco alla volta avvicinando. 38 Alla fine del primo mese, il ritmo di costruzione dovette poco alla volta rallentare, 39 dacché le profondità delle acque richiedevano un pilastro sempre più lungo prima di offrire un appoggio sicuro. 40 Alla luce delle nuove necessità, non fu un solo uomo a scoraggiarsi, 41 poiché un nuovo grido d’incitamento emerse gioioso tra essi, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 42 Mentre le risa ed i canti si facevano pascimento per gli animi, i materiali da costruzione venivano estratti con maggior frenesia. 43 Osservando il ponte dalla cima del monte, esso appariva ora come una linea bianca e perfettamente diritta che si stagliava sullo sfondo azzurro del mare, 44 sulla cui lunghezza si spostavano in continuo riciclo carri ricolmi di basalto, di granito, di luccicante alabastro e di enormi assi di legno, 45 come altri che si muovevano vuoti in direzione opposta, pronti a ripartire al traino di buoi, di cavalli e dei loro nocchieri. 46 Allorché la sottile riga arrivò a toccare l’orizzonte nel punto in cui esso si trovava per chi lo contemplasse dal regno, il principe Darjeen dispose la costruzione di un’immensa cattedrale, come primo presagio della terra lontana. 47 Non appena il maestoso edificio venne perfezionato in ogni sua guglia ed in ogni suo guizzo, il principe indisse una sfarzosa inaugurazione, 48 a cui ebbero l’onore di partecipare tutti gli uomini e le donne della regione, 49 così come il re, sempre più compiuto nel prestigio crescente di cui godeva. 50 I festeggiamenti durarono tre giorni e tre notti, 51 e non vi fu alcun conteggio delle coppe di vino versate e dei beni della terra che furono distribuiti ad ognuno secondo le proprie volontà. 52 L’opera riprese con rinnovato slancio, ed il ponte proseguì nella sua lenta conquista. 53 Tra le mura del regno, da quelle ricolme di ornamenti fino alle altre più umili e spoglie, di nulla si parlava se non dell’immane impresa. 54 Con l’avanzare delle stagioni, l’intervallo che separava l’estremità ultima dei lavori dalle terre ferme diventò tale da impedire agli uomini un ritorno alle tiepide abitazioni una volta terminata l’ora del lavoro. 55 Il ponte venne dunque allargato di un tratto sufficiente ad ospitare un piccolo villaggio, dove le mogli ed i figli di chi donava il proprio vigore al magnifico progetto potessero alloggiare. 56 Il re tornò a fare visita al figlio, e si rallegrò di ciò che vide, 57 giacché il suo regno continuava ad espandersi, non solo in terra, ma anche in mare, 58 contando ora una città in più che in precedenza. 59 Darjeen ed i suoi compagni continuarono ad avanzare per molti anni su quella linea retta e giusta, 60 e non dubitarono mai che la terra oltre l’orizzonte fosse sempre più prossima, 61 con il solito grido che si alzava al cielo, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 62 Se inizialmente per sottrarre una decina di metri all’acqua servivano pochi massi dislocati ordinatamente l’uno sull’altro, e poi decine su decine di blocchi del pesante materiale, 63 ormai per gettare una singola campata era necessario riversare in mare un’intera montagna, 64 trasportata dal continente a bordo di innumerevoli carri che gli animali trascinavano da sé, ormai sciolti dalla mano dell’uomo. 65 La distanza dal fondo divenne tanto più grande, e se la qualità migliore di chi lavorava era prima la forza, ora questa diventava la pazienza, 66 poiché giorni e settimane e stagioni intere potevano trascorrere mentre la roccia bucava la superficie e si perdeva in fondo alle acque, 67 senza mai traboccare. 68 Un debole scoraggiamento fece breccia tra Darjeen ed i suoi compagni, prontamente temperato dalla stessa frase che sorgeva come un balsamo dalle loro bocche, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 69 I contatti con il regno divennero tanto più frammentari quanto il cammino che separava i due estremi arrivò a superare i cento giorni, 70 ed allora quando i visitatori da paesi lontani giungevano nel regno e domandavano, «dov’è il principe?», e poi, quando il padre se ne andò, «dov’è il re?», 71 i sudditi non potevano far altro che rispondere, «È là», indicando il mare. 72 In mezzo a silenzi lunghi anni, dalla costa si poteva ogni tanto scorgere una minuta figura percorrere il ponte a ritroso, 73 un messaggero mandato dal principe Darjeen per annunciare, «I lavori vanno avanti! La terra è vicina!» 74 Trascorso un tempo poco inferiore alla vita di un uomo, ogni comunicazione dovette cessare. 75 Chi si trovava sulla terra, continuò a lavorare incessantemente all’impresa, osservando gli infiniti carri contenenti i frutti dei loro sacrifici gettarsi dietro l’orizzonte senza mai nulla restituire; 76 molti presero a domandarsi se vi fosse alcuna grazia nella costruzione di un ponte con una sola sponda, 77 un ponte che vada dritto all’orizzonte e verso una terra spendente in tutte le sue proprietà, tranne in quella di farsi sostanza. 78 Eppure non uno solo tra i sudditi voltò le spalle al magnifico progetto. 79 Se non per rimanere fedeli ad un antico ideale, perlomeno perché tutti ebbero l’accortezza di domandare: 80 che popolo è un popolo che abbandoni il proprio re in mezzo al mare? 81 Chi si trovava sull’estremità più sola proseguì nella paziente costruzione, vivendo dei doni del mare e di quei beni che i carri interminabili portavano loro, 82 con la stessa semplicità con cui il calore asciuga il panno steso al sole ed il pesce abbocca all’amo. 83 Numerosi piccoli templi vennero eretti, ognuno contenente il più ricco artefatto oppure un solo singolo ramo, 84 trasportato dalla superficie dell’acqua e dal fluttuare delle correnti come preghiera di una terra lontana. 85 A distanza di molte stagioni, il giovane principe Darjeen si fece prima uomo, poi vecchio, ad infine lasciò quel mondo terreno. 86 Non per questo gli uomini ed i figli degli uomini smisero la sua maestosa ambizione. 87 Continuarono ostinatamente allora a costruire il ponte, e lungo il ponte – qualora ne fosse fatta esigenza – una città, 88 seguendo un grido che si faceva ormai cantilena, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!» 89 Nonostante le esclamazioni, a poco a poco ciascuno di essi dimenticò il motivo del proprio stare su quella strettoia in mezzo al mare. 90 Ogni uomo ed ogni donna, se si trovava tra gli altri, non era allora che un impostore, 91 giacché non era gioia che esprimeva, ma la sua finzione; non un credo, ma la sua immagine bianca. 92 Eppure naturalmente perseverò nel compiere i gesti che chi prima di lui aveva compiuto: 93 porre pietra su pietra, aspettare, osservare le pietre perdersi, anche per anni, innalzare infine una piccola volta, una tremula campata. 94 Quando sull’estremità del ponte non rimasero occhi che avessero incontrato il profilo della terra, 95 non più uno fu in grado di stabilire se questa esistesse veramente, 96 o se non fosse una leggenda che i padri avevano raccontato loro di notte, attorno al fuoco, 97 per rassicurarsi ed ammansirli, e per fare sì che il giorno dopo, con un nuovo sole, si svegliassero in quel punto in mezzo al nulla e 98 decidessero che valeva la pena di continuare, 99 perché una volta che si è iniziato, si deve pur continuare.

 

 

POSTILLE A DISCREZIONE DEL LETTORE

 

 

A centinaia ed alcuni anni di distanza dalla vicenda appena narrata, il regno di Darjeen ha cessato di esistere. Sul trono si è insediato un nuovo re, che ha promulgato nuove leggi e deposto le antiche tradizioni. L’approvvigionamento di carri che fino a poco tempo prima ancora si muovevano senza sosta in quella direzione che dalla costa punta dritta all’orizzonte è stato interrotto, e chiunque faccia riferimento alla tremenda costruzione viene additato in quanto infermo. Tale evenienza eppure si verifica di rado, poiché nessuno ha più interesse a sapere cosa si nasconda oltre il mare. A questa regola fa eccezione un giovane uomo, che un mattino di una stagione prodiga di fiori stabilisce di lasciare ciò che ha, per tentare l’attraversata. Omaggiata la propria famiglia e disposti nel bagaglio pochi abiti e gli attrezzi per la pesca, il giovane poggia il piede sulla superficie ferma del ponte ed inaugura la religiosa processione. Lungo la strada visita un’immensa cattedrale, non più intera ed ormai spoglia di ogni suo bene; riposa nelle sottili città e nei casolari dei costruttori, dove rinviene ora un tavolo, ora una scodella, così come preghiere e disegni che si rincorrono e ritraggono montagne, e pascoli, e specie terrestri e marine; preme i suoi passi sulla stessa incisione, che dalla pietra ritmicamente si ripete ancora, «Abbiamo cominciato, dobbiamo pur continuare!», oppure, «La terra è vicina!»; trascorre le notti a sottrarre un pesce al mare e a contemplare l’abisso scuro di sotto e quello pieno di luci là sopra, chiedendosi se vi sia un ponte che unisca i due fra loro. In un giorno di sole, poi, scorge in lontananza una flebile linea, poco meno azzurra dell’orizzonte. Avvicinandosi con lentezza – dacché gli anni sono ormai tanti –, si commuove nel constatare che le macchie indistinte si fanno docili colline, magnifici alberi esotici e palazzi mai visti. Giunto alla meta tanto cercata, poggia con fatica il piede nel porto, e rivolgendosi ad un ambulante, dice, «Buon uomo, io che ti parlo vengo dalla parte opposta. Dal mare.» E poi, «Mi sai dire che città è questa?» «Dove mi trovo?» L’altro, guardandolo negli occhi con comprensione, fermamente risponde, «Questa è Chennai, città orientale dell’antico regno di Darjeen. Non lo sapete? Il ponte è terminato.»

 

 

 

 

 

 

 

IL GIOCO

 

Racconto concentrico

 

 

 

La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso.

ITALO CALVINO: LA LEGGEREZZA

 

 

 

E do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri: è una rondine in volo, e continuo a colpire e mi guardo attorno e tutto è uguale, di fronte il bianco da non superare e l’erba di sotto ed il cielo di sopra, e non so più da quanto è iniziato, così siedo per terra per sentirmi più solo, ed ogni cosa che esiste là fuori che può essere pensata la penso ed in quell’istante mi reca dolore, e le braccia non reggono e allora mi dico riposo e risposo, meglio svegliarsi domani oppure anche oggi e ricominciare e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri: è una rondine in volo, e continuo a colpire ma non ricordo neppure di chi fosse l’idea, se mia o se sua, di certo prima del gioco però nulla era uguale, noi due nella casa pomeriggi interi a fare origami, e la carta si intreccia ed ecco la rana e poi il tulipano, e lei che innaffia una pianta con lo stesso bicchiere che usa per bere e a sera chiude le tende fino al mattino, e nel buio mi dice che sarebbe più bello essere in tanti e di tenerci strette le dita perché non si stacchino se ci addormentiamo ed io adesso raggiungo il prossimo cesto di pane ed è ancora raffermo, quasi ammuffito, e deve esser lontana ci vuole pazienza – dovrò aspettare, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri, è una rondine in volo e continuo a colpire e mi guardo alle spalle e la ferita è profonda: la sento vicina, e immagino le sue tenere mani sporche di calce e di creta, a lavorare, e non si ferma nemmeno un minuto e non pensa a Nina e al piccolo Lucio a casa e sua madre e la colazione insieme al mattino, e cammino in cerchio una volta a vedere se un pezzo è mancato ma lei è accorta non dimentica nulla così non mi resta altro da fare, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete, così l’attraverso ma trovo altro spazio con un’altra parete e i primi due colpi ben assestati una stella ed Orione, ed altri due un poco leggeri, è una rondine in volo e continuo a colpire e adesso la ascolto di notte che cuoce i mattoni e di giorno a cantare, e la chiamo e allora lei tace e c’è silenzio assoluto tranne in alto anche per ore, poi ricomincia ed io mi dico non posso dormire, devo colpire più in fretta e più in fretta e nella medesima direzione del suono, ed il sole nel punto del giorno senza le ombre mi brucia la pelle ma il pane che lascia è sempre più fresco: son quasi arrivato, e do i primi due colpi e la crepa è piccola, ha la forma di un fiore, e ne do altri dieci e si apre più grande – come un airone, dieci e poi dieci e coi calcinacci che scendono arriva a coprire il profilo di un uomo, e solo due ancora e vien giù la parete e l’attraverso e finalmente la vedo mentre dispone un poco di argilla sul bianco muro incompleto e la raggiungo e lei corre e la prendo e lei ride mi abbraccia mi bacia e le sono tanto mancato e io rido l’abbraccio la bacio e mi è tanto mancata e le chiedo se non è stanca del gioco se da tanto è iniziato, e a casa la pianta con l’acqua che scende ed i suoi origami, e lei che risponde ti prego ti prego è un gioco bellissimo ancora una volta ricominciamo, questa volta io dentro e tu fuori – a costruire –, e la vedo tanto felice e abbasso gli occhi e le chiedo con quanto vantaggio devo partire, e lei che salta di gioia e risponde dieci giorni può andare, e io respiro profondo e confermo e corriamo in un prato intoccato e le lascio il martello ed un cesto di pane e con mattoni e secchiello costruisco la prima parete attorno a lei che fa ciao con la mano, e non la vedrò più per un poco, e perché – perché si ostina a giocare?, e Nina? e il piccolo Lucio? E quando la vita è soltanto stupore.

 

 

 

 

 

 

 

IL RACCOTNO DEI REFUSSI

 

Raccotno come inocente epserimento metalettrerario

 

 

 

La lingua sarà anche uno specchio deformante, ma è l’unico specchio che abbaiamo.

MICHAEL DUMMETT: FILOSOFIA DELLE LINGUE

 

 

 

Quello che vi proponiamo in queste pagine è forse il primo esempio nella storia della lettreratura di ciò che sarà d’ora in poi e per sempre noto come “Il raccotno dei refussi”.

A beneficio di chi non sia al corrente delle più sottili sfumature grammaticali, un refusso è ciò che viene fuori ogni qual volta siamo in procinto di scrivivere una certa cosa, ma in realtà stiamo pensando ad un’anatra.

Alternativamente, un refusso può manifestarsi in quelle occasioni inn cui, mentre scriviamo, non siamo troppo attenti ha certi precetti ortografici e di punteggiatura;,, o molto più semplicemente stiamo pigiando umm po’’ sbadabattamente ii taxi shulla notstra taxtiera:.

A ragione, molti lettori troveranno la lettura di un raccotno dei refussi un po” pesante, se non proprio pastidiosa. Con le più sincere scuse per tale sconvenienza, ci sta a cuore precisare che il notsro raccontno è strato pensato non per nuocere a noi che scriviamo, né a voi che leggete, ma prerché tutti ne traggano ilpiù grande giovamento. Arvrete di fatti notato anche voi che un libro – d’abitudine – contiene un certonumero di refussi, disseminati in modo imprevedibile e un po’ casuale tra lesue decine, se non centinaia di fagine. Noi, anziché arrischiarci nell’immane e quasi certamente vana impresa di elimimarli uno ad uno, abbaiamo pensato invece di attrirarli – prima – e di intrappolarli – poi – in un raccotno solo – quetso! –  di modo da rendere gli atrii meno accidentati e dunque piiù piacevoli alla lettura.

Dopo aver appreso della mobile natura delle notstre intenzioni siamo certi che ci avrete già accordato il votstro perdono, di cui v’ì siamo inestimabili debitori.

 

Prima di inizziare con una narrazzione pertinente ed articolata del nostro raccotno dei refussi, c’ì piacerebbe fornire le tre regole fondamentali perché chiunque ne avesse voglia possa scrivere un raccotno dei refussi tutto suo, di modoché questi possa entrare a far parte di tutti i libri di raccotni che verranno scritti in futuro, assumendo a poco a poco lo status di vero e proprio genere lettrerario.

Procedendo con ordine, dovete sapere che la prima e un poco sfortunata regola per scrivere un raccotno dei refussi conforme alle procedure di genere prevede che quasti oggni prarola all interno dì unn raccontno dei refussi deba essrere effettivamemente um refusso, benché allo scrittore che si confronti con l’impresa per la prima volta venga fatto consiglio di abbracciare tale dettame gradualmente, cimementandosi dapprima com racconti inn cui solamete una prarola su ddue possa classificsrsi propriamente comme un refusso.

La seconda regola per scrivivere un raccotno dei refussi che sottolinei una certa abilità del propositore, stabilisce poi che alcuni refussi si presentino nel texsto non in ordine sparso, ma che siano congeniati in un divertente incastro, di modo che ogni tanto facciano un po’ radere chi li regge.

Infine, essendo esso un semplice epserimento metalettrerario, la terza regolla per scrivere un raccotno dei refussi stabilisce che il raccontno dei refussi non debba prer forza avere una trama precisa, né descrivere una vicenda con uno vsiluppo lineare.

Pertanto, quando scrivivete un raccotno dei refussi, sentitevi liberi di giocare con la forma quanto volete (anch’essa, a modo suo, è un refusso!). Sentitevi liberi dunque di inziare un raccotno dal l’ultima riga, o di finilrlo con la prima. Oppure ancora di mischiarle frutte fra loro – le righe – rimuovendone la metàa e aggiungendole dove vi pare. Infine, prendete in considerazione di seguire il notstro esempio, evitandovi ogni problema e decidendo quindi di intemperrompere la voststra narrazione ancora pirma cheabbia inizio, senza alcun preavviso.

 

 

PINNE

 

 

Inutilità del concorsone e altre devastazioni della cosa pubblica

2

strange people

di Renata Morresi

Si parla molto dell’imminente concorso a cattedra. È un gran circo, in effetti. Il TAR è inondato di ricorsi. I presidi incitano a boicottare le commissioni giudicatrici. Arrivano inaspettati endorsement da parte di personaggi pubblici con tanto di dichiarazioni #noconcorsotruffa. Gli insegnanti già abilitati e “selezionati sul fabbisogno” si chiedono perché devono ripetere prove su cui sono già stati ampiamente esaminati. Qualcuno ha parlato dell’assurdità del didattichese, una neo-lingua usata solo nei documenti scolastici e che umilia l’intelligenza. Qualcuno è andato a sfogliare certi manuali di preparazione, venduti a trenta o quaranta euro a volume, scoprendo che sono plagi da Wikipedia.

Perché questo concorso è fatto male? Perché è inutile?

Non sono tanto le complicazioni kafkiane. Che pure citerò, perché danno la dimensione del caos di cui molto si intuisce ma poco si sa. Non si è ha parlato, ad esempio, dell’obbrobrio metodologico che era il modello di iscrizione, da compilare on-line. Deve o no l’aspirante prof spuntare l’affermazione “ha insegnato nei Paesi UE”? Se ha lavorato in Italia, che a occhio è un “paese UE”, parrebbe di sì. Ma appena va col clic si apre una finestra in cui gli vengono richiesti incomprensibili documenti, equipollenze, certificati. Dopo sei ore spese a cercare di districarsi, a telefonare a un numero verde sempre occupato, a iscriversi a forum pieni di colleghi furibondi, il disperato aspirante scopre che la dicitura in realtà va intesa come “ha insegnato in ALTRI Paesi UE” (bastava dirlo). Niente si è detto – altro esempio – della scheda in cui inserire i titoli di eventuali pubblicazioni. Congegnata con limitazioni che concedono di inserire solo un tot di caratteri e non permettono di usare apostrofi, due punti, vocali accentate, ecc., ha trasformato titoli di sobri e ponderati saggi critici in mostri sintattici. Ma queste ormai sono facezie in confronto al resto.

Consideriamo l’ingiustizia nel calcolo dei giorni di servizio a scuola già svolti come supplenti. Tutti sanno che i precari – in quanto tali – possono essere costretti a firmare decine di contratti all’anno (che ‘casualmente’, anche nella stessa scuola, terminano il 23 dicembre e ricominciano il 7 gennaio, per esempio). Che senso ha valorizzare solo i rapporti di lavoro con contratti continuativi quando le interruzioni sono imposte?

Si è commentata un poco, tra qualche risata amara, l’organizzazione malata del concorso, coi commissari pagati 50 cent a prova (in molte sedi introvabili, in fuga, coi certificati medici pronti nel cassetto per evitare la precettazione). Si è detto appena della fatica di trovare aule informatiche adeguate per il formato computer-based delle prove, ancor meno del fatto che il ministero ha dovuto elaborare una tabella di equivalenze per i caratteri mancanti nella piattaforma scelta. Insomma, i candidati si scordino la β tedesca o i segni diacritici del francese, per non parlare dei simboli matematici o delle formule di chimica.

Tuttavia, non sono neanche questi i nodi cruciali. Questi sono problemi marginali rispetto alle questioni enormi che pongono le circostanze (che pone il futuro). Come arginare la dispersione scolastica? Come motivare i più deboli? Come valorizzare i migliori? Come gestire le nuove difficoltà (classi numerose, multilingui, proliferare di disturbi di apprendimento, deficit dell’attenzione, bisogni speciali, ecc.)? Come formare i più giovani alla complessità, a una cittadinanza etica non meramente italiana ma planetaria? Come avviarli a un mondo della conoscenza che si è frammentato in molte nicchie settoriali ma che, proprio a ragione di questo, ha sempre più bisogno di mediatori, non solo di specialisti, di capire come siamo in relazione, non solo connessi, di comprensione olistica e non solo di culto della téchne? Come incoraggiare alla ricerca della verità? Da intendersi non in senso assolutistico e universalizzante, ma nella sua sostanza processuale, come studio continuo e attento, al di là della surfata su qualche sito acchiappa-clic. Come promuovere la libertà della scienza? Che non obbedisce agli stra-citati bisogni del territorio, alle necessità mercantili immediate. Come insegnare agli alunni non tanto a procurarsi un lavoro e ‘ringraziare il cielo’, ma a crearsi le occasioni per fare cose nuove?

Su tutto questo al momento non c’è dibattito pubblico. C’è il concorsone. C’è l’urgenza di avere modelli di quesiti (non ci sono),  di capire come scorreranno le graduatorie di merito (non è chiaro), di conoscere in anticipo i criteri di valutazione (non disponibili). Cosa spinge un ministero a organizzare un concorso in questa confusione? Cosa induce a mettere in moto tale carrozzone per selezionare gente già selezionata? Una serie di credenze o pregiudizi, che si trasformano in meme, che sotto le pressioni populiste diventano ossessioni.

Per esempio: “La qualità!” “La meritocrazia!”, si dice compulsivamente. Tuttavia, invece di valorizzare le carriere migliori, di premiare lo studio e la preparazione, li si mortifica, instaurando una filiera di controlli prolissi e insidiosi, in stile persecuzione maccartista. Come si può dare valore al famigerato merito se ogni paio d’anni la formazione dei docenti viene ripensata, stravolte le modalità di accesso all’insegnamento? Le abilitazioni TFA, ad esempio, prese appena un anno o due anni fa, che avevano selezionato con svariate prove d’ingresso e di uscita un dieci per cento degli aspiranti totali, oggi valgono ben poco. Perché? Sembra quasi che il ministero boicotti le università, e i corsi da esse promossi, che boicotti le scuole stesse irridendo gli insegnanti non di ruolo (eppure col pieno titolo per insegnare), che costringa il sistema, a ogni turno, a resettare tutto e ricominciare la partita da capo.

So spiegarmelo solo con un insano culto del presente, con una sorda volontà di performance che comprende soltanto l’istante attuale: smaniosi di misurare il rendimento ma troppo impazienti per perseguirlo in modo coerente e curarne le condizioni, i governi italiani degli ultimi dieci anni non hanno fatto che distruggere la capacità dei loro cittadini di credere che il cambiamento sia possibile.

Perché si sta per fare un altro concorso? Forse solo per propaganda. O per punire, con un tocco brunettiano, gli ‘statali fannulloni’, per alimentare ‘la guerra civile cellulare’ tra precari, per piegare le professioni riflessive all’obbedienza alle ‘esigenze del lavoro’? Forse solo per togliersi di torno una mole di professionisti che non possono rientrare nel nuovo, grande (?) progetto affidato in delega al governo dalla legge 107 (creare corsi universitari ad indirizzo didattico, da cui i laureati escano pronti per farsi due/tre anni di lavoro quasi gratis chiamato ‘tirocinio’). Oppure: per sbaglio.

 

della vostra mistica inerzia

1

di vito m. bonito

(inediti)

1

loro parlano sulla mia testa

io seguivo le scarpe
entrare uscire
dal muro…

2

sono in grado
di applaudire
divorare il sole
la mente dei neonati

tutte le unghie

Essendo il dentro un fuori infinito #9

6

di Mariasole Ariot

Alessia cammina al rallentatore, ha un buco sulla schiena, tutto l’indicibile sofferto nella rotellina che l’accompagna. Gira a destra, si velocizza, gira a sinistra, si rallenta, la rotellina non gira mai, Alessia non cammina, muove piccoli passi come una tartaruga senza guscio.

Madre : della tartaruga che hanno mangiato i cani hai sepolto solo la corazza.

Ci ritroviamo nella zona scura del corridoio, Alessia mastica lentamente il pasto minore, si confonde con la lentezza dei tramonti che da quassù non servono a niente se non a mostrarci un cuore bollente nel cielo, un polmone agitato come noi lo vediamo : Alessia non ha gli occhi lenti : il mondo si muove velocemente, scosse telluriche sugli scogli, sulle mani, sulla testa. Alessia vede soli in movimento costante, soli che girano che vorticano impazziti come animali dalla testa troppo grande per essere afferrati.

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La messa a nudo è irrimediabile. La ragazza tartaruga si trascina lasciando la bava di lumaca fuoriuscirle dalla schiena

Hai una rotellina : girala

La rotellina è arruginita

Girala, fanne un cortocircuito

E così Alessia cortocircuita con il mondo, accompagnata dall’uomo zoppo che ha trovato nel campo aperto. Alessia ha messo radici come una pianta innaffiata per errore, dalla testa ai piedi è incistata nel pianto del prato, Alessia non vive, una vegetazione scomposta.

Alle due di notte ci ritroviamo nella zona dell’asimmetrie ordinate. Lei predica la notte, io le dipingo unghie nere sugli scogli : le sue mani sono rocce, diventano il tutto che non è dato scoprire, Alessia muove dieci passi e si ferma. Immobile, roccia come sono roccia io, nello stare accovacciata a due metri dal terreno. E la guardo.

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Cara S., il mio dolore è quantificabile con una manciata di terra caduta dalla luna. Ho un corpo al centro del corpo che continua a scalpitare, muove i primi passi poi demorde. Da fuori mi vedono ferma ma io dentro sto correndo, rischio un tribunale di incidenti, rischio di arrivare alla meta, ma la meta è sempre la metà di un’altra menzogna. Io non mi muovo, resto ferma nell’azzurro di questo cielo torbido quando c’è nebbia, aperto quando si spalanca. Cara S., mi cadono fiori nella bocca : ho le labbra accese aspettando un bacio. Dice una lingua per i benvenuti, dice una stretta, dice una rabbia. Qui nessuno la vede : sono invisibile, con l’elmo di Wagner sulla testa, una piccola presa in giro all’indecenza. A volte smetto di sforzare, mi siedo sulla grata e aspetto che qualcuno mi porti un caffé : fa male a dirsi, fa male a farsi, fa male il continuo rigirarmi lenta sul letto. Non servono i nastri di contenzione : sono già contenuta : il mio corpo è fermo.

Cara A., ti ho vista ridere la tua voce liberata, quando il tempo è fermo come il tuo corpo e noi sgattaioliamo tra le aiuole, nella sala dall’odore acre del giallo, ti ho vista chinarti per raccogliere una lingua, ti ho vista piangere come solo tu sai fare : in silenzio, con le lacrime all’indietro, acqua che entra dalle pupille e ricade sulla gola, ti ho vista baciare l’uomo azzurro, la promessa di un volto.
Qui, nella casa delle tre porte tendo l’orecchio per sentirti ancora cantare – una canzone metallica, vecchia di eroi e di nient’altro, una copia di un desiderio proibito, e mentre tendo l’orecchio si spezza, mi frantuma la testa in pezzi sconosciuti. Ho ancora una madre, le guardo gli occhi prima che cadano, e i miei, ferite sulle sue aperture. Ricordi il giorno dell’incontro? La rotellina girata a sinistra, il caffè scivolato per la rabbia sulla schiena?
Cara A., il dolore si lega ai nomi, ha un nome proprio : il tuo, il nostro. Scriviamoci come se non ci fosse il tempo per farlo.

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Mi hai raccontato la teoria del fratello sulla mela marcia. Tu – dice, sei la mela che si dilata per mangiucchiare le altre del cesto. Il padre è caduto, la madre è caduta, il fratello è uscito dalla cesta.
Sulla scia limpida di vecchiaia noi parliamo lingue dei disperati, armiamo le cellule più deboli per farne una spina : abbiamo gabbie nella retina e gabbie al centro della testa. Di tutto quello che possiamo dirci resta una figura cava, che torna come torna la dimenticanza. Tutto si accosta al divenire, io mi accosto, ti aspetto. Non arriverai mai : ti aspetto comunque. Arriverai comunque.

Da “Il Martirio Dei Poeti”

3

di Andrea Bassani

 

Luci nel buio

Le luci dei lampioni si sono spente.
Nella penombra fiorentina prosegue
la parata delle anime sognanti.

Io vedo la tristezza dove tu non vedi:
dietro le maschere, sotto i fondotinta
i volti non splendono.
Vedo paure, incertezze, colpi di tosse,
il suono ansioso dei tacchi
che pestano rimorsi
e il sangue innocente dei ciottoli
che li assorbono.

Vedo ragazzi simili a negozi,
illuminati a giorno da decine di faretti
ma chiusi a chiave,
vuoti di voci e di gente.
E vedo la malinconia,
goccia a goccia dai tetti
scendere giù come vernice,
fino a noi che ne siamo dipinti.

Nell’aria scie chimiche di profumi,
stravaganti vanità, inutili suppellettili,
borse, cappelli, cinture di coccodrillo,
smalti, rossetti, orologi preziosi
e lancette stanche di gridare: “è tempo!”.

Un niente cibernetico è divenuto cupola regnante,
un substrato di cielo insonorizzante.

Una puttana si avvicina,
è cosciente.

Le puttane sanno tutto del buio
e nel buio vedono tutto.

Le puttane sono molto sagge:
sono le sole rimaste sincere
su queste strade di menzogna.

 

Invecchiare

Oggi comprendo cosa sia invecchiare,
davanti al desiderio di un bacio che non avrò,
per i tuoi occhi giovani
davanti ai quali sono trasparente.

La società ti ha insegnato
che sono troppo vecchio per te.
Pertanto apprendo cosa mi aspetta:
oggi comprendo cosa sia invecchiare.
E tremo come l’ombra al calar del lume.

Non ho bisogno di una barba bianca per saperlo,
non più mi occorre un bastone
né devo attendere una dentiera.
Adesso mi è chiaro:
invecchiare è avere freddo
in un caldo pomeriggio d’estate.

 

Ishaan

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce ad occidente.
Vorrebbe perdersi e dimenticare
l’odore di morte, l’oriente,
la bocca ferita d’infante affamata,
gli odori speziati
che saziano soltanto l’ambiente.

Ishaan ha smarrito la strada.
Sotto cortine di lumi infernali
e costumi di scena,
non più corone né mandala,
non più mantra.
Ishaan non indossa più seta,
più giada né ambra.
E il suo giovane cuore lo prega,
lo prega di tornare,
ma Ishaan è cambiato
e non si volta.

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce ad occidente,
e l’anima sua mesta reclama,
silenziosa come i morti del Gange,
e lo spirito esangue rimpiange la casa
costruita sulle rocce di una madre e di un padre.

Eppure Ishaan la sente,
sente che la sua patria chiama.
Ma non vuol più ricordare
né il suo collo risudare
l’aroma del sandalo,
della curcuma, del cumino,
del coriandolo.

Ishaan ha smarrito la strada:
si cerca in un orgasmo
come un perfetto occidentale.
E negli occhi ha la rovina di lontane ricchezze,
e dall’anima scordata
esule si disperde
abbandonato,
tra lapilli d’oblio e un messia dimenticato,
nel suo tanto agognato fumo grigio di Londra.

Benedico con la mano la sua fronte
nonostante il mio peccato,
ma Ishaan non ritorna felice,
non sorride.

Ha perduto il miracolo dal sangue:
non ricorda gli Dei dai volti variopinti;
non ricorda il colore dei venti
né la mano con cui sua madre
offriva i fiori agli altari dei templi.

Ishaan ha smarrito la strada.
Dall’India è partito e va veloce
ad Occidente.

 

Un’altra lotta

Se incassare i colpi è combattere
allora stanotte ho lottato.
Mi sono alzato senza forze dal divano
e sono caduto al tappeto.

Non sentivo dolore.
Con la testa avevo solo schivato lo spigolo
e la morte non dava segni di vita.
Volevo arrivare al bagno
ma era troppo distante. Mi scappava forte la pipì.
Sono strisciato fino alla cucina.
Mi sono sollevato
diritto su tutte e due le gambe,
e le gambe tremavano come pilastri di un grattacielo
che sta per crollare su se stesso.
Ho pisciato nel lavabo
tra le tazzine di caffè
sporche del giorno prima.
Poi sono svenuto,
l’occhio appoggiato sul pavimento,
quasi morto e quasi vivo.
Ho atteso l’alba, ammutolito,
senza chiedere aiuto.
Sapevo che il mio “non so chi”
mi avrebbe salvato.

 

Paroxetina

Vogliono che assuma antidepressivi:
Paroxetina per l’esattezza.
Eppure non sono depresso,
sono un uomo deluso.

La società è malata e vogliono curare me.
Tuttavia ho rifiutato anche oggi la compressa,
non per orgoglio né per vergogna,
ma perché voglio essere denunciato.

Se accettassi di passare per depresso
la società ne uscirebbe pulita.
Debbo resistere a professionisti, parenti,
amici, consiglieri, servizi segreti.
Tutti vogliano curare me
che sto male per contrasto,
ammalato di lucidità
in un mondo di pazzi.

 

Supermarket

Non ci sono prodotti interessanti
al di là di un collutorio al pompelmo
antibatterico e fluorizzante.

Le persone da queste parti
si muovono a scatti
con i carrelli pieni di rifiuti
e l’isteria nelle orbite.

Mi congelo davanti all’obitorio delle carni.
Nessuna differenza
tra le bistecche umane in piedi
e i filetti di bovino stesi nei freezer.

 

Il martirio dei poeti

I poeti non scelgono,
lasciano che sia.
La poesia l’accettano.
E si ritrovano ad ardere
una manciata di parole
in un falò fantasioso
che li riscaldi un poco.
Perché i poeti sono quelli
che tremano il gelo
del ghiaccio sociale.

Martiri della pazienza,
strattonati, trascinati, offesi,
i poeti hanno breve vita
e muoiono a lungo.

 

Parlami del presente

Parlami del presente se ne sei capace.
Questo presente che è già tutto passato
e già tutto futuro,
questa frazione di secondo contesa
fra i secoli di ieri e quelli di domani,
questo granello d’illusione, impalpabile,
conficcato come punto di confine
tra le due ere infinite del tempo.

Tu mi dici ti amo e già me l’hai detto:
quando lo scrivo è ricordo.

Ma sarà o è già stato?
“Prevedere il futuro è leggere il passato”,
ti risponde il chiaroveggente.

Adesso è passato. Domani è passato.
Si vive nel passato di un passato già passato.

E ora parlami del presente se ne sei capace.

i poeti appartati: Ernesto Rascato

3

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Poesie

di

Ernesto Rascato
Rho dicembre 1969.

Papà tornò a casa dicendo:
“Marì….hanno arrestato un mio collega
di Porta Garibaldi…
per la bomba dell’altro giorno….”

A scuola giravano
giornali e notizie.

Un profondo rancore
serbato per anni
era esploso
come lucida follia.

Come con  l’Arno a Firenze
qualche anno prima
una piena
pareva aver raggiunto
e sommerso Milano.

#
Il padroncino.

Cocciuto li difendeva i suoi neri
dai giovani plebei
disoccupati in sosta
alla sala giochi.

Lavoravano
eccome se lavoravano
dal chiaro alle nove di sera.

Lo facessero loro
in quegli umidi stanzoni
dell’ex-fabbrichetta
in quel vicolo morto.

Mezzora persa per mangiare
un tozzo di pane
senza  carne di maiale

La sua famiglia
stretta dalla crisi
alzava ancora il naso
a passeggio la domenica
che gli esattori riposavano.

Santi quei neri uomini
senza carte
che faticavano svelti e muti.

Clandestini
in quel buco nero
che tutti conoscevano
l’avrebbero portato fuori
dal tunnel.

Si sarebbero sposati
così anche i nipoti
che grandi diventavano.

 

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#
Piccola città

Tra la via Appia
e la via Campana
Aversa non è un’isola
di cento chiese.

Amabile all’alba.

Città tarda,
immobile e indolente,
sorda e chiacchiericcia
che sconta pene antiche.

Città invisibile di Calvino,
città dei silenzi,
città distratta
città alla deriva di Tsirkas,
città dei cani di Llosa
e di sciacalli,
nocchiera e città cocchiera.

Bottegaia città dei pazzi.

Città in debito e d’anarchici.

Infedele e losca,
città in ginocchio.

Città rasa al suolo e vessata.

Città nubile e umiliata
e dal coito interrotto.

Città dal ventre molle
e aggregato di pietre e malta,
città sconnessa
e di fossi malcelati.

Dalle mille bocche scucite,
ostinata e ostentata e omissiva,
con afflati minimi.

Città degli odori.
ti salvi nei vicoli
e negli ingombri cortili.
Città di pirati e Pilati.

Città di amori sotto gli archi dei portoni.

Città di veleni, di salotti e logge,
ma anche di riti di passaggio.

Città medusa
evanescente e urticante,
città degli addii.

Buia città di tufo
e stucchi cadenti.

Città di preti,
nepotisti  e pastori.

Città agra
e città a scacchiera
dove folli
a lato
di roghi di libri
accanto  a falò
d’inizio d’anno,
vi cercano,
resistenti,
la speranza,
sotto i gridii beffardi
delle taccole
nei giardini
ormai
spariti

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#
Agro liternese.
 
L’ostia arancio
affoga
nel nero
degli stagni
dei Mazzoni,
agro di veleni
e di faide
e malavita.

Le nevi
del Molise
scrutano
i pianori
da lontano.

Mani diacce
strizzano
mammelle
per latte grasso
di formaggi molli.

Visi severi
seguono
la caccia perpetua
di folaghe
e mallardi
e rospi
e serpi
mirando
le alte vigne
dell’Asprinio
acre e povero
come le contrade
di Terra di Lavoro.

I pioppi
disperati
in file
a tendersi
braccia
e filari
l’un l’altro
complici
d’azioni estreme
dall’inizio
dei mondi..

Questa
è la mia terra
dove
il diavolo lasciò
i figli
a disputarsi
il pane
e le ricchezze.

Luogo
dove da tempo
parto
senza valigie
per viaggiare
leggero e veloce
per recuperare
il tempo perso
nelle guerre
piccole.

Ostia rossa
mangiata
dai confini
dell’orizzonte,
terra cruda
e spostata.

Persa
nelle pozze
del Volturno
scavate dalle ere
rifugio di cicogne.

#

Gerani.

E i gerani sui balconi
stentano a crescere
nella striscia
di spiaggia di Gaza,
sul terrazzo
dell’edificio occupato
nel cuore di Berlino,
nelle pozze d’acqua oleose
di Bagdad City
dove l’alba
tossica d’uranio
riapre pagine
di ricordi
di quando si sciamava
ai lati dei carrugi,
delle calli,
nei quartieri a ringhiera,
la Sanità,
le Vallette
e la Vucciria,
case nostre,
nostra gente
a cui denunciavamo
le guerre
senza cedere
i nostri sogni
a nessuno.

 

Le immagini sono tratte dalla collezione La vite maritata al pioppo  di Salvatore Di Vilio

Pedro Costa, “Beckett del cinema”, a Bologna

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Pedro Costa è uno dei più acclamati cineasti indipendenti della scena mondiale. Il suo cinema indaga un aspetto occultato nella storia del Portogallo, legato in particolare alla popolazione emigrata da Capo Verde.
L’accuratezza del suo metodo di lavoro con gli attori-non attori è rinomata, così come la sua padronanza dei mezzi espressivi. Tra i primi a comprendere le potenzialità del “digitale”, egli è oggi il punto di riferimento per nuove generazioni di cineasti. I suoi lavori vengono proiettati in tutto il mondo ed esposti nei musei.

Dal 23 al 25 aprile l’“Atelier per le arti e il cinema di ricerca” di Nomadica, centro autonomo di produzione e diffusione, ospita un seminario di tre giorni con il cineasta portoghese.

Didascalie: Lucilla Carucci

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locandina

 

 

Lucilla Carucci

Tessuto su tela | Appunti di viaggio Tissu sur toile | Notes de voyage —
Exposition

15 avril – 14 mai 2016

Un viaggio nella memoria, fatto di impressioni, colori, luci che costruiscono una strana poesia dei luoghi della vita attraverso una tecnica che nasce tanto tempo fa: «all’inizio degli anni ’70 scoprii a Prato i fondi dove i cenciaioli separavano le fodere dai capi di vestiario che arrivavano in balle da altri paesi. Già anni fa questo tipo di lavorazione venne spostato in nord Africa, e ora chissà… Rimasi affascinata dalla morbidezza, dai colori e dal fatto che era un materiale che giocava con la luce. Divenne il mio preferito.»

Un voyage dans la mémoire fait d’impressions, couleurs, lumières qui forment une étrange poésie des lieux de la vie par le biais d’une technique qui a une origine lointaine : « aux débuts des années ’70 j’ai découvert à Prato les entrepôts où les chiffonniers séparaient les doublures des habits qui arrivaient emballés en provenance d’autres pays. Y il a déjà plusieurs années que ce type de travail a été déplacé en Afrique du nord et à présent qui sait où… Je suis restée sous le charme de la souplesse, des couleurs, d’une matière qui jouait avec la lumière. Elle est devenue ma préférée. »

 

 

Tutti i ragni 5 – Ragni sulla tela

1

di Vanni Santoni

5spider_2126798bDurante i primi anni di università mi trovo al centro di un’attività sessuale che, paragonata alle secche degli anni del liceo, mi appare considerevole al punto di dare luogo a fenomeni di maldestra vanità. Uno di essi è prendere il sole in giardino – si capisce che tali gesti sono resi possibili anche dalla disponibilità di tempo libero offerta dalla condizione di studente universitario, condizione che non molto tempo dopo si sarebbe tramutata in quella di cittadino che parte militare.

Fatto sta che passo molte domeniche d’estate in mutande, in giardino – o meglio nell’orto, essendoci solo un melo, due piante di zucca e un cespo di rosmarino. È un periodo felice nel quale l’Italia sta scoprendo i fumetti giapponesi, e quelli americani stanno vivendo una piccola, nuova, età dell’oro, e nel quale è dunque facile tornare dall’edicola con un paio di albi nuovi ogni giorno. Mi sorprende vedere quanto poco nuoccia alla mia attività sessuale coltivare passioni quali i giochi di ruolo e i fumetti, e del resto neanche potrei nasconderle dal momento che la camera dove porto le ragazze è un deposito di albi e dadi a venti facce, con quadri alle pareti raffiguranti Wolverine, Lobo, Slaine e alcune guerriere elfiche che mi sono fatto fare alla mostra di Lucca da un disegnatore della TSR.

Oltre dunque alla lettura di Slam Dunk, Sandman, JoJo, Hellblazer, Ken il guerriero, Savage Dragon, Dragon Ball, Marshall Law, Ushio e Tora, Swamp Thing, Dr.Slump & Arale, Spawn, Ranma 1/2, Preacher, Berserk, Judge Dredd, Maison Ikkoku, in quei vani pomeriggi al sole il mio passatempo principale è la pesca alle formiche. Allungo una mano dalla sdraio, ne pesco una da terra e la scaglio su una tela, in mezzo alla quale regna un ragno crociato, il classico ragno da giardino. Su tre formiche che lancio, una manca la tela, una la fora e una la prende nel modo giusto, ci si impiglia, sgambetta, la fa ondeggiare finché il ragno ha un primo scatto, uno iato, e poi parte, la aggancia, le piazza un paio di morsi, la ferma tra le zampette davanti e la fa vorticare come un fuso mentre le vomita addosso un cavo brillante, finché, terminato il bozzolo, se lo porta nell’angolo che fa da stiva. Una volta ho anche la fortuna di veder finire un’ape sulla tela, e il ragno è molto più cauto ma alla fine si imbozzola pure lei.

La tela nobilita il ragno. Trasforma il predatore dell’oscurità in un ingegnere cristallino, la cui impresa estetica e pitagorica legittima la crudeltà della trappola. Un giorno alla TV sento di una colonia di ragni di specie diverse, in un luogo degli Stati Uniti chiamato Tawakoni, che hanno realizzato una tela comune per migliorare le prestazioni di caccia di tutti. La tela conferisce qualità sociali al ragno, addirittura. Nel mio vecchio libro, che ancora a volte mi scopro a sfogliare, si parla tra gli altri del golden orb spider, un ragno australiano la cui tela è tanto solida da catturare anche gli uccelli. Tale mostro mi è sempre apparso come una creatura di grande nobiltà.

Il ragno sulla tela non turba, rilassa. Il suo campo d’azione è circoscritto, ed esclude l’osservatore. Definire le potenzialità del ragno non è più compito deputato alla fantasia, col suo continuo dar vita a salti, morsi, discese lungo la schiena, impigliamenti tra i capelli, ma è qualcosa di effettuabile per via sperimentale. Il ragno sta lì in mezzo e imbozzola quello che arriva sulla tela. Altro non fa: è scientifico.

L’estate successiva, fresco di congedo e del tutto privo di idee su come debba essere il mio futuro, mi trovo in una città portuale del nord Europa, nella cui periferia si è svolta una festa techno. È mattina inoltrata e stiamo aspettando un autobus. Neanche sappiamo se la fermata, posta lì, in mezzo a una sterminata, piatta zona industriale, sia attiva o meno. Una delle ragazze che è con me, un’olandese di Eindhoven scossa da una costante frenesia, piazza le mani sul tetto della fermata e con uno strappo si porta sopra. Con la mano sulla fronte scruta l’orizzonte. Le vado dietro, ma appena comincio a tirarmi su, mentre contraggo le braccia e i dorsali e ruoto il bacino per sedermi accanto a lei, noto un tozzo cono di tela che ospita un ragno nero delle dimensioni di una moneta; ne noto due, tre, dieci. Mentre mi tiro su realizzo che quella fermata solitaria è infestata da una moltitudine di ragni, e che esistono delle persone, come la mia amica lì sopra, per le quali la vista di un ragno, o di una moltitudine, è un fatto irrilevante, come per me vedere un brulicare di formiche, e realizzo anche quanta della mia attenzione sia in ogni momento dedicata a percepire ragni, ma ormai è troppo tardi per fermare un movimento che è un singolo strappo: mi ritrovo seduto sul tetto infestato con le gambe penzoloni, e mentre l’olandese mi abbraccia mi rendo conto che nell’angolo formato tra la barra squadrata di metallo alla quale mi sono aggrappato e dove ho posato il culo, e la lastra di plexiglas che fa da tetto, pure ci sono decine di quelle tane di tela, ognuna un ragno (alcune due). Se non altro hanno la tela, penso, ma sono più tane che tele da caccia. Mi sollevo in piedi sulla barra. Il tetto ondeggia. La mia amica si gira una sigaretta. L’altra nostra amica, da sotto – possibile che lei pure non abbia visto, non veda i ragni? – dice che se faccio così farò crollare tutto. La scusa è buona. Mi abbasso e mi appendo, gli occhi chiusi, a un segmento di barra privo di tele; da lì mi calo giù. La fermata ondeggia, un paio di ragni cadono a terra, come in King of Dragons e poi zampettano veloci verso le pareti della fermata e da lì di nuovo sopra, mentre con la scusa del sudore mi tolgo la maglia e controllo la presenza di bestie su per la mia schiena e l’olandese in coffa grida l’arrivo di un autobus, anzi no, grida ancora, ha scritto sopra deposito.

[V – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

Quarto capitolo

A pietre rovesciate

1

pietrerovedi Francesca Matteoni

“Tu devi avere paura del sole, diceva, del vento e della pietra. Del sole che acceca, del vento che spinge, della pietra che uccide”, mette in guardia nonna Dora, le cui storie si mescolano a quelle del nipote dentro A pietre rovesciate, singolare, toccante esordio letterario di Mauro Tetti. Ovvero, parafrasando l’ammonimento, è la vita con le sue forze primordiali che farà sempre di te quel che vuole. Devi avere paura di ciò che ti muove, del sole che riscalda, del respiro che è come un vento, della pietra che sostiene – guardali da un altro punto di vista e queste sono le armi micidiali della fine. Cosa fare allora? Nulla, forse, aspettare. E mentre si aspetta, favoleggiare.

Nel libro si viene tessendo una fiaba disperata, fatta di regine che diventano pietra, principesse tristi che si seccano al sole, uomini dalla forza erculea che nascondono la propria viltà, donne tragiche che preferiscono il fondo del pozzo a un destino senza amore. E come le autentiche fiabe questa non è che il potentissimo specchio del vero: c’è la Sardegna dall’altra parte,

aspra e sospesa tra la stagione arcaica dei nuraghi e un futuro apocalittico dove il selvatico riaffiora nelle rovine industriali, montagne di elettrodomestici, neon e pelo di animali. La città è Nur,“mucchio di pietre”, ma anche, quale nome proprio di origine araba, “luce” – la luce, mi piace pensare, che il racconto getta sulla fissità, la durezza della pietra. La storia di Nur ha inizio attraverso una genesi mitica e orale, è un libro non scritto della memoria, fatto dalle “labbra degli anziani” di chi ricorda com’era il tempo impastato alla terra e dunque lo evoca. Eppure quanto viene evocato si fa mortifero, non trova altro scampo se non proprio nell’essere detto da chi ha cercato ovunque, ribaltando le pietre, una via d’uscita, un senso diverso agli eventi e ai sembianti. Questa, infatti, è una fiaba compromessa dalla stortura umana. C’è l’innamorata, Giana, ragazzina dal ventre gonfio di birra, colei che è morta e non torna e tutto il viaggio dentro le pagine è un viaggio di fallimento e redenzione per poterla afferrare. Il protagonista si sottopone così  alle prove impossibili che nelle storie risvegliano le principesse o guariscono i re e le regine gravemente ammalati, tuttavia qui siamo a Nur, in una città di orchi-adulti, orchi-uomini che non svaniscono; il tesoro non può essere trovato, anche se è bello sapere che resta segreto da qualche parte; le ombre non saranno mai catturate e portate in dono. Giana, “quella che è morta”, chiede e si fa beffe del narratore-amante, Giana forse sa già prima di lui che il futuro precipita nel nulla e allora meglio viaggiare all’indietro. Giana che è jana, fata e strega del folklore sardo, si fa ogni creatura femminile delle storie di nonna Dora, si fa Lucia Rabbiosa degli Animali, pazza del villaggio dagli occhi brutalmente cavati, che ha il potere di curare, ma non quello di essere compresa dove vige la legge del coltello e del sopruso. Le fate non si salvano, anche se maledicono; muoiono e non operano magie, o, si capisce con qualche strano organo alchemico dentro di noi, la magia viene compiendosi proprio mentre si ascolta, si riprende il filo di una voce e lo si lega a un’altra, mentre si lascia che  il mondo sia feroce e corra verso la distruzione. È la magia dell’orlo ad animare il libro, a far brillare quei due opposti primitivi che rendono all’umanità tutto il suo mistero: la violenza e il sogno, il male che si impone e devasta e la sua unica cura – la grande, personale, collettiva leggenda dell’amore e della morte a cui non siamo sopravvissuti.

les nouveaux réalistes: Anna Giuba

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Untitled n.1

di

Anna Giuba

– Guarda che c’è ancora roba tua, nel mio armadio. – ha detto Franco.
– Sto impazzendo. È doloroso. Smettila di dirmi cosa devo fare. Se anche ci metto un giorno in più, non ha nessuna importanza. Nessuno mi corre dietro. – ho risposto.

Infilavo le cose negli scatoloni quasi a casaccio. Maglioni e documenti e carte e cappotti leggeri e pesanti. Negli armadi e nei cassetti c’era un gran casino. C’era sempre stato. Separare gli oggetti miei e di Franco era come separare noi, una lacerazione intima e profonda. Uno strappo lento, che durava.

Era finita senza che quasi ce ne rendessimo conto. L’anima non vibrava più negli sguardi. Non ci aspettavamo a sera con il desiderio di abbracciarci. Non ci riconoscevamo. Non facevamo più l’amore. Questa era la cosa che scottava. Franco la sera spegneva la televisione con l’aria annoiata e s’infilava sotto le coperte, la schiena larga rivolta verso di me. – Notte. – diceva spegnendo la luce. Tutto qui. Due fili di rame dove l’elettricità aveva smesso di scorrere.

Io respiravo la mia solitudine nel buio, mi chiedevo perché.
Facevo progetti per il giorno dopo, nel pensiero gli dicevo – Ti sorriderò di più. – Sarei andata ad aspettarlo al lavoro, fuori dell’ufficio. Saremmo andati a mangiare fuori. Così, per ritrovare il piacere di essere insieme, di essere noi. Poi non succedeva niente. Le giornate colavano come la pioggia d’autunno sui vetri della cucina.
Avevo passato intere giornate a fumare e a guardare fuori della finestra. Non avevo neppure voglia di cucinare. Ogni tanto bevevo un whisky anche nel pomeriggio, lo stordimento lieve dava una tregua alla tristezza. Ci mancava anche il tempo, la pioggia sottile durava da giorni. Sembrava sottolineare tutto in una dissolvenza acquosa.
Prima, durante l’estate, non me n’ero accorta. Io e Franco eravamo troppo impegnati a urlarci addosso per sentire i loro gridi.

Vivevamo di fronte ad un convitto di suore. Era un palazzo austero, con la facciata sempre pulita e le imposte sempre chiuse. Solo ogni tanto la donna delle pulizie spalancava una delle finestre e si intravedeva un interno asettico. Pochi pensili e i muri bianchi. Sul tetto del convitto c’erano tre grandi camini e un abbaino enorme. Un pomeriggio li avevo visti. Stavo bevendo il whisky. Lo sguardo si era posato su di loro come un respiro profondo. Erano due gabbiani.

La nostra non era una città di mare, forse venivano dal fiume. Non era lontano. Erano grandi e bianchi e bellissimi. La femmina era un po’ più piccola, ma aveva lo stesso un’apertura alare sconcertante. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle piume azzurrate. I gabbiani sembravano non far caso alla pioggia.

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Garrivano un urlo rauco e stridulo, il maschio si era alzato in un volo circolare ampio e suadente, come volesse proteggere la femmina in una spirale aerea.
Ho appoggiato le braccia al davanzale. Sicuramente avevano fatto il nido, l’atteggiamento della femmina accucciata era di possesso.

Guardavo i gabbiani e i gabbiani si guardavano intorno. Ogni tanto spalancavano il becco e lasciavano uscire il loro pianto roco.
Poi ho sentito la chiave nella toppa, Franco che tornava.
– Ci dai di nuovo dentro? – mi ha chiesto cinico. Non avevo fatto in tempo a nascondere la bottiglia.
Avrei voluto dirgli tante cose. Che non bevevo per dimenticare o cazzate simili, bevevo per ricordarmi chi era lui. Per respirare. Per ricominciare a dipingere.

–  Non li abbiamo mai visti. – ho glissato facendo finta di non aver sentito

– Guarda, sono magnifici… – ho detto indicando con un movimento del mento gli uccelli davanti a noi.

–  Ah… sì, hai ragione. Magnifici. – ha detto lui con lo sguardo fisso oltre la finestra. Poi si è tolto la giacca umida di pioggia ed è andato ad accendere il computer. Era un ottimo modo per non parlare.

Abbiamo deciso di separarci un mattino di novembre. Era sabato. Una di quelle giornate limpidissime e gelide che seguono Ognissanti.
C’è stata la solita litigata. Ma è stata una litigata stanca, senza passione persino nell’odio. Non ci siamo detti nessuna cattiveria. Eravamo già troppo feriti da come eravamo. – Silvia, basta. – ha detto Franco ad un certo punto. Era seduto sul letto e aveva la testa tra le mani.

– Sì, basta. – ho detto io.
Non c’era nient’altro. Le parole non servivano più a niente, erano suoni puri sputati fuori dai denti. Nel sole rancido che pioveva dalla finestra eravamo due pugili che si abbracciano in attesa della campana.
Ho trovato una stanza da un’amica. Elena mi aveva detto molte volte di andare da lei, quando sentiva che non ce la facevo più. Avevo accettato.

– Franco, mi trasferisco da Elena. – ho detto la domenica mattina.

Franco non ha risposto. Si è limitato a continuare a digitare sulla tastiera e a fissare il monitor come se non avessi detto nulla. Ma dopo qualche minuto si è alzato dalla sedia e mi è venuto incontro. Le braccia gli pendevano lungo i fianchi come maniche vuote.

–  È dura. – ha detto in un soffio.

–  Anche per me. – ho detto io senza piangere.

–  Prenditi tutto il tempo che vuoi… – ha aggiunto per essere gentile.

–  Non ci vorrà tanto tempo. Anche se quattro anni vogliono dire un sacco di

cose… voglio dire di oggetti. Questa casa è piena di roba anche mia.

–  Beh, puoi cominciare a prendere lo stretto necessario, che so, i colori, le

ultime tele, e poi tornare e prendere il resto poco per volta.

2

– Nonò. – ho detto terrorizzata – Non voglio tornare. Se torno ho paura di non andare più. –

L’ho sentito che avrebbe voluto abbracciarmi. Baciarmi. Ci attaccavamo a quel filo di tenerezza rimasto, quello degli oggetti. Loro conservavano la vita che mancava a noi giorno per giorno. L’intreccio della lana dei maglioni, la carta un po’ gialla dei documenti più vecchi. Le nostre fotografie. I quadri che avevo dipinto di notte e che al mattino mostravo a Franco con orgoglio.

La vita era lì, nel respiro denso e intimo delle cose. Sarebbe bastato così poco. Un gesto. Una vibrazione. L’illusione del silenzio di un bacio. E poi niente, il nulla avrebbe ingoiato di nuovo tutto in altri silenzi, in un altro vuoto.
Ho cominciato ad impacchettare con la carta di giornale alla luce del sole del primo pomeriggio.

Ad un tratto i gabbiani si sono posati sul bordo dell’abbaino, torcendo il collo da una parte e dall’altra. Avrei giurato che mi fissavano. Stavano in silenzio, forse godevano del tepore del mezzogiorno quasi d’inverno e non avevano nessun bisogno di stridere. Il sole li investiva in pieno, faceva quasi scintillare le piume. Sembravano felici.

Sono rimasta a riempire scatole tutto il pomeriggio, a inguainare le tele. Spesso dovevo staccarle dal muro, e lasciavano un’ombra bianca sotto. Fino a quando non ha fatto buio, abbastanza presto. Verso le sei mi sono sciolta la coda di cavallo e lavata mani e faccia. Cristo, c’era anche da impacchettare la roba nel bagno.

Con il tempo saltavano fuori cose impreviste, un cassetto dimenticato, o uno scaffale. Un quadro rimasto lì a marinare dietro un mobile, come dicevo io. Per pensarlo prima di finirlo.
Mi ero scordata completamente dei gabbiani. Ormai era buio fatto.

Abbiamo passato la notte abbracciati, io e Franco. Senza fare niente, come fratello e sorella. Forse un po’ lo eravamo. Conoscevamo le abitudini intime, i gesti consueti. Non abbiamo avuto bisogno di parlare neppure per l’ultima tenerezza.

Al mattino, mentre continuavo a lavorare, ho cercato quasi involontariamente i gabbiani sull’abbaino. Non c’erano.
Tre uomini robusti trafficavano con corde e apparecchi strani. Stavano distruggendo il nido.

Lavoravamo in silenzio, io ero quasi rabbiosa nel ficcare le cose nelle scatole.
Franco era andato a lavorare, alla mia tristezza non si aggiungeva niente, era un sentimento che stagnava. Ma ero troppo impegnata con la carta di giornale e lo scotch per accorgermi di qualsiasi cosa.
Gli uomini facevano un rumore sordo e continuo. Non ci hanno messo molto. È bastata una mezz’ora per cancellare il lavoro dei due becchi. Probabilmente era un lavoro durato tempo.
Mi sono sentita improvvisamente sola. Avevo anche pensato di dare un nome ai gabbiani che mi avevano tenuto compagnia nei pomeriggi vuoti di poco tempo prima. Adesso era inutile pensare ai nomi.

3

Mi sono seduta in terra sul parquet, in mezzo alle scatole e ho acceso una sigaretta. Franco non voleva che fumassi, ma per quella volta avrebbe tollerato un’eccezione. Gli occhi andavano dalla brace al tetto di fronte.
Il sole della domenica aveva lasciato posto ad un cielo coperto e opaco. Nella stanza c’era troppo silenzio. Ho guardato l’orologio, erano appena le undici e mezza. Ho spostato dietro l’orecchio una ciocca di capelli che mi pioveva sulla faccia. Poi ho guardato la stanza con uno sguardo circolare, era quasi irriconoscibile.

Ho guardato il letto con odio amaro.
Avevo ancora tutta la giornata a disposizione, ma non avevo voglia di continuare. Fino a poco prima avevo pensato che se avessi fatto in fretta, molto in fretta, non avrei sentito così male. Non era vero. Mi sarei portata dentro quella fitta vecchia e sempre nuova per chissà quanto tempo.
Ho pensato ad Elena e mi sono sentita meglio. Non avrei sopportato una solitudine accecante. Anche se era diventato un’ombra, Franco era stato il mio uomo. Andava e tornava e apriva la porta di casa. C’era. C’era stato.
Una volta avevamo pensato di fare un figlio. Ci avevamo anche provato. Che assurdità.
Quel mattino Franco mi ha detto, prima di andare a lavorare – Non rimproverarti niente. Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Succede. –
Non ho potuto rassegnarmi a qualcosa che non aveva un nome. Avrei preferito che si fosse trovato un’altra. Così era una cosa mozza. Senza senso. Forse ci stavamo ancora troppo dentro per poter capire. Forse il tempo. Sì, doveva essere così.

– In questo momento, in questa città, ci deve essere un’altra ragazza che sta pensando le stesse cose. – mi sono detta, e ho spento la sigaretta in un piattino. Era un pensiero consolatorio, ma non è servito a molto.

Ho ricominciato a riempire le scatole dimenticandomi di mangiare. Non avevo nessuna voglia di vedere l’interno del frigorifero.

Verso le tre avevo finito. Sembrava così. Adesso si trattava di iniziare a portare la roba in macchina, ma per questo avrei dovuto aspettare Franco. Ho deciso di dormire un po’, avevo tutto il tempo.
Ho dormito e ho sognato un sogno né bello né brutto. Ero in una chiesa ma non sapevo perché ci stavo.

Non era un matrimonio. Non era un funerale. Eppure la chiesa era piena di gente. Io ero molto più giovane e avevo una collana che mi aveva regalato Franco tempo prima. Credo proprio all’inizio. Era una collana con un ciondolo a forma di mezzaluna.

Mi sono svegliata sudata e ho maledetto il riscaldamento centralizzato. Possibile che a novembre dovesse esserci un caldo da agosto. Ho guardato l’orologio, avevo dormito un sacco. Erano quasi le quattro e mezza.
Mi sono preparata un tè perché il whisky era finito. Poi ho sentito la chiave nella toppa. – Ciao, sono qui. – ha detto Franco con voce più calda del solito.

4

–  Ho finito… – ho detto io inzuppando un biscotto.

–  Ah. – ha fatto lui – Lasciami riposare un attimo e carichiamo, ok? –

–  Ok. – ho detto di malavoglia.

Sono andata nella stanza da letto mentre Franco rimaneva in soggiorno a versarsi il tè rimasto. Faceva un caldo soffocante. In più, il calore del tè, mi sono detta in un soffio.
Mi sono avvicinata alla finestra e l’ho aperta per riuscire a respirare.

Un crepuscolo grigio si spalmava nel cielo viola. I tetti intorno erano quasi scuri. Una finestra del convitto delle suore si era illuminata all’improvviso.
Ho sentito un grido rauco, poi li ho intravisti nell’oscurità incipiente.
La femmina era accoccolata sul camino più alto. Il maschio l’ha raggiunta chiudendo le ali amplissime. Ormai era quasi buio, ma ho puntato gli occhi per vederlo meglio. Adesso ero sicura.

Aveva un rametto secco nel becco.

Leggere la terra (autismi della terra # 3)

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di Giacomo Sartori

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Per capire meglio la terra, o forse  meglio nell’illusione di farlo, mi capita di leggere articoli scientifici che trattano di questo o quell’aspetto della matrice chiamata da moltissimi secoli così, ma che nei resoconti specialistici diventa più tecnologico suolo. Spesso sono questioni molto particolari, perché al giorno d’oggi le ricerche sono estremamente specializzate: il tema può essere per esempio il materiale genetico che rivela la presenza del determinato gruppo di batteri in un certo punto di una data foresta, o anche certe molecole di sostanza organica in un campo di barbabietole da zucchero della data località. Io non sono uno scienziato, ma passo pur sempre molto tempo a leggere scritti del genere, che sono destinati piuttosto agli apostoli delle varie discipline.

Per me la lettura è per definizione un piacere, il piacere anzi più sicuro e facile, e più persistente, meno precario (come è noto il problema dei piaceri è la loro fugacità). A leggere questi resoconti tutti con lo stesso ineluttabile scheletro – introduzione, metodi, risultati, conclusioni – non provo invece alcun godimento. Li trovo quasi sempre molto noiosi, davvero tediosissimi, però cerco di arrivare in fondo, o insomma di scorrere le parti che mi sembrano più importanti. Resisto come posso alle seduzioni del romanzo scosciato con voluttuosa noncuranza sul bracciolo della poltrona, che cerca di attirarmi nei suoi vortici di futilità, mi aggrappo a quelle righe austere.

Il nuovo latino in uso nella liturgia scientifica, l’inglese, è sempre legnoso, il più possibile impersonale, e soprattutto assertivo, sentenzioso, cattedratico, privo di sfumature, non parliamo poi di umorismo. I serrati paragrafi sono interrotti da incessanti parentesi con i riferimenti bibliografici, nella canonica forma del cognome e dell’anno (e quel salmodico “et al.” se gli artefici sono più di uno). Tutti questi rimandi sembrano puntelli che sostengono una costruzione non ancora finita, sono ostacoli che rendono la deambulazione poco agevole. Avanzo quindi con fatica, distraendomi di continuo, ma con la mia grande perseveranza, l’unica mia dote (ammesso che possa essere considerata una dote), riesco a non demordere.

È evidente che il fine principale di quello stile di scrittura è l’evacuazione dei sentimenti, l’occultamento degli stati d’animo e della sensibilità sotto l’apparenza di un piglio oggettivo. Tutto deve risultare impersonale, arido, in modo che la razionalità appaia il più possibile incontaminata, assoluta. Meglio le fragilità e le debolezze risultano mimetizzate più la ricerca sembra solida, scientifica. Quando in realtà ogni frase è pur sempre il frutto di un’intuizione, un tentativo di esprimere significati che le parole non dicono, o dicono male, e di occultate contenuti che si vogliono tacere, come tutte le frasi umane. I linguaggi umani sono per definizione imperfetti, contraddittori, intrisi di emozioni e ambiguità. Alla ricerca di un riconforto provo allora a decifrare le figure, che però si rilevano anch’esse severe e non belle, spesso di assai ardua decifrazione.

Sono però i contenuti che mi risvegliano le perplessità più pervasive. Quasi sempre la visuale è molto ristretta, e me ne deriva l’impressione che quella parzialità nasconda in realtà l’ignoranza dei legami tra i vari aspetti di fondo, o per meglio dire l’ignoranza dell’ignoranza. Perché è stato scelto proprio quel caso di studio, e cosa rappresenta, posando per un secondo la lente deformante di quella sottodisciplina, prendendo in conto anche altri punti di vista? Considerando le cose un po’ più da lontano l’oggetto non risulta forse mal definito e ibrido, per non dire pretestuoso, e anche l’approccio scelto per affrontarlo non appare per caso assai arbitrario?

 

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Per svelare la verità parziale di cui è questione, ci si affida alla statistica, che ha preso ormai il posto del pronunciamento divino. Se il metodo statistico adottato sentenzia che una data relazione è vera, o meglio che ha la determinata probabilità di essere vera, vuol dire che la legge naturale è quella, beninteso anche in assenza della minima spiegazione convincente. La mia vita mi insegna che la grande probabilità è solo una potenzialità astratta, e è in fondo inutile ai fini previsionali, o insomma di per sé inutilizzabile, perché spesso è poi l’eccezione che si realizza, o insomma entrano in gioco fattori non previsti. Lì però la possibilità diventa inflessibile e inconfutabile causalità, senza rischio di colpi di testa o sbavature. E come poi quelle risultanze tanto tendenziose si conciliano con gli esiti di approcci non considerati, con altre visioni, altre domande? Il sistema delle citazioni solo a difesa (come se in un processo non ci fossero anche i testimoni a carico), e la forma breve di questi componimenti, consente di restare nel dominio della perorazione senza contradditorio, sfuggendo a una reale verifica. Certo, quella dissertazione è passata al vaglio di severi e anonimi referi, però questi appartengono in realtà alla stessa sottospecie, sono inclini in genere agli stessi errori.

Leggendo ho quindi l’impressione che quella cosiddetta imparzialità scientifica sia solo una finta, una maschera che nasconde le normali esitazioni umane, l’usuale incompetenza. Facendo più attenzione mi accorgo che gli stessi puntelli bibliografici non sono poi così solidi, non sono poi così adatti a quel ruolo di cariatidi, sebbene il loro essere incastrati con risolutezza possa suggerire l’impressione che sostengano senza sforzo il ragionamento. Quei disparati studi, intruppati poi in sequenza alfabetica alla fine (titoli di coda accademici?), a una verifica anche frettolosa sembrano avere gli stessi difetti, paiono a loro volta appoggiarsi su altri scritti presi un po’ qui e un po’ lì, citati a sproposito. Non si può fare a meno di pensare a un manipolo di pencolanti ubriachi che si reggono a vicenda.

Il quel mio crescente imbarazzo la statistica mi appare come l’arte di far dire alle cifre quello che si vuole, proprio come un tempo ci si appellava allo spirito santo per giustificare gli eventi più diversi. Si troverà sempre un’algebrica prestidigitazione per far risultare due serie di dati un po’ correlati. Ma certo esagero. Certo parlo così perché non sono un vero officiante, tutto quello che faccio è partecipare a volte a esperimenti di professori o ricercatori che studiano questo o quell’aspetto della terra. Risulto utile soprattutto per il lavoro di campagna, visto che faccio volentieri delle buche, e eseguo con professionale precisione i relativi rilievi. Ormai sono tra i più anziani, e c’è chi mi stima, ma il mio ruolo è quello di un ragazzo che inizia, finisco per essere un po’ l’uomo tutto fare. Dalla mia ho solo la mia esperienza, che certo non può costituire una garanzia di autorevolezza scientifica, e la mia intuizione, i cui volubili suggerimenti non potrebbero essere comprovati in alcun modo (anche se a me sembrano validi). Perché a ben vedere non sono molto razionale, e la mia diffidenza per le logiche tetragone nasconde anzi una difficoltà a seguire linee rigorosamente coerenti nelle mie elucubrazioni. Probabilmente criticando a priori quei rapporti cerco solo di difendere la mia inconseguenza, la mia difficoltà a concentrarmi, a staccarmi dall’empirismo. E forse quella lingua mi riesce antipatica solo perché la manovro stentatamente, lungi dalla maccheronica disinvoltura di molti colleghi.

Leggo comunque quei bigotti racconti che rappresentano l’esatto contrario di ciò che cerco nei romanzi (in particolare quello che mi fa l’occhiolino dal bracciolo della poltrona), continuo a masticarli. Non so poi cosa mi resta di tutte quelle frequentazioni, visto che la mia memoria non è molto forte (per rintanarmi dietro un eufemismo). Forse ben poco. E probabilmente spazio tra tanti campi diversi proprio perché non ho alcuna effettiva competenza in un qualsivoglia ramo, nessun ruolo preciso. Si direbbe quasi che voglia mantenermi aperte molte porte in attesa di decidere dove orientarmi. Strategia per la quale non resta più alcuna plausibile giustificazione, visto che ho quasi l’età del pensionamento (se solo avessi, ma questo è un altro discorso, una qualche forma di pensione). A quanto pare dentro di me un nocciolo di pazzia reputa che la mia vita potrebbe forse offrirmi ancora questa o quella tardiva e fiabesca opportunità (o che io sia immortale?).

Soffro di non avere tempo di leggere romanzi, che mi danno piacere, e che con la loro capricciosa volubilità mi sembrano avvicinarmi alla verità, e impiego le mie giornate a spulciare questi compitini che non mi danno alcun diletto, e che non contengono molta verità, non quella che cerco (anche proprio nella terra). L’educazione di mio padre, forse è questo, mi ha inculcato l’abitudine a sprezzare o anche evitare le attività che mi appagano, a concentrarmi sugli sforzi che mi risultano penosi, per i quali sono forse meno dotato. Certo il nodo della questione è solo lì, non sono riuscito a liberarmi dal fascismo. La frequentazione della terra, quell’unico contatto pragmatico che ho con il mondo, e che coltivo proprio per appropriarmi di una qualche identità, una plausibilità sociale, e per guadagnarmi da vivere in un modo che abbia una parvenza di senso, per non affondare in me stesso, è quindi solo l’incapacità a ammettere che l’unico autentico legame sarebbe l’assenza di autocostrizione, la libertà di vivere la mia esistenza assecondando le mie autentiche propensioni, senza pagare alcun pegno. Cedendo al richiamo del discinto romanzo che dalla poltrona mi canticchia la sua sciocca ma anche sapiente cantilena.

 

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(questo testo è apparso su “Nuova Prosa”, numero 66, marzo 2016)

Miti Moderni/17 : di pietra

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© Aldo Costa. Il mare
© Aldo Costa. Il mare
© Aldo Costa. Il mare

di Francesca Fiorletta

Non esiste il ricordo.
Le passioni tutte uguali.
Ridere per dimenticare,
nella tazzina del caffè.

Sperare di incontrarsi,
dimenticare il futuro,
una caduta libera.
Fino alla sazietà.

Pensi di essere libero,
il pericolo scampato;
sono ancora tutte
armi
di pietra.

La banca

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di Massimo Parizzi

La banca c’era sempre stata. Non che fosse impossibile distinguerla dagli edifici adiacenti, lungo la via o il ricordo, ma quel giorno era diverso: il ragionier Bruni Carmelo vi entrava assunto. «Assunto» non poté fare a meno di pensare «come l’Assunta». E ricordò un quadro visto a Venezia, la Madonna in alto che ascende al Cielo, ma in basso cosa c’era?

Era una luminosa giornata dei primi di marzo, e l’edificio, cui sempre più s’avvicinava, era diviso in verticale tra ombra e luce: una linea retta che tuttavia, in un punto, si spezzava senza causa visibile, disegnando nella zona che, ormai, si sarebbe detta riservata all’ombra, una forma geometrica, irregolare di luce. Carmelo la notò. La sua causa non visibile era alle sue spalle, come quella della linea che spezzava, ma questa, che sembrava sufficiente a se stessa (che errore!), nemmeno faceva pensare, a una causa. Carmelo non si voltò.

Piacevano, al Bruni, le associazioni di idee o, come avrebbe detto, le società organizzazioni club cerchie conventicole sodalizi circoli gruppi di idee. Anche se a volte – o proprio perché – dal caso nascevano direzioni obbligate e quel primo, allegro senso di libertà diventava un comando che escludeva non meno di riunire, che escludeva più di riunire, poi, sempre di più, fino…

 

La banca c’è sempre stata. Più grande d’un negozio, ma come i negozi allineata. Il fronte dei palazzi. Ed è proprio la mia banca, quella che più assiduamente mi scrive. Le sue lettere che vedo in casella; e se è voltata all’insù, lo so: per l’intestazione, per il rettangolo trasparente con il mio nome e indirizzo. Sono contento lo stesso. Ma se è voltata all’ingiù lo immagino. Il lembo della busta che, incollato, la chiude… È stato il direttore, a venirmi incontro. «Il ragionier Bruni, immagino.» E subito al mio posto. «Imparerà presto.» La chiesa, invece, è in una rientranza: la scalinata, il sagrato…

 

La giornata era passata per Carmelo. Prima le presentazioni ai colleghi – uomo uomo uomo uomo donna donna uomo; vecchia, carina; formale formale sportivo sportiva sportivo sportivo sportivo – e con tutti del tu; e poi dietro a lui la più vecchia, avesse bisogno d’aiuto, al computer, non so, o con qualche cliente, noi li conosciamo tutti ormai, tutte le situazioni. Anch’io sono un cliente, è la mia banca questa. Ah sì? Non ricordo… Non ricordava. Questo l’aveva proprio seccato e a pranzo, a bella posta, s’era seduto a un altro tavolino, con quello là, quello insignificante, con la pancia.

 

La mia prima giornata di lavoro. Ho iniziato una nuova vita, che alla mia età…

 

Il ragionier Bruni viveva in un appartamento in affitto con la moglie e una figlia di sedici anni, che lo lasciavano rimuginare la sera, tornato dal lavoro – prima quell’altro, adesso questo – visto che in compenso lavava i piatti e aiutava sua figlia nei compiti. Quella sera a essere rimasto in sospeso era il perché una banca si distinguesse dagli altri edifici. Perché si distingueva, questo era chiaro, come una chiesa. Un paragone che non riusciva a togliersi di testa; e non gli piaceva. Non gli piaceva che si potesse pensare (che si potesse pensare che lui pensasse) al “dio denaro”. E poi le chiese erano edifici a sé, spesso in rientranze delle vie, mentre di solito le banche facevano parte dei palazzi, del fronte dei palazzi…

«Carmelo, è pronto!» Il grido risuonò improvviso, stupefacente. Sua madre gridava così, non sua moglie, non Francesca: sua madre, per chiamare il marito, suo padre, sempre in sala a leggere il giornale, e lui, in camera sua, e dopo, senza di lui, ancora adesso…

Infatti, quando non erano insieme in cucina, e all’ora dell’è pronto c’erano quasi sempre, a chiacchierare o star silenziosi, a lavare l’insalata lui, cosa che odiava, o grattare il formaggio, un po’ meglio, quando non erano lì Francesca arrivava, non un grido, gli diceva «vieni» e punto. C’era di che stupirsi anche senza essere nervosi, e Carmelo un po’ nervoso lo era.

Comunque ci andò, in cucina, e… dio! dio dio dio… una bottiglia di spumante, sul tavolo, e quella smorfiosa di sua figlia a dirgli «auguri!», con un bicchiere in mano, e quella fatale di sua moglie a dirgli «auguri per il nuovo lavoro!», con due bicchieri in mano. Auguri. Come quando aveva aperto il primo conto corrente della sua vita, in quella stessa banca, come quando aveva comprato la sua prima macchina nuova.

«Be’, non mi sembra proprio…» abbozzò un sorriso, corrugò la fronte, teatrale, d’un tratto primo attore d’uno sketch, prendendo il bicchiere dalla mano della moglie, che glielo porgeva, lì sulla scena, in primo piano. Dissimulò, simulò. Erano raggianti, quelle due.

«Papà, sei sempre il solito.» «No, sono cambiato. Impiegato di banca, da oggi. Da oggi faremo i conti, capisci?», ammiccò a Giuliana, l’adolescente. «Farai i conti.»

Sembrava non capire, e invece capiva. Sembrava sempre non capire, e invece capiva sempre. Neanche l’ironia era suo monopolio, di Carmelo, in famiglia. Era distribuita. Terreno comune, luogo comune che se stringeva gli affetti apriva alla comunicazione, al dialogo, alla discussione, al contraddittorio, alla polemica. Inquietante. «Mmhh…» Era raggiungibile anche lì.

«Farò i conti, va bene, farò i conti.» Se era questo che voleva, metterlo al suo posto, un posto suo, dove lui avrebbe fatto… «Volete smetterla, voi due?», intervenne sua moglie tornando dal forno con una teglia di cannelloni. Ma che cosa avrebbe fatto, non lo sapevano.

 

Giuliana vuol mettermi al mio posto. A volte mi tratta, me suo padre, come un figlio. Ma se sapesse come lo desidero, un posto mio! La notte in questa, nella mia casa silenziosa, mi sembra un furto. Il respiro di Francesca… il respiro di Giuliana… Ed io a rubare, di qua. Loro non lo sanno. Poi tornerò a letto, accanto a Francesca. Le ho detto: «Poi vengo». Non più il silenzio, ma il suo respiro. Dov’è più difficile rubare, quasi impossibile, ma di qua… Un posto in banca ora ce l’ho, ma non è mio.

Un computer a destra, uno a sinistra. Un impiegato a destra, uno a sinistra. In mezzo io. Una linea una fila un fronte. Tutti che parliamo ad alta voce. Ad alta voce? No. Il fronte dei palazzi… a destra… a sinistra… Comunque parliamo, parliamo comunque. E facciamo gesti visibili. Mai il silenzio che c’è in chiesa. La rientranza d’una chiesa. Io e Francesca a letto, tra poco, uno accanto all’altro. Lungo una linea. Ed anche mio padre che lavorava in banca…

Ecco perché c’è sempre stata. Ecco! La prima elementare, e lavorava in banca, la prima comunione, e lavorava in banca. Da quanto tempo ricevo i suoi estratti conto? Venti, trent’anni? Eppure, ogni volta, è qualcuno che m’ha scritto. Per finta, ma m’ha scritto. Non vale, ma m’ha scritto. Prima la casella era vuota, poi è piena. E io sono contento. E anche se la lettera è come se ci fosse sempre, in casella, ci fosse sempre stata come la banca: si distingue lo stesso. Bianca.

 

Carmelo si staccò dal tavolo di quella che chiamava la sua “stanza”, e se ne staccò scuotendosi: una decisione che s’impose. Era giunto il momento. Conosceva quello svolgersi di pensieri, le parole che portavano una all’altra, e se all’inizio poteva sembrargli non ci fosse niente, poi, quasi sempre… sì, un senso di libertà, nessuno intorno, nessun confine ma uno spazio che si riempiva. Non doveva, esserci niente: soltanto le parole, niente. Una parola e non un’altra, che a volte gli sembrava di capire, ed era contento per questo, ma spesso non per quello che capiva.

Auto-antologie-3. Viola Amarelli

5

di Viola Amarelli

campagna d’inverno

La luce di gennaio che ora è febbraio filtra le foglie

dei sempreverdi

i tronchi con i rami pazienti di vento

questa immane stanchezza di

nuvole in corsa, riepilogo di temporali,

spossa il midollo e la pelle a toccarla si secca

restano, eroi, i cani randagi e le code di uccelli

ci vorrebbe un riposo incessante

un letargo che plachi la crosta e protegga le ossa,

il latte che è inacidito l’hanno

buttato nel pozzo, gli sciocchi.

 

com’è

Persone con cui più nulla a vedere, liberi loro i cieli, com’è

avviene. Lasciar andare, ai lazzi sfiorando lazzari

perduti tra trippe e foie, analità di sogni come banale è

 

un sospiro trattenuto e poi di slancio espunto dal petto che la tisi ora risparmia

risparmierà il coltello l’uomo incappucciato, il macellaio che attento alle dita sega e

ritaglia ad arte cappelli a prete, pezzi di cannella e rosoni barocchi per le panze

 

laddove l’acqua manca e gli occhi appannano i deserti, così è

fresca la risata nella risaia allagata, verdi piantine, chicchi da sgranare

mala e rosari per contare tempo e mielina calma, piatta

 

alle navi fameliche corsari ricomparsi dai libri, pescecani, occorrerà pure mangiare

sputo e scorbuto, ostaggi e soldi per tirare avanti alla campata di ponti sbertucciati

c’erano scimmie sì snodate e buffe, vecchie cugine, zie dai peli torti,

 

torcia le bocche degli amanti nell’amplesso per i bambini

con i pastelli rotti lacrimando fino a sorridere alle bolle colorate

di un clown dal naso rosso raffreddato.

 

Collassava di torrido e stupore quel pinguino dirottato su spiagge tropicali

asino in mezzo ai suoni di ghiacci liquefatti tra vortici e turbine così è

azione atto indizio traccia, scalfisce sabbie e piogge,

 

enorme dirupo alla montagna, l’erosione,

daccapo, nuovamente, l’incessante, forma su forma

riposa, mia madre chiuse gli occhi dicendo ora di andare

 

così è come, non trattenere, sparse, macchie

di ossa ormai cristallo sfaccettato,

il tempo, una bolla ora di andare, così come il blu di prussia

 

avvolge nel velluto tutti i regnanti, mia imperatrice

guerriera abbandonata, così è, chiudendo gli occhi la gioia

della bambina, la bocca estenuata nei silenzi,

 

lontano strilla la neonata tra i leoni, spaventati.

 

Giacomo a Fontanelle

L’acqua e il tufo alle cave

nell’ombra delle Vergini, quelle che tutto accolgono

lumini per le offerte, preghiere di promesse,

sonde degli operai in gruppo come oranti

su nove metri d’ossa, nette di

teschi e tibie

l’anime pezzentelle scorrono senza affanno.

L’acqua sulle pareti scandisce respirando

calcare d’algoritmo, gioco sacro d’istante

quello che disperavi, tocco di solo affetto,

stretto ora insieme agli altri

corpo vivo silenzio

anonimo finalmente.

 

* il “Cimitero delle Fontanelle” nelle cave di tufo delle “Vergini” a Napoli, fu luogo di

sepoltura di massa sin dal 1500 e sede del culto devozionale alle “anime pezzentelle”.

Secondo un’ipotesi plausibile qui sarebbe stato in realta interrato, anonimamente, anche

il corpo di Giacomo Leopardi .

 

 

prendi un coltello

 Prendi un coltello-bambina.

Attenta ai mostri. Ai lupi. Ad amici e parenti.

E sconosciuti.

Prendi le forbici – gioia.

C’è il male e c’è la pazzia.

Attenta a non incontrarli, per ora, ora che è

troppo presta.

Diventa tu folle, affonda le lame,

dentro più dentro coi denti.

C’è la paura e c’è l’orrore. Umano.

Carezza le bestie.

Tua madre ti ama.

 

fluxus

Il fascio in flusso sforma pensieri come papere

celiando, in gran silenzio, sembra, un segreto inesistente:

l’urlo affocato e ruvido del male

tramente giù gloglotta limpido l’accade

che ripassa, vecchio scherzo, il tempo

lascia la presa e nuota, più veloce,

come la tartaruga quando ad Achille

brontola il fiato.

(da Le nudecrude cose e altre faccende, L’arcolaio, 2011)


 

pater

Questo vecchio che sta per morire

dietro il vetro del tubo catodico

grigio cenere nel blu del tracciato

lontanato il pensiero e il dolore

è stato suo padre, stupito e a disagio.

Può durare a lungo, avverte il dottore

di turno, non credo – ribatte la figlia,

probabile l’unica che l’abbia mai amato –

ha sempre cercato di non dare fastidio.

 

e saettante

strido rime petrose

sillabe atonali degne di un’orfana sibilla

a mille a mille i giri della

mente, pure endorfine

ah, fossi buio

rifugio numinoso e saettante.

(da L’ambasciatrice , autoprodotto con Sartoria Utopia, ora in e-book, 2015)

 

naviga

naviga, nevica,

sul mare? aurora boreale

 

l’illusionismo il magico, la voglia di

 

da fuori molto,

tutto, normale

 

démoni

Nessuno mai si impadronì di me
salvo i miei demoni
oscuri e privatissimi,
le lunghe sigarette
prima, prima
prima che scoprissero
la rima.

(su “viomarelli.it”, 2015)


 

I – Vocazione della Pizia

L’unica volta ch’era stata al mare

bambina, il padre con l’asino,

frogi nella brina,

vento di sale e turchese a chiazze lo stupore

immenso, pari al cuore senza linea,

il sole di rincorsa nuvole e spuma

ballerina,

nel balzo il muso e pinna cresta all’onda

Febo delfinio, all’unisono apertura

d’istinto scelta, l’aria nitore cristallino.

Un pesce e una bambina

scesa da collina

dove il salmastro s’addolciva a olivo,

gaudiosi l’uno all’altro fuori dal tempio

era – è – mattina.

 

(da Notizie dalla Pizia Lietocolle, 2009)

 

la candida, l’intatta

 Cuore bambino dove

la briciola diventa meraviglia

e l’orco resta ucciso grasso

e sciocco

la candida, l’intatta

noncuranza.

 

terragna

 Movendo, metamorfosi di muta,

serpe terragna fra pietre e polvere

la cerca di

gradienti verde.

Tutto dovrebbe essere

alberi ed erbe.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 


glosse

Lunghissimo e prolissimo quel metro d’indicibile

dubbioso d’ineffabile non trova mai

l’a capo.

Breve. Bene, elimina il superfluo:

l’io e il verso.

Sono tre gatti, nessuno li ascolta

pure si azzuffano come dannati.

Non fate caso, nulla di grave,

solo poeti, ovviamente italiani.

Recensioni:

-“dio quanto sei bravo”

-“grazie, sapessi tu”

(da Le nudecrude cose, cit)

 

notarelle

Chiedono che ne pensi di uno, come tanti,

uno che già è famoso, gentile, diaristico.

Uno che va a capo.

L’alfabetizzazione – di massa – comporta

che tutti i logorroici ora siano grafomani.

Spacciano; altro aduso adatto setaccio: noi si tu no

appoltigliano in mixer. mode d’emploi.

feticcio la ricetta.

Sfortuna. Non sono andata a letto con Verlaine.

 

melassa per formicole*

queste

scialbe

pallide

arrese

respirazioni artificiose

 

*verso di Jolanda Insana

 

# poeti

tutti questi esseri luminosi, puntiformi, umbratili, lievi, sfioranti,

carezzevoli costantemente volti ai propri affari

 

 

io scrivo te

io scrivo te che prefazi me che pubblico il tuo amico che plaude i miei

interventi critici che insieme organizziamo algidi evenenziali ostensioni

di tosti testi nostri diffondendo asemantiche endovene, sintassi

scarrupate, lacerti necrofori. Amen.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

fermo posta

 poi,

poi non arrivò mai a nessuna parte:

un piccolo codazzo di

discepoli,  qualche lettura, un libro,

inferno-fermo posta

(su viomarelli.it, cit)

 

metafisiche

 metafisicizzando

la trascendenza un blu scuro luminoso

l’immanenza un grigio perla chiaro

senza più un granello di polvere,

comunque.

 

tre cose

 tre cose mai capite:

me, la matematica e gli umani

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

sull’orlo della fine

Sull’orlo della fine la pioggia fitta sottile, le tre del pomeriggio la

domenica nell’aria grigia e umida, l’acqua

che scorre

silenziosa su cianfrusaglie stese su stracci di un

mercatino d’usato, improvvisato, scolora plastica

e scarpe e maglioni già

fossili ora petrolio. In un silenzio clamoroso scivolano

ragazzi neri, vecchie badanti dai capelli tinti masticano

panini, chi

baderà loro, i ragazzi neri scivolano tra buche e

cedimenti, l’acqua che stinge, infreddoliti in cappotti,

giacche a vento

sciarpe nere e grigie e bianche, nessuno di loro con un

ombrello. Una luce purissima traslucida scandisce ogni

dettaglio,

lo dilata sull’orlo della fine la piazza enorme, cantiere

eterno già caduto a pezzi, cammini su basalto, passi

sull’asfalto roso

da ruote e acqua, freddo d’umido. Tra un po’ – quando –

non ci saremo più, noi, la pioggia, la piazza enfia e

ansimante, gli

esseri umani tutti, tra un po’, non tanto. Sta attento a non

bagnarsi le scarpe, slalom e rally, attento alle auto, ai

vecchi

travestiti da nipoti, alle vecchie spedite a morire affianco

ad altri vecchi, sta attento ai ragazzi ninja spaesati senza

sole, qui, che ci sarebbe, ma devi pensarci, il mare, tra

un poco scoppia, lo sente, tutto e giustamente. Non più

occhi né

gambe, né idee né pozze né fiati. Niente di niente, per

noi, tutti, ovviamente. Meglio così, ci sarà qualcosa

d’altro e chi

dice che non sia meglio. Arriva quasi alla fermata, di

fronte alla stazione, non c’è mare non c’è sole solo acqua

incolore,

sta per salire sul pullman, quando inciampa inzuppa

infradicia le scarpe, gomma e pelle, il piede la sua pelle,

come accade,

frequente, quando pensi che sia finito e tu, almeno, in

salvo e allenti la tensione e sei finito. Un pezzo di strada

e di

giornata. Una vita di viaggi. Sull’orlo della fine, degli

umani. Peccato, resta sospesa l’aria, non che non possa,

non deve

farci niente.

(da Le nudecrude cose, cit)

 

orifiamma

 Ora che il giglio più non segna i giorni

e  l’ombra dello sguardo nella notte

è come quel portone chiuso alle spalle,

ora frantuma la linea del crinale,

la piazza vuota, la notte di cristallo

 

( da La deriva del continente, Transeuropa, 2014)

 

innominata

sordida morte, re
pellente, ti ho amato

(da viomarelli.it, cit)

 

recherche

 Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto la brucio. Rimbalza,

reingoia, la lingua già amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. il

mondo è  parole, a cambiarle, il mondo si cambia. Una rosa è una rosa è

una rosa. roseggia. L’ortica orticheggia. e risana.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

polvere

 le parole sono pietre.

tu scheggiale

fino a che non diventano sabbia, polvere.

fine.

(da viomarelli.it,  cit)

 


 

“ Non si sviluppa tempo nel tempo della poesia. La poesia resta ferma”  (Corrado Costa)

La poesia può essere uno strumento del/sul linguaggio estremamente preciso e affilato, il che le consente di arrivare veloce come freccia al nucleo di un logos. Brodskij la riteneva, giustamente, un “corto circuito” cerebrale, che la rende, quindi, un potente mezzo euristico per indagare, e, come ogni espressione artistica, una forma di conoscenza. Noi lavoriamo con una lingua ereditata, su un palcoscenico già allestito da millenni: proviamo a piegare le parole ma molto probabilmente sono loro che piegano noi in un flusso bidirezionale.. Ci illudiamo di dar voce – o sguardo – a un picciolo, a un incubo, a un progetto, in realtà i versi sono immersi in un processo che si schiarisce, o complica, nel formarli e le forme si rivelano innumeri. Da questo punto di vista sono polifonica, la monodia di ascendenza petrarchesca non mi ha mai molto interessato  e indubbiamente l’imprinting infantile di filastrocche si è coniugato alle letture di Marco Valerio Marziale e al futurismo russo e poi a Caproni e Porta. La scrittura è una spugna: quello che hai, ridai, per questo ogni poesia è sempre dannatamente, anche nolente, politica. (Viola Amarelli)

Nota

I testi che precedono sono tratti da varie pubblicazioni e seguono un disordine che vorrebbe dar conto delle varie forme che provano e scoloriscono, sono mere esemplificazioni di lavoro e non rientrano in una qualsivoglia  tassonomia di  maggiore efficacia o qualità. (V.A.)

 


Viola Amarelli, campana, ha esordito con la raccolta di poesie Fuorigioco (Joker, 2007), seguita  dal  monologo Morgana, (e-book, 2008 ),  dal poemetto Notizie dalla Pizia (Lietocolle, 2009), Le nudecrude cose e altre faccende (L’arcolaio, 2011),  dai racconti di Cartografie (Zona, 2013),  L’ambasciatrice (autoprodotto con Sartoria Utopia, ora in e-book.  2015) e, in veste di co-autrice,  La deriva del continente (Transeuropa, 2014)  e  La disarmata (CFR, 2014). E’ presente in numerose antologie,  riviste cartacee e on line, è stata tradotta in Germania.


 

Auto-antologie prosegue con Viola Amarelli e  il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada , a Vincenzo Frungillo e a Francesco Filìa . Sul lavoro di Viola Amarelli è possibile leggere un mio intervento qui.

L’idea di curare delle micro-auto-antologie risponde al desiderio di tratteggiare una direzione, un possibile senso -anche solo accennato-del percorso di autori che hanno raggiunto, a mio avviso, una prima maturità letteraria. L’autore è invitato a guardarsi indietro e a ricostruire emblematicamente le fasi del suo lavoro, proponendo a tal fine anche una pagina di auto-presentazione e una scheda bio-bibliografica. Nel flusso incessante spesso vitale ma anche caotico della rete credo che siano utili dei momenti come questo di coagulo, di rallentamento.

Continuo in altra forma il lavoro iniziato con  la rivista on line Poesia da fare (2005-2007)  insistendo ancora sul rallentamento e sulla sedimentazione. Gli autori che invito ad auto-antologizzarsi sono poeti che, per il mio gusto, illuminano , da particolarissime prospettive, il nostro tempo, individuando, spesso con spietatezza, i rapporti di potere nei quali siamo invischiati o quelle semplici evidenze esistenziali che si tendono a rimuovere.

Qui il lavoro sul linguaggio poetico non è fine a se stesso ma è teso a rendere più efficace la configurazione intensa di un’esperienza umana ed estetica radicata in realtà per lo più condivise, comuni. Questo è anche ciò che intendo, almeno ora e provvisoriamente, per “poesia di ricerca”.
In un’epoca in cui sembra che le soggettività reali perdano sempre più la possibilità (e anche il sogno) di decidere del proprio destino, in una generalizzata precarietà e ricattabilità,  l’espressione poetica pare moltiplicarsi, anche grazie alla rete, e offrirsi come un luogo speciale di pensiero, di creazione e di relativa socializzazione.

Moltissimi scrivono ciò che ritengono in buona fede “poesia” e la “postano”  anche per questo, cercando e spesso trovando il consenso e la reazione dei propri “amici” di rete.
La valutazione dei risultati estetici poi dipende ovviamente dal gusto, dalle esperienze e dagli orientamenti culturali del lettore. B.C.]

 

I Pallidi

2

di Giovanni De Feo

Il racconto è apparso sul numero 5 della rivista Hypnos.

Jeannie L. Paske, An attempt to convey
Jeannie L. Paske, An attempt to convey

La sera, seduti a bere ai tavolini sul Gran Corso, li vediamo entrare circospetti nei bar eleganti e specchiati con fare mesto, da cani bastonati. Appena uno di noi se ne accorge fa gomito agli altri; al tavolo si quietano le risate, zittiscono le battute, ci giriamo unisoni a fissare i nostri nemici con occhi di profonda foresta.

Ancora prima di scorgere il Pallido che quelli si nascondono ben bene addosso –nelle maniche, nei taschini, nei tascapani– ancora più delle camicie lise, rovinate sui colletti, ma che pure mantengono un’aria di dignità surrogata; ancora meglio degli occhi disperati, che dardeggiano paurosi in faccia alla folla, a tradirli è la loro camminata da cani stanchi, randagi nel passo e nell’anima. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, ma hanno sempre quel modo guardingo di guatare fino al bancone del caffè, la testa come in ascolto del rombo lontano del pericolo.

E noi, noi siamo per loro quel rombo, e quel pericolo. Subito, come per ordine convenuto, ci alziamo, sorridendoci negli occhi scintillanti e duri, pregustiamo a labbra strette l’umiliazione loro e la nostra profonda soddisfazione. Già il ramingo –così li chiamiamo tra noi– s’è accostato a una signorina che sorseggia lenta un Campari. Col suo librettino aperto costui cerca di imbastire il suo discorso. Lo fa anzi con subdola abilità, da raffinato imbonitore; prima un complimento sulla sua stola di visone, poi sulla bellezza degli orecchini di giada, e il suo buon gusto in fatto di scarpe. Infine produce qualcosa, un oggetto, che attragga su di sé la prima domanda. Può essere un disegno, un quadernetto scritto, una mappa, un piccolo congegno meccanico, qualcosa che egli possa far scivolare sul bancone come per caso, malaccorto. Appena la ragazza cede alla curiosità e chiede, ecco che parte la confessione.

 Egli è poeta, o inventore, o artista, o attore, oppure qualcosa di così assurdo e originale che non può avere nome. Quante ne abbiamo udite negli anni! I creatori di rotte transmondiane, i linguisti di idiomi che esistono solo nei mondi sovralunari, i cartografi di isole di Mezzanotte, i cacciatori di bestie bifronti che vivono in vette remote e il cui corno –assicurano– curerebbe la tubercolosi e le febbri tifoidi.  E anche gli artisti, in fondo i più modesti tra quelli, non si arrabattano dietro a un traguardo comune, i poeti non scrivono liriche d’amore, i pittori non dipingono affreschi nelle chiese o quadri per i committenti, gli attori non cercano la gloria dei teatri alla moda; no, per essi questi sarebbero scopi mondani e quindi disprezzabili. Allora si scopre che il poeta ramingo sta completando un’epopea in centomila versi sulla nascita di una galassia, che il pittore dipinge un affresco di battaglia usando per colori i fosfemi dei pesci abissali, che l’attore si è scritto la parte di un dio-pantera e che recita senza battute, gettando fiori e quarzi colorati dalla bocca, invece di parole. Gli scienziati poi sono i peggiori. Ci sono gli scopritori di nuove pseudo-scienze, gli oneiromanti, i criptomorfi, i necroloquii, gli inventori di macchine che trascrivono le parole non-dette dei neonati, di biciclette-dinamo che si caricano a luce lunare, di occhiali che leggono i giornali nel futuro, e poi i chiropratici degli arti fantasma, gli psicologi dei gatti-mannari, gli ematologi dei vurdalak d’Alsazia.

Farebbero quasi pena, se non fosse per l’onta che lasciano nel nostro mondo, l’orrore profondo della loro stessa esistenza. Tutti però sono accumunati da una sola necessità. Il vil denaro, che a parole essi disprezzano perché li stornerebbe dai loro ideali, ma che poi è il solo scopo dei loro raggiri da bar. Se la signorina volesse un assaggio della loro arte ­– ecco, uno schizzo– se si pregiasse di lasciar come pegno della futura riuscita, ormai sicura, anzi imminente, un piccolo obolo, un’offerta, un pegno al futuro radioso…

Quello è il momento in cui non riusciamo più a star fermi, il disgusto vince il fascino con cui da tempo osserviamo la nostra preda. Allora i più spigliati tra noi si fanno vicino al bancone fingendo di ignorarli, gli altri che osservano la scena dalle specchiere rabescate.

Non c’è un solo modo per smascherarli. Negli anni ne abbiamo ideati tanti che non li ricordiamo più. Non per amor di originalità, sia inteso, ma perché il godimento della loro umiliazione sia sempre nuovo e fresco, una primizia da spezzare cruda tra i denti.

Il modo più ovvio è quello di ordinare una brioche e di sbocconcellarla su un piatto, proprio di fianco al ramingo. Ma non è la sua fame che ci interessa, quanto quella del Pallido che egli nasconde. Appena infatti la creatura sente quell’odore zuccherino si affaccia dalla tasca della giacca, allunga zampette anelanti. Basta che la ragazza lo scorga che si alza l’urlo, subito ripetuto da venti bocche. Urla di scandalo, che un Pallido è vista appena sopportabile su un bambino, visto addosso a un adulto è un abominio.

Alle volte ci accorgiamo di primo acchito dove il ramingo tiene il suo genio tutelare, vediamo il tascapane o la borsa smuoversi di rigonfiamenti sospetti. Allora uno di noi si fa sotto come ubriaco, colpendo repentino con il gomito. Uno squittio. Subito il ramingo è costretto a scostarsi, a frugare, per sincerarsi che il suo Pallido stia bene. Non appena il mostro è fuori uno di noi si fa sotto, lo pesca per la coda mostrandolo allo sgomento degli altri avventori.

E come grida, come supplica il ramingo che gli si restituisca il suo tenero orrore! Ridiamo. Eccolo smascherato, sotto gli occhi di tutti. E noi ne godiamo, ebbri di gioia profonda. Ancora più grande è la nostra soddisfazione quando riconosciamo in quel supplicante un antico compagno di collegio. Allora attacchiamo con lo scherno feroce dei nostri sedici anni, rivanghiamo aneddoti o ne inventiamo di nuovi, gli altri avventori che ridono, il barista ammicca anche lui dal bancone.

Certo, in questo accanimento c’è l’ombra azzurra della nostra nostalgia. In fondo lo facciamo anche per loro, nella tenue speranza che essi rinsaviscano e si sbarazzino dei loro impresentabili compari, che come noi entrino a testa alta nel mondo. Forse non ci sono tra noi scrittori premiati, galleristi affermati, attori di indiscutibile talento, redattori di importanti giornali, critici, direttori di banca, architetti, biologi? Quante volte abbiamo offerto ai nostri antichi compagni un posto nei nostri giornali, un impiego nelle nostre banche, una critica benevola in un settimanale importante, purché essi si sbarazzino dei loro mostri? E a che serve? A nulla. Pare quasi che la loro condizione di emarginati sia per essi un vanto, che più grande è il loro degrado e lo sprezzo degli altri, più alta è la stima che hanno di se stessi. Dicono che con le nostre meschine offerte li vogliamo comprare, che vogliamo corrompere la loro purezza, come se di questa purezza non avessero fatto scempio compromettendosi con le più putride elemosine. Ad ogni modo, è fiato sprecato. Una volta che si è salvato un Pallido dal Grande Esame se ne resta schiavi a vita. Pure, bonari come siamo, non riusciamo a staccarci del tutto dal nostro antico affetto.

È che ce li ricordiamo ancora bene quegli anni, gli anni delle aule alte e profonde, dei refettori infiniti, delle scale labirintine, dei dormitori fiochi e senza fondo, gli anni del Collegio. Anche dei nostri Pallidi ci rammentiamo, sebbene più vagamente, come un sogno appena sfumato dall’alba. A dirli i loro nomi assurdi ci fanno sorridere d’imbarazzo: Pirchio, Cecio, Saramello, Bui-Bui, Tindaro, Sam’r.

Ricordiamo però bene la notte in cui fummo svegliati dalle suore nel dormitorio e venimmo condotti alla segreta Vasca d’Innesto. E la nostra meraviglia –ingenua, certo– davanti a quel brulichio guizzante e proteiforme, l’invito a immergervi il braccio, a “farsi scegliere”, e poi quel zampettio sulla mano, il Pallido che con la sua testolina di vecchio amoroso, e il ritorno, barcollanti come sonnambuli, ognuno con il suo Pallido abbrancato sulla spalla, e poi sotto le coperte, incapaci di dormire per la felicità, tutti con le lenzuola tirate sulla testa, ogni biancore acceso del fioco luccichio dei Pallidi, e non un solo colore uguale.

Avevamo otto anni. Che ne potevamo sapere del mondo? Per noi la vita era quella; le lezioni al mattino nelle aule decrepite, i Pallidi che –accoccolati sulle spalle– mormoreggiavano nelle nostre orecchie; e allora le prime idee improvvise, ci incendiavano come nembi ardenti di luna, idee frettolosamente scritte in disegni e scarabocchi, e i preti che sfilavano tra i banchi, annuivano seri quando requisivano i nostri fogli, li impacchettavano in quei grandi faldoni gialli. E quando chiedevamo perplessi perché gli adulti non avessero anche loro dei Pallidi, ci veniva data la stessa risposta: che li avevano, ma per gli adulti non stava bene mostrarli, solo noi bambini potevamo, e di questo eravamo fieri, ci sentivamo il petto scintillare di felicità argentina.

Così per anni, di anno in anno, di esame in esame, sempre più complessi. Ai disegni liberi dei primi anni si sostituirono le lezioni di prospettiva, i temi letterari, le equazioni, i compiti di geometria, le dissertazioni di storia. E sempre di più i Pallidi agivano sul nostro spirito, soffiavano in noi la fiamma del loro genio.

 Simbionti, questa era la parola che imparammo, i Pallidi erano i simbionti della nostra anima. Vivevano in totale comunione con noi, spilluzzicavano dai nostri pasti al refettorio, si svegliavano di soprassalto ai nostri incubi, voltolavano con noi nei medesimi accessi di risa alle battute dei compagni più arguti.

Man mano che crescevano le nostre conoscenze imparammo che non c’erano risposte giuste, e che anzi quelle più originali, talvolta le più assurde, venivano premiate dalla suore con solenni sorrisi e un piatto in più di dolce al refettorio. Incoraggiati ci scatenavamo a inventare problemi di cui fornire le soluzioni più assurde e divertenti. Quale era la distanza più breve tra due punti? Una retta. Ma se invece di una retta ci fosse stato un arabesco, che però agiva in uno spazio quadridimensionale? Non sarebbe stato meglio? E giù risate.

Ma non sempre le nostre soluzioni erano fatte a ridere. A volte le prendevamo maledettamente sul serio, ci sfidavamo a duelli di trigonometria, di letteratura comparata, di modellizzazione storio-geografica. Le nozioni di base le davamo per scontate, d’altronde se eravamo entrati nel Real Collegio memoria e intelligenza non ci difettavano. No, la vera difficoltà era elaborare problemi che fossero insolubili, di cui nessuno potesse avere la risposta.

Era questo che facevano davvero i Pallidi: non trovavano per noi le risposte, quanto domande che riformulassero il problema in modo del tutto nuovo. Era quello che amavamo fare di più. Non studiavamo per avere buoni voti, o perché volevamo far bella figura ai nostri genitori, e nemmeno perché volevamo capire. In quegli anni ci sembrava che il mondo più che scoperto andasse reinventato, e che studiandolo noi potessimo non solo capirlo, ma ricrearlo daccapo nelle nostre menti.

Man mano che proseguivamo nella gerarchia scolastica i nostri duelli diventavano ufficiali, monitorati da occhi severi. Dal primo liceo divenne proibito, pena l’espulsione, tenersi qualsiasi idea ottenuta attraverso i Pallidi. Tutti i nostri schizzi, tutte le nostre equazioni, i nostri componimenti letterari finivano in quei faldoni gialli. Talvolta nel Collegio venivano professori importanti di università e accademie, ci ponevano problemi sempre più difficili, che pure noi risolvevamo con furia geniale. Bruciavamo, e tutto ciò che toccavamo diventava fiamma.

La notte, nei dormitori dei più grandi, i Pallidi si arrampicavano sul soffitto e facevano strane evoluzioni, intrecci di luce che ci incantavamo a fissare, e a seguito dei quali facevamo sogni straordinari, che spesso ci fornivano la soluzione di compiti dalla consegna imminente. Perfino i nostri sogni erano monitorati, registrati con scrupolo dalle oneiro-scriventi ad aghi che le suore tenevano sotto i nostri letti. Anche quell’invenzione –non ci stupimmo di scoprire– era stata ideata da un vecchio studente del Real Collegio.

Intanto il Grande Esame si avvicinava. Nessuno di noi sapeva in cosa consistesse, né era possibile che ne trapelasse il segreto, dal momento che gli ultimi test si tenevano in una torre-guglia distaccata dal nostro comprensorio. Inoltre, tutti quelli che passavano l’esame non rientravano più nel Collegio. Anno dopo anno avevamo visto gli studenti delle ultime classi prepararsi con giubilo all’esame, marciare verso la torre-guglia e di lì guadagnarsi l’uscita per il mondo. Naturalmente tutti gli adulti lì dentro avevano passato quell’esame. Ma la reticenza dei professori su quell’iniziazione era totale. Interrogati sui suoi misteri, rispondevano con un mutismo assoluto, parete liscia e dura su cui non trovavamo appigli.

Solo due cose sapevamo per certo, sebbene nessuno ce le avesse dette. La prima era che, per quanto difficile fosse, al Grande Esame nessuno veniva bocciato. Non si sapeva infatti mai di uno studente che lo avesse dovuto ripetere. La seconda era che ­–da quel momento in poi– non avremmo più avuto il permesso di mostrare i Pallidi alla luce del giorno. Questo era un problema sul quale avevamo ragionato a lungo negli interminabili pomeriggi del dopo-mensa.

Molti di noi non potevano nemmeno concepire di dover nascondere il proprio simbionte a vita; sarebbe stato come celare il proprio viso fino alla morte. Peggiore ancora era l’idea doversene separare, anche per un breve periodo. Eravamo infatti certi che il Grande Esame avrebbe coinvolto non solo lo studente, ma anche il suo Pallido. Un esame dell’anima, oltre che della mente. Per questo, ragionavamo, saremmo stati separati per un breve periodo dal nostro compagno. Quell’idea ci atterriva. Eravamo ormai talmente assuefatti a loro da non riuscire a staccarcene se non per pochi istanti. Bastava lo perdessimo di vista che subito i pensieri ci si confondevano, il cuore diveniva un morso amaro, finché non potevamo toccarlo nuovamente.

Così nei mesi che precedettero la grande prova ci esercitammo, nottetempo, nel gioco atroce del distacco. Lasciavamo il nostro Pallido nelle mani del nostro più fidato compagno e poi, le lacrime agli occhi, ci lanciavamo di corsa fino all’estremità del corridoio che dal refettorio dava ai dormitori. Già dopo i primi passi sentivamo la nostra anima tirare allo spasimo. Anche il Pallido gemeva, si contorceva nella presa del compagno, la sua luce pulsava furiosa di dolore. Molti svenivano a metà corridoio. Altri si fermavano subito, ansimanti, stremati. Solo pochi arrivavano fino alla fine. E quando alla fine tornavano, e il nostro compagno lasciava il Pallido correrci incontro, quanti pianti, quante risate! Ci sembrava come ci avessero restituito la parte più preziosa di noi stessi, il posto segreto dove risiedevano tutti i nostri entusiasmi.

Fu in quei giorni, una settimana prima del Grande Esame, che vedemmo il nostro primo ramingo. Stavamo facendo ginnastica nel gran cortile quando un uomo brizzolato dai vestiti dimessi, gli occhi iniettati di sangue, irruppe in mezzo a noi urlando, gemendo, piangendo che dovevamo scappare tutti, subito, prima che …

Una torma di preti gli saltò addosso, costringendolo a terra con la pura forza del numero. Non abbastanza in fretta però. Avevamo visto tutti: l’uomo aveva un Pallido sulla spalla. Era la prima volta che vedevamo il simbionte di un adulto. Immediatamente collegammo la pazzia dell’uomo a quella stranezza. Doveva essere così. Per qualche misteriosa alchimia dello spirito chi oltre una certa età mostrava il proprio Pallido finiva per perdere la ragione. Da quel giorno l’obbligo di nascondere il proprio simbionte non ci parve più così arbitrario ma al contrario, sacrosanto. Ancora di più stimammo la saggezza dei nostri maestri e ci pacificammo con la durezza di quel comandamento che finora avevamo ritenuto ingiusto.

La notte prima del Grande Esame la passammo per la maggior parte insonni, ognuno con la testa sotto il lenzuolo, a bisbigliare al proprio Pallido. Visto dal di fuori, il dormitorio pareva la fantasmagoria di un accampamento, di quella prima notte, quando le suore ci avevano condotto a conoscere i nostri eterni compagni. Cosa dicemmo loro in quelle ore frenetiche non lo ricordiamo. Rammentiamo invece l’odore caldo di quei corpi splendenti, un profumo di lampada accesa. Ancora oggi, anche se molti di noi hanno dimenticato i loro nomi, ricordiamo il profumo che avevano quella notte: pungente, aspro, splendente.

La mattina seguente ci trovò a marciare in lunghe file verso la guglia oltre le mura del Collegio, nera e dritta come un dito arcano sulla bocca del sole. In file di due entrammo nelle grandi sale, rintronavano dei nostri passi. I preti e le suore ci sorridevano di una felicità elettrica. Uno a uno venimmo istradati verso un corridoio di porte grigie. Nel momento di separarci i nostri sguardi lampeggiarono disperati. Pochi di noi sorridevano, sicuri. Ci saremmo rivisti fuori, non c’era da aver paura. Poi le porte spalancarono, si chiusero alle nostre spalle.

Questo è il momento dove i nostri comuni ricordi iniziano a divergere. Giacché il Grande Esame fu esperienza così personale che è difficile farne una media valida per tutti. Grossomodo fu la medesima ordalia, se non in certi dettagli. Proprio in quei dettagli sta la perfezione gloriosa del Real Collegio.

Finora avevamo vissuto in uno stato di beata ignoranza, una semiveglia cui ci eravamo assuefatti. Il Grande Esame consisteva appunto in questo, nel risveglio. Ci rivelava qual era stato lo scopo della nostra educazione e ci permetteva di ritornare nel grande mondo, dove avremmo condotto un’esistenza degna e felice.

Dietro ogni porta grigia c’era una stanza.

Piccola, dal soffitto basso, la stanza era arredata da un unico tavolo, due sedie, e da una grande specchiera che copriva la gran parte del muro di fronte. Sul tavolo c’era una grande scatola, lunga come un braccio, fatta di un materiale azzurro e trasparente. Sulla parte alta della scatola un foro circolare della grandezza di una mano.

Seduto dall’altra parte del tavolo un uomo in completo scuro ci fissava con un sorriso serio e le punte delle dita bianche unite alle punte.  L’uomo ci fece segno di sedersi, chiese se volevamo un bicchier d’acqua –no grazie, dicemmo tutti­­– poi aprì davanti a noi un faldone giallo. Lo riconoscemmo. Era l’incarto nel quale, per quasi dieci anni, erano state conservate le nostri migliori idee.

Tutta la nostra vita scolastica, persino i nostri sogni, erano lì, registrati con assoluta acribia, classe dopo classe. Man mano che andavano avanti gli anni la documentazione diventava sempre più consistente. Allora l’uomo con le mani bianche ci sorrise e disse che avevamo fatto molto bene; uno a uno elencò quali erano state le nostre idee migliori, quali le applicazioni pratiche che si stavano studiando in quel momento nelle università, a quali intuizioni erano seguiti dei brevetti, a quanto ammontava la nostra percentuale dei diritti.

Naturalmente credemmo tutti si trattasse di uno scherzo. La nostra incredulità era però già prevista nel sorriso dell’uomo con le mani bianche. Subito questi produsse dalla sua cartellina una serie di foto e di documenti.

Mostravano i titoli degli studi di storia, di critica letteraria, di economia comparativa, nonché delle raccolte di poesia, dei romanzi, dei drammi teatrali che erano ispirati alle nostre intuizioni. Gli autori di quei titoli erano professori dell’Accademia, poeti e drammaturghi laureati i cui nomi noi stessi citavamo nei nostri esami con timore riverenziale. Per ognuno di quei libri ci spettava una percentuale nei diritti d’autore. La metà sarebbe andata al Collegio, il resto a noi. E non era finita. La parte scientifica del faldone era la più consistente. Farmaci sperimentali, nuovi composti chimici, metodologie innovative per i trapianti di organi, teorie di micro-biologia le cui applicazioni si stavano studiando in migliaia di laboratori. E poi le invenzioni: radio che captavano le voci del passato, lampadine che si ricaricano con il calore di una mano, un’acqua sintetica che si ghiacciava a un preciso comando sonoro, scatole-quadridimensionali capaci di contenere vaste quantità di spazio.

Ne avremmo riso, se non avessimo riconosciuto in quelle pagine  i sogni ad occhi aperti di tutta una vita. L’uomo dalle mani bianche non la smetteva di sorridere. Disse che in molti casi le applicazioni industriali delle nostre idee si stavano appena testando, che i diritti sarebbero durati per anni a venire. E non solo; gli istituti di ricerca, le accademie, le banche che avevano impiegato le nostre idee ci offrivano già un lavoro ben remunerato. Noi stessi avremmo aiutato a sviluppare le nostre intuizioni. Dovevamo solo scegliere quali e con chi.

D’altronde una cosa era avere un’intuizione –per quanto geniale– altro era trovarne gli sbocchi pratici, introdurli sul mercato. Per quello bisognava diventare dei cittadini responsabili. Era questo tipo di cittadini che il Real Collegio formava da settecento anni. Da quando le suore dell’ordine avevano scoperto le Vasche di Innesto questa era la regola: tutto ciò che veniva dal Collegio doveva restare lì. Loro ci avevano dato i Pallidi perché accrescessero le nostre capacità ai limiti dell’umano. I nostri familiari si erano sottoposti a un infinito, decennale salasso per pagare la nostra retta. Ora toccava a noi. O restituivamo ciò che apparteneva loro, o tutti i diritti derivati dai nostri brevetti sarebbero andati interamente alla scuola. Non solo, anche ogni possibilità d’impiego sarebbe stata revocata. Non avremmo mai trovato lavoro in nessun istituto, in nessuna organizzazione statale o privata che aveva avuto a che fare con il Real Collegio. Vale a dire, tutte.

Toccava a noi scegliere.

L’uomo dalle mani bianche continuava a sorridere, fissava la scatola sul tavolo. Non capivamo. Cosa dovevamo restituire? Il braccialetto con il nostro nome? La tessera della mensa? Poi il Pallido sulla nostra spalla si mosse e diede il suo primo gemito. Come sempre, c’era arrivato per primo.

Appena iniziammo a spingere via il tavolo l’uomo dalle mani bianche schiacciò un tasto invisibile. Subito la stanza si rabbuiò e partì il filmato. Da dentro la parete specchiata venivano proiettati immagini di repertorio. Dapprima antiche, pre-guerra, poi sempre più recenti. Mostravano uomini e donne, giovani e meno giovani. Erano come l’uomo del cortile, squallidi, sporchi, segnati dalla pazzia e dall’abbandono. Vivevano in case occupate, lerciai pieni di topi e di blatte, sopravvivevano a bustine di tè e scatolette di tonno. Li vedemmo stazionare davanti ai caffè del centro, affamati, chiedere l’elemosina ai passanti, pontificare sulle bizzarre teorie cui stavano lavorando. Testimoniammo la solitudine delle loro miserande vite, senza amici, senza famiglia, soli nelle loro stanze clandestine a lavorare a progetti incomprensibili, ognuno ispirato dal mormorio del proprio Pallido. Li seguimmo nei loro giri alcolici, per i locali dove ancora si tollerava la loro presenza, marci di assenzio a farneticare di nuove teorie che –dicevano– avrebbero cambiato il mondo. Infine li scortammo nei loro ultimi spaventosi giorni, di ospedale in ospedale, gonfi di alcol e pazzia, negli stanzoni nudi dove le unghie scarnivano scie di intonaco e le urla non cessavano mai.

Quando tornò la luce avevamo le lacrime agli occhi.

Non era tanto ciò che avevamo visto, quanto quello che avevano intuito dal nostro simbionte. Lui stesso ce lo confermava. Era tutto assolutamente vero. Sarebbe andata proprio così.

Ancora però non era abbastanza per mettere la nostra mano nella scatola trasparente. Ma l’uomo dalle mani bianche lo sapeva; e prima che potessimo riprenderci, con abilità perfetta, disse che non eravamo del tutto soli in quella difficile scelta. Altri erano con noi in quel momento, altri che ci avevano osservato da quando eravamo entrati in quella stanza. La parete specchiata ebbe un brivido, e l’argentatura sparì, rivelando oltre di essa una stanza impiegatizia, nella quale stavano i nostri familiari. Non li vedevamo da quasi dieci anni. Fatta eccezione per le lettere che ricevevamo a fine mese, non avevamo avuto più alcun rapporto con loro. Inevitabilmente li trovammo invecchiati, i capelli di nostra madre ingrigiti a ciocche, il fratello maggiore si era fatto uomo, nostro padre arcigno e severo, dimagrato in viso. Ai nostri occhi erano raggrinziti, rinsecchiti, imbruttiti. Tangibile intorno a loro un’aura di tetra miseria, tanto più grande quanto essi cercavano di nasconderla. E ancora di più nei loro occhi. La disperazione era tutta lì, accovacciata in quegli sguardi di pietra. Per la prima volta capivamo il significato della frase “retta ingente”. Per pagare il Real Collegio nostra madre s’era messa a cucire, nostro padre aveva perso il negozio, nostro fratello vendeva in strada, nostra sorella aveva abbandonato il sogno di suonare in conservatorio e faceva le pulizie in un ospedale. Nulla di questo fu detto, ma lo capimmo lo stesso, il Pallido traduceva per noi gli impercettibili indizi dei loro corpi in prove inoppugnabili.

Sarebbe bastato che nostro padre ci pregasse di restituire il Pallido che certo avremmo resistito, ci saremmo opposti con l’ultimo anelito della nostra volontà. Invece –parlando all’interfono– i nostri genitori dissero che avrebbero accettato qualsiasi cosa avremmo scelto, che ci avrebbero sostenuto in ogni caso. Gli occhi dei nostri fratelli però, lucidi di rabbia, ci raccontavano un’altra storia. Disobbedire era l’ignominia; non solo per noi, per tutta la famiglia. Nostra madre sarebbe finita a fare le pulizie nella stessa banca nella quale, col tempo, saremmo potuti diventare direttori.

Non tutti cedemmo nello stesso modo o nello stesso momento. Alcuni ci misero più tempo, altri meno. Alla fine fu la lucidità dei nostri Pallidi a darci la misura della realtà. Questo era il paradosso: proprio l’intuizione sovraumana dei simbionti confermava ogni congettura. La miseria, l’ignominia sociale, la solitudine, erano reali, anzi, inevitabili. Eppure, ancora non cedevamo. Sapevamo tutti che nel momento in cui avremmo reso il Pallido la nostra mente sarebbe cambiata per sempre. Mai più avremmo intuito la struttura proteica di una foglia guardandone le venature. Mai più avremmo sognato ad occhi aperti inventando soluzioni a problemi ancora non posti. Mai più avremmo sentito i lampi della nostra immaginazione sfondare il nero muro del possibile.

La voce dell’uomo con le mani bianche seguitava implacabile. Diceva che da secoli si era capito che solo i ragazzi sono davvero in grado di oltrepassare il noto e introdursi nell’ignoto. Ma la stessa capacità di dar vita all’irreale estranea, senza possibilità di ritorno, dalla vita sociale. Per questo separarsi dai propri Pallidi era l’unica strada possibile. C’è un tempo per seguire i sentieri dell’incanto; e un tempo per tornare e vivere del quotidiano, senza il quale l’immaginazione è solo un dono vuoto. Ora dovevamo scegliere.

Cosa potevamo fare? Nostra madre era lì, il viso rigato di lacrime e disperazione. Dietro di lei scorgevamo un deserto di passi perduti e strade miserevoli; e soprattutto, l’odore acre della pazzia. Ognuno trovò una sua ragione. Alcuni lo fecero per i genitori. Altri per la fame di onori. Altri per le ricchezze future. Altri ancora per la paura di diventare come il ramingo che avevamo visto in cortile. Alla fine però mettemmo tutti la mano dentro la scatola trasparente. Il Pallido non protestava, non ci supplicava, non gemeva nemmeno più. Lo sapeva, sapeva fin dall’inizio cosa avremmo scelto.

Stavamo per ritrarre la mano dalla scatola quando il buco si richiuse intorno al nostro polso. D’istinto provammo a liberarci, la sedia cadde con un tonfo alle nostre spalle. L’uomo dalle mani bianche aveva smesso di sorridere. Ci fissava con occhi duri.

“Non basta” disse “per rientrare nel mondo dovete sciogliere il nodo che vi lega. Fin quando la luce del Pallido splende vi resterà  una parte di lui, anche a distanza, anche dopo anni e anni. Se non volete diventare come quelli, dovete spezzarne il legame”.

Di nuovo non capivamo. E di nuovo –implacabile– il Pallido ci mostrò l’immagine di ciò che andava fatto. Scoppiammo in singhiozzi. Dei nostri diciassette anni, nove li avevamo trascorsi con quelli al nostro fianco, non ci si poteva chiedere una cosa simile.

Ma non c’era scelta. Così stringemmo il pugno. Prima piano, delicatamente, poi forte da schioccare le nocche. Quando il Pallido cominciò a urlare fu come se il suo grido ci si conficcasse nel petto e ci scoppiasse le vene. Qualcosa di caldo colava tra le nostre dita. L’interno della scatola s’era lordata di un sangue fosforeo, un icore denso la cui luminescenza conoscevamo come il sapore dei nostri sogni.

Il resto lo ricordiamo in modo confuso, immagini una sull’altra come un mazzo di vecchie foto. L’infermeria, i lunghi discorsi con il prete-psicologo, le visite mediche, e poi il rilascio, l’abbraccio con i familiari, la lunga strada del ritorno, il lento riadattamento al mondo di fuori, i primi colloqui di lavoro, la soddisfazione crescente per l’utile dei nostri sforzi, la lenta certezza di aver fatto la scelta giusta.

Fu pressappoco in quel periodo, un paio d’anni dopo il Grande Esame, che ci rincontrammo, noi vecchi compagni del Real Collegio. Quante risate al ricordo dei nostri scherzi, alle fughe proibite nelle dispense dei preti, alla paura degli esami sempre vicini!

Da allora non ci siamo più lasciati. Ci vediamo spesso, anche una volta alla settimana, nonostante gli impegni familiari e di lavoro. Amiamo soprattutto venire qui, in quei bar specchiati del centro dove tutti ci riconoscono per quelli che siamo: cittadini rispettati, amati, nomi che a dirli le donne si girano, gli uomini sollevano le falde dei loro cappelli. Nostri sono i progetti delle macchine che essi usano quotidianamente, nostri i drammi di grido, i manuali su cui le matricole studiano, nostri gli atenei, gli ospedali, gli istituti di ricerca, i teatri. E non ci importa più se da anni non abbiamo avuto una sola idea originale. Lasciatele ai ragazzi quelle, lasciate a loro la gioia infantile dell’invenzione! Ormai lo sappiamo: creare è un gioco per bambini. A noi basta far fruttare le intuizioni altrui, le nostre fin quando sono bastate, quelle degli altri quando essi non sanno come utilizzarle. In questo siamo diventati maestri, abbiamo imparato bene la nostra lezione. D’altronde, non abbiamo rimpianti. Conduciamo un’esistenza felice, al riparo dalle privazioni che colpiscono i meno fortunati. I nostri mariti, le nostre mogli, ci amano, e così i nostri figli, i nostri colleghi,  i nostri impiegati. Sappiamo esser generosi, magnanimi, giusti.

L’unica crudeltà che ci permettiamo è quella –una volta alla settimana– di riunirci in un bar del centro e stuzzicare quei poveri derelitti dei nostri ex-compagni, i raminghi. In fondo lo facciamo per loro. Se vedessero, se capissero l’abisso in cui sono finiti, forse tornerebbero alla luce della ragione. Ma è proprio questa caparbietà a non voler capire che ci incattivisce. Li odiamo, li odiamo con un odio che solo un ragazzo capirebbe. Eppure, non li si può uccidere. Essi devono rimanere un monito, segno vivente per tutti quelli che sono tentati di prendere la strada sbagliata.

Così quando li trasciniamo fuori dal bar specchiato, sotto al dileggio urlante della folla, ci tratteniamo a stento dal prenderli a calci, da riempirli anche noi di pugni e di tetre insolenze. Invece restiamo impassibili, sorridenti e distaccati, limitandoci ad assaporare il trionfo della loro mortificazione, la paura sulle loro facce rattrappite. Vederli a terra, madidi di terrore, è per noi gioia condivisa, balsamo miracoloso per la fatica delle nostre giornate.

Solo quando infine si rialzano non riusciamo a trattenere un brivido di disgusto. Sulla loro spalla freme la luce del Pallido. Costui ci fissa con i suoi occhi di insetto, muto, le antenne fosforee tese come braccia. Non dice nulla, eppure per un attimo abbiamo l’impressione che parli, che sussurri a un angolo morto di noi.

Ritto sulle sue zampe il Pallido ci scruta con sguardo fisso, senza accusare, senza rabbia, limpido nella sua luce, pura come un ricordo che non possediamo più.