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La banca

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di Massimo Parizzi

La banca c’era sempre stata. Non che fosse impossibile distinguerla dagli edifici adiacenti, lungo la via o il ricordo, ma quel giorno era diverso: il ragionier Bruni Carmelo vi entrava assunto. «Assunto» non poté fare a meno di pensare «come l’Assunta». E ricordò un quadro visto a Venezia, la Madonna in alto che ascende al Cielo, ma in basso cosa c’era?

Era una luminosa giornata dei primi di marzo, e l’edificio, cui sempre più s’avvicinava, era diviso in verticale tra ombra e luce: una linea retta che tuttavia, in un punto, si spezzava senza causa visibile, disegnando nella zona che, ormai, si sarebbe detta riservata all’ombra, una forma geometrica, irregolare di luce. Carmelo la notò. La sua causa non visibile era alle sue spalle, come quella della linea che spezzava, ma questa, che sembrava sufficiente a se stessa (che errore!), nemmeno faceva pensare, a una causa. Carmelo non si voltò.

Piacevano, al Bruni, le associazioni di idee o, come avrebbe detto, le società organizzazioni club cerchie conventicole sodalizi circoli gruppi di idee. Anche se a volte – o proprio perché – dal caso nascevano direzioni obbligate e quel primo, allegro senso di libertà diventava un comando che escludeva non meno di riunire, che escludeva più di riunire, poi, sempre di più, fino…

 

La banca c’è sempre stata. Più grande d’un negozio, ma come i negozi allineata. Il fronte dei palazzi. Ed è proprio la mia banca, quella che più assiduamente mi scrive. Le sue lettere che vedo in casella; e se è voltata all’insù, lo so: per l’intestazione, per il rettangolo trasparente con il mio nome e indirizzo. Sono contento lo stesso. Ma se è voltata all’ingiù lo immagino. Il lembo della busta che, incollato, la chiude… È stato il direttore, a venirmi incontro. «Il ragionier Bruni, immagino.» E subito al mio posto. «Imparerà presto.» La chiesa, invece, è in una rientranza: la scalinata, il sagrato…

 

La giornata era passata per Carmelo. Prima le presentazioni ai colleghi – uomo uomo uomo uomo donna donna uomo; vecchia, carina; formale formale sportivo sportiva sportivo sportivo sportivo – e con tutti del tu; e poi dietro a lui la più vecchia, avesse bisogno d’aiuto, al computer, non so, o con qualche cliente, noi li conosciamo tutti ormai, tutte le situazioni. Anch’io sono un cliente, è la mia banca questa. Ah sì? Non ricordo… Non ricordava. Questo l’aveva proprio seccato e a pranzo, a bella posta, s’era seduto a un altro tavolino, con quello là, quello insignificante, con la pancia.

 

La mia prima giornata di lavoro. Ho iniziato una nuova vita, che alla mia età…

 

Il ragionier Bruni viveva in un appartamento in affitto con la moglie e una figlia di sedici anni, che lo lasciavano rimuginare la sera, tornato dal lavoro – prima quell’altro, adesso questo – visto che in compenso lavava i piatti e aiutava sua figlia nei compiti. Quella sera a essere rimasto in sospeso era il perché una banca si distinguesse dagli altri edifici. Perché si distingueva, questo era chiaro, come una chiesa. Un paragone che non riusciva a togliersi di testa; e non gli piaceva. Non gli piaceva che si potesse pensare (che si potesse pensare che lui pensasse) al “dio denaro”. E poi le chiese erano edifici a sé, spesso in rientranze delle vie, mentre di solito le banche facevano parte dei palazzi, del fronte dei palazzi…

«Carmelo, è pronto!» Il grido risuonò improvviso, stupefacente. Sua madre gridava così, non sua moglie, non Francesca: sua madre, per chiamare il marito, suo padre, sempre in sala a leggere il giornale, e lui, in camera sua, e dopo, senza di lui, ancora adesso…

Infatti, quando non erano insieme in cucina, e all’ora dell’è pronto c’erano quasi sempre, a chiacchierare o star silenziosi, a lavare l’insalata lui, cosa che odiava, o grattare il formaggio, un po’ meglio, quando non erano lì Francesca arrivava, non un grido, gli diceva «vieni» e punto. C’era di che stupirsi anche senza essere nervosi, e Carmelo un po’ nervoso lo era.

Comunque ci andò, in cucina, e… dio! dio dio dio… una bottiglia di spumante, sul tavolo, e quella smorfiosa di sua figlia a dirgli «auguri!», con un bicchiere in mano, e quella fatale di sua moglie a dirgli «auguri per il nuovo lavoro!», con due bicchieri in mano. Auguri. Come quando aveva aperto il primo conto corrente della sua vita, in quella stessa banca, come quando aveva comprato la sua prima macchina nuova.

«Be’, non mi sembra proprio…» abbozzò un sorriso, corrugò la fronte, teatrale, d’un tratto primo attore d’uno sketch, prendendo il bicchiere dalla mano della moglie, che glielo porgeva, lì sulla scena, in primo piano. Dissimulò, simulò. Erano raggianti, quelle due.

«Papà, sei sempre il solito.» «No, sono cambiato. Impiegato di banca, da oggi. Da oggi faremo i conti, capisci?», ammiccò a Giuliana, l’adolescente. «Farai i conti.»

Sembrava non capire, e invece capiva. Sembrava sempre non capire, e invece capiva sempre. Neanche l’ironia era suo monopolio, di Carmelo, in famiglia. Era distribuita. Terreno comune, luogo comune che se stringeva gli affetti apriva alla comunicazione, al dialogo, alla discussione, al contraddittorio, alla polemica. Inquietante. «Mmhh…» Era raggiungibile anche lì.

«Farò i conti, va bene, farò i conti.» Se era questo che voleva, metterlo al suo posto, un posto suo, dove lui avrebbe fatto… «Volete smetterla, voi due?», intervenne sua moglie tornando dal forno con una teglia di cannelloni. Ma che cosa avrebbe fatto, non lo sapevano.

 

Giuliana vuol mettermi al mio posto. A volte mi tratta, me suo padre, come un figlio. Ma se sapesse come lo desidero, un posto mio! La notte in questa, nella mia casa silenziosa, mi sembra un furto. Il respiro di Francesca… il respiro di Giuliana… Ed io a rubare, di qua. Loro non lo sanno. Poi tornerò a letto, accanto a Francesca. Le ho detto: «Poi vengo». Non più il silenzio, ma il suo respiro. Dov’è più difficile rubare, quasi impossibile, ma di qua… Un posto in banca ora ce l’ho, ma non è mio.

Un computer a destra, uno a sinistra. Un impiegato a destra, uno a sinistra. In mezzo io. Una linea una fila un fronte. Tutti che parliamo ad alta voce. Ad alta voce? No. Il fronte dei palazzi… a destra… a sinistra… Comunque parliamo, parliamo comunque. E facciamo gesti visibili. Mai il silenzio che c’è in chiesa. La rientranza d’una chiesa. Io e Francesca a letto, tra poco, uno accanto all’altro. Lungo una linea. Ed anche mio padre che lavorava in banca…

Ecco perché c’è sempre stata. Ecco! La prima elementare, e lavorava in banca, la prima comunione, e lavorava in banca. Da quanto tempo ricevo i suoi estratti conto? Venti, trent’anni? Eppure, ogni volta, è qualcuno che m’ha scritto. Per finta, ma m’ha scritto. Non vale, ma m’ha scritto. Prima la casella era vuota, poi è piena. E io sono contento. E anche se la lettera è come se ci fosse sempre, in casella, ci fosse sempre stata come la banca: si distingue lo stesso. Bianca.

 

Carmelo si staccò dal tavolo di quella che chiamava la sua “stanza”, e se ne staccò scuotendosi: una decisione che s’impose. Era giunto il momento. Conosceva quello svolgersi di pensieri, le parole che portavano una all’altra, e se all’inizio poteva sembrargli non ci fosse niente, poi, quasi sempre… sì, un senso di libertà, nessuno intorno, nessun confine ma uno spazio che si riempiva. Non doveva, esserci niente: soltanto le parole, niente. Una parola e non un’altra, che a volte gli sembrava di capire, ed era contento per questo, ma spesso non per quello che capiva.

Auto-antologie-3. Viola Amarelli

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di Viola Amarelli

campagna d’inverno

La luce di gennaio che ora è febbraio filtra le foglie

dei sempreverdi

i tronchi con i rami pazienti di vento

questa immane stanchezza di

nuvole in corsa, riepilogo di temporali,

spossa il midollo e la pelle a toccarla si secca

restano, eroi, i cani randagi e le code di uccelli

ci vorrebbe un riposo incessante

un letargo che plachi la crosta e protegga le ossa,

il latte che è inacidito l’hanno

buttato nel pozzo, gli sciocchi.

 

com’è

Persone con cui più nulla a vedere, liberi loro i cieli, com’è

avviene. Lasciar andare, ai lazzi sfiorando lazzari

perduti tra trippe e foie, analità di sogni come banale è

 

un sospiro trattenuto e poi di slancio espunto dal petto che la tisi ora risparmia

risparmierà il coltello l’uomo incappucciato, il macellaio che attento alle dita sega e

ritaglia ad arte cappelli a prete, pezzi di cannella e rosoni barocchi per le panze

 

laddove l’acqua manca e gli occhi appannano i deserti, così è

fresca la risata nella risaia allagata, verdi piantine, chicchi da sgranare

mala e rosari per contare tempo e mielina calma, piatta

 

alle navi fameliche corsari ricomparsi dai libri, pescecani, occorrerà pure mangiare

sputo e scorbuto, ostaggi e soldi per tirare avanti alla campata di ponti sbertucciati

c’erano scimmie sì snodate e buffe, vecchie cugine, zie dai peli torti,

 

torcia le bocche degli amanti nell’amplesso per i bambini

con i pastelli rotti lacrimando fino a sorridere alle bolle colorate

di un clown dal naso rosso raffreddato.

 

Collassava di torrido e stupore quel pinguino dirottato su spiagge tropicali

asino in mezzo ai suoni di ghiacci liquefatti tra vortici e turbine così è

azione atto indizio traccia, scalfisce sabbie e piogge,

 

enorme dirupo alla montagna, l’erosione,

daccapo, nuovamente, l’incessante, forma su forma

riposa, mia madre chiuse gli occhi dicendo ora di andare

 

così è come, non trattenere, sparse, macchie

di ossa ormai cristallo sfaccettato,

il tempo, una bolla ora di andare, così come il blu di prussia

 

avvolge nel velluto tutti i regnanti, mia imperatrice

guerriera abbandonata, così è, chiudendo gli occhi la gioia

della bambina, la bocca estenuata nei silenzi,

 

lontano strilla la neonata tra i leoni, spaventati.

 

Giacomo a Fontanelle

L’acqua e il tufo alle cave

nell’ombra delle Vergini, quelle che tutto accolgono

lumini per le offerte, preghiere di promesse,

sonde degli operai in gruppo come oranti

su nove metri d’ossa, nette di

teschi e tibie

l’anime pezzentelle scorrono senza affanno.

L’acqua sulle pareti scandisce respirando

calcare d’algoritmo, gioco sacro d’istante

quello che disperavi, tocco di solo affetto,

stretto ora insieme agli altri

corpo vivo silenzio

anonimo finalmente.

 

* il “Cimitero delle Fontanelle” nelle cave di tufo delle “Vergini” a Napoli, fu luogo di

sepoltura di massa sin dal 1500 e sede del culto devozionale alle “anime pezzentelle”.

Secondo un’ipotesi plausibile qui sarebbe stato in realta interrato, anonimamente, anche

il corpo di Giacomo Leopardi .

 

 

prendi un coltello

 Prendi un coltello-bambina.

Attenta ai mostri. Ai lupi. Ad amici e parenti.

E sconosciuti.

Prendi le forbici – gioia.

C’è il male e c’è la pazzia.

Attenta a non incontrarli, per ora, ora che è

troppo presta.

Diventa tu folle, affonda le lame,

dentro più dentro coi denti.

C’è la paura e c’è l’orrore. Umano.

Carezza le bestie.

Tua madre ti ama.

 

fluxus

Il fascio in flusso sforma pensieri come papere

celiando, in gran silenzio, sembra, un segreto inesistente:

l’urlo affocato e ruvido del male

tramente giù gloglotta limpido l’accade

che ripassa, vecchio scherzo, il tempo

lascia la presa e nuota, più veloce,

come la tartaruga quando ad Achille

brontola il fiato.

(da Le nudecrude cose e altre faccende, L’arcolaio, 2011)


 

pater

Questo vecchio che sta per morire

dietro il vetro del tubo catodico

grigio cenere nel blu del tracciato

lontanato il pensiero e il dolore

è stato suo padre, stupito e a disagio.

Può durare a lungo, avverte il dottore

di turno, non credo – ribatte la figlia,

probabile l’unica che l’abbia mai amato –

ha sempre cercato di non dare fastidio.

 

e saettante

strido rime petrose

sillabe atonali degne di un’orfana sibilla

a mille a mille i giri della

mente, pure endorfine

ah, fossi buio

rifugio numinoso e saettante.

(da L’ambasciatrice , autoprodotto con Sartoria Utopia, ora in e-book, 2015)

 

naviga

naviga, nevica,

sul mare? aurora boreale

 

l’illusionismo il magico, la voglia di

 

da fuori molto,

tutto, normale

 

démoni

Nessuno mai si impadronì di me
salvo i miei demoni
oscuri e privatissimi,
le lunghe sigarette
prima, prima
prima che scoprissero
la rima.

(su “viomarelli.it”, 2015)


 

I – Vocazione della Pizia

L’unica volta ch’era stata al mare

bambina, il padre con l’asino,

frogi nella brina,

vento di sale e turchese a chiazze lo stupore

immenso, pari al cuore senza linea,

il sole di rincorsa nuvole e spuma

ballerina,

nel balzo il muso e pinna cresta all’onda

Febo delfinio, all’unisono apertura

d’istinto scelta, l’aria nitore cristallino.

Un pesce e una bambina

scesa da collina

dove il salmastro s’addolciva a olivo,

gaudiosi l’uno all’altro fuori dal tempio

era – è – mattina.

 

(da Notizie dalla Pizia Lietocolle, 2009)

 

la candida, l’intatta

 Cuore bambino dove

la briciola diventa meraviglia

e l’orco resta ucciso grasso

e sciocco

la candida, l’intatta

noncuranza.

 

terragna

 Movendo, metamorfosi di muta,

serpe terragna fra pietre e polvere

la cerca di

gradienti verde.

Tutto dovrebbe essere

alberi ed erbe.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 


glosse

Lunghissimo e prolissimo quel metro d’indicibile

dubbioso d’ineffabile non trova mai

l’a capo.

Breve. Bene, elimina il superfluo:

l’io e il verso.

Sono tre gatti, nessuno li ascolta

pure si azzuffano come dannati.

Non fate caso, nulla di grave,

solo poeti, ovviamente italiani.

Recensioni:

-“dio quanto sei bravo”

-“grazie, sapessi tu”

(da Le nudecrude cose, cit)

 

notarelle

Chiedono che ne pensi di uno, come tanti,

uno che già è famoso, gentile, diaristico.

Uno che va a capo.

L’alfabetizzazione – di massa – comporta

che tutti i logorroici ora siano grafomani.

Spacciano; altro aduso adatto setaccio: noi si tu no

appoltigliano in mixer. mode d’emploi.

feticcio la ricetta.

Sfortuna. Non sono andata a letto con Verlaine.

 

melassa per formicole*

queste

scialbe

pallide

arrese

respirazioni artificiose

 

*verso di Jolanda Insana

 

# poeti

tutti questi esseri luminosi, puntiformi, umbratili, lievi, sfioranti,

carezzevoli costantemente volti ai propri affari

 

 

io scrivo te

io scrivo te che prefazi me che pubblico il tuo amico che plaude i miei

interventi critici che insieme organizziamo algidi evenenziali ostensioni

di tosti testi nostri diffondendo asemantiche endovene, sintassi

scarrupate, lacerti necrofori. Amen.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

fermo posta

 poi,

poi non arrivò mai a nessuna parte:

un piccolo codazzo di

discepoli,  qualche lettura, un libro,

inferno-fermo posta

(su viomarelli.it, cit)

 

metafisiche

 metafisicizzando

la trascendenza un blu scuro luminoso

l’immanenza un grigio perla chiaro

senza più un granello di polvere,

comunque.

 

tre cose

 tre cose mai capite:

me, la matematica e gli umani

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

sull’orlo della fine

Sull’orlo della fine la pioggia fitta sottile, le tre del pomeriggio la

domenica nell’aria grigia e umida, l’acqua

che scorre

silenziosa su cianfrusaglie stese su stracci di un

mercatino d’usato, improvvisato, scolora plastica

e scarpe e maglioni già

fossili ora petrolio. In un silenzio clamoroso scivolano

ragazzi neri, vecchie badanti dai capelli tinti masticano

panini, chi

baderà loro, i ragazzi neri scivolano tra buche e

cedimenti, l’acqua che stinge, infreddoliti in cappotti,

giacche a vento

sciarpe nere e grigie e bianche, nessuno di loro con un

ombrello. Una luce purissima traslucida scandisce ogni

dettaglio,

lo dilata sull’orlo della fine la piazza enorme, cantiere

eterno già caduto a pezzi, cammini su basalto, passi

sull’asfalto roso

da ruote e acqua, freddo d’umido. Tra un po’ – quando –

non ci saremo più, noi, la pioggia, la piazza enfia e

ansimante, gli

esseri umani tutti, tra un po’, non tanto. Sta attento a non

bagnarsi le scarpe, slalom e rally, attento alle auto, ai

vecchi

travestiti da nipoti, alle vecchie spedite a morire affianco

ad altri vecchi, sta attento ai ragazzi ninja spaesati senza

sole, qui, che ci sarebbe, ma devi pensarci, il mare, tra

un poco scoppia, lo sente, tutto e giustamente. Non più

occhi né

gambe, né idee né pozze né fiati. Niente di niente, per

noi, tutti, ovviamente. Meglio così, ci sarà qualcosa

d’altro e chi

dice che non sia meglio. Arriva quasi alla fermata, di

fronte alla stazione, non c’è mare non c’è sole solo acqua

incolore,

sta per salire sul pullman, quando inciampa inzuppa

infradicia le scarpe, gomma e pelle, il piede la sua pelle,

come accade,

frequente, quando pensi che sia finito e tu, almeno, in

salvo e allenti la tensione e sei finito. Un pezzo di strada

e di

giornata. Una vita di viaggi. Sull’orlo della fine, degli

umani. Peccato, resta sospesa l’aria, non che non possa,

non deve

farci niente.

(da Le nudecrude cose, cit)

 

orifiamma

 Ora che il giglio più non segna i giorni

e  l’ombra dello sguardo nella notte

è come quel portone chiuso alle spalle,

ora frantuma la linea del crinale,

la piazza vuota, la notte di cristallo

 

( da La deriva del continente, Transeuropa, 2014)

 

innominata

sordida morte, re
pellente, ti ho amato

(da viomarelli.it, cit)

 

recherche

 Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto la brucio. Rimbalza,

reingoia, la lingua già amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. il

mondo è  parole, a cambiarle, il mondo si cambia. Una rosa è una rosa è

una rosa. roseggia. L’ortica orticheggia. e risana.

(da L’ambasciatrice, cit.)

 

polvere

 le parole sono pietre.

tu scheggiale

fino a che non diventano sabbia, polvere.

fine.

(da viomarelli.it,  cit)

 


 

“ Non si sviluppa tempo nel tempo della poesia. La poesia resta ferma”  (Corrado Costa)

La poesia può essere uno strumento del/sul linguaggio estremamente preciso e affilato, il che le consente di arrivare veloce come freccia al nucleo di un logos. Brodskij la riteneva, giustamente, un “corto circuito” cerebrale, che la rende, quindi, un potente mezzo euristico per indagare, e, come ogni espressione artistica, una forma di conoscenza. Noi lavoriamo con una lingua ereditata, su un palcoscenico già allestito da millenni: proviamo a piegare le parole ma molto probabilmente sono loro che piegano noi in un flusso bidirezionale.. Ci illudiamo di dar voce – o sguardo – a un picciolo, a un incubo, a un progetto, in realtà i versi sono immersi in un processo che si schiarisce, o complica, nel formarli e le forme si rivelano innumeri. Da questo punto di vista sono polifonica, la monodia di ascendenza petrarchesca non mi ha mai molto interessato  e indubbiamente l’imprinting infantile di filastrocche si è coniugato alle letture di Marco Valerio Marziale e al futurismo russo e poi a Caproni e Porta. La scrittura è una spugna: quello che hai, ridai, per questo ogni poesia è sempre dannatamente, anche nolente, politica. (Viola Amarelli)

Nota

I testi che precedono sono tratti da varie pubblicazioni e seguono un disordine che vorrebbe dar conto delle varie forme che provano e scoloriscono, sono mere esemplificazioni di lavoro e non rientrano in una qualsivoglia  tassonomia di  maggiore efficacia o qualità. (V.A.)

 


Viola Amarelli, campana, ha esordito con la raccolta di poesie Fuorigioco (Joker, 2007), seguita  dal  monologo Morgana, (e-book, 2008 ),  dal poemetto Notizie dalla Pizia (Lietocolle, 2009), Le nudecrude cose e altre faccende (L’arcolaio, 2011),  dai racconti di Cartografie (Zona, 2013),  L’ambasciatrice (autoprodotto con Sartoria Utopia, ora in e-book.  2015) e, in veste di co-autrice,  La deriva del continente (Transeuropa, 2014)  e  La disarmata (CFR, 2014). E’ presente in numerose antologie,  riviste cartacee e on line, è stata tradotta in Germania.


 

Auto-antologie prosegue con Viola Amarelli e  il suo percorso poetico. Appartengono alla stessa rubrica gli spazi dedicati a Francesco Tomada , a Vincenzo Frungillo e a Francesco Filìa . Sul lavoro di Viola Amarelli è possibile leggere un mio intervento qui.

L’idea di curare delle micro-auto-antologie risponde al desiderio di tratteggiare una direzione, un possibile senso -anche solo accennato-del percorso di autori che hanno raggiunto, a mio avviso, una prima maturità letteraria. L’autore è invitato a guardarsi indietro e a ricostruire emblematicamente le fasi del suo lavoro, proponendo a tal fine anche una pagina di auto-presentazione e una scheda bio-bibliografica. Nel flusso incessante spesso vitale ma anche caotico della rete credo che siano utili dei momenti come questo di coagulo, di rallentamento.

Continuo in altra forma il lavoro iniziato con  la rivista on line Poesia da fare (2005-2007)  insistendo ancora sul rallentamento e sulla sedimentazione. Gli autori che invito ad auto-antologizzarsi sono poeti che, per il mio gusto, illuminano , da particolarissime prospettive, il nostro tempo, individuando, spesso con spietatezza, i rapporti di potere nei quali siamo invischiati o quelle semplici evidenze esistenziali che si tendono a rimuovere.

Qui il lavoro sul linguaggio poetico non è fine a se stesso ma è teso a rendere più efficace la configurazione intensa di un’esperienza umana ed estetica radicata in realtà per lo più condivise, comuni. Questo è anche ciò che intendo, almeno ora e provvisoriamente, per “poesia di ricerca”.
In un’epoca in cui sembra che le soggettività reali perdano sempre più la possibilità (e anche il sogno) di decidere del proprio destino, in una generalizzata precarietà e ricattabilità,  l’espressione poetica pare moltiplicarsi, anche grazie alla rete, e offrirsi come un luogo speciale di pensiero, di creazione e di relativa socializzazione.

Moltissimi scrivono ciò che ritengono in buona fede “poesia” e la “postano”  anche per questo, cercando e spesso trovando il consenso e la reazione dei propri “amici” di rete.
La valutazione dei risultati estetici poi dipende ovviamente dal gusto, dalle esperienze e dagli orientamenti culturali del lettore. B.C.]

 

I Pallidi

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di Giovanni De Feo

Il racconto è apparso sul numero 5 della rivista Hypnos.

Jeannie L. Paske, An attempt to convey
Jeannie L. Paske, An attempt to convey

La sera, seduti a bere ai tavolini sul Gran Corso, li vediamo entrare circospetti nei bar eleganti e specchiati con fare mesto, da cani bastonati. Appena uno di noi se ne accorge fa gomito agli altri; al tavolo si quietano le risate, zittiscono le battute, ci giriamo unisoni a fissare i nostri nemici con occhi di profonda foresta.

Ancora prima di scorgere il Pallido che quelli si nascondono ben bene addosso –nelle maniche, nei taschini, nei tascapani– ancora più delle camicie lise, rovinate sui colletti, ma che pure mantengono un’aria di dignità surrogata; ancora meglio degli occhi disperati, che dardeggiano paurosi in faccia alla folla, a tradirli è la loro camminata da cani stanchi, randagi nel passo e nell’anima. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, ma hanno sempre quel modo guardingo di guatare fino al bancone del caffè, la testa come in ascolto del rombo lontano del pericolo.

E noi, noi siamo per loro quel rombo, e quel pericolo. Subito, come per ordine convenuto, ci alziamo, sorridendoci negli occhi scintillanti e duri, pregustiamo a labbra strette l’umiliazione loro e la nostra profonda soddisfazione. Già il ramingo –così li chiamiamo tra noi– s’è accostato a una signorina che sorseggia lenta un Campari. Col suo librettino aperto costui cerca di imbastire il suo discorso. Lo fa anzi con subdola abilità, da raffinato imbonitore; prima un complimento sulla sua stola di visone, poi sulla bellezza degli orecchini di giada, e il suo buon gusto in fatto di scarpe. Infine produce qualcosa, un oggetto, che attragga su di sé la prima domanda. Può essere un disegno, un quadernetto scritto, una mappa, un piccolo congegno meccanico, qualcosa che egli possa far scivolare sul bancone come per caso, malaccorto. Appena la ragazza cede alla curiosità e chiede, ecco che parte la confessione.

 Egli è poeta, o inventore, o artista, o attore, oppure qualcosa di così assurdo e originale che non può avere nome. Quante ne abbiamo udite negli anni! I creatori di rotte transmondiane, i linguisti di idiomi che esistono solo nei mondi sovralunari, i cartografi di isole di Mezzanotte, i cacciatori di bestie bifronti che vivono in vette remote e il cui corno –assicurano– curerebbe la tubercolosi e le febbri tifoidi.  E anche gli artisti, in fondo i più modesti tra quelli, non si arrabattano dietro a un traguardo comune, i poeti non scrivono liriche d’amore, i pittori non dipingono affreschi nelle chiese o quadri per i committenti, gli attori non cercano la gloria dei teatri alla moda; no, per essi questi sarebbero scopi mondani e quindi disprezzabili. Allora si scopre che il poeta ramingo sta completando un’epopea in centomila versi sulla nascita di una galassia, che il pittore dipinge un affresco di battaglia usando per colori i fosfemi dei pesci abissali, che l’attore si è scritto la parte di un dio-pantera e che recita senza battute, gettando fiori e quarzi colorati dalla bocca, invece di parole. Gli scienziati poi sono i peggiori. Ci sono gli scopritori di nuove pseudo-scienze, gli oneiromanti, i criptomorfi, i necroloquii, gli inventori di macchine che trascrivono le parole non-dette dei neonati, di biciclette-dinamo che si caricano a luce lunare, di occhiali che leggono i giornali nel futuro, e poi i chiropratici degli arti fantasma, gli psicologi dei gatti-mannari, gli ematologi dei vurdalak d’Alsazia.

Farebbero quasi pena, se non fosse per l’onta che lasciano nel nostro mondo, l’orrore profondo della loro stessa esistenza. Tutti però sono accumunati da una sola necessità. Il vil denaro, che a parole essi disprezzano perché li stornerebbe dai loro ideali, ma che poi è il solo scopo dei loro raggiri da bar. Se la signorina volesse un assaggio della loro arte ­– ecco, uno schizzo– se si pregiasse di lasciar come pegno della futura riuscita, ormai sicura, anzi imminente, un piccolo obolo, un’offerta, un pegno al futuro radioso…

Quello è il momento in cui non riusciamo più a star fermi, il disgusto vince il fascino con cui da tempo osserviamo la nostra preda. Allora i più spigliati tra noi si fanno vicino al bancone fingendo di ignorarli, gli altri che osservano la scena dalle specchiere rabescate.

Non c’è un solo modo per smascherarli. Negli anni ne abbiamo ideati tanti che non li ricordiamo più. Non per amor di originalità, sia inteso, ma perché il godimento della loro umiliazione sia sempre nuovo e fresco, una primizia da spezzare cruda tra i denti.

Il modo più ovvio è quello di ordinare una brioche e di sbocconcellarla su un piatto, proprio di fianco al ramingo. Ma non è la sua fame che ci interessa, quanto quella del Pallido che egli nasconde. Appena infatti la creatura sente quell’odore zuccherino si affaccia dalla tasca della giacca, allunga zampette anelanti. Basta che la ragazza lo scorga che si alza l’urlo, subito ripetuto da venti bocche. Urla di scandalo, che un Pallido è vista appena sopportabile su un bambino, visto addosso a un adulto è un abominio.

Alle volte ci accorgiamo di primo acchito dove il ramingo tiene il suo genio tutelare, vediamo il tascapane o la borsa smuoversi di rigonfiamenti sospetti. Allora uno di noi si fa sotto come ubriaco, colpendo repentino con il gomito. Uno squittio. Subito il ramingo è costretto a scostarsi, a frugare, per sincerarsi che il suo Pallido stia bene. Non appena il mostro è fuori uno di noi si fa sotto, lo pesca per la coda mostrandolo allo sgomento degli altri avventori.

E come grida, come supplica il ramingo che gli si restituisca il suo tenero orrore! Ridiamo. Eccolo smascherato, sotto gli occhi di tutti. E noi ne godiamo, ebbri di gioia profonda. Ancora più grande è la nostra soddisfazione quando riconosciamo in quel supplicante un antico compagno di collegio. Allora attacchiamo con lo scherno feroce dei nostri sedici anni, rivanghiamo aneddoti o ne inventiamo di nuovi, gli altri avventori che ridono, il barista ammicca anche lui dal bancone.

Certo, in questo accanimento c’è l’ombra azzurra della nostra nostalgia. In fondo lo facciamo anche per loro, nella tenue speranza che essi rinsaviscano e si sbarazzino dei loro impresentabili compari, che come noi entrino a testa alta nel mondo. Forse non ci sono tra noi scrittori premiati, galleristi affermati, attori di indiscutibile talento, redattori di importanti giornali, critici, direttori di banca, architetti, biologi? Quante volte abbiamo offerto ai nostri antichi compagni un posto nei nostri giornali, un impiego nelle nostre banche, una critica benevola in un settimanale importante, purché essi si sbarazzino dei loro mostri? E a che serve? A nulla. Pare quasi che la loro condizione di emarginati sia per essi un vanto, che più grande è il loro degrado e lo sprezzo degli altri, più alta è la stima che hanno di se stessi. Dicono che con le nostre meschine offerte li vogliamo comprare, che vogliamo corrompere la loro purezza, come se di questa purezza non avessero fatto scempio compromettendosi con le più putride elemosine. Ad ogni modo, è fiato sprecato. Una volta che si è salvato un Pallido dal Grande Esame se ne resta schiavi a vita. Pure, bonari come siamo, non riusciamo a staccarci del tutto dal nostro antico affetto.

È che ce li ricordiamo ancora bene quegli anni, gli anni delle aule alte e profonde, dei refettori infiniti, delle scale labirintine, dei dormitori fiochi e senza fondo, gli anni del Collegio. Anche dei nostri Pallidi ci rammentiamo, sebbene più vagamente, come un sogno appena sfumato dall’alba. A dirli i loro nomi assurdi ci fanno sorridere d’imbarazzo: Pirchio, Cecio, Saramello, Bui-Bui, Tindaro, Sam’r.

Ricordiamo però bene la notte in cui fummo svegliati dalle suore nel dormitorio e venimmo condotti alla segreta Vasca d’Innesto. E la nostra meraviglia –ingenua, certo– davanti a quel brulichio guizzante e proteiforme, l’invito a immergervi il braccio, a “farsi scegliere”, e poi quel zampettio sulla mano, il Pallido che con la sua testolina di vecchio amoroso, e il ritorno, barcollanti come sonnambuli, ognuno con il suo Pallido abbrancato sulla spalla, e poi sotto le coperte, incapaci di dormire per la felicità, tutti con le lenzuola tirate sulla testa, ogni biancore acceso del fioco luccichio dei Pallidi, e non un solo colore uguale.

Avevamo otto anni. Che ne potevamo sapere del mondo? Per noi la vita era quella; le lezioni al mattino nelle aule decrepite, i Pallidi che –accoccolati sulle spalle– mormoreggiavano nelle nostre orecchie; e allora le prime idee improvvise, ci incendiavano come nembi ardenti di luna, idee frettolosamente scritte in disegni e scarabocchi, e i preti che sfilavano tra i banchi, annuivano seri quando requisivano i nostri fogli, li impacchettavano in quei grandi faldoni gialli. E quando chiedevamo perplessi perché gli adulti non avessero anche loro dei Pallidi, ci veniva data la stessa risposta: che li avevano, ma per gli adulti non stava bene mostrarli, solo noi bambini potevamo, e di questo eravamo fieri, ci sentivamo il petto scintillare di felicità argentina.

Così per anni, di anno in anno, di esame in esame, sempre più complessi. Ai disegni liberi dei primi anni si sostituirono le lezioni di prospettiva, i temi letterari, le equazioni, i compiti di geometria, le dissertazioni di storia. E sempre di più i Pallidi agivano sul nostro spirito, soffiavano in noi la fiamma del loro genio.

 Simbionti, questa era la parola che imparammo, i Pallidi erano i simbionti della nostra anima. Vivevano in totale comunione con noi, spilluzzicavano dai nostri pasti al refettorio, si svegliavano di soprassalto ai nostri incubi, voltolavano con noi nei medesimi accessi di risa alle battute dei compagni più arguti.

Man mano che crescevano le nostre conoscenze imparammo che non c’erano risposte giuste, e che anzi quelle più originali, talvolta le più assurde, venivano premiate dalla suore con solenni sorrisi e un piatto in più di dolce al refettorio. Incoraggiati ci scatenavamo a inventare problemi di cui fornire le soluzioni più assurde e divertenti. Quale era la distanza più breve tra due punti? Una retta. Ma se invece di una retta ci fosse stato un arabesco, che però agiva in uno spazio quadridimensionale? Non sarebbe stato meglio? E giù risate.

Ma non sempre le nostre soluzioni erano fatte a ridere. A volte le prendevamo maledettamente sul serio, ci sfidavamo a duelli di trigonometria, di letteratura comparata, di modellizzazione storio-geografica. Le nozioni di base le davamo per scontate, d’altronde se eravamo entrati nel Real Collegio memoria e intelligenza non ci difettavano. No, la vera difficoltà era elaborare problemi che fossero insolubili, di cui nessuno potesse avere la risposta.

Era questo che facevano davvero i Pallidi: non trovavano per noi le risposte, quanto domande che riformulassero il problema in modo del tutto nuovo. Era quello che amavamo fare di più. Non studiavamo per avere buoni voti, o perché volevamo far bella figura ai nostri genitori, e nemmeno perché volevamo capire. In quegli anni ci sembrava che il mondo più che scoperto andasse reinventato, e che studiandolo noi potessimo non solo capirlo, ma ricrearlo daccapo nelle nostre menti.

Man mano che proseguivamo nella gerarchia scolastica i nostri duelli diventavano ufficiali, monitorati da occhi severi. Dal primo liceo divenne proibito, pena l’espulsione, tenersi qualsiasi idea ottenuta attraverso i Pallidi. Tutti i nostri schizzi, tutte le nostre equazioni, i nostri componimenti letterari finivano in quei faldoni gialli. Talvolta nel Collegio venivano professori importanti di università e accademie, ci ponevano problemi sempre più difficili, che pure noi risolvevamo con furia geniale. Bruciavamo, e tutto ciò che toccavamo diventava fiamma.

La notte, nei dormitori dei più grandi, i Pallidi si arrampicavano sul soffitto e facevano strane evoluzioni, intrecci di luce che ci incantavamo a fissare, e a seguito dei quali facevamo sogni straordinari, che spesso ci fornivano la soluzione di compiti dalla consegna imminente. Perfino i nostri sogni erano monitorati, registrati con scrupolo dalle oneiro-scriventi ad aghi che le suore tenevano sotto i nostri letti. Anche quell’invenzione –non ci stupimmo di scoprire– era stata ideata da un vecchio studente del Real Collegio.

Intanto il Grande Esame si avvicinava. Nessuno di noi sapeva in cosa consistesse, né era possibile che ne trapelasse il segreto, dal momento che gli ultimi test si tenevano in una torre-guglia distaccata dal nostro comprensorio. Inoltre, tutti quelli che passavano l’esame non rientravano più nel Collegio. Anno dopo anno avevamo visto gli studenti delle ultime classi prepararsi con giubilo all’esame, marciare verso la torre-guglia e di lì guadagnarsi l’uscita per il mondo. Naturalmente tutti gli adulti lì dentro avevano passato quell’esame. Ma la reticenza dei professori su quell’iniziazione era totale. Interrogati sui suoi misteri, rispondevano con un mutismo assoluto, parete liscia e dura su cui non trovavamo appigli.

Solo due cose sapevamo per certo, sebbene nessuno ce le avesse dette. La prima era che, per quanto difficile fosse, al Grande Esame nessuno veniva bocciato. Non si sapeva infatti mai di uno studente che lo avesse dovuto ripetere. La seconda era che ­–da quel momento in poi– non avremmo più avuto il permesso di mostrare i Pallidi alla luce del giorno. Questo era un problema sul quale avevamo ragionato a lungo negli interminabili pomeriggi del dopo-mensa.

Molti di noi non potevano nemmeno concepire di dover nascondere il proprio simbionte a vita; sarebbe stato come celare il proprio viso fino alla morte. Peggiore ancora era l’idea doversene separare, anche per un breve periodo. Eravamo infatti certi che il Grande Esame avrebbe coinvolto non solo lo studente, ma anche il suo Pallido. Un esame dell’anima, oltre che della mente. Per questo, ragionavamo, saremmo stati separati per un breve periodo dal nostro compagno. Quell’idea ci atterriva. Eravamo ormai talmente assuefatti a loro da non riuscire a staccarcene se non per pochi istanti. Bastava lo perdessimo di vista che subito i pensieri ci si confondevano, il cuore diveniva un morso amaro, finché non potevamo toccarlo nuovamente.

Così nei mesi che precedettero la grande prova ci esercitammo, nottetempo, nel gioco atroce del distacco. Lasciavamo il nostro Pallido nelle mani del nostro più fidato compagno e poi, le lacrime agli occhi, ci lanciavamo di corsa fino all’estremità del corridoio che dal refettorio dava ai dormitori. Già dopo i primi passi sentivamo la nostra anima tirare allo spasimo. Anche il Pallido gemeva, si contorceva nella presa del compagno, la sua luce pulsava furiosa di dolore. Molti svenivano a metà corridoio. Altri si fermavano subito, ansimanti, stremati. Solo pochi arrivavano fino alla fine. E quando alla fine tornavano, e il nostro compagno lasciava il Pallido correrci incontro, quanti pianti, quante risate! Ci sembrava come ci avessero restituito la parte più preziosa di noi stessi, il posto segreto dove risiedevano tutti i nostri entusiasmi.

Fu in quei giorni, una settimana prima del Grande Esame, che vedemmo il nostro primo ramingo. Stavamo facendo ginnastica nel gran cortile quando un uomo brizzolato dai vestiti dimessi, gli occhi iniettati di sangue, irruppe in mezzo a noi urlando, gemendo, piangendo che dovevamo scappare tutti, subito, prima che …

Una torma di preti gli saltò addosso, costringendolo a terra con la pura forza del numero. Non abbastanza in fretta però. Avevamo visto tutti: l’uomo aveva un Pallido sulla spalla. Era la prima volta che vedevamo il simbionte di un adulto. Immediatamente collegammo la pazzia dell’uomo a quella stranezza. Doveva essere così. Per qualche misteriosa alchimia dello spirito chi oltre una certa età mostrava il proprio Pallido finiva per perdere la ragione. Da quel giorno l’obbligo di nascondere il proprio simbionte non ci parve più così arbitrario ma al contrario, sacrosanto. Ancora di più stimammo la saggezza dei nostri maestri e ci pacificammo con la durezza di quel comandamento che finora avevamo ritenuto ingiusto.

La notte prima del Grande Esame la passammo per la maggior parte insonni, ognuno con la testa sotto il lenzuolo, a bisbigliare al proprio Pallido. Visto dal di fuori, il dormitorio pareva la fantasmagoria di un accampamento, di quella prima notte, quando le suore ci avevano condotto a conoscere i nostri eterni compagni. Cosa dicemmo loro in quelle ore frenetiche non lo ricordiamo. Rammentiamo invece l’odore caldo di quei corpi splendenti, un profumo di lampada accesa. Ancora oggi, anche se molti di noi hanno dimenticato i loro nomi, ricordiamo il profumo che avevano quella notte: pungente, aspro, splendente.

La mattina seguente ci trovò a marciare in lunghe file verso la guglia oltre le mura del Collegio, nera e dritta come un dito arcano sulla bocca del sole. In file di due entrammo nelle grandi sale, rintronavano dei nostri passi. I preti e le suore ci sorridevano di una felicità elettrica. Uno a uno venimmo istradati verso un corridoio di porte grigie. Nel momento di separarci i nostri sguardi lampeggiarono disperati. Pochi di noi sorridevano, sicuri. Ci saremmo rivisti fuori, non c’era da aver paura. Poi le porte spalancarono, si chiusero alle nostre spalle.

Questo è il momento dove i nostri comuni ricordi iniziano a divergere. Giacché il Grande Esame fu esperienza così personale che è difficile farne una media valida per tutti. Grossomodo fu la medesima ordalia, se non in certi dettagli. Proprio in quei dettagli sta la perfezione gloriosa del Real Collegio.

Finora avevamo vissuto in uno stato di beata ignoranza, una semiveglia cui ci eravamo assuefatti. Il Grande Esame consisteva appunto in questo, nel risveglio. Ci rivelava qual era stato lo scopo della nostra educazione e ci permetteva di ritornare nel grande mondo, dove avremmo condotto un’esistenza degna e felice.

Dietro ogni porta grigia c’era una stanza.

Piccola, dal soffitto basso, la stanza era arredata da un unico tavolo, due sedie, e da una grande specchiera che copriva la gran parte del muro di fronte. Sul tavolo c’era una grande scatola, lunga come un braccio, fatta di un materiale azzurro e trasparente. Sulla parte alta della scatola un foro circolare della grandezza di una mano.

Seduto dall’altra parte del tavolo un uomo in completo scuro ci fissava con un sorriso serio e le punte delle dita bianche unite alle punte.  L’uomo ci fece segno di sedersi, chiese se volevamo un bicchier d’acqua –no grazie, dicemmo tutti­­– poi aprì davanti a noi un faldone giallo. Lo riconoscemmo. Era l’incarto nel quale, per quasi dieci anni, erano state conservate le nostri migliori idee.

Tutta la nostra vita scolastica, persino i nostri sogni, erano lì, registrati con assoluta acribia, classe dopo classe. Man mano che andavano avanti gli anni la documentazione diventava sempre più consistente. Allora l’uomo con le mani bianche ci sorrise e disse che avevamo fatto molto bene; uno a uno elencò quali erano state le nostre idee migliori, quali le applicazioni pratiche che si stavano studiando in quel momento nelle università, a quali intuizioni erano seguiti dei brevetti, a quanto ammontava la nostra percentuale dei diritti.

Naturalmente credemmo tutti si trattasse di uno scherzo. La nostra incredulità era però già prevista nel sorriso dell’uomo con le mani bianche. Subito questi produsse dalla sua cartellina una serie di foto e di documenti.

Mostravano i titoli degli studi di storia, di critica letteraria, di economia comparativa, nonché delle raccolte di poesia, dei romanzi, dei drammi teatrali che erano ispirati alle nostre intuizioni. Gli autori di quei titoli erano professori dell’Accademia, poeti e drammaturghi laureati i cui nomi noi stessi citavamo nei nostri esami con timore riverenziale. Per ognuno di quei libri ci spettava una percentuale nei diritti d’autore. La metà sarebbe andata al Collegio, il resto a noi. E non era finita. La parte scientifica del faldone era la più consistente. Farmaci sperimentali, nuovi composti chimici, metodologie innovative per i trapianti di organi, teorie di micro-biologia le cui applicazioni si stavano studiando in migliaia di laboratori. E poi le invenzioni: radio che captavano le voci del passato, lampadine che si ricaricano con il calore di una mano, un’acqua sintetica che si ghiacciava a un preciso comando sonoro, scatole-quadridimensionali capaci di contenere vaste quantità di spazio.

Ne avremmo riso, se non avessimo riconosciuto in quelle pagine  i sogni ad occhi aperti di tutta una vita. L’uomo dalle mani bianche non la smetteva di sorridere. Disse che in molti casi le applicazioni industriali delle nostre idee si stavano appena testando, che i diritti sarebbero durati per anni a venire. E non solo; gli istituti di ricerca, le accademie, le banche che avevano impiegato le nostre idee ci offrivano già un lavoro ben remunerato. Noi stessi avremmo aiutato a sviluppare le nostre intuizioni. Dovevamo solo scegliere quali e con chi.

D’altronde una cosa era avere un’intuizione –per quanto geniale– altro era trovarne gli sbocchi pratici, introdurli sul mercato. Per quello bisognava diventare dei cittadini responsabili. Era questo tipo di cittadini che il Real Collegio formava da settecento anni. Da quando le suore dell’ordine avevano scoperto le Vasche di Innesto questa era la regola: tutto ciò che veniva dal Collegio doveva restare lì. Loro ci avevano dato i Pallidi perché accrescessero le nostre capacità ai limiti dell’umano. I nostri familiari si erano sottoposti a un infinito, decennale salasso per pagare la nostra retta. Ora toccava a noi. O restituivamo ciò che apparteneva loro, o tutti i diritti derivati dai nostri brevetti sarebbero andati interamente alla scuola. Non solo, anche ogni possibilità d’impiego sarebbe stata revocata. Non avremmo mai trovato lavoro in nessun istituto, in nessuna organizzazione statale o privata che aveva avuto a che fare con il Real Collegio. Vale a dire, tutte.

Toccava a noi scegliere.

L’uomo dalle mani bianche continuava a sorridere, fissava la scatola sul tavolo. Non capivamo. Cosa dovevamo restituire? Il braccialetto con il nostro nome? La tessera della mensa? Poi il Pallido sulla nostra spalla si mosse e diede il suo primo gemito. Come sempre, c’era arrivato per primo.

Appena iniziammo a spingere via il tavolo l’uomo dalle mani bianche schiacciò un tasto invisibile. Subito la stanza si rabbuiò e partì il filmato. Da dentro la parete specchiata venivano proiettati immagini di repertorio. Dapprima antiche, pre-guerra, poi sempre più recenti. Mostravano uomini e donne, giovani e meno giovani. Erano come l’uomo del cortile, squallidi, sporchi, segnati dalla pazzia e dall’abbandono. Vivevano in case occupate, lerciai pieni di topi e di blatte, sopravvivevano a bustine di tè e scatolette di tonno. Li vedemmo stazionare davanti ai caffè del centro, affamati, chiedere l’elemosina ai passanti, pontificare sulle bizzarre teorie cui stavano lavorando. Testimoniammo la solitudine delle loro miserande vite, senza amici, senza famiglia, soli nelle loro stanze clandestine a lavorare a progetti incomprensibili, ognuno ispirato dal mormorio del proprio Pallido. Li seguimmo nei loro giri alcolici, per i locali dove ancora si tollerava la loro presenza, marci di assenzio a farneticare di nuove teorie che –dicevano– avrebbero cambiato il mondo. Infine li scortammo nei loro ultimi spaventosi giorni, di ospedale in ospedale, gonfi di alcol e pazzia, negli stanzoni nudi dove le unghie scarnivano scie di intonaco e le urla non cessavano mai.

Quando tornò la luce avevamo le lacrime agli occhi.

Non era tanto ciò che avevamo visto, quanto quello che avevano intuito dal nostro simbionte. Lui stesso ce lo confermava. Era tutto assolutamente vero. Sarebbe andata proprio così.

Ancora però non era abbastanza per mettere la nostra mano nella scatola trasparente. Ma l’uomo dalle mani bianche lo sapeva; e prima che potessimo riprenderci, con abilità perfetta, disse che non eravamo del tutto soli in quella difficile scelta. Altri erano con noi in quel momento, altri che ci avevano osservato da quando eravamo entrati in quella stanza. La parete specchiata ebbe un brivido, e l’argentatura sparì, rivelando oltre di essa una stanza impiegatizia, nella quale stavano i nostri familiari. Non li vedevamo da quasi dieci anni. Fatta eccezione per le lettere che ricevevamo a fine mese, non avevamo avuto più alcun rapporto con loro. Inevitabilmente li trovammo invecchiati, i capelli di nostra madre ingrigiti a ciocche, il fratello maggiore si era fatto uomo, nostro padre arcigno e severo, dimagrato in viso. Ai nostri occhi erano raggrinziti, rinsecchiti, imbruttiti. Tangibile intorno a loro un’aura di tetra miseria, tanto più grande quanto essi cercavano di nasconderla. E ancora di più nei loro occhi. La disperazione era tutta lì, accovacciata in quegli sguardi di pietra. Per la prima volta capivamo il significato della frase “retta ingente”. Per pagare il Real Collegio nostra madre s’era messa a cucire, nostro padre aveva perso il negozio, nostro fratello vendeva in strada, nostra sorella aveva abbandonato il sogno di suonare in conservatorio e faceva le pulizie in un ospedale. Nulla di questo fu detto, ma lo capimmo lo stesso, il Pallido traduceva per noi gli impercettibili indizi dei loro corpi in prove inoppugnabili.

Sarebbe bastato che nostro padre ci pregasse di restituire il Pallido che certo avremmo resistito, ci saremmo opposti con l’ultimo anelito della nostra volontà. Invece –parlando all’interfono– i nostri genitori dissero che avrebbero accettato qualsiasi cosa avremmo scelto, che ci avrebbero sostenuto in ogni caso. Gli occhi dei nostri fratelli però, lucidi di rabbia, ci raccontavano un’altra storia. Disobbedire era l’ignominia; non solo per noi, per tutta la famiglia. Nostra madre sarebbe finita a fare le pulizie nella stessa banca nella quale, col tempo, saremmo potuti diventare direttori.

Non tutti cedemmo nello stesso modo o nello stesso momento. Alcuni ci misero più tempo, altri meno. Alla fine fu la lucidità dei nostri Pallidi a darci la misura della realtà. Questo era il paradosso: proprio l’intuizione sovraumana dei simbionti confermava ogni congettura. La miseria, l’ignominia sociale, la solitudine, erano reali, anzi, inevitabili. Eppure, ancora non cedevamo. Sapevamo tutti che nel momento in cui avremmo reso il Pallido la nostra mente sarebbe cambiata per sempre. Mai più avremmo intuito la struttura proteica di una foglia guardandone le venature. Mai più avremmo sognato ad occhi aperti inventando soluzioni a problemi ancora non posti. Mai più avremmo sentito i lampi della nostra immaginazione sfondare il nero muro del possibile.

La voce dell’uomo con le mani bianche seguitava implacabile. Diceva che da secoli si era capito che solo i ragazzi sono davvero in grado di oltrepassare il noto e introdursi nell’ignoto. Ma la stessa capacità di dar vita all’irreale estranea, senza possibilità di ritorno, dalla vita sociale. Per questo separarsi dai propri Pallidi era l’unica strada possibile. C’è un tempo per seguire i sentieri dell’incanto; e un tempo per tornare e vivere del quotidiano, senza il quale l’immaginazione è solo un dono vuoto. Ora dovevamo scegliere.

Cosa potevamo fare? Nostra madre era lì, il viso rigato di lacrime e disperazione. Dietro di lei scorgevamo un deserto di passi perduti e strade miserevoli; e soprattutto, l’odore acre della pazzia. Ognuno trovò una sua ragione. Alcuni lo fecero per i genitori. Altri per la fame di onori. Altri per le ricchezze future. Altri ancora per la paura di diventare come il ramingo che avevamo visto in cortile. Alla fine però mettemmo tutti la mano dentro la scatola trasparente. Il Pallido non protestava, non ci supplicava, non gemeva nemmeno più. Lo sapeva, sapeva fin dall’inizio cosa avremmo scelto.

Stavamo per ritrarre la mano dalla scatola quando il buco si richiuse intorno al nostro polso. D’istinto provammo a liberarci, la sedia cadde con un tonfo alle nostre spalle. L’uomo dalle mani bianche aveva smesso di sorridere. Ci fissava con occhi duri.

“Non basta” disse “per rientrare nel mondo dovete sciogliere il nodo che vi lega. Fin quando la luce del Pallido splende vi resterà  una parte di lui, anche a distanza, anche dopo anni e anni. Se non volete diventare come quelli, dovete spezzarne il legame”.

Di nuovo non capivamo. E di nuovo –implacabile– il Pallido ci mostrò l’immagine di ciò che andava fatto. Scoppiammo in singhiozzi. Dei nostri diciassette anni, nove li avevamo trascorsi con quelli al nostro fianco, non ci si poteva chiedere una cosa simile.

Ma non c’era scelta. Così stringemmo il pugno. Prima piano, delicatamente, poi forte da schioccare le nocche. Quando il Pallido cominciò a urlare fu come se il suo grido ci si conficcasse nel petto e ci scoppiasse le vene. Qualcosa di caldo colava tra le nostre dita. L’interno della scatola s’era lordata di un sangue fosforeo, un icore denso la cui luminescenza conoscevamo come il sapore dei nostri sogni.

Il resto lo ricordiamo in modo confuso, immagini una sull’altra come un mazzo di vecchie foto. L’infermeria, i lunghi discorsi con il prete-psicologo, le visite mediche, e poi il rilascio, l’abbraccio con i familiari, la lunga strada del ritorno, il lento riadattamento al mondo di fuori, i primi colloqui di lavoro, la soddisfazione crescente per l’utile dei nostri sforzi, la lenta certezza di aver fatto la scelta giusta.

Fu pressappoco in quel periodo, un paio d’anni dopo il Grande Esame, che ci rincontrammo, noi vecchi compagni del Real Collegio. Quante risate al ricordo dei nostri scherzi, alle fughe proibite nelle dispense dei preti, alla paura degli esami sempre vicini!

Da allora non ci siamo più lasciati. Ci vediamo spesso, anche una volta alla settimana, nonostante gli impegni familiari e di lavoro. Amiamo soprattutto venire qui, in quei bar specchiati del centro dove tutti ci riconoscono per quelli che siamo: cittadini rispettati, amati, nomi che a dirli le donne si girano, gli uomini sollevano le falde dei loro cappelli. Nostri sono i progetti delle macchine che essi usano quotidianamente, nostri i drammi di grido, i manuali su cui le matricole studiano, nostri gli atenei, gli ospedali, gli istituti di ricerca, i teatri. E non ci importa più se da anni non abbiamo avuto una sola idea originale. Lasciatele ai ragazzi quelle, lasciate a loro la gioia infantile dell’invenzione! Ormai lo sappiamo: creare è un gioco per bambini. A noi basta far fruttare le intuizioni altrui, le nostre fin quando sono bastate, quelle degli altri quando essi non sanno come utilizzarle. In questo siamo diventati maestri, abbiamo imparato bene la nostra lezione. D’altronde, non abbiamo rimpianti. Conduciamo un’esistenza felice, al riparo dalle privazioni che colpiscono i meno fortunati. I nostri mariti, le nostre mogli, ci amano, e così i nostri figli, i nostri colleghi,  i nostri impiegati. Sappiamo esser generosi, magnanimi, giusti.

L’unica crudeltà che ci permettiamo è quella –una volta alla settimana– di riunirci in un bar del centro e stuzzicare quei poveri derelitti dei nostri ex-compagni, i raminghi. In fondo lo facciamo per loro. Se vedessero, se capissero l’abisso in cui sono finiti, forse tornerebbero alla luce della ragione. Ma è proprio questa caparbietà a non voler capire che ci incattivisce. Li odiamo, li odiamo con un odio che solo un ragazzo capirebbe. Eppure, non li si può uccidere. Essi devono rimanere un monito, segno vivente per tutti quelli che sono tentati di prendere la strada sbagliata.

Così quando li trasciniamo fuori dal bar specchiato, sotto al dileggio urlante della folla, ci tratteniamo a stento dal prenderli a calci, da riempirli anche noi di pugni e di tetre insolenze. Invece restiamo impassibili, sorridenti e distaccati, limitandoci ad assaporare il trionfo della loro mortificazione, la paura sulle loro facce rattrappite. Vederli a terra, madidi di terrore, è per noi gioia condivisa, balsamo miracoloso per la fatica delle nostre giornate.

Solo quando infine si rialzano non riusciamo a trattenere un brivido di disgusto. Sulla loro spalla freme la luce del Pallido. Costui ci fissa con i suoi occhi di insetto, muto, le antenne fosforee tese come braccia. Non dice nulla, eppure per un attimo abbiamo l’impressione che parli, che sussurri a un angolo morto di noi.

Ritto sulle sue zampe il Pallido ci scruta con sguardo fisso, senza accusare, senza rabbia, limpido nella sua luce, pura come un ricordo che non possediamo più.

Né in cielo né in terra

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Cop_Morelli_filo_LRPer i tipi di Exòrma, è uscito il nuovo romanzo di Paolo Morelli, “Né in cielo né in terra”. Ne pubblichiamo, di seguito, un estratto.

di Paolo Morelli

Dove sei stato tutto questo tempo, gli ho chiesto dopo un po’. Non so, le due parole antiche della sapienza, ha risposto, e si è piazzato davanti allo schermo del computer. È andata avanti così, non so per quanto. Ma cos’è che stai scrivendo?, gli ho chiesto io a un certo punto. Idem come sopra, ha risposto, le tre antiche parole della sapienza.
Ricomincia ogni volta da dove ha lasciato, con qualche speranza sempre più fioca e intorno il buio, aerato ma sempre buio. Ha ricominciato a bere, in credenza c’erano parecchie bottiglie di Rosolio del 1951, comprate con lo sconto. Facevamo un brindisi dietro l’altro.
Si vede che perduta la memoria pure si conservano le abitudini. Difatti ha ricominciato a fumare, una nazionale senza filtro dietro l’altra. 

Hebron e altri inediti, di Elisa Alicudi

1

Hebron

Come si astraggono le voci, si disperdono
insieme ai rumori della città,
i motori come scompaiono quando la casa è un rifugio
e conforta la calura che s’incunea nelle crepe del cemento:

ma le piazze sono buie, quando cade il coprifuoco,
e solo il fischio si sente e sono fissi i recinti
che di giorno assediano i colpi del pallone, o le reti
che frenano la pioggia dei rifiuti
mentre scivola il piscio per le maglie o tra la frutta

e le torrette sorvegliano tribù di anonimato –
spazi vuoti di sepolcri e di prodigi.
Come è alto il muro ogni giorno più alto.

 

 

Con l’ossigeno nella pancia
poi rimargina
ossida
che l’ossigeno
vibra nell’ancia
delle ossa
con l’ossigeno che manca
non si vive,
polmoni all’azoto
e di vuoto
si respira fino a morire

 

 

Che il magma di parole sprigioni un volto
non vuol dire sia l’aspetto a tenere fede al mondo,
che quel magma di parole imprigioni nel volto il mondo,
non c’è dubbio lo princìpi
come il volto che lo affiora e lo scompare
nel cammino e se rimane, non ha nulla
di morale, se rimane

 

 

Quanta strada padana si allunga come un elastico da cranio a cranio
(finché dura senza sale lasciamo che galleggi), ma a tirare di forza
la strada rimbalza e batte sulle scapole, tra le righe, nella pancia
(troppo sale fa male, poco sale fa saliva e ripostigli
che nascondono spazi profondi e a volte scadono).

Quanto strano e scuro è il profilo della notte, così vuoto di lancette,
viene voglia di stare nudi, di smuovere stelle,
a negare consiglio come col desiderio.

 

 

Gli esploratori

Riproduci il buio in ogni soffitto,
rimandi le cose, le stesse che pescano alcuni
a rovescio. Lo spazio dell’oggi
non lo riconosci, è intonaco bianco
ma è il tuo orizzonte
l’unica orbita ad averti, forse, quando sei in relazione,
Eros ti porta, l’accesso a occhi chiusi,
vaghi nell’oltre, che ti scagiona.

Riproduci il vuoto in ogni galassia,
ma non basta una zona abitabile
a dare la vita, serve spazio per domani
serve liberare le cose rimandate
senza chiedere spiegazioni, avere ragione,
gli errori sono la fortuna degli esploratori.

 

 

Mentre cammini in strada verso casa
e sembra una via qualunque di Pechino,
non ti sorprende che il livello delle polveri
sia lo stesso. Pensi globalmente
all’aria che respira il tuo vicino, pensi
a come caricare la muraglia in ascensore,
poi sul balcone.

Le agenzie di viaggio non offrono soggiorni
con topi o epidemie. Sali le scale,
non c’è febbre, né malaria,
ma continui a pensare la terra globalmente,
a calpestarla accumulando vita
in scala rimpicciolita
e non c’è quasi niente che sia diverso
dall’odore di vernice.

Non ci sono viaggi sul Nautilus,
tigri che non hai visto, lingue, lombi,
Lolite che non hai inseguito
almeno una volta in foto,
perché in compenso sono
tutti fotografi improvvisati
e ci sei tu, che pensi la terra velocemente
come un’unica biglia arcobaleno,
che più gira più diventa grigia.

La narrativa italiana riesumata in digitale: la collana “Reloaded” di Laurana

4

intervista a Marco Drago di Mariarosa Rosi

A proposito della narrativa italiana degli anni 90, si può parlare di una controcultura simile a quella che ha generato la beat generation degli anni 60? Lei ne ha qualche volta fatto cenno.

Direi proprio di sì.  Non so se proprio come al tempo dei beat, però è vero che tanti scrittori nati tra il 1960 e il 1970 si sono trovati spesso a fare cose insieme, fossero queste delle antologie o degli incontri pubblici. Esistevano tante riviste e ognuna  tendeva a creare per sé un gruppo omogeneo e regolare di autori. Ed eravamo tutti, chi più chi meno, dei postmoderni inconsapevoli. Aldo Nove e Tiziano Scarpa facevano eccezione perché erano i più consci del valore dirompente di quello che stavano facendo. Molti altri erano semplicemente lì per via dello spirito dei tempi, ma erano quasi tutti scrittori molto bravi e innovativi. Ovviamente avevamo intorno un’editoria molto diversa da quella attuale.

In che senso diversa?

 Allora avevamo a che fare con dei vecchi che si comportavano da vecchi. Era gente che aveva vissuto tutto il ‘900. Si sapeva con chi si aveva a che fare. Adesso i più postmoderni sono proprio i dirigenti delle case editrici che hanno abbondantemente superato gli autori in termini di ribaltamento dei vecchi e cari luoghi comuni sull’editoria nazionale. Una volta andavi a parlare con un direttore o direttrice editoriale e ti trovavi di fronte a una persona che trasmetteva un senso di sicurezza e autorevolezza che ti faceva ben sperare. Adesso succede che un direttore editoriale si faccia vedere quasi in lacrime mentre prega di indovinare un best-seller di finta letteratura qualsiasi. Non hanno più vergogna a mostrare il loro terrore per la perdita del posto di lavoro e gli autori si sentono quasi in colpa perché continuano a scrivere dei romanzi che non vendono niente.

Racconto, testo breve, diario. Sono questi i generi più ricaricati da Laurana. Perché questa scelta?

Il mio gusto personale è molto ben rappresentato dalla collana che dirigo. Un occhio a qualche nome di maggior presa lo butto sempre, stiamo trattando i diritti di autori abbastanza importanti e con una sicura base di pubblico, ma al 90% la mia attenzione è dedicata a testi che mi avevano colpito quando erano usciti e che ora sono di scarsa reperibilità. Non sono un gran lettore di romanzi puri. La fantasia, in narrativa, mi stufa, infatti non sono un lettore di fantasy e nemmeno di fantascienza e nemmeno di gialli. La trama ben congegnata mi mette tristezza. Mi interessano sempre di più altre forme di scrittura.

Quali in particolare?

 Mi piacciono gli scrittori che ti fanno sentire la fatica della scrittura. Diffido dei narratori che applicano alla lettera la lezione calviniana sulla leggerezza. La facilità di affabulazione, l’eccessiva scorrevolezza di un testo, l’orecchiabilità, sono caratteristiche che mi mettono in guardia. Il più delle volte, quella facilità nasconde il vuoto e non te ne accorgi fino a che non hai finito e metabolizzato il testo. Le mie scelte per Reloaded premiano libri poco inquadrabili: libri che hanno a che fare con la sperimentazione – Dario Voltolini, Flavio Santi, Matteo Galiazzo -,  libri di racconti anche brevissimi – sempre Voltolini ma anche Giulio Mozzi, Luca Ragagnin e Roberto Alajmo,-  romanzi comico/grotteschi – Fulvio Abbate, Ernesto Aloia, Galiazzo, Walter Fontana, Piersandro Pallavicini -. Pochi romanzi-romanzi – Nicoletta Vallorani, Paolo Grugni, Massimiliano Griner -.

 Tra le vostre riproposte figura Cargo di Matteo Galiazzo. Quando, nel 99, uscì nei Coralli Einaudi, Maria Corti su Repubblica parlò di un giovane scrittore ricco di intelligenza, cultura e stile. Ma di certo non è un testo facile.  Come si muove ora nel catalogo reloaded?

Cargo è il titolo più scaricato di tutta la collana! Certo, è un testo molto particolare. Facile che molti non l’abbiano mai sentito nominare. Però quando qualcuno lo legge, poi non lo dimentica più. Troppo fuori di testa, per passare inosservato. È un romanzo che si scrive mentre lo si legge, è un manuale di istruzioni, un trattato di economia e di filosofia, un inesauribile cazzeggio che riflette su se stesso. Impossibile fare meglio, per un autore di appena 28 anni.

 Tutti gli autori della collana hanno avuto buone critiche alla prima edizione. Questo non ha impedito al loro libro di uscire dal mercato. E il destino dei titoli di nicchia o pensa che questa seconda vita sul web possa premiarli?

Credo che sia nella natura dei numeri. Non riesco a immaginarmi che possa andare altrimenti.  Il mercato butta fuori di tutto, solo qualcuno sopravvive.  Ma adesso il digitale può davvero rimescolare le carte in modo intelligente. Innovativo e intelligente.

E come, secondo lei?

 L’importante è separare le strade dei libri cartacei e quella dei libri digitali. Un po’ l’ha capito Feltrinelli con la collana Zoom, che pubblica testi troppo corti o troppo strani per uscire su carta ed escono soltanto in ebook. Ora è il momento di pensare appunto a quali testi fare uscire solo in ebook. Spero che non prevalga la logica dell’ebook come serie B della carta e che quindi vengano parcheggiati nel settore elettronico tutti quegli autori con un pubblico non numerosissimo. Quella la vedrei come una mossa miope e poco inventiva. Si può fare di meglio.

 Ha in mente una strategia precisa?

Innanzitutto ricreare i cataloghi in digitale. Assurdo che non si trovi nemmeno un titolo di Milan Kundera o di Guenther Grass in  ebook, in Italia, oggi. Il catalogo di titoli prestigiosi,  che tutti i grandi editori hanno, va sfruttato in senso digitale e  poi via via così per il resto dei titoli,  ad esempio proponendo tutti i romanzi usciti negli ultimi 20-25 anni,  o altro ancora. Qualcuno sta cominciando, altri non ci pensano nemmeno. Fare un ebook costa pochissimo, distribuirlo costa pochissimo. Strano che gli editori non si siano già buttati a pesce sull’occasione. Poi si possono fare affari con i testi scolastici o universitari, le dispense, insomma ci sono decine di applicazioni del digitale che aspettano solo qualcuno che le metta in pratica.

 Dalla carta allebook, ma anche il contrario. No?

Il mercato ci ha già pensato con una stampante speciale in grado di creare in pochi minuti un volume rilegato e dotato di copertina partendo dal file dell’ebook. Si può scegliere da un catalogo internazionale di 7 milioni di titoli fuori diritti, o stampare il proprio libro, se si vuole. In Italia, la prima di queste macchine è già installata presso il Mondadori Megastore di Piazza Duomo a Milano.

 Avete difficoltà a riacquisire i diritti dautore? Dovete fare tante rinunce?

 Nessuna difficoltà, tutto dipende da quello che vogliono fare gli autori. Se c’è la loro volontà, nessuno e niente ci può fermare. I diritti sulla versione elettronica di un testo non sono quasi mai presenti nei contratti originari dei libri che abbiamo in collana. Ma anche se fossero citati, qualora l’editore si dimostrasse inadempiente in quanto non ha mai realizzato l’ebook dell’opera, l’autore ridiventa automaticamente il padrone del suo testo e può farne quello che vuole.

 Qual è il valore aggiunto di Laurana Reloaded rispetto alle altre collane di ebook sul mercato?

Ridiamo la vita a titoli morti. Li andiamo a prendere dai cataloghi di tutti gli editori italiani. Quindi: reperibilità e varietà.

 Quale, a distanza di due anni, il bilancio della collana?

Niente di spettacolare, non è stato un miracolo, un boom. Ma non ha nemmeno portato gravi dissesti finanziari all’editore, forse anzi gli ha dato una cosa in più da dire quando parla della sua azienda. Il segreto è non mollare, non scoraggiarsi. Prima o poi tutti questi ebook daranno i loro frutti.

Prossimi titoli in programma?

Rimetteremo in circolazione un titolo poco noto di Gaetano Cappelli,I due fratelli, uscito per la De Agostini nel 1993 e diretto all’epoca ai ragazzi delle scuole. E poi, più avanti, Visto che siete cani di Walter Fontana, romanzo comico su una compagnia di attori teatrali che per sopravvivere in tempi di crisi del teatro si trasforma in una gang di ladri; Nonno Rosenstein nega tutto di Marco Bosonetto, una storia sarcastica in cui un ebreo scampato ai lager diventa negazionista per non soccombere al dolore dei ricordi. E ancora tanti altri: da Sorelle e Nemiche della noirista Barbara Garlaschelli a La resistenza del nuotatore di Sebastiano Nata, fino al recupero di Plays, una magnifica raccolta di racconti uscita per un editore locale piemontese una decina d’anni fa. L’autore è semi-sconosciuto: il musicista e traduttore Gianrico Bezzato, prematuramente scomparso nel 2012.

 

NdR: questa intervista è apparsa su PEN, trimestrale del Pen Club Italia, n.34, gennaio-marzo 2016; e qui di seguito il cappello introduttivo di Mariarosa Rosi:

“Sono quasi 900 mila i titoli messi fuori commercio negli ultimi vent’anni. Una piccola parte sarà ristampata, in edizioni tascabili o non, ma la gran parte sarà avvolta nell’oblio, sia perché senza merito o perché non più attuale, sia perché, distratti come siamo, lasciamo ai posteri il merito di scoprire il valore di ciò che noi non siamo stati capaci di riconoscere”. Così Giuliano Vigini, massimo esperto di editoria e docente di Comunicazione alla Cattolica, su La Lettura (Corriere della sera, 15 agosto 2015).  In realtà una piccola ma vivacissima casa editrice milanese, “Laurana Editore”, fondata da Lillo Garlisi , Giulio Mozzi e Gabriele Dadati, la sfida dell’oblio l’ha già raccolta e un paio d’anni fa ha dato vita alla  collana  “ Reloaded” (“ricaricati”) che ripropone, esclusivamente in ebook,  opere già edite di narrativa italiana dagli anni ’90 ai 2000. E’ un’opportunità resa possibile dai bassi costi del digitale ma anche dalla politica editoriale di questi ultimi anni che ha saturato il mercato con troppi titoli condannandoli a una vita media brevissima . Chi non ricorda i banconi delle librerie traboccanti di novità e di bestseller pigliatutto? Tra questi titoli Laurana fa una nuova scelta coerente con la sua espressa vocazione di “pubblicare libri utili” e cioè “di utilizzare la narrativa per far luce sulla realtà”. Perché il merito della collana non è tanto e solo il recupero dei titoli (già Amazon o altri lo fanno, con successo, per i libri introvabili) ma l’organicità della proposta editoriale che speriamo possa darci della narrativa italiana degli ultimi tempi un’idea più precisa di quella emersa dalle comparsate televisive, dal frastuono di certi festival o di altri non meglio identificati “eventi”.  A oggi, i titoli recuperati sono una ventina tutti di autori già noti e conosciuti dalla critica e pubblicati in prima edizione da editori consolidati o comunque affermati (Einaudi, Rizzoli, Feltrinelli, il Saggiatore, Minimum fax). Ma un aggiornamento su questa collana pioniera che potrebbe aprire altre prospettive interessanti sull’utilizzo futuro del digitale, ci rivolgiamo direttamente a Marco Drago, direttore  della collana. Laureato in letteratura americana alla facoltà di lingue dell’Università di Genova , scrittore (Lamico dei pazzi, Cronache da chissà dove, La prigione grande come un paese), conduttore radiofonico (Raitre, Radiotelevisione Svizzera) giornalista,  è stato anche  fondatore della rivista Maltese Narrazioni,  attiva dal ’89 al 2006 , che si è molto occupata della generazione degli “scrittori cannibali” di metà degli anni ’90. Quelli, per intenderci, che nell’antologia einaudiana a loro dedicata (Gioventù cannibale, a cura di Daniele Brolli, 1996 ) venivano definiti “una covata di narratori italiani giovani e giovanissimi,  che getta scompiglio nei vicoli della cittadella letteraria, negli schermi video  e nei talk  shows, tra le anime morte del perbenismo”.

Tutti i ragni 4 – Ragni immaginari

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di Vanni Santoni

4Al liceo mi viene facile ottenere risultati scolastici dignitosi col minimo impegno, il che mi lascia sconfinate teorie di pomeriggi da dedicare al mio pc e dunque a Monkey Island I & II, Leisure Suit Larry I, II, III & IV, Ultima V, VI & VII, Populous, Civilization, Syndicate, Doom, Sim City, Sim Life, Sim Ant.

Sono ormai indubitabilmente, e considero me stesso, una persona che patisce di aracnofobia. Tuttavia, essendosi fatte più rare le occasioni di passare una giornata fuori e avendo sviluppato un totale dominio della tecnica della pisciata a occhi chiusi per quanto riguarda le serate di gioco di ruolo, si sono fatte rare anche le occasioni di incontro con i ragni, almeno con quelli reali.

Nel mondo dei videogiochi i ragni non hanno una posizione prominente: visti aspetto e caratteristiche, non possono che essere relegati al ruolo di antagonisti e la loro frequenza è media, sebbene a volte possano essere memorabili.

Nella serie Ultima, i ragni giganti compaiono come nemico solo nel quinto episodio, e sono di quelli che anche il giocatore meno abile è facilmente in grado di sgominare. Nelle campagne fuori da Trinsic ne schiaccio dozzine; il loro aspetto – in Ultima V i mostri sono poco più che icone – non è del resto in grado di intimorirmi.

In King of Dragons, la faccenda si fa più complessa. King of Dragons non è un gioco che ho sul computer: non soddisfatto di passare davanti a uno schermo le mie cinque o sei ore al giorno, ogni pomeriggio prendo la bici e vado a un bar vicino casa, che ospita Street Fighter II, Vendetta e lo stesso King of Dragons. Lì i ragni sono parte del mostro finale del settimo livello, una grande quercia dai cui rami calano, appesi ai loro fili, dei ragni tozzi e aggressivi, delle dimensioni di un barile. Il punto è evitarli quando piombano giù per afferrarti, e anzi picchiarli al volo in quel breve lasso di tempo. In ogni dato momento, fuori dall’albero non ci sono più di un paio di ragni, ma quando finalmente si sferra l’ultimo colpo, quelli muoiono tutti insieme e dalla chioma si scatena una pioggia di carogne: vengono giù con le zampette rattrappite e rimbalzano al suolo con un realismo che dà i brividi.

C’è poi Doom, dove non ci sono ragni ma soldataglia mutante e demoni, almeno fino all’ultimo schema. Lì allora, dopo qualche secondo di silenzio, ci si trova di fronte un colossale ragno cyborg, dotato di due mitragliatrici tipo M-60. Non riesco mai a vincerlo, e anzi il suo aspetto, i suoni che emette, la difficoltà nell’ideare tattiche per combatterlo, la velocità con cui profitta di ogni mio momento di dubbio, mi cagionano una sensazione che solo molti anni dopo, fattane più reale e continuativa esperienza, avrei potuto identificare come stress.

Anche in Sim Ant il ragno costituisce l’antagonista principale. A differenza di Sim City, dove le opzioni di gioco erano numerose, e Sim Life, dove erano così numerose da includere un menu dedicato agli eucarioti, tutto quello che c’è da fare in Sim Ant è andare in giro per un giardino a raccogliere semi e briciole di pane – che deve fare, del resto, una formica? – stando attenti a evitare gli insetti predatori e soprattutto il gran nemico, un ragno errante che effettua implacabili ronde sull’erba.

Quando arriva Baldur’s Gate ho perso un po’ di interesse nei videogiochi: il liceo è finito e godo di una maggiore libertà, che mi porta a rivolgere la mia attenzione ad altre questioni. Il motivo per cui non arrivo a finirlo non ha tuttavia a che fare con i postumi di una o più sbronze, o con la necessità di dimostrare la mia virilità a una qualche ragazzotta rinunciando per sempre ai videogiochi, bensì al fatto che uno schema secondario sia infestato di ragni giganti. La grafica dei pc ha ormai quasi raggiunto quella dei coin-op, e quelle orde di ragni grandi come pony, che sopraggiungono in equilibrio su lunghe zampe, che mordono i personaggi, che muoiono con rivoltante rattrappimento, sono per me qualcosa di insormontabile, a meno di giocare a occhi chiusi, cosa che tento un paio di volte solo per vedere un glorioso gruppo di avventurieri destinato a salvare i Forgotten Realms finire invece ghermito da un mucchio di aracnidi.

In quegli anni scopro il cinema. In casa mia si noleggiano film da sempre, ma è a scuola, con un cineforum indetto dal professore di lettere di un’altra classe, che scatta davvero qualcosa. Lo sento che parla con la nostra prof durante l’intervallo, dice qualcosa sul “farli appasionare, mantenendo però un minimo standard di qualità”: fatto sta che il cineforum ha nel suo primo ciclo di programmazione Blade Runner, Excalibur e Arancia Meccanica. Se tale idea non sarà sufficiente a farci andare alla seconda programmazione, che avrebbe virato improvvisamente su Rohmer e Kieslowski, serve almeno a farci uscire di scuola ogni giovedì alle 15 invece che alle 13, in preda a uno stato di esaltazione.

Ecco, al cinema i ragni non contano proprio niente. È come se si fosse stabilito di tenerli il più possibile fuori dal circo dei sogni. A volte fanno una comparsata, come quando si appiccicano alla schiena del compare di Indiana Jones. A volte la funzione è solo simbolica, come in Spider di Cronenberg. La figura migliore la fanno forse in Alien, ma il facehugger è solo una derivazione, un figlio spurio: quella coda ne fa qualcosa di morfologicamente diverso. Stesso destino per gli aracnoidi di Starship Troopers e Shelob del Signore degli Anelli, il cui pungiglione sull’addome ne esclude l’appartenenza all’ordine. Né esistono film con qualcuno intrappolato in casa col ragno velenoso, e sì che con i serpenti ne esistono una mezza dozzina. Anche nel cinema horror, dove avrebbero potuto fare la loro onesta figura, si manifestano solo sporadicamente. L’unico tentativo è quello di Aracnofobia, pellicola mediocre che esce tra qualche attesa da parte degli adolescenti, e che evito accuratamente, rallegrandomi anzi che non esistano imperdibili capolavori la cui visione impone anche quella di cospicue inquadrature di aracnidi.

[IV – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Terzo capitolo

les nouveaux réalistes: Attilio del Giudice

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Immagine

Dal profondo della notte

di

Attilio del Giudice

Miriam Celestini si è laureata il mese scorso, brillantemente. E’ stata sempre brava a scuola ed è l’orgoglio dei genitori, una ragazza seria, che non ha mai avuto grilli per la testa. E’ gentile con tutti ed è generosa con le amiche che l’adorano.
Miriam è scomparsa. Forse è stata rapita. In casa aspettano la richiesta di un riscatto. Il padre ha fatto un appello in televisione, non ha saputo trattenere le lacrime. La madre non sta bene, è stata ricoverata. Ieri è arrivata una lettera dalla Germania: “Cari genitori, lasciatemi libera. L’Italia è un paese che non posso amare. Non posso viverci. Quando mi sarò sistemata, vi farò sapere dove mi potrete raggiungere. Restate tranquilli! Vi amo. Miriam”
Certo la grafia era sua, ma non era credibile che avesse preso una decisione così importante da sola, senza parlarne alla madre, senza un motivo grave, un motivo plausibile.
No, certamente Miriam era stata costretta a scrivere la lettera. Si poteva desumere che era viva, questo sì, ma non si poteva escludere che l’avessero rapita per il mercato delle ragazze, un mercato che si stava espandendo a macchia d’olio negli ultimi mesi, e di cui si parlava ogni giorno nei telegiornali.

Leggevo queste notizie sulla cronaca del Messaggero, mentre ero nella metropolitana linea b, diretto alla stazione Euro Magliana, dove mi sarei incontrato con un tale per l’acquisto di un’ auto tedesca di seconda mano. Però ero informato della scomparsa di Miriam, che conosco da quando è nata, essendo un amico della famiglia Celestini da molti anni.
Sono sceso, mi sono guardato intorno. Un giovane alto, biondino, si è avvicinato e mi ha chiesto se ero quello della macchina.
“ Si, come ha fatto a capirlo?”
“ Non ne ero sicuro, ma ho visto che cercava qualcuno…”
“Dalla voce al telefono non la facevo così giovane.”
“ No, infatti al telefono non ero io, era mio cugino, che… è più anziano.”
“ Ah, ecco. E ora devo parlare con lui?”
“ Sì, l’accompagno. Sta un po’ fuori mano, ma ho la macchina. Venga!”
Aveva un suv straniero, enorme. Durante il percorso gli ho chiesto come mai non fosse venuto lui, il cugino, direttamente. Al telefono aveva detto:”ci vediamo alla stazione della metropolitana.”
“Non ha voluto dare tante spiegazioni. Lui non si può muovere facilmente, sta su una sedia a rotelle.”
“Ah, questo mi dispiace. E la Mercedes non è sua?”
“ No, no, è sua, solo che la guidiamo noi. Io o mio fratello.”
”Ho capito. Lei pensa che mi possa venire un altro po’ incontro col prezzo? Vede, pago in contanti e se le condizioni della macchina sono quelle descritte al telefono, la ritiro subito.”
“Magari una parola ce la metto, poi, lei mi fa un regalino”
“D’accordo. Facciamo così: su ogni 100 euro di risparmio che riesce a ottenere, le darò il dieci per cento.”
“ Facciamo il venti!”
“ Va bene, affare fatto.”

Siamo arrivati praticamente in aperta campagna tra catapecchie e tuguri da terzo mondo, di cui nessuno amministratore potrebbe giustificarne l’esistenza nella capitale. Ha fermato il SUV davanti a un capannone in mezzo ad alberi bruciati da un incendio recente, che sembrava aver colpito tutto il montarozzo, e ha detto. “Mio cugino sta qua. Scendiamo!”
Entrando nel capannone, quello che più dava nell’occhio era la sporcizia. Si capiva che ci dormivano, infatti c’erano tre brandine e ci cucinavano anche, lo si desumeva dai fornelli luridi, dalle pendole nello sciacquone e dai piatti sporchi e, soprattutto, dal fatto che si avvertiva un fetore di cibarie andate a male. Istintivamente stavo per fare marcia indietro e chiedere al biondino che mi riportasse dove mi aveva trovato.
Non si vedeva più il cugino e fuori il capannone non avevo notato nessuna Mercedes, solo, mi pare, una vecchia Bravo arrugginita, senza ruote.
Ma da una specie di sgabuzzino, che doveva essere il cesso, uscì con la sedia a rotelle un uomo deforme in maniera vistosa , con un braccio anchilosato e il naso orribile, come fosse stato rosicchiato fino all’osso da un animale.
“ L’aspettavamo. Lei è quello che vuole acquistare la Mercedes? L’ho mandata al lavaggio, la vedrà fra pochi minuti. S’accomodi, prego!”

C’erano tre sedie dietro un tavolo, due mi sembravano impraticabili, una terza dava più affidamento. Mi sono seduto, con i muscoli tesi, pensando che dovevo lasciare quel luogo il più presto possibile.
“ Forse – ho detto – sono stato troppo precipitoso. Forse è meglio che ci rifletta ancora un po’ e quando ho deciso, mi faccio sentire io. La ringrazio e mi scuso se…”
“ Per carità, prima di decidere bisogna pensarci bene!”
Il Biondino, che era improvvisamente ritornato, è intervenuto col fare di chi vuole mettere le cose in ordine: “Paride, il signore qua, vuole risparmiare almeno 200 euro. Se si può fare, paga subito.”
“200 euro non sono pochi, però, se paga alla consegna in contanti, facciamo uno strappo e l’accontentiamo.”
“No, guardi, io, in questo momento, prescindo dal risparmio, voglio pensarci. Abbia pazienza! Devo andare.” Mi sono alzato e sono andato quasi di corsa verso la porta. Appena ho aperto la porta, davanti a me c’era Miriam.
“ Miriam, che fai? Com’è che ti trovi qui? I Tuoi ti cercano disperatamente!”
“ Sta’ zitto! Io sono la Mercedes. Comprami e portami via!”
“ Miriam, fammi capire, come sarebbe che sei una Mercedes?”
“Non perdere tempo se mi vuoi salvare, comprami! Fai presto ti prego! Ti prego! Vai, vai dentro! Paga quello che ti chiedono!”
Sono rientrato e ho detto:“Ho visto la Mercedes. Va bene, la compro. Quanto devo pagare?”
“Quello che s’era concordato: dieci mila euro, meno i 200 che vuole risparmiare.”
Ho tirato fuori dal borsello il danaro e ho messo i dieci mila euro sul tavolo. “Ecco il danaro. I duecento, se li tenga, li dia al biondino!”
Ho aperto la porta e sono uscito sulla strada. Miriam era scomparsa.
Allora l’ho chiamata: “ Miriam, Miriam, dove sei? Miriam rispondi!”
L’avevano fatta sparire. Sono rientrato e ho gridato: “Dove l’avete nascosta?”
“Che cosa, signore?”
“Miriam, la ragazza! Stava qui fuori un minuto fa, dov’è adesso?”
“ Signore di chi parla? Io le ho venduto una Mercedes, lei ha detto che la ritirava subito.”
“Se non mi dite dove avete nascosto la ragazza, io vi denuncio, delinquenti, delinquenti assassini!”
Ho gridato così forte nel sonno che mi sono svegliato. Mia moglie era già sveglia e aveva ascoltato le mie grida. “Amore, hai avuto un incubo? Che hai sognato? Gridavi come un pazzo: delinquenti, assassini! Che è successo?”
“Dio mio! Si, un incubo terribile”
“Amore, sei tutto sudato, vado a prenderti un asciugamani.”
“ Ma che ore sono?”
“ Sono le cinque e venti”
“ Mi dispiace d’averti svegliata. Gridavo forte?”
“ Si, Amore, gridavi. Ma non ti preoccupare per me. Me lo dici che hai sognato?
“Si, te lo dico, ma prima voglio sapere una cosa: Miriam, quando l’hai vista l’ultima volta?”
“Ieri sera.”
“ Dove l’hai vista?”
“ Amore, ma che ti viene in mente? L’ho vista nel supermercato, questo sotto casa. Abbiamo parlato e siamo uscite insieme.”
“ E tu l’hai vista entrare nel portone di casa?”
“ Amo’, ma ti senti bene? Si, l’ho vista entrare. Non capisco dove vuoi andare a parare!”
“ Ascolta, fammi un favore, devo togliermi questo pensiero: Telefona ai Celestini e chiedi che tutto sia a posto.”
“ Ma tu sei pazzo? Telefono alle cinque e mezzo del mattino, per chiedere se sta tutto a posto? Sta tutto a posto da voi? Perché da noi mio marito non sta a posto con la testa…Amore, dai! Vuoi che ti prepari una tisana?.”
“No, no. solo un bicchiere d’acqua”.

Ero turbato. Non avevo mai fatto un sogno così preciso, così narrativo, con le sequenze concatenate come in un film. L’aria era pesante, l’afa già insopportabile. Andai in veranda per respirare meglio. La città lentamente si metteva in moto. Rivedevo tutte le scene del sogno e rivivevo il malessere, la nausea, quell’individuo mostruoso, la rabbia.
Alle nove chiamò al telefono la signora Celestini. “Come stai Antonia? Ti sei ripresa?”
“ Sto bene, in che senso mi sono ripresa?” – disse mia moglie.
“ Ieri Miriam ha detto che veniva da te per dare una mano, che avevi la febbre alta, che forse si sarebbe trattenuta a dormire da te. Ora che fa, dorme ancora? Se è sveglia, me la chiami?”

Allora la realtà coincideva con il sogno? Con quell’incubo atroce?
Antonia mi guardava spaventata. Non riusciva a parlare. Cercai di introdurre nel caos di emozioni e nella sensazione di essere preda di un mistero, qualche pensiero razionale, per esempio, non si poteva escludere un elemento statistico, vale a dire la probabilità, una su dieci mila, che le due realtà, quella della vita e quella del sogno avessero lo stesso tessuto narrativo.
Devo dire, però, che, per quanto mi sforzassi di introdurre questa idea, mi sembrava che la mente non la potesse accettare come balsamo a un dolore che ci coinvolgeva enormemente.
E se mi servissi del sogno per collaborare con la Polizia? Potrei descrivere con dovizia di particolari il luogo dove era stato commesso il crimine, dove, forse, tenevano prigioniera la ragazza,
dove le persone, forse, venivano vendute come auto usate. Ma il sogno, che mi era apparso lucido, dove le sequenze mi erano sembrate consequenziali le une alle altre in un racconto di tipo cinematografico, ora mi appariva pieno di contraddizioni e in un’aura surreale propria di oscuri fenomeni onirici. Come avrei potuto farlo accettare dalla polizia quale testimonianza inconfutabile, senza destare dubbi e perplessità?. Io stesso potevo essere sospettato di complicità, di voler depistare le indagini, quale connivente della criminalità. No, non avevo alcun supporto razionale, non potevo parlarne.
Tre giorni dopo, nella campagna romana, vicino Santa Marinella, quindi in un luogo lontano da quello del mio sogno, due donne, mentre raccoglievano la cicoria selvatica, trovarono il corpo di Mirian.
Le analisi della Polizia scientifica evidenziarono che la ragazza era stata oggetto di gravi violenze fisiche e abusi sessuali da parte di più persone e che la morte non l’aveva raggiunta in quel luogo dove l’avevano trovata le due donne, ma era avvenuta due o tre giorni prima in un altro posto.

Di tanto in tanto vado col pensiero a quell’incubo maledetto e, nell’inquietudine che si rinnova puntualmente, non posso evitare di interrogarmi sulla materia dei sogni e sui loro misteriosi messaggi.

Gambe in spalla

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di Gianni Biondillo

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Il “serpentone” della Maratown

Il 24 ottobre scorso – proprio mentre battevo chilometri a piedi con centinaia di persone attorno alle periferie di Milano per un evento che avevamo scherzosamente chiamato “Maratown” – il Ministro della Cultura Dario Franceschini dichiarava il 2016 anno nazionale dei cammini. Pochi mesi prima Papa Francesco aveva proclamato l’anno giubilare della misericordia da inaugurarsi a dicembre 2015. Così, con due semplici annunci, è sembrato quasi che l’Italia si fosse d’improvviso rimessa in cammino. Slogan perfetto, ora che ci penso, degno del nostro attuale presidente del consiglio.

Ma, al di là delle battute sul renzismo imperante, credo che quella di Franceschini non fosse una intuizione scaturita autonomamente dal suo seno, come lungimirante presagio per la nazione. La politica, in Italia, da troppi anni, non orienta il paese, ma si fa orientare dal paese. Ed è questa, in fondo, la vera notizia. È da così tanti anni che una gran parte della nazione s’è messa, materialmente, in cammino, che le istituzioni non potevano più far finta di non vederla.

L’elenco di associazioni che su tutto il territorio da decenni ripercorrono sentieri e vie storiche è lungo e presente sull’intero stivale. È gente che cammina da decenni, fin dai tempi di un turismo che sprecava i territori che batteva, nel nome di un divertimentificio dissennato. Oggi l’eredità di quel turismo di massa è la perdità di attrattiva del nostro patrimonio a livello globale, e un lascito di residui materiali devastanti (ruderi moderni, paesaggi dell’abbandono, etc.). Lo spreco del territorio in nome della mobilità privata, foriera di seconde, terze case, spesso abusive, è una ferita che va risanata. E i camminanti lo sanno, da sempre. Attraversare gli Appennini o le valli alpine a piedi, pedalare sulle sponde dei fiumi o camminare negli entroterra insulari è stato il modo che molti italiani hanno attuato per riconquistare fisicamente il paesaggio dimenticato.

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astronavi alla Barona. Foto di Max Franceschini

Camminare è fare cultura. Non a caso, sono ormai vent’anni che i migliori scrittori italiani si sono rimessi in marcia. Hanno raccontato le città, le vie storiche, il paesaggio in trasformazione. Sono stati i testimoni di questo mutamento di sensibilità. Non c’è alcuna contrapposizione fra l’attività fisica da una parte e quella intellettuale dall’altra. Anzi, c’è contiguità. Siamo un paese, voglio ricordare, dove, secondo l’Istat, quasi il 20% degli abitanti non ha fatto assolutamente niente per tutto l’anno scorso: non ha letto un libro, non è andato in un museo, non ha visitato un sito archeologico, non è andata al cinema o a teatro, non ha fatto alcuna attività sportiva. Ma che ha quasi il 90% della popolazione che guarda la televisione tutti i giorni, per molti l’unica fonte d’informazione. Cosa c’entra col camminare? C’entra. Questa cosa ha un nome, si chiama “povertà educativa”. E, secondo uno studio di Save the Children, se fai attività fisica hai anche maggiori competenze matematiche e di lettura. Insomma, come diceva Giovenale: “mens sana in corpore sano”.

Camminare è quindi turismo, cultura, equilibrio psicofisico. Ed ecologia. Stimolare la mobilità “dolce” significa anche lanciare un segnale politico forte. Ormai sono decine gli studi specialistici che associano i livelli d’inquinamento dovuto alla mobilità privata col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari. Quello che sta passando Milano in questi mesi – stretta nella morsa delle polveri sottili – ne è la prova.

Non a caso, di fronte all’emergenza smog, il Ministero dell’Ambiente ha da poco messo in atto alcune misure che prevedono limiti al riscaldamento degli edifici pubblici e privati, abbassamento dei limiti di velocità delle strade urbane e inizative riguardanti il trasporto pubblico e la mobilità condivisa. Nelle misure approvate con la legge di stabilità sono anche previsti 91 milioni di euro in tre anni per ciclabili, ciclovie e cammini.

Nonché 3 milioni per la progettazione e la realizzazione di itinerari turistici a piedi. Non sono tanti, ad essere sinceri, se pensiamo all’intero territorio nazionale. Ma è un segnale d’inversione di tendenza molto interessante. Quello che bisogna saper fare, ora, è evitare di spendere questi soldi nel modo più scontato, per cammini di assoluta bellezza e rinomanza (penso, fra tutti alla via Francigena), dimenticandoci però dei tanti altri itinerari, meno famosi, o rotte da progettare ex-novo, che avrebbero un bisogno vitale di quei contributi statali.

È ora di aprire un tavolo dove invitare associazioni (storiche o meno), editori di settore, start up, università, dove riconoscersi per fare rete, tutti assieme. Tutta l’Italia è degna di una profonda topografia sentimentale. Occorre una visione d’insieme se non vogliamo disperdere questa opportunità solo per mantenere una piccola rendita di posizione.

Escursione di domenica 20 marzo. Con un gruppo senza distinzione di età, razza, religione, abilità. Foto di Max Franceschini.

Da anni lavoro a progetti di escursionismo urbano (vedi qui e anche qui) perché so, da architetto e da narratore, che la rielaborazione dell’identità avviene attraverso un processo di conoscenza e riappropriazione dei luoghi che è resa possibile proprio dalla mobilità “dolce”, la quale non esclude l’automobile, ma la mette ai margini. Questa idea di mobilità può dimostrarsi strategica nella politica gestionale della città ed è sicuramente al passo con le nuove tendenze strategiche della grandi metropoli internazionali. Ogni sentiero “aperto” è, a tutti gli effetti, una ‘sezione’ sulla metropoli che guarda con lo stesso interesse sia il centro che la periferia, restituendo dignità a ogni parte attraversata ed esperendo senza pregiudizi l’intero territorio. Non solo il centro storico, non solo i monumenti insigni.

Con lo stesso spirito va affrontato tutto il territorio nazionale. Non dobbiamo pensare solo al ritorno economico dovuto allo stimolo del turismo di qualità italiano e straniero, ma anche capire che attraverso il cammino attuiamo una terapia del corpo fisico della nazione – comprese le parti più sconosciute, spesso le più malandate – che è la premessa necessaria per curare anche la mente di un popolo fin troppo distratto dai proclami televisivi. Mens sana in corpore sano, insomma.

(pubblicato su L’Ordine del 28 febbraio 2016)

Tutto il calcio minuta per minuta

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di

Pasquale Vitagliano

 

 

 

Al processo lo dicevano
che la palla è tonda
che ogni partita è a sé
che il campo è neutro.

“Qualcuno che lo vuole davvero”, Maartje Wortel

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«Travel is nonsense» he announced. «The only thing you see is what’s already inside you.»

– James Salter

 

Oltre a una sorella maggiore e a un biglietto sul tavolo della cucina, il padre di Reza le ha lasciato anche un pascolo. Per il suo decimo compleanno le aveva promesso un pony. Il pony, come già previsto da sua madre, non è mai arrivato, il pascolo però è suo.

La Nuit Debout

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di Jamila Mascat

Il 31 marzo a Parigi – Place de la République, verso sera– migliaia di persone si sono ritrovate dopo una lunga e piovosa giornata di sciopero contro la Loi Travail, per passare insieme la nuit debout.

Foto di Jean Segura

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La stessa cosa è successa altrove

 

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A Marsiglia, Tolosa, Lione e in altre 18 città francesi

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François Ruffin, direttore del giornale satirico-politico Fakir e regista di Merci, Patron (2016). E’ tra i principali promotori dell’iniziativa.

 

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Da un mese gli studenti e i lavoratori francesi protestano ogni settimana (9 marzo, 17, marzo, 24 marzo, 31 marzo) contro il Jobs Act del governo Valls

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Finora il governo ha risposto con una repressione spropositata

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Ma la mobilitazione continua

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Il 5 aprile e il 9 aprile gli studenti e i sindacati si sono dati di nuovo appuntamento per chiedere il ritiro della Loi Travail

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Frédéric Lordon, economista, “intransigente collerico” secondo Libération, e rock-star della .  “Non ringrazieremo mai abbastanza la Loi El Khomri per averci restituito il senso del comune!”

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All’alba la polizia è intervenuta in Place de la République per sgomberare i manifestanti

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Dopo la prima nuit debout (#32mars), ce n’è già stata una seconda, stanotte.

 

Il caso Roualdès: il genio anarchico e poetico d’un occitano di Francia

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1 aprile

 

 

 

 

 

 

°

di Andrea Inglese

Gallimard lo voleva per la sua storica “Série Noire”, Seuil lo voleva per la collezione “Fiction et Cie”, fondata nel 1974 dal poeta Denis Roche, persino l’esigentissima Minuit, che non ha nemmeno una collana di poesia, lo voleva, e non un solo volume, ma i suoi 9 libri, che per lui altro non sono che le 9 cantiche di un solo macro-poema.

“Il delta” di Kurt Lanthaler: storia di una traduzione

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di Stefano Zangrando

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Fino a pochi anni fa Kurt Lanthaler lo conoscevo solo di fama. Sapevo che era uno dei più noti scrittori sudtirolesi all’estero, che i suoi romanzi pseudo-polizieschi aventi per protagonista un certo Tschonnie Tschenett erano stati poco meno che best seller nei paesi tedeschi. Anche per questo non li avevo mai letti: gli studi universitari mi avevano reso tanto snob quanto da giovane ero stato pop, perché avrei dovuto leggere dei quasi-best-seller? Con quei titoli italofili, poi, chissà quanti cliché: Azzurro, Napule

Mi documentai un po’ meglio quando nel 2011 «il manifesto», grazie a Maria Teresa Carbone, decise di ospitare un mio articolo sulla ricezione della letteratura sudtirolese in Italia negli ultimi anni. A un certo punto in quel testo menzionavo anche i libri di Lanthaler, chiedendomi come mai neppure uno fosse stato tradotto, e in chiusura lanciavo una provocazione: che fossero gli stessi autori sudtirolesi a non interessarsi più di tanto alla diffusione delle loro opere presso i connazionali di lingua italiana? Quando poi l’articolo fu ripreso on line da un blog altoatesino, mi si accusò di aver omesso alcuni nomi, io risposi a tono e ne nacque un putiferio velenoso in seguito al quale, a un certo punto, mi giunse un’e-mail molto cordiale e compita. E bilingue. Era firmata Kurt Lanthaler, e puntualmente contestava la mia provocazione finale.

Fra i libri che mi ero procurato in fase di documentazione non c’erano i pseudo-polizieschi di Lanthaler, che mi ero limitato a sfogliare in una biblioteca tedesca di Bolzano, ma c’era un suo romanzo “a parte” uscito nel 2007 con il titolo Das Delta. Nell’articolo non ne avevo parlato, ma la lettura delle prime pagine era stata una rivelazione. Potevo essere finito in un film di Fellini, o in uno spaghetti-western, o in un capitolo mai pubblicato del Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, o una qualunque pagina padana di Gianni Celati – ma in tedesco. Non era l’italianità dell’ambientazione e dei personaggi, erano la poesia degli ambienti, l’atmosfera stralunata, quell’ironia aggraziata… Non pop né snob, ma popolare e letterario al tempo stesso. Prosa del mondo e bellezza.

Il resto è storia editoriale: traduzione delle prime venti pagine, invio a vari editori e responso pressoché immediato, e positivo, da parte di Aldo Mazza, direttore delle edizioni alpha beta di Merano e considerato dal settimanale sudtirolese «FF» fra i due o tre altoatesini di lingua italiana più influenti della provincia. Conoscevo Mazza, sapevo che aveva un passato da direttore di scuola di lingua, che la sua casa editrice vantava una nota collana di psichiatria chiamata «180» e che qualche anno prima aveva rilevato il catalogo narrativo di un editore locale minore, per dargli nuovo slancio e maggior respiro. In quella collana, fra l’altro, erano apparsi anche autori tedeschi come Helene Flöss o Sepp Mall, tradotti o, nel caso di quest’ultimo, anche come traduttori. Insomma, alpha beta era un editore impegnato, interculturale, molto radicato nel territorio e con l’ambizione di crescere, e l’onorario onestissimo che negoziammo per la traduzione mi convinse decisamente a contribuire all’impresa.

A un certo punto sperammo persino di poter pubblicare il libro assieme a Feltrinelli nella collana «Indies», ma in quel caso la risposta fu chiara e negativa: nonostante il libro fosse stato considerato «molto bello» e la scheda di lettura pervenuta ne avesse tessuto gli elogi sotto ogni aspetto, a quanto pare non aveva sufficiente potenziale commerciale per garantire un tot di vendite all’editore milanese. (Mi chiedo perché debbano essere proprio simili collane a dover rispondere a requisiti commerciali, quando dovrebbe essere il contrario: che il grande editore guadagni il più possibile con i propri titoli commerciali, così da poter sostenere operazioni indipendenti più sofisticate. O no?) Pazienza. Anche se sapevamo di disporre di risorse promozionali pressoché nulle – parlo al plurale, perché fin dall’inizio mi sentii pienamente partecipe all’idea di diffondere il romanzo presso il pubblico italiano – il libro sarebbe uscito solo con il marchio alpha beta. Tuttavia si sarebbe colta l’occasione per rinnovare la veste, ispessendo la copertina e dotandola di risvolti.

Così è stato, e nel suo primo mese di vita editoriale Il delta di Kurt Lanthaler ha venduto qualcosa come cento copie. Pochissimo, certo. Ma se si pensa che non è uscita una sola recensione, che fra i critici italiani ai quali l’ho fatto mandare solo una gentile signora dell’accademia nostrana si è resa disponibile per far ospitare una segnalazione in un mensile di cui è corresponsabile (e non ancora apparsa), che dunque tutto il resto è passaparola, cento copie – oggi – non sono poco.

Ma mi rendo conto che parlare di lettura in questi termini non ha senso, se prima non si racconta qualcosa del libro in sé. Dunque: Il delta è la storia, frastagliata quanto le stesse ramificazioni terminali del Po, di un trovatello di nome Fedele Conte Mamai, il quale, dopo decenni di peregrinazioni attraverso lo stivale e non solo, ritorna a Maierlengo, il suo paese d’origine sul delta. In valigia ha «baccalà e babà, bresaola e bottarga». A trovarlo, da poppante, fu un solitario barcaiolo di nome Bombolo, che lo allevò alla bell’e meglio e dal quale Fedele, cresciuto quanto basta, si allontanerà per girare l’Italia facendo i lavori più diversi: muratore, giostraio, operaio, contrabbandiere e molto altro. Non c’è intreccio, ma incastro e confusione di piani: narrativi, spaziali, temporali. C’è un’Italia provinciale di cui Lanthaler coglie spirito e dettagli, c’è l’arte ingegneristica dell’uomo e della natura, e c’è la lingua: un innesto continuo di apporti dialettali, espressioni idiomatiche e proverbi che nell’originale tedesco deve aver disorientato non poco i lettori d’Oltralpe, ma che in italiano avrebbe avuto tutt’altro sapore, quello di una dichiarazione d’amore per il plurilinguismo nostrano. Ah, e non ho detto che lo stesso Lanthaler, plurilingue com’è di suo, in fase di revisione della traduzione si è rivelato un collaboratore prezioso.

Quando di recente ho tentato di intervistare Lanthaler per un noto sito culturale italiano, la rinuncia è giunta dopo la prima domanda, che recitava: « Più volte ti sei definito “un autore italiano di lingua tedesca”: puoi spiegare questa definizione?»

La risposta di Lanthaler, barocca quanto certe sue pagine, superava le trenta righe; citerò qui solo le prime dieci:

per quanto concerne la mia “autodefinizione” (che eventualmente può esser letta come una (auto)provocazione, e mi spiego):

la maggior parte dei miei testi li scrivo in tedesco. (waere ich 1984 – was in frage stand – nach bologna und nicht nach berlin gezogen : waere es, aber das ist spekulation, anders gekommen)

il resto è qualche piccola poesia por talian e qualcosetta in greco.

a parte die unwaegbarkeiten solcher bologna/berlino/zufallsentscheidungen (fuer berlin sprach die damals deutlich virulentere off-filmemacher-szene (zumal im zelluloidformat 16mm): de facto bin ich da drin gelandet: als beleuchter/elettricista, erstmal. klassisch) … a parte also :

E così via. Quando ho espresso a Lanthaler la mia incertezza sulla traducibilità e pubblicabilità delle sue risposte se fossero state tutte di questo tenore, mi ha rimandato di ripiego a una mini-intervista fittizia presente sul suo sito, che riporto volentieri a completamento del lacerto soprastante:

A domanda risponde. A.d.r.

Paralipomena dal delta

(Secondo il vecchio Codice di procedura penale)


A.d.r.: Per scrivere un romanzo che racconta un viaggio, mi metto in viaggio. Leggendo. (Muoversi fisicamente da un posto all’altro non è tra le mie attività preferite. – Ma non necessariamente perché il posto dove sto mi piaccia.)


A.d.r.: Spendo un sacco di soldi per scrivere un libro. Comprando libri. (Scrivo libri per guadagnarmi da vivere. È il mio mestiere. Non ho altri.)


A.d.r.: Che faccio, se non scrivo? Al massimo leggo due righe.


A.d.r: No. Non me lo può chiedere.


A.d.r: Perché non ci sono risposte. 


A.d.r.: Alle risposte ci crede colui che non ha domande. Come Lei.


A.d.r.: Sarà. Ma non mi mette paura. Metta invece un po’ di fantasia. Allora sì che…


A.d.r.: Nun, da halte ich mich an Gramsci: »Jeder wirklich poetische Text hinterlässt eine Ablagerung von Alltagsverstand.«


A.d.r.: Infatti, un tornado che passa sopra Αθίνα è un fenomeno. Raro, se vuole. Se poi succede in ottobre … (Dal delta invece non ci è giunta foce.)


A.d.r.: Pioppi? Allego documentazione fotografica.

Ecco, Lanthaler è un tipo così, un po’ dada, un po’ situazionista, molto giocoso, cantastorie attento al ritmo e alla musica della lingua, propria e altrui. Concludo con una delle pagine iniziali de Il delta, un romanzo bello e buono, che spero trovi un po’ alla volta i suoi lettori italiani, anche attraverso questa strampalata finestra su Nazione indiana.

 

 

Vedete, Fedele Conte Mamai è di nuovo qui, dico. Ci è voluto un bel po’ di tempo, era sempre in giro. È quasi irriconoscibile. E tutto è rimasto come una volta, vedo. La piazza, l’edicola, la nebbia e il vento. L’argine, i canali. E di buoi non ce ne sono più già da un pezzo, da nessuna parte. L’ultimo lo vidi non meno di quindici anni fa. Attraversava la strada davanti a uno zoo. Non si capiva se andava o veniva. E da allora mi chiedo da dove arrivino mai tutti i guanciali brasati. Per l’appunto. L’osteria è ancora quella vecchia. Buia, come in passato. E un po’ umida, come allora. Non così inospitale.

 La porta era aperta. Scesi i tre scalini e mi guardai intorno. La volta, i tavolini, il banco corto, basso, eternamente bagnato. Le sedie erano sparse qua e là, come dopo una rissa. Il locale vuoto, come se i carabinieri avessero portato via tutti in una volta. Sul piccolo scaffale, qualche bicchiere. E sopra ogni cosa muffa, polvere, intonaco scrostato. Bene, dissi, attraversai il locale, passai nel retro, lì c’erano i resti cinerei di un falò, freddi. Cos’è successo qui?, dico, sarebbe una novità.

Mi sedetti al tavolo nell’angolo in fondo, il tavolo per chi arriva dopo. Lo assesto un po’ finché non traballa quasi più, poso la valigia accanto a me.

 

Oste, sono di nuovo qui. I gà igà i gái.

Sapete, l’osteria non è mai stata troppo cordiale con gli ospiti, e l’oste, se possibile, ancora meno. Ti portava un bicchiere di vino sul tavolo senza bisogno di dir niente. O mezzo litro. Sempre di quello disponibile al momento. Di caffè ce n’era soltanto nei casi veramente eccezionali, funerali o simili. Due o tre volte l’anno. Quando oltre agli ospiti abituali si trovava all’osteria anche quella parte del paese e dei dintorni che altrimenti ci girava alla larga sprezzante. Gli iniziati, dal canto loro, girano alla larga dal caffè. Di grappa se ne trova sempre, basta uno sguardo muto. L’accenno della mano verso lo scomparto in basso. Un cugino lontano che distillava senza tanto badare alla legge, uno che aveva capito e preso sul serio a tal punto la propria occupazione che ci aveva lasciato le penne.

Qualunque cosa servisse l’oste, che uno l’avesse ordinata o no, il ringraziamento era sempre il seguente: che bon caffè ca fè. Che buon caffè avete fatto anche oggi, oste. E lui si guarda intorno nella semioscurità dell’osteria, guarda la sua eterna clientela abituale e dice: I gà igà i gái. Hanno legato i polli. E allora parte un giro di risate. La volta dopo il gioco si ripete. Un rituale. Più che un passatempo, un indolente segnatempo.

 

(da Kurt Lanthaler, Il delta, traduzione di S. Zangrando, edizioni alpha beta Verlag 2015)

 

 

CaLibro 2016, Festival di Letture a Città di Castello [31 marzo – 3 aprile]

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Locandina CaLibro2016

Da giovedì 31 marzo a domenica 3 aprile 2016 torna CaLibro – Festival di letture a Città di Castello.

La quarta edizione di CaLibro è ormai alle porte: il Festival di letture, organizzato dall’Associazione culturale “Il Fondino”, grazie anche al sostegno e al patrocinio del Comune di Città di Castello e della Regione Umbria, sarà caratterizzato dalla presenza di ospiti prestigiosi e iniziative coinvolgenti che interesseranno un vasto pubblico: dai più piccoli ai più grandi, dagli appassionati di narrativa e di poesia, a quelli di ciclismo, spaziando dalla musica all’arte grafica. Il tutto tenendo sempre come punto di riferimento centrale i libri e la letteratura. Gli eventi, come sempre, si svolgeranno nei luoghi più caratteristici e suggestivi del centro storico della città.

Tutti i ragni 3 – Le cantine e i ragni

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di Vanni Santoni

3 tegenariaL’esistenza della casa dove sono cresciuto mi è sempre stata spiegata con un “l’ha costruita il nonno” che mi è sempre sembrato poco plausibile. La costruzione di un simile edificio richiede competenze che vanno dal muratore all’elettricista al falegname, e mio nonno ha solo un banco da falegname, col quale peraltro la cosa più complessa che gli ho visto costruire sono i portafavi per le sue api.

È pur vero che l’edificio non pare improntato al funzionalismo ma costruito, lì su una delle traverse alte di via Po, in base a un certo qual principio di buon senso e gusto del periodo: in base a scelte approssimative che si preparavano a patire il passare degli anni fino a dimostrarsi per lo più sbagliate.

La più grave fra queste coglionate è il fatto che i due appartamenti della casa non si sviluppano, com’è logico, in altezza, ma sono collocati uno sul primo e uno sul secondo piano. Il risultato è che mia nonna, che nel frattempo ha perso l’uso di una gamba, è rimasta intrappolata lì sopra, e dal momento che non può tollerare l’idea di vivere in un posto diverso da casa propria, ci rimarrà di certo fino a che non morirà. Un’altra di queste scelte irrazionali è l’aver dotato l’edificio di un sistema di fondi che sarebbe più appropriato definire catacombe, tant’è che ben presto i miei amici, con i quali in una di quelle stanze mi riunisco per giocare a D&D, li ribattezzano “il dungeon”. E con un dungeon i miei fondi hanno in comune, oltre alla pianta labirintica, oltre a curiosità architettoniche come buchi quadrati sui muri del corridoio e alte finestrelle che danno sull’esterno in punti del tutto casuali, oltre ai vicoli ciechi e alle stanze piene di armadi, bauli, botti, ziri, il fatto di essere piene di mostri. Non è raro infatti, per chi intraprende il percorso dalla stanza in cui giochiamo al bagno, incontrare scolopendre, scorpioni e soprattutto ragni. Il bagno in particolare è infestato, e i più pisciano a occhi chiusi, sebbene sia vero che un po’ ci crogioliamo in questa idea, e gli avvistamenti di questo o quell’avventuriero sono non di rado esagerati nelle dimensioni o nella quantità degli esseri incontrati. Quando però un giorno lo Staderini, chierico di 14° livello, torna e riferisce di aver visto un ratto, è chiaro che sta dicendo la verità: nessuno avrebbe osato inventarsi animali addirittura di diverso phylum.

Il giorno dopo, mio padre imposta un piano d’azione di ingegneristico razionalismo. Torna dalla mesticheria con tre tubi rossi, metallici, simili a quelli del dentifricio ma considerevolmente più grossi, industriali e cattivi. Sul barattolo un’onomatopea tipo “ZOCK!” scritta all’interno di una freccia che si abbatte su un ratto stilizzato, nero. Misura le soglie delle tre porte che costituiscono i principali snodi del dungeon e prepara tre cartoncini di quella stessa lunghezza, dotati di linguette attraverso le quali manipolarli, li spalma della colla contenuta nei tubetti e li colloca sulle soglie. Mi spiega che il ratto non potrà che passare sopra a quei cartoni e rimanerci appiccicato.

Tutto questo avviene prima di una vacanza di qualche giorno ed è grande, al ritorno, l’eccitazione di tornare e andare a vedere se la colla ha funzionato.

Io che scendo le scale, in avanscoperta, ancor prima che mio padre posi il cappotto nell’ingresso, e come arrivo mi blocco di fronte alla prima trappola. Sopra al cartone nessun ratto ma, a coprirne per intero la superficie, un mostruoso olocausto di ragni. Cinquanta, cento, uno sull’altro, ammassati, impiastricciati, ribaltati, i più ancora vivi, impegnati in una lotta di vani scatti con quella poltiglia fatta di colla e corpi dei loro simili. Sotto e in mezzo a quell’orgia di zampe e colla, a guardar meglio – perché, nonostante un conato che prende sostanza, mi avvicino, e guardo – un tappeto di altre creature: scolopendre, pesciolini d’argento, forbicicchie, cimici. E ragni: ragni grandi e piccoli, ragni filiformi, le zampe rese curve e molli dalla colla, ragni glabri e ragni pelosi, ragni gialli, neri, rossicci e uno rosa, osceno, come non ne avevo mai visti. Mio padre prende quell’orrore dalla linguetta e senza dire niente lo butta nella spazzatura.

Viene poi l’alluvione. Al mio paese i fenomeni atmosferici fuori norma sono rari e vengono sempre ricordati. Qualcuno dice che così come si ricorda il gelo dell’85, così verrà ricordata questa alluvione. Qualcun altro si chiede, con una nota quasi di disappunto, come mai non sia stata sommersa anche Firenze.

Piove così tanto che non solo l’Arno, ma anche i borri, come quello che passa poco sotto casa mia, straboccano e la loro acqua gialla si porta via pezzi di steccato, alberi, cassonetti, le Ape Piaggio dei vecchini e pure qualche utilitaria. Casa mia è stata collocata dal buon senso di mio nonno su un’altura e quindi possiamo permetterci di stare lì in fondo, dove la nostra strada si unisce con via Po e guardare gli averi altrui passare per la via come se fosse effettivamente il Po. L’acqua tuttavia non smette di scendere e anche casa nostra si trova col giardino allagato. Da lì poi penetra nei fondi. Sento mia madre che mi chiama perché dia una mano con i secchi. Allora, dopo essermi goduto il passaggio di una 500 che oltre a procedere su quel fiume di limaccia verso il centro di Montevarchi effettua anche rotazioni sul proprio asse, mi smuovo e raggiungo il giardino.

C’è sempre un mistero più profondo, una verità che solo la natura può decidere di svelare. Nell’angolo tra il secondo e il terzo scalino del mio pianerottolo, al riparo dall’acqua e a poca distanza da un finestrino basso che dà sui fondi, un ragno formidabile. Ne ho visti di più formidabili, certo, ma in foto. L’anno prima mi è stato infatti regalato un libro che documenta ragni di ogni genere, con un occhio di riguardo per quelli velenosi come la placida e mortale vedova nera o il ragno eremita, scattante flagello texano in grado di necrotizzare i tessuti umani, oppure giganti come la tarantola e la migale. Lo sfoglio ogni volta con un brivido, guardando e non guardando quelle foto terribili; lo centellino, lo succhiello, immagino come possa essere venire morsi dal ragno eremita oppure scoprire sul muro di casa una migale. La risposta è davanti a me, poiché questo ragno, che è qui e adesso, ha in comune con le migali del libro le dimensioni. Ma è un ragno di qui: è marrone, ha le zampe affusolate. Non ha screziature, o le forme bombate, muscolose quasi, delle tarantole. È una tegenaria, un ragno di Montevarchi, ed è grosso come la mia mano. È qui e si protegge dall’acqua, questo sovrano dei fondi sfuggito facilmente alle trappole di mio padre e agli avvistamenti degli avventurieri della domenica sera, e non gli piace essere qui, quasi mostra una sua saggezza, una consapevolezza della possibilità di essere schiacciato dagli uomini – di essere schiacciato da me – e si difende con quello che ha: con l’orrore. In realtà sta lì ad asciugarsi, valuto: aspetta una botta di sole o almeno di caldo che lo rimetta in sesto, ma il pensiero non attecchisce. Colto da brividi, non oso superarlo; entro dal portone di mia nonna e raggiungo mia madre da sotto, attraverso il dungeon.

[III – continua]

Primo capitolo

Secondo capitolo

Overbooking: Roberto Plevano

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cogitationes

Cogitationes

di

Roberto Pievano

Non che il mondo avesse bisogno di un altro romanzo storico di ambientazione medievale, certamente no. Imperterrito, inizio a lavorare a un progetto narrativo intorno sulla Marca veronese del XIII secolo (geograficamente corrispondente grossomodo all’attuale regione Veneto, con l’esclusione di Venezia e provincia). Il proposito è di ricostruire e rappresentare, per quanto possibile, mentalità e modi di pensare e di vivere di quel tempo, mettendo in secondo piano trama, intrecci e artifici letterari propri di un gusto di lettura più moderno.

L’uso della prima persona suggerisce una tecnica di roman à clef, tuttavia non c’è diretto riferimento al tempo presente. È storicamente problematico parlare di un’“Italia” e di “Italiani” nel XIII secolo. Allora la Marca veronese era la cerniera tra il mondo germanico e l’al di qua delle Alpi. Processi economici e sociali, strutture di potere e conflitti disegnano un quadro assai variegato e mutevole, tanto che oggi gli storici non si riferiscono principalmente ai contrasti tra Guelfi e Ghibellini o tra il particolarismo dei Comuni e le tendenze universalistiche dell’Impero, ma sono cauti nell’esporre linee generali di profili e tendenze di lungo periodo. Soltanto per fare un paio di esempi, allora tra gli abitanti di Padova e Verona e quelli di Venezia correvano distanze paragonabili oggi a quelle tra, mettiamo, Dubai e Londra. Né esisteva un’Europa di assoluta omogeneità religiosa: Musulmani nel regno di Sicilia e nella penisola iberica, Catari in Occitania, in Lombardia e Marca, Ebrei, erano minoranze significative e ben presenti in molti tessuti sociali. E c’è un’interessante e drammatica storia del potere, che è tentativo di dare forma stabile al passare degli uomini, e rilevanza a se stessi e ai propri interessi, con l’uso della persuasione e della forza.

Il XIII è stato un po’ il secolo di nascita della lingua letteraria italiana, con le scuole poetiche del regno di Sicilia e di Toscana. Tuttavia non ci si può nemmeno avvicinare alla lirica nei vernacoli cisalpini e peninsulari senza conoscere il grande fenomeno dell’emigrazione della poesia provenzale in Italia, che ha interessato soprattutto le corti e le città della Marca e di Lombardia. La lirica provenzale, a partire dalla fine del XII secolo, ha diffuso duraturi modelli di gusto ed etichetta, ha costruito una poetica e ha offerto una pratica sociale di letteratura passata in altre epoche. E invece la lingua della comunicazione culturale, del culto e delle leggi rimaneva il latino.

Un racconto, se ben riuscito, riflette l’esperienza in forma organica. Il romanzo di periodo è finzione, naturalmente, ma illustra verità storiche altrimenti ricavabili soltanto da un paziente studio di fonti e documenti, aggiunge per così dire un surplus di realtà alle nostre rappresentazioni, ricavato proprio dalla sintesi narrativa.

La clef del romanzo semmai sta proprio nell’uso della prima persona, nella dialettica di distacco e identificazione dell’autore (e sperabilmente del lettore) con il protagonista, Amalrico, intellettuale (organico a una corte signorile della Marca) addottorato in medicina e divenuto magister Artium. Chi pensa e scrive muove sullo sfondo di un inevitabile vissuto, di cose che hanno commosso e cose che è impossibile mandare giù; sa che il tempo è perduto, ma non getta la spugna.

Il romanzo Marca gioiosa ha avuto la buona sorte di vincere la II edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza. La pubblicazione presso questo editore è prevista nel 2016. L’espressione gioiosa Marca non è di origine italiana: si trova nel poema cavalleresco L’Entrée d’Espagne, scritto in franco-veneto nei primi decenni del Trecento: (v. 10976) En la joiose Marche del cortois Trivixan.

Qui di seguito una pagina: il protagonista, ormai invecchiato, incatena cogitationes.

cogitationes 1

da Marca gioiosa ( ed. Neri Pozza)

Ho vissuto tra gli uomini, ho vissuto come un uomo. Con alcuni uomini ho condiviso le cose che ho imparato.

Che cosa ho imparato? La cosa più difficile è stata… disimparare, disimparare il superfluo, che è il danno della mente. La cosa più difficile è dimenticare il cielo sopra di me, che non serve. Quello che gli uomini chiamano cielo è il vuoto in cui cadono le grida, in cui suppliche e pentimenti si spengono.

Come un uomo… ho creduto di essere un uomo, eh? Un corpo e un’anima razionale, così hanno detto, così ho letto, così ho creduto: ecco, è questo il mio essere… Ma io, che cosa ricordo io, prima di dire così di me? Ricordo qualcosa come un sentimento: gioia e tristezza, e sorpresa, e paura, e rabbia, e disgusto… nomi dati molto tempo dopo quel sentire, che sorge tutto intero, tutto insieme… I nomi di queste disposizioni arrivano buoni ultimi, prima c’è stata la passione stessa, di cui i nomi non sono nemmeno tracce sicure. E le cose che associamo alla passione… non sono proprio cose, no? Sono, dicono, hanno detto, anch’esse altre passioni, sentimenti dentro l’anima. Tutto è passione e sentimento, non è così? Vedo una cosa, la immagino, solida, estranea… No, no, sento l’effetto che l’urto con la cosa, che sia realtà esterna della cosa o quella interna dell’avvicendamento di cogitazioni – come distinguerle? – produce su di me, che sono fascio, condotto di passioni. Ecco, il torrente che siamo. Un torrente che scorre nel tempo che scorre. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più vera, più mia. Le gioie sono tutte diverse, la tristezza è la stessa in ogni epoca della vita. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più intensa, più breve, l’unica rimpianta, la sola che tento di risuscitare, da mattina a sera, e per tutta la notte. Il torrente impetuoso, nel tempo che scorre.

Ah, mi pare di sapere, ogni acqua, anche la minuscola goccia, scende infine al mare, nel pelago infinito della sostanza, dicono, hanno detto, ma l’acqua del mare si muove sempre, non trova mai quiete… Come ogni storia, se si continua a raccontare abbastanza, termina con la morte, signore assoluto, infinito nulla, dicono, hanno detto. Ma nemmeno le ossa, le ceneri, la polvere, trovano mai quiete.

«In poesia la morte non è mai l’ultima parola, messer Amalrico.»

Già, già… ricordo bene, credo di aver capito. Soltanto tu potevi dirlo, soltanto tu, non per consolare, non per rimediare allo strappo di quella parola, morte – se non l’ultima, la meno conosciuta. L’hai detto allora come un ordine, senza un perché. Mi hai detto: vivi! Vivi, e quindi respira, impasta la lingua di saliva, parla. Cantare e scrivere, che altro fare, se si vive? Così si dà forma al sentimento, significato all’esperienza, ancora al di qua dalla parola sconosciuta e impronunciabile. Dare un corso, una direzione al flusso, no? E la morte è il nulla, l’esaurirsi del corso, e non si può dire, ma la morte ancora non c’è, tu e non la morte sei la presenza assoluta, la mia signora. Prima che il gran fiume si arresti, fammi sapere dove tu sei stata trascinata. Dove sei ora?

E quanto al resto, ritornando a quello che ho imparato… ricordo che ho compreso qualcosa, sì, ho avuto un qualche intendimento, come si dice nei libri, che vorrebbe dire collegare cose e fatti che prima dell’intendimento se ne stanno soli soletti per sé, – e il culmine, la vetta dell’intendimento è, dovrebbe essere, comprendere che tutte le cose sono in relazione, non soltanto alcune, e il modo di questa relazione – e il poco che ho compreso, che ho creduto di comprendere, mi ha lasciato meravigliato, costernato, indifeso, incapace di metterlo a frutto, e se non avessi compreso questo poco, avrei vissuto lo stesso, certamente, forse meglio – una vita soddisfacente, di cui compiacersi – o magari non avrebbe fatto alcuna differenza. E pure, ricordo che ho ritenuto coloro che non comprendevano, i più – che pensavo diversi da me – in qualche modo bisognosi di istruzione, di correzione, come se proprio io fossi quello che poteva aggiustare, dare lezioni… Già, già, si è visto. I miei cari sono morti, il mio amore non so dove sia, non so come stia, io sono vivo, per ora, in cieca e ottusa obbedienza al dettame del mio amore, che mi ha imposto di vivere – in virtù della tremenda passione da lei in me causata –, ma che di questo mio vivere non sa nulla, non essendo mai stata accanto a me. Non sono sicuro che vivere senza il mio amore accanto sia un bene. No, no, pensare così non è giusto… teniamo per fermo, come un assioma, che l’esistenza, in se stessa e per se stessa, sia un bene.

Deve essere una faccenda di equilibrio, deve essere il fatto che ciascun vivente vive trovando da sé e negoziando i termini della sua esistenza. Inizia con il senso di sé, inizia col dire: io sono io e tu… ah, non c’è ancora nessun tu, ci sono io, ma io non basto a me stesso, c’è qualcosa che mi sostiene, c’è qualcosa che dà calore, di cui ho bisogno… ecco, quello sei tu. Ci sei tu. Al senso di sé si associa allora il senso del tu.

Ma pensare rimane un obbligo. Pensare, pensare, penare… non se ne può fare a meno, così come non si può fare a meno di essere quel che si è, qualunque cosa esso sia. Io sono il mio pensiero, sono il pensare, il dubitare, il concepire, l’affermare e il negare, il volere e il non volere, l’immaginare anche, il sentire… ah, quello mi è caro, sono anche materia, carne e ossa e sangue con cui ho sentito, dolori e l’immenso piacere della prossimità della cara persona. Ma forse altro rimarrà di me, esaurita la materia: qualcuno magari dirà un giorno, molto tempo dopo la mia morte, che il maestro volle istituire una scuola: quell’antico volere era il maestro; che il maestro dubitò di un qualche articulum fidei: quel remoto dubitare era il maestro; e così via. Non diciamo forse che Aristotele afferma che è evidente che gli uomini possono conoscere e comprendere le cose? Che il desiderio di conoscere e comprendere è la natura dell’uomo? Aristotele, da lungo tempo morto, rimane oggi quell’affermare. Su tutto il resto, di Aristotele si sa poco: quale il suo aspetto? Dove il suo luogo di nascita? La sua dimora? Dove la sua tomba? Quali i suoi dolori, e le gioie? Così, anche se nessuno potrà dire che il medico di Salerna abbia amato la sua donna sopra ogni cosa, attraverso se stesso e oltre se stesso, perché questo sentimento non ha avuto testimoni, e la sua donna rimarrà muta, ignara, tuttavia quel sentire è stato, ed è, fino a ora, il medico di Salerna, che medico non è. Nulla si può dire di lui se non che è stato qualcosa come uno spirito, un intelletto, una ragione, un sentimento, un’anima, senza attributi.

Pensare, pensare… è desiderio di conoscere, certamente. E pure so che desiderare qualcosa non ha nulla a che fare con l’esistenza, o anche la mera possibilità di esistenza, di quella cosa. Conoscere… che cosa vuole dire conoscere? Se gli uomini, tutti gli uomini, desiderano conoscere, ne deriva che odiano l’ignoranza. Se conoscere è impossibile agli uomini, e l’ignoranza è la loro condizione naturale, come ritiene Pirrone, – che è stato ed è, evidentemente, questa sua opinione – allora ne consegue di necessità che gli uomini odiano… odierebbero la loro condizione naturale, se ne avessero effettiva contezza, cioè se conoscessero con verità che non conoscono, il che, per il discorso stesso di Pirrone, non può avvenire. Deve essere stato allora per ripugnanza verso questa conclusione che Pirrone è tenuto in spregio, e che la radice dell’errore, che è occorrenza di ignoranza, viene posta nei sensi o in qualche imperfezione della mente, la quale mente, usando bene delle sue capacità, eviterebbe certamente errori e ignoranza e non si agiterebbe in un mondo di ombre e immagini vane, come ritengono gli spregiatori dell’opinione di Pirrone – che è stato, ed è, la sua stessa opinione. Dicono, infatti, che non sono autentici filosofi quelli che pongono il giudizio della verità nei sensi, e sostengono che tutto quello che è appreso debba essere misurato secondo le malsicure e fallaci regole dei sensi. E che la mente concepisca le sue nozioni sulla base dei sensi del corpo, e che tutto quello che si impara e si insegna da essi prenda forma e si trasmetta, è considerata un’opinione di cui scandalizzarsi, perché, dicono, con gli occhi carnali non si può vedere la forma della sapienza, che è bellezza, ma soltanto con la luce della mente. Uno è l’oggetto della mente, dicono, un altro quello dei sensi.

Ah, il medico ha esaminato con i suoi occhi gli occhi degli uomini, ha cavato dalle orbite dei deceduti e dei condannati i bulbi oculari, li ha sezionati con il coltello e ha visto che l’occhio è una sorta di umore spesso e cristallino, come una lente minutamente levigata, che riceve la luce e, a misura della curvatura della sua superficie, la concentra su un tessuto dell’occhio simile a una retina, che viene così impresso dalla luce e muove il nervo che dall’occhio, sicut ramusculus, si propaga nella parte anteriore del cerebro. Il medico ha del pari esaminato gli altri organi del corpo, la pelle, il canale uditivo, le cavità nasali, la lingua mozzata degli spergiuri, e in tutti ha trovato aliquos ramusculos di nervi o vene che si estendono in tutto il corpo, come la rete di canaletti coextenditur in ogni parte della foglia dell’albero. Attraverso questi nervi vel ramusculi scorre la capacità o virtù sensitiva, dal cerebro in tutto il corpo – sebbene Aristotele dica erroneamente che scorra dal cuore, e i medici lo correggono su questo. Errori, errori, errori, Aristotele è il suo opinare, è il suo errare…

Gli occhi della mente… io mica li ho visti. Ho sezionato in lungo e in largo una quantità di cerebri, appartenuti un tempo a gente il cui capo fu separato violentemente dal corpo – e a cui evidentemente il cerebro non era più di alcuna utilità – e posso dire che il cerebro è composto di tessuti circonvoluti non dissimili da quelli degli altri organi del corpo, e nemmeno il cerebro, al pari della mano o del fegato o del cuore, può avere alcuna virtù se non è congiunto con il corpo. A me pare che il cerebro unito al corpo riceva dai ramusculi dei nervi le alterazioni degli organi dei sensi, che sono movimenti secondo la qualità, come una specie di specchio che riflette la luce, o di pagina che riceve le lettere da un copista, e abbia così la virtù di formare come un testo da queste alterazioni: compone cioè delle immagini dei corpi, che sono impresse in un tessuto interno del cerebro, che noi altrimenti chiamiamo mente. Similmente, le lettere tracciate su una pagina vanno a formare un testo.

Resta però da determinare – la gente dice che sono un maestro e si aspetto che io determini – se queste immagini siano davvero la conoscenza che gli uomini tutti desiderano. Tutti gli uomini, pensano, dubitano, concepiscono, affermano, negano, immaginano, desiderano, detestano, si intristiscono, si disperano anche… Aristotele dice che la mente è la parte dell’anima con la quale l’anima conosce e pensa, e quando finalmente conosce pienamente, la conoscenza e l’oggetto sono la stessa cosa… ma Aristotele erra, come ha errato sull’occhio e sul cuore. L’anima pensa, l’anima pena, l’anima si rallegra e piange, è presa da noia e tristezza, ma conoscere… tutt’al più, quando va bene, si accorge di aver preso cose false per vere, e quando se ne accorge, è sempre tardi per trovare un rimedio. Si ritiene quindi che le immagini nella mente non siano conoscenza.

L’anima si accorge di aver preso cose false per vere… che non significa necessariamente prendere poi altre cose per vere dopo essersi avveduti dell’errore, finalmente con piena e definitiva cognizione. Anch’esse si riveleranno false alla successiva – e spesso penosa – contezza. E dal momento che pare cosa naturale, ed essenziale per l’uomo, non soltanto il desiderio di conoscere, ma anche il deliberare e disporre un corso di azioni, Aristotele ritiene che la mente dell’uomo possa conoscere ciò che è vero e disporre ciò che è bene. Ancora l’opinione di Aristotele, ancora l’errore, perché se cose false sono prese per vere, ne consegue che azioni prese per buone sono in realtà erronee e pessime. E qui, maestro Aristotele, bisogna osservare che la storia degli uomini è un cumulo di rovine su rovine, lasciate ai nostri piedi da un’inarrestabile orgia di morte e distruzione, che ha come unica causa le nostre azioni, e quelle dei genitori, e dei genitori dei genitori, e così via. Ogni uomo nasconde a se stesso la disposizione, il presentimento della catastrofe incombente, e se potesse guardare alla propria vita dal suo punto estremo, la fine, non potrebbe evitare di vedere la sua parte di rovine, a cui nessun pentimento potrà rimediare.

Pentirsi non serve a niente, lo sapeva bene l’ipocrita frater Giovanni, che invitava tutti gli altri a pentirsi, per elevarsi sopra di tutti, per avere una qualche gioia degli occhi a veder bruciare tanta povera gente, che di quella rovina non aveva colpa. E il pentimento avviene persuadendosi che le cose umane siano disposte secondo un disegno intelligente e misericordioso, lamentando l’inconguenza di azioni passate, e proponendo di ordinare le azioni future in accordo con questo disegno. Disegno intelligente? Governare il conflitto è impossibile, il conflitto è volontà di annientamento, gli uomini in fondo desiderano avere potere sufficiente per sterminarsi a vicenda. Ricordo bene le cose che ho visto, non è faccenda di comprenderle, non c’è un perché. Il mondo è ciò che accade, mica quello che qualcuno crede di intendere. Se è un disegno intelligente, la condizione dell’agente di questa intelligenza non può essere felice, e così quella di tutti coloro che desiderano intendere. Meglio, molto meglio essere un bruto legato alla greppia, che non conosce il mattatoio, sa a malapena di essere vivo e non sa quando è morto. Essere una pietra inerte, nel fondo della terra, per sempre in quiete, per sempre in questo eterno accadere.

La terra metafisica (autismi della terra # 2)

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di Giacomo Sartori

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Quando sono in una delle mie buche qualche volta mi chiedo perché sono finito lì. Alzo gli occhi, e guardo il cielo, o insomma la fetta di cielo che posso vedere, se la buca è molto profonda, o anche lo strato più o meno denso di alberi, se sono in un bosco, o il merletto formato dai tralci, se mi trovo sotto una pergola di viti,

Pensieri sui fatti del mondo

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di Antonio Sparzani
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Provo un senso di vero fastidio – tanto che spengo la tv dopo venti secondi del discorso con cui il piatto ma volonteroso Massimo Giannini dà inizio a Ballarò – a vedere e a sentire il modo in cui i nostri mezzi di informazione si occupano di fatti di cronaca, che, mentre da un lato vengono ingigantiti fino ad invadere tutta l’informazione, paradossalmente dall’altro hanno significati e rilevanze che vanno ben al di là di quello che si vuol far credere.

La ricerca ossessiva dei media, anche dei giornali a grande tiratura on line, è quella di farci vedere le immagini vere, i filmati delle telecamere di sicurezza, le urla della gente spaventata, i lamenti e i pianti di chi giustamente si lamenta e piange, ma che forse preferirebbe farlo da solo. Interi telegiornali vengono dedicati alla riproduzione il più “realistica” possibile dei fatti di sangue, meglio se visibile, di cui si deve pur dar conto.

Se invece riuscissimo a pensare un po’ più “in grande” agli avvenimenti che in questa fase storica sconvolgono alcune nazioni sì e altre no, magari potremmo cominciare un’analisi realistica, questa sì, delle cause passate e presenti, che sono cominciate tempo fa e che continuano imperterrite a dar luogo a fatti che tutti consideriamo gravi, in quanto comportano la perdita di numerose vite, per lo più innocenti.

L’analisi realistica, di cui naturalmente non sono certo io capace, potrebbe però almeno fare degli elenchi di fatti, sempre passati e presenti, che rendono assolutamente ovvi, quasi necessari, questi sviluppi. Due anni e mezzo fa, qui ricordavo la frase trionfale con cui il presidente degli Stati Uniti celebrava l’uccisione di Osama Bin Laden, in territorio straniero e senza alcun mandato internazionale: «The cause of securing our country is not complete but tonight we are once again reminded that America can do whatever we set our mind to.»

Possiamo realisticamente pensare che un mondo nel quale uno stato parla con questi toni e questi contenuti sia un mondo stabile? Questa ed altre, sono solo domande retoriche che hanno l’unico fine di riportare alla coscienza, che facilmente dimentica, un contesto internazionale che comprende l’esistenza di un piccolissimo numero di stati che si sono arrogati il diritto di stati poliziotti del mondo, sia per la loro intrinseca volontà di potenza, sia per far dimenticare prima di tutto ai propri cittadini le brutture di casa propria.

Altri fatti interessanti in proposito sono quelli che riguardano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse presenti nel cosiddetto terzo mondo. Spesso si sente dire, o invocare, che invece di ospitare tanti migranti occorre “aiutarli a casa loro”: il che naturalmente sarebbe un’azione bellissima, se qualcuno si occupasse anche minimamente di praticarla; ma questo non comincia neppure ad accadere.

E poi, di che cosa stiamo parlando? Quale immagine offriamo della “civiltà occidentale”? Non siamo neppure in grado di offrire ai nostri giovani una prospettiva, prospettiva, intendo, fatta sì di speranze di un futuro lavoro ma anche di un quadro di valori condivisi nel quale essi riescano a pensare se stessi e il proprio percorso di vita in modo non deludente. E i giovani che arrivano da fuori, da aree del mondo in cui la parola pace non si sa bene cosa possa significare, e che tuttavia hanno, come tutti, questo bisogno di un ubi consistam culturale? Ci rendiamo conto di cosa voglia dire esattamente credere in un ideale fino a dare la propria vita per esso? Eppure i ragazzi – e le ragazze – kamikaze sono proprio tanti e continuano seguire il proprio tragico percorso; noi possiamo certamente pensare che si tratti di un percorso distorto, di un percorso al quale sono stati avviati e convinti con l’inganno e con il raggiro psicologico, servendosi di interpretazioni insensate dei loro libri sacri, sì, possiamo legittimamente pensarlo, ma dobbiamo riflettere sul fatto che noi invece offriamo un quadro generale che porta la maggioranza delle persone a comportamenti individuali sempre meno collettivi e sempre più egoisti e cinici. E questo, inutile tacerlo, è uno dei frutti più avvelenati del capitalismo selvaggio nel quale sempre più profondamente, a dispetto di tutti gli apparenti palliativi, siamo immersi.
Siamo un paese, anzi, siamo un’Europa in cui non c’è un partito autenticamente di sinistra con qualche possibilità concreta di influire sulla vita pubblica e paghiamo sempre più caro questo fatto, e lo pagano altrettanto caro i partiti di destra, o centro-destra come qualche volta eufemisticamente si dice, con le loro divisioni interne e la loro incapacità strutturale di una politica di lungo termine.

A chi mi fa spesso previsioni oscure e apocalittiche sul futuro dell’umanità io rispondo col mio inguaribile ottimismo che il male fa schiamazzo mentre il bene è silenzioso, nel senso che certamente la stragrande maggioranza dell’umanità è fatta di persone desiderose di pace e capaci di “operare il bene” in silenzio, ognuno nel proprio contesto. Ma non so se questo sia sufficiente.

Voci su Majorino

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A cura di Laura Di Corcia

 

[Questi due dialoghi con Biagio Cepollaro e Andrea Inglese sono tratti da Giancarlo Majorino – Laura Di Corcia, Vita quasi vera di Giancarlo Majorino, La vita felice, 2014]

 

 Incontro con Biagio Cepollaro

 

Che ruolo ha avuto Giancarlo Majorino per i giovani poeti, in cerca di una guida, di un punto di riferimento?