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Braccia rubate (al cinema) Atto III

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Ecco, con un po’ di ritardo, il terzo e ultimo atto della rubrica « Braccia rubate (al cinema) », corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa).

Le ultime braccia rubate sono quelle di Ivan Polidoro, con la sua storia che edifica poco, ma bene.

 

Una storia poco edificante

 

 

Il giorno in cui la signora Santi morì c’erano tutti e tre i suoi figli. Non li vedevo da tempo, per motivi di lavoro erano andati via da Napoli e si erano stabiliti altrove. Avevano messo su famiglia e da quel che ricordo facevano ritorno saltuariamente. Aldo, il maggiore dei tre, fu il primo ad andarsene. Fece un po’ di pratica presso un’azienda del Varesotto, poi si mise in proprio. Materiali di gomma e simili. Profili, trafilati, lastre calandrate, guarnizioni per termoformatrici, raschiatoi, soffietti, membrane, ventose. E con ogni tipo di mescola. Dai siliconi al poliuretano alla gomma naturale. La sua aspirazione erano però i tubi industriali, tubi raccordati e rigidi, me ne parlò in occasione del compleanno del padre, era l’autunno di cinque anni fa. I giardini del parco erano cosparsi di foglie, ne rastrellai abbastanza da farne quattro pile della grandezza di un sacco. Lui non fece che parlare di questi tubi e di quanto il mercato in quel settore fosse in espansione. L’animo dell’imprenditore o ce l’hai o non ce l’hai, e lui ne aveva da vendere. La Santi Gomme ha alle sue dipendenze una dozzina di persone, non poche di questi tempi. Aldo è sposato e ha due figli, un maschio e una femmina. Li ho visti un Natale di tre anni fa, belli e biondi come la madre, Margaret. Margaret credo sia austriaca o belga, comunque mezza e mezza, di padre italiano e mamma straniera. O viceversa. Margaret è una bella donna, elegante, sempre gentile, un fisico asciutto e longilineo da gran signora. Riservata al punto che di lei si sa poco o nulla, e hai voglia a chiedere. Quelle rare volte che è venuta l’ho sempre salutata con discrezione, quasi ne avessi timore. Non mi sono mai arrischiato a un baciamano perché non so se sia il caso, mi sono sempre tenuto alle mie disposizioni: cordiale e rassicurante. Come mi ha insegnato mio padre.

Il portiere questo fa, questo deve fare. Tutti i santi giorni, che ci sia pioggia o neve, che faccia freddo o caldo infernale, lui deve essere quello a cui affidi la casa prima di recarti al lavoro. E quando fai ritorno vuoi sapere se è tutto a posto, o se è scoppiato un tubo dell’acqua. E allora basta un cenno o un sorriso per chiudere la giornata. Perciò è giusto che sia cordiale e rassicurante. Anche se la sua vita va a rotoli o gli è morta la madre.

Matteo, il secondo, è sempre stato il più fannullone, sfaticato per natura. Non faceva altro che starsene seduto sulla panchina con quei suoi fumetti. Ne leggeva in quantità disarmanti, ciancicando i suoi chewing-gum alla fragola o che so io. E lo pregavo di non buttarli a terra o appiccicarli alla panchina, sennò sarebbe stato un bel casino, a togliere quella roba ci metti una vita e imprechi tutti i santi possibili. Perché mai li hanno inventati i chewing-gum? A Ilaria per un po’ gliel’ho vietati, tassativamente vietati.

– Fanno male ai denti, fanno venire le carie – le dicevo.

Mia moglie sorrideva, lasciava che queste schermaglie rimanessero tali. Credo che sotto sotto lei qualche chewing-gum glielo concedesse. D’altronde tra donne c’è quell’intesa che non potrai mai capire, inutile che ci sbatti il grugno, per loro sarai sempre e solo un uomo. Uno stupido uomo, testardo e cocciuto. Le ho voluto bene a Maria, un gran bene. E ce ne siamo voluti fino alla fine, fino al giorno in cui ha esalato l’ultimo respiro. Gran donna, mi ha insegnato un mucchio di cose, per esempio come rammendare un calzino, ora non si fa più, ma un tempo si faceva eccome, a mandare avanti la casa, a fare i conti, robe del genere, non buttava via niente quella donna. Ma soprattutto mi ha insegnato a vivere. A passarci sopra. Ero uno che non mandava giù tante cose, permaloso, sospettoso, credevo che il mondo intero ce l’avesse con me. Insomma, ogni accidente che mi capitava doveva avere una causa, e di solito era qualcuno che voleva il mio male. Non era difficile per me stanarlo, ce n’erano di persone a cui non andavo a genio, forse il mio aspetto, il mio carattere riservato, non so, fatto sta che le cose stavano così. La colpa di quello che mi succedeva era sempre di qualcuno e quel qualcuno, una volta individuato, per me diventava croce nera. Meglio evitarlo.

Dicevo, Matteo, il secondo dei Santi, era il più sfaticato. I suoi fecero di tutto per fargli prendere il diploma e seppure con qualche difficoltà alla fine ci riuscì. Non ebbe un voto degno di quella famiglia, ma era pur sempre un diploma! Il padre era professore di Storia medievale alla Federico II, aveva pubblicato diversi libri e per un certo periodo di tempo fu un valido esponente della Democrazia cristiana, insomma era uno che contava a Napoli. Sapere che il figlio si era diplomato per il rotto della cuffia non lo fece certamente sorridere. Di continuare gli studi Matteo non ne volle sapere, perciò si mise ben presto a lavorare. Con le conoscenze che aveva, al signor Santi non fu difficile trovargli una giusta collocazione. Entrò così al Banco di Napoli, e da semplice impiegato divenne in pochi anni direttore di filiale. Ora credo sia un pezzo grosso di una banca del nord. Anche lui ha due figli, un maschio e una femmina che studiano a Londra, e sua moglie, oltre che andare al cinema, al teatro e alle sfilate di moda, non fa che organizzare cene e aperitivi. A differenza di Margaret, Betta è una che fa parlare e molto di sé. – Organizzo eventi culturali cool – la sentii dire una volta. Quarant’anni portati come una ragazzina e un corpo burroso che non puoi non guardare. Immagino che fare sesso con lei sia una gran bella soddisfazione. Da quel che so hanno una splendida villa a Bergamo, una a Saint-Tropez e persino un appartamentino a Miami. Insomma, avrebbero di che essere felici. È che non esiste una regola per questo genere di cose.

Quel giorno Matteo mi sembrò particolarmente giù di corda. Mentre tutti sfilavano per fare le condoglianze all’ultimo piano, lui se ne restò da solo su quella panchina per diverso tempo. Lei fumò un certo numero di sigarette e i due non si scambiarono una parola. Come fossero due estranei. Due macchie nere tra i pini secolari del parco.

Avrei voluto avvicinarmi, dirgli qualcosa, insomma l’ho visto crescere. Era un ragazzo simpatico, gioviale, uno con la battuta pronta. Ora lo vedevo appesantito e depresso, e non era la morte della madre a renderlo così, c’era dell’altro. Ma rimasi al mio posto. La riservatezza, quando ci vuole, è la prima cosa. È il tratto distintivo di un buon portiere. Persino una confessione deve rimanere un segreto, e in questa guardiola, credetemi, me ne hanno fatte.

Stefania è la più piccola. Ho sempre avuto un debole per lei, forse perché mi ricordava Ilaria, hanno la stessa età. Quarantun anni spaccati. Era la tipica adolescente irrequieta di buona famiglia, che amava viaggiare, fare nuove amicizie, diceva che avrebbe fatto il giro del mondo con due uomini: – Come Catherine! Catherine di Jules et Jim. Non sembrava affatto una Santi, altre idee, altre aspirazioni. Al contrario dei fratelli si circondava di gente strampalata, figli di papà con la vena artistica. Con loro organizzava letture nel box che poi finivano, non so perché, sempre con qualche scazzottata. Io li lasciavo fare, sebbene parecchi condomini si lamentassero. Li ho protetti finché ho potuto. Si diceva che facessero uso di droghe, che ogni tanto qualcuno rubava e lo sbattevano dentro, ma lei non c’entrava nulla con tutto questo. Era di una vitalità travolgente. Nessuno di loro, dei Santi, aveva quella vitalità. A diciotto anni disse ai genitori che sarebbe andata alla London Film Academy a studiare cinema. Aveva superato le selezioni. Loro non ne furono contenti. Girò alcuni piccoli film, poi le cose non andarono per il verso giusto. Un matrimonio sbagliato, una figlia. A quel tempo stava a Parigi, si manteneva facendo la cameriera, e per un po’ riuscì ad andare avanti, ma poi decise di tornare. Ora vive a Savona, fa la mamma a tempo pieno. Il suo nuovo compagno è uno stimato architetto industriale, anche lui separato, con una figlia.

Mi sorprese quando li sentii discutere. Ero lì, non potevo certo dissolvermi nel nulla, né loro si preoccuparono della mia presenza. Me ne sarei potuto andare, ma mi avrebbero sentito, avrebbero sospettato che io mi fossi appostato per spiarli. Erano infervorati, anche se cercavano di contenere i toni. Aldo fumava e con il suo fare saccente interrompeva di continuo, soprattutto Matteo.

– Che stupidaggine – disse. – Dobbiamo assolutamente fare qualcosa. È assurdo!

– Sì. Ma è la volontà di mamma – rispose Matteo.

– E con questo?

– Forse dovremmo rispettarla. Se è questo che vuole, che ha scritto.

– E se non fosse così? Se si fosse lasciata convincere?

– Sì, può essere, rimane il fatto—

– Vaffanculo. Con te è inutile.

– In fondo noi non le siamo stati troppo vicino in questi anni – disse Stefania.

– Ti ci metti anche tu?

– È la verità.

– Però, noi siamo i figli. E questa, se ben ricordo, è la nostra casa. Siamo cresciuti qui, giusto?

– Si tratterebbe solo di un periodo, fino a quando Maria—

Qui intervenni, non potevo non farlo. Mi mossi appena e le foglie sotto i miei piedi scricchiolarono.

– Vi attendono di sopra.

Matteo sbuffò. – Che situazione – disse.

– Vi prego, non aggiungete una parola. Non in mia presenza almeno.

Aldo chinò il capo, fece un altro tiro di sigaretta e la buttò via.

– Scusa, ma non è con te che ce l’abbiamo, – disse – solo che è strano. Non pare anche a te?

– Sì, un po’ lo è – risposi.

Eravamo solo noi in quel punto del parco, immersi in un piccolo silenzio imbarazzante. E anch’io in qualche modo mi sentii in colpa. Lungo il viale passarono delle persone che Stefania salutò. Ci girammo tutti quando sentimmo il pianto di una signora. Matteo provò a metterci una pezza, ma non fece altro che peggiorare le cose.

– Non capisco perché ci tieni tanto – disse al fratello. – Hai tutto, non hai bisogno anche di—

– Matteo, non essere patetico, anche tu non mi sembra che te la passi male.

– No, rigraziandoiddio. Per questo dico che se mamma vuole così, così sia.

– Cos’è tutto questo buonismo?

– Non è buonismo.

– E allora cos’è? Non capisco.

– Diamoci una calmata – disse Stefania. – C’è gente.

– Sai che mi interessa. Allora?

– Non so che dire.

– Non hai mai saputo che dire, questa è la verità. Quando c’è da prendere qualche decisione, tu non sai mai che dire. Sei sempre stato così. Un pavido, anche con papà.

– Cosa c’entra papà adesso? Che tiri fuori? Vuoi litigare, è questo che vuoi?

– Lascia perdere, ne avrei cose da dire.

– E dille, dài, tira fuori il rospo!

– Come va con Betta, eh?

– Ma che ti viene in mente? Che dici?

– Non andate d’accordo, si vede. È da un pezzo che il vostro matrimonio sta andando a rotoli, che aspetti a mollarla?

– Non è come credi. Che ne sai tu com’è il nostro rapporto. Mica le sai le cose che sono successe.

– E allora dille, perdio!

– Non mi va. Tanto meno dirle a un coglione come te.

– Mi avete rotto! Siete i soliti, non fate altro che litigare!

– Tu sta’ zitta che è meglio. Te ne sei sempre sbattuta.

– E tu allora? Che hai fatto?

Quante se ne dissero. Tirarono fuori il peggio. Quando gli animi si calmarono, mi limitai a dire che ne avrei parlato a mia moglie, avrei fatto in modo che tutto si risolvesse per il meglio. Maria avrebbe capito, in fondo che dovevamo farcene di quella casa? Noi due soli, in una casa così grande, con terrazzo e panorama. Avremmo continuato a starcene nella nostra, come sempre, la nostra vita non sarebbe cambiata di una virgola.

– Maria ha servito vostra madre per più di trent’anni, e negli ultimi tempi le è stata accanto giorno e notte.

– Sì, ma l’abbiamo pagata per questo.

– Certo.

– Voglio dire, è stata magnifica, non so come avremmo fatto senza di lei, ma—

– Vi aspettano di sopra – dissi. Poi mi allontanai.

E pensare che lei non sapeva nulla di tutta questa storia. La signora Santi confidò solo a me quali fossero le sue volontà.

– Voglio farle una sorpresa – disse. – I miei figli capiranno.

L’idea di andare ad abitare in quella casa non mi allettava, naturalmente ci sarei andato, se Maria avesse voluto, ma questo non cambia le cose.

Maria morì due giorni dopo, di crepacuore. Non aveva retto al dolore.

Non ebbi neppure il tempo di dirglielo.

 

FINE

 

Ivan Polidoro si diploma come attore presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “S. D’Amico”. Intanto si laurea in Lettere alla II Università di Roma. Lavora a teatro con Luca De Filippo, Mario Missiroli, Armando Pugliese, Federico Tiezzi e al cinema con Paolo e Vittorio Taviani, Antonietta de Lillo, Vincenzo Terracciano. Nel 2003 con il cortometraggio “Rapina” ottiene la menzione per la sceneggiatura ai Nastri d’Argento. Nel 2006 firma la regia e la sceneggiatura del film “Basta un niente” presentato in vari festival nazionali e internazionali, e premio del pubblico MaremetraggioFF 2006. La sceneggiatura “Amore catodico”, tratto da un suo testo teatrale “Boh”, ottiene il Premio del Pubblico al MitreoFF 2009. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo “Le coincidenze” per i tipi della 66thand2nd. Nel 2015 scrive e dirige il suo secondo lungometraggio “La sorpresa”.

 

Illustrazione:   Giardino con casa rossa di Edvard Munch.

Elogio di Franti

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di Umberto Eco (1932-2016)

monumento viva Bresci
(da Diario Minimo, Mondadori 1963)
“E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.”
Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché.
Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto.
Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell’OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po’ diviso tra l’ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale (“Son io!” e il maestro, babbeo: “Tu sei un’anima nobile!”; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell’ordine: “guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!”, così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme “un leoncello furioso, pareva” – e gli dice “come avrebbe detto a un fratello” ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l’anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d’altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è “il più bello di tutti”, scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si
fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino.

Tra questi poli è l’Enrico: di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a bolgheri alti e stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i mestieri e le professioni,
esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in
quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno (conoscendo Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il principio che conta, vero? ).
Che poi chi sia questo padre, questo Alberto Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina, e si esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo protofascista esplode nell’elogio dell’esercito:

“Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all’altro
essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti
dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva
l’Esercito, viva l’Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna
coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l’evviva dell’Esercito ti escirà più
profondo dal cuore, e l’immagine dell’Italia ti apparirà più severa e più grande”.

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l’elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla
violenza e alla retorica nazionale, all’interclassismo corporativista e all’umanitarismo
paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell’ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all’inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d’azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell’ordine e della fratellanza.

Il Derossi a quell’epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto
scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era
passato spia dell’Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da
piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle
squadre, sicuramente era già federale. C’è da sperare che il muratorino e il Precossi si
fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell’ombra; e forse Stardi,
sgobbone com’era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi
qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e
Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non
facesse la guardia d’onore all’Uomo della Provvidenza.
Questo il clima: ed Enrico ne era l’esponente medio, paro paro. Da un ragazzo di
quella fatta non possiamo aspettarci qualche lume su Franti: anzi doveva esistere tra i
due una sorta di incomprensione radicale per cui se Franti un giorno avesse raccolto
un passerotto da terra e gli avesse sminuzzato briciole di pane, Enrico non lo avrebbe
mai detto.
Logico che Franti, se raccoglieva passerotti, li portasse a casa per metterli in padella,
perché l’unica volta che Enrico si tradisce e ci mostra la madre di Franti che si
precipita in classe a implorare perdono per il figlio punito, affannata “coi capelli grigi
arruffati, tutta fradicia di neve”, avvolta da uno scialle, curva e tossicchiante, ci
lascia capire che Franti ha dietro di sé una condizione sociale, e una stamberga
malsana, e un padre sottoccupato, che spiegano molte cose.
Ma per Enrico tutto questo non esiste, egli non può capire il pudore di questo ragazzo
che di fronte all’impudicizia feudale della madre che si getta, davanti alla scolaresca,
ai piedi del Direttore e di fronte all’intervento melodrammatico di quest’ultimo
(“Franti, tu uccidi tua madre!”, eh via, dove siamo?), cerca un contegno nel sorriso,
per non soccombere nello strame: e lo interpreta da reazionario moralista qual è:
“E quell’infame sorrise”.
Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non
si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia,
accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso
della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza
trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli
particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo
neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli
scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al
passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e
sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche
della sua perfidia.
Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo
pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi:
che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non
possedevano un’industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i
romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla
storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel
ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano
Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto.
Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa
male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire
il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo
maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e
Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci
dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre
distinto con una gran barba nera.
Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico
tiene a precisare che Franti “fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava”, ma
non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche
colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque
verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e
vedete che la cosa cambia già aspetto.
Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la
bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un
tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “ufficiale
pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi
così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo
grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i
ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ‘
e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di
guerra”. E’ in circostanze del genere che Franti sorride e ride:
“Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”.
Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri
canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi
che, poverino, gli ha fatto solo la spia.
Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo
sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento,
oppure ride perché ha una missione.
Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la
Negazione assume i modi del Riso.
Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride.
Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di
virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in
Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di
un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa.
Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al
mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi
qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’unico modo di
esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di
non accettarlo a priori.

E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in
quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di
galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra
la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori
che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla
spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si
accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi,
cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta
appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed
è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti:
“Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una
partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a
Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il
braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello
della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca
tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha
qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien
quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre
in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si
strappa i bottoni della giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella,
quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna
mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse.
Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che suo padre lo
cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne
va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. II
maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a
pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli
si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per
tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno:
– Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli
un chiodo nel ventre”.
È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada
tutta a Franti (pensate, “si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!”.
Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua
scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto
accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico,
deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura
della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca
solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi
parallelo: ed è il ritratto di Panurge.
“Altre volte poi disponeva, in qualche bella piazza per dove la detta ronda doveva
passare, una striscia di polvere da sparo, e al momento giusto ci dava fuoco,
divertendosi poi a vedere i gesti eleganti di quei poveretti che scappavano, credendo
di avere ai polpacci il fuoco di Sant’Antonio. In quanto poi ai rettori dell’università e
teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la via, non
mancava mai di far loro qualche brutto scherzo: ora mettendogli uno stronzo nelle
pieghe del berretto, o attaccandogli delle code di carta e strisce di cenci dietro la
schiena, o qualche altro fastidio… E soleva portare un frustino sotto il vestito, col
quale frustava senza remissione i paggi che erano in giro per qualche commissione,
per farli andare più svelti. E nel mantello aveva più di ventisei taschette e ripostigli
sempre pieni: l’una di un piccolo dado di piombo e di un coltellino affilato come il
trincetto di un calzolaio, che gli serviva per tagliar le borse; l’altra, di aceto, che
gettava negli occhi a quanti incontrava; l’altra di lappole, con attaccato piumetti d’oca
o di cappone, che gettava sulle vesti e sui berretti dei pacifici cittadini; e spesso
attaccava anche lor dietro due belle corna, che quelli si portavan per tutta la città, e
qualche volta per tutta la vita. E ne metteva anche alle donne, sui loro cappucci, di
dietro, ma fatti a forma di membro virile; e in un’altra, teneva una quantità di cornetti,
tutti pieni di pulci e pidocchi, che trovava dai poveri di Sant’Innocenzo, e con delle
cannucce, e piume per scrivere, li gettava sui colletti delle più azzimate giovinette che
trovava per la via, e così in chiesa…” (e via di questo passo, nella bella traduzione di
Bonfantini; e poi basti pensare alla beffa dei montoni per vedere in Panurge un Franti
ante litteram, o in Franti un Panurge post, che è poi lo stesso).
Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra
nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle
radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra – ci beve e ci si ciba, chiedendo
anzi ristoro in molte lingue – vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi,
accetta dispute con dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si
integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le
convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi),
intraprende discorsi ma per turlupinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle
sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un
utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti.
Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne
apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il
Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge
è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina
dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno
di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva.
Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia
fasulla del Cuore.
Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché
Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si
oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il
novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà
col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il
maieuta di una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi
il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare
dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di
un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente
dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest’ordine non può essere
messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all’ordine,
dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell’Ordine? Chi sarà
allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della
provvisorietà dell’ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all’albero del bene e del male? Ma questa è l’interpretazione del Ridente
data da chi non ride, e accetta l’Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da
Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è
un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia
di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti.
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere,
e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi,
ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.
Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi
discuteremo.
Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e
quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la
situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che
crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il
prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello
che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere.)
Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli
irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama
infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di
Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché
si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il
comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro,
Franti non ha neppure abbozzato il suo compito.
Tenuto a freno dalla visione sospettosa di Enrico, non ha saputo espandersi come
dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne i germi
liberatori e correttivi. Troncato sul nascere, il “Principio Franti” non si è risolto, come
avrebbe dovuto, nella forma compiuta del Comico: e “comica” rimane solo la
dialettica Franti-Enrico vista da noi, ora, e come tale messa in rilievo. Bloccato nella
situazione Cuore nella misura in cui Enrico lo aveva immobilizzato – escludendo
dogmaticamente che Franti potesse avere coscienza del significato dei suoi gesti –
l’Infame, anziché sacerdote dell’epoché ironica, rimane soltanto un non-integrato e
uno schizoide.
Ma di lui – e da lui – ci rimane un monito, acché la sua infamia sia la nostra virtù.
Saremo capaci di ridere, a ciglio asciutto, di nostra madre? Eliminato dal contesto
fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà:
ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati.
Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe
dovuto assumere – ostentando buona fede – i panni di Enrico e scrivere lui stesso il
Cuore. Col sogghigno – invece che col singhiozzo – facile. Siccome non ha
raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico,
ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza
inspiegabile e non risolta.
Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di
cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo
si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di
rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come
Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E
forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la
mano ancor calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una
volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare,
all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.

Overbooking: Carolina Cigala

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78601_respiriDei respiri: una nota ancora

di

Tommaso Ottonieri

Nota critica alla raccolta Respiri di Carolina Cigala (ed. Tullio Pironti). Prefazione di Vittorio Paliotti. Disegni di Marisa Ciardiello e Armando De Stefano

Sull’asse di visione e invocazione si polarizza – in modo (e moto) rescindente fin dall’intimo – il dire della poesia, il suo flatus. Perché, se nel vocare essa convoca il proprio oggetto o desiderio (l’altro, o insomma l’oscillare della sua ombra), s’appella a esso – destinatario invisibile – così esponendo, intiera, la marca sintattica di quella interrogazione: una interlocuzione senza possibilità di risposta; la visione invece lascia che la figura (forma e persino materia) improvvisa irrompa a rivelarsi, senza intervento a essa esterno, trasmessa dal lato interno della voce, come in una trance. Qui, la parola (la posizione-soggetto, sua ineluttabile) non si rivolge al destinatario della sua, evocante, invocazione, ma è rivoltata e fatta essa stessa oggetto, è chiamata a divenire tramite dell’immagine che verbalmente si forma e rivela: che ciò avvenga per via esplosiva o invece per via accumulatoria, come sulla carta di riso di un haiku, come nello spiegarsi di un foglio di montaggio. E sbalza, la parola, la plastica dei contorni, da sgorgarsi fuori-di-sé: per il mezzo della lingua, liberi dalla lingua; (perché il fine della parola in poesia non è altro che quello di sciogliersi, il fiato divenire aria, seminare l’aria).

L’approssimarsi di Carolina Cigala allo spazio della poesia si estende su ambedue questi estremi, senza avvertirne l’intimo dissidio, anzi quasi poggiandoli l’uno sull’altro, come in equilibrio di frana, blocchi scoscesi che mutuamente si sostengano dopo l’esplosione.

Eppure, visiva, ancor più che vocativa, è la tensione che anima la sua parola; e prova a bucare il foglio, dissi- pare la pagina, da essa lasciar tralucere solamente la figura che, intanto, va incendiandosi sul proprio lato interno: all’attacco della lingua o ancor prima, più giù, nel vibrare sordo – incessante – delle corde, giusto al seme della voce, nell’emissione di fiato. Se una parola è autentica in poesia, sa che da sé, o forse in sé, non basta: che per trasmettersi, per divenire spazio e segnale, ha bisogno di trasferirsi in solido: tridimensionale: carne d’immagine, sua pulsazione profonda. Scolpendosi – appunto – respiro su respiro. Qui, colta nel formarsi da un intreccio di respiri, nella cornice bianca, nella vergine superficie della pagina, (la parola) deposita/giustappone sequenze, uno strato sull’altro, a imprimere l’immagine invisibile sul fondo; e pure, fatalmente si ringoia nello spazio della invocazione. Quasi che l’immagine, incrostazione dell’assenza, si fosse formata solo per protendersi verso la persona seconda dell’interlocutore: persona invisibile, e inaudibile: muta fantasima del nulla, e per sempre scomparsa. Sì che la parola insomma voglia riappropriarsi entro sé, nel fremere della propria carne, dei fantasmi che ha oggettivato intanto e proteso sopra il silenzio stesso del foglio, rischiando tutto, persino il proprio fallimento – la voragine d’una resistente letterarietà (educazione al linguaggio) giusto entro quei confini del corpo, in cui essa (la lettera) si assorbe e vanifica.

Ed è il training suscitato dall’opera, posizionata a specchio, di due artisti di pregio nelle loro soluzioni diverse e consonanti, ciò che nel ritmo dei Respiri sa spingere la pa- rola al di là di quella lettera, che basta sempre di meno.

È questa la tensione che anima il dire di Carolina; nel dire e dirsi-altro, sottotraccia alla lettera, il suo dono da svelare, la sua più sicura promessa.

Una poesia

di Carolina Cigala

III

18.08.2013

 

Scheggia di luce assali il cristallo

come lampo in agguato.

Frena l’ardito bagliore

all’offerta della preda dimessa

disperdi il morso impietoso

nel corso febbrile del cosmo.

Mira alla bionda fiammella

che lenta si muove a conoscere

infinite pause in fugace presenza.

 

 

La madre socratica

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illustratrice: Roberta Maddalena Bireau

di Vittoria Baruffaldi

[da Esercizi di meraviglia
Fare la mamma con filosofia.
Einaudi 2016]

Ci sono madri dubbiose, ma ci sono anche madri dogmatiche. Le madri dogmatiche enunciano una serie di proposizioni in maniera definitiva ma acritica, che ricevono validità per il solo fatto di essere pronunciate dall’autorità madre.

Di scrittura, letture e perché. Intervista a Marco Peano

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di Licia Ambu

Voce del verbo scrivere. L’invenzione della madre mi sembra un romanzo sul cambiamento e sulle modalità di accettazione. C’è questa storia di una madre che si ammala e di un figlio che non ne vuole sapere della vita in questi termini. Mi ha colpito moltissimo il momento dei palloncini, quando Mattia ha l’idea di gonfiarne alcuni con il fiato di lei per tenerla con sé. La creatività per combattere il terrore. Atti assurdi ma molto poetici che spostano i confini personali in territori fino a un momento prima inediti. Di fronte alla vita, scrivere è scappare o restare? È un atto di coraggio o un tentativo di controllo?

Scrivere è cercare di imbrigliare ciò che per definizione non è imbrigliabile: il caos che regola le nostre vite. È un atto di arroganza estremo, e nel caso di Mattia la scrittura che registra ogni dettaglio della madre agonizzante è lo sguardo di un Demiurgo che prova ad annullare l’ineluttabile. Ecco perché si abbandona a gesti sconsiderati e folli, al limite del tollerabile: non solo l’episodio dei palloncini, ma anche lo spogliarsi nudo per infilarsi nel letto della madre morente diventa un moto di protesta molto simile a un flashmob privatissimo ed universale, inutile eppure necessario.

Il linguaggio permea la realtà e allo stesso tempo la interpreta come un filtro. Il modo codificato di dire la cosa, la crea nel mondo e nella testa. Siccome la trovo una questione affascinante e piuttosto magica, sono andata a cercare l’etimologia di nominare e ho trovato che deriva dal latino nomen (greco ònoma, sanscrito naman). La radice è –no, la stessa del verbo sapere, conoscere Quindi, il nome crea la cosa e in questo modo la rende conoscibile, pensabile, la mette in vetrina in qualche modo. Scrivere è dare un nome? È un’azione che (tras)forma la realtà?

Mattia è un novello Adamo in un Paradiso (Inferno?) terrestre. Vede le cose per la prima volta, le nomina, le classifica e poi passa oltre. Quando una persona a noi cara si ammala scatta un meccanismo di risemantizzazione del mondo; la realtà precedente viene come resettata a fronte di un universo di riferimento in cui la medicina, il nome dei farmaci, le terapie diventano l’unico alfabeto. Da qui a trasformare la realtà il passaggio non è immediato, diciamo che senza la rielaborazione (non solo del lutto) ogni cosa rimane immobile. La malattia è congelamento, tocca ai famigliari portare calore.

Negare il materno significa non crescere, hai detto. Mattia di crescere non ne ha tantissima voglia e cerca in continuazione espedienti per fermare la situazione. La malattia della madre sembra una preparazione (ci sarebbe dell’etimo anche qui in effetti) all’epilogo della narrazione. Da fuori, da lettori, è molto più trasparente, quelli che vedono da fuori hanno la prospettiva diversa. La scelta della terza persona è servita a cambiare prospettiva? Cos’è successo esattamente in quel momento tra te e il tuo personaggio?

Il vero problema è che ho iniziato a scrivere L’invenzione della madre quando ero anagraficamente molto vicino a Mattia. Io avevo molto a che fare con lui, e lui con me. Però la mia esigenza era quella di congelare – appunto – il protagonista in un’età ben precisa, mentre nel frattempo per me il tempo scorreva. Lui aveva sempre ventisei anni, io scavallavo i trenta e mi ritrovavo ancora invischiato nelle sue ficcanti ossessioni, dal mio punto di vista via via più sbiadite. La scelta della terza persona è stata una benedizione, potevo mettere in campo un personaggio senza caricarmi di troppa responsabilità, lasciarlo agire con una (apparente) spensieratezza. Alla fine credo lui abbia avuto la meglio su di me, ma è giusto così: l’umano deve passare in secondo piano, di fronte alla potenza delle narrazioni.

Gli altri sono in qualche modo una misura, la morte degli altri ci fa presente la nostra. Hai parlato di Philippe Forest e Tutti i bambini tranne uno. In questo libro, l’autore racconta la perdita di una figlia e dice questa cosa potentissima: “Il lungo anno in cui morì nostra figlia fu il più bello della mia vita”. Possiamo aggiungere Vite che non sono la mia, come tanti altri libri che hai citato spesso. Questo modo di maneggiare la morte, il tentativo di sistemarsi la cravatta e non impazzire, mi sembra importante. In che senso e modo queste letture sono state un’ispirazione?

Più che un’ispirazione, queste letture sono state una bussola. Mi piacerebbe ricordare alcuni dei libri che mi hanno dettato la strada durante il mio percorso di scrittura, durato sette anni: La vita dopo, di Donald Antrim (che cito in epigrafe); Diario di un dolore, di C. S. Lewis; Dove lei non è, di Roland Barthes; Breve come un sospiro, di Anne Philippe; L’anno del pensiero magico, di Joan Didion; Post mortem, di Albert Caraco; Il libro di mia madre, di Albert Cohen; ma soprattutto Bambino bruciato, di Stig Dagerman – lui e la sua opera, più di altri, mi hanno dato la “postura” per scrivere L’invenzione della madre. Ogni pagina di questi autori, e di molti che non cito per motivi di spazio, mi ha permesso di non impazzire.

La letteratura esiste per darsi un’ipotesi di sopravvivenza, ha detto Marcello Fois proprio durante una presentazione del tuo libro. Secondo te, questo potrebbe essere un principio che regola la lettura? E c’è, tra tutti quelli che hai, un motivo sempre presente quando battezzi una lettura?

La necessità.

Siccome non mi capita tutti i giorni di intervistare uno scrittore/editor/lettore tutto insieme nella stessa persona, ne approfitto per chiederti di illuminarmi su una questione. Ho un problema con il concetto di sincerità della scrittura, ovvero: di preciso, che cos’è secondo te?

Il grado di consapevolezza che intercorre fra ciò che pensiamo di scrivere e ciò che scriviamo davvero. Un po’ come il concetto insito nell’espressione «lost in translation»: il passaggio fra la formulazione di un’idea e la sua incarnazione in parole dovrebbe restituire l’emozione primaria che ha formulato quel pensiero. Più ci rendiamo conto dello scarto, io credo, più siamo sinceri.

Il libro che hai letto, e ti è pure piaciuto, di cui ti vergogni?

Ho amato alla follia la tetralogia di Elena Ferrante, L’amica geniale. In realtà non me ne vergognavo affatto, ma quando ho scoperto che la maggior parte degli addetti ai lavori sollevava delle riserve nei confronti di questa saga straordinaria, be’, mi sono fatto delle domande. Però non demordo: leggete ogni cosa scritta da quest’autrice, subito.

Il classico super citato che in verità non hai mai letto.

Dico spesso, e sono sincero, di adorare David Foster Wallace. Ebbene, il suo Infinite Jest – a tutti gli effetti un classico contemporaneo – per me è sempre stato insuperabile (nel senso che non ho mai superato pagina duecento). Ma sono un lettore lento, sento che prima o poi ce la farò. Poi.

Due calci al pallone

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palloni_calcio(il più breve, e a modo suo malinconico, fra gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi raccontati fin’ora. G.B.)

di Alberto Tonti

Quando entro da Mauro il Bolognese sono già tutti a tavola da una buona mezz’ora. Le proteste per il ritardo si sprecano, mi giustifico raccontando che la riunione a Torino è durata più del previsto, che sull’autostrada c’era traffico, che ci ho messo venti minuti a trovare parcheggio, ma nessuno ci crede. Occupo la sedia vuota e ordino tortellini al ragù, una coca cola e, in attesa del primo, un po’ di mortadella a tocchetti.

Laura mi presenta un paio di sue amiche senza ricordarsi che una già la conosco: molto affascinante ma anche molto sprucida ( se volessi usare un termine del lessico personale) scostante per farmi comprendere meglio. Purtroppo il posto libero che ho occupato è quello accanto a lei e la cosa mi mette di cattivo umore.

Beh, almeno racconta cosa ci facevi a Torino.”

E’ lei che, sorridendo amabilmente, mi rivolge per prima la parola. Mi meraviglio per due motivi: il fatto che abbia aperto bocca e che, rispetto al nostro unico incontro, il suo atteggiamento sia esattamente l’opposto.

Quando non mastico, fra un boccone di pane e uno di mortadella, spiego in sintesi cosa ci faccio a Torino e tento di cambiar discorso, ma lei incalza e, sempre con un delizioso sorriso, mi invita ad approfondire perché dice: “mi interessa.”

Tiro un lungo sgarbato sospiro e racconto tutto nei minimi particolari e, alla fine, mentre loro sono già alla frutta, mi avvento sui tortellini. I discorsi a tavola si intrecciano e scopro lentamente che la signorina non è affatto indisponente e, soprattutto, mi guarda come raramente qualcuna mi ha guardato.

Che bello l’orologio che hai al polso, cos’è? Posso vederlo?” mi dice sfiorandomi la mano.

E’ un Citizen, tutta plastica, ma ha un design nuovo ed è subacqueo” le dico mentre slaccio il cinturino per porgerglielo.

Molto carino” dice mentre lo immerge nel suo bicchier d’acqua. “Vediamo se è veramente waterproof!”

La reazione spontanea sarebbe quella di dirle “che cazzo fai!” ma, siccome mi fido ciecamente della tecnologia giapponese, abbozzo un mezzo sorriso e, quando lo tira fuori dall’acqua, lo asciuga per bene col tovagliolo e me lo rimette al polso, ringraziandola le do un bacetto sulla guancia. Diventa rossa in viso e solo allora capisco che non è sprucida, è solo molto timida e, va detto, mi piace un sacco.

Per la verità da qualche settimana mi sono invaghito di una stupenda giornalista, che è ancora indecisa se mettersi con un famoso scrittore bruttino o con uno sconosciuto architetto molto meno brutto, e non mi sembra il caso di mettermi a fare lo scemo proprio adesso con un’altra, ma la serata dopo cena scivola via in maniera travolgente e si conclude a casa sua dove mi ritrovo la mattina seguente senza neppure lo spazzolino da denti.

Mentre la stupenda giornalista opta decisamente per lo scrittore, accanto alla mia nuova ragazza nel corso del tempo riesco ad allargare il giro delle mie amicizie e a conoscere persone molto interessanti, con le quali ancora oggi sono in stretto e affettuoso contatto. Il nostro rapporto prosegue a lungo fra alti e bassi, più bassi che alti a dir la verità. In compenso va tutto per il meglio con le nuove conoscenze, a cominciare dai suoi fratelli coi quali decidiamo di metter su una squadra di calcio e di sfidarne altre nell’ambito strettamente amatoriale. Con loro, più che con lei, passo la maggior parte del tempo a parlare di politica e, soprattutto, di Inter, nostra passione predominante.

red starGabriele Giulini, il più “anziano”, decide che, in onore del nostro esposto filo-comunismo, Stella Rossa sarà il nome dei magnifici undici e allora io propongo che il motto debba per forza essere: Falciate e Martellate. Motto che suscita entusiasmo e che convince tutti ad acquistare magliette, pantaloncini e calzettoni rosso sangue.

All’inizio ci si allena a Trenno, a due passi da San Siro. Ci ritroviamo lì la domenica mattina non più tardi delle otto. Anzi a turno ognuno di noi si presenta sul posto, nebbia e non nebbia, gelo e non gelo, verso le sette per “occupare” uno dei migliori campetti a disposizione. Ogni volta che tocca a me l’alzataccia mi domando chi me lo fa fare, ma la passione è tanta e alla fine mi convinco che ne vale proprio la pena. Tra l’altro, oltre che giocare fra noi, incontriamo altri pazzi che si allenano in vista di confrontarsi su un vero campo regolamentare. Insomma il giro, in breve, si allarga a macchia d’olio.

Della nostra straordinaria compagine fanno parte giocatori che vanno dai quindici ai trent’anni e passa. Fra gli altri: i tre fratelli Giulini, Daniele Abbado e addirittura Claudio Abbado, grazie al quale entra in squadra anche un fantastico violinista della Scala, Simion Vasinca.

Mentre Daniele è la nostra punta di diamante, suo padre, quelle poche volte che gli impegni scaligeri glielo permettono, passa la maggior parte del tempo in panchina.

Le occasionali partite che riusciamo ad organizzare ci vedono protagonisti di ottime prestazioni. In porta il titolare è Piero Candelora che, non è proprio Ghezzi, ma se la cava niente male. In difesa tre mastini duri e puri: Camillo Cantaluppi, Giorgio Soana e Carlo Guglielmi (il più cattivo dei tre). A centro campo spiccano Gabriele Giulini, Lazzaro Raboni e Franco Ferrarini. In attacco Paolo Giulini, Simion Vasinca, il fenomenale Daniele Abbado e il sottoscritto. Al grido di “Falciate e Martellate” facciamo sicuramente paura agli avversari e, ad onor del vero, giochiamo come dei forsennati, dotati più di cuore che di tecnica. Dopo aver inanellato una serie di vittorie cominciamo ad avere anche un certo seguito, al punto da accumulare persino sei o sette spettatori fissi, fra amici e fidanzate.

Nel frattempo la vita di tutti i giorni scorre piacevolmente. Durante la settimana di giorno il lavoro non manca, di sera le occasioni cosiddette mondane si sprecano. Nel week-end si va tutti ad Oltrona, a casa Cantaluppi che ci accoglie sempre in maniera straordinaria ed è lì, finalmente, che Claudio riesce a tirare due calci in libertà, anche perché il luogo è sprovvisto di panchine.

abbado_giovaneAltri campi che lo vedono protagonista indiscusso sono quelli in Engadina dove, soprattutto in estate, organizziamo partitelle nei prati davanti le belle case dei vari amici che ci ospitano.

La voce che la Stella Rossa è diventata la squadra da battere arriva anche all’orecchio di Mauro il Bolognese che, appena mi siedo a uno de suoi tavoli, mi lancia la sfida per la prima domenica del mese.

Mi hanno detto che siete forti ma noi non siamo da meno. Staremo a vedere”. Sembra quasi una minaccia e forse lo è.

L’appuntamento è per le sette di sera sul campo dell’Associazione Sportiva Barona. Fa un freddo boia e, prima di entrare negli spogliatoi, la nebbia è già bella fitta. Causa alcune defezioni, al gelo della stanza riservata alla squadra-ospite, siamo solo in dodici. Di nascosto faccio segno a Daniele di far entrare suo padre al posto mio, scuote la testa e mi fa capire che non ci pensa nemmeno. Ora, anche se non è proprio quel che si dice un campione, a guardarlo seduto in attesa di poter entrare in campo mi si stringe il cuore ogni volta. Lui, uno dei più grandi direttori d’orchestra apparsi su questa terra, abituato a dirigere a bacchetta (è proprio il caso di dirlo) una caterva di eccezionali professionisti a livello internazionale, non può e non deve restare in disparte. Ma suo figlio è inamovibile: “gioca solo se si fa male qualcuno!”.

Così entriamo in campo mezzi assiderati e ci rendiamo conto che ormai la visuale si aggira sui trenta-quaranta metri al massimo. Sugli spalti i nostri pochi e soliti spettatori eroici, intabarrati come esquimesi, urlano e battono le mani più per riscaldarsi che per altro. Il Maestro si siede in panchina in attesa fiduciosa di essere chiamato prima o poi a combattere la sua battaglia. Già dai primi scambi ci rendiamo conto che gli avversari sono delle belve, così come è abbastanza evidente che l’arbitro parteggia spudoratamente per loro. Si gioca più che altro a metà campo, raramente i portieri toccano palla. Minuto dopo minuto la partita si trasforma in una accanita lotta greco-romana, i calcioni si sprecano, le gomitate pure e, complice la nebbia, i colpi bassi si susseguono fra urla di dolore e veementi proteste. Verso la fine del primo tempo non so come riesco a passare una palla d’oro a Daniele che s’infila fra due difensori e si ritrova da solo di fronte alla porta, tira e mette in rete ma, nel frattempo, quel cornuto che dirige la gara fischia il fuori gioco. Apriti cielo! Si scatena una rissa furibonda. Mauro il Bolognese ed io tentiamo di dividerli ma riusciamo solo a beccarci sberle e spintoni. A quel punto Claudio, pacifista di natura, scatta in piedi per far cessare la rissa ma viene bloccato e dissuaso da un paio dei nostri: oltre ad essere rimasto in panchina ci mancherebbe altro che si facesse male per colpa nostra. Capitan Giulini ordina il ritiro della squadra così, fra insulti e gestacci irrepetibili, prima di morire congelati ci avviamo verso gli spogliatoi. I nostri sugli spalti ci applaudono ma non hanno capito che alla fine ci siamo arresi. Nella stanza gelida ci rivestiamo in fretta, tranne il Maestro che non ha fatto in tempo neppure a toccare una palla.

Da quella maledetta serata la squadra ha iniziato a sfaldarsi fino allo scioglimento ufficiale non senza lasciare in tutti noi grande amarezza e infiniti rimpianti.

Alle 8.30 del 20 gennaio del 2014, la mezz’ala meno utilizzata della Stella Rossa lascia questa terra per andare da un’altra parte a dirigere, come solo lui era in grado di fare, la sua straordinaria orchestra e, nel tempo libero, tirare due calci al pallone, in pace.

cul-de-sac (ˈkʌldəsæk/)

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copj170

di

Gigi Spina

Se ne può far, del cul, anche trombetta

La già corposa bibliografia di Alvaro Rissa, nonché le già fornite biblioteche dei suoi affezionati lettori (anche se per le biblioteche il verbo andrebbe declinato al plurale, noi ci affidiamo a un comprensibile zeugma), si arricchisce di un volume che, per quanto di media estensione (si contano 205 pagine, Presentazione e Commento compresi), sembra rappresentare la fatica di una vita, il frutto di una lunga ricerca, aggiornata rispetto a ritrovamenti testuali, in genere papiracei – ma non mancano i manoscritti – sempre più cospicui e significanti. La cura nella individuazione delle migliori edizioni e traduzioni dei testi trascelti – scelti tra altri -, il puntuale commento e soprattutto la limpida presentazione fanno di quest’aureo libello, il cui titolo suona Il culo non esiste solo per andare di corpo, integrato dall’impegnativo e promettente sottotitolo Antologia della Letteratura Greca e Latina per il triennio del liceo classico. Volume unico multimediale e interattivo (il melangolo, Genova 2015), d’ora in poi Il culo, un prodotto (mi si perdoni la troppo attuale e depauperante denominazione) utile anche per la didattica universitaria e per l’arricchimento culturale delle giovani genera …. //# dei giovani d’oggi // delle future

 

no, non ce la farò mai….

Avevo pensato di iniziare così una Autentica falsa recensione d’autore, quando mi sono sentito sbalzato indietro di anni, agli anni del liceo classico, anzi delle medie, quando scoprimmo che il latino fessus significava stanco e, giù a Salerno, cominciammo a impazzare con le dediche dietro le foto di classe: all’amico stanco’; al liceo, poi, eravamo diventati un po’ più maturi, e quindi componemmo le nostre tre brave cantiche della Umana Commedia, con dentro professori e compagni di scuola, fornite di un commento ricchissimo. Solo in anni recenti scoprii (qui sono tornato al singolare) che esisteva una collana del benemerito editore napoletano Guida, ideata da Giovanni Casertano: Autentici falsi d’autore. Si cimentarono nell’impresa molti ben noti professori, inventando frammenti di Saffo, discorsi socratici, nuovi libri della Politeia platonica, lettere di Lucilio a Seneca, dialoghi aristotelici, giungendo fino a Boccaccio e a Swift. Insomma, divertimento puro (almeno per i veri autori dei falsi, fra i quali et ego sum), nell’ambito di un progetto comune con una non nascosta ambizione: continuare a mettere in contatto, anche se in altra forma, passato e presente, vecchi e nuovi pensieri. La collana chiuse, dopo un certo numero di volumetti, tutti brevi e scoppiettanti, per le difficoltà dell’editore.

Non so se l’autore de Il culo, che continuerò a chiamare Alvaro Rissa – perché anch’io fui uno splendido quarantenne -, abbia letto qualche volumetto della collana. Immagino di sì, se non altro per consonanze e vicinanze professionali, anche se nell’ambiente dei professori universitari si hanno più spesso amici oltreoceano che sul proprio pianerottolo. Immagino anche che si sarebbe rifiutato di fare de Il culo un volumetto della collana, perché avrebbe dovuto tagliare più della metà delle proprie invenzioni, scegliere quella più originale, quella meno scontata e ‘liceale’. E pensare che Greci e Latini praticarono, non senza successo, la forma breve.

Il lavoro di Rissa, d’altra parte, può comportare tranquillamente due diversi lettori-tipo, forse in linea con lo sdoppiamento d’autore. Ci sono i testi greci e latini, composti dall’autore, e ci sono le traduzioni, cioè i testi che parlano a un lettore più vasto (il vaste programme editoriale, a partire dal titolo).

Ora, tralasciando le introduzioni e i commenti (Ossirinco-Ornitorinco è parodia che daterei al periodo delle medie, mentre un po’ più avanti, ma prima della maturità, situerei le introduzioni ai vari testi con la scelta oculata dei nomi degli editori e dei traduttori; al periodo dei corsi universitari, invece, le pagine del commento), mi fermerei a riflettere proprio sul possibile target di testi e traduzioni.

L’innegabile maestria nello scrivere un greco e un latino fra il ‘sostenibile’ e il ‘maccheronico’ seleziona quasi naturalmente i lettori delle pagine di sinistra (e forse anche i lettori di sinistra delle pagine), quelle con i testi greci e latini: docenti di materie classiche, laureati in materie classiche, ex liceali del classico nostalgici ma con forte propensione all’aggiornamento, seguaci di Vivarium Novum, nordeuropei, ecclesiastici (con qualche riserva, e non per via del titolo), insomma un pubblico ben selezionato, anche se relativamente numeroso, visto il successo di vendite del libro; all’interno del quale, però, ritaglierei una componente che, arrivata alla terza strofa o al ventesimo rigo di ogni testo, un po’ per celia, un po’ per non morire, capisce il gioco e passa al successivo. Naturalmente questo vale a maggior ragione per i testi in greco.

Poi ci sono i lettori delle pagine di destra, che ogni tanto danno una sbirciatina anche a sinistra per vedere l’effetto che fa (non escluderei, per amore di simmetria, lettori che dalla pagina di sinistra danno una sbirciatina a quella di destra, per ‘controllare la traduzione’, ma li stimerei in una percentuale inferiore).

Presi dalla vivacità versificatoria/prosastica e dalla varietà tematica (qui ci va bene poikilia), che spazia fra i miti del nostro tempo e dei nostri passatempi (Fantozzi, la gastronomia, il calcio, la religione e, ovviamente, il culo, magari di Noemi), i lettori delle pagine di destra resistono qualche strofa e qualche rigo in più, ma poi girano velocemente le altre pagine. Non manca, infine, una parte meta-antologica, in cui fa capolino la scuola, la fonte indimenticata di questa capacità di scrivere in greco e latino, ma riaggiornata alle tensioni e tenzoni quotidiane: presidi, scrutini, ricreazione.

Il libro sta per terminare, appena il tempo di dare una sbirciatina al commento, che solo i lettori filologi di entrambe le tipologie avranno consultato in corrispondenza dei singoli testi.

Come e cosa concludere da questa lettura sussultoria e veloce? Mi sento tripartito, come in un dialogo platonico sull’anima e non riesco a trovare una linea di mediazione, perciò …..

Che tanti anni di studio indefesso di greco e latino abbiano portato un autore del calibro di Rissa a ridurre due lingue ancora pulsanti, nelle quali hanno scritto filosofi, poeti, storici e soprattutto papi, a portavoce di parti del corpo così basse, attraverso quella forma di parodia che i Greci e i Romani inventarono, ma con ben altro ed elevato sentire; che tutto questo sia accaduto, non è che l’ulteriore segno e conferma di un paese i cui valori sono stati calpestati dai sommovimenti politici e libertari (e sconci) dei decenni scorsi. Verrà tempo in cui il semaforo indicherà un rosso acceso anche per libri come questo.

            ….

L’autore fa il suo mestiere, si diverte e fa divertire. Soprattutto i professori di liceo, costretti – ma ancora non si sa da chi, forse dalle scie chimiche – a costringere gli studenti e le studentesse (non uso ancora asterischi) a studiare un greco e un latino ripetitivi, troppo seriosi, senza slancio, troveranno in queste pagine nuove idee per rendere i testi del programma riscrivibili. Il volume potrebbe, perché no?, essere adottato sperimentalmente da qualche liceo e potrebbe orientare anche la cosiddetta seconda prova dell’esame di maturità. Altro che antropologia e cultura, come vorrebbe qualcuno.

 E io continuo ancora a chiedermi: ma non c’era già Sexus et politica di Gaber-Savona? O i numeri unici dei giornalini di terza liceo?

Due poesie

6

di Marina Massenz

                                                 Peli di gatto lingua di delfino

Peli di gatto lingua di delfino

per la tavola del generale

unghie di pecora testa di zebù

per lo spettacolo dei draghi

a tre teste e paladini è solo teatro

illustra il mondo globale alcoolico

abusante con armature smargiasse

ma vero di sangue è sparso il ridotto

tra fari imposture e teste mozzate

 

si tratta perciò di un guasto generale

non si può imputare nessun distretto

se manca la luce e ad intervalli si sfonda

la mente o il cuore intermittenze vitali

come svuotare con un secchio piccolo

tipo ditale un sacco una catastrofe

nucleare enorme di rifiuti un disavanzo

nella fame globale tra più più e meno

meno pochissimo un ditale non basta

si sa nemmeno tuffarsi a testa bassa

nel mare per salvare niente basta

né avanza  solo un accanito assistere

come se l’essere presente di chi guarda

vede facesse baluardo, come se.

 

 

Occhio di Pernice

Per l’assenza del figlio

meglio affidare l’indagine

all’agenzia investigatrice

Occhio di Pernice

 

affinché con l’occhio strambo

affondi nei suburbi di città

nel vaporoso rumore s’intrattenga

e trovi così di lui le tracce i suoni

 

mentre la madre nella gabbia

abbindolata si astiene desiste

dall’andare dal fare dal dire

attende info indirette pertinenti

 

perché egli nulla sa né sappia

della presenza annidatasi in lei

anticamente in forma di assenza

conclamata subìta inabitata

 

del gelo in cima al grattacielo

la bimba nuda attende riso

e latte e arrivi impossibili

quattro appoggi sulle piastrelle

bianche nere bianche nere.

     

 

Diario parigino 3. Leggere tutti i libri.

11

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[Diario parigino 1, diario parigino 2]

di Andrea Inglese

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Un sogno di felicità ricorrente, di quelli che si fanno ad occhi aperti. Sogno di giungere in un periodo della vita, in cui mi sia possibile leggere, leggere finalmente, senza troppe limitazioni, interferenze, ingombri quotidiani, senza l’invasione, nel mio tempo libero, del tempo imprigionato del lavoro, il tempo imprigionato che comunque dà senso, poiché una legge umana vuole, una maledetta legge hegeliana forse, vuole che l’uomo nel lavoro finisca per trovare una qualche sensatezza, ma io da anni, pur piegandomi alla legge del lavoro sensato, inutile spesso, odioso spesso, noioso spesso, ma sempre maledettamente sensato, io comunque intravedo, al di là di questa legge, una legge ulteriore, in cui io non faccio che leggere, e leggere a mio piacimento, mi leggo finalmente tutti quei libri che ho comprato nel corso degli anni, tutti quei libri comprati a prezzi interi o scontati, prezzi di libri nuovi o usati, io tutti questi libri che mi circondano, che sono disposti a mo’ di accerchiamento in casa mia, tutti questi libri che io ho continuato a comprare senza mai riuscire a leggerli, io questi libri sogno che, in un dato momento della mia vita, spostato nel prossimo futuro, in un futuro comunque radioso, me li posso finalmente cominciare a leggere tutti, non dico che davvero m’immagino di leggermeli tutti, ma mi è sufficiente, in questo sogno, sapere che ho il tempo, e che quindi mi prendo il tempo – tempo che, per qualche ragione del destino biografico, mi è d’un tratto concesso – di leggermeli per null’altro motivo che il mio piacere, il mio umanistico piacere, per la mia bildung, una bildung tardiva, passati ormai i cinquant’anni, è patetico – certo – questo desiderio, e soprattutto è patetica la realizzazione di un tale desiderio, se mai la ottenessi, anche perché in cosa consisterebbe?, in null’altro che mattinate e pomeriggi passati a leggere in casa, vorrei, nel mio sogno, poter cominciare a leggere tutti i miei libri a casa, non per un’esigenza di isolamento, per qualche paranoico sentimento di minaccia che avvertirei se decidessi di leggere in una biblioteca pubblica o in una caffè a Parigi – dove c’è un certo numero di persone che leggono – ma io non vorrei farmi distrarre dalla gente, primo, e vorrei soprattutto, secondo, leggermi questi libri in una posizione fisicamente confortevole, mi sembra che sia una sorta di abbinamento sacro e solenne questo, l’abbinamento della comodità fisica e del libro, dell’ergonomia della lettura, per cui mi è assolutamente chiaro, nel mio sogno ad occhi aperti, che si legge bene solo allungati su di un letto o spaparanzati in un divano o in una poltrona, ma in nessun modo una lettura degna di essere realizzata per motivi di tarda bildung umanistica, dico mai sarà possibile imprigionarla nel sistema sedia-tavolo o sedia-scrivania. I Diari di Musil (1899-1941) e l’Epistolario di Kafka, ad esempio, potrò leggermeli, e non perché debba, poi, maledettamente scriverne un articolo, pagato o gratuito poco importa, non perché, insomma, con quella lettura io debba fare del senso, avere un’attitudine sensata di fronte a chi mi chiedesse perché sto passando i pomeriggi a letto, come un convalescente, solo per leggere i Diari di Musil o l’Epistolario di Kafka, quale impegno professionale, infatti, mi offre la garanzia (l’alibi) di passare così tanto tempo a leggere Musil o Kafka, senza trasformare questo mio tempo di lettura in una prestazione giornalistica o accademica, o accademico-giornalistica, o magari, persino, saggistica, ma di saggio creativo anti-accademico e anti-giornalistico? Anche i miei amici scrittori, i miei amici che come me sono da anni immersi in questa residua palude dell’umanismo, in questa dirotto paesaggio di lettere, lingue, letterature, anche se poi sono paesaggi umanistici aggiornati, in cui si parla di finzione, di docu-fiction, di qualcosa che suona anglosassone e aggiornato, anche loro, comunque, questi scrittori-giornalisti, o questi scrittori-accademici, o questi scrittori di saggismo anti-accademico o addirittura di finzione, anche loro mi chiederebbero perché, con quale fine professionale, con quale recondita motivazione lavorativa, di sensatezza possibile, io mi sia messo a leggere certi libri, che sono importanti, che danno anche lustro, che sono fenomeni quasi di lusso umanistico – ma chi si può più permettere di leggere i Diari musiliani o l’Epistolario kafkiano senza una qualche borsa di studio, progetto europeo di supporto, curatela di numero monografico in rivista? Ma il periodo della mia vita che m’immagino varcare è un periodo, appunto, in cui le preoccupazioni lavorative, di sensatezza, di alibi professionale, sono come dissolte sotto la spinta di una maturità esistenziale, psico-fisica, che mi restituisce il piacere della lettura nella sua versione, se così si può dire, arcaica, intonsa, come un’attività che ha interamente in se stessa il proprio fine, e non voglia altro, né dal mondo né dal soggetto che la esercita, soggetto che, di rimando, è felice come una pasqua, in un atteggiamento di completezza spirituale, tale per cui non soffre più del salario scadente che gli è concesso, della rinomea del tutto insufficiente che la sua sensibilità umanistica ha suscitato intorno a lui, ma dimentica, leggendo quei libri, e leggendoli senza alcuna impazienza, sormontando anche dei lunghi e noiosi passaggi, dimentica il problema grave, anzi gravissimo dell’invecchiamento, perché forse, se vi è una qualche astuzia, o sensatezza, in questa postura umanistica, della lettura ergonomica e spaparanzata, sta nel combattimento subdolo nei confronti della grande angoscia di morte e invecchiamento, perché a ben guardare il soggetto in questione, essendo miscredente, materialista, figlio di società del disincanto e del consumo, non teme, nei sui recessi di coscienza, giudizio finale su colpe e vizi, su inadeguatezze morali, che certo ci sono e sono in qualche modo assodate, non grandemente redimibili, ma la vecchiaia, il distruggimento lento del fisico, o della mente prima e del fisico poi, o di entrambe le funzioni, quella mentale e quella fisica, in una sorta di crollo simultaneo, questo tipo di incubo, perché bisogna in qualche modo nominarlo per quello che è, un semplice incubo, l’insensatezza non solo della morte, che ha reso risibili tutti quegli anni di lavoro per scopo più o meno pensionistico, oltreché di sensatezza biografica, ma anche l’insensatezza maligna, persecutoria, dello smantellamento progressivo, che solo un eroico ma altrettanto insensato suicidio abbastanza precoce potrebbe schivare. Leggere con grande magnanimità tutti i libri comprati e mai letti, o letti in piccolissima parte, e letti in modo assillato, sempre un po’ con l’acqua alla gola, e quindi letti malamente, di sfuggita, a morsi, tutta quella valanga di pagine che finalmente verranno, nel periodo radioso, lette, sono un modo più che sensato, più che saggio, di controbilanciare non l’invecchiamento, che verrà implacabile, come nella poesia di Pavese viene persino, alla fine, la morte, ma un modo di strangolare, e persino spazzare via, l’angoscia d’invecchiamento e morte, regalando dei super-poteri, come la memoria, la memoria drogata, e amplificata, dal momento che leggendo, al di là della generica balla della bildung umanistica, io integro porzioni di mente altrui, e ogni porzione di mente – che non è altro, materialisticamente, che quel costrutto di frasi ben fissate (inchiostrate) alfabeticamente su un supporto chiaro e sottile –, ogni benedetta porzione di mente, musiliana e kafkiana ad esempio, è già una magnifica estensione, integrazione, impero espansivo di altre centinaia di menti, e quindi di memorie, ossia di gesti concepiti e di paesi descritti, in un turbinio di tempi verbali, e quindi storici, massiccio e onnilaterale, tale per cui è possibile muoversi anche solo lungo le dorsali della storia europea, che è già contaminata da storie di altre e remote civiltà, e in questa maggiorazione crescente della mente, in quel periodo radioso della lettura realizzata di per sé, per interna finalità, non è che il mondo o il tempo siano neutralizzati, perché come si è visto sono piuttosto moltiplicati, ma è la morte, come cancellazione dei doni e delle memorie, dei doni terrestri, certi colori delle cose, certe tessiture delle materie, certi aromi nell’aria, certe capacità retoriche dell’uomo e della donna – è questo dirupo smemorante che si fronteggia, tutta la salvaguardia alfabetica, e mentale, e trasmissibile su carta, è un’interruzione forte della morte, e dell’invecchiamento come smantellamento dei suoni e degli odori, dei gesti e dei luoghi, per cui si sta nella lettura protetti, come avvolti in un profondo mantello, dentro cui la mente si espande, e sciamanicamente moltiplica gli alveoli dell’unico mondo nostro. In questo il termine umanistico acquista forse pertinenza, la lettura come presidio senza limiti di spazio e tempo dell’unico mondo umano, che è poi costantemente vegliato, alle sue frontiere, ovunque, in ogni punto, vegliato e intriso, vegliato e disturbato, sollecitato e giostrato dai compagni non-umani, e cioè i sassi, i budda, le nebulose, le giade, le mosche, i folli, i neonati, i morti, i mostri, e il resto, massa di masse estranee, che l’uomo vede, sogna, disegna, descrive, inventa, integra, nomina, aggredisce, incendia, divora. E insomma, quindi, il periodo prossimo e venturo, quello radioso della mia vita, in cui si cominceranno a leggere tutti i libri, io l’attendo sognando ad occhi aperti, per questo, per altro, oggi, mi è così difficile anche solo concentrarmi sulla pagina di un libro, di un romanzo magari, come Tempi difficili di Dickens, che non c’entra nulla, che so bene non dovrei leggere adesso, che sto leggendo troppo tardi o troppo presto, e che soprattutto leggo male, a pezzi, sognando il giorno in cui, disteso sul letto, durante tutto un pomeriggio, potrò leggerlo come si deve, per la felicità di una mente aumentata e sciamanica.

 

Ma quel periodo, poi, di vita felice nella lettura di tutti i miei libri non letti, poiché quasi tutti, al novantanove per cento, i miei libri, i libri infilati negli scaffali delle varie librerie della casa, sono libri che non ho letto, e che rischiano di rimanere non letti, fintantoché la vita è soprattutto votata alla sensatezza di una lettura lavorativa, salariale, o di carriera, professionale, letteraria o giornalistica, quel periodo, comunque, se mai arriverà, dovrà farsi spazio dentro un altro periodo, simile per felicità, ma diverso per pratica, metodo, apparecchiatura della felicità, perché io, ad occhi aperti, anche sogno un tutt’altro periodo, il periodo in cui potrò riprendere e leggere, oppure riprendere e leggere sottolineando, oppure riprendere, leggendo e ricopiando frasi selezionate, tutti gli articoli di giornale che ho conservato, o che ho ritagliato, giornali e ritagli variamente disposti, e raccolti, e infilati, e dimenticati in angoli della casa, dal momento che i giornali vecchi e i ritagli di giornali vecchi sembrano spontaneamente destinarsi agli angoli, ai buchi, agli anfratti, ai frammezzi, alle intercapedini, agli spazi bui e morti, della casa. Io sogno, però, che verrà un periodo più onesto e responsabile, più libero e innovatore, in cui saprò far affiorare da tutti gli angoli ciechi, e bui, e morti della casa quella quantità di giornali e ritagli di giornale, a partire dalla quale estrarre una meditata costellazione di notizie, in grado di illuminare in modo diverso, più crudo e definitivo, l’immagine del mondo, del nostro mondo contemporaneo, che sappiamo tutti essere complesso e stratificato, e dentro gli strati anche piegato e rovesciato, tale per cui ogni taglio diagonale o ogni lettura lineare incontrano scogli e opacità, paradossi e divaricazioni, che non ne permettono un ingerimento conoscitivo non dico integrale, ma sufficiente e pacato, poiché ancora peggio della lettura dei libri – romanzi, saggi, studi specialistici, manuali divulgativi, poemi – ancora più strozzata, frammentaria, furiosa, distratta, è la lettura dei giornali d’informazione, sempre troppo noiosi e prevedibili, oppure troppo copiosi e sfuggenti, e quindi è inevitabile sognare il giorno, ossia il periodo abbastanza lungo, in cui si riuscirà a non leggere più l’edizione giornaliera dei quotidiani nazionali, per dedicarsi con estrema calma ad un lavoro di lettura a ritroso, ma non nel senso lineare della retrocessione semplice, bensì in quello apparentemente aleatorio del volo di mosca, saltando da un anno all’altro, da un argomento all’altro, per creare nessi inattesi, armonie profonde, strutture di senso, reti d’intelligibilità che attraversano in modo irregolare e turbinante i fatti, i luoghi e le epoche, affinché tutto sia tremendamente più chiaro, la macchina dei poteri innanzitutto, ma anche la macchina delle deficienze, delle anomalie, delle pure e selvagge sregolatezze, che costantemente una seconda macchina di ordinamento e pulizia deve sovrastare, integrare e cancellare. Questa lettura dei giornali passati, delle pagine ritagliate e conservate, della massa straripante degli articoli non letti, e che deve essere fatta non per finalità immediatamente militanti, ma perché un saggio politico e antropologico ne possa naturalmente scaturire, un saggio lacerante, nello stile di una lama da combattimento, e non da semplice chirurgia, tale saggio, infatti, dovrà sovrastare l’attivismo politico e sovversivo formicolante, ma dovrà sovrastarlo in moto e in levità, come un pallone areostatico che sorpassi non solo le linee del nemico – e tranci le sue metalliche protezioni – ma anche le avanguardie amiche, per giungere in una zona di calma considerazione dei rapporti di forza, che non può dare certo spazio a gonfiamenti mentali, a pretese sciamaniche di rimemorazione onnilaterale, dal momento che è l’unità di gesto e di luogo, la collocazione millimetrica e puntualissima del passo, che il saggio deve rendere possibile una volta scritto, e scritto attraverso la lettura, l’analisi, la sottolineatura di tutto quanto, dei giornali vecchi, non era stato letto, né è mai stato possibile leggere, fino al giorno in cui il periodo felice 2, della lettura di tutti i giornali non letti, ha soppiantato il periodo felice 1, della lettura di tutti i libri non letti, almeno nel sogno ad occhi aperti, in attesa di una realizzazione, anche parziale ma concreta, perché è dei sogni in stato di veglia, è delle fantasticherie, il destino rarissimo, ma non impossibile, di realizzazione, almeno in minima parte.

A cosa servono le donne nella scuola italiana?

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di Marcella Farioli

modernteacher

La pessima riforma della scuola, trionfalmente varata da Renzi dopo anni di retorica sulla meritocrazia e contro ‘il falso egualitarismo della sinistra’, porta a termine un processo di smantellamento dell’istruzione pubblica iniziato negli anni ’80 e promosso in egual misura dal centro destra e dal centro sinistra. Obbedendo ai dettami della tavola rotonda dei confindustriali europei (ERT) – veri registi occulti dell’operazione insieme a enti privati come l’associazione TreEllle, la Fondazione Agnelli e altre emanazioni dell’imprenditoria italiana – sono state progressivamente introdotte nel sistema pubblico innumerevoli strutture utili a snaturare la scuola come organismo orizzontale e, almeno in teoria, livellatore delle differenze sociali: sdoganamento di lessico e modelli aziendali, gerarchizzazione degli insegnanti, sbilanciamento nella distribuzione dei poteri in senso verticistico, aumento del divario tra le scuole di serie A, con utenza altoborghese e benestante, e le scuole di serie B, in cui viene confinata la popolazione di bassa estrazione sociale.

Certo la scuola pubblica italiana non era esente dal classismo nemmeno prima della riforma Renzi: da sempre essa ha funzionato come dispositivo utile a riprodurre cittadini integrati e sottomessi all’autorità e lavoratori docili e acritici, a trasmettere come ‘neutri’ i valori dominanti, a selezionare per gli studenti diversi percorsi di studio a seconda della loro provenienza sociale. Al giorno d’oggi in Italia – e la ‘cattiva scuola’ renziana è destinata ad aggravare il fenomeno – il rapporto tra classe sociale dello studente, indirizzo di studi prescelto e successo scolastico è pressoché deterministico: i privilegi o gli svantaggi della famiglia d’origine vengono trasmessi ai figli sotto forma di modelli di condotta e codice linguistico, e ne orientano le scelte scolastiche e il futuro lavorativo. La famiglia rende soggettive le differenze oggettive trasformando le diseguaglianze socio-economiche in diseguaglianze cognitive e culturali; la scuola a sua volta, invece di sanare lo squilibrio, lo legittima, attribuendo il successo o l’insuccesso esclusivamente alla presenza o all’assenza negli individui di doti innate o di merito.

I contenuti e le modalità didattiche, che sono un arbitrario culturale, vengono proposti e avvertiti come forme di sapere universali, consacrate dall’uso o dalla loro congruenza con lo Zeitgeist e con gli interessi materiali delle classi egemoni: la “neutralità” attribuita all’insegnante modello, non è altro che una unilateralità fittizia, che consiste nel non proporre mai valori difformi da quelli dominanti, dissimulando la funzione politica assolta dal sistema scolastico.

In questo modello di scuola in Italia e, in percentuali solo lievemente inferiori anche nel resto d’Europa, il personale docente è rappresentato per la maggior parte da donne. Nel nostro paese le insegnanti rappresentano il 78% del corpo docente. Una percentuale che sale fino a quasi il 100% nelle scuole dell’infanzia (fino alla legge 903 del 1977 era addirittura vietato agli uomini insegnarvi), al 95% nella scuola primaria e all’85% nella scuola secondaria di primo grado. Alle superiori le donne costituiscono il 59% del totale, con punte dell’85% nei licei pedagogici, a riprova del fatto che l’educazione è ritenuta un campo prettamente femminile. Il numero di donne diminuisce bruscamente con l’aumentare del livello stipendiale e del prestigio sociale del grado di istruzione: nell’università italiana le ricercatrici sono il 35% del totale, solo il 20% le ordinarie. Le donne che nel 2013 ricoprivano il ruolo di rettore erano 5 su 78 secondo i dati del Miur.

Esiste un rapporto tra la funzione ideologica e disciplinatrice della scuola e la sua progressiva femminilizzazione negli ultimi cinquant’anni in Italia?

La risposta è senza dubbio affermativa.

Le ragioni del fenomeno sono molteplici e, ahimè, ben poco edificanti. Prima di tutto, l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria è assimilato nella mentalità corrente al lavoro di cura, prerogativa ‘innata’ femminile e comparabile ad altri lavori a carattere oblativo e caritatevole, come quello di infermiera o operatrice dei servizi sociali. Poiché le donne sono ritenute naturaliter pazienti e inclini alla dolcezza, la ‘cura’ dei bambini spetta a loro anche a scuola come prolungamento del ruolo materno. Tale visione è legata al ruolo della donna nella famiglia: una ‘natura’ materna, dedita al lavoro domestico e di riproduzione gratuito, subordinata a un ordine maschile che non necessita di legittimarsi, ma a sua volta soggetto di dominazione sui figli, cui trasmette valori congruenti con il loro futuro ruolo di sottoposti all’ordine sociale.

Questo radicato stereotipo culturale, insieme al basso livello salariale dei docenti della scuola dell’infanzia e primaria – troppo scarso per costituire il salario principale della famiglia italiana – contribuisce fin dalle origini a rendere in esse ultraminoritaria la presenza maschile, oltre a favorire i conti dello stato: la legge Casati del 1860, infatti, che stabilì il nuovo assetto della scuola pubblica nell’Italia post-unitaria, prevedeva che lo stipendio delle maestre fosse inferiore di un terzo rispetto a quello dei maestri. L’effetto psicologico che ancor oggi deriva dalla quasi totale femminilizzazione della primaria è evidente: man mano che cresce e accede ai livelli superiori di scuola, lo studente viene messo di fronte al fatto che più il contenuto culturale della scuola si ‘eleva’ e si specializza, più esso è affidato a maschi. Gli uomini vengono dunque percepiti come portatori di una sapienza più ‘alta’, col risultato di svalorizzare ulterirmente il ruolo femminile nell’istruzione.

Alla percezione dell’insegnamento come prolungamento del ruolo materno non è estraneo il ruolo giocato dalla Chiesa, che fino alla legge Casati mantenne l’egemonia nell’educazione. La visione inferiorizzante della donna propria della Chiesa e le sue idee sulle differenze complementari tra i sessi colgono appieno le potenzialità della figura della maestra disciplinatrice di coscienze infantili come prosecuzione del ruolo della brava madre cattolica; già nell’Ottocento, del resto, la scelta di assumere maestre nella scuola elementare era avallata dall’idea che le donne fossero le custodi più affidabili della morale cristiana.

Il massiccio ingresso femminile nell’istruzione media e superiore, anche come allieve, comincia a partire dagli anni Sessanta ed esplode negli anni Settanta, quando un numero crescente di donne si iscrive a facoltà, come Lettere o Lingue, che sfociano naturalmente nell’insegnamento. Parlare di scelta nel senso pieno del termine è inesatto: i meccanismi che orientavano e orientano le studentesse verso queste facoltà sono legati a una definizione sociale delle qualità ‘femminili’ che certi studi contribuiscono a forgiare, al pregiudizio secondo cui esiste un’affinità elettiva tra le caratteristiche femminili e quelle letterarie, come la sensibilità poetica e alle sfumature del sentimento. Le presunte ‘scelte’ o vocazioni – in questi termini si esprimono molte insegnanti interrogate in proposito – sono spesso vie obbligate che orientano le donne a professioni, come l’insegnamento, che secondo l’opinione comune richiedono qualità ‘femminili’: è difficile non condividere tale conclusione, a meno che non si voglia supporre che la preponderante percentuale di donne iscritte attualmente in Italia alle facoltà di Scienze della formazione (91%), Lingue (80%) o Lettere (70%) sia dovuta a una predisposizione genetica a tali discipline.

Desolante è poi constatare che un altro fattore che ha orientato generazioni di studentesse verso facoltà che sfociano nell’insegnamento risiede nel pregiudizio -ultimamente incrementato dalla scadente retorica sui dipendenti statali fannulloni – che accredita il lavoro docente come una sorta di privilegiato part-time a stipendio pieno. Da ciò la formula ritualmente salmodiata secondo cui “la scuola è il lavoro ideale per le donne che hanno famiglia”, perché “lascia tutto il pomeriggio libero”.

Tale convinzione nasce dall’idea che il tempo di lavoro dei docenti coincida con quello mattutino (in Italia da 24 a 18 ore di lezione frontale a seconda del grado di scuola); il cospicuo impegno collegato alla funzione docente (correzione elaborati, preparazione materiali, approfondimenti, verifiche, aggiornamento, etc.) non viene percepito come tale in quanto variabile nella mole, non sottoposto a orario fisso e collocabile in momenti diversi della giornata, anche serali o notturni. Esso è dunque sempre subordinabile alle esigenze di famiglia. Questo è il punto: proprio in virtù dell’alto grado di flessibilità dell’organizzazione del tempo di lavoro extra-lezioni, la donna che insegna è il soggetto ideale da gravare con il doppio carico del lavoro domestico e di cura, in quanto sfruttabile in diverse fasce orarie per le esigenze dei figli e della famiglia nel suo complesso.

Di conseguenza, il lavoro delle docenti è ricco di tempo ‘libero’ da dedicare alla famiglia, ma singolarmente privo di tempo libero per il progresso intellettuale e il processo di soggettivazione di chi lo svolge. Ciò comporta anche un interesse minore per l’aspetto politico del lavoro scolastico e un’autolimitazione alla sfera del privato a scapito del pubblico e della partecipazione.

Ne deriva un amaro paradosso: il modello dell’insegnamento come professione tipicamente femminile si basa in fondo sulla centralità del ruolo di moglie e di madre cui molte donne hanno cercato di sfuggire inserendosi in una professione che ritenevano idonea ad emanciparsi o persino a liberarsi dalle pastoie del patriarcato. L’enfasi sulla compatibilità dell’insegnamento con il lavoro domestico, inoltre, postula un’assimilazione delle due attività alla luce dell’identica capacità ‘naturale’ che le sorregge, quella di cura dei soggetti in crescita, che conserva – anche nella bassa retribuzione – il carattere di gratuità tipico del lavoro domestico.

Tale analogia spiega la tendenza a organizzare il lavoro scolastico come quello familiare: come “economia del dono”, come lavoro “infinito”, pervasivo, carico di responsabilità non delimitate e flessibile, foriero di frustrazioni assimilabili a quelle vissute in famiglia, a partire da quella derivata dalla dimensione sempre più individuale della didattica e dalla solitudine. Solitudine nello sforzo di conciliare numerose e diverse funzioni, di escogitare soluzioni per i problemi più disparati in assenza di ogni struttura di sostegno; solitudine nel misurarsi con realtà sempre più complesse e nella consapevolezza dello scarto tra le possibilità oblative individuali e lo sgretolamento culturale ed economico dell’istituzione scolastica. Una solitudine e un isolamento che caratterizzano molti lavori tipicamente femminili, a partire da quello tradizionale della casalinga.

Altra ragione della predominanza femminile nella scuola italiana sono i bassi salari: non è un caso che l’Italia sia uno dei paesi europei con la maggior percentuale di donne tra il personale docente della scuola e al contempo quello con i salari più bassi per gli insegnanti, insieme a Grecia e Turchia. Prima dell’attuale crisi economica, la professione docente, anche nella secondaria di secondo grado, garantiva una retribuzione esigua rispetto al titolo di studio e rispetto a quello di altre professioni per cui era necessaria la laurea. Negli anni i bassi salari hanno contribuito a mantenere femminilizzata la professione e la femminilizzazione a sua volta ha mantenuto bassi i salari, togliendo sempre più prestigio sociale al lavoro docente.

Questo circolo vizioso non è tuttavia legato solo a un’esigenza di risparmio da parte dello Stato: l’istruzione deve restare femminilizzata anche perché la donna è il soggetto ottimale a garantire che la funzione ideologica della scuola nel mantenimento dell’ordine borghese venga assolta nel migliore dei modi. La donna, duplicemente dominata dall’autorità patriarcale oltre che dal modo di produzione capitalistico, avvezza all’accettazione dei rapporti di potere esistenti e lei stessa vittima di violenza simbolica, è infatti la categoria più idonea a esercitare in veste di insegnante la violenza pedagogica, proseguendo per via matrilineare la funzione disciplinatrice svolta dalla madre tramite l’educazione primaria. Le donne sono le più adatte a convincere col loro esempio ogni soggetto sociale a restare al posto che gli compete ‘per natura’, trasponendo la divisione dei ruoli così come la tradizione l’ha codificata. Inoltre, come la madre riproduce nella famiglia l’immagine di un femminile subordinato e deputato al lavoro di cura gratuito, così nella scuola l’insegnante, tramite il suo mediocre potere diviso tra dolce repressione e maternage, accredita il paradigma che fa del maschile il neutro, dunque l’universale, e riproduce l’immagine di un femminile vocato a donare, conforme e docile all’autorità, cinghia di trasmissione tra dominanti e dominati.

Il conformismo nei contenuti trasmessi dalle insegnanti, legato alla secolare subalternità culturale e alla mancanza di autonomia di molte donne, dipende anche dall’effetto di rassicurazione che esso provoca in un sesso allevato nella persuasione del proprio disvalore. Anche le studentesse, del resto, ottengono spesso migliori risultati dei coetanei grazie alla loro maggiore propensione ad adeguarsi alle regole e ai codici scolastici e al loro bisogno di ottenere approvazione e riconoscimento dagli insegnanti.

Gli alunni, interrogati in proposito, affermano che le docenti sono spesso più attente dei colleghi all’ordine e alla precisione, maggiormente rigide, fedeli ai programmi, meno inclini alle divagazioni; le insegnanti controllano con frequenza i quaderni e i materiali, lasciano minor spazio alla fantasia e all’autonomia degli alunni, soprattutto alle elementari. Esse, insomma, tendono a riprodurre lo stile materno e segretariale che da secoli è stato loro attribuito come qualità innata: modalità diverse da quelle maschili, dunque, non perché portatrici di un ordine del discorso differente, ma in quanto specchio delle caratteristiche che alle donne attribuisce l’ordine del discorso maschile.

Allo stesso retaggio psicologico e culturale sono legate altre peculiarità della modalità femminile di insegnamento: il rispetto pedissequo delle regole, il ricorrere dei temi legalitari e securitari apprezzati dalla retorica democratica e sempre più pervasivi a scuola, le ossessioni tassonomiche e docimologiche e, soprattutto, la profonda spoliticizzazione della scuola attuale sono frutto, oltre che del generale declino politico, sociale e culturale e dello spegnersi delle contro-culture, anche – dispiace ammetterlo – dell’approccio femminile all’insegnamento.

Analogamente, mi pare chiaro il rapporto esistente tra l’alta presenza femminile nella scuola e la scarsa conflittualità sindacale della categoria docente: anche al netto della generale disaffezione alla militanza sindacale e della passività della categoria nel suo complesso, si nota nella componente femminile una peculiare declinazione di questa tendenza nell’assolutizzazione della delega. Mi pare inoltre particolarmente diffusa tra la componente femminile l’attenzione per le minuzie anche in materia sindacale, invece che per le grandi questioni politico-sindacali che hanno investito la scuola negli ultimi decenni.

Anche in questo campo, dunque, le donne della scuola tendono ad offrire più dei loro colleghi un modello di ubbidienza all’autorità. Eppure l’ingresso femminile nell’istruzione superiore negli anni ’60 e ’70 nasceva anche come forma di rivolta ai ruoli assegnati dal destino di moglie e madre: «lo Stato italiano, favorendo la femminilizzazione dell’insegnamento primario e poi di quello secondario, ha implicitamente delegato la formazione dell’habitus scolastico a un gruppo dominato che usava la cultura per disconoscere il dominio cui soccombeva» (E. De Conciliis, “La riproduzione (del) femminile. Una riflessione socio-politica sul ruolo delle donne nella scuola italiana degli ultimi decenni” in Storia delle Donne S.l. (2012), p. 44). Ma disconoscere non equivale a combattere: la rivendicazione sessantottesca del diritto allo studio per tutti e il massiccio ingresso di donne, anche di estrazione piccolo borghese o proletaria, in una professione ‘culturale’ vissuta come ascesa sociale e istanza di liberazione, rifluisce per molte insegnanti nell’accettazione di un ruolo complice di quel potere patriarcale che avevano rifiutato. In questo modo, nota la De Conciliis, «l’ingresso nella scuola secondaria, vissuto dalla donna come fattore di orgogliosa emancipazione, è stato (…) anche uno dei più raffinati strumenti di difesa socio-culturale utilizzati dallo Stato a partire dagli anni Settanta» attraverso cui «si è cercato di realizzare la neutralizzazione politica della contestazione e della stessa emancipazione femminile».

L’illusorietà di questa liberazione in chiave di genere è dimostrata dal fatto che la predominante presenza femminile nella scuola non ha quasi mai proposto un ordine del discorso diverso da quello maschile, soprattutto in un paese come l’Italia in cui il femminismo radicale si è dissolto nel giro di un decennio. É vero che per qualche tempo le insegnanti formatesi negli anni del femminismo hanno rifiutato la cultura permeata dal logos maschile, cercando di creare strumenti di autoespressione e di critica ai sistemi formativi basati sulla mistificazione dei ruoli sessuali. La maggior parte delle insegnanti attualmente in servizio si sono tuttavia formate negli anni del riflusso e della progressiva spoliticizzazione della società e la trasmissione delle acquisizioni precedenti si è bruscamente interrotta; trova invece qualche terreno fertile quella pedagogia essenzialista della differenza che valorizza come specificità femminile proprio quelle caratteristiche attribuite alla donna come naturali che derivano dalla loro secolare emarginazione dalla vita pubblica e che continuano a determinarne l’inferiorizzazione. Un discorso sulla valorizzazione simbolica delle differenze che mette tuttavia un veto alla domanda sul come e sul perché le differenze sessuali si producono, sui rapporti di potere che implicano, sulla normatività in cui si posizionano e, va da sè, sulla possibilità di modificarla.

 

 

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Denaturalizzare il corpo femminile. Futurismo e femminismo, tra utopie e tecnologie

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di Silvia Contarini 12237058_1710350299196127_532970335_n

Nel suo recente saggio Cyborg philosophie Thierry Hoquet, filosofo delle scienze naturali, si propone di far interagire studi di genere e biologia. Nell’introduzione, si esprime in questi termini:

«Dire che il soggetto del femminismo è “Cyborg”, è dire che la donna non è il polo “naturale” e puro che la tecnica del maschio viene a fuorviare. È dire anche che la condizione femminile è fatta di una parte di biologico con il quale occorre mediare e di un’altra parte di tecnica con la quale occorre mediare.[…] Dire che il soggetto del femminismo è “Cyborg”, è ammettere che nessun ritorno alla natura ci salverà e che bisogna procedere per approfondimento della cultura e della civiltà, ossia della tecnica. Se il femminismo si è appropriato della figura di Cyborg, è soprattutto in relazione con le tecniche della riproduzione e con la questione dell’umanità che si fa carico della propria riproduzione. Non si tratta solo di controllare le nascite, cioè di limitare la popolazione umana da un punto di vista quantitativo; si tratta anche di un cambiamento qualitativo nel modo di produrre gli umani. Cyborg pone la seguente domanda: la gravidanza è un piacere, un privilegio del Femminile che bisognerà assolutamente preservare, o è un residuo arcaico del passato barbaro della specie? In altri termini, l’Utero artificiale e i sogni di Ectogenesi (sviluppo dell’embrione fuori dal corpo di donna) sono il segno della potenza maschile che vuole strappare alle Donne il loro segreto e il loro privilegio, o sono lo scopo che le femministe devono fissarsi come termine ultimo della Liberazione? La tecnica che interviene nella procreazione è alleata delle donne e della loro emancipazione? o al contrario, il loro peggior nemico e fonte di guai e rovina a venire?»[1] (Hoquet 2011, 14-15)

Gli interrogativi di Hoquet sono anche i nostri quando riassunti attorno a due punti nodali: la tecnica permette di superare l’essenzialismo e la riconduzione alla natura? cosa implica una riproduzione non più legata al corpo della donna? Sono problematiche che abbiamo affrontato negli ultimi anni in relazione al dibattito italiano sulla procreazione assistita, ma ispirati inizialmente a riflessioni sulla visione dell’uomo nuovo nell’universo futurista[2]. Ne sviluppiamo qui alcuni elementi, per mettere in prospettiva e inquadrare meglio la riflessione attuale sull’impatto delle tecnologie sulle prerogative di genere e più precisamente sul «naturale» connubio tra donna e maternità.

Utopie futuriste

Il futurismo, si sa, non temeva il progresso, anzi, manifestava un’adesione incondizionata e fervida fiducia nei progressi della scienza e nelle potenzialità della tecnica, auspicando del resto l’avvento di una società tecnologica, di un’umanità nuova, con sensibilità e potenzialità moltiplicate. Il futurismo elabora nel primo ventennio del Novecento un’utopia di Ricostruzione futurista dell’universo (titolo del manifesto di Balla e Depero, 1915) basata oltre che sull’antipassatismo, sull’imperativo del nuovo: dare vita a un uomo nuovo in un mondo nuovo. Dare vita, e non solo metaforicamente. I futuristi sono andati delineando, nella produzione letteraria, teorica, politica e ideologica, modalità di riproduzione alternative alla maternità e al concepimento naturali. Ricordiamo almeno il Manifesto di fondazione del futurismo (1909), nel quale Marinetti descrive metaforicamente la sua ri-nascita futurista, fuoriuscendo da una macchina-ventre dopo un incidente stradale come da un utero di lamiera.

La sua precedente pièce, Il Re Baldoria (1905), si presentava come una metafora della reincarnazione: per assicurare la rigenerazione della specie, sudditi e regnanti di un paese da cui le donne sono state cacciate rimettono al mondo uomini precedentemente divorati, espellendoli da orifizi vari o addirittura subendo tagli cesarei addominali. In cerca di un sostituto al corpo riproduttivo femminile, Marinetti allude in modo esplicito a gravidanze e a parti maschili incarnati. Nel romanzo allegorico Mafarka il futurista (1910) racconta invece la nascita dell’uomo nuovo, Gazurmah, imperituro perché meccanico figlio artificiale del re Mafarka, messo al mondo grazie alla forza della volontà paterna: «vi annuncio prossima l’ora in cui gli uomini dalle tempie larghe e dal mento d’acciaio figlieranno prodigiosamente» (Marinetti 1910, 5). L’uomo-dio Gazurmah si è affrancato dalla necessità naturale di uscire da un ventre materno, ma anche da quella altrettanto naturale di essere concepito dall’unione di un uomo e di una donna.

Marinetti ridefinisce la natura e la genesi del nuovo maschio futurista in alcuni testi teorici successivi, tra cui il significativo L’uomo moltiplicato e il regno della macchina. In un mondo futurista in cui la bellezza meccanica avrà già sostituito quella femminile, la macchina oltre a essere l’amante voluttuosa dell’uomo, ne diventerà la creatura. Creatura, oltre che creazione, poiché l’uomo ne sarà «costruttore […] padre» (Marinetti 1911, 298): tra uomo-padre e macchina si instaura un rapporto di filiazione. Il medesimo testo esplicita che l’uomo futurista avrebbe subito un’evoluzione fisica che gli avrebbe consentito di trasformarsi in un tipo non umano e meccanico, dotato di organi inaspettati, ovvero un essere dalle molteplici e possenti funzioni, alieno da malattie e deperimento, grazie ai suoi pezzi meccanici ricambiabili e aggiustabili. Un essere in cui le funzioni sessuali sarebbero state dissociate dall’erotismo e dal sentimento, destinate alla sola riproduzione della specie.

Attorno alla questione della riproduzione si svolgono le vicende del romanzo di fantascienza L’Ellisse e la spirale, film + parole in libertà del futurista Paolo Buzzi (1915). Alla fine di una sanguinosa guerra tra i due sessi, donne e uomini vivono separati in due regni distinti. Le donne hanno lasciato sopravvivere pochi uomini provvisori per fecondare le contadine. Gli uomini hanno bruciato le donne ma quando si rendono conto di aver bisogno di «uteri» per la continuità della specie, si mettono in cerca degli ultimi esemplari di sesso femminile. Nei mondi immaginari di Buzzi, il fare figli è disdegnato sia dalle donne che dagli uomini, giudicato da entrambi una mansione naturale purtroppo necessaria, perciò devoluta ai ceti più bassi, in attesa che la tecnologia offra altre soluzioni.

Una soluzione la suggerisce un altro futurista, Ruggiero Vasari, nella più tardiva pièce teatrale L’Angoscia delle macchine (1923). Negli anni Venti il clima ideologico è cambiato, com’è cambiata la percezione del progresso e della tecnica che cominciano a ispirare timori. Il suo regno delle macchine è abitato da uomini meccanici, potenti e solidi che, lasciate nel vecchio continente le donne, definite «sesso inutile», si autoriproducono artificialmente. Hanno rinunciato a riprodursi naturalmente perché i sentimenti e il piacere dell’accoppiamento sessuale sono incompatibili con il loro mondo tecnologicamente avanzato. Vasari va oltre in Raun (1927), un dramma ambientato in un mondo meccanico ormai così pianificato che il destino di ogni ragazza è affidato a una «gine-macchina» che ne decide la funzione sociale; le alternative sono maternità, lavoro, prostituzione.

Alla produzione futurista fanno eco altri testi, né futuristi né italiani, ma coevi, cui va accennato per sottolineare come la procreazione tecnologica, associata alla disumanizzazione, stesse diventando, tra le due grandi guerre, un’utopia inquietante: nuovi mondi che si pretendevano ideali per la nuova umanità si rivelavano terrificanti… Vasari, che frequenta gli ambienti artistici nordeuropei, molto probabilmente conosceva la pièce RUR (1920) del drammaturgo ceco Karel Capek, inventore della parola robot, che immaginava la rivolta e la vittoria delle macchine contro gli uomini che le avevano concepite e realizzate; ma nel suo nuovo mondo, i robot non sanno come riprodursi… Una decina di anni dopo, il romanzo Brave new world (1932) di Aldous Huxley, si apre, non a caso, sulla descrizione di una sala di fecondità. Pare che Aldous Huxley si sia ispirato agli esperimenti dell’inglese J.B. Haldane, che aveva coniato il termine ectogenesi per definire una sorta di macchina-utero da lui ideata (un bell’esempio di scambio di saperi tra un genetista e uno scrittore di fantascienza…). Nel nuovo mondo tanto perfetto quanto terrificante di Huxley, esseri umani tutti ugualmente compiuti ma agghiaccianti nascono da macchinari ai quali sono delegate tutte le fasi procreative; solo qualche essere considerato primitivo è ancora il risultato di svilenti procreazioni fisiologiche. Per Capek come per Huxley, la scienza e la tecnica avrebbero sostituito le donne-madri, mettendo fine alla riproduzione naturale, biologica e affettiva, ma con un risultato che incute spavento: la disumanizzazione.

Tornando ai futuristi, osserviamo in sintesi che la loro aspirazione a valicare i limiti della riproduzione naturale rispondeva a due esigenze: sottrarre alla donna il potere di assicurare la conservazione della specie e rendere così il maschio autosufficiente; eliminare il genere femminile, veicolo di debolezza, sentimenti e mortalità (insomma, la natura) per sostituirlo con il genere maschile, sinonimo forza, nonché di scienza e tecnica (la cultura). La fiducia assoluta che i futuristi riponevano nei progressi della modernità li portava a credere che la tecnologia avrebbe dato all’uomo (o meglio, al maschio) enormi potenzialità. Osserviamo che per risolvere il problema della riproduzione, centrale nell’utopia di una nuova umanità, i futuristi immaginano di dislocare le funzioni fisiologiche fuori dal corpo umano, dissociando il sesso dal piacere e dai sentimenti, distinguendo corpi produttivi e corpi riproduttivi, e auspicando che gli organi diventino sostituibili e modificabili. In altri termini, preannunciano la frattura tra corpo umano e funzioni fisiologiche.

Si tratta di un’utopia elaborata dagli uomini futuristi. Le donne futuriste non si sono cimentate nell’immaginare nuove modalità di riproduzione, imperniando riflessione e creazione sull’identità della donna del futuro: idealmente, non sarà madre, e neppure moglie, ma artista o guerriera o amante. Benché le futuriste non abbiano elaborato proposte collettive, esprimendo anzi posizioni sfaccettate, un punto comune è il doppio rifiuto di concezioni essenzialistiche e di un determinismo biologico attributivo di prerogative femminili o maschili secondo l’appartenenza sessuale. La più nota delle futuriste, Valentine de Saint-Point, delineava nel suo Manifeste de la Femme futuriste (1912) e nel seguente Manifeste futuriste de la Luxure (1913), una donna forte, autonoma, sensuale e intellettuale; a sua volta, Rosa Rosà, in articoli pubblicati sull’Italia futurista (1916-1917) e nel romanzo Una donna con tre anime (1918), auspicava una profonda metamorfosi che avrebbe permesso alla donna del futuro di emanciparsi e liberarsi sessualmente, intellettualmente e artisticamente. Anche Enif Robert riteneva che la donna futurista dovesse innanzitutto rigettare il destino femminile naturale, per potersi realizzarsi in quanto artista; la donna futurista avrebbe trovato un nuovo equilibrio, a metà strada tra maschile e femminile, e una nuova armonia tra corpo e anima. Significativo al proposito Un ventre di donna (1919), romanzo composto da testi suoi e da lettere di Marinetti, la cui protagonista vive un’esperienza tragica ma fondatrice: a causa di una grave malattia, subisce l’ablazione dell’utero, operazione che le permette di sopravvivere e, insieme, di compiere un desiderato processo di trasformazione. Il messaggio è chiaro: la donna non si riduce all’utero, anzi, solo libera da esso può diventare una futurista, ossia una donna creativa e intellettualmente virile.

Proprio Enif Robert, una decina di anni dopo, avrebbe reagito alla proposta di un ex futurista riconvertito al fascismo, Mario Carli, che voleva far istituire per legge una sorta di procreazione femminile obbligatoria[3]. Nel 1929 i tempi erano cambiati; l’utopia futurista del nuovo mondo aveva lasciato il passo al nuovo ordine pragmatico-ideologico del regime, e il regime aveva un problema demografico-economico-occupazionale cui la proposta di Carli intendeva dare soluzione. Del resto, all’indomani della guerra, il futurista Blangino aveva già avanzato un’idea simile, il «figlio di stato» (1919)[4], una specie di affidamento dei neonati allo stato che avrebbe permesso alle donne di essere al contempo lavoratrici e madri, in un momento in cui il paese aveva bisogno sia di braccia che di nuove generazioni.

Tra scienza e fantascienza

Ci siamo allontanati dal cuore del problema, senza tuttavia perderlo di vista, anzi: la deviazione verso rappresentazioni della donna nuova è significativa, come lo è il nesso ricorrente tra problematiche di genere e procreazione. Di fatto, in ambito futurista, a una maniera tutta maschile di pensare l’uomo nuovo in un universo monosessuato o asessuato, tecnologico e disumanizzato, sfruttando le soluzioni riproduttive offerte dalla (fanta)scienza per superare i limiti imposti dalla natura, si contrappone la visione delle donne che imbastiscono una complessa dialettica tra creazione e procreazione, cercando vie di uscita al determinismo vigente. Le futuriste rifiutano di essere ridotte a fattrici, vogliono affrancarsi dalla maternità, incentrando i loro sforzi sulla trasformazione di ruoli e prerogative tradizionalmente attribuiti ai generi. Non delegano la funzione riproduttrice né all’uomo né alla macchina, non la separano dal corpo, non si affidano fiduciose alla tecnica; la maternità è accettata ma demistificata, considerata evento incidentale e non decisivo nella vita di una donna. Obiettivo, si noti, facilmente realizzabile, con un ricorso limitato ai progressi della scienza, ma con un più impegnativo cambiamento culturale.

Constatiamo invece, a distanza di un secolo – e qui veniamo ai nostri giorni – che pare tornare d’attualità la proposta futurista in versione maschile, riportata in primo piano non tanto da proiezioni dell’immaginario, quanto dalla realtà che, come si suole dire, supera gli ardimenti della fantasia. Con gioia, con stupore, o con terrore, si apprende che certe utopie sono realizzabili o realizzate. La genesi senza il concorso della donna, la procreazione fuori dal ventre femminile, l’autorigenerazione, la sostituzione di organi, la delega di funzioni alla tecnica, non appartengono al mondo della fiction, ma sono gestite dalla branca della scienza chiamata biotecnologia della riproduzione e tenute sotto controllo da esperti di bioetica. È interessante osservare che oltre all’offerta tecnologica di possibilità procreative, la gamma delle filiazioni possibili è ampliata dall’evoluzione delle mentalità e dei comportamenti: l’elenco non esaustivo delle alternative al ciclo riproduttivo naturale comprende la clonazione, la preselezione dei feti, la fecondazione in vitro, il trapianto ovulare, l’inseminazione artificiale e la maternità surrogata (affitto di utero). Se si aggiunge l’adozione monoparentale e omosessuale, si ottiene una casistica complessa e dilatabile, in cui fare un figlio non corrisponde ad avere un figlio, con implicita scissione tra la maternità e/o la paternità sessuale, affettiva, giuridica, genetica o biologica.

Si è detto che le prime ricerche sull’ectogenesi avevano ispirato il romanzo Brave new word di Huxley. Anche il libro L’utero artificiale (2005), definito dall’autore, il biologo francese Henri Atlan, un mezzo-saggio, tra lo studio e la fiction d’anticipazione, si è ispirato a ricerche scientifiche sull’ectogenesi condotte con risultati concludenti da alcune equipe di medicina riproduttiva in varie parti del mondo[5]. Sulla base di questi risultati, Atlan spiega come il ciclo procreativo potrà presto compiersi interamente fuori dal corpo femminile, grazie a macchinari sostitutivi delle fasi che vanno dal concepimento al parto.  Atlan vede in questi macchinari una conquista femminile d’emancipazione, il logico seguito della dissociazione tra procreazione e sessualità iniziata con la pillola contraccettiva e proseguita con l’aborto e le tecniche di procreazione assistita. Atlan insiste proprio su questo punto: l’utero artificiale, inizialmente destinato a risolvere patologie, sarà inevitabilmente considerato una possibilità offerta alle donne per evitare le scocciature fisiologiche della gestazione, e si iscriverà così tra i diritti delle donne sul proprio corpo. Atlan non parla degli uomini, noi notiamo che la realtà fisica della maternità secondo ectogenesi assomiglierebbe molto alla paternità, che non implica gestazione. Comunque sia, per Atlan, la liberazione della donna verrebbe dalla scienza, che oltre a risolvere il problema della deformazione della gravidanza e del dolore del parto, metterebbe in discussione il vecchio valore della maternità. In altri termini, la scienza e la tecnica trionferanno per il bene generale dell’umanità e per il bene particolare delle donne[6]. Le funzioni riproduttive, al pari di organi e componenti del corpo umano, saranno sostituibili e il prodotto sarà perfettibile.

Non è questa la sede per analizzare quali imperativi di ordine sociologico, culturale, demografico o ideologico, incoraggino il prosperare di domanda-offerta di biotecnologia, sebbene crediamo non si debbano sottovalutare gli interessi economici della commercializzazione di organi e funzioni corporali[7]. Soffermiamoci qui su altri aspetti. Nel febbraio 2004, in Italia è entrata in vigore una legge sulla procreazione assistita da molti giudicata troppo restrittiva e perciò oggetto di un referendum abrogativo che ha avuto esito negativo. Nel dibattito svoltosi all’occasione, spentosi in seguito, diverse voci femminili avevano attirato l’attenzione sul principale oggetto (soggetto?), ossia la donna, il corpo della donna, alcune per mettere in discussione una sottesa mistica della maternità che vorrebbe le donne pronte a ogni sacrificio pur di essere madri, altre per stigmatizzare la delega della procreazione alla scienza, ossia al potere istituzionale e maschile. Due posizioni critiche che, portate alle estreme conseguenze – rifiuto o esaltazione della maternità come momento costitutivo della natura femminile – non sono prive di contraddizioni, e ricordano del resto l’opposizione storica del femminismo italiano tra emancipazioniste e differenzialiste.

A pensare queste problematiche, attualizzandole e radicalizzandole, e cercando di uscire dall’impasse della dualità, è stato soprattutto il femminismo cyborg. Il testo di riferimento è Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985), pubblicato in italiano nel 1995. A differenza dell’utopia futurista, l’utopia femminista ispirata al pensiero di Haraway costruisce mondi e figure liberi da determinazioni di genere sessuale; è una ridefinizione dell’identità umana che «legge nella tecnologia potenzialità radicali di cambiamento per le donne in un’ottica che definisce di femminismo socialista postmoderno. Il/la cyborg è figura centrale della sua teoria, proprio in quanto ibrido di macchina e organismo che consente di superare le dicotomie tra umano e meccanico, natura e cultura, maschile e femminile, normale e alieno, psiche e materia» (Balestra).

Sulla scia di Haraway, la filosofa Rosi Braidotti ha riflettuto su come la donna possa non subire la scienza e la tecnica, ma usarle a proprio vantaggio, anche per confutare l’essenzialismo e l’assioma donna-madre. In particolare nei saggi Nuovi soggetti nomadi (2002) e Madri mostri e macchine (2005), Braidotti oltre a elaborare la proposta di un nuovo femminismo e di una nuova soggettività politica femminile, operanti in un contesto di tarda postmodernità segnato anche dalle nuove tecnologie, configura una rinnovata utopia della donna nuova, riassumibile in due formule: «meglio cyborg che dea» (Braidotti 1991) e «le femministe sono le donne post-donna» (Braidotti 2002, 121)[8].

Braidotti sostiene insomma che occorre pensare la donna in modo diverso, inventare nuove rappresentazioni, ridefinire modelli, codificazioni, appartenenze. L’identità di genere non è fissa e fissata una volta per sempre, ma trans, transitoria e molteplice. A partire da questi presupposti concettuali, si interroga sull’interconnessione tra corporeo e tecnologico, sulla mercificazione del corpo, sul corpo-macchina. E, ovviamente, sulla procreazione. Ovviamente, tanto più che nell’esaminare la recente produzione artistica di genere fantascientifico, un genere che prospetta mondi del futuro esprimendo quindi «l’inconscio politico» della nostra cultura, secondo la formula di Jameson da lei citata (Braidotti 2005, 37), Braidotti constata che «la fantascienza produce rappresentazioni di sistemi alternativi di procreazione e di nascita […]. Le nascite extra-uterine sono un elemento centrale dei testi di fantascienza» (Braidotti 2005, 44). Cosa scaturisce dall’inconscio politico della nostra cultura? Nei mondi futuri, ci sono corpi di donna-robot, amplessi donne-macchina, parti maschili, inseminazioni da parte di alieni…

Si potrebbe ribattere che anche nel passato emergevano fantasie ricorrenti di bambini o mostri o robot nati da uomo, dal suo corpo, dalla sua mente o grazie alle sue pozioni magiche o alle sue invenzioni: ieri come oggi, parte dell’umanità sogna di potersi riprodurre da sé e comunque fuori dal ventre femminile. Il problema è che oggi qualcosa è cambiato, non solo perché diventa possibile oltrepassare maternità e paternità incarnate, ma anche perché gli studi femministi e di genere hanno contribuito a consapevoli distinzioni tra appartenenza sessuale, orientamento sessuale, prerogative di genere. Il «tentativo di disimpegnare il bambino, il feto, l’embrione e perfino l’ovulo dal corpo della donna» (Braidotti 2005, 52), pensano alcuni, potrebbe avere un impatto positivo se mettesse fine all’esclusivo potere femminile di generare; l’identità femminile ancestrale, uterina e materna si sgretolerebbe:

«C’è anche un versante positivo della nuova interconnessione tra madri, mostri e macchine e questo versante ha a che fare con l’abbandono di ogni definizione essenzialista della femminilità e perfino della maternità. […] si potrebbe celebrare il declino del significato unico che si attribuiva alla esperienza della maternità come un segno di crescita della libertà femminile» (Braidotti 2005, 105)

Sul versante negativo dell’interconnessione tra carne e metallo, oltre a pratiche come la mercificazione dei corpi, la preselezione della progenie, la priorità della finalità riproduttiva sull’atto e sul piacere sessuale, Braidotti osserva – è questo un punto molto importante – un rovesciamento della situazione rispetto agli anni ’70, quando le donne sembravano aver preso il controllo della propria fecondità. Si chiede (retoricamente) se sia un caso che la scienza abbia compiuto progressi enormi nel campo della procreazione «esattamente nella fase storica in cui altri soggetti stanno lavorando alla ridefinizione della sessualità in termini differenti» (Braidotti 2002, 147). Di fatto, la riappropriazione femminile del corpo che ha caratterizzato il femminismo degli anni ’60 e ’70 è stata di breve durata perché soppiantata da sofisticate tecnologie, gestite da specialisti all’interno di appositi spazi. Lapidaria, Braidotti riassume: «Con la pillola antifecondativa possiamo fare sesso senza procreare, con le Ntr possiamo avere bambini senza fare sesso» (Braidotti 2002, 146).

Una decina di anni dopo, molto più severa, Sara Ongaro osserverà come «molte rivendicazioni femministe siano state integrate dal discorso scientifico come giustificazioni delle innovazioni [… e] hanno potuto probabilmente essere manipolate e strumentalizzate per un discorso per molti aspetti lontano, se non opposto, rispetto ai loro desideri di cambiamento» (Ongaro 2001, 43).

Tornando a Braidotti, un’altra sua riflessione, sulla connessione carne-metallo e sulle possibilità di ricambio delle singole parti del corpo con pezzi di laboratorio o di officina, ci riporta all’utopia marinettiana dell’uomo meccanico e moltiplicato. L’odierno sapere scientifico e razionale non ammette scarti dalla norma perché ha l’obiettivo di eliminare ogni possibile produzione difettosa, assecondando desideri di perfezione, di reincarnazione, di salute e di giovinezza eterna, spesso traducibili nella genesi di maschi sani di razza bianca. La riproduzione diventa produzione higt-tech. Per contrapporsi alla visione spaventevole di un’umanità perfetta generata dalla tecnica, Braidotti elogia la mostruosità, la difformità rispetto al canone, incoraggiando un uso deviato delle possibilità tecnologiche. Inoltre, se corpi e funzioni sono scambiabili, perché non possono esserlo anche le identità sessuali? Braidotti rivendica nuove forme identitarie come la transessualità, l’ibridismo, l’indefinito, la cyberdonna. E compie un ulteriore passo: se un utero vale una macchina, se un corpo vale un altro, perché non immaginare «Gravidanze maschili. Macchine femminili» (Braidotti 2002, 158)?

 

È un interrogativo che prendiamo come salutare provocazione più che come nuova utopia. I percorsi cyborg qui tracciati assolvono infatti un’utile funzione. Di fronte all’affermarsi del biopotere tecnologico, Haraway, Braidotti, Hoquet e altri si sforzano di pensare un’umanità nuova, reinventando, e incoraggiando a reinventare generi e attribuzioni di genere, a costruire identità plurime e mescidate, convinti che non abbia senso ancorarsi a malfermi ruoli secolari, e tantomeno non abbia senso rifiutare le nuove tecnologie. È interessante notare, tuttavia, che il corpus artistico su cui Haraway e Braidotti fondano le loro riflessioni è perlopiù di produzione anglosassone e di fine Novecento. Invece, in questi primi anni Duemila in cui sta diventando scientificamente possibile oltrepassare maternità e paternità incarnate, la questione della riproduzione fuori dal ventre femminile e della conseguente de-essenzializzazione della donna sembra, quantomeno in Italia, sottrarsi alla sfera della fantasia e dell’invenzione, per proporsi in termini politici, antropologici, sociali, etici, etc. L’impatto delle nuove tecnologie sui corpi ha dato luogo, e dà luogo, a dibattiti impregnati di convinzioni etico-religiose o di asserzioni scientifiche, mentre le creazioni dell’immaginario stentano ad appropriarsi della questione.

 

L’articolo completo, con bibliografia, è uscito sulla rivista Italogramma, Università di Budapest, vol. 9/2015: http://italogramma.elte.hu/articoli/letteratura-e-spettacolo/denaturalizzare-il-corpo-femminile-futurismo-e-femminismo-tra-utop

[1] Nostra traduzione dal francese.

[2] Alcune pagine del capitolo successivo, «Utopie futuriste», sono riprese, rimaneggiate, dal mio saggio «Procreazione e creazione: utopie del ventesimo secolo, biotecnologie del ventunesimo», menzionato in bibliografia, dove pure sono menzionati altri due lavori in cui affronto simili problematiche.

[3] Enif Robert, Maternità e economia, lettera pubblicata su L’Impero, 6 febbraio 1929.

[4] Il progetto di Arturo Blangino è interamente trascritto da Marinetti in «Orgoglio italiano rivoluzionario e libero amore», testo pubblicato dapprima su L’Ardito, n. 20, I, 1919, poi in Democrazia futurista, Milano, Facchi, 1919.

[5] Per uno studio più recente e scientifico sulla realizzabilità dell’ectogenesi e sulle implicazioni mediche ed etiche, si veda: Carlo Bulletti, Antonio Palagiano, Caterina Pace, Angelica Cerni, Andrea Borini, Dominique de Ziegler, «The artificial womb», in Annals of the New York Academy of Sciences, n. 1221, 2011, pp. 124-128. E si noti che gli autori dell’articolo, pubblicato in inglese in una importante rivista internazionale, sono fisiopatologi o tecnobiologi della procreazione che lavorano in strutture italiane e francesi.

[6] A favore della tecnoscienza e contro l’imperativo biologico si era espressa suscitando polemiche anche la francese Marcela Jacub, il cui saggio è stato prontamente tradotto in Italia: L’Impero del ventre. Per un’altra storia della maternità [2004], Verona, ombre corte, 2005.

[7] Sara Ongaro osserva che in Italia questo aspetto è sottaciuto, meno nei paesi anglosassoni dove non si nascondono gli enormi profitti che si possono ricavare e il grande vantaggio per l’avanzamento della ricerca. Peraltro, Ongaro ritiene che le tecnologie riproduttive siano un estremo caso di riproduzione convertita in produzione: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della riproduzione, Soveria Mannelli, Rubettino, 2001 (cf. in particolare il capitolo «La riproduzione tecnologica: dove sono sparite le donne?», pp. 27-43.

[8] Sull’utilizzazione delle nuove tecnologie a favore delle donne si veda anche il volume a cura di De Ruggieri e Puglies, Futura. Genere e tecnologie (2006) nella cui introduzione leggiamo che gli studi raccolti hanno l’ambizione di «presentare e analizzare il duplice significato che la tecnologia riveste per la soggettività femminile, nel suo essere allo stesso tempo strumento sia di negoziazione creativa dell’identità di genere e di azione politica di riforma delle concettualizzazioni di genere e di identità ; sia di esclusione e di reificazione di un’immagine stereotipata del femminile» (p. 10).

Quando piove ho visto le rane

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premiociampi2015poesie di Azzurra D’Agostino
disegni di Giga

[Vincitore del Premio Ciampi – Valigie Rosse 2015]

Questo libretto di poesia senza spiegazioni, avrà, credo, raggiunto il suo scopo se leggendolo, invece di pensare che manchino le spiegazioni perché vi vengono descritte cose evidenti, si pensi evidente l’assenza di spiegazioni perché esse il più delle volte non ci occorrono. Se il lettore si lasciasse tentare da una sensazione sperimentata da ciascuno di noi ma alla quale raramente concediamo udienza cosciente: la sensazione che il mondo ci venga addosso senza libretto d’istruzioni e che siamo circondati da una selva di atti onestamente inspiegabili; i quali, in un tempo meno arrogante del nostro, non si esitava a osservare con la dovuta meraviglia e a chiamarli misteriosi: gli umili misteri di ogni giorno, o quelli spaventosi e inebrianti dei pochi giorni in cui ci riveliamo a noi stessi e ritroviamo il bambino che eravamo, sempre lì, sempre in noi, a porre le sue geniali domande.

[dalla prefazione di Paolo Maccari]

 

Epepe, l’incubo di Babele

5

di Ornella Tajani

Nella sua mente sovraeccitata balenò il dubbio assurdo
che avessero tante lingue quanti erano

 

Epepe, scritto da Ferenc Karinthy nel 1970 e pubblicato da Adelphi nel 2015 (traduzione di Laura Sgarioto), è un romanzo labirintico costellato di piccole e immense paure collettive, nel quale ci si addentra con un senso di sfida che presto lascia il posto a una curiosità preoccupata.
L’autore ungherese, morto nel 1992, fu giornalista, scrittore e campione di pallanuoto, ma fu anche traduttore, e forse soltanto da qualcuno abituato a manipolare più lingue contemporaneamente ci si poteva aspettare la creazione di un incubo così assordante. Il protagonista Budai, professore di linguistica, conoscitore esperto di una decina di lingue, si ritrova di colpo in una città sconosciuta, in un paese che non riesce a identificare, dove non può comunicare in alcun modo con nessuno, dove si scrive in un alfabeto mai visto che somiglia vagamente alle rune gotiche e struttura un idioma in cui

le vocali erano mormorate e di colore variabile, le consonanti rauche e biascicate, accompagnate talvolta da suoni occlusivi simili a schiocchi di lingua. Quest’ultima caratteristica ricordava i click delle lingue degli Ottentotti e dei Boscimani dell’Africa meridionale, mentre la frequenza del nesso tl l’azteco centro-americano.

Pur con tutto il suo bagaglio di conoscenze, Budai non riesce nemmeno a decifrare il nome dell’unica persona con cui entra faticosamente in contatto: la ragazza che manovra l’ascensore del suo albergo, Epepe, ma forse Tete, o Bebebe. La pronuncia delle parole sembra cambiare ogni volta che queste vengono ripetute e il protagonista è costretto a sfoderare tutte le sue competenze, a fare appello a ogni reminiscenza linguistica per provare a indovinare, almeno, a cosa corrispondano «Io» e «Tu» in quel linguaggio arcano: «A Budai venne in mente che quella lingua non avesse pronomi personali. […] Ma erano compatibili i grattacieli e una coniugazione da età della pietra?».
In effetti i primi due pronomi singolari sembrano superflui all’interno del mondo che Budai impara a scoprire giorno dopo giorno: l’unico soggetto, la sola entità rilevante sembra essere la folla. Fiumane di persone popolano ogni spazio: i marciapiedi, i negozi, le stazioni della metro. Ci sono file interminabili per ritirare le chiavi delle stanze alla reception dell’albergo, per comprare cibo nelle tavole calde e persino per sedersi a riposare sulle panchine al parco. Nella massa l’individualità del protagonista inizia lentamente a sgretolarsi, proprio perché gli è precluso l’utilizzo della lingua, primo e principale strumento che l’essere umano possiede per manifestarsi come singolo all’interno di un gruppo.
L’individuo immerso per un certo tempo all’interno di una folla, scriveva Gustave Le Bon in Psychologie des foules, finisce per cadere in una condizione particolare che somiglia molto allo stato di fascinazione che l’ipnotizzato prova per il proprio ipnotizzatore. È ciò che succede, in parte, anche a Budai, che si ribella ma al contempo è sedotto dal movimento magmatico e imperscrutabile della massa che lo circonda. Il lettore empatizza con lui e in un primo tempo segue ammirato i suoi sforzi per farsi capire dagli altri, o per scoprire quanto meno in che parte del mondo sia capitato – e qui c’è da ricordare che negli anni ’70 Internet era soltanto agli albori, e che, in ogni caso, se anche ci fosse stata la possibilità di navigare on line, le tastiere dei computer avrebbero avuto per lettere quegli stessi incomprensibili caratteri alfabetici; a Budai non viene invece un’idea molto semplice, cioè quella di disegnare, anche sommariamente, un planisfero e provare a chiedere a Epepe di indicargli sulla cartina dove si trovano.
In un secondo momento, però, protagonista e lettore sembrano lasciarsi andare alla deriva, in una pigra e stremata complicità: la rabbia cede il posto alla rassegnazione, all’interno della quale la curiosità per l’ignoto e l’istinto di sopravvivenza balenano come lampi sempre più sporadici. Prigionia, amore, fame, malattia, guerra, tutto si annienta in una dimensione opaca, in cui ogni azione è lenta e farraginosa, ogni angolo è saturo di umanità indistinta, ogni cibo ha lo stesso sapore dolciastro e uniforme.
Nella bella prefazione all’edizione Adelphi, Emmanuel Carrère spiega perché si tratta di un’opera che si è tentati in molte occasioni di definire kafkiana, sebbene non lo sia per via del rigore con cui è tratteggiato ogni dettaglio e, forse, per via del fatto che Budai conserva fino alla fine, nonostante tutto, dei bagliori di lucidità; non è kafkiana perché la speranza non sparisce mai dalla vista ma continua timidamente a luccicare all’orizzonte.
È un romanzo che sarebbe piaciuto a Georges Perec, scrive ancora Carrère, il quale sapeva apprezzare «l’histoire avec une grande hache», l’acca maiuscola che è anche un’ascia senza pietà. Eppure, nella presenza incessante di una folla ambigua, ora minacciosa ora sinistramente protettiva, e nell’utilizzo di tonalità narrative dal gusto postmoderno, Epepe preconizza forse anche alcuni motivi dell’opera di DeLillo. «Il futuro appartiene alle folle» si dirà in Mao II, e quello rappresentato in questo romanzo di Kartinhy somiglia parecchio a un incubo collettivo che, come buona parte degli incubi, sfugge a ogni troppo rigida interpretazione.

les nouveaux réalistes: Ivan Ruccione

2

ruccio

Stabat Pater

di

Ivan Ruccione

Papà era fatto di suoni. Era il trillo della prima sveglia, l’urlo della cinghia sotto il cofano. Papà era tutto quello che veniva un’ora prima della mia vita, brevi tuoni di realtà in mezzo ai sogni. Se ne andava lasciando un bacio sulla mia fronte, che avvertivo di rado, e quando i miei piedi calpestavano lo scendiletto lui stava già timbrando. Nessuno sapeva più niente dell’altro fino al tardo pomeriggio, ma non importava; le mie giornate erano le giornate di uno scolaro e le sue giornate erano le giornate di un magazziniere e i nostri stati d’animo pressoché uguali.

Tornavo da scuola e mamma chiedeva com’era andata mentre mi scaldava la pastasciutta al microonde. Rispondevo sempre “bene” anche se mi ero annoiato a morte, perché col tempo ho capito che se gli ingranaggi della routine girano senza incepparsi vuol dire che è stata una buona giornata. Dopo aver finito di mangiare mettevo il piatto nel lavandino, tenevo un poco tra le mani la tazzina ancora tiepida dove papà aveva bevuto il caffè e poi andavo in camera.

Intorno alle 17.30 c’erano lo scatto del cancello automatico che si apriva, il ronzio delle ruote che correvano adagio lungo il binario, le tre manovre nella stretta via per poter entrare in retro in cortile, tutti suoni con i quali il babbo faceva giungere il mio cuore a un parossismo vulcanico.

Ma mento se riduco la mia eccitazione a questi soli suoni feriali e prossimi al crepuscolo, perché a fare loro compagnia, la sera, c’era la voce che mi leggeva i passi dei libri che amava, tra un bicchiere di vino e l’altro, e poi c’era il canticchiarmi all’orecchio “Lontano lontano” di Tenco quando, le domeniche di sole, lui sul sellino, io in piedi sulla pedana e le mani aggrappate alle curve del manubrio, vagavamo con il Ciao nelle stradine della campagna lomellina, tra risaie e campi di granoturco, le verdi acque delle rogge.

Adesso papà non c’è più. Se n’è andato di casa quattro anni fa e lo vedo poco. Se n’è andato perché beveva troppo e mamma si è stufata. Papà, nonostante i problemi con l’alcol, non ha mai dato in escandescenza. È un tipo placido, timido e malinconico. Passava quasi tutto il suo tempo libero a leggere, ascoltare musica e bere, e beveva per tentare di sciogliersi e risollevarsi, ma la malinconia e la timidezza non gli davano mai tregua, erano blocchi di materia insolubile che lo schiacciavano a letto. Non ho mai sentito litigare i miei vecchi, solo discutere la domenica in cui siamo caduti dal motorino e mi sono rotto un braccio.

Papà se n’è andato il giorno dopo, senza fare storie, in silenzio, come un pupazzo di neve che deve arrendersi all’evolversi delle stagioni.

Ieri ho bigiato la scuola, ho preso il treno e sono andato a trovarlo. Alloggia nel reparto protetto di Villa Rosa, un ospedale psichiatrico di Modena. È il suo secondo ricovero in quattro anni, tutti e due spontanei e con l’assenso di uno specialista. Eravamo un po’ preoccupati per il primo fallimento, ma l’equipe terapeutica della struttura ci ha detto che è frequentissimo ricadere nel vizio dopo la prima degenza.

Sono salito al secondo piano e ho suonato il campanello. Mi hanno chiesto chi fossi e io gli ho risposto e hanno schiacciato l’interruttore per aprire la porta. L’infermiere dietro il vetro della portineria era Jimmy, un ragazzo di colore molto alto, con i dreadlocks e un sorriso imperituro. Ci siamo stretti la mano e ci siamo chiesti come andava e abbiamo detto “bene”.

In camera papà non c’era. Ho salutato Gianfranco, il suo compagno di stanza, che vive a letto perché si è frantumato le ossa e le budella dopo aver tentato il suicidio dal quarto piano di un palazzo. Ho dato un’occhiata nei corridoi e poi sono sceso in giardino. Papà era lì coi suoi nuovi amici, seduti sulle sedie di plastica bianca. Quando mi ha visto si è alzato di scatto, ha spalancato le braccia ed è corso a stringermi. Ci siamo tenuti ben stretti per una ventina di secondi e poi mi ha presentato Cristina, Sergio e Tommaso. A parte lo stomaco gonfio, i tremori delle mani e qualche capello bianco in più sulle tempie, papà mi è sembrato piuttosto in salute. Si è avvicinato un signore sulla sessantina, con le scarpe scalcagnate e l’andatura da zombie, che fino a un momento prima stava seduto in un angolo a parlare da solo, e mi ha chiesto una sigaretta. Papà e gli altri amici lo hanno cacciato in malo modo e ho chiesto loro perché. Mi hanno risposto che ha il comodino pieno di sigarette perché i suoi familiari gliene portano una stecca alla settimana e ciononostante va avanti a scroccare. Poi io e papà abbiamo salutato gli astanti, siamo saliti da Jimmy e con il suo permesso siamo usciti dall’ospedale.

Abbiamo preso l’autobus e siamo scesi in centro. Ci siamo fermati a pranzare “da Danilo” e abbiamo preso dell’acqua gassata, del crudo con lo gnocco fritto e poi dei ravioli di magro. Tutto molto gradito. Mi ha chiesto come andava a scuola e con mamma, e io ho risposto sempre “bene”. Poi gli ho chiesto io come andava e lui ha risposto alla stessa maniera, e ha preso a spiegarmi di che disturbi soffrono i suoi nuovi amici. Cristina, se non ricorda male, è un cardiochirurgo con un master a Boston che soffre di depressione per aver subito violenze carnali da bimba, e tutte le volte che si mette a piovere sta a letto con le coperte fin sopra la testa finché torna il sole; Sergio è uno scappatodicasa con problemi di alcolismo e Tommaso è lì per darci un taglio con l’eroina.

Finito di pranzare abbiamo fatto una passeggiata. C’era un bel sole e abbiamo cantato Tenco. Siamo andati in libreria e papà ha preso Cheever e ho dovuto insistere per regalarglielo. Dopo un po’ ha detto che doveva rientrare, così abbiamo preso l’autobus e siamo tornati a Villa Rosa. L’ho accompagnato in reparto e Jimmy gli ha dato il contenitore per la raccolta delle urine per controllare che non avesse bevuto alcolici. Ho aspettato che andasse in bagno, consegnasse il contenitore a Jimmy e poi ci siamo abbracciati forte per salutarci.

Alla sera sono arrivato a casa, ho dato un bacio a mamma e sono andato a letto senza appetito. Ho portato con me alcuni libri, i libri di papà, come faccio sempre prima di dormire, e ho iniziato a sfogliarli per scegliere quale leggere. Ho scorso i lemmi che papà non conosceva, da lui elencati a matita sui risguardi, e mi sono perso a cercare i significati sul dizionario.

Il cancello automatico, quando si apre, fa lo stesso suono. Ma ad aprirlo ora è Carlo, il nuovo compagno di mamma. Ora che lo sento, d’istinto un ricordo mi fa sussultare di gioia, ma dura un attimo. Carlo entra, saluta mamma, apre la porta della mia camera e ci salutiamo allegramente. È un bravo uomo, ma mi dà noia questa allegria forzata.

L’altro giorno ho parlato con mamma e le ho detto che mi sembra di non avere più niente nella vita, e lei ha detto che non è vero, se mi sembra niente avere diciotto anni e un mare di libri da leggere, e forse ha ragione. Eppure mi pare di non sentire più niente perché non ho più niente da sentire, e così me ne sto notte e giorno sotto le coperte, a riposare, come della frutta raccolta ancora acerba.

Giulio Regeni

3

di Giuseppe Acconcia

Giulio Regeni e la compagna egiziana Shaimaa el-Sabbagh, scomparsa un anno prima mentre portava una rosa in piazza Tahrir, avevano molte cose in comune. La poetessa e attivista socialista fu uccisa da un alto funzionario della polizia egiziana a due passi dalla piazza che fu il centro delle rivolte del 2011. Anche Shaimaa aveva passato anni della sua vita con i lavoratori e nelle fabbriche egiziane, così come Giulio si stava occupando di movimenti sindacali. Entrambi avevano visto nel sogno di piazza Tahrir una possibilità di riscatto senza precedenti per il popolo egiziano e in particolare per i diseredati e i lavoratori: tra i protagonisti delle rivolte di cinque anni fa. Entrambi condividono poi una stessa formazione marxista. Giulio ha applicato le teorie di Antonio Gramsci alle sue ricerche sui movimenti di piazza del 2011 e in particolare al movimento operaio in Egitto.
Oltre questa linea non è possibile andare per tracciare un parallelo tra Shaimaa e Giulio perché il dottorando italiano non era un’attivista e la giovane poetessa egiziana sì. Giulio non faceva politica in Egitto ma ne seguiva semplicemente le dinamiche. Giulio era uno dei più brillanti studiosi dell’Università di Cambridge. Da studioso marxista, si era occupato da tempo dei movimenti operai in Medio oriente. A 17 anni era andato a studiare in New Mexico per poi trasferirsi in Gran Bretagna. Nel 2012 e nel 2013 ha vinto due premi al concorso internazionale dell’Istituto regionale di studi europei per ricerche sul Medio Oriente. Da mesi si era trasferito al Cairo per condurre la sua ricerca dottorale.

Omicidio e tortura di Giulio Regeni
Secondo le autopsie egiziana e italiana Giulio è morto per un colpo alla testa. Il suo corpo riportava segni evidenti di molestie e torture. Una prima ricostruzione ha identificato nelle pratiche sommarie della polizia egiziana le responsabilità dell’accaduto. È possibile che Giulio sia stato fermato solo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Secondo fonti di Intelligence, il dottorando italiano potrebbe essere stato arrestato non lontano da piazza Tahrir in una retata che ha coinvolto altre 40 persone. È possibile che a quel punto siano emersi gli ambienti che frequentava per motivi di ricerca. I sindacati sono infiltrati dall’Intelligence militare e alcuni dei suoi contatti potrebbero aver passato informazioni alla polizia. È possibile che Giulio fosse già sotto controllo perché subito dopo la diffusione della notizia della sua scomparsa, alcuni giornali locali avevano già dato notizie precise sulle sue attività di ricerca.
Secondo Mona Seif, attivista e sorella del noto attivista in prigione Alaa Abdel Fattah, ci sono motivi precisi per cui si è saputo solo alcuni giorni dopo il motivo della sparizione del giovane. «In casi di sparizione forzata spetta alle persone più vicine allo scomparso di stabilire se ci deve essere una denuncia pubblica oppure o no. Molti preferiscono tenere le cose nascoste, aspettare che si calmino le acque e intanto attivare l’ambasciata e la Sicurezza di Stato per sapere se sono stati ritrovati cadaveri o ci sono feriti gravi ricoverati». Secondo Mona, Giulio sarebbe stato vittima della xenofobia diffusa nel paese. «Ci sono arresti sommari continuamente. Se qualcuno sente parlare due persone non in arabo avverte la polizia dicendo che sono delle spie. E questi arresti possono finire con detenzioni e torture, come è avvenuto con Giulio. Il giorno prima era stato fermato un americano e accusato di diffondere notizie false». La piaga dei desaparecidos in Egitto colpisce migliaia di persone. «Gli eventi e le morti si mischiano ormai e risalire ai responsabili è sempre più complesso. Ci sono tanti casi di persone scomparse, questo succede non tanto per il loro impegno politico ma perché la polizia è fuori dal controllo dello Stato. Ormai la polizia deve ricevere ordini speciali perché non ci siano torture. È possibile che lo abbiano fermato inizialmente solo in quanto straniero», ha aggiunto Mona.

Le reazioni alla morte di Giulio Regeni
«La morte di Giulio Regeni è un attacco alla libertà accademica», lo scrive Neil Pyer dell’Università di Coventry. Il docente racconta direttamente della sua amicizia con Giulio e dei rischi che il giovane ricercatore si è sobbarcato nel partire per l’Egitto senza un adeguato sostegno delle istituzioni accademiche.
Neil spende parole di dolore per le condizioni atroci in cui è stato rinvenuto il cadavere. La docente dell’Università di Cambridge, Anne Alexander, e la sua supervisor, Maha Abdel Rahman, hanno firmato un appello per chiedere verità per Giulio. Ma l’intero mondo della ricerca e dell’accademia è insorto ieri per la morte di Giulio Regeni. In particolare, gli accademici Usa della Middle East Studies Association (Mesa) hanno inviato una lettera durissima alle autorità egiziane in cui chiedono di fare luce sulle cause della morte del dottorando italiano dell’Università di Cabridge con un’affiliazione con l’Università Americana del Cairo (Auc). Una lettera è stata scritta dalla Società italiana per gli Studi sul Medio Oriente (Sesamo). «Chiediamo al governo (egiziano, ndr) un’indagine imparziale e completa sulla morte di Giulio Regeni», ha scritto Mesa. «Il clima di repressione e intimidazione nel quale i colleghi in Egitto – egiziani e non – lavorano sta continuanda a peggiorare», si legge nella missiva indirizzata al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Nella missiva si fa riferimento direttamente all’«assassinio» di Giulio. Nei soprusi citati dagli orientalisti Usa si citano episodi di molestie e diniego di ingresso nel paese, interferenze grossolane nelle attività di ricercatori e facoltà, l’espulsione di centinaia di studenti e le condanne a morte di accademici.
Una presa di posizione così dura conferma una volta di più la rilevanza accademica delle ricerche di Giulio Regeni. Una generazione di giovani ricercatori sempre più indifesi, costretti ad utilizzare pseudonimi e direttamente arrestati. È il caso di Michelle Dunne del Carnagie Endowment for Middle East Peace, arrestata mentre cercava di entrare in Egitto, per le sue ricerche che puntavano direttamente il dito contro il regime militare di al-Sisi. Provvedimenti simili sono stati presi contro ricercatori arabi.

I meriti accademici
Dal sindacalismo tunisino, ai movimenti operai egiziani, dalla sinistra filo-curda del Partito democratico dei Popoli (Hdp) in Turchia all’autonomia democratica di Abdullah Ocalan, messa in pratica in Rojava: le rivolte del 2011 non hanno solo aperto il vaso di Pandora dell’islamismo politico in Medio Oriente ma anche dei movimenti di sinistra. Giornalisti attenti come Jack Shenker che ha appena pubblicato il libro Gli egiziani una storia radicale lo raccontano benissimo. La rivolte del 2011 sono state una rivoluzione proletaria che poteva mettere in discussione l’assetto del capitalismo egiziano fondato sulla proprietà delle fabbriche da parte dell’élite militare.
Quest’anima sociale dei movimenti era profondamente preoccupante per la giunta militare e continua ad esserlo al tempo del regime militare di al-Sisi. Subito dopo le rivolte del 2011 i primi a sapersi organizzare sono stati proprio i sindacati indipendenti. E come spiegano benissimo studiosi come Joel Beinin e James Gelvin i maggiori cambiamenti politici non sono avvenuti in concomitanza con le grandi manifestazioni di piazza ma con i picchi negli scioperi delle fabbriche egiziane.
Questo faceva della ricerca di Giulio Regeni in Egitto un vero atto rivoluzionario per le condizioni di sicurezza e per l’importanza dell’analisi sui sindacati. In altre parole studiosi come Giulio stavano indagando come il movimento che si stava formando in piazza Tahrir e le sue domande sociali siano state fermate con l’impiego di un populismo pseudo neo-nasserista.
Questa è stata la strategia che l’esercito ha scelto per prevalere sulla popolarità dell’islamismo politico che aveva vinto la sfida delle urne. Lo scopo era di neutralizzare il potenziale rivoluzionario dei movimenti di sinistra, operai e delle opposizioni. Ma sembra chiaro che di questo non si può parlare in Egitto e per questo il coraggio dimostrato da Giulio sarà essenziale per dimostrare la vitalità dei movimenti egiziani. Chiediamo che sia fatta piena luce sulle cause della scomparsa, sulla morte e tortura di Giulio Regeni.

Ilio (o il bar dell’incrocio)

1

di Gabriele Drago

Quel pomeriggio mi ritrovai a camminare scalzo sulla vecchia mulattiera abbandonata.

La strada percorre tangente il paese e arriva precisa all’incrocio dove avrei dovuto incontrare Ilio per il caffè della domenica. È ormai chiusa al traffico e tra le pietre incastonate a terra è germogliata l’erba.

Se prendi questa strada, cinque minuti ci vogliono per arrivare al bar dell’incrocio. Passa proprio accanto alla piazza del Giudice, non c’è traffico e puoi anche camminare scalzo perché le pietre di basalto sono pulite e lucide e nessuno ti talìa, come diceva Ilio.

Il bar dell’incrocio è modesto e da quelle parti non passa molta gente. I clienti sono pochi, vanno e vengono in fretta, con gli occhi sfuggenti, senza salutare.

La prima volta che mi fermai al bar dell’incrocio fu per caso. Tornavo esausto da un lungo viaggio di lavoro. La stanchezza mi aveva messo addosso anche una certa tristezza ed entrando al bar riuscii solo ad accennare un sorriso per la cortesia del salutare.
Mi accasciai sul bancone, chiesi un caffè a Ilio e lui, svelto e sorridente, completamente a suo agio nelle piroette che compiva passando dalla macchina al bancone, mi piantò il caffè sbattendolo sul lastrone di marmo che quasi la tazzina non si spaccava. Poi si girò di spalle e io bevvi il caffè in silenzio.

Feci in fretta. Quel modo così grossolano di servire i clienti mi aveva irritato. Lasciai gli spicci sul tavolo, salutai senza essere ricambiato e uscii dal bar per mettermi di nuovo in macchina.

Poco dopo aver lasciato il bar dell’incrocio, durante il tragitto fino a casa, mi successe qualcosa che non riesco bene a descrivere. Sentii crescere in me una specie di potenza, di energia. Mi si rilassarono i muscoli del viso, la pelle divenne più chiara, più liscia, mi sentivo forte e pulito, presente, attento. Quando arrivai a casa avevo ancora il sapore del caffè in bocca e un vigore del tutto nuovo tanto che a mia moglie venne il sospetto che forse in quei due giorni fossi stato in vacanza invece che a lavoro.

Le strinsi i fianchi, la portai in camera da letto e facemmo l’amore per tutto il pomeriggio, come venticinque anni fa.

«Può mai essere che un caffè mi abbia rimesso al mondo in questo modo?», pensai quando mia moglie mi lasciò solo sul letto.

Non conoscevo ancora Ilio. Dietro i suoi modi semplici nascondeva una complessità nera e potente come le miscele che preparava.

Tornai al bar dell’incrocio il giorno seguente ma era chiuso come se fosse chiuso da chissà quanti anni. La porta era impolverata e le tendine ingiallite. Dietro i vetri opachi si poteva leggere un breve messaggio su un cartellino storto appeso lì quasi per caso: “ogni domenica, dalle cinque alle”.

Mi capitò infatti di tornarci la domenica successiva che erano le cinque e dieci e l’avevo trovato chiuso. La domenica successiva ancora alle cinque in punto ed era aperto. Ci tornai ancora, sempre di domenica, alle cinque e venti ed era aperto, la domenica successiva alle cinque e un quarto ed era chiuso.

Insomma “dalle cinque alle” significava che era meglio arrivarci alle cinque precise se volevi trovare il bar dell’incrocio aperto e Ilio disponibile a sottoporti la miscela giusta.

Di questa somministrazione ragionata io ne sono quasi dipendente ormai. Ilio mi aveva iniziato ai misteri del caffè e avviato a mia insaputa ad un percorso spirituale lungo e difficile ma necessario a detta sua.

Infatti, se fino a prima di conoscere Ilio mi reputavo una persona forte e coraggiosa, adesso non ho più certezze e anche le cose più innocue possono mettermi in crisi. Basta una parolina detta male da qualcuno che mi partono lunghi concatenamenti di immagini e riflessioni disordinate su me stesso, sul perché dell’esistenza e sul significato delle cose. Mi si fa il respiro corto, frullo talmente tanto di cervello che sembro fatto di solo pensiero, un ramo che si spezza a un chilometro posso sentirlo e sto sempre all’erta per il timore che ho di abbandonare definitivamente il mio corpo.

Queste sensazioni scomparivano quando prendevo il caffè di Ilio però. Dopo pochi sorsi la mia mente si fermava, tornavo a essere tutto in uno e potevo vedere chiaramente me stesso e il mondo con una comprensione pressoché infinita.

Ilio sosteneva che le mie crisi sono necessarie se voglio capire a fondo la realtà delle cose. La pratica del caffè è come un’operazione chirurgica, serve a sradicare anni di false credenze ed è normale che sia doloroso.

Il caffè aiuta ad avere la concentrazione giusta e a trovare un punto saldo da cui osservare il flusso delle sensazioni senza farsi coinvolgere. Accedere alla realtà delle cose senza l’aiuto del caffè sarebbe come lanciarsi in battaglia con una spada non affilata.

Ilio diceva anche che un giorno, molto presto, avrei trovato un punto di una fermezza assoluta dentro me stesso, un punto saldo, immobile, dove avrei coinciso perfettamente con i miei desideri reali e i miei bisogni più profondi. Avrei trovato la pace vera, il nirvana, diceva Ilio, e non avrei avuto nemmeno più bisogno del caffè. Ma fino a quel giorno non avrei dovuto saltare mai una domenica al bar dell’incrocio perché interrompere la pratica sarebbe stato molto pericoloso.

Quella domenica perciò dovevo andare al bar come ogni domenica da qualche mese ormai, ma un non so cosa si introdusse in me come una possessione diabolica, scuotendomi e rimescolandomi tutto che non ci capii più nulla di me stesso, del mondo e di ciò che mi stava succedendo. Quella domenica al bar dell’incrocio ci arrivai per fortuna, senza sapere come.

Ricordo che camminavo scalzo su quella strada vecchia perché, poco dopo pranzo, fui costretto ad allontanarmi dalla veranda per digerire sia l’abbondante pasto e sia certi discorsi che avevano compromesso la mia delicata peristalsi.

Da quando ho cominciato la pratica ho anche problemi di digestione. Ilio diceva che sono dovuti ad anni di abitudini scorrette nel modo di pensare e che alla fine del percorso non avrei dovuto più soffrirne. «Ogni nostro pensiero», diceva Ilio, «coincide con un punto del corpo e questi disturbi digestivi non sono altro che una reazione psicosomatica. Quando per mezzo del caffè avrò sciolto tutti i nodi che irrigidiscono la mia mente anche il corpo troverà sollievo», sosteneva Ilio.

Intanto come palliativo camminavo scalzo sulle pietre lisce della mulattiera perché, sin da piccolo, avevo scoperto che procurano un massaggio sotto i piedi e, ammorbidendo l’intero corpo, per un po’ la collera che stringe lo stomaco fluisce verso gli argini della strada, tra le fessure dei muri a secco.

Perciò mi tolsi le scarpe. Trattenevano i miei piedi gonfi come io durante il pranzo trattenni certe parole soffocandole in gola con grossi bocconi di pastasciutta. Bocconi avvelenati questi, che contribuirono senz’altro a impegnare oltremodo il mio intestino.

Ilio me lo diceva sempre, «la prima digestione avviene nella bocca», «e mangia lentamente, gustandoti il cibo in un posto silenzioso e rilassato prima di bere il caffè».

Quella domenica però, durante il pranzo, un continuum di rumore sollecitava il mio sistema nervoso.

Fu una difficile domenica in famiglia. La morte della nonna aveva scavato crepe profonde e ogni parola pronunciata in quel pranzo sgretolava in nostri rapporti in frantumi asimmetrici e taglienti. I miei parenti avevano aperto una faida tirando fuori le armi della memoria e tutti, figlie, zii e nipoti, si tolsero talmente tanti sassolini dalla scarpa da costruire solidi palazzi di colpa dentro i quali rinchiudere chi non aveva assolto agli obblighi indiscutibili dell’istituzione famigliare. Quella domenica, tra un boccone e l’altro, ognuno si difendeva nel tribunale messo su in veranda. Tutti erano allo stesso tempo giudici e imputati, si creavano fazioni e scissioni interne, si votavano mozioni, mentre il cibo masticato sfuggiva dalle fauci inferocite impastato a parole avvelenate.

Da come mi aveva istruito mia moglie sapevo che il pranzo avrebbe assunto delle pieghe pericolose per il mio intestino. Ilio diceva che non dovevo farmi coinvolgere troppo dalle cose, che sono un tipo emotivo e lo stomaco ne risente. Certamente mi ero fatto prendere dal circolo di quelle male lingue ma poi ci aggiunsi il bis del primo e il bis del secondo e a prescindere dalle emozioni il mio stomaco ne avrebbe risentito comunque, forse.

Ero ancora all’inizio della pratica e dubitavo di tutto come non avevo mai dubitato. Anche della pratica stessa dubitavo ma non potevo farne a meno. Tutto mi sembrava così assurdo che non sapevo più quali fossero le cause effettive del mio malessere e maledicevo il giorno in cui mi ero fermato al bar dell’incrocio. Tuttavia, quando prendevo il caffè di Ilio, trovavo sul serio per un momento la pace e questo rafforzava in me la volontà di proseguire il percorso con lui.

Quella domenica a pranzo non capivo se i dialoghi ai quali assistetti furono solo giochi sofistici oppure se l’urgenza di provare la propria innocenza prudeva sulla lingua e veloce univa il pensiero con la parola.

In anni di convivenza non avevo mai visto applicare tanta logica a mia moglie nel dedurre le cause dagli effetti. Mia cognata creò trame così perfette da descrivere l’animo umano come romanzieri dell’ottocento.

Mai avevo assistito a tanta onestà. Dalla bocca di mia suocera, donna all’antica e severa, uscì addirittura un “minchia fricuniata” talmente appassionato che sembrava fosse l’etichetta definitiva per descrivere quell’uomo “scunchiurutu” che aveva sposato sua figlia: io.

Non reagii a nessuna provocazione, mangiavo convulsamente le mie portate con gli occhi bassi anche se la fame mi era passata. Nel frattempo i bambini urlavano rincorrendosi tra le sedie, la zia urlava rincorrendoli tra le sedie, tutti gli altri urlavano scivolando e riaggrappandosi alle sedie. Le parole si mescolavano al frinire delle cicale e le sedie erano l’unica cosa stabile, silenziosa e rilassata in quel pranzo insano.

Le voci di suocere e mogli e cognati e figlie si intrecciavano in retoriche complesse corredate di prove, documenti e tabelle d’ospedale. L’eredità della nonna defunta passava di mano in mano e i notai erano pronti a firmare ovunque si poggiasse il merito.

L’istruttoria proseguiva incalzante. Quanto e come? Chi era stato vicino alla nonna durante la malattia? Quanto era costata la casa di riposo? Quanti minuti al giorno e quanti giorni a settimana togliendo le domeniche, gli impegni di lavoro, la noia, la partita, la febbre, avevi trascorso con la nonna, con la mamma, con la figlia? E poi dov’eri nel momento del bisogno? Pensi di meritare la rendita, il lascito, l’eredità e addirittura l’amore dei figli?

A queste domande i corpi dei parenti reagivano con brevi sospiri che si bloccavano nell’addome e spalancando gli occhi interrogavano la corte e loro stessi con un maiuscolo e stupefatto «io?». Non era possibile infatti che esempi di tanta abnegazione potessero mai apparire fallibili. Ognuno aveva di sé un’immagine perfetta e integerrima che riassumeva tutte le qualità morali necessarie per essere non uomini ma dei.

La veranda era diventata un Pantheon ma la realtà era che a nessuno andava di occuparsi della nonna senza allo stesso tempo volgere un pensierino alla casa al mare, agli appartamenti dati in affitto in città, al conto in banca, ai vitigni di contrada Nissoni che la nonna visitava mensilmente e appena qualcuno toccava questo punto debole ma reale, insinuando negli altri l’infamia di un calcolo utile sulla pelle della nonna, succedeva il putiferio.

Dal canto mio, quel giorno, pensavo solo di dover andare al bar dell’incrocio entro le cinque e a dir la verità non me ne fregava nulla di tutte quelle storie. Io amavo veramente la nonna e per quanto mi riguarda si potevano prendere tutto.

Il mio stomaco era ormai rigido e gonfio. Sapevo che quel pranzo mi avrebbe fatto male, mia moglie me lo aveva detto.

Infatti, prima che arrivassero i parenti, avevo chiuso le persiane della camera da letto per non disperdere il fresco. Avevo preparato un rifugio d’ombra per tenere a bada il mostro che si sarebbe accovacciato presto nella pancia.

Misi il condizionatore a quindici, poi lo abbassai fino a dieci e cominciai a pregustare quel dolce assopimento che cala zavorrato da un ventre pieno e soddisfatto. Una sorta di ricompensa per essere riusciti a strafogarsi di cibo nel caldo mezzogiorno d’estate. Inoltre Ilio diceva che il pisolino prima del caffè prepara alla purificazione e io seguivo precisamente le indicazioni di Ilio.

Questo progettino semplice ma concreto, mi aiutava a sostenere qualunque offesa durante il pranzo. Dopo mi sarei alzato e sarei andato a incontrare Ilio al bar dell’incrocio. Purtroppo, però, un vile sabotaggio del programma mi costrinse a dileguarmi dalla veranda prima del previsto come un ninja obeso che agisce nell’oscurità.

Successe che le mie due cognate, senza avermi consultato, decisero che i bimbi dovessero rimanere a giocare rinchiusi in camera mia. Io provai a ribellarmi facendo appello al mio sacrosanto diritto al riposo ma le mie proteste sembrarono lallazioni infantili senza senso e vennero ignorate immediatamente. Dovetti rassegnarmi alla loro decisione e capii solo dopo che l’occupazione della mia camera faceva parte di un disegno strategico per tenermi sveglio fino al momento della sentenza che mi toccava.

Appoggiato quindi impotente al muro della veranda osservavo senza intervenire il teatro tragico della mia famiglia.

Cominciai a sudare, il battito cardiaco mi era aumentato, il baccano intorno mi faceva girare la testa e dovevo sforzarmi per capire chi dicesse cosa a chi.

Solo quando il medio tra i tre fratellini che ronzavano intorno al tavolo si fermò con il triciclo di fronte a suo papà, nella veranda calò per un attimo il silenzio.

Dalla sua piccola boccuccia apprendemmo che zio Antonio piscia seduto come le femminucce e che il portiere e la mamma si erano abbracciati nell’ascensore per tutto il tempo del black out.

Dopo questa sparata una specie di terrore paralizzò i nervi dei parenti perché, sebbene tutti eravamo interessati ai fatti privati di ognuno, nessuno era in grado di sostenere anche quell’arbitrio così genuino in una battaglia che già di suo andava per colpi bassi.

Per cui, tra risatine sotto i baffi e sguardi taglienti che si incrociavano come sciabole, i bambini vennero deportati tutti in camera mia affinché potessero giocare, menarsi e urlare senza disturbare il gioco dei grandi.

È vero però che i grandi non stavano giocando perché non rispettavano nessuna regola e un gioco senza regole, oltre a non essere un gioco, è altrettanto vicino alla natura dei capricci infantili.

I grandi si ritrovarono a esser seri, seri e angosciati come quando si perde la fede, come quando le credenze traballano e i legami certi dell’amore in famiglia mostrano il meccanismo dell’incaprettamento.

Sembrava infatti che le nostre cure reciproche mascherassero da sempre una logica dell’interesse secondo la quale al tempo e all’affetto donato bisognava ricambiare con maggiore affetto, maggiore tempo o maggiore quota d’eredità.

Non ci si poteva più fidare. Chi ti aveva accarezzato, abbracciato, baciato, sorriso, adesso ti stringeva la corda al collo in una specie di bondage morale.

La situazione degenerava irrimediabilmente. I discorsi erano come dei maiali che cercano di pulirsi rotolandosi nel fango.

Solo l’arrivo del caffè, per un lungo momento, diede loro l’idea di un fronte comune. La miscela era un regalo straordinario di Ilio. Di solito lui non voleva che il suo caffè uscisse dal bar dell’incrocio ma questa miscela me l’aveva regalata per il mio compleanno. «È una miscela leggera questa, da bere in famiglia», disse quella volta Ilio.

Quando mia moglie arrivò con il vassoio l’attenzione di tutti passò dal dettaglio del delitto alle tazzine colme e traballanti. Zia Franca e Giada, la nipote, dal disordine cieco della furia si ritrovarono a collaborare per far spazio sul tavolo e Domenico smise di calare pugni. Come sosteneva Ilio, «il caffè invita alla meditazione e al discernimento, all’armonia e all’equilibrio».

Anche se era una miscela leggera io non presi il caffè, aspettavo di andare al bar. La pratica prevedeva dei momenti ben precisi e situazioni supervisionate. Loro invece si avvicinarono tutti al vassoio e con gli occhi bassi si passarono di mano in mano lo stesso cucchiaino per mescolare lo zucchero al caffè. Il caffè gli concesse una tregua che disciplinò l’isterico sbracciare nei movimenti attenti, delicati e silenziosi del portare la tazzina alle labbra e da villani quali erano divennero dei lord. La loro mente, fino a un momento prima in preda all’angoscia di dover difendersi o attaccare, fu risucchiata nell’attenzione esclusiva di quella sensazione bollente e pastosa che si inoltrava per tutta la bocca. Il caffè aprì una dimensione condivisa di piacere riportando la calma nell’assemblea e quando ripoggiarono le tazzine sul tavolo erano visibilmente cambiati.

Ci furono addirittura delle scuse, qualcuno riconosceva di aver esagerato, qualcuno comprendeva la noia di dover trascorrere l’unico giorno libero della settimana nella sala d’attesa del dottore per accompagnare la nonna.

Due cugini si spostarono dalle sedie alle sdraio, lo zio accasciato sul dondolo si alzò la camicia dandosi delle piccole pacche compiaciute sulla pancia. Nessuno si curava più degli altri e per un attimo sembrò il post-pranzo di sempre: sonnolento, sazio e spaparanzato.

Senonché, tornando dal bagno ancora agguerrita e carica dei pensieri formulati nella solitudine della toilette, zia Antonietta, l’unica a non aver preso il caffè, percorse veloce il corridoio.

Vestita come una madonna a lutto volava a pochi centimetri dal pavimento con il suo indice innervato verso il cielo che scaricò dritto sul mio muso.

«Tu», urlava zia Antonietta. «Tu che ti sei allisciato la nonna fino alla fine, dov’eri la notte del venticinque quando ti chiamava rantolando sul letto della casa di riposo? Dov’eri?»

Sembrava che la sua figura fosse diventata enorme e che un velo nero come un burqa le coprisse il viso. La sua voce tuonava dal profondo con il timbro di un demonio.

Io mi spaventai. Lo sforzo per escogitare una via di fuga fu disumano. Sapevo che zia Antonietta non me l’avrebbe fatta passare liscia e il suo furore fu tale che innescò un ritorno di fiamma in quella bolgia di spiriti in veranda.

Al che, una finta chiamata di lavoro al cellulare di gomma con trombetta che strappai dalle manine di Rosa mi salvò dalla condanna definitiva e dall’onerosa formulazione della mia discolpa, consapevole che un’alzata di spalle a zia Antonietta non sarebbe bastata.

Riuscii a non farmi trascinare in quel caos di cattive parole e mi defilai dalla veranda, veloce ma discreto, come un geco.

Scesi le scale fino in fondo e mi intromisi sulla strada vecchia il cui imbocco era lì vicino. Pensai ai massaggi e mi tolsi le scarpe.

Era pomeriggio presto. In quel periodo della giornata la gente, come per mettersi a riparo da una premonizione catastrofica non uscirebbe mai di casa, si serra dietro le persiane e hai l’impressione che ti osservino dalle fessure. La strada era talmente deserta e silenziosa a quell’ora che riconobbi le voci di ognuno anche a decine di metri di distanza.

Io me ne andavo verso il bar sicuro di aver lasciato la mia difesa nelle mani di ottimi avvocati ma quelli che pensavo fossero miei alleati mi tradirono trapassandomi le spalle con la lingua.

Mia figlia, il mio alleato più fedele di sempre, non perse l’occasione per elencare le mie mancanze di genitore assente, di persona che aveva senz’altro contribuito al fiorire delle sue nevrosi, la causa prima dei suoi fallimenti.

Mi sentii come Cesare nella congiura. La strafottenza che mi imputava, la quale altro non era se non vigliaccheria o scudo bardato di “che me ne fotte” per proteggermi dalle ingiurie del mondo, mi abbandonò paralizzandomi nelle parole d’amore mai pronunciate, negli abbracci rimandati, nella credenza che per essere padre bastasse il pensiero, un sms con gli auguri di Natale. Mia figlia sostenne che io non le avessi mai detto quanto mi mancasse, quanto mi piacesse stare con lei, quanto le volessi bene. Diceva che la nonna più che affetto provava compassione per me, come del resto tutta la famiglia.

In preda alle assurdità che avevo ascoltato mi venne di stringere il telefonino di gomma che avevo ancora in mano e dal nulla, ma da un nulla evidentemente pieno, mi si riempirono gli occhi di lacrime.

Mia figlia aveva spalancato le finestre e la tempesta mi entrò dentro. Demoni provenienti da molto lontano mi assalirono come un vento forte.

Cominciai a vagare in preda all’angoscia per la mulattiera desolata. Le cicale impazzite non cantavano più, le cose si fermarono, faceva una caldo assurdo.

Se il diavolo dovesse manifestarsi sceglierebbe quest’ora del pomeriggio mentre vapori caldi esalano dell’asfalto come fumi di zolfo, altro che la mezzanotte.

A un certo punto la mente cominciò a interrogarmi chiedendo soluzioni immediate e non sapevo più dove stavo andando. Il caffè, Ilio, mia figlia, la nonna? Cosa dovevo fare?

Tenevo ancora il cellulare di gomma in mano e non capivo perché. Le voci dei miei rimbombavano come echi in una cattedrale vuota, domande antiche mozzarono le radici del senso dell’essere padre, marito, figlio, uomo, vivente.

Stordito come una mosca che sbatte sui vetri mi inoltrai in vicoli ombrosi e sconosciuti dentro ai quali l’umidità dava la vita a mucillagine, muffe e vegetazione rampicante. Poi esausto mi sdraiai sotto un fico nato dalle fessure di un muro e mi addormentai.

Dopo non so quanto tempo, forse ore o forse minuti,  mi pervase un calmo dormiveglia e una luce, una luce morbida come un balsamo, mi si appoggiò sulle palpebre.

Mi ritrovai seduto al tavolino di un bar. Riconobbi Ilio che mi parlava piegato su di me a un palmo dalla faccia ma non capivo cosa mi stesse dicendo. Aveva una mano poggiata sulla mia spalla e una sul suo ginocchio.

«Robbè, tutt’apposto?», credo mi avesse detto.

Ero ancora diviso, confuso, con pensieri sparpagliati e immagini sovrapposte di pranzi, parenti, tavolini e vicoli sconosciuti. Me ne stavo seduto sulla sedia con le braccia lungo i fianchi, intorpidito.

«Robbè, ma che minchia ti è successo? Perché sei scalzo?». Ilio non era preoccupato, sapeva che ogni tanto me ne andavo con la mente in luoghi lontani e sconosciuti.

«Tieni, prendi questo, prendi il caffè Robbè, prima che si fredda». Girai lentamente il collo e notai sul tavolino la tazza fumante. Era vero che stava lì ma prima di prenderla dovetti descrivere a me stesso quella visione come per assicurarmi che fosse reale. Le cose mi sembravano mute ed enigmatiche. Sussurrai inebetito le parole tazza, caffè, tavolino, senza muovere un dito. Tornai con gli occhi al viso di Ilio che mi fissava sorridente.

Ritornavano le parole di mia figlia, di mia suocera, di mia zia, la vecchia mulattiera che ormai però non esiste più. Il piano dell’immaginazione e quello del reale si sovrapponevano mescolandosi. Ricordai la morte della nonna ma ero quasi sicuro che non fosse mai successa. Tuttavia quella idea, come una specie di enorme lastra nera, calava su di me dal cielo spremendomi sulla sedia e io me ne lasciavo schiacciare senza reagire, come a voler volontariamente annegare.

«Robbè! Svegliati!», urlò Ilio, e con i suoi modi semplici e diretti mi mollò un ceffone che mi fece girare gli occhi all’indietro.

Stavo cadendo dolcemente nel buio. Se quel planare dentro l’oscurità era la morte non si capisce perché la si tema. Tuttavia, quando me ne accorsi, i miei polmoni si svuotarono immediatamente e gli occhi mi fuggirono dalle orbite per cercare di aggrapparsi di nuovo alla luce della vita.

Dovetti afferrarmi ai braccioli della sedia per resistere al desiderio, così vivo, di scomparire per sempre.

Per tornare al bar, per riagganciarmi al presente, feci uno sforzo enorme.

Mi riaccorsi della tazza sul tavolino, stavo ricadendo in quella specie di torpore ma improvvisamente, innervosito da quella idiozia ebete, afferrai la tazza, la portai alle labbra e bevvi il caffè in un sorso.

Me lo sentii scorrere per tutto il corpo, dalla trachea agli alluci. Al suo passaggio si schiudevano i vasi sanguigni e i pori della pelle. Emersi da un’apnea della coscienza la quale si rianimò come un pupo dell’Opera.

«Bene Robbè, ce l’hai fatta a tornare», disse Ilio. «Adesso ce ne prendiamo un altro che ancora siamo all’ingresso della selva».

«Queste furono le ultime parole che gli sentii dire, da quel giorno non l’ho più visto. Lunedì sono passato davanti all’incrocio e al posto del bar c’era una scuola.

«Non lo so dottore, non so più nulla io. Le disfunzioni nel pensiero mi sono aumentate e non riesco a darmi pace».

«Non si preoccupi, ha fatto bene a venire in clinica, vedrà che adesso la aiuteremo a trovare la sua serenità. Intanto beva questo, senza zucchero però».

Bevvi senza fare storie un brodino nero e amaro che solo a pensarci mi si stringono le labbra. Tutto intorno cominciò a farsi liquido, le forme si mescolavano come su una tavolozza di pittore. Mentre il mondo che mi stava davanti si storceva in spirali colorate riuscii a notare il cartellino del dottore che ciondolava appeso al camice ma quando lessi il suo nome lo stordimento fu più forte delle stupore che mi prese e credo che svenni o mi addormentai.

«Perché, come si chiamava il dottore?»

«Scombussolato come ero voglio credere di essermi confuso e qualora il dottore si fosse chiamato veramente Ilio non mi interessa e non lo voglio sapere».

«Ma non sei più tornato alla clinica?»

Una tazzina di caffè precipitò dall’alto sbattendo sul bancone, non se ne versò nemmeno una goccia ma il rumore interruppe il discorso e l’attenzione si disperse nel bar.

Games without frontiers

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di

Azra Nuhefendić

Se dico “barbuto”, la maggior parte penserà ai terroristi islamici. La barba è una delle immagini del male che tormenta il mondo: ISIS, Al Qaeda, Boko Haram etc. Tutte queste sigle ci fanno pensare agli insorti e a terrore. Per difenderci dagli irsuti e dagli indesiderati il mondo Occidentale ha impegnato eserciti e le tecniche più avanzate, come i “droni”, ma si fa ancora “all’antica”, costruendo i muri. Le barriere di filo spinato costruite recentemente sui confini europei, per difendersi dai profughi, provocano appassionate discussioni “pro” e “contra”, come se fosse una novità.

Già da 23 anni esiste una tripla barriera di filo spinato in Spagna (prima fila costruita nel 1993, seconda fila nel 1995 e la terza fila nel 2005) innalzata per impedire l’immigrazione illegale dal Marocco. Nella città spagnola di Melilla la recinzione metallica è alta sei metri, dotata di sensori acustici e visivi, e lame taglienti (cuchillas). Le lame funzionano bene. Sulla rete, ogni mattina, le guardie trovano appesi, oltre a pezzi di stracci, anche frammenti di carne viva di chi ha tentato di oltrepassare il confine.

Il mio amico Riki ritiene che “tutto è relativo”. Gli piacciono questi assiomi filosofici, reminiscenze degli studi che non ha mai finito. La barba Riki la porta da quando gli sono comparsi i primi peli sulla faccia. Nelle sue foto da adolescente è tale e quale a Gesù: alto, magro, con lo sguardo dolce e benevolo che penetra tra la barba folta e i capelli lunghi.

Quando Riki, quaranta anni fa entrò dalla Spagna in Marocco (cioè facendo il percorso al contrario rispetto a oggi) la recinzione tra i due paesi non c’era. Lui era un tipico “figlio dei fiori”, uno di quegli hippy barbuti e capelloni, che professavano (e praticavano) la rivoluzione sessuale, il libero uso degli stupefacenti, la pace, la meditazione, lo stare insieme e il volersi bene, la musica, discutere di filosofia.

Per i barbuti di quaranta anni fa il Marocco era un posto di culto, una meta obbligatoria. Scavalcavano i confini superando ostacoli di varia natura per entrarci.

Nonostante il loro pacifismo, i barbuti hippy creavano parecchi problemi alle autorità di Rabat. Molti ci arrivavano senza un soldo e nessuna intenzione di lavorare per mantenersi. Campeggiavano sulle piazze principali, si sdraiavano per terra ovunque, sporcavano i cortili dei luoghi sacri, si spostavano senza biglietti, molti erano sprovvisti di documenti. Inoltre, con la loro filosofia del sesso libero e dell’uso della droga, disturbavano l’ordine pubblico, sfidavano le regole e le usanze della società patriarcale marocchina.

Per il loro aspetto gli hippy erano facilmente riconoscibili. La polizia li respingeva dai confini marocchini, indietro, in Spagna, con le mani nude, talvolta con i bastoni.

Ma Riki aveva una massima anche per queste situazioni. Citava Gandhi: “Ogni desiderio sincero e genuino, prima o poi si realizza”. E così, insieme a Riki, ci imbarcammo per entrare in Marocco, non però dalla città portuale di Tangeri, dove i controlli della polizia marocchina erano più severi e scrupolosi, ma dalla più piccola e meno sorvegliata Ceuta, città autonoma spagnola in territorio africano.

Il viaggio risale all’estate 1974 e la tappa in Marocco non era prevista nel nostro programma.

Il nostro obiettivo era di andare a Ceylon (che oggi si chiama Sri Lanka, il nome che deriva dalla parola sanscrita laṃkā, che significa “isola risplendente”).

India, Sri Lanka, Nepal, Iran, Afghanistan, questi paesi erano un “must” per gli hippy degli anni Sessanta e Settanta. Ci si andava per fare il pellegrinaggio, per apprendere direttamente dai guru i postulati della filosofia orientale, per discutere con i monaci buddisti il senso della vita, come ottenere la libertà e come trovare la felicità.

C’era un monaco buddista che noi amavamo in modo particolare: il prof. Čedomil Veljačić. Era un “nostro”, cioè jugoslavo, di Zagabria. Veljačić era un docente universitario. Si era trasferito nello Sri Lanka, aveva preso il nome monastico di Bhikkhu e stava con i monaci più poveri, mendicanti. Tuttavia il nostro Veljačić non aveva mai smesso di scrivere libri, articoli, saggi. Ci entusiasmavano le sue idee, ci ispirava la sua vita, leggevamo e discutevamo in gruppi, ad alta voce i suoi scritti e testi. Erano anni che facevamo progetti per andare a trovarlo.

Ma proprio quando stavamo per partire, ecco che un imprevisto stravolge tutto.

Una del gruppo, che da due anni viveva con il fidanzato in Spagna, ci manda un SOS: il fidanzato è sparito, lei è rimasta da sola con la bambina piccola, senza soldi né lavoro. Così decidiamo di cambiare l’itinerario del viaggio: saremmo andati prima in Spagna per soccorrere Neda, e poi avremmo deciso come proseguire.

All’epoca la Spagna era di Franco, cioè fascista, e tra i due paesi, la Jugoslavia e la Spagna, non c’erano rapporti diplomatici. Per entrare ci voleva il visto di transito che si otteneva presso il consolato spagnolo di Milano.

Partimmo all’inizio di luglio. Nel nostro gruppo c’era un futuro professore, docente di medicina, un matematico teorico che otterrà riconoscimenti internazionali, un filosofo, tutti hippy convinti, e di conseguenza: barbe e capelli lunghi, vestiti stravaganti, bagaglio minimo, uno zainetto di stoffa.

Spostarsi in autostop all’epoca era così comune e diffuso tra i giovani che non prendemmo in considerazione un’altra possibilità. Tutto filò liscio e avanzavamo velocemente, sembrava di far parte di una staffetta ben organizzata. Viaggiavamo divisi in due gruppi. L’appuntamento era davanti al museo “Prado”, a Madrid. Avremmo dovuto trovarci là, dopo cinque giorni, tra mezzogiorno e l’una, per poi proseguire insieme verso Barcellona, dove ci aspettava la nostra amica Neda.

L’appello di Neda ci aveva preoccupato così tanto da rinunciare al tanto desiderato viaggio in Oriente. Ma quando ci ritrovammo tutti nel punto stabilito, capimmo che la situazione non era tragica. Anzi, Neda ci raccontò com’erano andate le cose, alternando risate e lacrime.

Meglio così, avevamo concluso, discutendo se tornare subito in Jugoslavia oppure… imbarcarci su una nave da carico e proseguire per l’Oriente. Prevalse l’idea di andare in Marocco, poiché eravamo così vicini e che a far parte del gruppo c’era anche una bebè. E ci dirigemmo verso la città portuale spagnola di Algeciras.

La presenza della bambina, in qualche modo, evidenziava la coesione del gruppo. La trattavamo come la figlia di noi tutti, ci occupavamo di lei insieme, ci davamo il cambio per portarla in una sorta di marsupio, una grande tela fissata intorno a collo, come fanno le mamme africane.

Con il senno di poi, mi pare di essere stati troppo disinvolti, per non dire incoscienti, con una piccola che non aveva neanche un anno. Una neonata correva parecchi rischi in un viaggio del genere. Ma allora queste preoccupazioni non ci tormentavano per nulla.

Ad Algeciras dovemmo fermarci per tre giorni. La polizia spagnola non permetteva a Neda di uscire dal Paese con il visto di transito scaduto da due anni. Dovevamo aspettare il permesso da Madrid. L’unico inconveniente di quella palese illegalità era, appunto, il doverci fermare. Neda non fu né detenuta, né interrogata su dove stava e cosa faceva in Spagna per due anni con il visto di transito.

Dagli altri “figli dei fiori”, che girovagavano per la città, venimmo a sapere che era più facile entrare in Marocco passando per Ceuta.

In Marocco, lungo la costa dell’oceano Atlantico, ci spostavamo lentamente, con i mezzi pubblici che costavano pochissimo. Passammo per Rabat e Casablanca, poi ci allontanammo dalla costa per visitare Marrakech, e infine arrivammo alla tanto desiderata Essaouira, considerata la mecca per gli hippy.

Non facevamo i turisti comuni, non ci fermavamo per vedere le città antiche, i monumenti, le impressionanti fortezze medievali o i musei, non facevamo shopping. Seguivamo le orme degli hippy che c’erano stati prima di noi: Frank Zappa, Bob Marley e Jimi Hendrix.

Cercavamo e stavamo in compagnia degli altri hippy. In quegli anni in Marocco ce n’erano talmente tanti che spesso nelle città più piccole, superavano la gente locale, almeno per le viuzze e i suk. I marocchini erano cordiali, ci accoglievano, aiutavano, ci davano le indicazioni, ci accompagnavano nei posti che cercavamo. Ma nessuno, in venti giorni, ci invitò mai a casa propria. E questo ci pareva strano. Da noi, in Jugoslavia, è normale invitare a casa dopo aver scambiato due chiacchere.

Quando dicevamo che eravamo della Jugoslavia, la gente locale mostrava entusiasmo, ci dava pacche sulle spalle, esclamava il nome del nostro presidente Tito, qualcuno alzava due dita in segno di vittoria, oppure alzava il pollice in alto, per dirci che va tutto bene. Ci divertiva questo affetto, non lo trovavamo strano, anzi noi jugoslavi eravamo così abituati ad essere benvenuti ovunque andavamo, che la cordialità dei marocchini non ci meravigliava.

Non avevamo fatto nessun programma, non avevamo prenotato niente in anticipo, era tutto un’improvvisazione sul posto. L’impressione più forte di quel viaggio fu la lentezza con la quale si svolgeva tutto quello che facevamo. Come se la nostra vita andasse alla velocità di trentatré, invece di quarantacinque giri.

Può darsi che la lentezza fosse l’effetto dell’erba, che c’era in abbondanza. Te la offrivano gratis, si condivideva con gli altri, come del resto il cibo. Erano in molti a fumare, anche nel nostro gruppo, in pubblico, nessuna restrizione, seduti per terra in qualche piazza, o davanti al bar dove la gente locale si univa a noi in questo piacere.

E quando si esagerava, interveniva la polizia locale e picchiava con i bastoni.

Dopo venti giorni eravamo di ritorno. A Barcellona salimmo a bordo, in cinque, di una Volkswagen vecchia e traballante che Neda aveva ricevuto da un suo amico francese prima di tornare a casa. Era tutta scassata e mezza rotta, faceva rumore e dava l’impressione che da un momento all’altro sarebbe caduta a pezzi. Dentro si sentiva odore di benzina. Dopo mille chilometri scoprimmo anche che pioveva dentro.

Era agosto, il picco della stagione turistica, le strade piene di macchine, i confini congestionati. La “nostra” macchina aveva le targhe francesi, e probabilmente per questo nessuno ci controllava, e ci lasciavano passare i confini senza fermarci. Tutto andò liscio fino al confine di Fernetti tra Italia e Jugoslavia.

Era l’ultima frontiera prima di entrare in patria. All’epoca era anche il confine tra l’occidente e l’oriente, là passava la “cortina di ferro” che divideva il mondo comunista da quello capitalista.

Quel giorno pioveva a dirotto, anche dentro la macchina. In più la nostra bebè era irrequieta e appena arrivammo al confine cominciò a piangere.

Due miliziani (poliziotti) ci fermano e ci salutano gentilmente portando la mano alla fronte. Ci scambiano per stranieri, probabilmente giudicando dalla targa della macchina. Ma quando mostriamo i nostri passaporti rossi jugoslavi, il poliziotto che ci controlla s’irrigidisce, dal finestrino ispeziona dentro la macchina, guarda i barbuti e la bambina che piange, e sul viso gli appare un’espressione schifata.

Ci chiede i documenti dell’auto. Non li abbiamo. Incredulo, domanda chi è il proprietario della macchina, e Neda fa il nome del suo amico francese. Il poliziotto non capisce, poi chiede se uno di noi è “quello”. No. “Allora dov’è?” “Credo in Francia”, dice Neda. Il poliziotto diventa rosso in faccia.

La conversazione si svolge tra i pianti disperati della bebè, le nostre voci che cercano di calmarla e il battere della pioggia. Il poliziotto si passa le mani tra i capelli, poi si gira, fa due passi come per calmarsi e va verso il suo collega. I due poliziotti si guardano senza dire nulla, uno scrolla le spalle, e l’altro ci fa: “Marsch”… Ci manda a quel paese e ci lascia passare.

pubblicato su Osservatorio dei Balcani e Caucaso

da Marco Giovenale, “Il paziente crede di essere”

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[ Racconti, forme intermedie, prose (in prosa), inconvenienti, dissipazioni dopo ]

Marco Giovenale

Difesa

 

Difficile si possano contare. Poi sono migliaia, centinaia di migliaia. Una fascia sterminata: sono tantissimi. Braccia e gomiti legati a difendere. Sono tutti allacciati insieme.

Corpi vincolati come facendo una cortina continua di carne. Sono questo; e dunque darsi il compito di contarli è piuttosto puerile.

Proteggono quella cosa che sarebbe – in descrizioni favolose – l’entroterra. (Che loro non vedono). Difendono il perimetro, l’intorno, fanno insomma una cintura viva. Come le canzoni (melense). Si sporgono, a volta a volta sono schiodati via, singolarmente, uno o l’altro, chi perché indebolito, chi perché bruciato dal colorante di un succo di frutta che poi grazie a lui viene bandito, chi per fame, chi per prodotti scaduti che l’autorità rileva appunto grazie alla morte; chi semplicemente si abbatte e lascia perdere. (Perché dovrei difendere quello che non conosco? Sono usato).

Altre volte le stesse autorità fanno pulizia, perché molti defunti o colpiti e comatosi restano abbarbicati per inerzia, scrupoli, parenti, croste calcificate. Passano i tagliatori, allora, danno un colpo secco con la pala agli inguini, di taglio, come succede nei romanzi. Se il colpito è ancora vivo, si stacca da sé e viene via. Altrimenti c’è da iniziare il lavoro nei dettagli.

Le aggressioni esterne e gli imprevisti sono continui. I caduti sono rimpiazzati e c’è gioia in chi sta in prima fila o linea, nella cinta di difesa. La città così è protetta, e non completamente vuota, come sembrava

 

 

*

 

 

Descrizione di un luogo

 

Sono collocati nello stesso spazio. Da fermi, si spostano. A gambe ferme. Sono colorati, non sono pappagalli, è probabile. Non hanno nessun interesse a condividere alcunché, tantomeno un luogo, però lo condividono. Alzano la testa, la abbassano. È perfino scomodo. Alcuni si scambiano addirittura delle cortesie. O dei moderati insulti. O degli insulti non moderati, sempre semplici tuttavia. Per non sbagliare. Al primo posto viene sempre la comunicazione. Il numero totale è sempre variabile. Indossano dei cappotti, d’inverno. Sono immersi nell’incertezza, nell’imbarazzo, si fanno i fatti propri, cercano di non socializzare. Ritti o piegati. A volte telefonano, quasi sempre. Si annoiano pur di non socializzare. Alcuni socializzano, pur di non socializzare, si scambiano un numero di parole, si riannoiano. Portano delle borse, di cuoio, di plastica, trolley, sacche, zaini, marsupi. Alzano le mani se stanno in piedi. Si rannicchiano se seduti. Inveiscono ad alta voce o bassa, o mentalmente. Non si guardano in faccia. O sì, con indifferenza. Si mettono a spiare, sbirciano, non ci pensano, sono protervi, augurano il male a questo e quello. Se possono non parlano. Non è nemmeno così, come dire, pieno, al centro c’è ancora posto, al centro c’è posto.

 

*

 

 

trama

 

scappano dalla lucertola gigante in taxi, un taxi costoso molto malandato molto veloce. del resto la fuga è problematica al punto da causare severissimi danni e incidenti mortali che però importano chiaramente meno.

la lucertola minaccia con arroganza i tornado e la swat e, come tutte le lucertole alte cento/centocinquanta piani impegnate a devastare i centri abitati statunitensi, ha qualcosa di fascista.

abbandonato il taxi (una ruota a terra) e saldato conto e supplemento, inforcano un elicottero sportivo in cui lei armeggia con scioltezza.

l’elicottero li porta retoricamente all’aeroporto, dove si imbarcano per la russia: il quadro li mostra intenti a bere una quantità di liquore guardando l’ansia nel finestrino.

le unghie vengono tormentate. il pagamento con carta di credito ha facilitato l’imbarco in corsa, indispensabile se inseguiti da una lucertola fascista di centocinquanta piani.

all’arrivo a mosca, un’ingenuità che nessun ingenuo sospetta make them think di essere in salvo finché dalla finestra dell’albergo non occhieggia un’iride a palpebra verticale: è la pubblicità di una lingerie, che li ammazza di paura ma anche li eccita e fanno sesso da morti.

il mediometraggio è civile, italiano, ha buone chance nei premi e sul corriere. imbattibile in termini di diritti e difesa del liberalismo dalle lucertole.

 

 

*

 

 

Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, Roma 2016)

http://www.gorillasapiensedizioni.com/libri/il-paziente-crede-di-essere

 

 

Seia otto: Ernest Hemingway

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Pariscope

di

Seia Montanelli

Mentre scrivo alla tv passano le immagini di Place de la Rèpublique in cui si sta svolgendo la commemorazione delle vittime del terrorismo del 2015: la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, i gestori di un minimarket ebraico e le 130 vittime della folle notte di novembre in cui Parigi fu assediata da diversi attacchi suicidi.

Ci sono molte persone in piazza, ma meno di quelle che ci si sarebbe aspettato: la minaccia non si è esaurita, in alto i cecchini dell’esercito sono lì a ricordarlo, in ogni momento si può essere dei bersagli, o far parte dei danni collaterali; del resto persino a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi insanguinati della Francia, ogni giorno che passa un guasto alla metro fa temere il peggio almeno per i primi secondi: ogni volta che si spegne la luce, o i treni si fermano, o stentano a ripartire, il pensiero ci rende subito vittime di un attentato.

E sulle note di “Un dimanche de janvier” di Johnny Halliday, mi attraversa la mente un pensiero che temo possa sembrare banale o addirittura irrispettoso per quelle morti che gridano giustizia, ma ormai ho iniziato a scrivere e devo vedere dove voglio andare a parare.

-1Mi è venuto in mente “Il silenzio del mare” di Vercors, un magnifico libro sulla resistenza francese all’occupazione tedesca della seconda guerra mondiale, una resistenza culturale e umana più che militare: un uomo e la sua giovane nipote sono costretti a ospitare in casa un capitano nazista e decidono di non rivolgergli mai la parola. Il silenzio sarà la loro arma, ma non solo, è l’amore del giovane capitano per la musica e l’arte francese a sconfiggerlo, ancora prima di essere ignorato dai suoi riluttanti ospiti – è la sua incapacità di considerare quel paese una terra da spartirsi e distruggere che lo rende debole in quel contesto e più esposto al silenzio che lo condanna.

Mi ricordo dell’altare spontaneo che si era creato all’indomani della strage proprio in Place de la République, le tante candele accese a illuminare quelle ore buie e mi vengono in mente – uno dopo l’altro – un saggio di Gilles Deleuze (“Che cos’è l’atto di creazione”), in cui riassume il pensiero di  André Malraux nell’asserzione che l’arte è la sola cosa che resiste alla morte; e subito dopo penso alla frase che Dostoevskij nel suo “L’Idiota” fa attribuire dai suoi ospiti al principe Miškin: «la bellezza salverà il mondo». Saggi e convegni hanno sviscerato questa massima che non viene nemmeno mai pronunciata direttamente nel romanzo russo, ma solo riportata, e oggi ha il sapore della banalità, eppure in certi momenti la sottoscriveremmo tutti: quando il nostro sistema di valori, le nostre libertà, persino il diritto di divertirsi nei finesettimana, è minacciato, quando tutta la nostra cultura è messa sotto accusa e viene colpita a morte, diventa quasi inaccettabile pensare che la bellezza, l’arte, l’insieme dei valori etici ed estetici che ci contraddistingue non possano salvarci alla fine. Ogni volta che ci scontriamo con l’orrore della brutalità e della violenza, quando le ferite assumono caratteristiche pubbliche e diffuse, quando le morti sono le morti di tutti e non semplici (quanto devastanti) dolori privati, veri attacchi a ogni singolo individuo, solo i simboli di un’intera collettività possono ergersi ad armi efficaci e scudi atti a proteggerci. È qualcosa di più dell’inestinguibile istinto di sopravvivenza, ed è qualcosa diverso dal mero spirito di conservazione. L’indomita necessità di non cedere al terrore, alla forza bruta che vuole annientare un intero sistema di vita, ha più a che vedere con le profonde connessioni culturali e sociali che tengono insieme un Paese, che con le risposte fisiologiche e psicologiche innescate singolarmente dalla voglia di continuare a vivere.

E all’indomani della strage di Parigi un libro americano, curiosamente, è diventato il simbolo della resistenza francese al terrorismo: “Paris est une fête” di Ernest Hemingway, in originale “A moveable feast”, un omaggio alla Parigi degli anni ‘20 che l’ha accolto giovane e pieno di speranze. Ha cominciato a circolare spontaneamente tra coloro che rendevano omaggio ai caduti negli altarini improvvisati e poi tra le mani della gente sui mezzi pubblici, fino a passare dalle 10 alle 500 copie giornaliere, arrivando addirittura in classifica tra i libri più venduti. Eppure non è tra le opere più famose dello scrittore americano, ma per me che non amo Hemingway è il suo libro più amato: poetico, delicato, a tratti un vero inno alla vita e alla bellezza e un sincero atto d’amore per una città speciale da sempre meta di quanti volessero vivere di arte e cultura.

Scritto poco prima del suo suicidio, “Festa mobile” – così l’ha tradotto in italiano Vincenzo Mantovani per Mondadori – è un memoir incompiuto, dato alle stampe dall’ultima moglie di Hemingway nel 1964. Nel 2013 è uscita una nuova edizione con una sistemazione diversa dei capitoli e l’introduzione di altri lasciati fuori nella precedente revisione del testo, voluta dal nipote dello scrittore e ricostruita sulla base di appunti ritrovati dagli eredi. (La nuova edizione del libro in italiano, con la traduzione di Luigi Lunari, perde parecchia della poesia e della leggerezza che contraddistingue l’edizione del ’64 e per questo è sulla più vecchia che baso il pezzo).

Il titolo originale del libro fa riferimento alle cosiddette “feste mobili”, come la Pasqua, che nel calendario ricorrono ogni anno in una data diversa, e deriva da un’intensa frase tratta dal libro stesso, che pare anche riassumere il perché del memoir: «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile». “A moveable Feast” racconta il periodo che Hemingway trascorse a Parigi tra il 1921 e il 1926. E sebbene sia riconoscibile lo stile essenziale e brusco di Hemingway, le frasi così brevi e secche che incidono il foglio, ogni parola è poi addolcita dalla malinconia e soffusa nel ricordo.

Eppure non è solo un libro di memorie di un vecchio stanco – anche se era questo il suo intento quando l’ha iniziato nel 1958, per poi abbandonarlo e seguire i toreri Ordonez e Domiguin nelle arene spagnole (esperienza che gli ispirò il romanzo “Un’estate pericolosa”) – ma è molto di più. E’ l’affresco di un’epoca andata, il memento mori differito di una intera generazione. In “Festa mobile” Hemingway racconta la sua vita di giovane scrittore povero e pieno di ambizioni, i primi tentativi di misurarsi con la narrativa, le difficoltà economiche, la fame, l’amore della moglie Hadley, la gioia per il loro primo figlio, le passeggiate lungo la Senna e i pomeriggi alla “Shakespeare and Company”, la piccola biblioteca anglo-americana di Sylvia Beach in Rue de l’Odéon; ma il suo percorso di americano a Parigi s’incrocia continuamente con gli amori, l’amicizia, gli incontri nei “bistrot” con Scott e Zelda Fitzgerald (le pagine dedicate a loro due valgono da sole tutte il libro), Dos Passos, Sherwood Anderson, Ezra Pound, Thomas S. Eliot e naturalmente Gertrude Stein, che – da veterana nel Vecchio Mondo – li accolse nel suo salotto parigino, contribuendo a creare il mito letterario della “lost generation”, che comprendeva anche E. E. Cummings, Archibald Mcleish, Dorothy Parker, William Faulkner, Ford Madox Ford e qualche tempo dopo anche Morley Callaghan, autore di un altro libro sulla movida culturale parigina della lost generation, “Quell’estate a Parigi”, meno poetico di “Festa mobile” ma interessante come testimonianza. Callaghan, peraltro, deve molto del suo successo di allora proprio a Hemingway, che lo prese sotto la sua ala protettrice prima di partire per Parigi e lo seguì anche a distanza. Come dire: in quell’epoca di geniali americani allo sbando per l’Europa, intenti a scrivere libri più o meno belli ma che comunque segnare un’epoca, tutto si teneva e un filo rosso collegava tutti e ciascuno.

Parigi all’epoca era la città in cui – secondo Sherwood Anderson – “l’arte viene presa sul serio” ed Hemingway in “Festa mobile” la dipinge in tutto il suo splendore di metropoli generosa e cosmopolita sempre pronta ad accogliere generazioni di artisti stranieri: dopo tutto sui tavoli dei suoi café sta cambiando il corso della letteratura mondiale. “Festa mobile” è dunque il racconto tenero e frizzante di un’atmosfera irripetibile, reso da un suo protagonista indiscusso: ed è anche il gesto d’addio del grande scrittore americano, il suo testamento spirituale. In ogni pagina di questo libro Hemingway rivela la sua infinita fragilità, al riparo dall’abituale dimensione mitopoietica, e ci consegna un’immagine di sé molto diversa da quella evocata dai suoi romanzi. Eppure a tratti il lirismo della malinconia cede il passo ad una scrittura fresca e brillante, come se il solo ricordo della giovinezza avesse il potere di rinvigorire la sua anima e la sua penna di vecchio scrittore deluso dalla vita. E allora, possiamo scorgere nelle sue parole l’attaccamento tenace alla gioventù, l’inesausta energia, il bisogno di agire e di essere protagonista, e mentre ci conduce con sé lungo i suoi tragitti, condividiamo gli umori e gli entusiasmi di un periodo in cui – dice – “eravamo molto poveri e molto felici”.

 Diceva Hugo che «salvare Parigi, è più che salvare la Francia, è salvare il mondo. Parigi è una città sacra. Attaccare Parigi significa attaccare il genere umano», e pare che l’ISIS abbia scelto il capoluogo parigino in parte perché è la «capitale della prostituzione e dell’oscenità», dichiarando apertamente guerra a uno stile di vita condiviso da tutto l’occidente e da tutte le persone libere, al di là dell’appartenenza geografica e persino religiosa: perché ricordiamocelo, l’ISIS non è l’Islam.

Nell’arte e nella letteratura ci sono le fondamenta della nostra civiltà, la cultura, intesa come insieme di valori etici e artistici di un’intera nazione, anzi di un intero continente; di più, di un’umanità varia che si riconosce nelle stesse radici anche se non vi appartiene geograficamente o per storia – pensiamo a tutti i vari intellettuali non europei che da sempre vivono a Parigi, ma anche a Roma o a Londra e che arricchiscono la reciproca storia – la cultura dicevamo, in senso lato e universale, è un’arma molto più potente di una bomba o di un kalashnikov: dopo un attentato, una guerra, un imboscata, c’è sempre alcuno che si rialza e testimonia della barbarie, un eroe che diventa un simbolo di resilienza, un superstite che invita a rialzarsi, un libro che racconta una storia in cui riconoscersi e sciogliere il dolore per ritrovare la forza di riprendersi la propria vita, la propria nazione, la propria cultura e continuare allo stesso tempo – è lì è il miracolo e il difficile – ad aprirsi al mondo perché è l’unico modo per sopravvivere.

Bisogna salvare Parigi perché è un simbolo per un’umanità libera e piena di vita e creatività e affidandoci ancora una volta alle parole di Hemingway la speranza si deve riaccendere: «per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci […]. Parigi ne vale sempre la pena».

 

THE HATEFUL EIGHT Quentin perché hai tagliato la parte di CEASER The CAT?

6

snowy
 
di Orsola Puecher

Uno SNOWY DAY fra le montagne del Wyoming. La musica di Ennio Morricone, angosciosa, inquieta, che pulsa nel gelo. Violini stridenti, un flusso di fagotti bassi e cupi. Un clima sempre incerto e sospeso.

“Tarantino non mi ha dato alcuna indicazione specifica su cosa volesse – dice Morricone – Mi ha solo menzionato l’importanza della neve.”

Una lunga seguenza iniziale dedicata alla statua di un Cristo in croce, affine alle icone russe di Andrej Rublëv di Tarkovskij, solitario nel bianco, con un enorme carico di neve, sulle spalle, sulla testa, grave come il peso della vendetta occhio per occhio dente per dente, senza appello e perdono, che attraversa tutto il film.

crocefisso

PRIMO PIANO SERGIO LEONE
VOLTO DI GESU’
Un primo piano estremo di un VOLTO DI LEGNO INTAGLIATO DI GESU’
Si parte sul volto di Gesù e LENTAMENTE SI ZUMMA VIA… per rivelare una statua molto antica. E’ un Gesù di legno intagliato su UNA CROCE DI PIETRA SCOLPITA conficcata nella neve. La statua sembra che sia lì da centinaia di anni prima dei padri pellegrini. E’ come se i Vichinghi fossero saliti su una montagna in Wyoming, avessero scolpito una croce da una pietra, intagliato una figura del salvatore da un tronco, l’avessero piantata nella neve, e poi avessero ripreso il mare verso la Norvegia. L’estetica della statua rivela un’origine slava. La figura di Gesù con il suo corpo magro, spigoloso, assomiglia più a una crocifissione di Ivan il terribile di Eisenstein, che al salvatore hippy del cattolicesimo.
Ma la cosa principale che il pubblicò noterà, è che si è formato un intero blocco di neve sulla sezione trasversale della croce. Come due pile di neve. Una posizionata sulla cima della croce. E l’altra posizionata sulla cima della testa di Gesù.



 

VENDETTA
Né muore Vendetta, se pure dorme un poco,
perché nell’inquietudine si finge la quiete.
E il sonnecchiare è una comune astuzia del mondo.

Thomas Kid Spanish tragedy [1582-1592]
Act III Scene XV

 
JODY DOMERGUE
La regola del gioco qui è la pazienza…
Q. Tarantino The Hateful Eight [2015]
Act V I quattro passeggeri

 

tarant 1

globe

tarant 2

 

O.B. l'Innocente
O.B. l’Innocente
Quattro personaggi di un ottetto fatale, gli hateful eight, ognuno a suo modo pieno d’odio e, forse per questo davvero odioso, per due lunghi capitoli, nel paesaggio algido e nevoso del Wyoming, sono inseguiti da una maledetta tempesta di neve che gli sta attaccata al culo da 3 ore. Sono in viaggio sulla diligenza guidata da O.B, personaggio simpatico, affidabile, senza odio alcuno, esentato, ma ancora per poco, dal destino inevitabile dell’ottetto. Alla fine raggiungeranno gli altri quattro personaggi, anch’essi odiosi e pieni di odio per motivi intrinsechi, o concatenti a quelli dei primi quattro, e arriveranno così al palcoscenico elettivo dello spettacolo teatrale di cui tutti sono protagonisti, la Merceria di Minnie.

Minnie

La Merceria di Minnie è un sacco di cose ma la sola cosa che non era, era una merceria.

Si entra in scena solo da La Comune, in gergo teatrale l’entrata sul fondale dal centro del palcoscenico. La Comune qui è una vecchia porta con la serratura rotta, inchiodata da due pezzi di legno, che ad ogni ingresso vanno schiodati a calci e poi inchiodati di nuovo, perché il vento del blizzard, la tempesta di neve, finalmente arrivata, non la riapra. Sì è o chiusi dentro o chiusi fuori. Chiusi sempre e comunque.
Il luogo è reso palcoscenico dalla riprese in 70mm SUPER CINEMASCOPE FRAME di ⇨ THE OLD GLORIOUS PANAVISION, che rende l’inquadratura larga e teatrale, con i personaggi sempre presenti contemporaneamente nel campo lungo nei vari punti della scena, bar, cucina, camino, letti, tavoli e tavolini vari, pianoforte, sempre visibili all’occhio di chi sta al di là della quarta parete e del sipario aperto sulle azioni.
Tutto è di legno, il pavimento, le pareti, il soffitto a capriate. Dietro le piccole finestre il bianco che, all’avvicinarsi della notte, vira al blu della luce della neve. All’interno illuminazione calda di camino, candele da ribalta, lampade a petrolio. Come nella lignea scena unica di un elisabettiano Globe Theatre qui si concentreranno gli odi, le passioni e le pazienti vendette di The Hateful Eight, l’American tragedy di Quentin Tarantino senza vincitori, saranno tutti vinti, e senza eroi, sono tutti ciascuno a suo modo dei gran bastardi, nessuno senza peccato.
 

CORO Ma perdonate, signori miei, gl’ingegni bassi e pedestri che hanno ardito portare un tanto soggetto su questo palco indegno. Può quest’arena da galli contenere i campi sterminati di Francia? o possiamo noi stipare in questa “O” di legno anche i soli cimieri che atterrirono l’aria di Agincourt? Perdonateci! e come uno sgorbio può rappresentare un milione in poco spazio, così consentite a noi, zeri di questo conto immenso, di agire sulle forze della vostra fantasia.

Enrico V
W. Shakespeare
Atto primo, Prologo
traduzione di Masolino D’Amico nell’Introduzione di
Scena e parola in Shakespeare Einaudi, 1974


 
Capitolo Uno
Ultima tappa per Red Rock
 
Capitolo Due
Figlio d’un cane
 
Capitolo Tre
La merceria di Minnie
 
Capitolo Quattro
Domergue ha un segreto
 
Capitolo cinque
I quattro passeggeri
 
Ultimo Capitolo
Uomo nero, bianco inferno

 

I cinque capitoli e finale, come i cinque atti della tragedia classica e le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione quasi completamente rispettate. Purificazione catartica dello spettatore attraverso le scene violente con sangue a secchiate ed espedienti horror tanto chiaramente riconoscibili e iper realistici da essere spesso sonoramente comici. allegoriaNell’inverno del nostro scontento, in una tempesta che, come in Re Lear, nello sconvolgersi della natura mutua il caos e il disordine dei sentimenti e delle passioni dei personaggi, le pulsioni di vendetta e morte, l’incrinarsi delle gerarchie sociali, si dipana l’allegoria di un microcosmo western di deprecabili personaggi rinchiusi in uno stesso spazio per un po’ tempo, finché la loro natura non li porta ad auto distruggersi, per rappresentare in filigrana il macrocosmo della società americana con la sua violenza, la natura di una nazione costruita su una guerra continua e costante e i suoi atavici contrasti razziali, coloniali e di gender, fra legalità, profondamente venata di illegalità, e illegalità.
Non manca nulla. Ognuno può non essere ciò che sembra e allearsi con chi meno si prevede.
Una fantomatica lettera di Abramo Lincoln scritta al Maggiore Warren, che termina con la frase:

La vecchia Mary Todd mi chiama, quindi credo sia ora di andare a dormire.

commuove i cuori incalliti, per la sua domestica quiete, per quella adombrata dimessa pace casalinga, che gli inquieti protagonisti non raggiungeranno mai.
Abbiamo il Maggiore Warren della cavalleria nordista di Samuel L. Jackson, nero, degradato e cacciato perché ha massacrato 100 prigionieri bianchi, cacciatore di teste che nella consegna di catturare i ricercati vivi o morti sceglie sempre e solo la seconda opzione, il Chris Mannix di Walton Goggins, rappresentante dei Confederati razzisti e futuro sceriffo di Red Rock, il Joe Gage di Michael Madsen cowboy classico alla John Wayne, il rappresentante della Legge John Ruth di Kurt Russell, detto il Boia perchè consegna solo prigionieri vivi per un regolare processo e si gode la regolare impiccagione, abbiamo chi trasgredisce a questo Ordine nella Daisy Domergue della grandiosa Jennifer Jason Leigh, l’inglese che ha colonizzato l’America nell’Oswaldo Mobray, vero boia di professione, forse, di Tim Roth, il messicano che rappresenta la natura colonialista del nuovo stato nel senor Bob di Demián Bechir, il vecchio generale confederato Smithers di Craig Stark che ha massacrato un battaglione di soldati neri, la Minnie di Dora Gourrier che ha come insegna della sua Merceria VIETATO L’INGRESSO AI CANI E AI MESSICANI, e last but not least il fratello vendicatore di Daisy Jodi Domergue di Channing Tatum. Per non parlare di Ceaser the Cat del Gatto Soriano Rosso.

 
Il Boia e Daisy
 

boia e daisy

Il TIZIO NELLA CARROZZA è un ruvido uomo bianco del genere uomo di legge, con un dannato cappello nero e dei baffi da tricheco sul labbro superiore.
 
Questa un tempo graziosa SIGNORA BIANCA (forse prima del viaggio. o forse anni fa) indossa un vestito un tempo grazioso e un un sorriso un tempo sexy sotto un pesante cappoto invernale da uomo. La sua faccia è una collezione di tagli, lividi e graffi, Perché durante il viaggio con L’UOMO CON I BAFFI DA TRICHECO ha preso un sacco di pugni e spinte.


 
Maggiore Warren

maggiore Warren

L’UOMO NERO è più anziano. Un tipo astuto alla LEE VAN CLEEF, con la testa pelata, capelli grigi ai lati, baffi ben curati, alto e magro. Indossa i pantaloni blu scuro dell’uniforme della CAVALLERIA AMERICANA, con la riga gialla da un lato della gamba dei pantaloni, infilati negli stivali neri d’ordinanza da cavallo della Cavalleria. La camicia e la biancheria non sono d’ordinanza e sono indossati per comodità, stile e caldo, inclusa una lunga sciarpa di lana grigio antracite.
Ma il pesante cappotto scuro invernale è il CAPPOTTO INVERNALE DA UFFICIALE con le mostrine da ufficiale strappate via.
In cima alla pelata porta un fighissimo CAPPELLO DA COWBOY non d’ordinanza preso chissà dove dopo la guerra.


 
mannix

straniero

PIANO AMERICANO DELLO STRANIERO SULLA STRADA
Sta di fronte a O.B., alla carrozza e ai cavalli. Ha in mano una lanterna che il vento fa oscillare, è un uomo dall’aspetto abbastanza inaffidabile, sulla trentina con i denti marci e a dire il vero con un cappotto invernale sbrindellato.
 
Tagliando direttamente al TITOLO DEL CAPITOLO seguente, questo PIANO AMERICANO in 70 millimetri di un nuovo personaggio suggerisce che questo nuovo personaggio è un vero e proprio FIGLIO DI UN CANE.
 
La voce dello Straniero etichetta questo nuovo personaggio come uno straniero che viene dal Sud.


 
bob
 
Bob il messicano

E in questa spaventosa tempesta, UN UOMO con un cappottone invernale e un cappello esce dalla porta davanti di Minnie e va verso la carrozza. Solo quando si avvicina, i passeggeri all’interno scostano le tendine dei finestrini della portiera della carrozza.

UOMO
[parlando con un
accento ispanico]


 
joe

cowboy

JOHN RUTH
Cosa stai scrivendo amico?
 
IL TIZIO COWBOY
La sola cosa di cui sono qualificato a scrivere
 
JOHN RUTH
Che cos’è?
 
IL TIZIO COWBOY
La storia della mia vita.
 
JOHN RUTH
Stai scrivendo la storia della tua vita?
 
IL TIZIO COWBOY
Ci puoi scommettere.
 
JOHN RUTH
E io ci sono?
 
IL TIZIO COWBOY
Ci sei appena entrato.


 
oswaldo

oswaldo

UNO, un BIONDO UOMO INGLESE che indossa un vestito spezzato da uomo d’affari, si alza in piedi quando vede un uomo o una donna entrare nella stanza.
 
Parla con accento inglese.
 

BIONDO UOMO INGLESE
Diamine una donna
In questo bianco inferno?
(A Domergue)
Devi essere congelata, poverina.

 
Il Biondo Uomo Inglese è un pochino dandy. Non un grandissimo dandy, solo uno piccolino.


 
generale

generale

JOHN RUTH
(al Veterano)
Salve veterano

 
Il Veterano indica la mostrina del grado sulla sua uniforme. Diversamente dal Mag. Warren i gradi da ufficiale del Veterano non sono stati strappati via dall’uniforme.
 

VETERANO
Generale.
 
JOHN RUTH
(rispettosamente)
Generale.
 
VETERANO
Lei è una Iena.


 
E il gatto?
[finalmente è venuto il suo momento]

 
caesar the cat

Un gatto, un bel soriano rosso, nel film appare solo per brevi istanti: seduto placidamente su una botte della cucina di Minnie si guarda intorno curioso e vago, come solo i gatti sanno essere. Nella sceneggiatura originale invece ha un bel nome, CEASER The CAT, una via di mezzo tra l’augusto Cesare e chaser, l’inseguitore, e ben due scene da protagonista, che sono state brutalmente tagliate.
La prima si svolge nel seminterrato sotto le assi del pavimento, che tanta importanza ebbe in Bastardi senza Gloria e che prelude a ferali avvenimenti ad esso connessi anche in questo caso. Avrebbe avuto il compito di creare una certa attenzione alla cantina, il sottopalco si direbbe sempre in gergo teatrale, della Merceria di Minnie, non di poco conto nello sviluppo della trama. Per non parlare poi di quella sua eventuale magica apparizione nella scena finale, poco prima delle due ultime battute del film. In un ritorno della pace che per alcuni sarà presto quella eterna, spunta questo unico elemento vitale miagolante e affamato, come solo i gatti sanno essere, che avrebbe potuto aprire un piccolo, flebile, spiazzante segnale di una qualche speranza, just a bit of one, nel nero della Tragedia. Quentin perché hai tagliato la parte di CEASER The CAT? Che errore… sarebbe stato un finale strepitoso, a dir poco, e che ti sarebbe di certo valso l’Oscar.

1 caesar the cat

MINNIE
(CONTINUANDO)
Charly vai là sotto e prendi
quel topo morto. Non voglio che puzzi
tutto il locale. Portati Ceaser.

Charly prende una scopa e un GATTO SORIANO di nome CEASER. Va fino a una botola nel pavimento che porta in cantina. Mette giù il gatto sul pavimento. CEASER Il GATTO è molto eccitato. Lui lo sa cosa c’è in cantina.
Quando lasciano che Ceser cacci in cantina, è il momento più felice della vita felina di CEASER.
Charly solleva la botola nel pavimento.
Ceaser scatta come una freccia.
Sentiamo sotto le tavole del pavimento il trambusto dei topi terrorizzati che scappano e del gatto che li cattura e li uccide.
Dopo che CEASER ha attirato l’attenzione dei topi, Charly scende in cantina, afferando in fretta la scopa.
Poi sparisce nel pavimento, lo sentiamo gridare ai vermi;

CHARLY
Sloggiate Piccoli bastardi!
Figli di puttana!
Si sente la scopa menare colpi in giro.

2 caesar the cat

Proprio allora CEASER The CAT che doveva essere rimasto nascosto per tutto quel tempo, finalmente decide che da Minnie l’agitazione si è considerevolmente calmata, e salta sul letto, raggiungendo i due uomini.
E’ affamato e fa dei miagolìi affamati ai tizi.
Il Mag. Warren guarda il gatto.
 

MAG. WARREN
E tu da dove vieni?


 
 

Michele Mari, «Euridice aveva un cane»

2

di Antonella Falco

 

A distanza di oltre dieci anni dall’ultima edizione (Einaudi 2004, precedentemente Bompiani 1993), torna in libreria Euridice aveva un cane, la prima raccolta di racconti di Michele Mari, a cui sono seguite Tu, sanguinosa infanzia e Fantasmagonia. Scritta fra il 1989 e il 1992 Euridice aveva un cane annovera diciotto racconti di varia lunghezza, a volte permeati da un’atmosfera fantastica, a volte dalla consuetudine con le vestigia e i ricordi del passato, ma sempre, tutti, riverberanti l’eco dell’universo interiore, fortemente malinconico e solipsistico di una voce narrante – alter ego dell’autore – aliena alla massa e restia a immergersi nel brulicame di «un mondo indecifrabile e ostile» (Cinema). Sono racconti che risentono di un clima visionario e inquietante, perturbato dai terrori dell’infanzia e dell’adolescenza come dalle nevrosi e dalle ossessioni dell’età matura. La lingua, come sempre in Mari, presenta tratti arcaizzanti a conferma del gusto alessandrino dell’autore e del suo amore per le reliquie lessicali e per i costrutti sintattici più peregrini.

La raccolta si apre, con I palloni del signor Kurz, all’insegna del culto della memoria e dell’infanzia, tema che diventerà topico in Mari e che appare qui in una delle sue prime incarnazioni narrative. La serra in cui il signor Kurz custodisce tutti i palloni, rigorosamente catalogati e schedati, che sono piovuti nel suo cortile durante le partite di calcio giocate dai piccoli ospiti di un collegio adiacente sono la prima attestazione della maniacale tendenza, tipica dei personaggi di Mari e dell’autore stesso, a repertare con cura certosina gli oggetti della propria vita, a partire dai giocattoli dell’infanzia. È un modo per sottrarli alla dimenticanza e alla perdita e magari anche per restarvi un po’ imprigionati dentro, in modo da non dover abbandonare del tutto il mondo dell’infanzia, con la sua aura d’incanto e di mistero. Un mondo che esercita ancora sullo scrittore adulto un fascino malioso, tanto più invincibile quanto più essa, l’infanzia, si rivela come vulnus, come ferita mai rimarginata, e pertanto sanguinosa (come Mari stesso ci ricorda nella sua seconda raccolta di racconti).

Il tema dell’infanzia attraversa dunque tutto il libro, lo ritroviamo declinato in forme perturbanti in racconti ome Un sogno bruttissimo e La legnaia oppure nella forma di un virtuosistico divertissement come nel racconto, straripante di aggettivi, Il volto delle cose di cui riporto l’incipit:

«Il bambino grasso salì goffamente le larghe scale dell’enorme scuola, poi si affrettò alla sua lontanissima aula (corridoio interminabile, sudicia segatura sulle piastrelle bagnate, attaccapanni puntuti, varicosissime vene sui prosciuttosi polpacci delle arcigne bidelle). Entrò nella classe maleodorante un attimo prima che l’odiato maestro incominciasse l’inquietantissimo appello, senza che ciò gli evitasse una sospettosa occhiataccia di preconcetta rampogna: e sfilando fra i banchi binati, i beceri lazzi dei compagnuzzi crudeli».

Oppure ancora nella forma visionaria dello stupefacente Cicoria matta in cui il giovanissimo Giovannino, desideroso di scoprire la misteriosa, e per lui ancora proibita, anatomia femminile, chiede soddisfazione della propria curiosità alla scema del paese in cambio di un canestro di cicoria matta di cui la donna è golosa. Il piano va a buon fine, la scema acconsente a mostrare quanto richiestole e lo fa per giunta «con una femminilità che nessun maschio avrebbe mai immaginato». A questo punto, «l’epifania dell’arcano» viene descritta – in un paragrafetto intitolato Ciò che vide Giovannino – attraverso una serie di immagini in cui il dato reale subisce un’intensa deformazione espressionistica che sfocia in una visione assolutamente fantastica, onirica, allucinata al limite del psichedelico:

«Una specie di bocca sorridente come una fetta di melone; dal labbro inferiore di quella bocca pendevano quattro o cinque bargigli carnosi, ognuno delle dimensioni e della forma di un grosso fico maturo, violacei, e cosparsi di una peluria che sembrava tremolare anche senza vento; sul labbro superiore, invece, correva una cresta rossastra come quella di un gallo, con delle punte così aguzze che quelle al centro, le più lunghe, si ripiegavano su se stesse ricadendo dentro la bocca; la quale bocca andava di continuo soggetta a piccole contrazioni e dilatazioni che ne lasciavano intravedere l’interno bluastro, pieno di minuscole sfere rosse come una melagrana matura: osservando più attentamente ci si accorgeva che tali sferette si muovevano, producendo un rumorino come di olio che frigge; e ad affisare meglio lo sguardo si potevano discernere anche delle scariche elettriche azzurrine, a mo’ di piccoli fulmini che correvano da un capo all’altro di quella cavità».

In altri racconti è l’età adulta con le sue idiosincrasie e le sue nevrosi ad essere messa in scena. Accade così che il protagonista di La morte, i numeri, la bicicletta stabilisca un cabalistico nesso «fra il numero di pompate alla ruota della bicicletta e quello degli anni di vita destinatigli in sorte», mentre in Tutti vivemmo a stento giungere alla fine della giornata si rivela, per il nevrotico protagonista, un vero e proprio percorso a ostacoli durante il quale si rende necessario cercare di evitare tutti i possibili incidenti, domestici e non, che potenzialmente minacciano la sua incolumità fisica. In questo clima di ossessivi lambiccamenti mentali anche decidere di passare un tranquillo pomeriggio al cinema può rivelarsi un’esperienza snervante: è quanto accade al protagonista di Cinema che compie cervellotici ragionamenti per selezionare il film da vedere e la sala cinematografica, e ancor più cervellotiche valutazioni per scegliere un posto a sedere che sia debitamente distante dagli altri spettatori, per poi trovarsi a fronteggiare il molesto chiacchiericcio del pubblico mentre nella sua mente prendono forma visioni di «supplizî esemplari» per gli impudichi disturbatori.

In altri testi a prevalere è un senso dolente e solitario della vita come nello struggente Tutto il dolore del mondo da cui nel 2013 il giovane regista Tommaso Pitta ha tratto il cortometraggio All the pain in the world. E ancora di solitudine si parla nel racconto intitolato L’artigliopapine in cui un guerriero, appena designato successore del suo comandante caduto in battaglia, trascorre la notte tentando di familiarizzare con il nuovo ruolo toccatogli in sorte, vestendo le insegne del potere e mimando i gesti autorevoli e solenni di un capo, per poi scoprire, al mattino successivo, che i suoi uomini sono stati massacrati dall’esercito avversario.

L’aspirante condottiero si ritrova solo in un accampamento disseminato di cadaveri, come solo è il filologo serial killer del racconto La serietà della serie che nell’inscenare con cura certosina i propri crimini disseminandoli di un sistema di segni tanto macabro quanto raffinato rivela che il piacere dei suoi delitti «è tutto nella certezza che domani porterà […] nuova messe di interpretazioni», e proprio una nuova interpretazione, una rinnovata lettura di sé in cui rispecchiarsi, è quanto il serial killer chiede al ladro che ignaro di tutto gli si è introdotto in casa, in cambio della promessa di conservargli salva la vita. E nello stesso solco si colloca il lento ma progressivo scivolare nella follia dello scienziato solitario barricato nella base artica del racconto intitolato Temperatura esterna.

La solitudine, la nevrosi, l’ossessione per il tempo che passa e per la morte che sembra incombere su tutto e su tutti, nonché la potenza emotiva degli oggetti sono i temi cardine di questa raccolta che trova nel lungo racconto eponimo un apologo di rara bellezza sull’assolutezza dei ricordi e dei luoghi dell’infanzia. Euridice aveva un cane è un racconto autobiografico, il primo, nell’ambito della produzione narrativa di Mari, che presenti i tratti costitutivi e tradizionali del genere autobiografico classico: la voce narrante, che coincide con il protagonista e con l’autore, narra retrospettivamente in prima persona una storia di profondo intimismo, che pone le basi per una vera e propria mitopoiesi della memoria, degli oggetti, e dei luoghi che tanta parte avrà nelle opere successive dello scrittore. Vale la pena soffermarsi innanzitutto sulla casa di Scalna, paese immaginario il cui nome è quasi l’anagramma perfetto di Nasca, piccolo paese del varesotto adagiato sulle rive del lago Maggiore, dove Mari possiede veramente una casa, già proprietà dei nonni materni e luogo dell’infanzia spesso citato nelle sue opere: è infatti la medesima casa teatro delle misteriose vicende raccontate nel romanzo Verderame. Fin dalle prime battute del racconto la casa di Scalna-Nasca viene subito presentata «siccome museo o basilica antica», ossia come luogo votato alla conservazione della memoria e al culto del passato e dunque da preservare nella sua immutabilità. Una immutabilità costantemente minacciata, come si evince da questo passo in cui la voce del personaggio letterario si confonde con quella dell’autore:

«A Scalna, con i nonni e qualche volta con mia sorella, ci passavo tutte le estati. Estate dopo estate, lunghissimamente, dalla mia nascita fino a qualche tempo fa, quando troppi sfaceli di alberi e cose, aprendo ferite irrimarginabili, hanno definitivamente addolorato quei ritorni, e la loro memoria. Ma le cose avevano cominciato a cambiare e gli alberi a crollare molto prima, ed era anche per guardarmi intorno il meno possibile che negli ultimi anni non uscivo quasi mai dalla biblioteca, dove almeno tutto continuava a restare com’era, i libri ingialliti e le macchie d’umido sul muro, il divano color pera abate e il telescopio in un angolo. Lì veramente Scalna era Scalna, lì la verità della nostra casa si riassumeva, inaccessibile e impartecipabile a tutte le altre case del paese».

La biblioteca in particolare diviene «il rifugio pietoso che escludeva tutto il resto».

Ma ancor più che allo «sfacelo di alberi e cose», l’insofferenza di Michele è rivolta principalmente alla chiassosità dei vicini di casa. Le finestre vengono così tenute sistematicamente chiuse come a proteggersi dalla vista del cambiamento e dalla rumorosità della famiglia Baldi:

«Anche se rimango chiuso in biblioteca sento tutti i cambiamenti, li sento uno sopra l’altro come cicatrici di frustate sulla mia schiena, i più remoti scandalosamente attuali come i più freschi».

All’attivismo dei Baldi Michele contrappone la fissità quasi «minerale» della propria casa:

«Fra le cose che più mi colpivano, nel loro comportamento, era senz’altro l’attivismo: sempre un martellare, un trapanare, un ridipingere, un amor di sostituzione, sempre un’ansia di nuovo, di moderno, di «giovane». Guardavo la nostra casa e la loro e le trovavo sempre più divergenti, l’una ancorata in una fissità quasi minerale (qualcosa si era perso, sì, ma per quanto atroci quelle sottrazioni non ne avevano alterata l’intima sostanza), l’altra immersa nel flusso del tempo, che se la portava via, se la lavorava a sua imago, ne cambiava la chimica. Una casa va e l’altra resta pensavo, e nella nostra sentivo abitare lo spirito della morte, come se di due gemelli solo uno crescesse, combinando le cellule del proprio corpo con gli elementi del mondo in un connubio rigeneratore, mentre l’altro morisse bambino e si rinsecchisse così, come una piccola mummia; poi però mi ribellavo a questa idea, e mi dicevo che se lo spirito della vita coincideva con la catena di scempî che si perpetrava oltre il muro, se vivere significa morire in continuazione, allora la morte era anche di là, dai Baldi, e più brutta di là che di qua. Pensando che ci doveva essere stato un tempo in cui le due case erano molto meno lontane fra loro, mi accorgevo con spavento di portarmi addosso non solo i miei ricordi, ma anche quelli degli altri: riuscivo a soffrire anche per loro, per quello che avevano perso e che nemmeno rimpiangevano, e perfino quando non avevo mai saputo cosa c’era prima, ugualmente ne percepivo l’ombra dietro l’attualità, come un fantasma sdegnato che impetri vendetta. Tutto il paese era popolato di queste ombre, tremolavano ovunque e mi sembrava di essere il solo a vederle. E anche quando gettavo lo sguardo in giardini mai visti, durante giri in bicicletta sempre più rari e più brevi, non potevo difendermi dall’assalto di altre e altre ombre, che si levavano da tutte le parti imponendosi con la lor muta dolenza. Rientravo a casa turbato, carico di appelli e di richiami che mi frastornavano, e di quelle larve inquietate mi sentivo il custode, come l’ultimo sacerdote di un culto che solo in lui sopravvive».

E ancora qualche pagina più avanti i Baldi vengono descritti come una razza di gente «interamente pervasa dallo spirito della vita e del rinnovamento», mentre di se stesso Michele dice «di cose e persone scomparse solo io ero custode, solo io serbavo ordinata memoria».

A ulteriore esemplificazione di questa insanabile diversità si colloca l’episodio della lampada: Flora, l’anziana vicina di casa con la quale Michele aveva instaurato uno speciale legame al punto che «di tutto il paese, la casa e l’orto di Flora erano l’unica zona a cui sentivo che era giusto estendere il nome di Scalna, come se fra lei e noi non ci fosse alcun muro», aveva un giorno ricevuto in dono dai Baldi una lampada nuova in sostituzione di quella vecchia, dallo stelo di ottone ormai dissaldato e con la corolla di vetro sbrecciata. Il regalo viene vissuto da Michele come un’onta arrecata a quella casa in cui «tutto era bello, tutto pesante di storia» e in cui non vi era «un solo oggetto posteriore alla guerra». Il nuovo faretto donato dai Baldi, partecipando «della categoria del nuovo e del giovane» introduce nella casa-museo un elemento estraneo e stridente, quasi sacrilego, turbandone l’ordinato equilibrio e profanandone la sacralità. Motivo per cui Michele si affretta a far riparare e ricollocare al suo posto la vecchia lampada, che per fortuna Flora aveva conservato.

È interessante notare, quale elemento non privo di valore simbolico, che il cagnolino di Flora si chiama Tabù, tutti i cani che la donna ha avuto si chiamano Tabù. Se la ricorrenza del nome, attribuito nel corso del tempo a cani diversi (ma tutti bene o male con le medesime caratteristiche fisiche) rimanda già di per sé all’immutabilità che vige da sempre nella casa di Flora e che è tanto cara a Michele, il nome Tabù – col suo significato etimologico di cosa sacra da trattare con cautele cerimoniali che impongono proibizioni e censure – rimarca ulteriormente la sacralità della casa-museo dove tutto deve essere sottratto all’azione trasformatrice del tempo e dell’oblio che «involve/ tutte cose […] nella sua notte».

Dunque, l’Euridice cui il titolo allude è proprio Flora: l’anziana donna che incarna un’umanità irrimediabilmente perduta. Quando la donna si ammala e viene ricoverata in una casa di cura, Michele, incapace di accettare la natura mortale dell’amica tanto amata, rimanda all’infinito il proposito di andarla a trovare perché inconsciamente convinto che Flora, incarnazione di un tempo mitico, non possa esistere al di fuori del luogo, la sua casa, che come un tempio l’ha sempre custodita. Il titanico sforzo di Michele per restare ancorato al tempo e al luogo del mito disegna una drammatica parabola in cui il coraggio non può essere disgiunto dalla viltà. Michele è l’Orfeo che non si volta perché voltarsi significherebbe tradire il mito e abdicare alla realtà, ma è proprio non voltandosi che perde per sempre la possibilità di rivedere la sua Flora/Euridice. Solo nel ricordo potrà essere ritrovata, attraverso una discesa agli inferi che, Mari lo sa bene, trova nella scrittura l’unico medium possibile.