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Siamo tutti Čechov

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di Massimo Parizzi

La prima malattia, da cui Čechov sembra muovere per sviluppare progressivamente – ma anche a svolte – il suo censimento, la sua topografia di quello che nell’uomo è stato chiamato “spirito”, “anima” (ed è anche, ma non solo, psichismo, mente, sistema nervoso, riflessi), è una malattia sociomorale, ed è il servilismo (con il suo complementare: l’alterigia).

Nei primi racconti (con un’eccezione), da La morte dell’impiegato (2 luglio 1883) a Messa di suffragio (15 febbraio 1886),1 a dominare è una “critica di costume”.2 E si tratta d’un costume fondato su, omologo a, e che accompagna una gerarchia (quella dei gradi della burocrazia russa dell’epoca, soprattutto, ma anche una gerarchia morale: onore/disonore, abiezione/dignità ecc.). Tutto si svolge tra superiori e inferiori.

L’eccezione è La figlia di Albione (13 agosto 1883).3 Il «maresciallo della nobiltà del distretto», Otcov, si reca in visita dal proprietario terriero Grjabov. Lo trova che pesca in riva al fiume insieme con «la figlia di Albione», la governante inglese. Segue un crescendo di schiamazzi e insulti del protagonista, Grjabov, «un uomo alto e grosso, con una testa enorme», contro l’inglese: «questa befana… questo pesce lesso… questa diavolessa… uno spaventapasseri… una zitella… baccalà che non è altro» ecc.

È che Grjabov si sente disprezzato dallo sguardo della governante («Guarda tutto con disprezzo… È superiore, lei, alla gente comune! Eh! Non ci considera neanche uomini!»); e quanto più si sente ed è disprezzato, tanto più si mostra disprezzabile, volgare. Come se la sua volgarità venisse chiamata dallo sguardo di lei.4

Ma da che cosa è caratterizzato questo sguardo che rivela la volgarità creandola, che la crea rivelandola, e che nello stesso tempo indica il suo opposto, il suo al di là, una dimensione “superiore”, “umana” («Sembra che dica: sono un essere umano e dunque il re della natura»: Grjabov sull’inglese)?5 Da immobilità, silenzio, incomprensibilità, alterità. Un vuoto contrapposto al pieno degli schiamazzi di Grjabov. Quasi un buco vuoto: «…mai che dicesse una parola! Sta immobile… non dice neanche una parola in russo!…». All’apice della scena, quando Grjabov si spoglia nudo per entrare in acqua a liberare l’amo «impigliato in qualche pietra», «Miss Tfajs, imperturbabile, cambiò l’esca, sbadigliò e gettò la canna».

 

Si può essere tentati di leggere in questo racconto una concatenazione di metafore. La governante inglese potrebbe essere: 1. lo scrittore silenzioso Čechov («i personaggi dei suoi racconti esprimevano a non finire commenti, giudizi, osservazioni, opinioni. Lo scrittore non esprimeva commenti. Non dava torto né ragione ad alcuno. Così era Čechov nei suoi primi racconti e così fu negli ultimi. Uno scrittore che non commentava mai» scrive N. Ginzburg nel «Profilo biografico» posto all’inizio della Vita attraverso le lettere. E Čechov stesso consiglia al fratello Aleksandr, nella lettera del 20 febbraio 1883: «Buttar se stessi a mare sempre e dovunque, non intrufolarsi nei protagonisti del proprio romanzo»); 2. lo sguardo, il raggio della letteratura, della scrittura, della parola, che rivela creando e crea rivelando, che fa essere reale ciò che altrimenti “si limita” a essere; 3. il terzo – muto, immobile, alieno – polo che s’insedia, nei racconti di Čechov successivi al 1886, di fronte alla dialettica tra irrealtà esteriore e irrealtà interiore in cui sembra essersi trasformata e scissa la dimensione sociomorale (sociale/morale) dei racconti precedenti.6

 

 

Un film: Prima della pioggia, di M. Manchevski, regista macedone (della Repubblica di Macedonia, ex Iugoslavia). È a “episodi” (almeno così si annuncia: ma si scoprirà che di episodi non si tratta, in nessun senso). I tre titoli da cui è diviso compaiono sullo schermo: prima il numero, con il suo punto, poi le parole. Una grafica nitida, pulita, che, in collaborazione con i titoli, introduce la presenza d’un autore. Cioè induce – e induce ad aspettarsi – meno un’illusione di realtà, “realismo”, e più apologo, racconto, discorso.

Sta per piovere. Padre Kirill, un adolescente che per un voto non parla da due anni, interrompe la raccolta dei pomodori e rientra nel monastero. Nella sua stanza trova, che si nasconde, una ragazza albanese: adolescente come lui, minuta, con i capelli tagliati corti e i pantaloni larghi alla turca; sembra un ragazzo. Un gruppo di macedoni armati entra nel monastero: la stanno cercando: la «puttana albanese» ha ucciso, dicono, uno dei loro. Il giovane padre Kirill non la tradisce.

Si insinua la scena d’un funerale: nella bara un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, robusto, con una grande barba. Staccata, in disparte dal gruppo delle donne che piangono, del pope che prega, una donna alta, esile, che il vestito e l’espressione fanno subito definire straniera, per loro (ma “dei nostri” per noi: si scoprirà che è inglese), si toglie gli occhiali scuri. «È pazzesco»: non dice altro.

Sono i monaci a scoprire la ragazza albanese insieme a padre Kirill nella sua stanza, e li scacciano dal monastero. Kirill, non più “padre”, ora può parlare: promette alla ragazza di portarla a Skopje, e poi a Londra, da un suo zio «fotografo famoso». Ma lui non parla e non capisce l’albanese, lei non parla e non capisce il macedone.

Per i campi, nel loro andare, incontrano il padre della ragazza, i suoi fratelli, amici, che le chiedono se ha compiuto il suo dovere, se l’ha ucciso. Il padre la prende a schiaffi: «T’ho tagliato i capelli, t’ho legata perché non uscissi di casa». E poi: «Chi è quello lì?», indicando Kirill. «Mi vuole bene.» Allora ordinano a Kirill di andarsene; lui raccoglie la sua roba, si volta, s’incammina. Ha già fatto una ventina di passi quando la ragazza lancia un grido e si mette a correre verso di lui. Suo fratello le spara. Le spara e poi grida «no!», e piange.

Il secondo episodio si svolge a Londra. C’è la titolare d’uno studio fotografico (la stessa donna in disparte al funerale del primo episodio). C’è un famoso fotografo macedone – ha vinto il premio Pulitzer – appena tornato dalla Bosnia (lo zio di cui Kirill ha parlato alla ragazza albanese). In studio la donna scorre fotografie di guerra: Bosnia, Croazia? Il fotografo la lascia: ha deciso di tornare al suo paese.

Ci torna, in Macedonia. Ritrova la sua casa, anche se cadente, i vecchi amici. Ma ad accoglierlo sulla collina, prima di arrivare in paese, è un ragazzo con un mitra. Lo riconosce – è il figlio d’un amico – e glielo strappa di mano come un coltello a un bambino.

Poi: vuole rivedere un’amica, un tempo forse amata: Hana, albanese. Gli amici gli consigliano di dimenticarla: suo padre, dicono, non potrà permetterle di frequentare uno, come lui, macedone. Tuttavia ci va: dei giovani di guardia al paese, o al quartiere, albanese lo fermano, gli fanno delle domande, poi lo lasciano passare. Vede il padre di Hana e vede Hana, in chador, entrare, salutarlo, servire il tè, uscire. Ma tornerà; andrà lei a trovarlo di notte a casa, per dirgli: «Tu non fai niente contro tutto ciò; aiutami».

Intanto, uno degli amici viene ucciso, forse da una ragazza albanese, che forse lui ha cercato di violentare. Gli altri si armano e vanno a cercarla. In casa, il fotografo tira fuori delle fotografie – un uomo che spara, un altro che muore – e le straccia. In Bosnia aveva detto a un soldato che non era ancora riuscito a scattare delle buone foto, non aveva ancora assistito a niente che valesse una foto. Allora il soldato aveva fatto uscire un prigioniero dalla fila: «scatta adesso», e gli aveva sparato.

Il fotografo esce e raggiunge l’ovile, in campagna, dove i suoi amici tengono prigioniera la ragazza albanese. Entra, la trova, la prende per mano e la porta fuori: è un’adolescente, minuta, con i capelli tagliati corti e i pantaloni larghi alla turca; sembra un ragazzo. Gli amici cercano di fermarlo: «Tu non capisci, da troppo tempo non vivi qui». «Smettetela; non vedete che è una ragazzina?» E s’allontana per i campi mentre uno degli amici gli grida: «Non farlo, guarda che ti sparo.» Il fotografo si volta: ha tra i quaranta e i cinquant’anni, è un uomo robusto, con una grande barba. «Spara» risponde. E l’amico spara, poi grida «no!» e si mette a piangere. Intanto la ragazza albanese scappa. La inseguono gridando: «Puttana albanese…» Sta per piovere. Padre Kirill, un adolescente che…

 

Il protagonista, l’eroe di questo film è un fotografo: uno sguardo. C’è qualcosa di cruciale – adesso è più chiaro – in cui Prima della pioggia di Manchevski e certi racconti di Čechov sono, nella distanza di tutto, molto vicini.

Nella distanza di tutto? 1. Se Čechov parla di crimini dell’“anima”, o morali, questo film parla del crimine che non ha bisogno di aggettivi: lo spargimento di sangue, l’assassinio; 2. il minimo che si possa dire dei racconti di Čechov – e che dice chiunque li abbia appena scorsi – è che sono “disillusi”, “disincantati”;7 questo film è disperato: la soluzione che il protagonista dà alla storia è la sua morte, che non la risolve, ma la fa iniziare (come i racconti di Čechov, tuttavia, anche questo film non è la storia che racconta; a farlo concorrono altri “personaggi” che sono decisivi “livelli del testo”: lo sguardo dell’autore, lo sguardo dello spettatore); 3. soprattutto, padre Kirill è “muto” come, nel racconto di Čechov, la governante inglese e, quando può parlare, lui e la ragazza albanese non si capiscono come non si capiscono “la figlia di Albione” e Grjabov: parlano lingue diverse (la maggior parte dei “personaggi positivi”, nel film, è “straniera”: l’inglese in disparte al funerale, il fotografo – «tu non capisci: da troppo tempo non vivi qui» – una donna, Hana…).

 

 

Radicalizzando: il male (e la mancanza di verità) stanno nella società, nel “commercio tra gli uomini”, nella dimensione in cui i corpi convivono e, anche, si guardano, si parlano, si toccano, ma che non è la dimensione dello sguardo, della parola, del tatto; anzi, la nega: corpi di ombre? Corpi di ombre: realtà “di tutti i giorni”.

La realtà, la verità, il bene – per Čechov, per Manchevski; per noi? – sono fuori dalla lingua comune, dalla società quindi? Portati dalla distanza dello sguardo – della governante inglese, di Čechov, del fotografo, dello spettatore – dall’impossibilità di capirsi? Ma portati , su quella riva di fiume, in quel paese macedone-albanese.

Perché, comunque, bisogna stare lì, nel “commercio tra gli uomini”, corpi tra i corpi. La ragione – si fa chiara, finalmente? – dell’insistenza di Čechov nel descrivere “le cose come stanno”, e insieme della pietà con la quale sempre si china al capezzale dei suoi personaggi (stupendamente notata da Cristina Campo8), è questa: l’amore per esse, (che è) la loro necessità.

Sviluppando un censimento, una topografia del campo morale e sociale, interiore ed esteriore, Čechov disegna i contorni d’una malattia, d’una irrealtà e, insieme, del campo, l’unico, il solo.9 E lo sguardo immobile, silenzioso, incomprensibile, “altro” di cui s’è parlato a proposito della Figlia di Albione, il suo vuoto, che indica una condizione superiore, umana – rispetto ai “corpi di ombre”, alla “realtà di tutti i giorni” – è anche davvero vuoto.

Se l’impossibilità di capirsi, nella irrealtà, nella falsità, nel male che segnano la lingua comune, la società, diventa “portatrice” di realtà, di verità, di bene, non ne è tuttavia il luogo, non è un luogo: è un’impossibilità di capirsi. Non si può vivere così, non si può sentire così: questo dice Čechov. Cioè: 1. la salvezza dal male sociale non è né nell’interiorità del sentire (e anche del pensare), malata anch’essa, né “altrove”, da dove provengono, anche se rivelatori, solo silenzio, vuoto, impossibilità; 2. è necessario vivere e sentire diversamente. Come? Čechov non lo dice perché sicuramente non lo sa, ma sa e mostra che è necessario, ed è necessario questo: non altro, non di meno. Ed è anche possibile, se è possibile vederlo: siamo tutti Čechov.

 

 

In alcuni dei suoi racconti più tardi, è chiarissimo. Prendiamo La saltabecca (1892).10 Qui la contrapposizione, dichiarata dall’inizio, è tra la professione di sognatrice, tra gli empiti “artistici” di Ol’ga Ivanovna (che «venerava le persone illustri, ne era orgogliosa e ogni notte le sognava»), e l’apparenza prosaica, dimessa di suo marito, il medico Osip Stepanyč Dymov, «un uomo semplice, comunissimo, senza niente di particolare».

Ol’ga è patetica: non c’è amico e conoscente di cui si circondi che non passi «per una celebrità»: «un attore di teatro… un cantante d’opera… poi alcuni artisti… poi un violoncellista che faceva piangere il suo strumento…». Quando mette su casa con Osip, ricopre le pareti «con schizzi suoi e altrui», dissemina le stanze di «una quantità di ombrellini cinesi, di cavalletti, di fronzoli variopinti, pugnali, buste, fotografie…».

E Osip? «Era medico e aveva il grado di consigliere titolare. Prestava servizio in due ospedali… Ogni mattina, dalle nove fino a mezzogiorno, riceveva i malati, e lavorava in corsia, dopo mezzogiorno andava in tram nell’altro ospedale… I guadagni con la clientela privata erano minimi… Ecco tutto. Cos’altro si poteva dire di lui?»

Qualcosa di lui, quando sta per morire, al termine del racconto, diranno i suoi amici: «“Che perdita per la scienza!… che uomo grande era, fuori del comune! Che talento! Che speranze dava a noi tutti!… uno di quegli scienziati che non si trovano più, oggi”… “Sì, un uomo raro!”»

Per Ol’ga è una rivelazione, ma una rivelazione di che cosa? «All’improvviso capì che era stato davvero un uomo fuori dell’ordinario, raro… veramente grande… capì che tutti loro vedevano in lui una futura celebrità.» Una “celebrità”! Anche qui, come in Dopo la pioggia di Manchevski, la soluzione della storia non la risolve, ma la fa come ricominciare: «Ognuno [degli amici e conoscenti di Ol’ga] passava per una celebrità… Lei venerava le persone illustri, ne era orgogliosa…».

E non è Osip a portare, in questa storia, verità. Anche lui, nella sua sottomissione, nel suo anonimato, nel suo convenzionalismo, è patetico: quando Ol’ga gli presenta il brillante Rjabovskij, sedicente artista, non trova di meglio che, «sorridendo con espressione ingenua e bonaria», tendergli la mano dicendo: «Molto lieto. Insieme a me si laureò un certo Rjabovskij; è forse un vostro parente?». E quando Ol’ga lo rimprovera di non interessarsi di arte, di musica, pittura, «non le capisco», risponde, «ma penso così: se certi uomini intelligenti dedicano a queste cose tutta la loro vita, e degli altri uomini intelligenti pagano per esse somme enormi, ciò significa che sono necessarie».

Ma il massimo del patetico Osip lo tocca quando raggiunge la moglie «nella villa in campagna». «Non la vedeva già da due settimane e ne aveva forte nostalgia. In treno, e poi tra quei grandi boschi, mentre cercava la sua villa, non l’aveva mai abbandonato una sensazione di fame e di stanchezza e sognava il momento in cui, in libertà, avrebbe cenato con la moglie e poi si sarebbe sdraiato a fare una buona dormita. E si rallegrava a guardare il suo cartoccio, nel quale c’erano caviale, formaggio e salmone.»

Arrivato alla villa, invece di sua moglie vi trova «tre uomini che non conosceva»: uno, che «sembrava un attore», guardandolo «in cagnesco» gli chiede: «Cosa volete?»; un altro lo fissa «con aria assonnata e indolente». Quando finalmente Ol’ga ritorna, gli dice di avere dimenticato a Mosca un indispensabile «vestito rosa». Bisogna che Osip vada a prenderglielo. «“Bene”, disse Dymov, “domani mattina prenderò il treno e tornerò subito”. “Come, domani?… Come farai a tempo, domani?… No, tesoro mio, è necessario che tu parta oggi, oggi assolutamente… vai…, il diretto dovrebbe essere qui a momenti.” “Bene.”» «Dymov bevve in fretta un bicchiere di tè, prese una ciambella e, sorridendo dolcemente, si avviò verso la stazione. E il caviale, il formaggio e il salmone furono mangiati dai due giovanotti bruni e dall’attore grasso.»

 

Se Čechov, in questo racconto, mette in rilievo il “non” – la non verità, la non realtà – da cui è costituita Ol’ga, non è per contrapporle, non le contrappone, in Osip, realtà, verità, bene. Non ci sono, qui, “eroi” di cui si possa dire: ecco, è questo. Non è questo, invece, si dice, e non è quello. Non è Ol’ga, non è Osip. Sono alla pari. Il mondo di superiori e inferiori dei primi racconti è, ora, un mondo di fratelli nel male. E nel possibile bene. Non si tratta più di servilismo, si tratta di conformismo.

Ol’ga recita una propria parte. Succede che intrecci una relazione amorosa con Rjabovskij, e: «Una volta disse a Rjabovskij, a proposito del marito: “Quell’uomo mi opprime con la sua grandezza d’animo!” Questa frase le era piaciuta tanto che, incontrando i pittori che sapevano del suo romanzo con Rjabovskij, ogni volta diceva del marito, facendo un gesto energico con la mano: “Quell’uomo mi opprime con la sua grandezza d’animo!”».

Ma anche Osip ha un suo copione. Poche righe dopo averci parlato della frase che a Ol’ga «era piaciuta tanto» (e «ogni volta diceva…»), Čechov racconta che ai «piccoli ricevimenti» di ogni mercoledì a casa sua: «Invariabilmente, mezz’ora prima della mezzanotte, si apriva la porta che dava nella sala da pranzo», e Osip, come un anno prima, con le stesse parole, «sorridendo, diceva: “Prego, signori, a fare uno spuntino.”».

Perché Ol’ga e Osip recitano una parte, un copione? E in che cosa consiste il loro conformismo? Proprio in questo, forse: nel recitare una parte, un copione. Cioè: nel fare propria interiormente ed esteriormente, nei loro pensieri, sentimenti, emozioni come nelle loro parole e nei loro gesti, un’irrealtà, una teatralità che li trascende. Che è anche una forma di vita di e per tutti. A essa si conformano ed è essa che li conforma.

Ma allora, paradossalmente, non possono più apparire soltanto patetici; e infatti non muovono a un compatimento leggero, a un facile sorriso, a un’alzata di spalle, bensì a una pietà profonda. Perché sono anche figure di verità e di amore. Rappresentanti d’una vita irreale, teatrale, sì, ma che è quella di tutti, quindi l’unica vera. E verso la quale si può essere spinti anche dal desiderio, d’amore, di essere come e con gli altri. In un conformismo, in una forma comune. Per questo, forse, Čechov «non dava torto né ragione ad alcuno» dei suoi personaggi, come scriveva Natalia Ginzburg: perché avevano tutti torto e ragione insieme. Per questo «non esprimeva commenti»: perché di fronte alla loro condizione umana era rimasto senza parole («noi rappresentiamo la vita com’è, punto e basta…»). Qui stanno il paradosso e la tragedia. Ancora nostri.

Ma allora un’affermazione da cui si è partiti, quasi fosse scontata, quella secondo cui Čechov avrebbe sviluppato un censimento, una topografia «di quello che nell’uomo è stato chiamato “spirito”, “anima”», va ormai – è già stata – radicalmente corretta o precisata. Non si tratta di questo. Non si tratta delle profondità dell’io come, parlando di vita “esteriore”, non si tratta dei tentacoli delle convenzioni.

Le due figure proteiformi e contrapposte i cui contorni ci sono così familiari – l’individuo e la società, l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto e così via – hanno contribuito a lasciare nell’indistinzione, senza un nome, mentre esse ce l’hanno, un’altra dimensione. Una forma. Quella che risponde alla domanda: chi, che cosa siamo? Di essa parla Čechov dicendo: siamo questo: Ol’ga, Dymov.

O meglio, o anzi: è lo sguardo di Čechov – e il nostro – che, Ol’ga e Dymov, li consente e insieme li confuta, offre loro un teatro e, per ciò stesso, li rende solo degli attori. Senza Čechov e il lettore, essi, è ovvio, non esisterebbero, ma, nello stesso tempo, non sarebbero questo. Come senza lo sguardo di Manchevski, del fotografo macedone – e dello spettatore – il “teatro di guerra” albanese-macedone non sarebbe un teatro. Sarebbe “solo” una guerra, senza scampo.

Eppure questo sguardo non è il classico punto di vista esterno che, fuori del gioco, solo può svelarlo. Nel mondo della fine della trascendenza – quello di Čechov, il nostro – nel mondo dei pari e del conformismo, a differenza che in quello di inferiori e superiori e del servilismo, un punto di vista esterno non ha cittadinanza.

Che cos’è allora questo sguardo? Lo sguardo di chiunque sempre altro per chiunque. Se tutto il mondo, tutta la vita sono divenuti un teatro – una dimensione, come s’è detto, in cui i corpi si guardano, si parlano, si toccano, ma che non è la dimensione dello sguardo, della parola, del tatto – siamo tutti sempre attori, e siamo tutti sempre spettatori. Dei chiunque sempre altri per chiunque. Degli sguardi sempre altri per chiunque.

Ed è in questa alterità insieme attiva e passiva, in questo incrociarsi di sguardi che inverano e confutano, che l’altra dimensione, la forma né interiore né esteriore, e interiore ed esteriore ad un tempo, cui s’è accennato, viene presa. «Riconosciamo loro [agli altri]», scrive Merleau-Ponty, «il potere esorbitante di vederci».11

È davvero questo allora, questo sguardo di chiunque sempre altro per chiunque, il “terzo polo” di cui s’è parlato all’inizio: quello che s’insedia nei racconti di Čechov tra irrealtà esteriore e irrealtà interiore. Di cui la “figlia di Albione” non è che intuizione e figura. E anch’esso, come quest’ultimo, è alieno, e pure letteralmente tra noi, qui.

È il nostro altrui sguardo sempre già anche di spettatori, narratori, registi, fotografi; che percorrendo le superfici dei nostri altrui corpi li salva dall’essere soltanto “io”, li confuta, nello stesso spazio, nello stesso tempo, nello stesso atto in cui li testimonia, li invera. Uno sguardo che insieme è già, ed è ancora e anche un compito. In questo doppio senso, di constatazione e di invito: siamo tutti Čechov.

 

 

Note

1 A.P. Čechov, Racconti, I, Milano, Garzanti, 1988, pp. 1-76; le date, qui come oltre, sono quelle della prima pubblicazione.

2 «… un intreccio e la dovuta denuncia del costume»: da una lettera a N.A. Lejkin, 18 aprile 1883, in A.P. Čechov, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Ginzburg, trad. di G. Venturi e C. Coïsson, Torino, Einaudi, 1989, p. 12.

3 A.P. Čechov, Racconti, cit., pp. 4-7 (trad. di S. Vitale).

4 «Se tu avessi invece descritto» rimprovera/consiglia Čechov al fratello Aleksandr in una lettera del 20 febbraio 1883 (Vita attraverso le lettere, cit., p. 6), «com’era volgare il tuo protagonista…».

5 «Sottolinea ciò che è vitale, ciò che è eterno, ciò che agisce non sul sentimento meschino, ma sul vero sentimento umano» consiglia Čechov al fratello nella stessa lettera citata alla nota precedente.

6 È una tentazione, una lettura legittima? «Scrivendo, mi studiavo in tutti i modi di non esaurire nel racconto le immagini e le scene che mi erano care e che, Dio sa perché, custodivo e tenevo gelosamente nascoste» scrive Čechov il 28 marzo 1886 al celebre (allora) scrittore D.V. Grigorovič in una lettera in cui afferma (credibilmente o no) di considerare per la prima volta il suo lavoro come letteratura. Non è escluso che qualcosa che gli era caro fosse custodito e tenuto gelosamente nascosto nei racconti stessi.

7 «Gli scrittori che noi diciamo immortali o semplicemente buoni e che ci inebriano tanto hanno, ricordatevelo, un contrassegno comune e assai importante: essi procedono in una data direzione e v’invitano a seguirli, e voi sentite non con la mente ma con tutto l’essere che hanno uno scopo… I migliori fra di loro sono realisti e ritraggono la vita com’è, ma per il fatto che ogni loro riga è impregnata, come da un succo, dalla consapevolezza dello scopo, voi, oltre a sentire la vita com’è, la sentite anche come dovrebbe essere, ed è questo che vi avvince. E noi?! Noi rappresentiamo la vita com’è, punto e basta… Più in là non ci farete andare, nemmeno con la frusta. Non abbiamo scopi né immediati né lontani, e nella nostra anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo nella rivoluzione, non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a me, non temo neppure la morte e la cecità… Voi e Grigorovič trovate ch’io sono intelligente. Sì, sono intelligente, lo sono per lo meno tanto da non dissimulare a me stesso la mia malattia, da non mentire a me stesso e nascondere il mio vuoto sotto gli stracci altrui.» Da una lettera di Čechov a A.S. Suvorin, 25 novembre 1892 (ibid., pp. 145-146).

8 «L’incomparabile simpatia umana di Čechov, ciò che ne rende così amabile e consolatrice l’apparizione è veramente la simpatia del medico: di colui che… siede al capezzale di ognuno e vi rimane. Egli porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare con noi… di chi ha imparato a ricordare di continuo, a sé e agli altri, quel che possa valere il dolore quando lo raccolga lo specchio di un amore senz’ombre» (C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 197).

9 Della «cité d’ici-bas», della «comune condizione umana», come scrive Cristina Campo (ibid., p. 195), che aggiunge: «Lo sguardo che avvolge questo mondo e ne ricompone dall’alto i significati dispersi […] è il muro di cinta della città di Čechov».

10 A.P. Čechov, Racconti, cit., pp. 612-638 (trad. di L. Celani).

11 Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 56. Il corsivo è di

Poesie inedite

6

di Diego Caiazzo

* * *

Penso spesso al destino dei miei libri,
dopo; vorrei fare come i faraoni,
portarli con me nella mia piramide:
solo che io non avrò una piramide,
probabilmente; ed è vero,
molti li compro sapendo
che non li leggerò,
almeno in questa vita;
ma mi piace vederli lì, tra gli scaffali,
in agguato come indiani,
avvertirne l’odore forte della stampa;
e rimandarli ad una vita futura
in cui, quando entro in una libreria,
immediatamente confido.

* * *

Danza notturna

Una notte straniera
di sabbie e di ricordi

una delle mie notti senza fondo
in cui invito a ballare con me
la rumba dell’insonnia
chi con dolcezza o violenza
mi ha attraversato la vita

sono qui come un legionario
in cerca di fortuna e di oblio
in un deserto lontano.

* * *

Con la malattia si impara a convivere,
come con una orribile concubina,
eppure non si passa il tempo a odiarla,
ma a porle ogni giorno una domanda:
perché hai scelto me?
È la domanda dell’amore,
che non prevede risposta.

* * *

Le vite di coloro che amiamo
si staccano pesantemente
dai loro corpi suscitando
il nostro sgomento

vani i tentativi di opporci
a noi non resta
che osservarle cadere al suolo
come oggetti celesti

ognuna di esse lascia
un cratere in cui precipitare
coi ricordi come in un Averno.

* * *

Vedo gli occhiali di mio padre
e quelli di mia madre
riposare insieme
nello stesso cassetto;
per una innominabile inerzia
so che si guardano, si cercano,
incuranti della morte;
pare siano rimasti qui
ad assicurarmi sui loro sguardi,
il loro modo di rendere
l’amore immortale.

* * *

Una volta scritta una poesia
la lascio decantare sul foglio
aspetto che si sedimentino
i corpuscoli ad essa estranei

ogni tanto ne controllo la purezza
osservandone la trasparenza
possono passare anni
o pochi minuti

quando il processo naturale
è finito l’assaggio
come fosse un vino
distillato dal pensiero

cercando di evitare l’ubriachezza
divento sommelier di me stesso
implacabile coi retrogusti.

* * *

Agosto interrompe le trame
e recide i disegni,
che andavano rivelando una forma.
Questo mese sabbatico,
come ogni anno,
s’insinua
o si presenta di colpo,
purga le anime,
ferma la mano all’assassino.

* * *

La vita a volte
solleva tedio
come polvere
e s’illumina
di luce oscura.
Rimane sospesa,
come un amore
inespresso.

* * *

L’amore parla per enigmi
e il tempo degli amanti
passa incerto nel tentativo
di scioglierli. Ogni sguardo,
anche se mancato, è una sciarada,
un rebus, una sillaba posposta,
come da un dio geloso
di un disumano segreto;
ogni appuntamento
può essere un inganno,
un’assenza rivelare l’ignoto.
Anch’io cerco invano
di interpretarne i segni,
la loro apparente poligamia,
il loro a tutto legarsi
per confondere,
e resto annichilito
nel risolverli in un volto.

* * *

“The Kingfisher’s Soul”, Robert Adamson

1

fishing

Rituali del Lungolago

Percorri la città in auto, non fermarti
all’hotel, va oltre il pesce-spada al neon,
guarda i pellicani appollaiati
sui lampioni, accosta e parcheggia
vicino al lago. È luna nuova
e le tule puzzano di kerosene che brucia.

Uomini guadano il lago,
seguono bambini che fanno strada
con lucignoli, per la pesca di scampi.
Arrivati con le famiglie
in auto e camion, alcuni portano tende.
Dietro scuri chiusi nel parcheggio dei caravan

mariti si sbronzano o se la squagliano.
Quando arriva l’ultimo gruppo col bottino,
sfavillano falò in fusti roventi –
mettono a bollire secchi d’acqua salata
e suonano musica country o rock.
Fanno una specie di danza, non proprio una danza,

sbrigando i rituali, a volte
scoppia una zuffa, o ci scappano persino
coltellate. Ma per lo più è un passo a due
e una cantata. Banchettano col bottino –
sbucciano scampi e bevono birra,
fanno toast o fanno bollire bricchi al canto dei chiurli.

 

 

Ungaretti a Broken Bay

Un airone azzurro, in cerca di cibo per la prole,
volteggia intorno a una cicala invischiata – poi
si ferma, assume una postura di caccia.
Una famiglia di fringuelli testa-rossa
sfreccia da un buco in un ceppo
cavo d’eucalipto.
Gatti in cerca di teste di pesce fra i rifiuti
vicino alla lucidatrice; ratti d’acqua
nidificano sotto assi sbiancate dal sole
sporgenti dalla riva fangosa.
La marea è a favore e Giuseppe
dispone le sue lunghe lenze –
Getta l’ancorotto:
quando farà presa sul fondo
seguiranno le esche, coi loro
filetti di triglia spaccati,
bloccati dall’uncino – ami punta 5.0 –
queste esche, che ancora trasudano sangue,
fluttueranno nella colonna d’acqua.

 

 

L’anima del martin pescatore
(per Juno)

Un’onda colpisce la costa di massi irregolari,
esplode, s’apre in rosa di schizzi, un’ala fluida
ricade poi in gocciole sull’onda: una spuma
di sangue arterioso. L’occhio è beffato da ciò che
il cervello intende – lo spirito spicca il volo
a ogni guizzo di intuizione – piume di fumo
si sfanno nell’aria mentre planiamo verso la chiarezza.

Ai vecchi tempi pensavo che l’arte
di pura immaginazione volasse più in alto
di ogni cosa reale. Ora sento un palpito leggero
d’uccello nella mia pulsazione, in unione col cielo.
Allora, una parte di me era solo a metà viva:
il tuo respiro m’ha dissolto dagli occhi un bosco di fumo
e ha portato in vita l’altra metà. Non c’è

prova, niente di tangibile, e nessun filosofo
di razza a considerare possibilità,
ponderare piume, o anime. Un giorno
qualche prova potrebbe sgorgare da indizi
come fece il corpo, che se la cavò nel rigettare i dolci veleni,
la lusinga del canto oscuro. Sei arrivata con vento
nello sguardo, a spazzare via strazi e rovelli,

a schernire il fatale comando del Re d’Inferno;
tu creasti compleanni e gli zigomi
di famiglia – io ero al meglio, vita facile
e vena felice, nella soffice culla del pensiero.
Ripulii da falsità della memoria la stessa mia memoria,
le sue stangate e segna-punti, quelle ambigue poesie –
terso canto d’uccello, non canto-umano, udire si mutò

in reti e vibrazioni offuscate, aria ronzante,
satura di falsità e sussurri. Sentivo fogli bianchi,
rientri creati da immagini, e tiravo avanti
con forme create da consuetudini artefatte.
Mi insegnasti a ponderare la messe della luce.
C’era fulgida innocenza nel tuo sillabare,
ho appreso a leggere di nuovo attraverso occhi feriti.

I filiformi ragni della resa sfolgoravano di statica
elettricità lungo la pelle, vene sottili, un ricamo di
fili ramati, conduttori di pena al sistema
nervoso: tutti pesi piuma, per la tempra del tuo sangue.
Hai recato con te luce nuova, in cui vivere
con cui leggere – prima del tuo arrivo, ogni volta
che scorgevo un barlume del mio sangue, pareva che

mi svenassi d’una cascata di cellule brillanti.
Nubi d’eufonia, create da quella perdita, divenivano
buchi nel pensiero, spacciandosi per vie di fuga. Ora tu
sei una rapida, ali per i tubicini delle mie
coronarie. Dormimmo insieme quando arrangiasti
un letto nella tua casa-albero: ore senza narcotici,
la pace apparve e disse: Presto, il futuro vi aspetta.

Entrai nel giorno, seguendo il tuo sguardo.

 

 

Camminando lungo il fiume

Camminava semi-sommerso
attraverso i suoi pensieri,
emozioni, un intrico di tralci
e rampicanti.

Le sue parole erano fringuelli
in volo davanti a lui
che oscillava le braccia –
e sparpagliava paragrafi.

Scroscio di cascata
avanti sul cammino,
parole in schegge cricchiavano
a ogni passo. Giunse in

un luogo quieto, frasi opulente
in boccio: unghia di strega
dai frutti porporini, le bacche
azzurro scuro del pruno.

 

 

I bianchetti

Il primo gelo d’inverno
brucia tenere foglie
di basilico in vasi di terracotta,

ricopre felci zampa
di canguro; bianchi colli di pelliccia
su bocci cremisi.

Gli storni tenaci
volano in giro, beccando avanzi;
cantando, cric, cric.

Ho letto le notizie del mattino
e ho pensato
agli occhi impassibili

dei gabbiani australiani –
i loro becchi straziano i bianchetti ancora vivi

dentro scatole di plastica sul molo
dell’Emporio del Pescatore.

Nel nostro giardino, una pezza
di luce solare si sposta
sull’erba, e mangia i cristalli di ghiaccio.

 

 

Narciso su uno yatch da pesca

La superficie del fiume
in balia di un gorgo
e l’ala pungente
di un vento di ponente

specchi impazziti
in ogni onda che s’impenna
riflettendo facce
cubiste su ogni sponda

lo sciabordio dell’acqua
sul fianco della barca
che sibila e tossisce
l’uccello gatto canta

alla foce del fiume
dove l’acqua dolce
incontra i salmastri
flutti sciabordanti

ascolto gli echi
nello scafo mentre il V8
romba sbronzo di fumi
di benzina ed esige

più musica dark
la luce del sole spacca
i riflessi e la schiuma
bianca dell’onda fa centro

 

 

La rete
(alla maniera di Attila József)

I ricci si sfoltiscono, fiocchi secchi
mi fluttuano intorno alle spalle –
ho perso di nuovo la stilografica.
Zio Eric, l’ultimo pescatore professionista
in famiglia, è morto. Non temere
però, non sono solo.

Sciabico il circolo ematico
e i nervi, la mia rete da pesca genetica,
in queste acque scure
catturo alcune scintille di luce –
la mia rete è strappata, così la stendo
e prendo un ago.

Ora che la mia rete è stesa
sul filo del bucato, vedo
scaglie traslucide, rametti bianchi
da inarcate acacie di fiume; nodi contorti
di fibre da code di pesce nastro;
stelle in un firmamento.

 

 

*

 

 

The Lakeside Rituals

Drive through the town, don’t stop
at the hotel, pass the marlin with its neon sword,
notice the pelicans perched
on the streetlights, pull up and park
by the lake. It’s the dark of the moon
and the bulrushes smell of burning kerosene.

Men wade through lake water,
they follow children who lead the way
with flaming wicks, they are scoop-netting prawns.
They arrived with their families
in cars and trucks, some bring tents.
Behind drawn blinds in the caravan park

husbands get drunk or slip away.
When the last group comes in with their catch,
fires glow in red-hot drums –
they boil buckets of salt water
and play country music or rock.
They do a kind of dance, not really dancing,

attending to rituals, sometimes
a fist-fight will break out, or even a stabbing
may happen. It’s mainly a double-shuffle
and a song. Then they feast on the catch –
peeling prawns and drinking beer,
making toast or boiling billies as the curlews call.

 

 

Ungaretti at Broken Bay

A blue heron, foraging for its young,
circles a stranded cicada – then
stops, assuming a position of aim.
A family of redhead finches
pour out from a hole in a hollow
tree stump of yellowbox.
Cats scavenge for fish heads
by the cleaning slab; water rats
nest under sun-bleached planks
that jut from a mudbank.
The tide’s right and Giuseppe
prepares to set his long lines –
He throws out the kellick:
when it takes a grip on the bottom
the traces will follow, with their
butterflied fillets of mullet,
pinned to hollow – point 5.0 hooks –
these baits, still seeping blood,
will flutter through the water column.

 

 

The Kingfisher’s Soul
(for Juno)

A wave hits the shoreline of broken boulders,
explodes, fans into fine spray, a fluid wing
then drops back onto the tide: a spume
of arterial blood. Our eyes can be gulled by what
the brain takes in – our spirits take flight
each time we catch sight out – feathers of smoke
dissolve in air as we glide towards clarity.

In the old days I used to think art
that was purely imagined could fly higher
than anything real. Now I feel a small fluttering
bird in my own pulse, a connection to sky.
Back then a part of me was only half alive:
your breath blew a thicket of smoke from my eyes
and brought that half to life. There’s no

evidence, nothing tangible, and no philosopher
of blood considering possibilities,
weighting up feathers, or souls. One day
some evidence could spring from shadows
as my body did in rejecting the delicious poisons,
the lure of dark song. You came with a wind
in your gaze, flinging away trouble’s screw,

laughing at the King of Hell’s weird command;
you created birthdays and the cheekbones
of family – I was up, gliding through life
and my fabrications, thought’s soft cradle.
I scoured memory’s tricks from my own memory,
its shots and score cards, those ambiguous lyrics –
clear bird song was not human-song, hearing became

nets and shadowy vibrations, the purring
air, full of whispers and lies. I felt blank pages,
indentations created by images, getting by
with the shapes I made from crafted habits.
You taught me how to weigh the harvest of light.
There was bright innocence in your spelling,
I learned to read again through wounded eyes.

Wispy spiders of withdrawal sparked with static
electricity across skin, tiny veins, a tracery of
coppery wires, conducting pain to nerve
patterns: all lightweights, to your blood’s iron.
You brought along new light to live in
as well as read with – before you came, whenever
I caught a glimpse of my own blood, it seemed

a waterfall of bright cells as it bled away.
Clouds of euphony, created by its loss, became
holes in thinking, pretend escape hatches. You’re now
a rush, wings through the channels of my coronary
arteries. We slept together when you conjured
a bed in your Paddington tree-house: barbless hours,
peace appeared and said: Soon, the future awaits you.

I stepped into the day, by following your gaze.

 

 

Walking by the River

He walked waist-deep
through his thoughts,
emotions, a tangle of vines
and tree-creepers.

His words were finches,
flying before him
as he swung his arms –
scrambled paragraphs.

A waterfall sounded
ahead of his walk,
chipped words cracked
with each step. He came to

a calm place, opulent phrases
in bloom: purple-fruited
pigface, the blackthorn’s
blue-black sloe.

 

 

The Whitebait

The first winter frost
burns delicate leaves
of basil in terracotta pots,

coats the kangaroo-paw
ferns; white fur collars
on crimson buds.

The hardy starlings
flit about, pecking dirt;
singing, click, click.

I read the morning news
and then think of
the unblinking eyes

of silver gulls –
their beaks slash at whitebait still kicking

in plastic boxes on the wharf
of the Fisherman’s Co-op.

In our garden, a patch
of sunlight moves across
the grass, eating the crystals of ice.

 

 

Narkissos on a Gamefishing Boat

The surface of the river
caught by an eddy
and the clipping
wing of a westerly wind

crazed mirrors
in every leaping wave
reflecting cubist
faces on each edge

the water lapping
on the side of the boat
hissing and coughing
catbird songs

at the river’s mouth
where sweet water
meets the salt
tide’s lapping tongue

I listen to echoes
in the hull as the V8
thrums drunk on petrol
fumes and calling

for more dark music
the sunlight shatters
reflections and the white
foam of the wave hits home

 

 

The net
(after Attila József)

Curly hair’s thinning, dry flakes
drift around my shoulders –
I’ve lost my fountain pen again.
Uncle Eric, the family’s last professional
fisherman, is dead. Don’t worry
though, I’m not alone.

I trawl my bloodstream
and nerves, my genetic fishing net,
in these dark waters
catch a few sparks of light –
my mesh’s torn, so I hang it up
and grab a needle.

Now my net’s hung out
on the clothes line, I can see
translucent scales, white twigs
from swayback river gums; twisted knots
of hair from ribbonfish tails;
stars in a firmament.

 

*

 

I testi sono tratti da Robert Adamson, The Kingfisher’s Soul (Bloodaxe 2009). La traduzione è di Angela D’Ambra.

 

*

Robert Adamson è nato a Sydney nel 1943. Nella tarda adolescenza e durante la prima maturità ha trascorso dei periodi in istituti correzionali e in carcere: è lì che ha cominciato a scrivere poesia. La sua prima raccolta, Canticles on the Skin, è del 1970; in seguito ha pubblicato più di una dozzina di altri volumi, tra cui The Clean Dark (1989) e The Goldfinches of Baghdad (2006), premiati in Australia con prestigiosi riconoscimenti. La poesia di Adamson riguarda l’esperienza della reclusione, la vita nei territori dell’Hawkesbury River, dove ha abitato (e pescato) per molti anni, le relazioni personali, e i rapporti coi suoi colleghi e mentori, tra cui il poeta statunitense Robert Duncan. Oggi insegna poesia alla University of Technology di Sidney.

Diario parigino 4. Dire Parigi.

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[Diario parigino 1, diario parigino 2, diario parigino 3]

di Andrea Inglese

Mettiamo che per uscire dall’impasse, per chiuderli davvero questi conti, con tutte le faccende, quelle più antiche, che mi hanno portato fuori dall’Italia e dentro la Francia, ma anche quelle più recenti, che nella Francia mi hanno fatto restare, e non in un luogo pittoresco qualunque, ma nella sua capitale, o nei dintorni di essa, perché io vado e vengo dalla capitale, io passo un notevole tempo a Parigi, per il lavoro beninteso, ma anche spesso per il mio semplice arricchimento spirituale, e comunque non dormo quasi mai a Parigi, sono un pendolare,

Cinque poesie inedite

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di Damiano Sinfonico

Ho percorso tante case.
Una diversa dall’altra.
E una uguale all’altra.
Non saprei dire che cos’è una casa.
È più grande di poche stanze.
E più piccola di un’idea.
Ci è noto ogni particolare.
Le casse da cui soffia la musica.
Il colore della spugna per i piatti.
Da dove salgono i rumori del mattino.
Casa è dove abbiamo le ciabatte.

“Gli Orfani” di Davide Nota: 2 estratti, una conversazione

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di Davide Nota

Le prime chatroom del Novantanove, ricordi?
Quando sperimentammo la verità di esistere come puro pensiero. La scuola persisteva. Ritornavamo all’interfaccia spaziotemporale come da un viaggio segreto nelle regioni della simultaneità. Tutti erano pazzi e parlavano indossando antiche maschere di pixel e rovi. Quando tutti fingono, quando tutti sono sinceri. Ma è finito anche quel tempo.
L’epoca impone riconoscibilità e socievolezza. Nessuna tragica confessione, nessuna ricerca del carnefice ululando tra gli alberi infiammati, velo dopo velo: APERICENA E REALTÀ. Il presente ha vinto. Il commissario tecnico dell’infelicità.
Questa città barocca non mi convince. A Roma avevo trovato una liturgia più chiara. Dalla casa al supermercato; alla palestra. Ascoltando Eminem in MP3. Via Pisana, Bravetta e infine Corviale, Corviale, muto enigma, Gautama, enorme OM di moto costeggianti il serpentone.
Oggi turisti sgambettanti festeggiano la grande Restaurazione. Un’allegria si espande tra i coriandoli esplosi da un vetusto marchingegno di scena. Ragazze scintillanti mi chiedono: “E tu, ti senti SPECIAL?”. Ma è tutto già accaduto.
La banda allegrotta suona musica popolare.
Solo si erge nella sua onestà un McDonald, a consolarmi da tanto ottimismo. Mi avvicino a leggere il menù ed è quello di sempre. Ragazzi privi di aspettative mordono timidamente panini. Hanno sorrisi più miti. Dunque parlano ancora di zii o di quel viaggio a Costanza nel duemilatre? Oh, cari…
Tifo declino come preludio al grande avvento degli spiriti del Sud. Gli alberi ondeggiano a uno stesso vento inoltrandosi messaggi di alleanza. I larghi boschi attendono il passaggio ed io sono con loro.
Nel fiume di gente mi sciolgo e il mio corpo è una voce che dice: Euridice…
[…]

*

[…]
Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato.
Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera.
Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra. Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà ucciso e si farà cardo.
Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore ed ora l’incanto è finito. Ci ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti aspetto. Tuo.
Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro per le pagine secche di un diario.
Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante. La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare, negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente.
Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi; il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare le tubature del termosifone o mordersi una mano.
Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco, dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso. Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava Silvia tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane.
Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni sinceri e delle prime scoperte: Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani di forbice…
Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi.
Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare a ritrovare l’UFO con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli.
Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza, la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare.
Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava come un trofeo esibito al cielo.
Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni sono bellissimi ed è un vero peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica. E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti.
Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato. E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso.

*

Estratti da Davide Nota, Gli orfani (Oèdipus 2016)

 

* * *

 

La verità si manifesta giocando. Conversazione con Davide Nota.

di Mario Di Vito

Quella che segue era nata come unʼintervista, poi però ci siamo persi in chiacchiere. Mi succede sempre quando ho a che fare con Davide Nota: parto con un progetto più o meno preciso e finisco da tuttʼaltra parte, non saprei nemmeno spiegare precisamente perché. La stessa cosa, dʼaltra parte, mi era accaduta anche la prima volta che ho incontrato Davide. Sono passati diversi anni ormai: ai tempi ero un giovanissimo cronista che si occupava per lo più di morti ammazzati e processi (mi occupo ancora delle stesse cose, solo sono un poʼ meno giovanissimo) e la mia capa di allora mi disse che avrei dovuto intervistare questo poeta locale a suo dire molto interessante. Ci incontrammo nel retro di un bar ascolano che ora non esiste più e ricordo che tornai in redazione piuttosto brillo e con un pacco di appunti disordinati e sostanzialmente privi di continuità. Non ricordo cosa scrissi di preciso però nel pezzo definii Davide un «agitatore culturale», temo che non me l’abbia ancora perdonato.
Questa intervista – chiamiamola così – è lʼennesimo atto di una chiacchierata che va avanti da anni. Almeno però stavolta siamo partiti da un punto preciso: il suo primo libro di prose, Gli orfani, uscito poche settimane fa per i tipi di Oèdipus.

Allora, cominciamo con una domanda semplice: dopo tanti anni a scrivere poesia sei passato alla prosa. Non dire che si tratta della stessa cosa e che sono comunque due mezzi e non un fine, è un passaggio abbastanza epocale in una vita artistica. Da cosa è nata questa esigenza (se si tratta di un’esigenza)? E cosa trovi di diverso tra il Davide Nota che scrive poesie e il Davide Nota che scrive prose?

Al di là del fatto che la mia prosa nasconde un numero considerevole di versi, la risposta è abbastanza semplice. Questo libro nasce come un flusso di coscienza involontario, un fiume emerso per esigenze private e direi fisiologiche, su alcuni quaderni che mi portavo dietro, in zaino, durante una massacrante stagione lavorativa in un caseificio laziale dove ho passato alcuni mesi di prigionia nel 2012. Lavoravo dalle sei della mattina alle venti di sera, a volte sette giorni su sette, e la scrittura era il solo modo che conoscevo per sfogare le energie in esubero determinate da tale condizione di surrealtà, che poi è la norma attraverso cui la mia generazione talvolta ha un salario. I miei momenti compositivi erano dunque limitati alle pause pranzo, che passavo seduto su un marciapiede di fronte a un piccolo bar, tra la campagna e via di Bufalotta, e ai ritorni in autobus, a sera, che duravano allʼincirca unʼora e mezza. Le scenografie dei racconti di fantasia, allora, erano composte da elementi reali del paesaggio che poi andavo animando di presenze e voci, di alter-ego e fantasmi, di significazioni post-apocalittiche o fantastiche, come in un gioco autistico di bambino. Altre erano invece ricordi, memorie involontarie. Altre sogni o visioni, altre realtà quotidiana vissuta altrove. Questa fonte che emergeva da sé, me nonostante, come scrivo nel racconto “Il ritorno”, che è un ritorno a casa da lavoro ma è anche un ritorno allʼesperienza interiore, chiedeva di emergere in prosa. E se anche sgorgavano endecasillabi o settenari, questi diventavano poi frasi, le pagine si allagavano e io semplicemente ho assecondato questo allagamento, senza alcun progetto che non fosse quello di assistere in prima persona ad un evento estetico di cui non avevo padronanza alcuna. E il libro così si è scritto, in uno stato febbrile e diciamo di trance reale, da stanchezza fisica, nelle forme di una prosa musicale piena di fraseggi metrici, rime e assonanze.
Dʼaltro canto è pure vero che lʼambiente poetico italiano mi pareva così accademico e a me distante che non vedevo da tempo lʼora di “cambiare lingua, cambiare linguaggio”, come scrivo a un certo punto del racconto “Dana”, dove si rivela il mio alter-ego. “Uscire! Uscire!”. Ma non potevo deciderlo, dunque ho aspettato che accadesse.

La figura degli Orfani ricorre spesso, comunque, nella tua produzione. Perché?

Il concetto di orfanità è tragico e complesso e la sua profondità da sempre mi coinvolge e commuove. Può essere proiettato su più piani, dallʼindividuale allo storico, dallʼesistenziale al politico, dal filosofico al teologico. Io mi sento orfano di molte cose. Abolita la realtà, è svanito anche il sogno. Siamo tutti orfani, tanto di Apollo che di Dioniso.

Si è evoluto il tuo concetto di «fantasy no gender», già espresso su Nazione Indiana tempo fa?

La definizione di “no gender” è stata purtroppo degradata dai tradizionalisti del “Family day” che ne hanno fatto il loro slogan orrendo. Io quando lo significavo su “Nazione Indiana”, nel 2013, parlavo di rifiuto della generialità, di onni-generialità. Questo si riferiva ai canoni del maschile e del femminile, che riguardano lʼeros e non di certo la sessualità, come studiare Bataille potrebbe aiutare forse a comprendere, ma anche ai canoni letterari, nel rifiuto della separazione tra prosa e poesia innanzitutto, o tra scrittura colta, autoriale, e quella di genere. Per questo quando scrivevo i miei primi racconti di fantasia, che riusavano alcuni standard della narrativa pop così come nel jazz si riusa uno standard da cui affacciarsi per lʼimprovvisazione, per il guizzo, avevo elaborato questa definizione. Poi il libro si è sviluppato e la realtà è tornata ad essere il corso centrale della storia, le digressioni fantastiche sono divenute così i sogni di Jan, questo alter-ego che al posto dei libri di poesia ha i fumetti.

In più momenti della narrazione affronti temi, per così dire, «di genere»: menage a trois, «io sono lesbica» e così via. Credi che sia possibile azzardare una lettura politica della questione o è solo fiction?

Non è solo fiction, è realtà. E la realtà è sempre politica essendo in conflitto con le istituzioni deputate a normarla. Lo Stato è il conscio, che rimuove e reprime, o maschera nelle forme canoniche del compromesso e dellʼipocrisia. La poesia è un inconscio che insorge musicalmente e dice: “Eppure esisto”. Non solo. La poesia, se non vuole essere sostitutiva della vita, è un invito al viaggio fisico, un diario di bordo dellʼesperienza che chiama ad essere provata. Che questo avvenga in maniera allegorica o realistica, calda o fredda, non è il punto. Né il punto è essere aggiornati alle estetiche delle capitali del Capitale, come Baudelaire dimostra. Il punto è lʼoggetto scoperto che il testo vela. Quello sessuale è lʼoggetto sacro per eccellenza, connesso allʼordine delle civiltà e mai quanto oggi è lʼoggetto politico di un contendere globale. In questo prendo parte e milito, come nella scena dellʼamplesso fraterno sopra lʼaltare di una Chiesa crollata.

Nei racconti – che bisognerà poi stabilire se sono separati oppure se hanno un senso anche se messi in relazione tra loro, in modo da formare una specie di stralunato romanzo – si mischiano pezzi di vita passata, il presente e qualche idea di futuro, insieme a situazioni di fantasia, sogni, incubi e ”svarioni”: sei in grado di dire dove vuoi arrivare?

Scrivendo, perlomeno per quanto riguarda la mia esperienza personale di scrittura, ché ognuno ha la sua e lʼuniverso è grande abbastanza per contenerci tutti, non si vuole arrivare ma si arriva, come in un sogno. Le cose accadono. Ora che lʼopera è conclusa e la guardo come un oggetto esterno posso dire dove sono arrivato. Sono arrivato a Jan, a questo ritratto schizofrenico di un inconscio generazionale composto da molti strati, da infiniti veli, come ponendo una radiografia sopra la pagina di un Dylan Dog, sopra la lettera di un ragazzino in fuga, sul finestrino di un autobus che riflette il tuo volto e incornicia, anche, un frammento orfico di città e di crisi. Siamo complessi e composti da molti livelli. Gran parte del nostro immaginario è determinato, tanto dai fumetti dellʼadolescenza, quanto dalle letture della maturità, o dai ricordi dellʼinfanzia, dallʼeducazione familiare o dal sistema di comunicazione. Sopra questo fondale, che è come un filtro ottico sovrapposto alla realtà in atto, cʼè la coscienza che risuona, il pensiero fonico ed il dubbio filosofico che brucano la scenografia storica e la rivelano infondata. Sono arrivato a questo labirinto, a questo mosaico che chiamo auto-ritratto anche se lʼio narrante non coincide sempre con lʼio biografico, cioè l’autore implicito è un impasto di realtà e fiction. Ma la volontà comunque non cʼentra. Sono arrivato qui casualmente, cadendo.

C’è, in tutta la tua poetica, un filo che non si interrompe. Mi spiego: tu raramente parli per immagini e raramente ti abbandoni al lirismo. Più spesso parli di sensazioni, di umori, odori, sapori. Cioè, se dovessi parlare di una botta in testa non la racconteresti, cercheresti letteralmente di infliggerla al tuo lettore. Alla fine de Gli orfani, in effetti, sembra di aver preso una botta in testa e si va a rileggere alcuni passi (almeno a me è successo così) per cercare di capire quand’è arrivata, questa botta. Non è una domanda, è una mia impressione. Sei d’accordo? Stavi cercando di darmi una botta in testa?

No, infatti, stavo cadendo e per sbaglio ti ho colpito. Scusa.

Sul linguaggio: fai un gran minestrone di termini aulici, slang moderni, linguaggio discorsivo, inverti l’aggettivo con il sostantivo. Quanto conta il lavoro di limatura in un processo del genere? In altre parole: ti esce direttamente così o ci devi lavorare come un artigiano?

Il magma musicale esce direttamente in stato di trance, il lavoro artigianale invece consiste nella selezione e nel montaggio degli elementi. A volte di una prosa resta solo un frammento che viene incastonato in un testo nuovo. Come la Quercia del fauno che divora il masso e lo trasforma in altro. Era un masso, adesso è diventato una soglia.

Politicamente, comunque, ne esci come un anarco-insurrezionalista. In altri anni qualcuno avrebbe invocato la censura.

Non credo che oggi ce ne sia un gran bisogno dal momento che nasciamo silenziati. Possiamo ambire, però, a insorgere in noi stessi. A rifiutare lʼirrealtà del cosiddetto reale, lʼabitudine al pensiero che secerne ripugnanze, come definisco nel libro il tradizionalismo. O come dice il mio fratello e amico Stefano Sanchini, poeta di Pesaro: “Aspiro ad essere / lʼanello malato della catena di montaggio, / aspiro alla solitudine e allʼingiuria…”.
Ad ogni modo, politicamente sono un libertario comunardo, dal 1848 parigino al 2001 di Genova, per la confederazione leopardiana delle solitudini e contro la massa socializzata e morale. Odio il moralismo più dellʼindifferenza.

Come credi si inserisca Gli orfani nell’attuale narrativa italiana? Non nel senso di mercato letterario o di «filoni», ma proprio in quella che possiamo chiamare «storia pubblica dell’Italia contemporanea». Mi spiego meglio e in maniera più semplice: come vivi la contemporaneità?

Mi sento molto solo.

Se qualcuno dovesse portare Gli orfani al teatro dovrebbe riesumare il mai troppo celebrato genere della farsa. Hai pensato a un’eventualità del genere?

No, però mi piace il riferimento. Il tragicomico e il grottesco sono cifre estetiche in cui mi riconosco. Questo continuo sgambetto del sentimentale che si rende ridicolo esasperando la posa, del filosofico che gioca tra il sublime e lʼosceno, perché la verità si manifesta giocando. Fingendo di mentire.

THE REVENANT [2015] Purché sia acqua

1

[ lezioni americane ] – in Spotlight vengono denuciate senza mezzi termini le violazioni dei religiosi sui corpi di bambini – nessuno può dirsi innocente ⇨ nel “teatro del mondo” di The Hateful Height – e la vendetta porta all’autodistruzione e all’estremo – forse inutile – sacrificio ugualmente in The Revenant – ma è proprio sui corpi fisici degli attori – infrangendo la levigata – la patinata idealizzazione di una bellezza perfetta – che ci arriva una lezione di cinema – di vita e di etica dell’arte – di senso profondo – Daisy di Janet Jason Leigh è “bellissima” per tutto un film nella sua bruttezza ricoperta di graffi – lividi e sangue&vomito – persino Charlize Theron in un frenetico e visionario Mad Max: Fury Road – rasata a zero con un braccio ridotto a moncherino lotta contro dei tiranni freaks e deformi e conclude il film pesta e con un occhio semichiuso – Brie Larson in Room senza trucco – trasandata e fragile – è prigioniera con il suo bambino nella stanza maleodorante dove è stata rinchiusa per anni dal suo rapitore – e anche in The Martian tipica storia americana in cui per “la gloria della nazione” un cosmonauta viene salvato in extremis dopo essere stato abbandonato su Marte – Matt Demon si trasforma in un buon selvaggio sporco – barbuto e puzzolente che coltiva patate fra i suoi escrementi – Leonardo Di Caprio arranca strisciando martoriato di ferite – fra fango e sangue e acqua – solo nella maestosa terribile bellezza della “natura rossa” – grugnendo ogni tanto qualche parola sconnessa – nè più nè meno dell’orsa che lo ha aggredito riducendolo nel fin di vita da cui dovrà tornare “redivivo” – lo stesso girare questo film diventa per il cast una specie di “via iniziatica” – di prova di coraggio e di sopravvivenza – e sicuramente arriva a investire delicati meccanismi emotivi negli attori prima e nel pubblico di conseguenza – ed è proprio da questa sfera di rimandi emozionali che partono gli appunti di Anna Tellini su The Revenant attraverso Tarkovskij e Rubèn Gallego e l’Ivan Il’ič di Tolstoj – [ Orsola Puecher ]


 


 
di ⇨ Anna Tellini

Prologo

Dialogando fitto col proprio tumore, un regista apre il suo ultimo film con
 
un uomo e un bambino che innaffiano un albero morto.
 
Una sequenza di “Sacrificio” che non mi ha dato scampo, e per decenni mi ha scavato dentro.

Antefatto

Tarkovskij ero – molto faticosamente – riuscita a farlo venire nella mia università a parlare di “Nostalgia” (allora in fase di montaggio) e del suo cinema, ma, come spesso capitava coi russi, mi trovai ad ascoltarlo profetare. Sul declino ineluttabile dell’Occidente, orfano di spiritualità, in primo luogo: un piccolo-grande “scontro di civiltà” ante litteram?
 
L’uditorio, all’epoca, non potè tollerare che qualcuno, per di più venuto da una terra di barbari, si ponesse con fare così sprezzante, e l’incontro si trasformò in un ring.
 
Fu allora che toccai con mano il potere vero della traduzione: l’interprete ero io, e – omettendo se necessario, smussando con generosità – riuscii a far rispettare perlomeno i codici del gioco.



 
Dal documentario-saggio di Chris Marker
Une journée d’Andrei Arsenevitch [1999]


 

Atto I

Sono io? Sì, sono io.
 
Dalla vecchia cassetta, insondabilmente non smagnetizzata, la mia voce mi ritorna tranquilla: parole scandite ad arte, dizione esemplare, tono di chi sa il fatto suo. Le mie riserve istrioniche soccorrono il pre-coma emotivo che mi fiorisce dentro.
E’ un giorno del 1983, l’aula magna della mia facoltà è strapiena, ed io sto per giocarmi l’onorabilità, se mai ne ho avuta una: Tarkovskij ha cominciato a parlare…

Atto II

Sono io? Sì, sono io.
 
Oggi – qualche giorno fa.
Nessun aplomb – vero o interpretato, stavolta. Accavallo e scavallo le gambe, assetate di fuga. Mi copro il viso – gli occhi però no.
Mi afferro la nuca – come a sostenermi.
Davanti a me, una fila di adolescenti imperturbabili mi attesta i numerosi gap generazionali sopravvenuti.
Un’orsa ha fatto irruzione sullo schermo Flagranza di artigli.

 
1orsa 2orsa
3orsa 4orsa

Hugo Glass ne è squarciato. Ora è una bambola inerme. Ma urla gorgoglia si contrae
in un vasto supplizio di disintegrazione.
Squarci trionfanti a scoprire ossa e interni grovigli. Evidenza scandalosa del soffrire.
Sangue secrezioni umori poco ostensibili. Nulla ci viene risparmiato.
Sto guardando un film, che – fatto per me ben più micidiale – deve molto a Tarkovskij.
Con un anacronismo per me saturo di tempo e imperioso quanto la marmellata di susine che aveva catapultato il tolstojano Ivan Il’ič ai giorni della sua infanzia, “Revenant” di Iñárritu mi rimaterializza ormai ben labili assenze come la fu Unione Sovietica e un regista con essa in irrimediabile rotta di collisione. E ogni cosa si permea di emozioni, e tutto riprende corpo, sensorialità e peso.
Pensare che sto solo guardando un film – anche se deve molto a Tarkovskij.
La stessa ossessione dell’acqua. Acqua ghiacciata, sgocciolii, acqua violenta dal cielo. Alito che si condensa.

 
 
 
 


Un’acqua forse neanche trasparente si fa strada aggressiva tra radici nodose, ribolle, e noi siamo lì, vicinissimi, anche se magari non sappiamo dove, la vista ingombrata dai vapori.
Il peso dell’acqua e la fatica di affrontarla.
Acqua che qualche volta salva, ma più che altro espone. E poi trascina un corpo già abbondantemente trafitto ai suoi aguzzini finali.
Onirici quasi, in essa appariranno degli alci, immagini creaturali sì, ma qui soprattutto cibo che sfuma alla presa, prima che alla vista.
Acqua che disseta, e che nasconde.
Acqua che ostacola, oggetto intrattabile che obietta e che resiste. Epperò da attraversare: durezza e rischio.
Densità e vischiosità. Astuzia dell’acqua.
Doti trasformative, contenitive: ostensione velata di corpi e presenze ambigue, di creature che non appartengono più del tutto al mondo di sopra.
Malinconia dei corpi.
Altri occhi, più sapienti dei miei, hanno nel frattempo scandito a regola d’arte i debiti di “Revenant” con Tarkovskij, inquadratura per inquadratura. Per me è stato più semplice, a dirmelo è stata la memoria del corpo.

 

 
Vicissitudini del corpo del protagonista. Hugo Glass striscia. In ⇨ un video di anni fa, anche Rubén Gallego striscia, e lo fa con consumata leggerezza, e lo fa con un’abilità preclusa ai più, in una sorta di visione orizzontale del mondo. Come in un’inquadratura fedele all’acqua.
E le immagini si moltiplicano, come in un’arcana, e molto privata, liturgia della resurrezione.

 

Epilogo

 
Una volta a casa, resuscito la cassetta sopravvissuta a traslochi e peripezie di varia portata, un terremoto incluso, e mentre ascolto, ritrovandola dentro di me, la voce di un Tarkovskij redivivo che riprende a profetare, mi preparo una minestra: calda, fluida, rassicurante, ad essa, penso, lo stomaco, anche se un po’ contratto, non si opporrà.
Un cibo-bambino, come quella marmellata di susine che aveva accompagnato gli ultimi giorni di Ivan Il’ič, consigliere di Corte d’appello.

 

CONNESSIONI
(a mo’ di poscritto)

 
Come in un gioco di imprevedibile assonanza, alle spalle de La morte di Ivan il’ič (1882-1886) di Lev Tolstoj, e di Bianco su nero (2002), sorta di autobiografia di Rubén Gallego, possiamo, forse, azzardosamente vedere due eventi lontani – e non solo nel tempo -, ma di eguale, e inaudita, corrosività.
Se nel 1881 l’assassinio di Alessandro II, zar di tutte le Russie, non commosse il “grande vecchio”, ne rese però irreversibile la conversione mistica, l’insofferenza per la follia dell’abituale, per l’inerzia del buonsenso nella vita quotidiana.
Dal canto suo, Gallego approfitterà del disordine generale innescato dalla perestrojka per fuggire dall’ospizio dov’era rinchiuso, tornando dai mondi a parte – istituti per disabili, centri chiusi, centri segreti – dove di volta in volta lo avevano internato in attesa della morte prevedibile per chi, come lui, era marchiato da un handicap grave. Nel suo caso, una paralisi cerebrale alla nascita: anche se, come rivendicherà una volta libero, “con l’indice della sinistra posso scrivere al computer, nella destra ci si può infilare un cucchiaio e mangiare normalmente” [Adelphi 2004, p. 131].
Niente di tutto questo, va da sé, nell’esistenza un tempo addirittura brillante di Ivan Il’ič, non fosse che essa ci viene data retrospettivamente dal punto di vista della sua morte, a sua volta raffigurata dall’interno , dal punto di vista della coscienza del morente. E allora grado a grado tutto si sgretola nei toni della menzogna e del disvalore. E’ qui che, mano a mano che Ivan Il’ič sprofonda nelle vicissitudini del corpo, la marmellata di susine, madeleine proustiana ante-litteram, anche se di materia più dimessa, viene dolorosamente ad evocare in lui, con la memoria dei sapori, tutta una serie di ricordi dell’infanzia, la bambinaia, il fratello, i giocattoli…

 

Andata e Ritorno Vol. 3 – Festival di poesia orale, musica e arte –

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a cura di Blare Out

10-11 marzo 2016 – Venezia

Opening: giovedì 10 marzo ore 17:30
Palazzo Mora, Str. Nuova, 3659, Venezia
Ca’ Bernardo, Dorsoduro 3199, Calle Bernardo, Venezia

Blare Out presenta la terza edizione di Andata e Ritorno – Festival di poesia orale, musica e arte – che si terrà il 10 e l’11 marzo 2016 a Venezia, nelle sale espositive del primo piano di Palazzo Mora, uno degli spazi gestiti dall’European Cultural Centre, che che ogni anno, in occasione della Biennale, ospita mostre di arte contemporanea e architettura.

“I desertificati” – di Daniele Zinni

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di Daniele Zinni

Mattina, esterno: campo lungo di una rovente piana sabbiosa. Una figura avvolta nel bianco e in una nube di pensieri cammelleggia, senza fretta né entusiasmo, lungo una rotta che lei sola vede, come la mano del disegnatore segue una linea che l’occhio già immagina sulla carta. Forse subconscia delle similitudini che la riguardano, la figura sbadiglia; di riflesso sbadiglia pure il cammello.

Controcampo: a censura integrale dell’orizzonte e delle sue lusinghe si innalza dalla sabbia un massiccio brullo, affettato in due da un crepaccio scuro. È lì, verso il sentiero aperto nella pietra, che punta la figura, e ogni giorno si compiace di poter attraversare la spettacolare Gola del Breikh durante l’orario di lavoro. Con ritualità, il viandante inspira e raddrizza la schiena; ammira la striscia azzurra costretta tra le rupi; gode, detto fra noi, del brividino e della leggera vertigine con cui il suo corpo si adegua al fresco ombroso dell’abisso. Quattro minuti di vacanza al giorno: un affare simile, con Allah, non lo si spunta spesso.

Una volta Sumì è in anticipo, e di minuti a disposizione nella Gola ne ha sedici. Scende dal cammello, si avvicina a esaminare la parete di roccia, la scopre rosa e nera – l’amalgama di due minerali diversi. Da bambino, sospetta, ne avrebbe saputi i nomi e ricordate le proprietà, ora deve limitarsi alle apparenze. Si ripromette di prendere a prestito un manuale di mineralogia e tornare alla Gola il giorno dopo, che è un sabato, per oziare con calma, poi però si solleva una tempesta di sabbia e gli tocca rimanere a casa. La domenica il tempo è bello, ma c’è da sistemare una finestra rotta ed è un peccato, perché il fine settimana successivo lui e la moglie sono ospiti da amici quindi se ne riparla ancora più in là.

Nell’animo di Sumì, comunque, si fa strada la convinzione che il suo equilibrio dovrebbe essere invidiato; le sue quotidiane scappatelle tra bellezza, innocenza e libertà. Ne parla a sua moglie, lei tira dritto alle conclusioni: «Il tuo lavoro non ti piace».

Se l’aspettava mica, Sumì. Si abbatte, si arrovella, passa la notte a incolonnare pro e contro. Al mattino, vestendosi, ritira fuori la questione con disinvoltura: «Macché, mi piace! Mi piace! Non devo fare straordinari, i colleghi sono simpatici, a casa ho la mente libera… E poi che c’entra?». La moglie compie l’impresa di seminare discordia in una sola persona: «Mah, fa un po’ come ti pare». Sumì è interdetto, avrebbe fatto più volentieri come pareva a lei, ma a questo punto gli sembra il caso di tenere duro.

Passano i giorni: dubbiosi, ripetitivi, feriali giorni. La ripetitività fa appena in tempo a poter essere considerata tale che è interrotta dall’incontro di Sumì con un perdone del deserto, uno dei tanti ragazzi che finiscono la scuola e decidono di perdersi fra le dune per mesi o anni, senza una preoccupazione né un obiettivo preciso, come se il tempo non fosse denaro. Troppo vestiti, troppo imprudenti, senz’acqua né mappe al seguito, nessuno sa bene come facciano a sopravvivere o perché lo facciano.

Sumì, senza cattiveria, preferirebbe dare un dito, piuttosto che confidenza agli sconosciuti. D’altronde, i funerali ai quali in passato non ha voluto partecipare gli hanno insegnato una verità: puoi trovare tutte le giustificazioni che ti pare, per non fare certe cose, ma perdi più tempo a reprimere i sensi di colpa per non averle fatte di quanto ne perdi a farle. Ecco perché Sumì ormai frequenta anche i funerali di persone che conosceva molto poco, ed ecco perché si prepara a dare un passaggio al perdone, mentre gli si avvicina a dorso di cammello.

«Ciao amico! Grazie per esserti fermato. Me lo daresti uno strappo?»

«Per dove?»

«Non saprei! Tu dove vai?»

«Torno a Dodaih.»

«Non la conosco ma va benissimo!»

Il perdone monta su mentre Sumì ha un attimo di esitazione, indeciso se scansarsi – rischiando di esser preso per uno che ha pregiudizi sull’igiene personale dei perdoni – o restare immobile, rischiando la figura del maleducato. Avverso al rischio ma favorevole al rendimento, Sumì si sposta accennando un sorriso, per sembrare gentile e comunque evitare il contatto fisico. Obbligandosi alla socievolezza, rompe il ghiaccio:

«Dovresti saperti orientare, prima di giocarti la pelle nel deserto.»

«Me l’hanno insegnato, ma dimentico sempre come si fa!»

«Ci vuole allenamento. Io ritrovo tutti i giorni la strada di casa, potrei andare a occhi chiusi.»

«Lavori nel deserto?»

«Come tanti. Faccio l’esploratore.»

«Avventuroso! Torni da un lungo viaggio?»

«No, sono uscito di casa stamattina. Il contratto di categoria prevede paga tripla, se passiamo la notte fuori, perciò il capo ci chiede di non spingerci a più di quattro ore da Dodaih.»

«Eh ma è limitativo!»

«La scorsa generazione ha lottato duramente per ottenere i diritti di cui godiamo oggi.»

Il cammellostoppista rimane in silenzio, Sumì è accigliato. Dopo un po’ riprende a parlare, anche se sembra che parli da solo.

«Mi piace, mi piace, è un bel mestiere, sto all’aria aperta… Anzi, tra un po’ passiamo dalla Gola del Breikh, è un gioiello, la devi vedere. Ma non hai caldo, così coperto?»

«Solo ora che me lo dici. Strano! Sono due settimane, che vado in giro vestito così – lavandomi, s’intende.»

«Chiaro, chiaro.»

***

Giorno di mercato: Sumì passeggia in cerca di un paio di sandali o una mucca, non fa differenza. Mentre sbircia tra le bancarelle è affascinato dalla fortuna del fioraio, che sa i nomi di tutte le piante e certo vive una costante ebbrezza di odori e colori; dalla fortuna della cartomante, che conosce gli affari privati di tutti e quindi tutti la rispettano; dalla fortuna del pizzicagnolo, che può tenere per sé i salumi migliori e più magri e inoltre fa un mestiere con un nome divertente. Sumì si chiede se non abbia davvero sbagliato impiego, se non avrebbe dovuto fare il fioraio, il cartomante o il pizzicagnolo, magari tutti e tre insieme, ciascuno part-time. A essere onesto, sa benissimo come in passato avesse accarezzato con la medesima prurigine l’idea di diventare un esploratore, e un commerciante di tappeti prima di quello, e un farmacista prima ancora. Nessuna professione era riuscita per più di pochi mesi a sedare quell’animo irrequieto; e finché si è giovani, la cosa è fisiologica, ma da adulti un comportamento simile può ricordare quello… della trottola. (Come tutti sanno, anche se pochi sanno di saperlo, darsi della trottola è per i pragmatici abitanti del deserto l’insulto più caratteristico.)

Sumì è immerso in queste congetture e nell’osservare la figlia della merciaia, piegata a raccogliere un barattolo, quando si sente chiamare: ma guarda, di nuovo il perdone, ha deciso di trattenersi a Dodaih per qualche giorno. Una volta tanto, a Sumì fa piacere una compagnia imprevista, che gli permetta di sottrarsi alla pressione dei dubbi. Si susseguono saluti di circostanza, chiacchiere di circostanza, inviti di circostanza: i due vanno a bere un bicchiere di circostanza da Sumì, il quale a ripensarci avrebbe dovuto riparare quella famosa finestra, prima del rientro di sua moglie.

«A proposito, dov’è tua moglie?»

«A proposito di che?»

«Non so, mi è venuto da dirlo. Te ne verso un altro?»

«Sì grazie. Ancora. È uscita, sarà da un’amica.»

«Sicuro? Ieri ho conosciuto Amuah, mi ha detto di essere il suo amante.»

«È… possibile. Può darsi che sia da lui.»

«Non sei geloso?»

«No: Shisma rimane una buona moglie, anche se infedele. Bisogna saper distinguere.»

«Però non sei contento, ti si legge in faccia.»

«In questo periodo sono un po’ demotivato, ma lei non c’entra. Passerà.»

«È il lavoro che ti annoia? Perché non cambi?»

«Guarda ho provato di tutto e mi è successo ogni volta, devo essere proprio fatto così. Mi riempi il bicchiere?»

«Forse sei depresso! Nel raggio di un mese a dorso di cammello, Dodaih è circondata dal nulla.»

«Il deserto bisogna saperlo apprezzare. E poi c’è la Gola, tu l’hai vista, lo sai che un posto così ti rigenera lo spirito.»

«Non sarà  un palliativo? Il buono nella tua vita non dovrebbe essere un’eccezione. Dovresti davvero spostarti un po’.»

«Ma io viaggio! Sono stato in Europa, in America, in Cina; l’anno prossimo io e mia moglie festeggiamo 25 anni di matrimonio e andiamo in Polinesia. Passa la bottiglia, và.»

«Non parlo di turismo, parlo di andarsene per sempre.»

«No, non esiste: io ho i miei amici, mia moglie deve scoparsi Amuah… E gli abitanti del resto del mondo non sono più felici di me; non hanno niente più di me, che in tutto possiedo un cammello e mezza casa. Anzi, io ho la Gola, tutte le mattine, e quella loro non ce l’hanno.»

«A me pare che tu faccia dei sacrifici inutili. Mi versi due dita? Così. Basta, basta.»

«È questione di disciplina, Allah sa. E non mi prendere per uno stupido: lo so che Allah esiste solo nella mia testa, ma è un modo di dire, un modo per riassumere che voglio essere un uomo buono, umile, onesto e generoso. Anzi, se io non fossi così, tu saresti ancora perso in mezzo al deserto.»

«Lo dici come se fosse una cosa negativa! Tu a perderti nel deserto ci vai otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana.»

Dopo quella volta, il perdone non si è più visto. Sumì si è tenuto moglie, casa, lavoro e con questi, ogni tanto, una settimana di dubbi laceranti che si risolvono regolarmente a tarallucci e vino. Negli ultimi tempi ha preso a fare delle incisioni sulle pareti della Gola del Breikh: le forme riproducono cammelli, serpenti, oasi, stanze da letto. Si è convinto che un giorno, se continuerà a incidere la montagna animato da una passione disinteressata, s’imbatterà per caso in un filone d’oro o di un altro metallo prezioso. Tale convinzione, va detto, non trova il supporto di alcun dato reale.

 

*

L’illustrazione è di Andrea Chronopoulos, di Studio Pilar

.agone agonia.

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di Gianluca Garrapa

[una selezione di inediti]

Lingue 2

no preoccupa tu gentile e bravo
uomo va solo con donna
io amo te come amico
no come donna                (scusa)
(adesso sei arrabbiato)
in mio paese queste cose
taglia gola no arrabbiato io
no capisci non vuole
così                                dio.

*

Il monoscopio

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Culler(ecco il penultimo degli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Oggi andremo in casa addirittura di un premio Nobel! G.B.)

di Alberto Tonti

L’atmosfera al Politecnico di Milano è già bella calda. Si passano giorni interi in assemblea a discutere di tutto e di più, fondamentalmente contro qualcosa o qualcuno. Le idee in gioco non sono ancora confluite in diverse, distinte fazioni, simili fra loro ma con sfumature che andranno dal rosa pallido al rosso sangue. Spesso mi ritrovo su posizioni critiche rispetto al Movimento Studentesco, soprattutto giudico le frange estremiste sconsiderate e, in fondo, assimilabili per certi versi a modalità che puzzano di fascismo. Sono sempre presente alle occupazioni e ai cortei, convinto che una parte di quella rivoluzione sia salutare per la scuola e per il paese. Respiro a pieni polmoni gas lacrimogeni, mi becco qualche manganellata, sono testimone di tutte le occasioni di scontro politico e fisico. Non getto mai la prima pietra e deploro quelli che lo fanno. Conosco di vista chi, coi sampietrini in mano, bersaglia le vetrate del Corriere della Sera, chi si salva per un pelo in Corso XXII marzo, chi spara in via De Amicis.

Le ragioni della mia personale protesta seguono più un filo legato al buon senso che al cambiamento rivoluzionario, al ribaltamento violento, alla negazione assoluta dello Stato. Mando a quel paese chi mi fa notare che a Natale lo scambio di auguri debba essere inteso per ricordare la nascita di Mao Tse Tung e non quella di Gesù. Mi vergogno quando, col libretto universitario in mano, mi metto in fila a ricevere il voto politico per una decina d’esami di cui non conosco neppure i contenuti. Non oso guardare in faccia i professori, tanto più se coinvolti forzatamente nella farsa. E’ in quel frangente che decido di allontanarmi per un po’ dai compagni per chiudermi in casa a studiare le materie per le quali ho ricevuto gratis un trenta, per fortuna senza lode.

Durante una vacanza in Costa Azzurra, organizzata da un assistente di Composizione dalle larghe vedute, ho la fortuna di conoscere Gordon Cullen, un anziano e geniale architetto inglese, di rara simpatia e disponibilità. Mi prendo una cotta per le sue analisi sui segnali muti: una sorta di sistema per “navigare in città” che comprende segnaletica, punti di riferimento, particolari memorizzabili, comunicazione fra città e cittadino, linguaggio e vocabolario visivo. In pochi giorni di incontri con Cullen, raccolgo tutto il materiale che serve per scrivere un lungo articolo e, tornato a Milano, ho la sfrontatezza di proporlo a Domus, la più importante rivista di architettura del momento. Dato che una volta nella vita una botta di fortuna può anche capitare, dopo una settimana mi arriva una lettera della redazione dove mi viene comunicata la decisione di pubblicarlo su sette pagine con tanto di schizzi, foto, e via dicendo. Resto talmente incredulo che non ho il coraggio di dirlo a nessuno.

Devo dire che la vacanza in Costa Azzurra ti ha fatto proprio bene!” esclama l’assistente dalle larghe vedute con in mano una copia della rivista. Potevi anche dirmelo, ma ti perdono: hai fatto proprio un bel lavoro, bravo. Nell’intervallo delle dieci andiamo a berci un caffè, ti devo parlare.”

Confuso e colto da improvviso senso di colpa accenno un sorriso mentre sento che le orecchie s’infiammano, poi annuisco e mi rimetto a tirar righe sul tavolo da disegno.

Al bar il colloquio si svolge rapidamente.

Ho la possibilità di ristrutturare la casa di Salvatore Quasimodo e ho pensato che potresti darmi una mano anzi, per dirla tutta, mi piacerebbe aprire uno studio con te, se te la senti.”

salvatore-quasimodoPer la seconda volta nel giro di pochi giorni resto sbalordito da come all’improvviso tutto stia volgendo verso il meglio: cosa posso sperare di più che avere come primo cliente un premio Nobel e, contemporaneamente, aprire uno studio con il mio assistente universitario preferito? Appena prima che mi vada di traverso il caffè riesco a balbettare qualcosa che assomiglia ad un sì strozzato e, quando comincio a tossire, rosso in viso e coi polmoni in subbuglio che non gradiscono affatto l’arrivo invadente di un po’ di quel liquido nero e bollente, mi becco una violenta manata sul groppone dal mio neo-socio. Botta che traduco sia come mano santa per porre fine alla tosse, sia come apprezzamento maschio dell’appena sancita alleanza.

Detto fatto nel giro di pochi giorni ci organizziamo per trovare in affitto un paio di locali da adibire a studio e fissiamo un appuntamento col sommo poeta per la fine del mese.

Nell’attesa dell’incontro l’agitazione e l’ansia crescono: mi compro una bella bindella da cinque metri, un block notes formato UNI molto chic, forse troppo, uno stock di matite di varie durezze, una bella gomma bianca della Staedtler, insomma mi manca solo il nettapenne, la carta assorbente e il cestino per la merenda e sono pronto per tornare alle elementari. A poche ore dall’appuntamento mi faccio una doccia e la barba, mi pettino con la riga e riesco persino a ritrovare in fondo a un cassetto una bella cravatta tutta colorata che fa molto architetto navigato.

Al quarto piano di Corso Garibaldi 16, appena la porta dell’appartamento si apre la donna di servizio (identica a quella che in uno spot dichiara: “arrivo presto, finisco presto, ma non pulisco il water”) mi guarda come si guarda un ragazzino a cui non affiderebbe neppure il riordino di una cucina o di una camera da letto, figuriamoci la casa del Maestro. Lui, invece, ci riceve con un sorriso cordiale e rassicurante, mi stringe la mano come si fa con un uomo anche se, palesemente, ho proprio l’aspetto di uno sbarbatello alla prima esperienza. E’ basso, sul viso pallido brillano occhi penetranti, parla lentamente, è elegante nei modi, mette a proprio agio e, insomma, dopo un paio di minuti mi ha completamente conquistato.

Ci fa accomodare nel suo studio e, con un gesto della mano per sottolineare le sue parole, dice: Come potete notare vivo in un caos, ho bisogno di mettere ordine in questa casa. Ormai non trovo più niente, lo vedete da voi è tutto accatastato: libri, documenti, oggetti. Dovete essere in grado di trovare soluzioni di arredo ma, soprattutto, tentare di riordinare il più possibile. Se vi lascio carta bianca, ce la farete?”

Annuiamo all’unisono come due bravi soldati.

Certo!” osa esclamare il mio socio “vedrà, alla fine le sembrerà di essere in un’altra casa …”

Beh, spero proprio di no, a questa ci sono affezionato…”

Faceva per dire” mi affretto ad affermare prima che una seconda gaffe convinca Quasimodo a chiamare la signora di cui sopra per farci accompagnare alla porta. “Bene, bene… allora d’accordo: lunedì prossimo partirò per un lungo viaggio in Europa, starò via per un paio di mesi, queste sono le chiavi di casa. Basteranno due mesi?”

Ce li faremo bastare, professore!” risponde il socio senior intascando le chiavi e lanciandomi un’occhiata che sta a significare non c’è nient’altro da aggiungere “e grazie ancora per la fiducia.”

L’appartamento di Corso Garibaldi è molto grande e ricorda alla lontana un campo di battaglia alla fine della stessa: per muoversi all’interno di una qualsiasi stanza è necessario seguire stretti percorsi obbligati che si aprono appena nei punti dove è strettamente indispensabile avere più spazio: attorno al tavolo da pranzo e al letto matrimoniale, davanti al divano, alle poltrone e alla libreria. Tutto il resto dei metri cubi disponibili è occupato da cataste di libri dall’altezza variabile, da altrettante cataste di fogli, cartelline, documenti, da oggetti i più disparati che si sono ritagliati a forza uno spazio e, ovunque, da una serie di riproduttori elettronici tutti contemporaneamente funzionanti. Radio, registratori, giradischi e televisori a volume molto basso che rimandano, ciascuno per proprio conto, soffici e avvolgenti folate di suoni, parole, musica che si rincorrono senza sopraffarsi aleggiando, come un continuo mormorio per le varie stanze, tranne che in cucina, regno incontrastato della vera padrona di casa: la signora Teresa.

Tornati nei due locali del nostro piccolo studio mi viene da dire: Ma sei sicuro che in due mesi ce la faremo?”

Dobbiamo farcela! A costo di lavorare giorno e notte. Se il risultato finale fosse molto buono e lo sarà, hai idea di quanti altri clienti potremmo avere nel giro di poco tempo? Un premio Nobel conosce il mondo e, se saremo stati bravi, il mondo diventerà nostro.”

Ho come il sentore che l’affermazione sia azzardata ma, al momento, non mi sembra il caso di farglielo notare.

Dal fatidico lunedì, saltando alcune lezioni, passiamo intere giornate in casa Quasimodo cercando le soluzioni più appropriate, se non altro per mettere un po’ di ordine in quel groviglio inimmaginabile. Mentre discutiamo e prendiamo appunti, mentre facciamo degli schizzi o misuriamo con la bindella da cinque metri nuova di zecca, ogni tanto incrociamo lo sguardo incredulo della signora Teresa che, sparendo dalla nostra vista, se ne va in cucina scuotendo immancabilmente la testa. La sua fiducia nei nostri confronti è totale.

Una volta riusciti ad individuare il bandolo della matassa, in pochi giorni mettiamo nero su bianco sui nostri bei fogli di lucido: piante, prospetti, sezioni, assonometrie, prospettive, particolari costruttivi, eccetera. Scegliamo accuratamente i fornitori giusti e la piccola, ma efficiente impresa, che eseguirà i lavori. Ci restano circa 40 giorni di tempo per portare a termine il cosiddetto “chiavi in mano”, che poi sono le stesse che il professore ci ha consegnato prima di partire.

Si decide di procedere con i lavori stanza dopo stanza. Se ne svuota una accumulando tutto il contenuto in quella accanto, si porta a termine la scatola come da progetto (pareti, soffitti e pavimento) poi si passa all’arredo e alla distribuzione ordinata di qualsiasi pezzo presente in precedenza. Si va avanti così fino alla fine e man mano che l’appartamento assume un aspetto prima decente poi finalmente impeccabile ci rendiamo conto di aver fatto un buon lavoro. Nonostante l’apprezzamento insperato e incondizionato da parte della signora Teresa non riusciamo a convincerla a metter mano anche alla cucina. Appoggiata con le braccia spalancate agli stipiti della porta ci comunica che: Qui dentro non entra nessuno. Qui dentro va bene così. Chiaro?”

Per farla breve a due giorni dall’arrivo del professore, quindi in anticipo sui tempi, la casa ci sembra perfetta e confrontandola con le varie foto scattate prima del nostro intervento non c’è proprio paragone.

Il mattino seguente il suo arrivo notturno all’aeroporto di Linate ci diamo appuntamento in studio alle nove. Per stemperare la tensione che incombe nell’attesa di un colpo di telefono ci incartiamo in una accesa discussione pseudo politica sulle strategie del Movimento Studentesco nel bel mezzo della quale veniamo interrotti e placati da un trillo importante, un trillo che mi vibra nelle ossa e che mi fa assumere l’aspetto di un qualsiasi ebete in circolazione.

Pronto. Buongiorno professore…si mi dica. Oh grazie, grazie davvero, sono felice che le sia piaciuto. Nel pomeriggio? Verso le cinque va benissimo. Ci saremo. A dopo allora e grazie ancora.”

Sempre come un qualsiasi ebete mi alzo dallo sgabello e con le braccia alzate, tipo dopo un gol, mi metto a urlare per la stanza, poi abbraccio il socio, mi astengo dal baciarlo perché sarebbe troppo e, continuando a saltellare, vado in bagno prima di farmi la pipì addosso.

monoscopioIl nostro premio Nobel adorato ci riceve nel soggiorno dove, comunque, appoggiati su mensole e tavolini, rumoreggiano un paio di radio, un registratore, un giradischi e un televisore. E’ molto contento del “miracolo” (così lo definisce lui) che siamo riusciti a compiere in soli due mesi, ci ha messo circa sei ore a capire come e dove avevamo posizionato tutto quel ben di dio che prima invadeva ogni centimetro quadro delle stanze ma, in compenso, una volta scoperta la logica da noi adottata per mettere ogni cosa al suo posto, si è sentito pienamente appagato di un ordine che ormai credeva aver perduto per sempre. E di questo ci era veramente grato. Nessun altro complimento avrebbe potuto renderci più felici, al punto che il socio senior, eccitato da quelle parole, decide di raccontare per filo e per segno tutti i passaggi che ci hanno portati a quel risultato. Mentre è nel bel mezzo della spiegazione mi rendo conto che il Sommo Poeta è interessato allo schermo del televisore, che a quell’ora manda in onda l’immagine fissa del monoscopio ad uso dei tecnici, e non alla valanga di parole che stanno invadendo il suo padiglione auricolare. E’ vero, ogni tanto sorride, ogni tanto annuisce, ogni tanto sussurra qualcosa, ma per lo più è attratto in maniera irresistibile da quell’immagine in bianco e nero con sfumature di grigio, tanto da assumere un’espressione dubbiosa, altre volte interrogativa, altre volte addirittura cupa. La storia del mio partner non è ancora giunta al termine che, alzando una mano, il professore chiedendo la parola lo blocca sul più bello, chiede venia per un minuto, prende in mano la cornetta del telefono, compone un numero e alla risposta dice:

Buona sera, sono Salvatore Quasimodo, può cortesemente passarmi il tecnico che manda in onda il monoscopio” e rivolgendosi a noi sussurra “ è la RAI, scusate solo un istante.”

Si pronto… buona sera a lei, sono Salvatore Quasimodo mi spiace disturbarla ma, solo per curiosità, rispetto a un paio di mesi fa avete per caso cambiato il monoscopio che mettete in onda al pomeriggio?” Silenzio, poi un lieve sorriso, poi ancora silenzio e finalmente: Ah, ecco volevo ben dire, c’erano troppi particolari che non mi tornavano, quindi da una settimana avete dovuto mettere in onda il vecchio monoscopio perché quello nuovo si è rovinato… ecco, ecco… capisco. Ma si figuri, cose che succedono…no grazie a lei e buon lavoro.”

Scusatemi, a questo punto vi devo una spiegazione se no potreste prendermi per matto. Alla RAI ormai mi conoscono, sono molto cortesi, ogni tanto li chiamo per delle informazioni e così ho…come dire…insomma le porte spalancate. Guardando attentamente il monoscopio, che come credo sappiate viene utilizzato per calibrare luminosità, contrasto, sintonia e altre diavolerie simili, mi sono reso conto che non era quello solito mandato in onda prima della mia partenza e così ho voluto sincerarmene. Avevo ragione: sono stati costretti a sostituirlo con uno precedente perché quello nuovo, in onda da più di un anno, per un incidente non era più utilizzabile. Tutto qui.”

Se ci avessero fotografato in quel momento con un flash saremmo sembrati due deficienti con la bocca spalancata, gli occhi sbarrati causa incredulità crescente e inarrestabile.

Complimenti” riesco solo a dire dopo essermi ripreso. “Complimenti davvero per la sua straordinaria memoria visiva e…”

Grazie ma no, niente di particolare, lasciamo stare. Piuttosto torniamo a noi: allora fra una decina di giorni ho deciso di organizzare una cena con pochi amici e mi farebbe piacere avervi ospiti, giusto per inaugurare la nuova casa, che ve ne pare?”

Beh” balbetta il socio “ che dire, non avremmo sperato di meglio, saremo felici di esserci.”

quasimodoBene allora grazie e ancora complimenti, domani se passate dalla mia assistente troverete il saldo della vostra parcella e verrete chiamati fra un paio di giorni per la data della cena. A presto.”

Esattamente dieci giorni dopo alle 20.30 siamo entrati, stavolta in qualità di ospiti, nell’appartamento di Corso Garibaldi. Era tornato, più o meno, come la prima volta che lo avevamo visto: impraticabile.

Accomodatevi: ecco amici, vi presento gli architetti che mi hanno riprogettato la casa da capo a piedi, meritano un applauso o no?”

Non mi ricordo se c’è stato l’applauso, però mi ricordo le loro facce.

E’ inutile sottolineare che il “mondo” che avrebbe dovuto diventare nostro cliente non ci ha cercato né il giorno dopo, né per il resto della nostra lunga carriera.

Educazione sentimentale 1: Erich M. Remarque, Tre camerati

2

di Antonio Sparzani

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Per quel che riesco a ricostruire oggi, la mia educazione sentimentale è cominciata, nella tarda adolescenza, con i libri di Erich Maria Remarque (1898–1970). Autore tedesco di Osnabrück, bassa Sassonia, notissimo per aver scritto quello che davvero fu un best-seller mondiale, e che gli permise di vivere tutta la vita di ricche royalties, Im Westen nichts Neues, tradotto spesso col titolo sovrabbondante di Niente di nuovo sul fronte occidentale e talvolta più sobriamente con All’ovest niente di nuovo.

Io non lessi subito questo, ma pescai, con criteri tutti miei, tra i libri di mia madre, che di Remarque aveva posseduto vari titoli, e scelsi per primo Ama il prossimo tuo, e poi, decisivo, Tre camerati. È di questo che voglio parlare, dato anche che di recente è stato riedito da Neri Pozza.

Sabbia

2

di Marino Magliani

carlos paz copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da casa sua il mare non si vedeva, bisognava attraversare un ponte romanico, poi risalire la mulattiera fin su dove non cresceva nulla, giusto l’erba tra le pietre.

Momo (Parodia)

1

di Daniele Ventre

Poi al passare dei mesi, al correre delle stagioni
al declinare dei giorni, compiendosi lune su lune,
Momo rimase in angoscia rinchiuso in un’urna di bronzo:
si accumulavano intanto le carte e cedevano i muri
e ragnatele sui muri tessevano reti di oblio
e arcobaleni dell’ombra. Per Momo era tutto un bilancio
e bofonchiava così sbilanciando l’urna di bronzo:
“Certo che sono di quelli che pensano di risuolare
sempre le scarpe degli altri al meglio e lasciarne anche il segno.
Io non ho dubbi a scavarci cadaveri sotto i giardini
e se le scarpe suolate non creano traccia né impaccio,
io sono qui a risuolarle -e a chiedermi dove ho sbagliato.
Ma rivediamo con ordine il tutto e spulciamoci a modo:
sì lo spulciarsi è di moda –dell’ordine sparso mi rodo.
Non ci considera musa in collegio o anche da sola-
non ci considera voce di Zeus che diffonde la fama-
non ci considera più diceria né grido di strada-
non ci considera più mormorio o sussurro nel chiuso-
non ci considera più rumorio o bisbiglio di bosco-
non ci considera più l’abbaio dei cani la notte-
non ci considera più chiacchierio di vecchie comari
non ci considera più scaracchio o bugia di sipari.
Certo la somma di tutte le parti è diversa dal tutto:
pure il totale di tutte le parti è ridotto a un bel nulla.
Sì, non dovrei compiacermi -però mi compiaccio davvero:
amo altresì superarmi -altre volte no: mi declasso.
Sì, dovrei farne ironia -però di ironie non è tempo:
anche se il dolce sapore del nulla è un ripudio in tripudio:
anche se tutto il valore del mondo è segnato in ribasso.
Certo dovrei compiacermi di vivere da clandestino,
pur acclamato dal clan e pur desistendo al destino.
Pure veniamo al dettaglio. Fra i piccoli rivenditori
barcamenarsi è la norma: la forma è menarci fra noi.
L’arte del buon gossipparo -il termine copia conforme
l’eco di Truman Capote -per me mi ritengo uno speaker-
l’arte del buon gossipparo -che investiga selve già scure
quello che giudica e accetta i panni e li taglia di scure-
l’arte del dissodatore cartografo puericultore,
di immaginario malato che immagina qualche salute,
di coniugato da verbo perché verbigrazia cucino
l’arte di spappola-scroti che è poi la più momica al mondo
l’arte di Asclepio dei gatti e silvicoltore per ratti
(da involontario volente volutosi senza volerlo)
l’arte di ogni arte artefatta per artificiosi artigiani
sempre si mescola all’arte auto-imbonitrice di araldo
della mia propria virtù, per cui di umiltà mi rivesto
e seppellisco superbia -e mi do da fare e da dire
anche col mare di mezzo -e non c’è traghetto che passi.
Ecco perché mi rivolsi ai pitici sputa-responsi
e dei responsi sputati qui computo facile il conto:
quattro risposero a Delfi che non si forniva responso-
due mi risposero a Delo che non rispondevano in forse-
uno rispose che aveva lasciato il santuario e le bende-
due mi lodarono molto e ai responsi chiesero tempo-
uno rispose a sfottò “Però le faremo sapere”-
uno rispose annoiato “Oracolo fuori servizio”-
uno rispose seccato “Però le sapremo ridire”-
uno rispose da Cuma “Ci stancano troppi responsi”-
uno rispose a Dodona “Lo sai che non poto più querce”-
uno rispose: “Non sèi gradito e non serve che chiedi”-
uno che mi conosceva e non si degnò di predire-
tre che non mi conoscevano oracoli manco a parlarne-
mi ha trascurato anche Apollo giocando alla palla di Apelle-
mi hanno ignorato anche Asclepio e Igea per igiene mentale.
No, non si sentono muse -ma ne ho risuolate di scarpe,
arte da buon gossipparo -sarà che non merito meno.
Forse le scarpe suolate valevano meno da sole
senza che le risuolasse alcun suolatore dabbene
o ci spendesse responso un pitico -giochi di sponda.
Certo parrebbe che io accrescessi cumuli e mucchi
-troppi- di suole sfondate, che già se ne ammucchiano in tante.
Certo non sono un ingenuo, se all’ingenuità pur mi ingegno,
fosse anche stato un po’ meglio il rivenditore di turno,
fossi una divinità da oroscopi, stelle ed incesti,
forse sarebbe già un altro l’oracolo, altro il responso”
Si lamentava così, Momo attento, il buon gossipparo,
né si sentivano Muse a esaudirgli qualche preghiera.
E ricontava le spese postali agli oracoli vani
e ricontava le spese dei farmaci per digerire
tutta la bile del mondo e tutto il suo mondo di bile
a rimanersene sempre rinchiuso in un’urna di bronzo,
mentre una voce in bachata cantava a sua voglia dal lido:
“La cuentecita que hizo el pobre otra vez ha salido”
(anche se Orlando è finito e non è più questa la sede).

Seia nove: Charles Webb

1

il-grand-slamIl grande Slam

di Seia Montanelli

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella che porta all’olimpo della letteratura è costruita sulle lapidi di quanti sono stati dimenticati – anche se buoni scrittori, belle mani e teste di narratori, sensibili artigiani della penna -; tutti uniti da un destino che li ha relegati nell’oblio, per sfortuna, per mancanza di tempismo, o perché considerati degli outsider, e dunque sospinti ai margini di un sistema selettivo e vorticoso che celebra chi si adegua e dimentica chi non vuole fare parte del circo(lo).

Ogni tanto qualcuno però riscopre qualche nome o ripubblica un libro da decenni introvabile restituendo a Cesare quel che è di Cesare. Capita così che Nicola Manuppelli, editor e traduttore di Mattioli1885 rammenti al pubblico italiano un autore che, quando era ancora al college, ha scritto un romanzo destinato a conquistare Hollywood e a sconvolgere un’intera generazione con il film che ne è stato tratto. Scommetto che il suo nome, Charles Webb, non dirà molto a parecchi di voi, ma se dico “Il laureato” allora la nebbia comincia a diradarsi per forza. Il famoso film con Dustin Hoffman che ha sdoganato la passione per le Milf di milioni di giovani uomini in tutto il mondo e ha segnato una generazione, è tratto in realtà da “The graduate” di Charles Webb, che non è nemmeno stato citato nei credits della pellicola, nonostante la sceneggiatura si basi per più dell’80% sul romanzo.

In realtà non è colpa vostra se il nome di Webb vi dice ben poco, è quasi dimenticato anche in America, nonostante abbia scritto ben otto romanzi, l’ultimo dei quali – “Home school” – è una sorta di sequel del suo libro più famoso. Non solo: “Il laureato” a parte, dal romanzo “New Cardiff” viene il soggetto di un altro film, “Hope Springs” con Colin Firth.

Nel caso di questo particolare outsider però ogni pensiero di tristezza per la sorte che gli è toccata è però fuori luogo perché Charles Webb è il più anticonvenzionale degli scrittori (ma sarebbe stato fuori dagli schemi anche come avvocato, o medico o imbianchino). Del successo o dei soldi non ha mai voluto saperne, e ci ha messo del suo per essere considerato fuori dal sistema editoriale. La verità è che è un artista vero, uno di quelli per cui la stessa vita è un’opera d’arte: coi primi soldi guadagnati, un bel po’ peraltro, ha comprato una casa che però ha regalato molto presto, insieme ai mobili e altri beni, perché possedere delle cose lo faceva sentire oppresso e perché «le cose migliori nella vita sono gratis».

Webb, che ora è un arzillo settantasettenne che vive di espedienti nel sud del’Inghilterra e scrive ancora qualche opera teatrale, ha costruito “Il laureato” quasi interamente su memorabili dialoghi, (alcune delle battute scambiate dai protagonisti sono rimaste nella storia): ma essendo l’autore un geniaccio con molta sregolatezza che si annoiava a ripercorrere sempre la stessa strada, succede che nel ‘78 scrive un libro del tutto privo di dialoghi, “Booze”, tradotto in italiano come “Il grande slam”.

È la storia di Calvin Barnes, un artista di provincia, senza alcuna pretesa se non quella di continuare a dipingere: «non devo raggiungere la fama o il riconoscimento o il successo in senso commerciale, ma quello che è importante per me è continuare a farlo, continuare a dipingere e mantenere viva quella sensazione che ho quanto metto i colori sulla tela e faccio sembrare le cose che dipingo il più possibile simile a come le vedo. Nient’altro importa», spiega lo stesso Calvin nel romanzo.

In realtà la sua vita non è scandita solo dai quadri pieni di arance che dipinge, ma anche dai cicli del “grande slam”, come lui chiama le sbronze periodiche in cui si perde per tempi indefiniti e che all’inizio non riesce a riconoscere come alcolismo, considerandole invece un momento catartico in cui liberarsi dalle tensioni cui è sottoposto, soprattutto quelle sessuali, ma che nel corso del romanzo finisce con l’individuare come fasi epifaniche di una vera e propria dipendenza da cui cercherà di salvarsi.

Intorno a Charles si muove uno sparuto gruppo di personaggi singolari: una coppia di galleristi, Faith e Garreth, che tentano di convincerlo di essere un grande artista e gli offrono la possibilità di esibire le sue opere in una mostra (Garreth, sparisce il giorno prima del vernissage e Faith si mette in testa di “civilizzare Calvin e salvarlo dall’alcolismo”); Angus (una sorta di guida spirituale) e due donne con cui ha dei rapporti complicati, Donna e Yolanda, la prima sopraffatta dai problemi e sempre in bilico tra il suicidio e la sopravvivenza, la seconda un po’ sbandata, succube di Faith all’inizio, e che finirà con il diventare la compagna di Colin.

“Il grande slam” è un romanzo complicato per molti versi: lettura densa in quanto priva di dialoghi, è un ininterrotto discorso indiretto, in prima persona (salvo per la suddivisione in tre capitoli intitolati alle tre protagoniste della storia, che danno un po’ di respiro al lettore che altrimenti si troverebbe davanti un lungo muro di parole.) Calvin racconta e interpreta: tutto passa dai suoi occhi e dalle sue parole, sembra un moderno stream of consciousness e rischia di sembrare gravoso, soprattutto se paragonato all’agilità de “Il laureato”, coi suoi dialoghi vivaci e continui. Lo stesso Webb in un’intervista sostiene di aver scritto “Booze” di fretta e male e di aver preteso che non comparisse sulla copertina la scritta che lo identificava come un’altra opera dell’autore de “Il Laureato”. Ma era troppo severo con se stesso: se vi prendete il tempo di leggere “Il grande slam”, con l’intenzione di farlo davvero, di soffermarvi sulle parole e di guardare il mondo con gli occhi di Calvin, allora vi troverete di fronte a un romanzo notevole, pieno di ironia intelligente e a volte un po’ malinconica, in cui da una parte c’è il racconto della presa di coscienza da parte del protagonista del proprio alcolismo e del modo in cui la vita e le persone che ha incontrato lo abbian salvato; dall’altra, come in ogni opera di Webb a partire dal suo esordio fulminante, c’è un profondo senso di smarrimento di fronte a un mondo fasullo, artificiale, insincero. E ancora, dopo l’esperienza del primo libro, è chiaro il riferimento autobiografico nella vicenda di un artista di provincia improvvisamente scaraventato nel mondo dell’arte “che conta”.

Charles Webb resta tra le voci più originali di una generazione di scrittori che hanno raccontato alcuni degli anni più vivaci della storia dell’uomo, ed è sicuramente il più controcorrente: la sua vita (dal rifiuto del matrimonio degli agi materiali, sino all’educazione casalinga dei figli) come la sua opera (abitata da personaggi spesso perdenti ma terribilmente umani) sono una costante ribellione, un lungo grido di disprezzo per ciò che non è libero, autentico e sincero.

Con figure

2

di Eleonora Pinzuti

Herstory
La ruota si mangia il fango stamattina,
fra serti di brina, sassi, un suono d’altalena.
La lena di chi s’affanna nella corsa.
Non è niente, questo andare.
Solo la vita che
gioca il suo mestiere,
fin dove non traspare:
una legge che tiene tutti
(non la ricorderemo). Poi scompare.
E mentre mi figuro in questa
tela, come tutto, sfumo. Ma in tanto
lo spago di Cloto lavora carne viva
co’ suoi lacci.
E incontro una signora che si lava
il viso alla fontana, si immerge nella piana
verde: forse attende.
Mentre si stringe le fasce (quasi bende)
sui polpacci.

 

Memorie dal sottosuolo

1.

Ho incontrato per caso, oggi,
Bruno Biagetti. Mi guarda da quell’otto settembre
dell’89 infisso nei caratteri del suo necrologio
letto in fretta dalla corriera pullman che mi portava
all’esame di riparazione.

E ora, mentre attraverso le tombe infisse in terra,
profonde come il niente che affetta
l’erba, i ciottoli, le scritte,

lo vedo quasi sorridente,
spuntare in foto a colori
dal cono del tempo,
con le sue orecchie diritte.

2.

Sento ovunque il ticchettio del bastone
sulla ghiaia, oggi. I vecchi, prossimi al salto, vengono
più spesso. Quasi a rendersi conto con i propri sensi
dei posti, a farsi il luogo familiare, così prossimi
ai congiunti.

Sembra forse meno nera l’ombra, meno freddi i tocchi
di ciò che si chiama morte,
se ci si prepara per tempo, se giunti ai punti,
al nero spesso,

ci si abitua prima
gli occhi.

——

Con figure è in uscita per l’editore Zona nel  2016.

Intellettuali declassati

1

di Andrea Amoroso
Gli intellettuali, l’impegno e la fine delle utopie

Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna

La letteratura non è un mestiere, è una maledizione.
Thomas Mann, Tonio Kröger

 

Intellettuali declassati

Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di  prendere atto di una

avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]

Paesaggi di poesia 7 (Bologna, febbraio-maggio 2016)

3

Rassegna di incontri e dialoghi a cura di Sergio Rotino e Luciano Mazziotta

 

26 febbraio – Nadia AGUSTONI, “Lettere della fine” (Vydia editore); “[mittente sconosciuto]” (CollanaIsola), introduce Vito BONITO

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3 marzo – Marco SIMONELLI, “Il pianto dell’aragosta” (D’If), dialoga con l’autore Luciano MAZZIOTTA

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11 marzo – Leila FALÀ, “Mobili e altre minuzie” (DARS), dialoga con l’autrice Daniele BARBIERI

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17 marzo – Matteo BIANCHI, “La metà del letto” (Barbera editore)

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22 marzo – Marco GIOVENALE, “Maniera nera” (Nino Aragno editore), introduce Cecilia BELLO MINCIACCHI

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1 aprile – Vincenzo FRUNGILLO, “Le pause della serie evolutiva” (Oedipus)/Laura DI CORCIA, “Epica dello spreco” (Dot.com press), introduce Luciano MAZZIOTTA

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6 aprile – Vito BONITO, “Soffiati via” (Ponte del sale)/Marilena RENDA, “La sottrazione” (Transeuropa), introduce Luciano MAZZIOTTA

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15 aprile – Stelvio DI SPIGNO, “Fermata del tempo” (Marcos Y Marcos), dialoga con l’autore Gianni MONTIERI

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16 aprile – Elio TALON, “Che dei sogni che resta” (Kammeredizioni), interviene Loredana MAGAZZENI

Libreria Trame ore 12

 

20 aprile – Loredana MAGAZZENI, Fiorenza MORMILE, Brenda PORSTER, Anna Maria ROBUSTELLI presentano con Maria Luisa VEZZALI e a Silvia ALBERTAZZI “La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese” (La vita felice)

Libreria Trame ore 18

 

27 aprile – Laura SERGIO, “Il filo della scure” (Manni editore)

Libreria Trame ore 18

 

29 aprile – Afric Mc GLINCHEY, “La buona stella delle cose nascoste” (L’arcolaio), ne parlano con l’autrice Gino SCATASTA e il traduttore e curatore del volume Lorenzo MARI

Libreria Trame ore 18

 

maggio – Luca RIZZATELLO/Giusi MONTALI, “Faria” (Dot.com Press)

Ibs.it bookshop ore 18

 

12 maggio – Francesco TARGHETTA, “Le cose sono due” (Valigie rosse)

Ibs.it bookshop ore 18

 

*

 

Ibs.it bookshop, piazza dei Martiri, 5 – Libreria Trame, via Goito 3/C

Bologna

Da Osorgin a Chicca Gagliardo

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Gagliardo_LdSdi Romano A. Fiocchi

Chicca Gagliardo, Nell’aldilà dei pesci, La Libreria degli Scrittori, 2014, pubblicazione digitale; Ponte alle Grazie, 2006, pubblicazione in brossura.

La Libreria degli Scrittori è una casa editrice digitale molto particolare. È un editore di libri scomparsi. Vuoi perché esauriti, vuoi perché fuori mercato, vuoi perché non considerati ma meritevoli di considerazione. Prende il nome da una libreria realmente esistita a Mosca negli anni tra il 1918 e il 1922, quando il mondo editoriale della vecchia Russia veniva schiacciato dalla censura bolscevica. Qui, non potendo più stampare nuove opere, venivano raccolti e messi in commercio libri di tutti i generi, compresi quelli invisi al regime. La Libreria degli Scrittori vendeva e comprava volumi con il solo scopo di opporsi al declino culturale, quasi fosse l’ultimo presidio di sopravvivenza della lettura. E forse lo era, almeno: certamente della lettura libera. Michail Osorgin ne fu uno dei promotori, nonché il cronista di quella straordinaria avventura che durò finché il regime non ne comprese l’importanza. E di conseguenza la “pericolosità”.

Tutto questo lo sappiamo – ci informa la stessa casa editrice digitale in una nota in fondo ai suoi e-book – grazie a L’impronta dell’editore di Roberto Calasso, uscito per Adelphi nel 2013. Il tema, in verità, era già stato trattato dallo stesso Calasso nel breve saggio L’editoria come genere letterario, letto pubblicamente nel 2001 nella sala del Museo di architettura Schusev di Mosca in occasione di una mostra dedicata alla casa editrice, quindi uscito nella rivista in volume Adelphiana. Pubblicazione permanente (Adelphi Edizioni, 2002) e ripubblicato nella raccolta di saggi e articoli dal titolo La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi Edizioni, 2005).

Cosa c’entra Chicca Gagliardo con Osorgin. Il volumetto della Gagliardo Nell’aldilà dei pesci è uscito nel 2006 e poi finito nell’aldilà dei libri, il mondo dove confluiscono le idee e le storie nate e poi scomparse. Ma qui la Libreria degli Scrittori digitale l’ha ripescato (espressione che calza a pennello, dato il titolo) e i pesci, le donnastre, i giochi di parole, i sogni fantasiosi della Gagliardo sono tornati nell’aldiquà leggibile – certo, solo in versione libro elettronico, ma comunque leggibile.

Quella di Chicca Gagliardo è una carrellata di personaggi femminili grotteschi, vere e proprie caricature spietate di donne in carriera, “donnastre” come le chiama lei, che mangiano sushi e hanno come soli riferimenti l’ingresso nell’alta società e il mito del corpo magro e perfetto. In mezzo a loro sbucano le antidonnastre (questo invece è un mio neologismo per meglio sintetizzare l’idea), quelle che sognano, che si nutrono di poesia.

Il libro è composto da diciassette capitoli più una introduzione (La vita di un libro) e un epilogo o meta-epilogo (Un mattino, i pesci). Dei diciassette capitoli, tredici riportano nomi di donna e comunque tutt’e diciassette hanno come protagonisti delle donne, dai nomi che non si ripetono mai. Più precisamente: Rosa, Cecilia, Agata, Amanda, Ambra, Bianca, Chiara, Maddalena, Letizia, Sofia, Teresa, Elena, Desideria, Sara, Giulia, Marta, e lei, la stessa Chicca, anche se in realtà non viene mai nominata. Il libro è insomma un donnario con le più svariate tipologie di donne. A fare da contrappeso nel corso della narrazione, benché non altrettanto particolareggiato, è un analogo uomario, con tipologie di uomini costruiti sulla stessa linea grottesca delle donnastre: individui maschili bellissimi, dai riccioli neri, occhi verde alga che ti fissano, “uomini che odorano di sandalo e scarpe stringate, di dopobarba e di dopotichiamo e primaopoicirivediamo”.

Ma se da un lato quella della Gagliardo potrebbe sembrare una scrittura al femminile, nell’apparente semplicità del testo traspaiono immagini di autentica e surreale poesia, dal cuore del tempo che batte in senso contrario facendo tac tic, tac tic, tac tic, alla comparsa di creature a metà strada tra realtà e immaginazione che realizzano grandi cose e si divertono a farle apparire piccole “perché le cose grandi diventano pesanti”. Sino a velate citazione bulgakoviane, come una Marta nuda che si alza in volo. C’è il gusto per la parola, per il gioco di parole (“i fati non esistevano, c’erano solo le fate”), per i voli di fantasia (dai vestiti carnivori alla pelle “color delfino che salta”), e per la meta-narrazione, ossia quella narrazione che ne va del suo stesso narrare (come il meta-epilogo accennato più sopra, dove la stessa scrittrice si fa personaggio e racconta ai pesci le storie che il lettore ha appena letto).

Una buona dose di ironia alleggerisce il tutto, alleggerisce sofferenze interiori e momenti di disperazione, persino la morte di donnastre come Desideria: “Ecco qual era la cosa da fare che non ricordavo! Che bisognava morire. Detto e fatto, morì su due piedi. Le pratiche sono state sbrigate in fretta, un pool di esperti della Gestione Risorse Umane ha subito trovato un’altra Manager Suprema per l’azienda di città, l’azienda al mare e quella di campagna”.

C’è poi questa aspirazione alla leggerezza, la stessa leggerezza dell’amica scomparsa che appare in sogno nel racconto finale (Cosa ci sarà di là). È un incontro surreale e suggestivo, come sono gli incontri che avvengono nei sogni. L’amica se ne va poi per sempre, salvo appunto lasciare la sua leggerezza che “ogni tanto appare e fa un salto nell’aria”. È probabilmente da qui che Chicca Gagliardo prende spunto per la sua opera successiva: Il Poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo, uscito nel 2014 per le edizioni Hacca. Che prima poi leggerò, ne sono certo.

Un’ultima nota. Chicca Gagliardo, fra le altre cose, gestisce un blog dedicato ai libri, da un po’ di tempo a questa parte diventato blog collettivo: Ho un libro in testa. È leggero come la sua scrittura, merita farci “un salto”.

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 23/2/2016

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(sommario: Aleksei Shinkarenko, Elisa Davoglio, Pietro d’Agostino, Jacques Jouet, Giulio Marzaioli, Dj criticism)

Descrizione del mondo oggi è in modalità: suggerimenti a un poeta morto, ma → NON vi parla di “morte della poesia”, “morte della critica”, “morte del romanzo”, “morte di mio nonno”,

Auto-antologie- 1. Vincenzo Frungillo

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di Vincenzo Frungillo

 

Scenografie

Nei tempi, nella ricerca dei tempi

delle battute vitali, essenziali,

nei tempi, anche questi tempi,

vogliono il colpo dei piedi,

l’equilibrio degli sguardi,

la giusta linea nei capelli.

“Capirli tutti gli arresi.” Ripeti, ripeti:

“È nei tempi, anche questi tempi.”

E più t’affini e più ti perdi.

 

Scarna e senza fasto la verità d’una frase.

Ciò che scrivo è il clinamen.

Batte sul quarzo il nome,

batte la variante che segna le distanze.

 

 

Tutti i bersagli hanno colpito nel segno.

Guarda questo sguardo, la pupilla che straripa,

noi siamo ciò che non abbiamo scelto.

Ogni tanto qualcuno, un tempo più lento, assorbito,

mi assicura che per tutto questo ho già deciso.

(da Fanciulli sulla via maestra, Palomar, 2002)

 

 

Ute sa di essere la più brava e s’allena,

senza sosta, tre ore al mattino e tre ore la sera,

il suo corpo cresce, s’adegua alla lena

e muta coi giorni la forma che era

esile e ossuta sotto il biondo pallido della pena

ma non scompare sotto agli occhi la cera

tesa di una bambina che brucia lenta

quando è sola, guarda chi chiacchiera e non s’allena.

 

Ute è severa con quelli che restano a terra

e non capiscono la necessità di una mano a pinna,

chi sotto il petto la resistenza dell’acqua afferra,

lei è severa con se stessa e per questo s’affina

contro l’immota casualità della sua terra.

Si sente aliena ma decisa contro la massa che la mina.

Ute è l’azzurra testimonianza d’una promessa,

il corpo cristallo liquido di campionessa.

 

[…]

Per strada c’è chi parla senza l’eco

che pulsa forte dietro l’orecchio

-“se una parola cade in pubblico è uno spreco”-

puntuale a lei rimprovera il silenzio,

tutti hanno una soluzione per il riverbero

sulla via che porta in fabbrica o in ufficio,

tutti credono ad Honecker che grida a muso duro

“noi siamo l’avvenire del popolo, noi siamo il futuro!”

 

Il dott. Starkino, con il suo ridicolo soprannome,

sotto gli occhi pazienti e le lenti ovali,

sembra il solo che possa capire come

il mondo di Ute è fatto di continue spirali

che nascono dall’incontro del suo nome

con le voci che vengono a metterle le ali,

a fare di ogni suo passo tra la gente un ciglio

“dottore, io solo in acqua trovo un appiglio.”

 

Sentire subito dopo la vergogna sulla bocca

ma di fronte a lui è spontanea la confessione,

lui che con un gesto paterno la testa le tocca

e con la mano le impartisce l’unzione.

L’ostia che nello spogliatoio le imbocca

è il segnale che Ute riguadagna la sua posizione.

Prende il petto il colore del fondale,

prende forma il suo mondo a spirale.

 

[…]

I palazzi contengono i giorni e i giorni e i giorni

di visi di luci di annunci

sullo Strassenbahn registrati di nuche e di ritorni

di stazioni con pilastri e rifiuti (     e tu che non rinunci    )

di serrande abbassate sui negozi di vestiti ed i contorni

di neve sporca (      e tu che pronunci

con gli occhi come unici amici vicini)

“in questa parte di città sono alienati persino i manichini.”

 

(da Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, Le Lettere, 2009)

 

———


 

Se le donne sono paragonate alle oche,

direzionate negli affetti, portate lontano

dalla faglia di natura che l’ha generate,

allora gli uomini sono come i cani,

addestrati per stimolo e risposta,

e un capo può condizionarli,

guidarli nella discussione,

esacerbarli gli uni contro gli altri,

o tenerli insieme, i maschi,

farli sentire parte di un organismo

senza distinzione – l’azienda,

il mostro senza testa.

Io ho conosciuto tardi i maschi,

durante i miei viaggi;

rapporti fugaci negli studentati,

è successo quando avevo ormai trent’anni.

È allora che ho iniziato a sperimentare,

con un tedesco, all’apparenza

un medico compassato, nel privato

appassionato di bondage e di sado-maso.

Il sesso a quindici anni è un gioco,

a trent’anni è ossessivo come la morte,

dopo i trenta, con l’esperienza,

è la lingua più sincera, l’unica che si adotta.

 

[…]

Il vantaggio di studiare la scienza

è vedere tutto nella sua funzione,

prepararti all’amministrazione,

lasciare la linea d’ombra dell’adolescenza.

Una cosa è importante nelle leggi:

sabotare le costanti,

metterle alla prova,

rinvenire la variante,

ciò che resta pur se cambia.

Nelle cavie da laboratorio

si ripete il sacrificio,

l’innominato destino

di chi sorseggia il vuoto

come se fosse fonte prima.

Per millenni l’hanno fatto i maschi,

io sono stata la prima donna,

questo ha suscitato tanto scalpore,

sono Tatiana che distrugge il suo eroe.

 

[…]

Io volevo trattenere ciò che avevo,

perché nella vita si trovano cose,

e a volte sono buone,

lo si capisce tardi, a quarant’anni suonati,

quando sei troppo vecchia per illuderti

e troppo giovane per rassegnarti.

 

(da Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia, edizioni d’If, 2013)

 


 

 

Meccanica pesante

 

Bisognerebbe scrivere un galateo dei silenzi,

sottolineare che ce ne sono di diversi,

dai più bassi e volgari ai più alti e religiosi,

che i due estremi si toccano, si tengono insieme,

che in questa tangenza rientra ogni nostra forma.

Eppure la nostra natura è fatta di parole,

la nostra natura è tradire, spostare l’ombra,

risanare ogni volta l’assenza che ci forma.

 

In questo meccanismo, se una parte eccede sull’altra,

ci sarà un rumore di fondo come di cinghia

che esce dalla sua puleggia, ci sarà un’eco

per tutta la specie. Capisco allora la sfida

di chi accetta la distonia, perché nel corpo,

ma anche in cielo, nello spazio universo,

all’azione risponde sempre una reazione

contraria e inversa, e si può far finta di non sentire,

 

dissimulare, che non è tradire,

ma il cordone ombelicale della regola prima

non si stacca mai del tutto,

riprende la frustrazione, la malattia,

il fruscio di fondo della macchina,

il suo motore che continua ad andare,

ci unisce gli uni agli altri, anche se con gli anni

ci sentiamo sempre più soli e distanti.

 

Ma tentare,  bisogna tentare,

perché il vuoto valga per ciò che vale,

resti una variante, sia lo sguardo pulsante,

ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,

ci porti a trasformare il tempo in spazio,

in camere e strofe, ci ricordi le parole,

la nostra scommessa finale. Una volta Celan

chiese al maestro l’ultima parola.

 

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza.

Ripeto la formula, una semplice equazione:

non si afferra ciò che ci precede.

E allora si pone sulla bilancia la propria vita,

e la propria morte, chi tenga in equilibrio il tutto

non si conosce. La chiamo meccanica pesante

questo stare fermi a guardare il sistema di leve

in cui siamo entrati senza far rumore.

 


 

L’estinzione dell’orso bianco

 

Se queste pietre avessero pietà

per le mie ferite, io avrei ragione,

in quanto animale tra le creature,

perché l’accento che tu noti, il dolore,

 

è solo memoria che si corrompe

e, pensa bene, non vale niente.

Ora il mio modo d’avere voce

è un rantolo che non m’appartiene,

 

che mi distrae dal battito del cuore.

E tu pure, dall’altra parte,

ti rassegnerai alla forza che si sprigiona

 

nel momento estremo della caccia,

alla preda, che non si nasconde,

che si è estinta dalla faccia della terra.

(da Le pause della serie evolutiva, Oédipus edizioni, 2016)

 


 

L’antologia che presento ripercorre il mio percorso poetico a cominciare dal primo libro contenente testi che risalgono all’inizio degli anni novanta. Già allora ero alla ricerca di una poesia che non fosse solipsistica, confessionale. Sentivo l’esigenza di un cambiamento di sguardo sul mondo circostante, un’uscita dall’egotismo che aveva caratterizzato gli anni ottante a novanta del secolo ventesimo. I testi di Scenografie sono un rifacimento della poesia fredda e metricista in voga in quegli anni, si immergono nelle strutture vuote palesate dai versi di autori come Dario Villa o Gabriele Frasca. Il testo che chiude questa micro sezione recita tutti i bersagli hanno colpito nel centro, allude ad un rovesciamento di prospettiva: accogliere voci nuove e nuove storie nella propria. Non tutto il libro però è riuscito nell’intento. Altre letture sarebbero dovute venire, altre esperienze esistenziali e intellettuali perché questo progetto si facesse più chiaro. Con Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti ho creduto trovare la storia che potesse essere allegorica, a suo modo mitica ed esemplare, almeno per i lettori della mia stessa generazione. Si tratta della vicenda della squadra di nuoto femminile della DDR che ha vinto molti ori nelle Olimpiadi di Mosca del 1980. Le sequenze che propongo sono incentrate sulla figura di Ute, la stileliberista della staffetta femminile. Lei, così come le altre nuotatrici dell’ex Germania dell’est, ebbe il corpo minato dal doping di Stato. Sono venuto a conoscenza di questa vicenda solo dopo la caduta del muro di Berlino, verso la fine degli anni novanta ed ho subito pensato che la sospensione delle nuotatrici dell’est, inarrivabili nei record prima della caduta, ma altrettanto sole dopo la caduta, perché corrotte dai farmaci ormonali, potesse alludere alla situazione di un’intera generazione. La gabbia metrica usata è l’ottava, tutta la struttura del testo doveva avere un senso metaforico preciso. Allora il mio non era il partito preso del metricista o del tradizionalista, non mi interessava il riutilizzo della tradizione fine a se stesso, credevo piuttosto che lo strumento metrico potesse potenziare il senso della poesia, veicolare l’intenzione di un testo. L’espediente, in questo caso, è stato assumere la sequenza del 5: i personaggi del libro sulle nuotatrici sono 5 (le 4 staffettiste più il dottore che somministrava le pillole), 5 sono i canti in cui è diviso il testo, 5 sono le sequenze di cui è composto ogni canto, 5 sono le ottave di cui è composta ogni sequenza, 5 sono le bracciate che fa Ute prima di respirare. Il testo doveva essere la simbiotica connessione tra il corpo delle protagoniste e quello dell’autore, il mio fiato era il fiato della nuotatrici. La scelta della voce femminile è stata poi dettata dalla necessità di spostare, mettere in crisi l’io lirico. Allo stesso modo Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia chiama in causa direttamente il lettore-ascoltatore, gli chiede di giudicare un fatto di cronaca. Anche qui la protagonista è una donna. La voce è quella di una segretaria che vive a Milano. Una “ragazza Carla” che ha imparato a gestire i traffici della metropoli e i maschi, conosce il senso delle relazioni alienate e non crede che i rapporti umani siano garantiti da leggi naturali. Per questo motivo sperimenta il sesso con i suoi coetanei così come farebbe Pavlov con i suo cani. Qualcuno ha definito l’est sovietizzato il subconscio collettivo dell’Europa, nell’era dell’economia globalizzata, dell’amministrazioni delle coscienze desideranti, l’inconscio di Martina (questo è il nome della protagonista) agisce come risposta al dettato del tempo. Le quattro fasi dell’esperimento pavloviano vengono riproposti sul corpo di un collega. La sezione finale di questa breve antologia è dedicata ai testi che saranno compresi in Le pause della serie evolutiva. Il titolo è ricavato da una frase di Osip Mandelstam che parla di Lamarck. Il poeta russo afferma che lo scienziato aveva intravisto il vuoto tra le classi e per questo si era ritratto non avendo prove materiali per dimostrarlo. Qui la poesia abbandona in parte la parabola e l’allegoria in versi per dichiarare il senso dell’operazione messa in atto. Il meccanismo riflette su stesso. Il componimento che chiude questa scelta di versi è uno dei tanti che nel mio ultimo libro darà voce alle creature. Il protagonista è l’orso bianco, suo è lo sguardo sul mondo e l’estinzione riguarda la sua specie. La meccanica pesante s’innesca sulla soglia della fine.

(Vincenzo Frungillo)

 


 

Vincenzo Frungillo nasce a Napoli nel 1973. Dopo aver studiato filosofia, letteratura e storia a Napoli, ha vissuto a Freiburg, a Saarbrücken (in Germania) e a Milano dove tutt’ora risiede. In versi ha pubblicato Fanciulli sulla via maestra (Palomar, 2002), Ogni cinque bracciate. Un estratto (finalista premio Delfini, edizioni Galleria Mazzoli, 2007), Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis, Le Lettere, 2009), Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia (Premio Russo-Mazzacurati, edizioni d’If, 2013), La disarmata (AA.VV. CFR edizioni, 2014), Le pause della serie evolutiva (Oédipus edizioni, 2016). È presente in diverse antologie di poesia contemporanea tra le quali 7 poeti campani (2007), Poesia dell’inizio del mondo (a cura di Nanni Balestrini, 2008), Il miele del silenzio (a cura di Giancarlo Pontiggia, 2009), Hyle. Selve di poesia (a cura di Gianluca Chierici, con Dvd video contenente interviste e video, 2013), XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea (a cura di Franco Buffoni,  2012), Registro di poesia # 5 (a cura di Cecilia Bello Minciacchi, finalista Premio Russo-Mazzacurati, 2012). Per il teatro ha scritto Il cane di Pavlov. Un monologo (Premio di drammaturgia Fersen. Ottava edizione, Editoria & Spettacolo) e Spinalonga. Drammaturgia sulla corrruzione. Dai suoi testi sono stati adattati due recital per la voce di Viviana Nicodemo, entrambi presso la Casa della Poesia di Milano. Una sua proposta di poetica è raccolta nei tre saggi Il poema contemporaneo tra bios e storia. (L’Ulisse, Lietocolle, n. 15, pp.131-137), Considerazioni circa una poetica della relazione (Tu se sai dire dillo. Terza edizione, ora in https://www.nazioneindiana.com/2014/12/11/considerazioni-circa-una-poetica-della-relazione/, 2014), Una riflessione su una poetica dello spazio (L’Ulisse, Lietocolle, n. 18, pp.48-50). Ha scritto interventi saggistici su Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Paul Celan, Biagio Cepollaro, Giorgio Cesarano, Beppe Fenoglio ed altri. Sulla sua poesia hanno scritto tra gli altri: Andrea Cortellessa, Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Giancarlo Pontiggia, Giancarlo Alfano, Giorgio Manganelli, Alberto Bertoni, Alberto Sebastiani, Luciano Mazziotta, Francesco Filia, Luigi Bosco. Suoi versi sono stati tradotti in tedesco e sono in corso di traduzione in lingua inglese-americano. È redattore di Puntocritico, Absoluteville, Carteggi letterari.

 


 

[Auto-antologie è una sorta di rubrica a-periodica che si propone di mostrare una minima documentazione del percorso poetico di alcuni autori. Tale intervento fa seguito a quello dedicato a Francesco Tomada che si può leggere qui. Ai testi poetici fanno seguito una pagina di presentazione e di riflessione del poeta sul proprio lavoro e una scheda bio-bibliografica. Una mia breve lettura del percorso di Vincenzo Frungillo si può trovare qui B.C.]