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Il respiro dell’essere. Riflessioni sull’immagine

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20151006_163515                                                      di Mario Galzigna

Oh, immaginazione! Il più grande tesoro
dell’uomo, l’inesauribile fonte alla quale
tanto l’Arte quanto la Cultura vengono
ad abbeverarsi! Oh, rimani con noi…
così che ci si possa porre al riparo dal
cosiddetto Illuminismo, quell’orrendo
scheletro senza sangue né carne.

(F. Schubert, 1824)

 [Franz Schubert’s Letters and Other Writings, a cura di O.E. Deutsch, London 1928, p.77].

1. IMMAGINE-MOVIMENTO

Sigmund Freud ha lavorato soprattutto sull’immagine censurata o rimossa. A partire dai suoi scritti sull’isteria e da Die Traumdeutung, Freud tematizza a più riprese una distanza, uno scarto, un’irriducibile alterità tra il dinamismo inconscio dell’immaginazione — noumeno opaco e inattingibile – e l’immagine, così come viene rappresentata sia durante il sogno, grazie al lavoro onirico, sia nello stato di veglia, quando il sogno diventa testo o racconto: un’immagine filtrata, dunque, dal lavorìo della censura e deformata da un censore interno, capace di adattare pulsioni e desideri all’etica sociale dominante.

Nell’attività artistica – ma anche nei sogni ad occhi aperti, negli stati di rêverie e in alcune dimensioni contemplative ed amorose dell’esistenza – può talora venir meno questa separazione, questa radicale distanza tra il movimento autentico dell’immaginazione e la sua traduzione in immagini, concepite come il prodotto di una coscienza vigile e censoria. “Ogni immaginazione, per essere autentica, deve riapprendere a sognare”, scriveva Michel Foucault nel 1957, in una folgorante introduzione a Sogno ed esistenza, di Ludwig Binswanger. [1]

In questo annullamento della distanza, l’immagine sognante non implica la rinuncia al movimento pulsionale dell’immaginazione, ma nasce, al contrario, dalla sua emergenza vitale e produttiva, dalla sua manifestazione piena e variegata. Non, quindi, una Bild appiattita sul Sinn e sul linguaggio: irrigidita, cristallizzata, scandita dal lavorio della censura e dal rullo compressore della rimozione. L’immagine (Bild), insomma, non è soltanto un significante codificato, che rinvia necessariamente a un senso (Sinn), a un significato, o a una trama di significati; non è soltanto una rappresentazione impoverita di qualcosa d’altro, oppure di una mancanza – o di un vuoto – che essa avrebbe il compito di colmare. E’ anche potenza creativa, espressione di ricchezza interiore, struttura dinamica e trasformabile, variabile nel tempo e nello spazio: figura di una pienezza sensibile e materiale dell’essere.

Con buona pace di Heidegger, il verbo inglese to be, essere, deriva da una radice indoeuropea bheu, che sta per esistere, ma anche per divenire e per crescere; e parole astratte come animo, anima, rappresentano l’evoluzione di una radice indoeuropea an, che significa respirare. L’essere e l’anima, dunque, come concetti astratti, sono connessi, originariamente, ad immagini relative alla crescita e alla respirazione. Ritroviamo, a volte, dietro la parola, il moto pulsionale dell’immagine, ricco di figure che rinviano alla concretezza del corpo vissuto — il Leib, di cui parlava Husserl — e quindi alla nostra maniera di percepirlo e di raffigurarlo. “Le parole astratte — commenta Julian Jaynes — sono antiche monete, le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso”. [2]

Così intesa, questa immagine-movimento — espressione diretta di una immaginazione attiva e sognante, attingibile fuori dai filtri di una censura normalizzatrice — rappresenta la molla propulsiva della nostra autonomia individuale e culturale: il nocciolo antropologico irriducibile alle tecnologie del controllo, ai dispositivi storici entro cui si dispiega la potenza omologante e produttiva del potere. Come aveva detto Piaget nel 1945, è possibile uscire dall’imperialismo della rimozione proposto dalla psicoanalisi: un imperialismo che risolve sempre ogni contenuto immaginativo in un tentativo di aggirare la censura, accettandone comunque i limiti e i divieti. [3]

Ogni forma di rêverie creativa – di cui il cinema, quando diventa “film d’anima”, è in grado di recare testimonianza – non è altro che questo, forse: l’immagine che si afferma come epifania di una immaginazione attiva, non come figura contratta e pietrificata, non come formazione sostitutiva, non come maschera deformante e deformata di un desiderio alterato o rigettato. [4]

Andrej Rublëv, il grande capolavoro di Tarkovskij, presentato al Festival di Cannes nel 1969, rappresenta in maniera emblematica il valore creativo e liberatorio dell’immagine. Lasciamo, per un istante, la parola al regista, così come emerge nel suo omonimo romanzo cinematografico: “Le immagini delle icone e degli affreschi, trasparenti e severe, dolci e crudeli nello stesso tempo, fluiscono una a una davanti ai nostri occhi…E insieme ad esse, intrecciandosi con l’ispirazione che le ha generate, e rendendo così comprensibile e infinitamente semplice il cammino di Andrej, palpita la musica della natura, quella musica che Andrej sentiva mentre dalla sua anima nascevano le immagini più belle e luminose”. [5]

Nei vissuti estatici e creativi, oppure nelle rêveries che accomunano gli amanti, o che scandiscono la cura di un neonato, l’immaginazione – trama interattiva e cifra della trascendenza — si afferma come immanenza del mondo e dell’altro. Privilegiare queste dimensioni significa ribaltare una consolidata tradizione filosofica e teologica, di matrice giudaica, caparbiamente iconoclastica ed incline ad una svalutazione ontologica dell’immagine, considerata una forma imbastardita del pensiero ed anche, per dirla con Brunschvicg, un grave “peccato contro lo spirito”. [6]

E’ allora possibile, in questa prospettiva — fuori dal circuito capitalistico dell’immagine fabbricata, serializzata ed imposta – far parlare le nostre immagini interiori nella loro pregnanza intrinseca, esibita, comunicabile. Ciò che non è riuscito alla psicoanalisi freudiana, ancorata a una dialettica necessaria tra significante e significato, può forse riuscire a un’antropologia dell’immaginazione[7] liberata dall’ipoteca idealistica: e quindi, a maggior ragione, ad un’attività artistica, ad una movenza del pensiero e ad una forma d’esistenza costruite sopra le fondamenta di una immaginazione creativa, plurale ed esprimibile. Di qui, forse, potrà prendere le mosse la costruzione di una nuova psicologia e di una nuova ontologia storica dell’immagine.

2. VENIRE ALLA LUCE

Esiste tutta un’attività espressiva che sta prima della parola, che la sorregge, che la rende possibile come veicolo del significato. Paradigmatico, in questo senso, l’itinerario poetico ed esistenziale di Antonin Artaud (1896-1948). Nel suo Teatro della crudeltà egli mette in scena, non a caso, una parola che sta prima delle parole (la Parole d’avant les mots ): parola-grido, parola-corpo, musica della parola che parla direttamente all’inconscio (musique de la parole qui parle directement à l’inconscient); parola-gesto, parola sonora — spinta fino agli estremi della glossolalìa – che sfonda le barriere murate del significante. Occorre spezzare il linguaggio, egli afferma, per toccare la vita (briser le language pour toucher la vie); occorre rompere l’involucro limaccioso del linguaggio per attingere alla vita, decretando, entro un’arte totale — entro una scena crudele — il primato della forza vitale (la force de vie) sulle forme del linguaggio. E ciò che vive nella scena crudele è un “inconscio oggettivo” — Gaston Bachelard parlava, negli stessi anni, di una “psicoanalisi oggettiva” – che precede la formazione del significante, che non attende nessun chiosatore, nessun commentatore segreto, nessun analista (Le Théâtre Alfred Jarry, 1930). [8]

Artaud, lo scrittore insorto (l’écrivain insurgé), uno dei più radicali cartografi della “coscienza in extremis“, [9] si impegna – assieme a Nerval, Lautréamont e Van Gogh, spesso evocati nei suoi testi – in una lotta titanica contro la tirannia di una corrispondenza rigida e necessaria tra significante e significato. Ed anche per questo, consapevolmente, paga il prezzo di una tragica déperdition: un’ “erosione centrale dell’io” che diventa, al tempo stesso, trama dolente del suo canto e linfa vitale di una resurrezione creativa. In nessuno, forse, come in Antonin Artaud, il delirio dell’assenza e dello sprofondamento — vero e proprio veleno dell’essere (poison de l’être) — rappresenta il nutrimento dell’anima e la materia prima dell’immaginazione. L’abisso opaco e regressivo della perdita — quando il pensiero pare condannato ad una inexistence priva di ritorno e di redenzione – diviene, qui, matrice di una rinascita interiore, capace di manifestarsi come forza vitale e come folgorazione poetica. Ci si rifugia nella notte originaria per poter reinventare un nuovo giorno. Dopo il movimento precipite della caduta – dalle luci aggressive del mondo al buio della déperdition— il dinamismo attivo dell’ascesa: dall’abisso nero e silente dello sprofondamento ai bagliori sfavillanti di una rigenerazione creativa, dove l’espressione si afferma innanzitutto come pienezza vissuta di una presenza corporea.

Nel linguaggio comune il verbo nascere è sostituito, molto spesso, da locuzioni come venire al mondo, venire alla luce. E’ la luce, in effetti, la “novità assoluta” in cui si imbatte il neonato: ed è stato anche ipotizzato — dopo le prime ed abortite intuizioni di Otto Rank – che la sua prima fantasia sia proprio quella di farla sparire, di “fare buio”, di ritornare “al buio e all’acqua dello stadio intrauterino”. [10]

L’essere umano, lo aveva già detto Bergson, trova dunque la luce fuori da se stesso, e le sue immagini-movimento sono al tempo stesso forme dell’interiorità e immanenza del mondo, delle cose, della materia: attività mentali originarie che dissolvono la distinzione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, superando la tradizionale polarità filosofica che oppone l’idealismo al materialismo. Ed è stato proprio Henri Bergson, nello straordinario primo capitolo di Matière et mémoire (1896), a indicarci la strada, non senza incertezze ed esitazioni. Gilles Deleuze, dopo di lui — nel suo grande libro sul cinema – l’ha ripresa e riproposta. [11]

Le aritmie del ricordo

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di Francesco Borrasso

 20150911_192751Dal finestrino passa veloce il paesaggio: campi spogli, gialli, appiattiti dal sole.
Il vento entra nell’auto, parla. Manco dal paese paterno da vent’anni. Ho mantenuto la proprietà dopo la sua morte. Avrei dovuto venderla, ci sono andato vicino tante volte. Scorgo il paese da lontano, la sera inizia a scendere dal cielo, le luci elettriche si stanno accendendo, il luogo sembra un presepe; mi ricorda il Natale e l’odore della pelle di mio padre. I profili delle case tagliati contro il tramonto, le strade asfaltate che salgono come fiumi, scorrono al contrario.
Scendo dall’auto – quanto silenzio: le ombre degli alberi allungati dalle lanterne agganciate sui muri delle case. Tolgo i bagagli dalla macchina. Davanti l’abitazione, mi accorgo che alcune cose ti cercano, e te ne rendi conto solamente dopo averle viste. Osservo la facciata della casa, torno bambino, nelle estati che passavo qui, la processione per festeggiare l’Assunta. Alcuni luoghi restano aggrappati alle persone, alcuni posti non la smettono mai di parlare, di raccontare le vite che sono passate di lì. Apro la porta, un po’ di luce mi supera e sporca le ombre della casa.
C’è l’odore della mia infanzia, quando ad ogni buona occasione correvamo qui a passare qualche giorno – vorrei poter chiudere gli occhi per risvegliarmi in quegli odori, dentro quegli anni, osservato da quei visi che non appartengono più alla realtà, quando mi bastavano le cose raccontate dai grandi, quando potevo credere ad un senso.
Apro la finestra, polvere galleggia nell’aria, granelli librano giocando con la gravità. Cammino per il paese, sento il sole che batte sulla pelle, strade piccole, case anziane, bianche per lo più; le persone mi osservano curiose, al mio passaggio si voltano e mi inseguono con lo sguardo. Uno straniero è una notizia, qui. Il mio corpo in movimento interrompe il silenzio. Un silenzio che a tratti è assoluto ed io incomincio a tremare, sudo. I muscoli faticano a lasciare andar via il ricordo.
Dal bar viene fuori l’odore dell’alcol; una ragazza esce dalla porta, la luce le colpisce il viso; la pelle oro, le mani sui fianchi. Un’espressione di fatica.
Le luminarie: archi colorati brillano: un percorso di luci segna la strada.
La lampada sul tavolo regala luce, il piatto sporco, le urla dei bambini potenti entrano dalla finestra; le prospettive cambiano a secondo di ciò che ti accade; la formazione mentale lascia sempre il fianco a qualche errore, crepe. Ripenso alla voglia che avevo di avere un figlio, il quadro della famiglia disegnato davanti agli occhi dai miei genitori – mettere al mondo un figlio e dovergli spiegare, poi, l’inutilità di tutto questo.
Lontano, appena sopra le montagne, il cielo si rompe di luci bianche, l’elettricità di una tempesta lontana ramifica nella notte. Un giorno, nel giardino dietro casa, ho trovato un topo morto, era lì da poco, il corpicino ancora caldo; l’ho vegliato per molti giorni, aspettando la resurrezione, aspettando una manifestazione della sua presenza dopo la fine. Ero in possesso dei miei anni fanciulli e nella mente non c’era lo spazio necessario per comprendere un finale definitivo.
In piazza c’è la chiesa. Ha la facciata bianca, scrostata. La gente si sta riversando sotto le luci, il corso è un ingorgo di corpi. Trovo un posto in disparte, seduto su un gradino di marmo, osservo il passaggio delle persone e ritrovo le mie corse bambine. Le ore piccole. Le nostre ombre da ragazzini, allungate dalle luci della sera. Le corse e il pallone da inseguire, la maglietta bagnata, i litigi, le mascalzonate dentro i bar, i richiami dei genitori, le lacrime delle prime ingiustizie – ancora si sente la voce di mio padre che affacciato al balcone mi richiama per farmi tornare a casa.
Mio nonno è deceduto, siamo in cucina e all’esterno il giorno sta finendo. E’ inverno, le strade piene di addobbi. Mio padre indossa un maglione nero, a collo alto. C’è tanto silenzio, tanto che riesco a sentire il suo respiro e il suo affanno. Ho scrutato i suo occhi velati di lacrime, sto leggendo la tristezza definitiva che ancora mi è estranea. Il mio genitore maschio ha perduto il laccio che lo teneva stretto all’infanzia. È fermo sulla sedia, mi rendo conto delle sue mani che tremano un poco, me ne accorgo da terra: sono vicino al fuoco, sul tappeto, e sto leggendo, non ricordo il titolo del libro ma mi è rimasta la sensazione di solitudine.
“Pa’” la mia voce pare una violazione.
Un rumore scagliato contro il silenzio sacro.
Lui si volta, abbassa gli occhi e li punta su di me; il suo corpo si porta dietro il racconto del lutto, l’accettazione difficoltosa, sussurra l’epifania di un percorso.
“Che c’è?”
“Dov’è mamma?”
“E’ andata a fare la spesa, questo Natale sarà diverso.”
“Perché?”, i suoi muscoli facciali fanno difficoltà a contrarsi.
“Il nonno non c’è più, e non tornerà”
“È andato in cielo?”
“Si, bravo, è andato in cielo.”
“E non può tornare?” sussurra la mia voce bambina.
Lui si alza.
Lascio che la sua figura si sieda al mio fianco, sul tappeto, con le ombre del fuoco che ballano sulla parete difronte.
“Prima o poi tutto finisce.”
“Chi lo decide?”
“D-i-o.”, le tre lettere che mio padre tira fuori dalla bocca sono: controllate, piene, emozionali.
“E poi?”
“Non lo so.”
Ha le guance arrossate, il calore del camino mi schiaffeggia la pelle.
Mio padre si alza, mi lascia le spalle, lo vedo andare via dietro la porta della sua stanza, ha il passo debole e lo sconforto che gli si è legato alla schiena.
Il lutto è un oggetto che prende spazio nel corpo e ci resta per sempre.
La notte della prima veglia aspettavo la venuta dell’angelo, mi avevano dettato un racconto pieno di questa figura che sarebbe dovuta venire a prelevare l’anima di mio nonno. All’orizzonte c’era una linea chiara che faticava a scomparire: ascoltavo la venuta dell’angelo cercandolo nei rami spazzati dal vento, nelle foglie che abbandonavano il cordone ombelicale; volevo capirne la venuta nei cani che si fermavano e mi osservavano, annusandomi.
I vecchi del paese mandavano fuori il fiato per l’ultimo rosario; il corpo di mio nonno era una forma immobile sul letto, era vuoto – l’anima volata in cielo, mi dicevano. Nonostante io abbia fatto attenzione, non sono riuscito a vedere l’angelo, ho perduto il suo gesto di rapimento.

* immagine: Mariasole Ariot

La civiltà Laiseca

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Alberto Laiseca

Alberto Laiseca

 

Come dice lo stesso Alberto Laiseca, Los sorias è «anzitutto qualcosa di molto divertente». Poi, oltre a essere l’opera più ampia della letteratura argentina, una delle più ambiziose e, fino a qualche tempo fa, anche una delle più sconosciute, è tante altre cose. In Italia è ancora inedita – speriamo per poco – mentre altri libri di Laiseca sono e saranno pubblicati da Arcoiris edizioni. In attesa di poter leggere per intero Los sorias, pubblico il breve prologo di Ricardo Piglia – un rabdomante di scrittori sepolti – all’edizione Simurg del 2013. [g.c.]

Wargames?

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di Daniele Ventre

Nel contesto ingravescente delle tensioni internazionali nel Mediterraneo orientale, la Turchia è di fatto, agli occhi dei Russi, uno Stato canaglia -e forse, se dobbiamo dar retta a certe analisi non di parte, lo è davvero. Se la Russia dovesse seguire l’American way of life a noi sì caro, dovrebbe attivare contro Ankara il crescendo di sanzioni, blocco navale, bombardamento a tappeto/guerra guerreggiata che tutti ben conosciamo e che ai coraggiosi avventurieri xenofobi di tanta politica nostrana piace caldeggiare, quando fa al caso nostro. Ma la Turchia è nella Nato, fa pressioni per entrare nell’Unione Europea, che le offrirà, dice, tre miliardi di euro di aiuti, salvo poi dividersi su chi deve sborsare quanto.

Per ora l’Unione Europea, ovvero la Germania, ha di fatto già ingaggiato sottobanco la Russia nello strisciante ed equivoco conflitto ucraino, senza che le rispettive pedine superassero lo stallo o si uscisse dal gioco di proclami e contro-proclami. Al momento siamo nella tipica situazione che precede una guerra guerreggiata su larga scala e che pertanto potrebbe degenerare nel giro di poco tempo (al massimo i due anni che intercorsero fra l’attentato al WTC e lo scoppio della seconda guerra del Golfo).

Ciò potrebbe avvenire secondo modalità imprevedibili, la più immediata delle quali è il riproporsi in Turchia della situazione ucraina, o peggio della situazione siriana (con Erdogan nel ruolo di Assad), in base alla sequenza: basi militari russe in Siria – sponsorizzazione russa di Assad in Siria e contraddittoria sponsorizzazione russa dei Curdi in Turchia -proclami mediatici putiniani- guerra civile in Turchia -estensione dell’area di conflitto etnico-religioso in piena NATO, con esiti imprevedibili di confronto diretto, previa la potenziale costruzione, mediatica e/o operativa, di un artificiale casus belli per irresponsabile scelta di una delle due parti (più verosimilmente, mi duole dirlo, il Pentagono che il Cremlino), dopo una serie di paralizzanti veti e contro-veti in seno al consiglio di sicurezza ONU.

Questo significa incidentalmente un’altra cosa: non siamo di fronte, come qualcuno ha detto, a una guerra interna all’Islam, la cui rilevanza è fondamentale solo come strumento, il più rumoroso degli strumenti di lotta -e la deminutio qui è voluta. Abbiamo davanti una guerra fra gli interessi inconciliabili delle grandi potenze per quanto attiene al controllo delle fonti di energia e delle aree di passaggio di gasdotti e oleodotti, e in ultima analisi alla creazione di grandi spazi finanziari sovranazionali: al problema degli USA di consolidare un mercato comune atlantico sottraendolo al potenziale ricatto energetico che la Russia potrebbe esercitare sull’Europa occidentale, rendendo quest’ultima per gli USA un “alleato” -sarebbe meglio dire, una provincia- instabile nel quadro del loro impero egemonico, e al problema della Russia di consolidare la sua nascente Unione Eurasiatica e di conservare un minimo di spazio vitale nelle aree che tradizionalmente facevano parte della sua sfera di influenza durante la guerra fredda. I leader islamici più o meno estremisti come Erdogan, o Assad, sono soltanto alcune fra le pedine di medio rango nel quadro generale di una linea di conflitto che va dal Golfo Persico al Kurdistan, dai Balcani all’Ucraina, con una significativa deviazione geografica che passa anche per gli Stati delle ex-primavere arabe.

Come multinazionali della diplomazia al servizio della finanza, del mercato e dell’energia, gli imperi in guerra offrono ai singoli contendenti diversi pacchetti di trattamento: ipocrite blandizie (vedi l’atteggiamento NATO verso il Montenegro), pressione ideologica, guerra civile, massacro generalizzato, nella misura in cui la linea di conflitto si allontana o si avvicina alle aree opulente o per tradizione “tranquille” a partire dal 1946. In questo quadro generale, la politica egemonica dell’occidente non può nemmeno giovarsi più dell’aura residuale di universalismo che ha avuto durante la guerra fredda, né può trincerarsi dietro il mito della difesa dei diritti e della democrazia, visto il connotato francamente genocida che le campagne USA hanno finito per rivestire sin dalle operazioni Giustizia Infinita e Libertà Duratura, e visto il bel risultato ottenuto, e ammesso in parte con urtante franchezza perfino da alcuni dei diretti responsabili, di moltiplicare il terrorismo e il fanatismo a beneficio dei mercanti d’armi e a discapito di tutti noi.

E c’è in effetti da aggiungere quest’altro sconfortante, e infamante, dettaglio. Nel teatro del conflitto sempre meno strisciante che si profila, la potenza autoritaria e aggressiva, che per guadagnare nuovi spazi ai suoi mercati compie un genocidio su scala continentale, e usa alcuni popoli e gruppi religiosi di cultura “semitica” contro altri (ebrei contro musulmani, musulmani contro musulmani), i malvagi che usano strumentalmente il Corano e la Bibbia e le loro derive fanatiche come assurda Lagersprache metafisica, polarizzando Kapò e internati, che in definitiva sono tutti vittime, l’impero del male da sconfiggere, quelli che combattono per la causa sbagliata, il cattivo insomma, siamo “noi”. Con tutti i difetti che il mondo islamico socialmente ancora arretrato evidenzia in molte aree (più spesso quelle dove allignano regimi di nostro gradimento), con tutte le pecche che lo “zar” Putin, autoritario capo di una democratura post-sovietica, mostra di avere e nessuno si sogna di negare, alla fine dei conti per la prima volta la civiltà occidentale non ha alcuna alternativa credibile da offrire al mondo. Se la scelta che si pone in medio oriente è preferire le infrastrutture, le strade ordinate e la normalità più o meno rassegnata di una dittatura dai tratti più o meno marcatamente teocratici, alla distruzione di ogni tessuto sociale decente e alla sua sostituzione con lo strapotere di stupratori e massacratori tribali o mafiosi in nome di Allah, con il contentino dei cento dollari al mese dello zio Sam alle famiglie dei bombardati o del latte in polvere della Nestlè paracadutato sui bambini del deserto, pare che per le popolazioni mediorientali la scelta sia evidente. Ed è questo che infine, nel prossimo conflitto, sia guerreggiato o meno, determinerà forse la nostra sconfitta. Resta solo da vedere se la gelata precoce del millennio americano (e occidentale) si deciderà in campo aperto, o con un pluridecennale declino dopo la parodia mediorientale, a ruoli invertiti, della vecchia crisi di Cuba

Va bene anche così

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falenadi Mirfet Piccolo

 

Lo so che è sciocco ma mi è successa questa cosa. Una cosa piccola e solitaria, dal peso leggero. Era primavera, un pomeriggio brinoso e friabile; la luce troppo bianca portava con sé la nostalgia del cielo cupo dell’inverno e io non sapevo più cosa temere, se il freddo che per mesi mi aveva amputato il respiro o la luce che mi avrebbe accecata, bruciata in un niente.

Sono entrata nella stanza senza illusioni, con la certezza che tutto quanto sarebbe durato giusto il tempo di qualche convenevole, di qualche prassi eseguita con meccanica sapienza. Ci siamo stretti la mano. Poi con un gesto mi ha fatto cenno di sedermi e anche tu ti sei seduto; tra di noi, la tua scrivania arruffata aveva residui dei pazienti che mi avevano preceduta. Mi dica come sta, mi hai chiesto, mi dica come si sente, e nella tua voce non c’era presunzione né fretta, non c’era l’attesa della fine. Allora ho capito che fermarmi non sarebbe stato un pericolo né una sconfitta, ho capito che potevo farlo, e ti ho raccontato.

Del dolore ad ogni passo, della luce troppo forte e della stanchezza attanagliante, ti ho raccontato del freddo che non mi abbandonava, del mio viso ubriaco e degli specchi in cui non volevo più riflettermi. Poi ti sei alzato, mi hai fatta sdraiare sul lettino. Distesa, quel primo pomeriggio di quella prima visita, ho desiderato di poter chiudere gli occhi e dormire a lungo, svegliarmi nuova e ricominciare la mia vita di sempre. La mia vita senza fissa dimora, il mio girovagare esperto e inconcludente. Lo so che non si direbbe, a guardare i miei passi di oggi – stanchi, sorretti da un bastone indossato troppo presto -, ma ero una che camminava sempre; divoravo chilometri di città metropolitane con la musica nelle orecchie, con la voglia di vedere dove sarei andata a finire, senza cedere al tempo che passava. Quel pomeriggio mi hai chiesto di farti vedere esattamente dove provassi male. Poi mi hai domandato di descrivertelo, il mio dolore, e io ho fatto del meglio per dargli una forma riconoscibile, palpabile; ho cercato parole spesse, parole che tu potessi incidere con un bisturi e dissezionare. Ancora non sapevo che da quel momento in poi, fuori da quella stanza, non avrei più smesso di cercare parole migliori e inequivocabili per spiegare agli altri il male che sentivo; la curiosità amorevole di chi mi voleva bene e quella morbosa di chi non mi conosceva, ancora non sapevo che ogni mio tentativo si sarebbe risolto in un fallimento.

Hai misurato ogni centimetro della mia pelle, il mio cuore il mio respiro. Hai guardato la mia lingua e dentro i miei occhi, hai rovistato tra i miei capelli. Hai fatto due passi indietro e hai osservato il mio viso con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto: la testa un po’ inclinata da un lato e poi dall’altro, i tuo piccoli occhi attenti, pronti ad accogliere ogni possibile visione. E ancora non sapevo che tu, quel pomeriggio, sulle mie guance e sul mio naso avevi visto posarsi l’ombra di un bozzolo, di una farfalla in divenire, e non era felice. Ancora non sapevo molte cose. Poi mi hai fatta rivestire e sei tornato alla tua scrivania, le tue dita hanno battuto con forza sulla tastiera. Lettera dopo lettera, quel ticchettio pestato dai tuoi polpastrelli arginava il tempo trascorso da che ero entrata, ed era stato tanto, misurava il tempo rimasto, e mi sono sorpresa a pensare che fosse stato troppo poco. Hai scritto tutto. Sei stato preciso e completo, e lo saresti stato ad ogni visita successiva, ed io ogni volta avrei amato questa tua capacità di imprimere così tante parole, ciascuna con un suo peso specifico e una sua specifica angolazione, su un comune foglio bianco.

È cominciata da lì, questa cosa sciocca che mi è successa, è cominciata quel pomeriggio di primavera di dieci anni fa. Mi dica tutto e io che ti parlo, le tue dita che battono e io che rivesto il mio corpo diventato l’involucro di un imbarazzo inaspettato.

Mi hai allungato l’elenco degli esami diagnostici da fare. La fede nuziale al tuo dito brillava, la mia sarebbe arrivata l’estate successiva. Cominciamo con questi, hai detto, ed erano così tanti che ho temuto non mi sarebbe bastata la vita per farli tutti e mi sono vergognata anche della mia paura. E invece mi è bastata, e dopo sei mesi di una vita sospesa nel limbo – di analisi, di scomposizione del mio sangue, di prelievi della mia pelle – tu gli hai dato un nome nuovo. È una malattia cronica e sistemica, mi hai detto, ma si può trattare.

Ho letto che succede, che per voi medici è uno dei rischi del mestiere; ho letto che per il paziente, di solito, è tutta un’invenzione, un immaginarsi l’altro come una specie di salvatore, di guaritore di tutti i mali. Ho letto che quasi sempre va finire in un niente, e solo ogni tanto si ha il privilegio amaro di una storia torbida e inconcludente. Ho letto che accade così di frequente che temo la mia storia, questa cosa sciocca che mi è successa, non abbia niente di speciale.

Senza che tu te ne accorgessi, senza che tu facessi niente per farlo succedere. In tutti questi anni, arrivare a darsi del tu è stata l’unica distensione dei rigidi schemi di una professione secolare. Solo una volta, era forse un anno che ci incontravamo con regolare cadenza trimestrale, avresti accennato ad un secondo figlio arrivato troppo presto, alla confusione delle cose.

Io non ti conosco e credo non esita alcun guaritore di ogni male. Eppure a capodanno di quello stesso anno in cui tu hai dato un nome nuovo alla mia vita giovane – non ero ancora diventata un dovere da accudire, una madre troppo stanca per correre; ogni degenerazione doveva ancora accadere – la mia amica di sempre mi ha allungato una scodella di lenticchie bollenti e io come risposta le ho detto, quasi quasi m’infatuo del mio medico. Quasi quasi. E ho sentito le mie mani finalmente scaldarsi, dimenticarsi cos’erano diventate.

Vedi, quindi, lo vedi bene anche tu – è un fatto certo, basta fare qualche calcolo, mese più mese meno – che questa cosa sciocca è iniziata prima di tutto. Prima che io mi sposassi e il mio matrimonio felice diventasse un ricordo piccolo steso su un tavolo ogni giorno sempre più grande; prima che io smettessi di essere una donna e diventassi un corpo, al massimo una madre da compatire. Perciò credimi se ti dico che questa cosa sciocca, questa voglia che ho di te, non ha il peso di una tristezza.

Per anni, ad ogni nostro incontro dettato dalle circostanze, ho cercato di misurare la vastità di ciò che sentivo. Mentre verificavi l’estensione delle piaghe sul mio viso, e contavi le macchie rosse che come cicche di sigarette infossavano le mie braccia, mentre con dita leggere stimavi la perdita dei miei capelli, il mio respiro rotto e il cuore aritmico, ho continuato a sentire questa cosa puerile, quest’imbarazzo accidentale ed avulso dal lento deformarsi del mio corpo.

Tu leggevi la conferma dei miei anticorpi corrotti, con l’indice seguivi il loro dispiegarsi sul figlio – antinucleo e anti-DNA e anti-ENA e anti-fosfolipidi, e poi la VES alta e globuli bianchi bassi (mi hai insegnato molte cose, molte più di quante tu possa immaginare) -, ed io mi preoccupavo che in tutti questi anti, in questa guerra del mio corpo contro se stesso, mi preoccupavo che il tremore dei miei pensieri fosse arrivato fino al nucleo delle mie cellule, fino all’infinitamente piccolo, e che tu, sempre così attento, sempre così scrupoloso, lo avresti letto e biasimato.

Mi hai dato un armadietto pieno di sponde a cui aggrapparmi. Il mio Plaquenil e il Medrol e l’azatioprina e le vitamine, con le mie pillole di ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, ho imparato a costruire dei ponti per non affondare allo scorrere di una natura capovolta. Ho imparato a galleggiare, a pensare che la malattia fosse solo un fatto accidentale e non la mia vita intera. E ai tuoi ciao-come-stai ho imparato a rispondere che a volte andava meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funzionava e quell’altro funzionava poco, ma che era pur sempre trattabile e che tutto sommato andava bene anche così.

Ma poi è arrivato il giorno che tu sei andato via. Era ottobre, il mese in cui le foglie marciscono sulla terra umida e il freddo inizia a nascere senza chiedere permesso. Sei andato a lavorare in un altro ospedale e io sapevo dove, esattamente dove e quando, e i tuoi turni e il numero di ambulatorio, sapevo tutto e non sono mai venuta dove ti avrei certamente trovato. Perché pensavo che peggio di come stavo non sarei mai potuta stare, pensavo di avere già ingoiato la fetta di malasorte che mi spettava. Perché il mio corpo, quell’ottobre di quell’anno che te ne sei andato, era gravido di vita e quindi forte, un corpo che alla fine ce l’avrebbe fatta. E non volevo, in tutto ciò non volevo questa cosa sciocca che mi è successa e che non capivo. Non la volevo.

Per questo, mentre tu non c’eri, io ti ho tradito con tanti. Senza mai cercati eppure trovandoti ogni volta: questo era un medico frettoloso e tu no, quello non aveva capito e tu si, quell’altro non mi chiedeva come stavo e tu lo facevi sempre. Ti ho tradita specialmente con uno. In un ospedale di provincia ho incontrato un dottorino con la faccia da copertina patinata e denti troppo bianchi per essere veri. Dopo la lettura distratta di qualche foglio, quel dottorino ultimo, mi ha detto che la falena che nel frattempo era nata sul mio viso – quelle ali bruciate sulle guance, quel tronco ricoperto di piaghe sul mio naso – non avrebbe mai spiccato il volo ma che forse, forse per il resto, per le miei mani sempre fredde e il dolore che da anni trasformava i miei sogni in incubi madidi di sudore, forse quello avrei potuto curarlo se solo avessi davvero voluto, se solo avessi almeno provato a controllare la mia ansia, la mia depressione inconscia. Tutto quel dolore di cui parla è organicamente ingiustificato quindi lei, signora, lei non sta poi così male come vuol far credere.

Allora io, in quella stanza di un ospedale di provincia con l’ultimo dottorino qualunque, ti ho immaginato seduto sulla sedia al mio fianco e che insieme ridevamo. Ridevamo dei suoi zigomi contraffatti, ridevamo di quell’ospedale qualunque. Ho immaginato che mi dicevi, non prendertela lui non ti conosce come ti conosco io, e allora io quel giorno ho respirato piano, profondo e piano, e allora la frustrazione non si è accesa, e allora io non ho pianto.

Dopo tre anni di tua essenza e di miei tradimenti nervosi, dopo sei tornato a casa. La nostra casa che non è una casa e soprattutto non è nostra. È un ospedale dove si nasce e si muore, dove la gente come me sopravvive agli esiti amari di esami estenuanti, agli sbalzi d’umore nei bagni sempre troppo angusti e sporchi, bagni non adatti a ripulirsi dal dolore.

Così, la sera prima, mi sono preparata al nostro incontro con la stessa minuziosa inquietudine con cui ci si prepara ad un appuntamento amoroso. Ho controllato che sulle mie gambe non ci fossero peli irriverenti e che il mio inguine fosse pronto ad un’eventuale accoglienza; ho indossato la mia biancheria migliore immaginandola ai tuoi piedi, e che le tue mani sulla mia pelle nuda non avrebbero disegnato alcuna imperfezione. Ho guardato la mia lingua, ancora sana e porosa, e ho pensato a tutte le cose che avrei potuto dirti senza spaventarti. Riflessa allo specchio non ho avuto paura di ciò che ho visto, e ho raccolto i miei capelli stanchi sulla nuca e poi li ho lasciati di nuovo cadere, perché mi sembravano belli nonostante tutto, perché tu forse li avresti sollevati piano piano e lungo la mia schiena avresti trovato la tua strada. Perché da qualche parte si dovrà pur cominciare e io volevo lasciare a te la possibilità di farlo.

La sera prima del nostro ritrovarci, sono andata a dormire ingannando me stessa con una romanzo di Thomas Hardy, nascondendo la certezza che non mi sarebbe piaciuto.

Eri tornato ed io pure. Davanti alla porta di quell’ambulatorio che conoscevo così bene ho atteso il mio turno con finta diligenza. Ho contato a quanti altri tuoi pazienti ero in coda, e un istante erano troppi e l’istante dopo erano troppo pochi. Ogni volta che uscivi e invitavi il prossimo ad entrare, io guardavo lontano da te e dalla tua porta, cercavo un posto immune ai disinganni. Poi è rimasta quell’ultima paziente ed è entrata, una donna anziana con le mani di cartapesta che per tutto il tempo della sua attesa aveva sfogliato una rivista nel senso contrario. Dopo ci sarei stata io, tutto poteva finire e io non avrei potuto porvi rimedio, riavvolgere il nastro.

Hai chiamato il mio nome ed io sono entrata. Ho chiuso la porta alle mie spalle e quando ho alzato lo sguardo mi hai sorriso e detto, ciao come stai, come avevi sempre fatto. Mentre camminavo verso la scrivania oltre la quale tu ti eri già seduto, ho avuto la certezza che il mio passo claudicante non sarebbe mai stato in sincronia con il tuo quasi amichevole saluto. Mi sono seduta. Ho visto la tua fede nuziale diventata stretta attorno a qualche chilo messo su negli anni, i tuoi capelli spessi accorciati di recente, gli stessi occhi piccoli e scaltri che dieci anni prima mi avevano osservata con la stessa attenzione con cui si osserva un dipinto.

Sei tornato, e anche la cosa sciocca è tornata.

Ciao-come-stai, dal giorno del nostro ritrovarci è diventata una domanda alla quale non riesco più a rispondere senza desiderare che tu me lo chieda incondizionatamente. Ciao-come-stai, come lo si chiede ad una persona che ci è cara davvero. Per sapere come sto al di là di tutto, al di là di questa vita alla quale tu un pomeriggio hai dato un nome che ho imparato a conoscere. Per sapere cosa sono ancora capace di fare.

Perché se quel giorno arrivasse, io finalmente potrei rispondere e tu, dimmi tu come stai. Parlami della birra che hai bevuto con gli amici nel fine settimana, raccontami se aveva il sapore fruttato delle cose belle quando stanno per nascere, e tutto è possibile e non hai scelte da fare, e allora puoi ridere con la frivola certezza che la tua vita, tutta ancora da scoprire, sarà più consistente del fumo della prossima sigaretta che penderà dalle tue labbra. O forse quella birra aveva il sapore amaro delle cose già tutte dette, già tutte fatte, e non rimane altro da fare se non il burattino di una giostra ormai deserta. Dimmi quanti caffè bevi ogni mattina ripromettendoti che dal giorno dopo, sempre dal giorno dopo, ne berrai uno in meno. Dimmi che peso hanno i tuoi giorni e a quale punto di quel tuo sogno, sempre lo stesso dannatissimo sogno, le tue notti si ostinano a morire. Raccontami di chi sei l’orgoglio, l’investimento ripagato; e dimmi anche se è questo ciò che hai sempre desiderato fare: camminare a ridosso del dolore di persone sconosciute, dare loro la mano facendo attenzione a non lasciarsi contaminare. Come stai. Parlami della musica che ti piace, e di quella che ascolterai oggi in auto verso casa, quali parole sceglierai per accompagnare i pensieri di tutte le cose che avresti potuto fare e non hai fatto, oppure che avresti potuto fare meglio, o non fare affatto perché tanto, a conti fatti, la vita di un corpo è un mistero e tu sei solo un uomo.

E poi raccontami, parlami, dimmi se sotto la doccia – dentro il vapore, fuori le urla dei tuoi figli e la delusione muta della persona che hai sposato – succede anche a te, certe mattine bastarde, di desiderare di essere solo un pesce tra tanti e da cui nessuno, in fondo, si aspetta un granché.

Dimmi se anche tu senti male, e dove, e come si chiama il tuo dolore la tua vita di tutti giorni, e se posso io toccarti, dirti che è trattabile e che starai meglio, dirti che andrà tutto bene.

E allora vedi, lo vedi anche da solo, che questa cosa sciocca che mi è successa è un incesto, un incontro inopportuno tra il mio corpo malato e il desiderio non autorizzato che ho di te.

Quindi forse dovrei alzarmi e andarmene con questa consapevolezza, andarmene con la mia malattia ben trattata, arginata, con la mia cassaforte di pillole collaudate. Non entrare. Alzarmi da questa sedia diventata scomoda in una sala d’attesa orami vuota. Perché se ne sono andati via tutti; uno dietro l’altro i tuoi pazienti si sono succeduti in silenzio e io non sono riuscita a tenere il conto del tempo ancora a mia disposizione.

Mi alzo, mi devo alzare perché hai aperto la porta e detto il mio nome. Entro. Mi guardo attorno e penso che in fondo è tutto come sempre. La stessa scrivania arruffata, lo stesso computer, le stesse due sedie, lo stesso appunto appeso in bacheca. E anche la cosa sciocca è la stessa.

Ciao come stai, mi domandi. E capisco che anche oggi sarà com’è sempre stato in questi dieci anni, e che è necessario che sia così affinché funzioni. Anche oggi tornerò a casa e farò buio per ripararmi dall’ostinazione del giorno, e questa cosa sciocca che mi è successa sarà sul mio collo, dentro la mia bocca, la sentirò scivolare sulle natiche, mordermi i seni piccoli e rifugiarsi tra le mie gambe. Sentirò il mio respiro risvegliarsi senza dolore. Perché al buio sono ancora perfetta, niente di me cede. Al buio, negli anfratti sani della mia vita, il mio corpo che tocca il tuo non conosce compromessi. Tu mi domandi come sto e io ti guardo e penso che sarà bellissimo, come sempre, che sarà piccolo e leggero e bellissimo. Perciò ti rispondo che a volte va meglio e a volte peggio, che quel farmaco non funziona e quell’altro funziona poco, ma è pur sempre trattabile e tutto sommato va bene, va bene anche così.

La famiglia su YouTube. Dai bagnetti ai prediciottesimi

1

di Alberto Brodesco

Un estratto dall’ Archivio Trentino, 1/2014, numero speciale “Pratiche del film di famiglia. Memorie amatoriali dall’archivio alla rete”.

«Emerson – Mommy’s Nose is Scary! (Original)» riprende per 58 secondi un bambino su un seggiolone. La descrizione del video, caricato dalla madre, recita: «My five-and-a-half-month old son Emerson isn’t sure what to think when I blow my nose. Sometimes he’s terrified, then he can’t stop laughing». Il video conta in data 15 luglio 2014 quasi 56 milioni di visualizzazioni e 216.000 ‹like›. «Baby Laughing Hysterically at Ripping Paper (Original)» mostra un bambino che ride mentre il papà strappa una lettera: 70 milioni di visualizzazioni e 236.000 like. Un altro video assunto alla celebrità è «David After Dentist». Mostra un bambino che delira sotto l’effetto di un sedativo ed è stato visto da 125 milioni di persone. Il video dei record, infine, riprende due fratellini. Il più piccolo morde l’altro, che esprime il commento eponimo «Charlie bit my finger». Si contano qui 740 milioni di visualizzazioni e 1 milione e 300 mila like.

Queste sono solo le piccole star familiari di YouTube, le stelle più brillanti di un universo sconfinato di autorappresentazioni familiari di cui cercheremo di individuare e analizzare alcune sedimentazioni discorsive in grado di segnare i punti cardine della vera e propria mutazione socio-culturale avvenuta nella transizione dal passato analogico al presente digitale.

Il salto da un’epoca di scarsità, in cui la pellicola era un bene prezioso che andava risparmiato, alla suddetta era dell’abbondanza o dello «spreco iconico» (Gilardi, 2000, p. 311) produce una prima distanza tra lo ieri e l’oggi. Non è più necessario impegnarsi in quella che era la vera questione chiave per il cineasta amatoriale, ovvero l’accurata selezione di specifiche porzioni di realtà. Venendo meno il bisogno di preoccuparsi dell’esauribilità del supporto materiale, cioè di delimitare una frazione di tempo, la durata di osservazione si estende, le riprese si allungano, lo sguardo si sofferma e permane.

I modi con cui viene rappresentato su YouTube un momento canonico del film di famiglia, il ‹bagnetto› del neonato, forniscono un buon punto di osservazione su questo primo effetto. Bisogna intanto prendere atto dell’enorme disponibilità di bagnetti su YouTube: digitando in italiano ‹primo bagnetto› (fra virgolette) il motore di ricerca restituisce 7.310 video; utilizzando l’inglese ‹first bath› come parola chiave si trovano circa 140.000 filmati. I primi trenta risultati delle ricerche nelle due lingue, raccolti come campione, mostrano che i video con ‹primo bagnetto› nel titolo o nella descrizione hanno una durata media di 4 minuti e 37 secondi (mediana: 3’48”), mentre i video taggati ‹first bath› durano in media 7’52” (mediana 6’36”). A volte i genitori riprendono integralmente il bagnetto, con durate che giungono fino ai 19 minuti. Al di là dell’esigenza di risparmiare, all’epoca della pellicola la stessa durata fisica delle bobine rendeva impossibile girare delle sequenze di tale lunghezza.

Strettamente associata a questa, una seconda conseguenza della digitalizzazione del video di famiglia ha a che fare con i contenuti, con ciò che viene registrato dalla videocamera. Ai momenti canonici che continuano a essere filmati (matrimoni, compleanni, primi passi…) si sommano ora i fatti più minuti, considerati un tempo scarsamente rilevanti, non meritevoli di essere ripresi. Entrano nell’inquadratura i piccoli momenti del quotidiano. I video esplorano senza fretta i territori dell’effimero.

[…]

Le parole svolgono una funzione fatica, servono a ribadire l’esistenza di chi le pronuncia. È facile per lo spettatore porsi in una posizione di superiorità rispetto a tale esposizione ingenua del quotidiano più minuto e alle considerazioni verbali che la accompagnano. Eppure i numeri dimostrano che vlog come questi richiamano un interesse di massa. PepperChocolate84 è una ‹fashion e make-up guru›, una partner di YouTube, una professionista in grado di guadagnare grazie al suo canale, la star di uno «star system tutto interno a YouTube» (Nencioni, 2013, p. 75). In data 6 giugno 2014, PepperChocolate84 è autrice di 687 video – tutorial, consigli di abbigliamento e di stile, racconti di viaggio e di vita privata. Il suo canale ha 137.677 iscritti. La concezione di ‹famiglia› che viene così a stabilirsi assume evidentemente una forma particolare: PepperChocolate84 non solo condivide pubblicamente la sua vita familiare, ma la vende.

La somma tra prolungamento dello sguardo sull’oggetto inquadrato e ripresa dell’effimero finisce per estendere il territorio del filmabile, la cui capienza abbraccia ora tutti gli spazi e tutti i luoghi, come se la realtà fosse divenuta un lunghissimo piano sequenza. Dal punto di vista tecnologico tale apertura degli orizzonti del possibile è simbolizzata dall’invenzione dei Google Glass e dalla progettazione della videocamera GoPro. La camera diventa un terzo occhio, raddoppia la percezione, conserva traccia registrata di tutto ciò che l’individuo ha percepito. La rassicurazione psicologica fornita da questa opzione ne decreta il successo: «la memoria privata è ormai perfettamente controllabile grazie al suo spostamento dalle incertezze dell’organico alla sicurezza dell’inorganico» (Eugeni, 2009, p. IX).

Se, prima, la presenza della cinepresa stabiliva un’eccezione, ora l’ubiquità della videocamera o del videofonino è la regola, l’ordinario. La registrazione (o la registrabilità) del quotidiano fa parte dell’orizzonte degli eventi della società contemporanea.

[…]

La disponibilità costante di dispositivi mobili a portata di mano dell’individuo produce inoltre degli effetti legati alle modalità stesse della rappresentazione o dell’autorappresentazione. Si può infatti osservare la perdita dell’«afflato corale e inclusivo» (Cati, 2013, p. 106) che contraddistingueva l’home movie, con un conseguente passaggio enunciativo dal ‹noi› all’‹io›. Oggi i racconti di sé ‹familiari› o collettivi sono decisamente minoritari rispetto all’enorme mole di video concentrata non sulla famiglia ma sull’individuo.

[…]

Il cineamatore in pellicola svolgeva un ruolo sociale, filmando la famiglia per la famiglia, per lasciare un lascito al nucleo domestico o ai propri figli. La visione collettiva nel corso delle serate di proiezione rinsaldava l’unità degli affetti. Di preferenza, i video sono invece oggi destinati alle pagine o ai canali personali di FaceBook, YouTube, eccetera. Se prima la comunicazione mirava a un ‹noi› condiviso e voleva sedimentare anche una testimonianza per le future generazioni, ora ci si indirizza prevalentemente al presente parlando in prima persona singolare. Lo stesso payoff di YouTube, «Broadcast Yourself», è da intendere come un ‹tu› più che come un ‹voi›. La celebre copertina di Time del 2006 che celebra l’avvento del web 2.0 eleggendo ‹You› come «person of the year» si può interpretare alla luce della stessa connotazione. La copertina mostra lo schermo di un computer ricoperto di una superficie riflettente, lasciando già spazio alle interpretazioni culturali che puntano l’indice contro la presunta «epidemia di narcisismo tra i giovani» – ormai un luogo comune segnalato con toni preoccupati da quotidiani felici di pescare tali dati dal mare magnum della ricerca accademica («ben il 70% dei ragazzi è ‹malato› di narcisismo, fenomeno che sta dunque raggiungendo dimensioni epidemiche»). Eppure sin dagli anni settanta, scrivendo di videoarte, Rosalind Krauss (1976, p. 50) suggeriva che una deriva narcisistica fosse interna a un medium come il video che induce l’artista a cercarvi uno specchio. Il videofonino, portatile, agile e personale, non ha fatto altro che accentuare (mcluhanianamente) questo aspetto.

I processi di mediazione e di auto-mediazione, prerequisiti essenziali per la soggettivazione, attraversano dunque un’evoluzione tecnologica. La costruzione del sé si ricalibra all’interno dell’interazione sociale offerta dai Social Network Sites. La presentazione o rappresentazione del sé – un’operazione drammaturgica, concepita per una pluralità di palcoscenici e per una molteplicità di audience (Goffman, 1969) – è calata in un’era di vetrinizzazione sociale (Codeluppi, 2007), di auto-spettacolarizzazione o di confezione del sé a fini spettacolari. I SNS sono luoghi dove formulare, moltiplicare e negoziare identità, dove essa viene ‹messa in forma› o inventata. Giorgio Agamben (2006, p. 23) parla di una «disseminazione che spinge all’estremo l’aspetto di mascherata che ha sempre accompagnato ogni identità personale». Rappresentarsi vuol dire anche ri-presentarsi, ri-conoscere se stessi dopo aver attraversato un processo di oggettivazione: lo specchio della foto o del video serve a vedersi a distanza, a creare un gap, una separazione tra il sé e il mondo esterno. Tale piazzamento a distanza del sé presuppone tuttavia una separazione minima. Il selfie prevede che la fotocamera si collochi a distanza di braccio o di selfie stick. Non ci si allontana mai davvero troppo da se stessi.

Riferimenti bibliografici

Agamben, Giorgio

2006 Che cos’è un dispositivo? Roma: nottetempo.

Cati, Alice

2013 Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari. Milano-Udine: Mimesis.

Codeluppi, Vanni

2007 La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. Torino: Bollati Boringhieri.

Eugeni, Ruggero

2009 «Mrs. Bathurst. Il cinema come operatore della memoria privata». Prefazione in: Pellicole di ricordi: film di famiglia e memorie private (1926-1942). Di Alice Cati. Milano: Vita & Pensiero: VII-IX.

Gilardi, Ando

2000 Storia sociale della fotografia. Milano: Bruno Mondadori.

Goffman, Erving

1969 La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna: Il Mulino (ed. orig. The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, NY: Doubleday, 1959).

Kraus, Rosalind

1976 «Video: The Aesthetics of Narcissism». October. Cambridge, MA, v. 1: 50-64.

Nencioni, Giacomo

2013 «I make up tutorial di YouTube e il caso Clio make up: gli stardom di Internet e i transiti tra web e nuova tv». In: Factual, reality, makeover Lo spettacolo della trasformazione nella televisione contemporaneaV. A cura di Veronica Innocenti e Marta Perrotta. Roma: Bulzoni: 75-84.

Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica

1

di Domenico Talia

La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.

Femminismi: teoria, critica e letteratura nell’Italia degli anni 2000

2

di Margherita Marras

(Introduzione al volume Femminismi: teoria, critica e letteratura nell’Italia degli anni 2000, “Narrativa”, n. 37/2015)femminismi

Da cosa nasce l’esigenza di questo volume? Perché i Femminismi?

Si potrebbe partire dalla riattualizzazione su parafrasi di una celebre canzone del femminismo militante degli anni 70: “Noi siamo stufe”. In questo caso, però, non si tratta di rimettere in discussione la dominazione maschile nel quotidiano delle casalinghe, ma piuttosto di rivoltarsi al significato, al senso e all’uso mortificato (e corrente) attribuito al femminismo; innanzitutto, dai molti (troppi) dei non addetti ai lavori: circoscritto temporalmente a un periodo cominciato e conclusosi negli anni ’70, il femminismo è da costoro generalmente dipinto con dei tratti che, scolpiti in una (a)memoria storica deformata, rimandano alle forme sminuenti e grottesche di un’espressione gridata (se non isterica) e di opposizione virulenta al “maschio”, tendenzialmente androfobica o misandrica che dir si voglia.

Non meno fastidioso è l’appiattimento essenzialistico e distorto del femminismo: scarnificato, ridotto ai minimi termini e giocato a suon di slogan da tuttologi opinionisti nei vari talk show, da presentatrici “specialiste” della comunicazione televisiva con milioni di spettatori al seguito (si veda Barbara D’Urso) che liquidano la loro “militanza” in battute da bettola e, finanche, da cantanti e autori[1] di testi in cui la “specificità femminile” si perde nei meandri della facile e non problematizzata questione/equazione donna uguale donna. Una specificità Donna, dunque, conclamata con assurda fatuità e giustificata sulla base di una “natura” femminile di biologica ascendenza che, oltre a spazzare con frivolezza il salutare concetto della diversità tra donne, viene continuamente misurata su una contrapposizione stereotipica all’uomo: Donna dispensatrice di pace contro l’uomo guerriero, sensibilità femminile contro arroganza maschile, romanticismo contro nichilismo, sentimentalismo contro sessualità, educazione contro trivialità, ecc. E queste sono solo alcune delle tante facilonerie costernanti che alimentano i “pensieri” pseudo-femministi, creando disagio e disappunto presso tutti coloro i quali portano con sé la coscienza e la memoria della combattuta e contrastata storie delle donne e conoscono il prezioso apporto politico e culturale del femminismo. La constatazione prima che ne deriva è la leggerezza imperdonabile di chi, proclamandosi femminista senza conoscerne minimamente contorni e sfumature, dimostra di ignorare il fondamento stesso del femminismo: la complessità!

Il femminismo non è un fenomeno confinabile in semplicistici schemi, come dimostrato dal suo andamento carsico, dalla pluralità delle sue manifestazioni e forme, dalla sua capacità di attraversare e muovere nuovi saperi da un territorio all’altro e di situarsi e di confrontarsi con specifici contesti culturali e geografici. Il femminismo è un fenomeno all’interno del quale ci si muove (anche da esperti conoscitori) sempre con una certa cautela: per il funambolismo che sottende la sua vocazione a una differenza affermata e la sua volontà di distruggere le barriere; per le rivendicazioni avanzate di una diversità che si vuole precisa nelle sue connotazioni ma fluida se ricondotta alle sue multiple versioni; per la sua configurazione impura dovuta all’infinità dei pensieri e delle teorie nei quali si è espresso e si esprime (da cui il sempre più corrente uso plurale di “femminismi”), implacabilmente e forzatamente sottomessi alla variabilità e all’effimero temporale.

Il femminismo ha dunque fallito? Sì, se ci dovesse limitare alle facilonerie sopra menzionate e se si estendesse la nostra riflessione, rincarando la dose, a quella porzione di campo letterario/editoriale in cui a vincere sono gli stereotipi di genere – spesso ricuciti sulle basi del più becero fallogocentrismo –, trasformati in improbabili marcatori identitari e tesi ad affermare un “femminesco” essenzialismo (che niente ha a che fare con lo storico femminismo della differenza), chiamato a codificare un genere letterario minore – “femminile” per l’appunto – dispensatore di rosee vedute, di sciacquatissimi intrecci sentimentali e di amori controversi per “anime semplici” (si veda in questo volume l’intervista a Maria Rosa Cutrufelli). Difatti, a fronte di case editrici capaci di considerazioni lucide, obiettive e non sessualmente discriminanti, è copiosa la schiera di editori per i quali la promozione di questa edulcorata idea di “femminile” è del tutto speculare a una sua spendibilità sul mercato, giacché perfettamente corrispondente ad attese e bisogni di una fetta di pubblico ammansito e tautologicamente abituato a nutrirsi delle sue aspettative comode e rassicuranti. Purtroppo, declinare la grammatica dei ruoli allo sminuente ritmo della negoziazione commerciale significa orientare e disciplinare le scelte testuali, di ricezione e promozionali su un’identità di genere imbalsamata in anacronistici stereotipi che, all’origine di pericolose asimmetrie, scadono immancabilmente nell’assoluto discriminante, danneggiando le donne, alcune delle quali, peraltro, non sono sempre candide e innocenti in questa speculazione (si vedano le interviste ad Antonio Moresco e a Maria Rosa Cutrufelli).

Inutile negarlo: ci troviamo oggi nel pieno di una re-mistificazione del concetto Donna, circoscritto in un fortino anche se di sabbia, che per superficialità si iscrive nella chiave anti-femminista più radicale e, cioè, in un sistema stereotipato che supporta e alimenta non solo la marginalizzazione ma anche l’inconsistenza delle donne, la cui natura, costruita su una differenza biologica dozzinale, ritrova il peggio di quel senso universalizzante e universale della tradizione occidentale che molti femminismi, soprattutto dopo gli anni ’70, hanno tentato di demistificare e combattere.

Benché tutto ciò mostri chiaramente l’effetto “muro di gomma” del femminismo in Italia, sarebbe quanto mai ingiusto parlare di un suo fallimento. La sua poca penetrabilità e la conoscenza distorta di cui è oggetto si potrebbero invece ricondurre all’arroccamento di molte delle sue esponenti storiche nei circoli e luoghi ristretti delle loro formulazioni teoriche (prevalentemente fruibili a un pubblico di nicchia), ma soprattutto alla sua banalizzazione mediatica, alla poca sensibilizzazione sulle questioni di genere nelle scuole, alla scarsissima rilevanza e diffusione nell’istituzione accademica italiana di Women’s e Gender Studies[2] dalla quale dipende, d’altra parte, il ritardo degli studi accademici in materia di femminismo, e tanto altro. Da qui l’urgenza e l’esigenza di questo volume.

Tuttavia, malgrado ritardi e semplificazioni, sono comunque percettibili in Italia, negli ultimi anni, una pratica e una teorizzazione femminista sempre più feconde e di alta qualità, come confermato tanto dagli studi a opera di intellettuali e accademiche consolidate – sociologhe, linguiste, filosofe –, disciplinarmente sensibilizzate all’urgenza di rivedere i riposizionamenti nelle relazioni di genere alla luce dei nuovi schemi culturali e sociali profilatisi all’interno dello spazio femminile, quanto dalle pubblicazioni di giovani studiose formatesi in luoghi storicamente più consoni e inclini agli studi di genere e, quindi, alla costruzione di identità mobili, intersezionali, transessuali, queer, ecc.

Ed è proprio a questo femminismo, criticamente più attento alle nuove configurazioni della realtà e della società italiane, che abbiamo voluto guardare facendo appello ad alcune delle sue rappresentanti, consolidate e nuove.

A coloro i quali conoscono la rivista Narrativa, e dunque la sua vocazione prioritariamente letteraria, parrà strano ravvisare in questo volume lo sbilanciamento percentuale tra i testi di matrice sociologica, quantitativamente superiori, e gli studi di critica letteraria. Esistono delle precise motivazioni e altrettante risposte a questa evidenza. In primis, la vistosa carenza (praticamente assenza) in Italia, di studi critici o problematizzazioni letterarie che, in congiunzione con i pensieri femministi, abbiano abbracciato l’insieme della produzione delle donne. La seconda ragione, a essa strettamente legata, è la nostra profonda consapevolezza che i saggi e contributi di natura sociologica, filosofica ecc. offrono, in prospettiva interdisciplinare e comparata, spunti analitici indispensabili per comprendere la complessità della produzione letteraria delle donne e per suggerire l’adozione di possibili posizionamenti e prospettive critiche: da dove partire, come e cosa cercare. Ma esistono anche altre ragioni che saranno sviluppate nel corso di questo percorso introduttivo.

L’apertura del nostro volume è affidata a due studi, quello di Karine Bergès e quello di Alessandra Montalbano, che ci proiettano nelle peculiarità e conflittualità dei femminismi della terza ondata, rispettivamente in Francia e in Italia. Abbiamo voluto iniziare con la Francia per ragioni di prossimità socio-culturale e per i legami storici di stampo femminista con il nostro paese (la pregnanza teorica del femminismo della differenza in Italia, ancora ai nostri giorni, ne è esempio tangibile). In ambedue i testi, a emergere sono le ramificazioni multiple del femminismo, la sua eterogeneità e la sua plurivocalità, che mostrano chiaramente quanto esso sia poco incline all’immutabilità e refrattario a eterne categorizzazioni. Le due studiose pongono le basi per una riflessione che, se volessimo estendere in ambito critico-letterario, aiuterebbe sicuramente a una migliore valutazione delle articolazioni varie e possibili tra femminismi e creatività.

E di queste congiunzioni parla nel suo articolo Giovanna Zapperi riferendosi alla ripresa sperimentale dei testi di Carla Lonzi, icona del femminismo italiano degli anni ’70, effettuata da alcune giovani artiste. Zapperi rileva quanto il riadattamento di questi testi abbia consentito un’interessante attualizzazione dialogica con le pratiche del femminismo del terzo millennio e sottolinea la suggestiva proposta di cui è portatore: l’intreccio possibile tra arte, femminismo, creatività, linguaggio, soggettività.

Nonostante la persistenza di un’etica minimale comune rispetto al femminismo del passato, sono evidenti, come già precisato, i suoi adattamenti e le aperture alle nuove sfide che si sono imposte e si impongono in termini di mutazioni politiche, sociali e culturali. Infatti, molte delle particolarità dei femminismi della terza ondata riposano sulla complessità di fenomeni soggiacenti alla compressione-spazio temporale e all’intrecciarsi di reti e relazioni transnazionali specifici all’epoca globale, tra i cui effetti diretti si può menzionare il moltiplicarsi delle letture di problematiche contestuali su base trasversale e trans-storica. Così emerge dallo studio di Patrizia Violi che problematizza il fenomeno del femminicidio contestando l’interpretazione patriarcale – che lo riconduce a singole, diffuse e parcellizzate storie individuali – e indagandolo nella sua dimensione politica e transnazionale. Violi ci offre, in tal modo, una lettura geograficamente e culturalmente globale del femminicidio presentato come una sorta di costante universale, un filo rosso che ha le sue radici proprio nel patriarcato e, più precisamente, nel dominio del maschile sul femminile, individuando la misoginia come causa scatenante, trasversale e trans-storica, di queste uccisioni di donne perché donne.

L’infittirsi di reti e di relazione transnazionali propri alla globalizzazione è altresì dovuto al moltiplicarsi delle migrazioni dai Sud al Nord del mondo, che è all’origine, oramai da tempo, dell’arrivo massiccio anche in Italia di cittadini stranieri. La riflessione critica di Franca Balsamo porta alla luce i punti di forza e i punti nevralgici dell’incontro tra femminismi e donne “migranti”. A fronte dei risultati di integrazione e di collaborazione tra donne ottenuti dal femminismo attivista, politicizzato, associazionista e dall’apporto delle nuove generazioni di femministe militanti formatesi nelle università europee a sensibilità neo-femminista, la studiosa fa osservare che continuano a permanere per le “migranti” dei problemi di auto-rappresentazione ma anche di rappresentazione, visto che, nei luoghi preposti alle riflessioni teoriche e politiche dei femminismi italiani, esse sono ancora paradossalmente costruite come “‘straniere o immigrate’, anche quando siano nate in Italia e magari sono già cittadine italiane”.

Questa difficoltà italiana di rappresentatività sottolineata da Franca Balsamo, ci aiuta a comprendere le rigidità che sottendono, in ambito letterario, l’eccessiva categorizzazione critica delle scritture definite “migranti” che è oggetto, da tempo, di una rimessa in discussione proprio per l’evidente ambiguità di attribuzione indiscriminata dello statuto “migrante” a scrittori e scrittrici, spesso cittadini/e italiani/e o nativi/e di seconda generazione e/o culturalmente a cavallo di più culture. Tale questione si complica ancora di più se analizzata dal punto di vista delle autrici che, oltre a condividere con i loro corrispettivi di sesso maschile l’assimilazione a una data zona letteraria determinata da vincoli geografici e/o di anagrafe (o di presunta “non italianità”), devono fare i conti con altri accorpamenti legati, questa volta, a ragioni di identità biologica. La distinzione tra autrici italiane e italofone, spesso praticata, spinge di fatto verso la loro catalogazione nello spazio di un’identità al femminile fissa e gerarchicamente asimmetrica (rispetto alle scrittrici “italiane”) e, quindi, a un loro imprigionamento in un limbo letterario, una sorta di paradossale enclave dell’indistinto – perché si rischia di semplificare l’importanza delle diverse provenienze e esperienze, il talento e lo stile di ognuna di loro –, e del distinto – perché viene frequentemente applicata nei loro testi una compulsiva ricerca di elementi classificatori che possa giustificare l’esistenza di un marchio, di uno stile comune e quindi di un genere associabile alla doppia etichetta “migrante/femminile”. In tale procedere, ad apparire evidente è la mancanza di un’appropriata conoscenza delle dinamiche di variazione del genere e della soggettività femminile ripensata alla luce della complessità, della molteplicità, della contraddittorietà, della fluidità (si vedano Donna Haraway, Monique Wittig, Rosi Braidotti, Teresa de Lauretis, Susan Stanford Friedman, ecc.) che potrebbe indubitabilmente offrire un utile e giusto supporto d’analisi.

Con Krizia Nardini entriamo, invece, nel pieno di un dibattito che, soprattutto in questi ultimi anni, apre nuovi varchi all’interpretazione del femminile e del maschile. A ragion veduta, la studiosa sottolinea che gli uomini – benché analizzati sotto differenti angolazioni, criticati o ignorati – sono sempre stati indissociabili da tutte le teorizzazioni e le riflessioni critiche dei femminismi. Allontanandosi dai pericoli di essenzialismi al maschile, Nardini precisa che, nonostante l’indubbio avvicinamento degli uomini a problematiche femminili e femministe, esistono ancora delle difficoltà di dialogo rilevabili, in particolar modo, presso coloro i quali rispondono o si avvicinano maggiormente ai modelli normativi di maschilità, dominanti nelle società fondate sul sex/gender system eteronormatico di struttura patriarcale: biomaschio etero, bianco, occidentale e borghese.

E sulla non semplice questione relativa a “femminismo e uomini” ritorneremo per argomentare le nostre intenzionalità progettuali e le attese originarie – profondamente e pragmaticamente tradite – riposte in questo volume, concepito agli inizi sulla base di tre sezioni di cui la seconda avrebbe dovuto comportare una serie di studi incentrati su una lettura della produzione e della creazione letteraria delle donne.

Intenzionalità progettuali e attese originarie che avrebbero dovuto rispondere a due esigenze in particolare: da un lato, volevamo produrre dei materiali critici che, temporalmente, inglobassero la prima ondata femminista e si estendessero fino all’epoca iper-contemporanea e che, spazialmente, fossero circoscritti all’Italia giacché, come si è detto, mancano critici e teorici della letteratura che abbiano unito i femminismi a un’analisi dell’insieme della produzione letteraria italiana delle donne, e questo malgrado si sia registrata in questi ultimi tempi l’apparizione di monografie e di encomiabili studi prodotti dalla Società Italiane delle Letterate, e malgrado il proliferare di antologie e di collane di studi femministi; dall’altro lato, nutrivamo l’ambizione di poter apportare nuove riflessioni critiche che coniugassero i femminismi e la letteratura delle donne, naturalmente nella piena consapevolezza dei rischi che una tale impresa sottende.

Chiunque si interessi di letteratura sa bene che a ogni nozione di genere corrisponde una ricorrenza misurata sull’esperienza letteraria da cui, sovente, emerge la difficoltà di una sua schematizzazione e di una sua codificazione normativa. A giusto titolo, Alastair Fowler[3] attribuisce al genere le costanti della mobilità e della trasformazione e precisa l’impossibilità di racchiuderne l’identità tra un’origine e un punto di arrivo. Il risultato non cambierebbe se si cercasse di utilizzare come essenza normativa, in letteratura, l’appartenenza di genere. La stessa Virginia Woolf, quando in Una stanza tutta per sé (1929) affermava l’esistenza di una scrittura femminile sollecitando le donne a impegnarsi per una sua definizione, era ben conscia dei pericoli insiti nelle spiegazioni e attribuzioni di senso risolutive.

Non abbiamo, dunque, mai avuto la pretesa di “canonizzare” stili e modi di scrittura “propri” alle donne, né di proporre un “genere (letterario) del genere”, dato che è sempre stata forte in noi la convinzione dell’impossibilità, nonché inutilità, di definire una “letteratura femminile” in opposizione a presunte modalità di “scrittura maschili”, ben consce dei rischi di caduta secca nell’indistinto universalizzante e/o dell’attivazione di nuovi luoghi comuni. Nelle nostre intenzioni iniziali si intendeva piuttosto interrogare i testi sul vasto crinale delle relazioni di genere con l’obiettivo di individuare pratiche di scritture antagoniste o convergenti rispetto a modelli egemonici patriarcali, con uno sguardo possibilmente diacronico che permettesse di tracciare evoluzioni e cambiamenti; ed anche di valutare l’incontro/scontro tra pensieri, scritture e pratiche narrative/artistiche delle donne e le teorie femministe, nonché di sottolineare i rapporti possibili tra genere e creatività artistica anche alla luce delle preziose acquisizioni delle revisioni postulate dal gynocritism o dai nuovi femminismi interculturali.

Insomma, volevamo cogliere nell’esperienza letteraria e nella critica aspetti e sfumature del genere, facendolo valere euristicamente, senza snaturare la variazione insita e intrinseca alla sua dinamica evolutiva, come criterio possibile di leggibilità della letteratura delle donne.

Ma l’ambizione più coraggiosa è stata sicuramente, come già accennato, quella di aver voluto affidare questa seconda sezione quasi esclusivamente a mani maschili. Non sarebbero mancate donne di esperienza, competenti in materia e capaci di affrontare questi discorsi, ma per una serie di ragioni abbiamo voluto puntare soprattutto sui critici uomini. Intanto perché molti colleghi hanno prodotto studi letterari di grande interesse su autrici o personaggi femminili (eroine, madri, figlie ecc.), mentre negli studi relativi ai femminismi la loro è una (quasi) totale assenza. Con Silvia Contarini ci chiedevamo, da tempo, se dietro quest’assenza si celasse un’esclusione dovuta a retaggi culturali o, seppure, si trattasse di una volontaria auto-esclusione. Coinvolgere i colleghi uomini è stata quindi una sfida, con sottesa però l’ingenua certezza che l’avremmo vinta: ai nostri occhi appariva paradossale che i femminismi potessero (ancora) scoraggiare gli otto colleghi sollecitati a partecipare al volume. Tanto più che la scelta dei critici in questione è stata mirata e cioè rivolta a studiosi di letteratura italiana contemporanea di grandi capacità, muniti di strumenti teorici e di conoscenze critiche spesso, fatto da non sottovalutare, “imparentati” con i femminismi: specialisti di postcoloniale, di postmodernità, esperti conoscitori delle critiche post-strutturaliste e decostruzioniste o di letteratura della migrazione. Con grande candore, già immaginavamo il loro fruttuoso apporto epistemologico di revisione ispirato al New Historicism o applicato a quell’abietto “orientalismo” che è stato presente anche in casa nostra, evincibile non nella forma imperialista (o non solo) denunciata dalla critica saidiana, ma negli assiomi di un sistema letterario – organizzato, per lungo tempo, sulla base della più classica delle dicotomie: centro (i maschi) e margini (le donne) – in cui tanto indecorosi quanto numerosi sono stati gli ostracismi e gli sbarramenti all’accesso alla scrittura subiti e posti alle donne, dei cui destini sono state costanti ricorrenti l’inespugnabilità dei territori di produzione culturale e la derubricazione del femminile, evidente nella moltitudine di rappresentazioni stereotipate e di formule generalizzanti, quando non disumanizzanti (tra mostro e madonna, diceva Woolf a proposito dell’immagine deformata della donna data dall’uomo).

Ci sarebbe piaciuto conoscere il punto di vista dei colleghi più vicini al post-strutturalismo riguardo alla controversa questione dell’identità autoriale che ha opposto i teorici fautori della morte/rimozione/neutralità dell’autore (“Cosa importa chi parla?” diceva Michel Foucault) e le femministe dei saperi situati e della politica del posizionamento (Adrienne Rich, Donna Haraway, Susan Stanford Friedman, ecc.) che, consapevoli dell’importanza referenziale a un’identità femminile così come dei pericoli insiti nelle teorizzazioni di un io dato universale ed essenzialista, si schierano per il mantenimento di un’idea di soggettività femminile, ma sempre in divenire e ripensata sulla base della plurivocalità e della pluridimensionalità.

Ci sarebbe piaciuto se i colleghi, in prima linea su questioni letterarie afferenti al postcoloniale e/o alla migrazione, avessero portato il loro contributo allo studio del fenomeno letterario italiano delle cosiddette “scrittrici migranti”, valendosi, per esempio, delle numerose suggestioni provenienti dai femminismi postcoloniali, intersezionali, transnazionali – di cui sono state promotrici Kimberlé Williams Crenshaw, Chandra Talpade Mohanty o Caren Kaplan – epistemologicamente definiti dall’idea di un’alleanza al femminile tesa alla valorizzazione delle differenze tra donne (genere, razza, etnia, ceto sociale, livello culturale, storia personale, orientamento sessuale, ecc.).

E queste erano solo alcune delle nostre attese che, tradite, hanno portato a un ridimensionamento dei disegni iniziali. Un solo studio generale appare in quella che sarebbe dovuta essere la seconda sezione di critica letteraria. E la firmataria, guarda caso, è una delle rare donne invitate a partecipare, Lucilla Sergiacomo, che ci offre una dettagliata cartografia letteraria indagando particolarità e contraddizioni di donne-personaggio create da donne-scrittici dell’Italia novecentesca.

Ritorniamo ora ai colleghi che hanno declinato il nostro invito, con tempi e ragioni diverse: c’è chi, oberato di lavoro, ha detto no già da subito; chi ha dovuto fare i conti con impegni improvvisi abbandonandoci a metà percorso; e chi ha dimenticato di onorare i tempi preposti alla consegna. Il risultato finale è la non presenza in questo volume della seconda sezione, un’assenza che, tuttavia, non resta priva di significato, ma, al contrario rappresenta ossimoricamente un silenzio che parla. In effetti, come è spesso accaduto nella storia delle donne, a parlare è anche l’assenza. Senza cadere nelle facili trappole di un essenzialismo al maschile e senza mettere in discussione la buona fede di parte dei colleghi riguardo a reali impedimenti materiali, la percentuale massiccia di abbandoni ci autorizza a interrogarci, a mettere in luce e a toccare con mano il fatto che non si possa categoricamente escludere l’esistenza di una reticenza maschile, cosciente o inconsapevole, da addebitarsi alla generale difficoltà di dialogo degli uomini con i femminismi, tra l’altro ben rilevata da Nardini.

Nel 1979, Sandra Gilbert e Susan Gubar in The Madwoman in the Attic[4] mettevano in evidenza il doloroso percorso intrapreso dalle donne per giungere a una scrittura autonoma, indicando come difficoltà prime il superamento dell’angoscia dei “padri fondatori” (“the anxiety of influence”), i condizionamenti sociali e le frustranti complicità che i ruoli maschili hanno loro imposto (“the anxiety of authorship”). Parafrasando, si potrebbero trarre delle ipotesi di lettura sul diniego e sull’abbandono dei nostri colleghi e lasciare aperte una serie di questioni e conclusioni.

Esiste forse presso taluni uomini un’ansia di confronto con il femminismo e con le sue “madri fondatrici”? O forse è possibile credere che, ancora oggi, alcuni retaggi storici e condizionamenti socio-culturali continuino ad alimentare un’idea “separatista”, ossia un’idea di distinzione sessuata dei ruoli (in questo caso intellettuali) e della praticabilità o meno di certi campi? O si tratta, forse, semplicemente di condizionamenti dovuti all’accezione riduttiva e negativa del femminismo che ancora in alcune menti campeggia sovrana?

Comunque sia, almeno un critico ha fatto eccezione. Si tratta di Massimo Onofri, il cui contributo su Grazia Deledda trova spazio, insieme a quello di Silvia Lutzoni sulle Madri, madonne e premi Nobel: ipotesi di un itinerario deleddiano nell’opera delle narratrici sarde degli anni Duemila , in una rubrica appositamente dedicata a studi sul caso sardo; a scanso di equivoci, è bene precisare che la presenza di questo piccolo spazio sardo non è da mettere sul conto di sensibilità anagrafiche (le mie) o di affinità a un campo di ricerca ampiamente battuto da molti studiosi del laboratorio a cui fa capo la rivista Narrativa. Entrambi i saggi rispondono, invece, all’esigenza di offrire delle letture testuali su tematiche di genere, a complemento dei percorsi letterari, inizialmente previsti, più analiticamente centrati sul rapporto tra autrici/creazione artistica e femminismi.

Il volume si conclude con una significativa apertura alle questioni di genere affidata a sei scrittori, scelti sulla base della diversità di sesso, età, provenienza, formazione, e di poetiche, che abbiamo voluto sollecitare nella triplice veste di autori, lettori e di soggetti (in)direttamente coinvolti nelle politiche editoriali. C’è sembrato interessante conoscere il punto di vista di chi i libri li scrive attraverso delle interrogazioni d’ordine generale tese a misurare la loro sensibilità su considerazioni inerenti al genere, alternate a altre domande più pragmaticamente orientate a conoscere i loro posizionamenti sul rapporto tra genere e creazione artistica.

Non abbiamo voluto risparmiare agli autori domande spinose, talvolta maliziosamente finalizzate a oltrepassare la semplice ammissione (o non ammissione) dell’esistenza del genere e a entrare nel merito dei paradossi del “femminile e maschile”; altre volte, calcando provocatoriamente la mano sulla polivalenza del genere, inteso come dispositivo legato alla creazione ma anche alla negoziazione del rapporto tra sessi in termini di ricezione, di politiche di marketing e di strategie editoriali.

Senza togliere ai lettori di queste interviste il piacere della scoperta, ci limiteremo a segnalare che in tutti gli autori è unanime l’allarmismo sui pericoli determinati dalle perniciose cristallizzazioni culturalistiche (considerate alibi per pregiudizi) o sui facili paternalismi psicologici e culturali dovuti alla tendenza d’uso di ricondurre la natura “femminile” al biologicamente determinato e normato.

 

Come si è più volte detto, nei progetti iniziali questo volume avrebbe dovuto essere più ampio, ma non si è mai avuta la presunzione di potere affrontare in maniera esaustiva il femminismo. Troppe le interrogazioni, troppe le teorie e poco lo spazio a disposizione.

A volume ultimato possiamo però dire di essere un po’ meno “stufe” e più ottimiste. Forse perché rassicurate nella convinzione che il femminismo, o meglio, i femminismi possano ancora federare nella diversità di opinioni, nella condivisione ma anche nella speranza. Nella speranza che si possa arrivare a distruggere le idealizzazioni senza ideali, i pensieri senza pensare, i discorsi sull’altra senza conoscenza dell’altra, ossia quelle perversioni di senso che ancora sussistono riguardo al femminismo e alle donne.

Fermo restando che non tutti i femminismi sono portatori di progresso né di aperture, come è spesso il caso di quelli più radicalmente nazionalistici e conservatori[5], possiamo solo augurarci che, in Italia[6], la diffusione e la presenza pubblica[7] sempre più capillare di femminismi progressisti, dalle tante forme e variabilità direzionali, oltre a rompere quel continuo e insidioso scivolare nell’antico ordine simbolico, continuino a offrire nuove risorse concettuali e politiche e a creare nuove dinamiche d’interlocuzione per il dialogo nazionale e transnazionale, che saranno sicuramente salutari anche per una migliore e più proficua comprensione dei nuovi (o meno) fenomeni letterari.

 

 

[1] A questo tipo di essenzialismo piatto non sfuggono neanche celebri e stimati cantautori (Gianna Nannini, Giorgio Gaber, Zucchero Fornaciari, Luciano Ligabue, ecc.). Sicuramente, la più conosciuta e emblematica delle canzoni che riflette questa tendenza italiana è Quello che le donne non dicono (1987) di Enrico Ruggeri.

[2] Secondo Raffaella Baccolini e Vita Fortunato, questa mancanza “ha provocato ritardi non solo nel processo di visibilità e di legittimazione della ricerca in campo femminista, ma anche gravi disfunzioni nella reta didattico-scientifica europea ed internazionale che le donne italiane hanno, in questi anni, cercato faticosamente d’intrecciare. Al pericolo più volte sottolineato da alcune donne che l’istituzionalizzazione degli studi femministi provoca inevitabilmente una perdita della loro radicalità, si può controbattere che la loro mancanza ha voluto dire in Italia un pericoloso ritardo da parte dell’accademia dei presupposti teorici della critica femminista”; Raffaella Baccolini e Vita Fortunato, “Metamorfosi e permanenze nella critica femminista”, in Baccolini, Raffaella, Fabi, M. Giulia, Fortunato, Vita, Monticelli, Rita (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, Bologna, CLUEB, 1997, p. 15.

[3] Cfr. Fowler, Alastair, Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres ans Modes, Clarendon, Oxford, 1982.

[4] Gilbert, Sandra, Gubar, Susan, in The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination, New Haven, Yale UP, 1979, p. 17.

[5] Sugli effetti devastanti del femminismo nazionalista e conservatore potremmo citare l’esempio italianissimo relativo all’indisponente recupero realizzato da certune esponenti della destra italiana (per esempio Daniela Santanché), esperte in concettuali manipolazioni dei diritti delle donne finalizzate a cristallizzare differenze gerarchiche su base etnico/sessuata.

[6] Così come emerge da alcuni contributi, il femminismo in questi ultimi tempi, anche in Italia, sembra aver conquistato una nuova visibilità e così come si evince anche dal moltiplicarsi di archivi, di centri e di associazioni culturali, di libri e di gionali culturalmente orientati a favorire le politiche di genere.

[7] Il riferimento è al proliferare, in quest’ultimo decennio, di manifestazioni e incontri, tra i quali ricordiamo la costituzione nel 2011 di Se Non Ora Quando (SNOQ), l’incontro femminista di Paestum dei primi di ottobre 2012 o quello di aria femminista transnazionale tenutosi a Firenze nel novembre 2012.

Criteri esterni per una poetica non conforme

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di Daniele Ventre

1. Ogni oggetto estetico costituito da materiale non linguistico, quale che sia il segno o la forma che lo costituisca, per quanto sia esteticamente legittimo, non è classificabile come poesia. Questo ci permette di fare economia. O se si vuole, ci permette di fare giustizia di ogni fenomeno che si proclami puramente installativo – o sempre se si vuole, del momento installativo come tale.

2. Qualunque cosa si voglia o si possa argomentare al riguardo, l’incomunicabilità o la non assertività sono una pura leggenda. Ogni frammento di materiale linguistico, per quanto residuale, è portatore di significazione. Ogni forma di significazione implica un coefficiente di assertività. A livello sistemico: non esistono piccole narrazioni, né l’assenza di narrazioni, soltanto narrazioni -per forza di cose- logicamente incomplete.

3. Il grado zero della scrittura o l’azzeramento retorico sono illusori: ogni frammento di materiale segnico, per quanto residuale o (illusoriamente) depotenziato, implica un tessuto metaforico, dunque è per definizione un costrutto retorico. Lo stesso vale per il problema del ritmo. Ogni materiale linguistico, in quanto fonabile, soggiace a fenomeni prosodici, che determinano un ritmo. L’atonalismo è una pura leggenda, o un equivoco.

4. Non esiste una via regia dei costrutti retorici, o in altre parole, tutte le forme retoriche sono equipollenti; a far prevalere l’una o l’altra è solo la prossimità a un centro di potere, piccolo o grande che sia.

5. La prossimità a un centro di potere non rappresenta di per sé stessa un criterio di validazione estetica, ma solo un indizio di conformismo letterario; il perché è auto-evidente.

5.1. L’unico criterio di validazione estetica è fornito dal perseguimento coerente, e tecnicamente strutturato, di un lavoro sullo stile che non si esaurisca solo e soltanto nel virtuosismo critico auto-proclamato (e dunque auto-riferito) della ricerca per la ricerca.

5.2. In modo strisciante o palese, sia che si manifesti come silenzio o come insulto, il conformismo letterario è implicitamente violento, dunque illegittimo.

6. Nel tempo dell’editoria spazzatura, c’è il serio rischio che le poetiche dell’incomunicabile e del non assertivo, come poetiche del mutismo, si rivelino a conti fatti ideologiche.

7. A ben vedere l’equivalenza fra petrarchismo e conformismo letterario è impropria e fuorviante.

Da “Atlante”

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di Ivan Schiavone

Tavola n. 09

che il patto di sicurezza prevalga sul patto di stabilità —
questa sarà la decostruzione dell’Unione Europea — signore e signori parlamentari
i volti dei morti, dei feriti, delle famiglie in lutto non mi danno tregua —
qual è stato il loro unico crimine? — questa guerra che è cominciata da diversi anni —
perché siamo legati alla libertà e all’influenza della Francia nel mondo —
ieri sera ho dato l’ordine
a dieci cacciabombardieri francesi
di sganciare le loro bombe sulla roccaforte dell’Isis a Raqqa —
i barbari che l’attaccano vorrebbero sfigurarla? —
coloro che hanno voluto uccidere colpendo deliberatamente persone innocenti
sono vigliacchi che hanno sparato su una folla disarmata
ed è per questo che non siamo impegnati in una guerra di civiltà
perché questi assassini non ne rappresentano alcuna —
quelli che ci hanno sfidato sono da sempre i perdenti della storia —
dobbiamo dunque difenderci nell’emergenza e a lungo termine — ma dobbiamo andare oltre l’emergenza
dobbiamo poter impedire a una persona con doppio passaporto di tornare sul nostro territorio —
dobbiamo poter espellere rapidamente gli stranieri — dobbiamo essere spietati —
noi dobbiamo combattere —
oggi bisogna colpire più forte — continueremo a colpire nelle prossime settimane —
non ci sarà in questa azione né sosta né tregua —
l’Europa non può vivere con l’idea che le crisi che la circondano non abbiano effetto su di lei —
perché il nemico non è un nemico della Francia
è un nemico dell’Europa — non è quindi per contenere
ma per distruggere — così che si possa vivere
e che i nostri figli, i nostri nipoti possano continuare ad avere il mondo che hanno ereditato —
voi siete i rappresentanti di un popolo libero che è invincibile quando è unito e compatto —
la Francia è in guerra —
viva la Francia

La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese.

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Pochi mesi fa presso l’editore La vita felice è uscito questo bel progetto antologico, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli. Il libro raccoglie un’ampia scelta di poesie di lingua inglese, dove nella voce delle poetesse le due figure di madre e figlia si mescolano e si confondono, si denunciano, si ritrovano e perfino si perdono l’una nell’altra, articolandosi in tre macrosezioni che hanno a che fare con il vincolo affettivo, il recupero della memoria, le eredità (Mariasole Ariot e Francesca Matteoni).

Ho selezionato Scelta di Imtiaz Dharker e Donna che pattina di Margaret Atwood, perché sono fra le poesie antologizzate che più richiamano un mio vissuto personale – il legame intensissimo, ma anche pieno di  confronti aspri con mia madre, che più invecchio e più si risolve nello scoprirmi una nuova lei, nei tratti fisici, nelle rigidità, nei desideri. E poi l’immagine antica della pattinatrice (sebbene nel mio caso lontana dal gelo nordico e su rotelle invece che sulle ben più evocative lame), una me che sono stata per moltissimi anni e di cui ora sono a mia volta quasi madre. In entrambe le poesie il senso di protezione di una madre verso la figlia prende la misura della distanza, dell’accettare che la figlia sia colei che sfugge necessariamente al controllo materno, che conosce la sua solitudine perfetta di donna indipendente, che è infine capace di accogliere quella madre come il più prezioso dei vari io nel suo corpo. (Francesca Matteoni)

La mia prima scelta è per Poem di Lucille Clifton : una poesia breve,  dura come dura sono le ossa sepolte nell’oceano, come le ossa che  si ripetono diventando un braccio ossuto del canto tradizionale che la precede, dove quel “terribile che risponde” del verso finale mostra una disperazione che mi sento di conoscere, come se anch’io, in una zona separata, fossi laggiù, saltata in mare, o forse gettata da sempre.
La seconda, di Paula Meehan, per quei “eyes seapools, reflecting lichen”, per gli occhi azzurri di mia madre, per la sua lingua che ho sempre faticato a capire (o per la mia, incomprensibile a lei) – e poi i secondi occhi,”ferite spalancate”, come vedo i miei quando mi fermo e aspetto che si formi un’autobiografia a cui manca il “sentiero stellato”. E per questo continuo, reale mescolarsi da madre a figlia, di figlia in madre. (Mariasole Ariot)


Choice
Imtiaz Dharker

I

I may raise my child in this man’s house
or that man’s love,
warm her on this one’s smile, wean
her to that one’s wit,
praise or blame at a chosen moment,
in a considered way, say
yes or no, true, false, tomorrow
not today...
Finally, who will she be
when the choices are made,
when the choosers are dead,
and of the men I love, the teeth are left
chattering with me underground?
Just the sum of me
and this or that
other?
Who can she be but, helplessly,
herself?

II

Some day your head won’t find my lap
so easily. Trust is a habit you’ll soon break.
Once, stroking a kitten’s head
through a haze of fur, I was afraid
of my own hand big and strong and quivering
with the urge to crush.
Here, in the neck’s strong curve, the cradling arm,
love leers close to violence.
Your head too fragile, child,
under a mist of hair.
Home is this space in my lap, till the body reforms,
tissues stretch, flesh turns firm.
Your kitten-bones will harden,
grow away from me, till you and I are sure
we are both safe.

III

I spent years hiding from your face,
the weight of your arms, warmth
of your breath. Through feverish nights,
dreaming of you, the watchdogs of virtue
and obedience crouched on my chest. “Shake
them off” I told myself, and did. Wallowed
in small perversities, celebrated as they came
of age, matured to sins.
I call this freedom now,
watch the word cavort luxuriously, strut
my independence across whole continents
of sheets. But turning from the grasp
of arms, the rasp of breath,
to look through darkened windows at the night,
Mother, I find you staring back at me.
When did my body agree
to wear your face?

Scelta
traduzione di Brenda Porster

I

Potrei crescere mia figlia nella casa di quest’uomo
o nell’amore di quell’altro,
riscaldarla al sorriso di questo, svezzarla
con l’ingegno di quello,
lodare o rimproverare in un momento scelto,
in modo ponderato, dire
sì o no, vero, falso, domani
non oggi...
Alla fine, chi sarà lei
quando le scelte sono fatte,
quando chi sceglie sarà morto,
e degli uomini che amo rimangono i denti
a chiacchierare con me sottoterra?
Solo la somma di me
e di questo o di quell’
altro?
Che altro può essere se non, senza difese,
se stessa?

II

Un giorno la tua testa non troverà il mio grembo
così facilmente. La fiducia è un’abitudine che lascerai presto.
Una volta, carezzando la testa di un gattino
dentro una bruma di peluria, avevo paura
della mia stessa mano, grande e forte e tremante
dal desiderio di schiacciare.
Qui, nella forte curva del collo, nel braccio che culla,
l’amore sbircia vicino alla violenza.
La tua testa troppo fragile, bambina,
sotto una nebbia di capelli.
Casa è questo spazio sul mio grembo, fin quando il corpo si riforma,
i tessuti si stirano, la carne si fa soda.
Le tue ossa di gattino diventeranno dure, crescendo
si allontaneranno da me, finché non saremo sicure entrambe
di essere in salvo.

III

Per anni mi sono nascosta dal tuo volto,
dal peso delle tue braccia, dal calore
del tuo respiro. Attraverso notti febbrili,
sognandoti, i cani da guardia della virtù
e dell’obbedienza mi si acquattarono sul petto.
“Liberati di loro” mi dissi e così feci. Sguazzavo
in piccole perversità, festeggiai quando raggiunsero
la maturità, cresciute in peccati.
La chiamo libertà ora,
guardo la parola che se la spassa sontuosamente, sfoggio
la mia indipendenza tra continenti interi
di lenzuola. Ma voltando le spalle alla stretta
delle braccia e allo stridore del respiro
per guardare la notte attraverso vetri scuri,
madre, trovo il tuo sguardo che risponde al mio.
Quand’è che il mio corpo ha accettato
di portare il tuo volto?

***
Woman Skating
Margaret Atwood

A lake sunken among
cedar and black spruce hills;
late afternoon.

On the ice a woman skating,
jacket sudden
red against the white,

concentrating on moving
in perfect circles.

(actually she is my mother, she is
over at the outdoor skating rink
near the cemetery. On three sides
of her there are streets of brown
brick houses; cars go by; on the
fourth side is the park building.
The snow banked around the rink
is grey with soot. She never skates
here. She’s wearing a sweater and
faded maroon earmuffs, she has
taken off her gloves)

Now near the horizon
the enlarged pink sun swings down.
Soon it will be zero.

With arms wide the skater
turns, leaving her breath like a diver’s
trail of bubbles.

Seeing the ice
as what it is, water:

seeing the months
as they are, the years
in sequence occurring
underfoot, watching
the miniature human
figure balanced on steel
needles (those compasses
floated in saucers) on time
sustained, above
time circling: miracle

Over all I place
a glass bell

Donna che pattina
traduzione di Fiorenza Mormile

Un lago affondato
tra colline di cedri e abeti neri;
tardo pomeriggio.

Sul ghiaccio una donna che pattina,
giubbotto improvviso
rosso sul bianco,

si concentra nel muoversi
in cerchi perfetti.

(in realtà è mia madre, sta
all’aperto sulla pista di pattinaggio
vicino al cimitero. Su tre lati
ci sono strade di case in mattoni
marroni; automobili passano; sul
quarto lato c’è l’edificio del parco.
La neve ammucchiata intorno alla pista
è grigia di fuliggine. Non pattina mai
qui. Indossa un maglione e
uno sbiadito paraorecchie rosso scuro,
si è levata i guanti)

Ora vicino all’orizzonte
il sole rosa ingrandito ruota in giù.
Presto sarà zero.

A braccia aperte, la pattinatrice
volteggia, rilasciando il respiro come la scia
di bolle di un tuffatore.

Vedere il ghiaccio
per quel che è, acqua:

vedere i mesi
come sono, gli anni
in sequenza presentarsi
sotto i piedi, osservare
la figura umana in miniatura
in equilibrio su aghi
d’acciaio (quelle bussole
galleggianti sui piattini) su un tempo
prolungato, oltre
il tempo che ruota: miracolo

Sopra a tutto metto
una campana di vetro

***
Poem
Lucille Clifton

                          them bones
                          them bones will
                          rise again
                          them bones
                          them bones will
                          walk again
                          them bones
                          them bones will
                          talk again
                          now hear
                          the word of the Lord.

                           Traditional

atlantic is a sea of bones.
my bones.
my elegant afrikans
connecting whydah and new york,
a bridge of ivory.
seabed they call it.
in its arms my early mothers sleep.
some women leapt with their babies in their arms.
some women wept and threw the babies in.
maternal armies pace the atlantic floor.
i call my name into the roar of surf
and something awful answers.

Poesia 
traduzione di Loredana Magazzeni

                               le ossa
                               le ossa risorgeranno
                               ancora
                               le ossa
                               le ossa cammineranno
                               di nuovo
                               le ossa
                               le ossa parleranno
                               di nuovo
                               ora ascolta
                               la parola del Signore.

                           Canto tradizionale

l’atlantico è un oceano di ossa
le mie ossa.
i miei eleganti africani
collegavano whydah e new york,
un ponte d’avorio.
lo chiamano fondo del mare
nelle sue braccia riposano le mie antenate
alcune vi saltarono coi bambini in braccio
alcune vi versarono lacrime e vi gettarono i loro figli.
eserciti di madri percorrono il fondo dell’atlantico.
io chiamo il mio nome fra il ruggito dei frangenti
e qualcosa di terribile risponde.

* Il regno di Whydah, situato sulle coste occidentali
dell’Africa, nelle vicinanze dell’attuale Stato del Benin, 
con capitale Savi, fu dalla seconda metà del Seicento uno 
dei maggiori centri attivi nel commer­cio degli schiavi. (NdT)

Autobiography 
di Paula Meehan

She stalks me through the yellow flags.
If I look over my shoulder I will catch her
Striding proud, a spear in her hand.
I have such a desperate need of her –
Though her courage springs
From innocence or ignorance. I could lie with her
In the shade of the poplars, curled
To a foetal dream on her lap, suck
From her milk of fire to enable me fly.
Her face is my own face unblemished;
Her eyes seapools, reflecting lichen,
Thundercloud; her pelt like watered silk
Is golden. She guides me to healing herbs
At meadow edges. She does not speak
In any tongue I recognize.
She is mother to me, young
Enough to be my daughter.
The other one waits in gloomy hedges.
She pounces at night. She knows I have no choice.
She says: «I’m your future.
Look on my neck, like a chicken’s
Too old for the pot; my skin moults

In papery flakes. Hear it rustle?
My eyes are the gaping wounds
Of newly opened graves. Don’t turn
Your nose up at me, madam.
You may have need of me yet.
I am your ticket underground». And yes
She has been suckled at my own breast.
I breathed deep of the stench of her self –
The stink of railway station urinals,
Of closing-time vomit, of soup lines
And charity shops. She speaks
In a human voice and I understand.
I am mother to her, young
Enough to be her daughter.
I stand in a hayfield – midday, midsummer,
My birthday. From one breast
Flows the Milky Way, the starry path,
A sluggish trickle of pus from the other.
When I fly off I’ll glance back
Once, to see my husk sink into the grasses.
Cranesbill and loosestrife will shed
Seeds over it like a blessing.

Autobiografia
traduzione di Anna Maria Robustelli

Mi tallona attraverso le bandiere gialle.
Se mi guardo alle spalle la sorprendo
che cammina fiera, una lancia in mano.
Ho un bisogno così disperato di lei –
sebbene il suo coraggio spunti
dall’innocenza o dall’ignoranza. Potrei sdraiarmi con lei
all’ombra dei pioppi, rannicchiata
in un sogno fetale sul suo grembo, succhiare
dal latte di fuoco perché io possa volare.
Il suo viso è il mio viso senza macchie;
i suoi occhi pozze di mare, che riflettono licheni,
nubi minacciose; la sua pelle come seta cangiante
è dorata. Mi guida verso le erbe salutari
ai bordi dei prati. Non parla
alcuna lingua che possa riconoscere.
Mi è madre, giovane
abbastanza da essere mia figlia.
L’altra aspetta nelle siepi cupe.
Spicca un balzo di notte. Sa che non ho scelta.
Dice: «Sono il tuo futuro.
Guardami il collo, come quello di una gallina
troppo vecchia per la pentola; la mia pelle fa la muta
in scaglie di carta. La senti frusciare?
I miei occhi sono le ferite spalancate
di tombe appena aperte. Non storcere
il naso per me, signorina.
Potresti ancora aver bisogno di me.
Sono il biglietto per il sottosuolo». E sì,
lei è stata allattata al mio seno.
Ho inalato profondamente il tanfo di lei –
la puzza degli orinatoi delle stazioni,
del vomito dell’ora di chiusura dei pub, delle code
[per la minestra
e delle vendite di carità. Parla
con una voce umana e io capisco.
Le sono madre, giovane
abbastanza da essere sua figlia.
Sto in piedi in un campo di fieno – è mezzogiorno,
[metà estate,
il giorno del mio compleanno. Da un seno
fluisce la Via Lattea, il sentiero stellato,
un lento filo di pus dall’altro.
Quando volerò via guarderò all’indietro
una volta, per vedere il mio guscio affondare nell’erba.
Gerani selvatici e mazze d’oro vi spargeranno
semi come una benedizione.

* Bandiere gialle: Allusione alla bandiera storica dell’Ulster: su 
uno sfondo giallo campeggia una croce rossa con al centro una 
mano, sim­bolo araldico riferito alla conquista normanna. Servì di modello base 
all’Union Flag irlandese usata con valore legale dal 1953 al 1972. 
Dal 1972 il Governo britannico ha conferito valore politico legale
 solo all’Union Jack, ma la “Red Hand Flag” viene usata come
 bandiera provinciale, e nelle competizioni sportive. (NdT) 

 

Due estratti da Fabio Greco, «Genti a cartapesta»

2

mare

 

(A seguire pubblico due estratti da Genti a cartapesta, di Fabio Greco. Il romanzo è stato finalista al Premio Calvino 2014 ed è ancora inedito)

***

PRIMO ESTRATTO

E anzi, girando lo sguardo verso l’orizzonte, verso quel confondersi di mare a cielo e cielo a mare, verso i gabbiani che volteggiavano eleganti, gli parve che dall’isola, anziché la malasorte, gli arrivasse in quel momento una buonasorte anzi una buonissima sorte camuffata da donna, un donnone salentino, donnone inteso per altezza e larghezza, un’erculona tanta, boterosa, con spalle larghe, larghi i fianchi, larghissime cosce e petto assai, che s’appressò alla costa da dietro all’isola delle Pazze. Masello la vide sbucare al remo d’una barchettina mezz’affondata con la linea di galleggiamento a livello sponda, un’eccezione a qualsiasi legge fisica, che c’era da chiedersi come potesse quella barchetta di legno, esile e fradicia, sostenere tutta quella massa senza sprofondare, come potesse non incamerare acqua a ogni beccheggio, a ogni ondata, a ogni movimento di braccio e di spinta di remo, pericolosamente s’inclinava pelo pelo all’acqua, s’inchinava al mare e all’onda e subitamente si rialzava, ripigliava contegno per poi prostrarsi dall’altro lato e ripigliare posizione una volta ancora, a farci venire in mente a Masello quei pupi da prendere a pugni che ritrovano sempre l’equilibrio. Da lontano pareva sissignore una balena, non a modo di dire grossa come una balena, cicciona come una balena, grassa come una balena, proprio una balena vera, pareva un dorso di balena che faceva il paio con quel dorso di balena ch’era l’isola delle Pazze, forse un po’ più piccola, un’infante di balena al seguito della balena madre, e la cingeva torno torno, le faceva il giro e il rigiro in cerca della mammella, la barchetta navigava come un vaporetto trascinata dal ritmo della remata, tagliò quel latte ch’era diventato il mare, intra un’unica linea di nero, la barca avanzava a sobbalzi e sovvertimenti, emergeva la prua con quel suo nome pittato, Mariabbondanza, si sganciava dall’acqua e ricadeva, pareva fosse la barchetta a farci tutta la fatica, a sbuffare e crocchiare intra a quel cambio di fase tra acqua e aria, a darsi la spinta e lo sforzo per sfuggire all’onda: Masello se l’osservò quella barca e quella donna, a mezza voce mormorò, Ma che ci starà a pescare la Mariabbondanza? senza sapere che nominando la barca diede pure nome alla donna – se ne stava sopra alla barchetta con le anche aperte per tenere l’equilibrio e, a ripetizione, come pigliata da un astio contro l’acqua marina, gettava le reti e le ritirava a bordo. A Masello, quel nome gli faceva una tavolozza di colori intra alla capo, un quadro a meraviglia si faceva, se l’azzuccherava a destra e a manca, s’accavallavano pensieri che partivano dal suono che faceva quel nome, quasi sentiva una musichetta a pronunciarlo, a scivolare su quella legatura tra nome e opulenza, Mariabbondanza, che pigliava la rincorsa all’inizio della parola e poi si lasciava trasportare fino alla fine, come fare un salto e ricadere, a una a una unì altre parolette per assonanza, Mariabbondanza/ ci chiudemmo intra alla stanza/ ti spogliai con crianza/ tutta culo tetta e panza/ tu m’attizzi Mariabbondanza e sebbene ancora non la conoscesse di persona, già gli faceva il rimbambimento d’innamorato, una con quel nome, che da sola se ne andava per mare, che donna era questa donna, a sé stessa bastante, la Mariabbondanza? Gli era talmente familiare e reale e presente intra a se stesso che si convinse fosse, non già uguale, ma molto simile a una statua di madonna che aveva fatto l’anno prima, quasi che n’avesse fatta prima la statua e poi la persona, quasi l’avesse immaginata prima ancora d’incontrarla.

Una normalissima questione privata
cui s’era ritrovato ad assistere
manco ci stesse spiando dal buco della serratura,
un gesto, per dirla, che quasi lo fece crollare al suolo

Intra a tutta quella vastità che voleva essere, tutta quell’acqua, quell’apertura, Masello c’ebbe l’impressione a un impicciolimento di tutto, un restringimento come intra a un catino, il mare rimaneva sullo sfondo e invece la Mariabbondanza s’ingigantiva al confronto: Masello non riusciva a scorgerne il volto, ne sentiva solo lo sforzo intra a quella remata, faceva tale e tanto movimento che le onde s’irradiavano dalla barca trascinando quel biancheggio di medusa intra al saliscendi d’acqua e di schiuma. Il nome di Mariabbondanza sulla fiancata, d’un chiaro simile al pallido di mare, risultava più evidente intra al contrasto con il nero pece dello scafo. La barca aveva percorso un centinaio di metri ed era quasi scomparsa alla vista, dietro uno spuntone di roccia che apriva a un’insenatura più avanti, un piccolo porto che prendeva il nome di Posto Rosso. Prima di raggiungere la costa, che ci bastava quasi tirare la fune per essere portata a secca, disegnò un occhiello intra a mare, girò lentamente su se stessa e rimise la prua verso il largo per poi fermarsi dopo pochi minuti. Pareva che la barchettuzza c’avesse fatto tutta la manovra per assistere a uno spettacolo, che dopo essersi pigliata popcorn e limonata c’avesse messo i piedi distesi sopra a un puff. Ancora più strambo gli arrisultò quello che fece la Mariabbondanza, la femmina e donna. Si levò, per dirla, in piedi sopra alla barca, quasi maremotando il mare intorno, intra a un gran sollevarsi d’onde e di schiume, si sistemò a prua, sollevò la veste fino alle cosce e s’assittò pizzo pizzo alla paratia della barca, con il culo strabordante fuori bordo e la gonna a calare lungo la fiancata, che anziché Mariabbondanza, ora si leggeva Mari e danza, a dire danza di mari, un balletto che ci facevano le acque, acque sopra e acque sotta, con la spumarola a movimentare la barca o viceversa la barca a provocare la marea, intra all’impresa di non affondare lei e lei, Mariabbondanza e Mariabbondanza: che ci starà a fare quella benedetta donna, dopo essersene andata mare mare, ora decide di piantarci le tende, la Mariabbondanza Rimase tutto fermo intra a quella maniera per alcuni minuti, la barcuzza in obliquo a rischio di catapultarsi e la donna assittata con la faccia rivolta all’isola e il culo all’acqua. Masello camminò lungo un sentiero inghiaiato tra rocce e arbusti di mare, tenendo un occhio al terreno per non capitombolare e un occhio sopra a quel mistero di donna e di barca. La Mariabbondanza si rimise in piedi, s’allisciò la gonna lungo i fianchi e rimase a rimirarsi il mare da quel lato. Masello s’accorse allora che una parte della scritta Mariabbondanza s’era passata da bianca candida a giallastra, intra a una macchia che partiva dall’alto e finiva intra all’acqua: eccolo lì il grande misterio glorioso, misterio naturale e normalissimo, una pisciatina a mare aperto della Mariabbondanza, acqua intra acqua, a sbeffeggiarlo lo Ionio ammedusato, una normalissima questione privata cui s’era ritrovato ad assistere manco ci stesse spiando dal buco della serratura, un gesto, per dirla, che quasi lo fece crollare al suolo, giacché se l’era disegnato uguale sputato intra alla capo per tutta la vita, d’una donna sicura e fragile allo stesso tempo, capace d’andarsene da sola per mare e di trovarsi naturalissima col culo di fora accasciata sopra all’acqua, e quella donna siffatta, quella donna sarebbe stata per l’appunto la donna della sua vita. Gli parve pertanto, intra a quella intimità che gli aveva offerto, intra a quella sua raffigurazione precisa identica della statua della madonna, gli parve di conoscere quella donna da sempre pure che nella realtà l’avesse vista una volta sola e da lontano, che magari quello era per l’appunto amore – hiii che parole Masello! Amore…

***

SECONDO ESTRATTO

Vedete là?
Terri d’Otranto
Feline, Tugli e Parabìta
la città bella
kalè polis
e poi
Aquaricca e Alissano
Tre Case, Prisicci e Patù
Li vedete li fuochi
di Matino?
Non viene voglia d’esser lì?
Tra i cispi e le cirase
spampanando fiche
intra a un sol gesto
mangiarle
intra a un sol boccone,
intra alla vocca vorace
rotolarvi la verd’oliva
passarvela di là e di qua
come a un pinsiero lieve
ballare
cantare
dondoliare
cotolare i fianchi
‘mmenz’i campi fare all’ammore,
non vi manca tutto questo?
Vedete là
subra la tierra ficonda
c’assotterra li morti e rivivisce li vivi
ommini
sgubbare aggubbati
subra a pommi doradi
lucidarseli
subra a pantaloni terragni
mozzicarli
infrisellarli
ringraziari d’essere vivuti
e là
donne
figliare
mammane
nascìre
intra alla grazia di vita
patire
gioire
leggère pregare
vedete là
il faro
la torre campanara
l’orologio
la cattedrale,
casa nostra.
Mò venite con me
da st’altro lato
solo alto mare
noi simmo genti semplice
genti acqua e sale
mò ditemi:
che vedete a qua?
Acqua
acqua di mare
acqua e sale
a qua ci sta solo acqua
vastità
terribili, sinz’aria
e noi
noi simmo genti semplice
genti acqua e sale:
a qua sparimmo
simmo nenti a qua.
Mò di nuovo con me
una volta ancora
là, vedete?
Fiammelle sulla plaia
di là c’è qualcuno
le vedete le lanterne
e le fiaccol’alte
c’è qualcuno
c’è qualcuno!
Amiche
gridiamo insieme
Ehi di costa
Ehi!
Brave
ammenatevi
braccia all’aria
scapigliatevi
come pazze
gridate
con speranza
con ardore
Ehi di costa
siamo qui
da sta parte
da sta parte
matri mia
la speranza
come germe
come verme
come pianta
come seme
come creta
come terra
come prece
come perla
come spiro
come rivo
come strazio
come lodo
la covo
come ovo
intr’al tempio
intr’al tempo
la speranza
carni a sanguo

sanguo a carni

matri mia
matri mia
la speranza ho nel grembo
aspetto un figlio
aspetto un figlio
sarò
matri.
D’intra a una notte scurosa
addò no iantò gallo
addò no lucì luna
m’insognai
per ogni dove
niuro fumo
affumacato
soffocante
puzzoliente
come zurfo alla zurfara
come fumo di focara
per lo ‘nvierno
tra foco e fiamme
grandincendio
ferro ardente
e là dintra
là nascosto
intr’all’ombra, malombra
un diavolicchio
piccoletto
rachitello
un animalo
cogli occhi abbracciolati
i fiammelle sui capiddi
co’i pedi da cabrone
la coda
‘mmenz’ i gambe
m’agguardava
dalle nari
suspiroso
il respiro abbruciacchiato
li cornicchi
spunteolati
e che parole ci diciva
parìa un toro
e che cavuto ci faciva
uno squaglio
un bollore
una vampa
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
uno ‘nfierno
un solo attimo
poi scomparve
poi un gran friddo tutt’intorno
un gelo bianco
luminoso
come morte
come vita
un brivido
m’arrisvegliai così
da quel sogno insonnolato
indiavolata
sudacchiata
e ingravidata.
Che fanno?
Sinni vannu?
Farabutti
ehi
spittate
dove andate?
Amiche
non piangete
la speranza ci sostiene
là vedete
la tierra non è distante
è uno sfioro
una carizza
a natare ci s’arriva
Nisciuno sa natare?
Non sarà difficile
l’acqua è amica
io ci provo.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
chi ci viene?
chi mi segue?
Voi continuate a gridare
brave così
io chiamo aiuto
arriverò
verso costa
arriverò.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
i pedi sprufondano
nonn’è difficile
ce la fò
ancora tocco.
Pè sto figlio mio
pè sto figlio mio
pè sto figlio mio
la speranza
sarò matri.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
Ehi di costa
per di qua
da sta parte
verso st’isola
di pazze:
noi
isolate
impaurite
solitarie.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
accorrete
ch’i m’affoggo
sto sinz’aria
respir’acqua
acqua e sale
acqua di mare
s’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
s’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core.
Matri
matri mia
‘maro mare
‘mara me
mirami:
mi moro.

 

(foto di Unsplash)

Farsa comica e farsa tragica. Una meditazione berlinese

9

di Marco Viscardi

Prime coordinate

Berlino, Repubblica Federale di Germania, Mitte: il primo distretto della città che, come suggerisce il nome, ne è anche il centro. Angolo fra la Zimmerstraße e la Friedrichstraße, Checkpoint Charlie: un cubicolo bianco che oggi è insignificante ma un tempo è stato uno dei pochi varchi consentiti fra mondi chiusi e incomunicabili. Mondi – l’Occidente e l’Oriente, la democrazia e il socialismo, la complicata geopolitica delle due Germanie – che ventisei anni dopo la caduta del muro ci paiono lontanissimi dalle nostre esperienze quotidiane, sbiaditi nella memoria.
Oggi il Checkpoint Charlie somiglia a un ultimo baraccone dimenticato, al residuo di un circo smembrato e dismesso. C’è il viavai dei turisti che hanno da poco visto la Porta di Brandeburgo (una delle più commoventi e astratte incarnazioni dell’idea prussiana di eleganza), ci sono manifesti cui è demandato il compito di spiegare e tramandare quanto è avvenuto, un museo del muro in cui comprare anche qualche pezzetto degli anni ’80. E l’immancabile McDonald che fa da sfondo al tutto. Ci sono poi due falsi comprimari, quasi due gladiatori della guerra fredda. Comparse vestite da soldati americani che si fanno fotografare accanto al turista cui impongono un copricapo nostalgico: e si può scegliere fra l’America reaganiana e l’USSR della Perestrojka, o magari la piccola DDR, la migliore DDR del mondo, come la definivano ironicamente i suoi grigissimi abitatori.
Il passante di buone letture che vede la scena pensa al vecchio Marx che commentava, scuotendo la testa, il colpo di stato liberticida di Napoleone II; ritorna, questo passante, all’incipit di quel micro-capolavoro che è Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, le seconda volta come farsa» (così nella traduzione – nientemeno – di Palmiro Togliatti). Guardando la casupola bianca del Checkpoint Charlie, sembra di leggere queste parole per la prima volta. Viviamo in tempi di farsa. Una farsa sempre in procinto di capovolgersi in tragedia.

Berlino, Museumsinsel, centro della città che non ha centro. Oltre il fiume c’è una cupola aperta, di cemento armato, su un edificio lungo ma tozzo, sempre di cemento armato. Struttura nuda e geometrica; cartesianamente bianca e vuota di contenuto, scostante rispetto alla dolcezza dei bei musei del lungo secolo prussiano. Su quell’isola-parco, gli Hohenzollern vollero dotare gli amati sudditi di un pratico abrégé di storia dell’architettura occidentale, raggruppando in pochi metri quadrati il classicismo inquieto e la solennità barocca, filtrati sempre da visioni romantiche e aspirazioni neomedievali. Di fronte alla solennità onirica dell’Altes Museum di Schinkel, questo ipertrofico rettangolo è uno degli edifici che meglio ci raccontano gli anni che stiamo vivendo.
Stiamo guardando l’antico Stadtschloss, il castello dei re di Prussia e degli Imperatori tedeschi, mentre rinasce dalle ceneri; il visitatore ne ha davanti lo scheletro, poi verranno le carni e la meraviglia delle finestre, delle dorature, dei risvolti, dei rilievi: tutte le decorazioni e la pomposità di una dinastia che ha gestito male la sua fortuna ma che non ha mai disdegnato grandeur e perentorietà delle forme: la verticalità categorica dei concetti e la maestosità delle facciate, canoni ossessivi di una estetica che ha ispirato tanto gli architetti della cattedrale di Colonia quanto i parrucchieri dell’ultimo Kaiser che sovraintesero alla cura dei suoi mitologici, mitopoietici, baffi a punta.
Il fantasma dello Stadtschloss prende di nuovo corpo e non lo fa in territorio neutro, cresce di giorno in giorno nel vuoto di una precedente grandezza, definitivamente sconfitta. È una storia appassionante: negli anni cinquanta, in una Berlino ancora ossessionata dalle proprie macerie, la residenza dei sovrani, semidistrutta, viene buttata a terra per fare spazio al trionfante sogno comunista, al Palast der Republik, finito nel 1976. Il cuore della neonata DDR, la sede del governo, del parlamento, del Partito, delle attività culturali di quel mondo irrimediabilmente scomparso. Solo un pezzo dell’antico Stadtschloss venne salvato: il bellissimo balcone da cui, nel 1918, Karl Liebknecht proclamò la repubblica e che oggi si può vedere incastonato in quello che fu lo Staatsratsgebäude, il consiglio di stato della DDR. Il Palast der Republik, dinosauro dell’architettura di regime, ha resistito per qualche anno al crollo del muro, ma poi è stato sommerso e distrutto – i lavori sono finiti nel 2006 – dalla normalizzazione che ne è seguita. La pacificazione dell’Europa post-sovietica ha portato alla decisione di abbattere il vero per riedificare il finto.
In quel vuoto ora si edifica un nuovo Stadtschloss dall’anima di cemento armato. La prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Ci aveva preso il vecchio Marx, che era pure allievo di Hegel e sapeva che la prosa del mondo ha bisogno di coprirsi di nuove e fascinose mitologie, che il grigiore ha bisogno del fuoco di qualche utile retorica per persistere indisturbato e rassicurante; che le rivoluzioni borghesi – si perdoni l’anacronismo –, di fronte alla loro inadeguatezza, necessitano di “reminescenze storiche per farsi delle illusioni sul proprio contenuto” . Illusioni, grandi illusioni collettive, sui cui da poco è intervenuto, in pagine tanto ostinatamente lucide, Guido Mazzoni, con una riflessione sui nostri Destini generali che proprio da un viaggio berlinese ha preso l’avvio.
La nuova edificazione dell’antica residenza reale non ha molto da spartire con la rinascita dei monumenti a Dresda. Lì era stata la Storia a distruggere tutto, a polverizzare quella città dall’aspetto fiabesco e irreale. Dresda era un sogno tracciato sul cristallo, non poteva resistere. Ora è rinata esattamente come una Firenze del nord: una macchina fagocita-turisti, ma questa è un’altra storia. Berlino, per sua e nostra fortuna, non ha subito bombardamenti in questi miracolosi decenni di pace europea. Su Berlino, come su tutto il resto, si è solo alzata la nebbia. La mistificazione ideologica travestita da crollo delle ideologie è la dèa che presiede alla costruzione di questo nuovo, anacronistico castello.
Le prime pagine del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ci parlano dell’inadeguatezza dei regimi democratico-capitalisti di fronte alle grandezze passate, del loro bisogno di impossessarsi delle mitologie di tempi eroici per nascondere la mediocrazia dei tempi di privazioni. Lo spettrale palazzo dello Stadtschloss non è, o almeno non è solo, la celebrazione delle ambizioni imperiali della Germania – che in questi ultimi anni paiono pienamente realizzate – quanto una desolante pietra tombale sul diverso da noi. La materializzazione del silenzio che grava sulla storia dei vinti, la cancellazione dell’altro, dello straniero, di colui che ha una voce differente dalla nostra e per questo incresciosa, invisa, se si potesse usare questo aggettivo per una voce. La presenza dell’altro in questo caso prende l’aspetto della vecchia Germania socialista e della sua in gran parte deprecabile storia. Quella DDR che oggi sopravvive nella magia capitalistica del feticcio e che nell’arco dei decenni si è evoluta dalla vendita di reliquie e frammenti del passato alla più complessa strategia di marketing della Ostalgie; la ricerca di un clima, di una atmosfera in cui noi uomini della sonnacchiosa Europa post-ideologica possiamo per qualche ora vivere immersi in una stereotipata DDR risorta dalle rovine.
Se pure la contrapposizione fra capitalismo trionfante e comunismo sconfitto ci pare paradigmatica in questi anni del post-89, la storia dello Stadtschloss non è solo la storia della sconfitta del socialismo reale, è il monumento dell’annientamento del diverso, di quanto non si incasella nelle nostre categorie; dell’altro che non si lascia arrotondare dal nostro metro e dai nostri valori.

Intermezzo: suggerire la profondità

In una celebre poesia, Jacques Prévert ha raccontato la libertà della Senna, felice nel suo scorrere, accanto alle guglie accigliate e solenni di Notre-Dame; attorno a questo spettro di cemento armato scorre invece la Sprea, e lì si concede uno dei momenti più dolci del suo sinuoso percorso berlinese. Stefania Migliorati, giovane artista italiana che – come si dice – vive e opera a Berlino, trasforma il fiume in «strumento critico di investigazione urbana» come si legge nella presentazione del suo progetto Die undichte Stadt, la città permeabile, che è possibile vedere qui. Le cinque fotografie che fissano altrettanti punti differenti del lungofiume non si accontentano della bidimensionalità delle forme presentate ma si aprono ad inaspettate profondità. Sono paesaggi cittadini consueti, noti a chiunque abiti in quella città bella e povera, e tuttavia le didascalie che l’artista aggiunge – esiste un eroismo della didascalia – elencano i luoghi dove si prendono decisioni di tipo economico, politico e culturale, destinate a influenzare le vite di molti, in Germania e in Europa. Scoperchiare le case per guardarci dentro è uno dei gesti romanzeschi per antonomasia. Il Diavolo zoppo, protagonista dell’omonimo romanzo seicentesco (El diablo cojuelo [1641]) di Luis Vélez de Guevara – che tradotto in francese da Lesage nel 1707 invase le biblioteche di mezza Europa – l’aveva già fatto con le case di Madrid per mostrare alla vittima delle sue tentazioni quanto nascondono le finestre e le porte delle case rispettabili: la miserevole condizione della natura umana e la sua incostanza. Ma qui i tetti restano saldamente attaccati alle strutture, si tratta di intuire quanto avviene dentro, negli spazi segreti e a pochi accessibili. Le foto che ritraggono con raffinatezza e razionalità i profili della Undichte Stadt danno luogo a una piccola topografia del potere. La didascalia è un timido gesto che, come avveniva nelle antiche carte, avverte l’osservatore: «hic sunt leones».
Siamo passati insomma dalla cancellazione di un passato ingombrante (la farsa grottesca del Checkpoint Charlie e quella tragica dello Stadtschloss) a una giovane artista italiana che con le sue opere ci lascia intuire la presenza di una profondità dietro l’apparente uniformità del landscape urbano. Profondità è la parola chiave di questo ragionamento: è il contrario di superficiale ma è anche lo spazio delle voci dimenticate. La profondità delle differenti stratificazioni storiche viene negata, nel cuore d’Europa, dall’orizzonte piallato dell’ideologia dominante che, in quanto dominante, è sempre ideologia suadente e dissimulata, tanto trasparente da confondersi con le linee stesse del paesaggio: tanto trasparente da volerci convincere che è essa stessa natura e non scelta, opzione razionale, costrizione semi-obbligatoria.

Lo sguardo del Duca

«Il venticinque settembre milleduecentosessantacinque, sul far del giorno, il Duca d’Aube salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs». Les fleurs bleues di Raymond Queneau, messe in italiano da Italo Calvino, iniziano con questo straordinario ammasso di illustri detriti che si accumulano nei feudi sterminati del signor Duca. Confusione cacofonica delle età dell’uomo in cui sembra culminare la grande tradizione del romanzo storico. Nel Novecento, la narrazione ottocentesca del romanzo storico si è suddivisa in molteplici rivi e rigagnoli. Nella linea che conta (Tomasi di Lampedusa, Yourcenar, Garcia Márquez) l’occhio attento del romanziere è sempre capace di uno sguardo verticale. A questa tradizione appartiene Wilfred G. Sebald: lo scrittore nomade e metafisico degli Anelli di Saturno, della Storia naturale della distruzione. Fra i suoi ultimi scritti, quello pubblicato in Italia come Le Alpi nel mare è un meraviglioso esempio di una scrittura che procede per estensioni, raccontando la Corsica in tre capitoli rispettivamente dedicati alle memorie napoleoniche di Ajaccio, a quelli che un tempo si sarebbero chiamati gli usi e i costumi e – infine – alla conformazione del territorio. Più che un filosofo della storia, Sebald sembrerebbe, come a suo tempo furono Manzoni e Walter Scott, un geologo della storia.
Mi è capitato di recente di partecipare a un convegno sull’epica nella modernità e lì ho avuto modo di fare qualche riflessione su Sebald che qui sintetizzo per chiudere il mio ragionamento. Austerlitz, il capolavoro postumo dello scrittore, è il punto di arrivo di questo saggio su un possibile uso virtuoso della storia. Austerlitz è un ipnotico viaggio nella memoria, dove la voce dell’individuo che cerca di ricostruire il mosaico di un passato sfuggente si allarga fino a coincidere con una dimensione epica. Un canto in prosa che assorbe e conserva le vicende degli altri in un racconto capace di narrare l’esistenza nel suo procedere instabile e serpentino (quanto conta ancora la tua lezione, reverendo Sterne!), nel suo continuo interrogarsi sulle proprie fondamenta. Austerlitz è il nome di una battaglia, ma le battaglie sono confuse e – dice Carlo Ginzburg – persino invisibili; è il nome di una stazione parigina, ma le stazioni sono luoghi di passo, dove domina il vuoto, il transitorio (nel romanzo però sono anche luoghi di spaesanti epifanie, come succede nell’archetipica stazione di Dublino, all’inizio di tutta la nostra vicenda romanzesca); Austerlitz, infine, è il nome di un uomo che ricostruisce la sua vicenda. Nella sua voce si sedimenta un secolo di storia europea, la sua identità è un viaggio a ritroso nei decenni sanguinosi di un’età di guerre e pacificazioni.
La voce isolata amplifica la propria inquietudine fino a raggiungere il destino di una collettività sterminata, più grande di una singola nazione. Il canto epico si distende, abbandona la verticalità numinosa del poema e accetta le strettoie della prosa, scava fra le collisioni dell’anima, indaga nelle molteplici sfumature del trauma.
In Austerlitz questa consapevolezza delle stratificazioni del passato che lascia tracce è un’immersione nei territori, sempre più profondi e opachi, della coscienza. La struttura monolitica del passato si sfalda nel procedere del racconto del protagonista, emergono crepe e incertezze. Il tempo non somiglia alle rocche studiate dal protagonista del libro: fortini a stella, sempre più complicati, cui gli ingegneri militari aggiungono in modo paranoide spuntoni su spuntoni, ma è una realtà viva e imprendibile, aperta al movimento e alla permeabilità.
Pochi anni prima di Austerlitz, nel suo romanzo cartografico, Mason & Dixon, Thomas Pynchon aveva scritto che la Storia non è semplice Cronologia (History is not Chronology): non una catena composta da singoli anelli (single Links) ma un «assai disordinato Garbuglio di linee, lunghe e brevi, deboli e salde, che vaniscono nella Profondità Mnemonica, avendo in comune solo la Destinazione». Sebald, a sua volta, rovescia la struttura del tempo europeo, passando dalla precisione mercantile degli orologi alla permeabilità quasi magica della temporalità interiore. Per Jacques Austerlitz, che non ha mai posseduto un orologio, la rivelazione finale è proprio la permeabilità del tempo: «A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda delle loro disposizioni d’animo e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce».
Il Novecento si è aperto con un racconto che aveva mostrato la presenza dei morti nella vita dei viventi, il Secolo breve si chiude ad anello con pagine che sembrano tornare all’originale dei Morti di Joyce, ma – si ricordi che epica crea con etica una perturbante coppia minima – stavolta la presenza delle ombre ci riporta a vicende più ampie, che hanno toccato moltitudini di uomini e donne. E non è un caso che questo libro sia stato scritto dopo il ritorno della guerra in Europa, mentre la parte orientale del continente tentava – e ancora tenta – di trovare e di inventare, fra le molteplici possibilità, un’identità a lei confacente. La memoria riallaccia la storia di Jacques Austerlitz alla storia del suo, e del nostro tempo; è il rivo, la particola minima, della dolorosa totalità di quanto è universalmente umano. Ha scritto Hans Magnus Enzensberger che il mondo è tenuto insieme solo da quanto non lo abita più, e che «senza gli assenti, nulla ci sarebbe / senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo, / senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile / gli scomparsi sono giusti / così anche noi, in un’eco»
Al cemento armato dello Stadtschloss si contrappongono gli ectoplasmi del passato: stratificazione è consapevolezza dei fantasmi. Disposizione a riconoscere e accogliere nel nostro campo visivo le tracce di storie invisibili e pure persistenti e in qualche modo vive attorno a noi. Non l’intellettualistica epifania del romanzo sperimentale, ma la dolorosa presenza degli scomparsi, la loro voce ostile ancora presente. Voci di vittime e di carnefici che si confondono nei paesaggi consueti, ma che sono ancora perfettamente distinguibili per l’uomo che volesse coglierli e in qualche modo conservarli. E non sono uguali, non hanno la stessa dignità, didascalicamente ripeto che non sono uguali, non si possono assommare i carnefici e le vittime ma, allo stesso tempo, non si possono eliminare i carnefici, perché le vittime perderebbero parte della loro verità storica per incarnare una dolenza dolce e morbosa, senza scandalo, senza contatto con la nostra realtà. Presenze e screziature che l’occhio preferisce non vedere, disarmonie per l’orecchio. Voci che si vorrebbero ridurre ai cerimoniali dei giorni della memoria che consentono poi trecento e sessantaquattro (o cinque se bisesto) giorni di dimenticanza. Disse Goethe da qualche parte che chi non vuole vivere alla giornata deve darsi conto di migliaia di anni di storia; ed è una dannazione perché vivere alla giornata è bellissimo e non possiamo concedercelo. Non possiamo se non vogliamo restare schiacciati dal cemento armato dell’anima di questo inutile castello che mentre scrivo e mentre voi leggete si costruisce a Berlino, capitale d’Europa.

Controfinale

Berlino, non lontanto dalla Ostbahnhof, il più grande club d’Europa, dove club non sta per elitario ritrovo per uomini silenziosi foderato di poltrone di pelle, ma per trionfo della musica elettronica. Berghain. Il nome fonde i due quartieri di Kreuzberg e di Friedrichshain, al cui confine sorge. Un tempo anche lì ci passava il muro, anche lì si opponevano i due mondi. Oggi moltitudini in fila, dal venerdì alla domenica. Nella città in cui per decenni la felicità è stata sperata oltre un muro, a Charlottenburg e non a Prenzlauer Berg, e la speranza prendeva la forma di una via d’accesso, di un varco, oggi la coda davanti al Berghain è l’ambizione di entrare fra gli eletti, passare il portone oltre il quale non si fanno fotografie. E naturalmente non ci sono criteri, decidono gli impiegati del club, decide Sven il capo dei selezionatori. Uomo che incarna lo spirito del nostro tempo come Napoleone a cavallo lo incarnò per Hegel, quando vide l’imperatore per le strade di Jena. Sven: uomo dell’ibridazione e della mescolanza delle razze e dei destini. Artista, fotografo, omosessuale, nato a Berlino est, Sven è oggi il padrone dei due mondi, l’uomo sul confine del desiderio e dell’appagamento, è il Minosse che giudica una folla venuta apposta fin lì per farsi giudicare, una folla disposta a disumanarsi, a diventare merce e profitto, pubblicità vivente per l’oscuro regno dei balocchi. Disumanarsi in merce per entrare, per superare il muro. Gente che fa guadagnare il Berghain molto di più stando in attesa sotto il gelo dell’inverno berlinese che pagando il biglietto e consumando il lecito e l’illecito al suo interno. Sven è l’estremo alunno di Lutero che certifica la nostra propensione al servo arbitrio, alla servitù volontaria. E forse fra qualche anno il Berghain andrà a Varsavia, e forse il prossimo decennio tutti conosceremo qualcuno che abita a Varsavia come abbiamo conosciuto qualcuno che era a Barcellona, qualcuno che ora è a Berlino. E ancora lì, fra le memorie del ghetto e di Solidarność, le file per entrare, e ancora le misteriose decisioni di Sven che determinano chi può e chi, davanti alla legge, è escluso.
La prima volta come tragedia, le altre come farsa.

Townscape (2)

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I

1.1

Partendo da una grigia sera di Stoccolma
in cui ci si incontrò fra noi -per lo più immigrati nati a Roma
e a Milano -rimpatriata del dispatrio dei pensanti senza patria
-mi ricordo che non c’era poi granché da ricordare:
mi sembra si parlasse tutto il tempo a cena,
e poi in albergo del non essere in un certo modo
piuttosto che in un altro o in altri ancora che non so
nemmeno immaginare nel dominio dell’alterità.
Ma poi se pure me li immaginassi, resterei di base sul chi vive,
perché non li conosco, gli assertori, e dunque mi persuaderei
della necessità di non considerarli, benché forse infine
potrebbero anche dirmi qualche cosa. Ma non mi interessa
e non ci interessava in quella grigia sera di Stoccolma,
che stranamente poi non nevicava molto -anzi per niente,
ma freddo sì ce n’era -un freddo cane che abbaiava muto
fra i palazzi ben disposti e la socialdemocrazia ordinata
che qui da noi ce la sogniamo. Eppure fra di noi
quel continuare a non parlare d’altro che di niente
funzionava, in quella grigia sera di Stoccolma
che il cielo non aveva più il coraggio di gettare neve
su un’algida materia di esistenti infreddoliti.
Ma dopo tutto si cercava di parlare di qualcosa,
in quel parlare di nient’altro che di niente -il paradosso
del buscar el levante por el poniente, salvo il piccolo dettaglio
che noi non si era né Colombo né Copernico, ma figli
dell’èra degradata dei contratti co.co.co
e co.co.pro. che non progetta e non produce
niente di definitivo, niente d’importante: solo
vacuità d’importazione, che ciascuno in ogni luogo
importa dappertutto, senza che a nessuno importi
che non si importa nulla di concreto -solo vacuità diffusa
che si intrattiene col reale, perché poi il reale
in realtà si fa reality -real-Italy della realtà in disuso
-e l’intrattenimento è assicurato “Ma cioè non posso mica
vederla sempre come dici tu ‘sta cosa!” Questo si diceva
fra noi in albergo e al ristorante in quella grigia sera
di Stoccolma che le idee del vuoto si passavano in rivista
con marcia militare e battere di tacchi senza suono.

1.2

“Tu affermi di non affermare nulla” “Affermo che qui il pane
è raffermo” “Lo confermi?” “Fermamente” “Fermi tutti” “E il vino?”
“Non siamo mica a fare qui la prima comunione” “Dico l’etichetta”
“Non sembra poi di marca” “Di cartina forse” “Tornasole?”
“Mica siamo al circolo polare: qui è Stoccolma: il tempo è grigio,
però non è faccenda di Lapponia e sole a mezzanotte e notte
di sei mesi: il sole torna” “E il vino?” “Di cartina: ma importato”
“Ma importa?” “Importa molto” “Sa di vuoto: è freddo” “Come tutto
il resto, dopo tutto” “Di principio” “Ci importasse più qualcosa”
“Di tutto” “Cosa importi-esporti?” “Tutto” “Expo?” “Non so: che vuoi
che esporti?” “Tutto” “E il vino?” “Di cantina? Già esportato”.
“Ma esporta?” “Esporta molto” “Sa di vuoto: è freddo” “Come tutto
il resto, innanzitutto” “In fin dei conti” “Si esportasse più qualcosa”.
“Però l’ipotesi che fingi…” “Hypotheses non fingo” “Ma chi credi
d’essere? Un inglese”? “Un fisico?” “Un lettore di universi
in lingua matematica?” “Lo spazio non è certo l’assoluto
che credi!” “E il tempo in fin dei conti…” “…Di principio”
“Ma se non siamo in questo modo stabilito certo siamo
in tutti gli altri modi che nessuno stabilisce” “L’establishment
è sempre stabilito” “Ma l’ipotesi…” “Non regge” “Ma la protesi”
“Dentaria?” “No, non regge” “Ma chi legge?” “Nemo”
“Il capitano, mio capitano?” No. Nessuno” “Ulisse?” “No:
nessuno, in nessun luogo: Nemo.” “Turpe et miserabile!”
“Amico, qui non parlano latino: in fondo siamo
in una grigia notte di Stoccolma” “Logico e proficuo
e profittevole e profiterole (che dolci pessimi stasera,
in questo ristorante di Stoccolma) è togliere ogni tratto
di affermazione e vedere se un’attività rileva…”
“Chi ti rileva quell’attività?” “La multinazionale
del vuoto”. “Che rileva quell’attività?” “La multi-irrazionale
del vuoto”. “Che rivela quell’attività?” “La multa irrazionale
dell’auto lungo il marciapiede vuoto” “Non ricordi? Siamo sempre
in una grigia sera di Stoccolma: qui i tutori sono sempre
vigili: non sono mica come il vigile incurioso del paese
sulla grande piazza vuota (ti ricordi?)” “Mi ricordo il prete
alla prima comunione: da mihi animas cetera
tolle”. “Mica siamo a fare qui la prima comunione?” “Dico
l’immagine” “L’immagine è rafferma” “E il vino?” “E il pane?”
“Di cartina”. “Di cartone”. “E il sarago servito per la cena?”
“Mutante: sa anche quello di cartone” “E tutto il resto?” “Cartapesta”.
“Ma che ti toglie tutto questo al tuo rapporto con il mondo?”
“Tu affermi?” “Tu raffermi?” “Ferma mente”. “E il firmamento?”
“Non ci sono stelle, amico, qui la sera è grigia: abbiamo solo
lampioni e nebbia e poca neve e strade sdrucciolevoli”

Pauli e la psiche #1

3

di Antonio Sparzani

La "torre" che Jung si costruì a Bollingen, sul lago di Zurigo
La “torre” che Jung si costruì a Bollingen, sul lago di Zurigo

Il 24 aprile 1948 fu creato – il progetto era cominciato prima della guerra, ma si dovette rimandarlo – a Küsnacht, sobborgo di Zurigo, il Carl Gustav Jung Institut, come fondazione dedicata alla ricerca e alla cura in psicoterapia, senza scopo di lucro. Ne fecero parte, come membri fondatori, oltre ovviamente allo stesso Jung (1875–1961), Carl Alfred Meier (che ne divenne il primo presidente), Kurt Binswanger, Jolande Jacobi-Székács e Liliane Frey-Rohn, tutti seguaci del tipo di analisi psicologica proposto e fortemente promosso da Jung. Questi formarono una specie di Consiglio direttivo dell’Institut, che si chiamò Curatorium.
D’altra parte Jung da una quindicina d’anni conosceva il grande fisico (v. ad es. qui) Wolfgang Pauli (1900–1958), che in un primo tempo (1932-34) aveva curato e col quale poi aveva mantenuto una straordinaria, e del tutto unica, corrispondenza tesa a cercare e costruire un vero ponte di comunicazione tra fisica e psicologia – loro dicevano, usando una parola inesistente in latino ma creata ad hoc, una “correspondentia” – e tale era la fiducia e la stima che ormai legava i due che Jung gli chiese di fungere da “patron” scientifico dell’Institut, con il compito di garantire che nella pratica analitica seguita al suo interno non si perdessero quei criteri di scientificità che Jung, dopo l’interazione con Pauli, riteneva ormai fondamentali.
Pauli dal canto suo aveva caldeggiato la fondazione dell’Institut, come si può leggere in una lettera del 23/XII/1947 a Jung,

Egregio professor Jung,
in risposta alla sua lettera del 9 dicembre, vorrei confermarLe per iscritto, ancora una volta, che accolgo con grande piacere la fondazione di un Istituto che ha lo scopo di coltivare e promuovere la direzione di ricerca da Lei inaugurata, e do il mio consenso a mettere il mio nome sulla lista dei fondatori. Il convergere delle Sue ricerche verso l’alchimia è per me un importante segno che lo sviluppo tende a una stretta fusione della psicologia con l’esperienza scientifica dei processi nel mondo dei corpi materiali. Probabilmente si tratta di un cammino piuttosto lungo, del quale noi esperiamo solo l’inizio e che sarà connesso con una costante critica relativizzatrice del concetto di spazio-tempo.

e volentieri accetta di diventarne ufficialmente il garante scientifico.
Passano alcuni anni, nel 1956 il presidente è ancora Meier, che si dimetterà dalla carica l’anno seguente. Ma Pauli è assai preoccupato: nell’Institut non si è abbastanza scientifici, dato anche che Jung, ormai ottantunenne, si sta ritirando dalla pratica professionale. Così Pauli prende carta e penna e scrive, in data 22/VII/1956:

Egregio signor presidente,
con grande preoccupazione sono venuto a conoscenza che in questi ultimi anni lo standard scientifico presente nei problemi e nell’attività riguardanti il Curatorium è stato sempre meno applicato.
Nella mia veste di garante scientifico dell’Institut, ritengo mio compito far valere il punto di vista delle scienze della natura, e sono quindi a richiedere ufficialmente a Lei, quale Presidente, alcuni chiarimenti.
Mi e ben noto che accanto all’aspetto scientifico della psicologia vi sia quello delle scienze dello spirito, ma non ritengo sia mio compito occuparmi di questo. E a questo proposito vorrei far osservare che mentre prima la psicologia veniva senz’altro annoverata tra le scienze dello spirito, è stato proprio C.G. Jung che ha sottolineato il carattere scientifico delle proprie idee e che proprio seguendo queste ha potuto costruire con i suoi lavori una contiguità tra la psicologia dell’inconscio e le teorie scientifiche. È mia opinione che questo passo in avanti sia ora messo in pericolo dal comportamento pratico della direzione del C.G. Jung Institut. Prendiamo per esempio la questione della valutazione dei risultati dell’attività didattica accademica del Presidente. Ho dovuto constatare con sorpresa che è stato seriamente preso in considerazione il criterio aritmetico-formale del numero di frequentanti, indipendentemente dalle richieste che il docente pone al frequentante. Un’idea così assurda richiede una urgente correzione, da qualsiasi fattore sia stata provocata. È infatti un’ovvietà per qualunque scienziato, o matematico, che l’unico criterio sensato per il successo di un’attività didattica sia il numero e la qualità degli studenti che di quell’attività hanno beneficiato. Le chiedo dunque anzitutto di informarmi su quali siano gli studenti in grado di utilizzare in maniera autonoma, praticamene o teoricamente, la psicologia appresa da Lei. (Non parlo qui degli analisti, dato che la loro formazione non proviene dal Suo corso). Sarebbe poi di particolare interesse sapere se tra questi ve ne siano alcuni che Lei raccomanderebbe per lavori scientifici che Lei non ha tempo di eseguire. Un’altra domanda riguarda il livello intellettuale generale della prassi psicoterapeutica. Qui sta il maggior pericolo, che essa si abbassi a una produzione in serie completamente ascientifica, che sia governata solo da un principio formale-aritmetico (a sfondo economico), nel quale – nel tempo a disposizione – si riesca a trattare (o “sbrigare”) col minimo dispendio di pensiero e il maggior numero possibile di pazienti. Prima si presentava ancora, per il terapeuta, la necessità di pensare, nel caso il paziente non facesse facilmente progressi. Cosa che oggi è scarsamente necessaria, dato che col metodo della produzione in serie il medico può ben permettersi di mandar via con decisione quei pazienti che minacciano di chiedere troppo al suo apparato pensante. Così, a causa della forte richiesta di medici, si instaura, al posto di una personalità individuale del medico, sempre più una sorta di coscienza di gruppo degli psicoterapeuti. Per quel che sono le mie esperienze (nella misura in cui ciò sia in linea di principio possibile con i terapeuti fuori dal loro gabinetto di studio) tutto questo si risolve in un atteggiamento egocentrico del medico nella “sua” – rispettivamente “nostra” – relazione con il paziente e nella sua (del medico) totale estraniazione dai normali e naturali prodotti dell’inconscio (sogni, fantasie, ecc.) che non si verificano nella “sua” relazione. Ma è proprio il loro studio scientifico che dovrebbe formare la base per la conoscenza dei disturbi nel normale svolgersi di questi fenomeni nelle neurosi e in altri diversi casi patologici. Trascurando completamente questa zona di normalità nell’uomo moderno (e non parlo qui di miti, fiabe, storia delle religioni o altro) il C.G. Jung Institut appoggia una progressiva completa eliminazione del carattere scientifico delle di idee di C.G. Jung in fatto di psicologia nella pratica psicoterapeutica reale, che dunque assume il carattere ascientifico di una produzione in serie. Pongo perciò ancora – con preghiera di chiarimenti in merito – il problema generale di quali misure l’Istituto C.G. Jung intenda prendere per combattere – almeno per ciò che attiene ai suoi membri – le aberrazioni e in generale gli abusi dell’odierna pratica analitica.

Da un lato queste righe mi sembrano stranamente moderne – anche nel campo analitico esiste il pericolo della “produzione in serie” – dall’altro mi sembrano testimoniare la forza con cui un fisico teorico di livello altissimo come Pauli sosteneva la possibilità di un modo “scientifico” di affrontare i problemi psicologici.
Il seguito di questa lettera alla prossima puntata.

Elogio cinematografico del suicidio

1

di Emanuele Canzaniello

 

Edipo a Nazareth (1981) – Werner Maria Schroeter

 

«L’arte è una vendetta contro la vita, non ho ancora trovato nulla che riesca a respingere quest’ipotesi nella mia testa», questo dichiarava Schroeter in un’intervista degli anni ’70. E la sua vendetta migliore è consumata oggi con l’uscita del suo Edipo.

Il posto di Tiresia ( leggendo il Tiresia di Giuliano Mesa)

4

di Giorgio Mascitelli

Romolo_e_Remo

Se, come è stato scritto ( da Paolo Zublena in Alfalibri n.5  supplemento ad Alfabeta2 n.13, ottobre 2011), Giuliano Mesa è stato l’ultimo dei modernisti, allora è molto probabile che il Tiresia sia il suo lavoro più ultimativamente moderno. Di questo poemetto è già stata sottolineata la centralità nel percorso poetico di Mesa, oserei dire anche di carattere cronologico, risalendo la sua composizione al biennio 2000/01 e dunque non solo agli albori del secolo nuovo secondo il calendario, ma anche alle soglie della caduta delle Due Torri nel quale avvenimento tramonta politicamente e simbolicamente una serie di ottimistiche premesse ideologiche della globalizzazione post guerra fredda.

Tiresia è in realtà una figura arcaica, l’indovino al tempo stesso uomo e donna, cieco e condannato a vedere e capire l’orrore del mondo, che viene evocato fin dall’esergo del poema (“ devi tenerti in vita, Tiresia/ è il tuo discapito”), ma nella mia ipotesi di lettura il Tiresia di Mesa è più in stretto rapporto con quello di The Waste Land che con la tradizione greca: in Euripide, infondo, Tiresia rappresenta la consapevolezza della persistenza delle forze ctonie del mito a fronte del delirio, solo apparentemente raziocinante, della ragione strumentale del potere. In Eliot, invece “benché semplice spettatore e ‘carattere’, è, tuttavia, il personaggio più importante del poema” perché la “sostanza del poema è, insomma, quel che vede Tiresia” ( nota d’autore al v.218 di T.S. Eliot La terra desolata, trad.it, Einaudi, 1983). In altre parole il Tiresia moderno di Eliot è il testimone che dà senso alla visione desolata ossia il poeta ormai deracinè dai processi produttivi capitalistici.

La proposta di questa figura in un poeta come Eliot, teso a rappresentare la decadenza spirituale della modernità in nome di una sensibilità religiosa conservatrice, se non francamente reazionaria, è chiaramente spiegabile, mentre può apparire paradossale che essa diventi una figura di riferimento non solo in Mesa, ma in una tradizione poetica  che riconosce gli aspetti emancipatori della modernità in una battaglia contro i suoi aspetti deteriori. Il Tiresia eliotiano, d’altronde, si inserisce in quanto testimone critico in una linea aperta da Baudelaire e Rimbaud che vede nella modernità un luogo di disastro ma anche di lotta. Dentro questa prospettiva è possibile leggere Eliot come una manifestazione della critica alla società borghese e al capitalismo anche se in questo autore vi è sfiducia nella modernità come progetto di emancipazione; così, a titolo di esempio, si può leggere anche in una prospettiva marxista lo spiritualismo di Eliot come “catalizzatore poetico della crisi dei valori morali laici tradizionali, borghesi, già precipitanti in seguito alla prima guerra mondiale” ( Galvano Della Volpe Critica del gusto, Feltrinelli, 1960, p.58).

Questa precisazione spiega perché il Tiresia di Mesa, lungi dall’avere uno sguardo iniziatico od oracolare, rivolge innanzi tutto uno sguardo politicizzato che ben conosce i rapporti di forza nella società e da dove nascono gli orrori del mondo. Le cinque divinazioni di Tiresia sono altrettante prove della guerra che le leggi del profitto e dell’imperialismo con  implacabile impersonalità conducono contro l’umanità ( la discarica nelle Filippine, la fabbrica di bambole in Thailandia, il commercio di organi umani in Brasile, il progetto Manhattan, le fosse comuni che nei ruggenti anni novanta della pacifica globalizzazione fioriscono un po’ ovunque).

E tuttavia il Tiresia politico di Mesa non ha più a disposizione nessun progetto moderno di liberazione e di progresso entro cui collocare la propria parola poetica e non ha nemmeno una società letteraria che voglia ascoltare la storia della decadenza della civiltà raccontata con stile barbarico/raffinato come per il Tiresia eliotiano. Il testimoniare con lo sguardo e con la parola sono le uniche possibilità anche per il militante politico senza più campo d’azione e sono contestualmente una condanna per il poeta che sa che la sua testimonianza è lettera morta perché si va estinguendo la tradizione letteraria che le attribuisce un senso e un ruolo. Ne segue un appello a una dimensione etica della parola poetica, che mette in scena da un lato l’assenza di sbocchi nella prassi storica e dall’altro il vorticoso cadere delle stesse istituzioni letterarie, volta a instaurare una sorta di agire comunicativo senza canali di comunicazione garantiti a priori. Non a caso le prime due divinazioni, ornitomanzia, la discarica di Sitio Pangako e piromanzia, le bambole di Bangkok, si chiudono con versi esortativi alla dimensione della testimonianza ( Prova a guardare, prova a coprirti gli occhi, la prima; Tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno la seconda).

Questa tensione tra l’impulso etico-poetico a dire e l’impossibilità di uno spazio sociale per dire è la tensione tragica che percorre il poemetto di Mesa e che si manifesta in una parola sempre vicino o meglio sempre strappata al silenzio:  le prime due poesie successive alla prime due divinazioni, pronunciate da una voce poetica più recitativa e sommessa rispetto a quella divinatoria di Tiresia,  si aprono con formule dubitative sull’utilità del dire ( a ridirti che cosa? 1,1 e a chi ne darai conto? 2,1).  Si potrebbe aggiungere che qui vi è una consonanza  con la poetica dell’amato Celan quale viene espressa nel discorso Il meridiano ( contenuto in P.Celan La verità della poesia, trad.it, Einaudi, 1993).

Il tema dell’impossibilità a dire viene ripresa nella poesia 6, posta dopo la terza e la quarta divinazione e sempre dalla seconda voce poetica: “e dire le ultime parole?/ e quali?/ e portarle via con sé?/ e dove?”. A quest’ultima domanda nel testo risponde direttamente, girando pagina, la quinta divinazione, Necromanzia, οἱ ἂταφοι, Massengräber, indicando il dove nella terra  sommersa dalla neve, dove ci sono le fosse comuni. Dunque, l’estrema destinazione delle parole di Mesa o meglio di Tiresia è nelle fosse dei morti ammazzati, dove, nella migliore delle ipotesi e a voler credere a un altro poeta, ci cresce sopra l’erba, oppure verso il nulla. “Ti lascio qui” sono le parole con cui si apre e si chiude il testo che chiude l’intero poemetto. Questo congedo è finalmente il riposo dell’indovino? Non credo in quanto, nella mia lettura, infatti, non  è Tiresia, ma la seconda voce poetica a congedarsi e ad andarsene e a lasciare l’indovino alla sua condanna di continuare a vedere. Questa seconda voce può essere identificata con l’aspetto progettuale o addirittura utopico del poeta moderno  e dunque il suo congedo è quello da un mondo che non è più suo ed è un congedo dalla parola verso il silenzio ( “ questo silenzio che sentiamo insieme/ adesso- è adesso che sappiamo/ in questo momento che divide”). Resta solo lo sguardo rabbioso e terrificato di Tiresia ( rabbioso perché terrificato)

E’ evidente che è presente nel Tiresia un aspetto profetico, comune alla grande poesia moderna, a patto di ricordarsi che nell’accezione biblica il profeta non è colui che prevede il futuro, ma che constata il male del presente o, per essere più precisi, “La profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o- diremmo oggi- esterno al sistema, che sa leggere i segni dei tempi al di là degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione…” ( da Paolo Prodi Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015). Ora ciò che toglie la parola al poeta profetico è l’impossibilità di indicare un cammino di redenzione, perlomeno in questo mondo, dopo il grande scacco del progetto moderno. Eppure egli è condannato a parlare.

Questa parola profetica va intesa come il prodotto di una sconfitta storica, è un ‘parlare nonostante’ e la prova di ciò è che il linguaggio di Mesa non è contraddistinto da alcun orpello formale oracolare né tanto meno è un picnic in cui l’autore porta il testo e il lettore il senso. In questo senso valgono assolutamente le considerazioni fatte da Andrea Inglese proprio su Nazione Indiana: “La parola poetica ‹di Mesa› non sarebbe dunque un al di là del linguaggio comune, un super-linguaggio attraverso cui parlare meglio e in modo più autentico, come voleva la tradizione simbolista, ma un linguaggio pienamente consapevole dei propri limiti, dei rischi di falsificazione, un’esperienza insomma in cui qualcuno vede male e dice male affinché altri, a partire da questa consapevolezza dolorosa, possano dire meglio e vedere meglio.” ( qui)

Come è noto, il verso rimbaudiano bisogna essere assolutamente moderni è diventato nel Novecento, specie presso le Avanguardie ma non solo, una sorta di imperativo etico ed estetico, nel quale  si coniugavano l’avversione per ogni specie di accademismo tradizionalista e museale e la chiamata a un impegno storico che giustificava tale avversione. Del valore parenetico di questo verso è prova la conclusione del saggio sulla modernità di Jameson che a esso si richiama come elemento irrinunciabile nella sua programmaticità ( cfr. F.Jameson Una modernità singolare, trad.it. Sansoni 2003), anche se viene ammessa dallo stesso autore statunitense l’incapacità di tutto l’Occidente di pensare il grande progetto collettivo. Ora pochi anni prima della stesura del Tiresia, Debord nel suo ultimo libro affermava che “quando ‘essere assolutamente moderni’ è diventata una legge speciale proclamata dal tiranno, ciò che l’onesto schiavo teme sopra ogni cosa è che lo si possa sospettare di essere passatista” (cfr. G. Debord Panegirico, trad.it Castelvecchi, 1996, p.44). Per quanto Debord come scrittore abbia sempre amato le batture a effetto, bisogna ammettere che fa specie trovare una dichiarazione del genere nella pagina di un autore che ha consacrato buona parte della propria vita artistica e intellettuale a cercare di realizzare al meglio l’imperativo rimbaudiano.

Una simile affermazione è spiegabile soltanto con il venir meno della possibilità di una collocazione entro un orizzonte di senso storico dell’attività artistica a sua volta legata a una perdita di progettualità complessiva nella società. Insomma non è più necessario essere assolutamente moderni  in ogni attività artistica o letteraria quando non c’è più un soggetto che lotta per l’emancipazione. Se poi l’essere moderno diventa sinonimo di un continuo adeguamento alle dinamiche sociali, tecnologiche ed economiche della classi che detengono il potere, ecco che tale imperativo nell’ambito estetico significa riconoscersi nella moda o nella pubblicità. “La moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Esso è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante”, scrive Benjamin nella quattordicesima Tesi di filosofia della storia alla fine degli anni Trenta, che peraltro calza a pennello nel descrivere anche la situazione odierna. Dunque la frase di Debord è, nella sua maniera polemica e paradossale, la constatazione che è finita la speranza delle avanguardie che una rivoluzione dei linguaggi corrispondesse idealmente e storicamente ad altre rivoluzioni.

Il Tiresia di Mesa va letto alla luce di questa frase di Debord nel senso che a ogni suo singolo verso è sottesa questa forma di consapevolezza. C’è in più la volontà di continuare a dire  nonostante non ci siano più i luoghi sociali deputati a esprimere la parola e c’è la consapevolezza che chi sa dire e prende la parola si trova a occupare l’imbarazzante ruolo del profeta. Un ruolo arcaico senza dubbio, che è il prodotto di una sconfitta storica, come del resto è arcaica  sotto la rassicurante apparenza tecnologica una delle facce del tiranno  che ha fatto sua la legge dell’ ‘essere assolutamente moderni’.

N.B.: le citazioni del Tiresia sono tratte dal testo riportato nel volume G.Mesa Poesie 1973-2008 La Camera verde, Roma, 2010

 

 

 

Tanto baccano per una strage

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di Andrea Inglese

Perché tanto baccano per le stragi del 13 novembre a Parigi, che hanno fatto solo 130 morti? La domanda è legittima, se uno considera che la copertura mediatica di queste stragi è stata particolarmente intensa a livello mondiale. A ciò bisogna aggiungere le reazioni di solidarietà espresse sia dalle istituzioni sia dai cittadini di un gran numero di paesi, e ulteriormente amplificate dai media. Certo, una strage di civili inermi realizzata da un’organizzazione terroristica è una fatto che suscita sempre emozione, e solleva una quantità di questioni sulle conseguenze politiche e sociali, ma l’impressione che alcuni hanno avuto è che a Parigi una strage terroristica abbia uno statuto speciale. Ci si è chiesto, insomma, se l’attenzione mediatica, l’empatia e le espressioni di solidarietà non siano selettive, e non finiscano, in questo modo, per delegittimarsi o, addirittura, per apparire un po’ oscene. Questa critica può assumere svariate forme. Elenchiamone alcune.

150 anni di Alice : Del cadere

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Mariasole Ariot

Di identificazione in identificazione Alice diventa il diventabile delle grandezze. Piccola come una coda di topo, grande come il cannocchiale più grande, piccola come formica, o becco, diventa lago, si perde nella pozzanghera, in muta perenne dodici volte. Il corpo vivente si trasforma e parla, mentre la testa, staccata, resta stesa sul prato, o forse seduta, accovacciata, una testa mozzata : ma come mozzare una testa a chi non ce l’ha? – chiede il Re.

Non si può tagliare una testa se non c’è un corpo a cui tagliarla

Qualunque cosa abbia una testa può essere decapitata

                                                                                                 Una testa
si può tagliare comunque1
– chiude la Regina.

***

La mia prima lettura è stata di paura, è rimasto un terrore a sottofondo, come dev’essere quel dire l’incerto al di là di ogni scientismo, come dev’essere la fiaba. Alice si trasformava e io mi trasformavo : come un elefante – l’oggetto/corpo più grande che potessi immaginare, piccola come un ago – l’oggetto/corpo minore che faceva del corpo una miseria, uno scarto scartato dal gioco della stanza da letto : a pancia in su, le gambe alzate per camminare sul soffitto. Ma come può un ago camminare? Come può un elefante occupare una stanza, occuparla tutta?

***

Eppure era la caduta ad ansimare, quando l’identificazione di Alice poteva passare non per l’Altro ma per la caduta stessa : diventare la caduta, diventare non l’essere che cade ma il pozzo senza fondo, il cilindro che continua a precipitare. Come nella melancolia il corpo è già morto e non può morire, così nel sogno il corpo è già caduta e non può non cadere, diventa l’essenza stessa di ciò che lo trascina a fondo. Alice – e sembrava passassero millenni – trova infine un suolo. Ma il suolo non è un suolo, è una tana da cui ancora è possibile cadere.
Alice caduta 1

Quanto cadere è dato nella caduta, quando cadere è codificabile, animabile, animale e dimostrabile?

***

A pancia in su, a gambe alzate, percorrevo strati di soffitto invertendo i sensi del pavimento, le strutture dello spazio : dov’è l’alto è il basso, dove il basso è l’alto. E questo gioco infernale mi diventava, come una parola detta troppo forte, urlata nell’urlo che la mastica e la sforma fino a formare un nuovo corpo. Corpo di parola che incarna e si incarna nel soggetto. Avevo paura, alla prima, alla seconda lettura, ho paura anche adesso, mentre il libro è aperto e la caduta è libera, un vuoto pieno che continua incessante nel suo vuoto.

***

Explain yourself! – dice il Bruco : spiega te stesso, alla lettera. Ma la spiegazione è impossibile e impensabile, un appello che scaraventa nel peggiore degli incubi : dire se stessi, conferire un nome ad uno spazio vuoto, ad una piccola miseria, un resto di sé che infinitamente resta resto e infinitamente resta in vita. Explain yourself! Non spiegarti ma annunciati, non annunciarti ma denuncia un’esistenza. Mentre il Bruco parlava nella pagina, io mi cancellavo, trovavo parole per poter scartare l’appello :

un ago di pino
un gatto
una figlia
una mano
la mano di una figlia
la figlia di una mano

[nel sogno le mani figliavano : mille mani in un corteo in mezzo al bosco, mani partorienti, da un’unghia nasce un dito, da un dito nasce un figlio]

***

Poi le parole cadono nel vuoto : parole che cadono, che non arrivano, che non riescono ad incidere la pietra, che non sono pietra. Ma la caduta di Alice non è una parola che cade, è un corpo in divenire che si prepara alla mutazione : Alice cade e la trasformazione è già nella caduta, tutto è annunciato, è già tutto lì : nella caduta gli organi si mescolano ai vicini. Il corpo diventa allora caduta di organi, precipitare stesso della materia all’interno della materia.

 

***

Mi chiedevo cosa sarebbe accaduto all’interno di un corpo che fosse precipitato, se ogni organo per spinta gravitazionale risalisse alla testa. Mi rispondevo urlando, con la testa piena d’uovo, la spina dorsale incrinata, la schiena ancorata alla superficie per nulla liscia del letto adulto. Alza le gambe : cammina, smettila con le domande, falla finita con la decomposizione, accetta la resa. Mi alzavo e tornavo a giocare con Alice sulla spalla destra come un pappagallo.

La mia paura si chiamava Alice, si chiamava caduta, si chiamava senza fine.

***

Diventare caduta è allora l’opposto del cadere : là dove c’è un inizio e una fine del precipitare, dove un piede cede e aspetta l’atterraggio, qui – nell’essere stesso del cadere – si tratta di compiere un passo verso la disidentificazione di un soggetto (se c’è soggetto) per mutare nell’attorno, nell’atto stesso che viene compiuto. Alice cade, e nel cadere assume la forma, seppur non ancora mangiata o bevuta, del cadere stesso. Uno scivolare che non si cura particolarmente del cosa l’attende, piuttosto si fa attesa, vuoto che cade. La mia paura si chiamava, di nuovo, Alice : la caduta della caduta.

***

Alzavo nuovamente le gambe per attraversare un corridoio invisibile, con la corazza di tartaruga sul dorso mi muovevo immobile per sentire un aggancio, ma il letto sprofondava sotto la superficie terrestre – arriverò al centro della terra, pensava Alice – e il centro non arrivava mai. Nel frattempo, l’aria intorno , come fumo, come follia che non più paragonabile all’acqua diventa allora fumo2, si faceva palpabile ma arresa anch’essa al vuoto. Un incontrollabile deformità delle zone interne ed esterne, un continuo palpitare del corpo che nell’affondare assume le sembianze di ogni forma vivente e non vivente. Alice era la lì con me, e detestavo la sua noncuranza. Lei, capace di precipitare sapendo di atterrare, io, senza fondale.

***

Per uscire dalla caduta perenne si tratta allora di considerare uno spazio delimitato, confinato : riprodurre bordi, bordature, cornici, dare la forma di una pagina o di una casa, fare della pagina una casa. Nell’atto della scrittura è possibile rintracciare un fondo, un pavimento che regga. Non più morto che non può morire perché già morto, ma morto che continua a morire perché mai morto, perché non ancora morto, perché non ancora caduto, perché nell’ultima pagina si rintraccia la fine del verbo in movimento. Un punto smette di essere superficie.

Alice superficie 2

***
Alice, fa’ che la testa mozzata non sia testa, di’ che ad un corpo senza testa non è possibile mozzare, di’ la voce, di’ che un pozzo ha sempre un fondale, di’ che mi spezzerò le gambe ma avrò steccati per ricostruirle, di’ che una tazza di tè raccolta al volo è la prova dell’esistenza di un muro, di’ che ho bisogno di muri, di’ che gli angoli sono angoli e non spigoli, di’ che ho paura, di’ che la paura passi, di’ che un passo non è un testimone, di’ che i libri non sono oggetti chiusi, di’ che i conigli non escono dai cilindri, di’ che ho bisogno di tremare, di’ che tremare non è perdere in vita, di’ che la vita è immonda, di’ l’immondo del vuoto, di’ che ho fame di questo mondo, di’ che ho paura, di’ che il mondo ha un fondale : di’ il fondale.

 

 

1Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, trad. Di Masolino D’Amico, Classici BUR, 2015

2Michel Foucault, Follia e discorso – Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste. 1961-1970, Universale Economica Feltrinelli 2014

Breaking news: la verità sull’ISIS e Raqqa

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 Breaking-News-NI

di David Remnick

Traduzione di Barbara Waschimps

 

L’organizzazione Raqqa is Being Slaughtered Silently è sotto costante minaccia da parte dell’ISIS poiché riporta clandestinamente informazioni su quello che accade nella città siriana.

(articolo pubblicato sul sito del New Yorker il 22.11.2015 con il titolo “Telling the Truth About ISIS and Raqqa”)

Sabato sera cinque giovani siriani si rilassano in un piccolo locale di New York e ordinano da bere. Quando il barista chiede se può servire loro una vodka di seconda scelta hanno un sorriso forzato . Sono tutti esuli provenienti da Raqqa, città di provincia nel nord della Siria che l’ISIS ha scelto come base operativa e capitale di fatto dello Stato Islamico. Nessuno di loro ha bisogno di roba di prima classe, solo di bere qualcosa.

Lavorano tutti per Raqqa is Being Slaughtered Silently (RBSS – Raqqa viene massacrata silenziosamente – ndt), una sorta di organizzazione giornalistica clandestina di attivisti che, sotto la spada di Damocle di una fine orribile, fa uscire immagini e resoconti sull’ ISIS da Raqqa, distribuiti poi dai suoi alleati all’estero. I colleghi postano a turno i reportage sui social network e sul loro sito. L’ISIS controlla Raqqa da circa due anni e la stampa estera fa riferimento al RBSS per le notizie di prima mano riguardanti la vita quotidiana e le devastazioni che hanno luogo a Raqqa. E poiché hanno avuto il coraggio di denunciare crocifissioni, decapitazioni, abusi sessuali e altri crimini, alcuni membri del RBSS sono stati uccisi dall’ ISIS a causa del loro lavoro, sia all’interno della città di Raqqa che all’estero.

Abdel Aziz al-Hamza, un uomo esile di ventiquattro anni, fa da portavoce. Non più tardi di qualche anno fa era studente di biologia presso l’Università di Raqqa e sognava di studiare farmacologia in Giordania o in Turchia, per poi rientrare a casa e costruire una carriera e una famiglia. “Ero un ragazzo normale”, dice dopo il primo sorso di vodka&sprite. “Passavo il tempo con gli amici al caffè o al bar. Nessuno di noi era politicamente impegnato. In Siria prima della rivoluzione era un crimine essere impegnati, in qualsiasi modo “. Raqqa era una città relativamente fiorente, con risorse energetiche ed una base agricola. Inoltre le grandi dighe della zona rappresentano un’importante fonte di energia per la Siria.

Quando le manifestazioni anti-regime scoppiarono nel marzo 2011 a Dara’a, una città del sud, e si seppe in tutta la Siria che le forze di sicurezza di Bashar al-Assad sparavano sui civili, Hamza e molti altri si unirono alle rivolte. “Volevamo essere liberi”, dice. “Ci sembrava una cosa ovvia.” Man mano che la rivolta contro Assad si diffondeva in tutto il paese e il conto delle vittime aumentava, decine di migliaia di persone lasciarono Aleppo, Homs, Idlib e altre città e paesi sotto attacco e arrivarono a Raqqa, che si trova sulla riva settentrionale del fiume Eufrate. La città crebbe e divenne nota per un po’ come “l’hotel della rivoluzione.”

Nel marzo 2013 l’Esercito Siriano Libero (FSA) insieme alle forze ribelli islamiste, tra cui al-Nusra, acquisì il controllo della città e per festeggiare abbatté una statua del padre di Assad, Hafez al-Assad. “Raqqa fu la prima città liberata in Siria”, dice Hamza. Ma all’incirca nello stesso momento membri dell’ ISIS (o Stato Islamico), sventolando le loro bandiere nere hanno cominciato a raggrupparsi nella vicina città di Slouk. “In un primo momento non si trattava che di quindici persone all’incirca”, racconta Hamza. “Nessuno di noi se ne rese conto “, fino a quando i combattenti di al-Nusra non cominciarono a passare all’ ISIS – che aveva la sua origine in Iraq. “Nel corso del tempo circa il novanta per cento dei combattenti di al-Nusra della zona divenne parte dell’ISIS, e solo il dieci per cento di essi si rifiuto’”.

A maggio del 2013 i combattenti dell’ ISIS iniziarono a compiere incursioni per sequestrare e attaccare i leader dell’Esercito Siriano Libero, ed entro la fine dell’estate si verificarono scontri di vasta portata con le truppe del FSA. Quando quest’ultimo inizio’ a subire le sconfitte, le autobombe, i rapimenti e le esecuzioni, ci dice uno dei giornalisti al tavolo, alcuni dei suoi soldati piombarono “in uno stato di totale terrore” e si unirono all’ ISIS. La popolazione di Raqqa poté vedere che l’ISIS diventava sempre più forte, acquisendo armi pesanti provenienti dall’Iraq e soldati esperti che avevano combattuto nell’esercito iracheno sotto Saddam Hussein. All’inizio del 2014 l’ ISIS aveva il controllo assoluto della città. Moschee invase, la popolazione cristiana scacciata dalla città, i principali edifici comunali trasformati in quartier generali. La campagna di propaganda che lo Stato Islamico mise in campo in seguito alla presa di Raqqa ebbe come conseguenza un’ondata di arrivi stranieri.

“Nessuno considerò realmente il califfato fino al 2014, quando dichiararono Raqqa la loro capitale e questi tizi cominciarono ad arrivare da tutto il mondo,” mi dice uno dei giornalisti del RBSS. “Era come a New York, una seconda New York! Persone provenienti dall’ Australia, dal Belgio, dalla Germania, dalla Francia! Una marea universale! ” “Forse la prossima Coppa del Mondo sarà a Raqqa”, dice con sarcasmo un altro giornalista.

I giovani combattenti stranieri erano, e rimangono, dei personaggi privilegiati in città. Ce ne sono migliaia a Raqqa, uno dei giornalisti aggiunge, “per strada li vedi dappertutto. Amano i fast food e gli internet-café. Adorano la Nutella e hanno lattine e lattine di Red Bull. Cioccolata, cheesecake! Con la gente in miseria che vede tutte queste cose costose! Ma l’ ISIS tiene a mantenere di buon umore le reclute occidentali “

La prima crocifissione è arrivata all’inizio della primavera – un evento orribile da rievocare, ancora adesso; tutti al tavolo ricordano lo shock. In seguito accadde di peggio: due persone colpite alla testa da carnefici dell’ISIS, crocifisse, esibite per giorni nella principale rotonda della città come monito per tutta la popolazione. “E’ stato qualcosa di nuovo che non avevamo mai visto, questo tipo di violenza”, dice Hamza. “Hanno cominciato a tagliare teste, a crocifiggere, diffondevano il panico ovunque. “C’erano editti contro gli alcolici e il fumo. Le donne, assoggettate ad una ‘polizia morale’ femminile chiamata Brigata Khansaa, furono costrette ad indossare il velo, e più avanti, a calzare solo scarpe nere. Vengono picchiate se il loro niqab è in qualche modo troppo rivelatore, o se il velo è troppo sottile, o se vengono beccate a camminare da sole per la strada.”

“Credo che le donne siano coloro che soffrano maggiormente sotto l’ ISIS”, afferma un membro del RBSS. “Non possono mostrare i loro volti. L’ISIS crea loro molti problemi; per strada prendono i bastoni e le colpiscono se il velo permette di vedere i loro occhi. Le chiamano, ‘ehi, ehi, vuoi sposarmi?’ La gente è diventata così povera, le famiglie così deboli, che alcuni danno le loro figlie all’ ISIS. E loro accettano. A volte è l’ISIS che le costringe a farlo, come nel caso degli Yazidi (popolazione di lingua curda che abita soprattutto nel nord dell’Iraq – ndt): lo Stato Islamico sostiene che questa gente crede in Satana, e per questo le loro donne passavano da un uomo all’ altro, vendute, violentate, abbandonate.

Le scuole furono chiuse. Gli Imam dello Stato Islamico presero il controllo delle moschee. Molti bambini furono mandati in istituti religiosi dove venne loro inculcata la fede islamica nella sua forma più fanatica, e da lì in campi di addestramento militare, dicono gli attivisti. “Non tutti coloro che hanno aderito all’ ISIS lo hanno fatto perché credono in quell’ ideologia”, afferma Hamza. “Ho un amico che è andato con Ioro, ma a cui l’ ISIS non piace affatto. … L’ho chiamato e gli ho detto: ‘Perché ti sei unito a loro? Tu li odi! ‘ Ha risposto:’ Io sono un medico e loro non mi lasciavano lavorare. Mi hanno detto ‘se vuoi lavorare devi unirti a noi.’ Non potrei vivere altrimenti, ho dei figli … ‘”

Secondo i membri del RBSS lo Stato Islamico si rivolge per il reclutamento alla gioventù locale. Con le scuole chiuse i ragazzi perdono tempo per strada. I membri dell’ ISIS fanno amicizia con loro, fanno loro dei regali – a volte dolci, a volte un telefono cellulare. Chiedono ai bambini di unirsi all’ ISIS ma, aggiunge un giornalista, ” gli dicono, ‘Non parlarne ai tuoi genitori.’ So di un bambino che era scomparso da mesi. I suoi genitori lo cercarono dappertutto. Un ragazzino di tredici anni. Alla fine il padre si rivolse ad uno dei capi dell’ ISIS: ‘Dimmi dov’è mio figlio, ti pagherò.’ Si scoprì che il ragazzino era in un campo di addestramento. Loro rapiscono i bambini e li inviano alla moschea per istruirli in modo che subiscano il lavaggio del cervello, indottrinati in una forma estremista dell’Islam. In seguito vengono inviati in un campo militare dove insegnano loro come combattere, come costruire e trasportare bombe. Al termine degli studi gli viene ordinato di giustiziare qualcuno – a volte si tratta di una decapitazione, a volte tagliano la testa ad una pecora “.

Non si può verificare facilmente ogni affermazione fatta dai giornalisti del RBSS, ma i racconti di estrema crudeltà che hanno fornito sono coerenti con quanto riportato da giornalisti come Rukmini Callimachi e Azadeh Moaveni sul Times, da Ben Taub sul New Yorker, e da molti altri che hanno ampiamente intervistato membri del ISIS e varie vittime in Iraq, Europa, e lungo il confine turco-siriano.

Il più potente strumento di indottrinamento dell’ISIS è Internet. Lo Stato Islamico magnifica sia la santità dei propri scopi morali, storici e politici , sia i suoi atti di vendetta contro tutti quelli che marchia come infedeli, e pubblicizza il tutto senza vergogna. “Se googlavi ‘Raqqa’ in quei primi giorni, come primo e unico risultato usciva il loro materiale,” mi raccontano. “Questa fu una delle ragioni per cui un sacco di combattenti stranieri (i cd. foreign fighters – ndt) lasciarono i loro paesi. Ed è per questo motivo che noi abbiamo cominciato. “

A metà aprile 2014, appena un mese dopo le prime crocifissioni in città, un gruppo di sei giovani con le stesse idee iniziarono a scambiarsi opinioni su Facebook. Il gruppo ebbe modo di ampliarsi per breve tempo prima di essere scoperto dall’ISIS, ma nel giro di due o tre settimane un imam locale dichiarò che chiunque avesse collaborato con i RBSS sarebbe stato rintracciato e giustiziato. Alcuni civili sono stati arrestati semplicemente perché hanno messo un “like” ad un post sui social network.

Imperterriti, gli attivisti hanno postato sui network fotografie e resoconti della vita quotidiana a Raqqa; l’idea era quella di combattere la propaganda dello Stato Islamico sul campo digitale. Nel mese di maggio 2014, RBSS ha subito la sua prima vittima. Un attivista al bar mi racconta: “Uno dei nostri reporter è stato fermato ad un posto di blocco e il suo equipaggiamento è stato confiscato e perquisito.” E’ stato imprigionato per tre settimane e infine giustiziato in una piazza pubblica di Raqqa.

“All’inizio non pensavamo fosse così pericoloso”, dice Hamza. “Non pensavamo che ci avrebbero giustiziati. Tutti noi eravamo stati arrestati dal regime di Assad più di una volta durante la rivoluzione. Ma dopo questa esecuzione ci siamo incontrati ed abbiamo iniziato a dirci che non volevamo perdere più nessuno, ed abbiamo cominciato a considerare l’idea di smettere. Però alla fine abbiamo deciso che le nostre vite non erano più importanti della vita del nostro amico che era stato ucciso. “

Gli attivisti si sono organizzati secondo modalità che sperano essere più sicure e meno tracciabili. Alcuni di loro hanno lasciato Raqqa e la Siria per poter essere di aiuto “dall’altra parte”; Hamza ad esempio prese un autobus fuori Raqqa diretto in Turchia ed ora vive, come la maggior parte degli altri al tavolo con noi, in Europa. Altri sono partiti dopo l’esecuzione del loro compagno ma sono rimasti attivi, e ricevono fotografie, video, resoconti dai loro colleghi sotto copertura a Raqqa che poi postano sui social media.

I membri del RBSS si sentono totalmente delusi dai tentativi dell’Occidente di sconfiggere da un lato Assad che ha respinto l’opposizione finora, e dall’altro lo Stato Islamico, che ha subito recenti perdite in Iraq e in Siria ma che si è dimostrato capace di infliggere ingenti sofferenze nel Sinai come a Beirut e a Parigi . “Il problema che noi siriani abbiamo con gli Stati Uniti è che subiamo da cinque anni gli attacchi con le barrel bombs (bombe imballate in grossi fusti – ndt)”, afferma uno dei giornalisti. “Quando Assad ha ucciso tanti innocenti molte persone hanno perso la speranza. Gli Stati Uniti hanno preso le armi solo dopo l’attacco chimico, quando Assad ha oltrepassato la cosiddetta ‘linea rossa’. Questo ha fatto apparire l’America bugiarda e debole.”

“Quando si dice Raqqa la prima cosa che la gente pensa è: ISIS”, ha continuato. “Dimenticano centinaia di migliaia di civili, persone normali come noi. Io non sono un terrorista. Ci sono così tante persone, persone comuni, che vogliono vivere in una Siria libera e democratica. Vogliamo ricostruire la Siria, e l’unico modo in cui possiamo farlo è attraverso la nostra organizzazione di società civile e altre simili. Nel momento in cui gli Stati Uniti e altri governi vogliono combattere l’ ISIS sui social media i loro account di Twitter sono visti solo come propaganda; ma quando la vita quotidiana viene mostrata attraverso di noi e si vede come realmente la si vive, la gente inizia a crederci. “

Parlando al di sopra del frastuono del jukebox e delle rauche conversazioni da bar del sabato sera, Hamza invita gli Americani a cercare di immaginarsi una città in cui “tanti 11 settembre continuano ad accadere mese dopo mese, anno dopo anno.” “La vita quotidiana sono gli aerei da guerra 24 ore al giorno sopra la tua testa”, racconta un altro membro. “La popolazione teme ancora di più l’idea che tutto il mondo voglia bombardare questa piccola città. La gente ha paura. La città di Kubani è stata completamente distrutta, la gente di Raqqa non vuole questo; noi amiamo la nostra città. L’Occidente dice: ‘Lasciate fuori i civili e bombardate l’ISIS.’ Ma non possono riuscirci. E ‘ come una grande prigione, le donne sotto i quarantacinque anni non possono partire senza un permesso speciale. E’ diventata un’area tribale, e le donne non possono andarsene senza gli uomini. L’ ISIS usa il popolo di Raqqa come scudo umano. “

I membri del RBSS hanno raccontato che i caccia americani hanno lanciato la maggior parte delle loro bombe su obiettivi alla periferia della città, e che il bersaglio dei loro droni sono stati i leader dell’ ISIS. Sostengono tuttavia che gli aerei russi hanno colpito un ospedale, due importanti ponti ed un’università. “Il problema che abbiamo con gli attacchi aerei (russi – ndt)”, sostiene uno di loro, “è che i loro aerei sono molto stupidi, non sono bombe intelligenti. “

Il pericolo per l’organizzazione è continuo. Quando l’ISIS arresta o giustizia un membro del RBSS – o qualcuno che credono possa essere un simpatizzante del gruppo – ne dà spettacolo sui social network. “Un video”, mi dice, “mostrava due nostri amici accusati di lavorare per noi, il che non era vero. Quelli dell’ISIS li hanno legati ad un albero e gli hanno sparato. Un secondo video mostra l’esecuzione di un altro nostro amico accusato di lavorare per noi. Lo hanno appeso ad un albero in un luogo isolato e gli hanno sparato alla testa; poi hanno fatto un video per dire che era morto ‘ silenziosamente’ (silently, come nell’acronimo del gruppo – ndt).’ Ci inviano in continuazione messaggi di questo tipo. “

Hamza riceverà a breve un premio dal Comitato di Protezione dei Giornalisti (CPJ) in nome dei suoi compagni, vivi e morti. (David Rednick fa parte parte del board del CPJ che ha organizzato questo incontro – ndA). Egli dedicherà il premio “ai nostri martiri”, agli “eroi anonimi” di questa campagna e al popolo di Raqqa. “Ognuno di noi riceve diverse minacce ogni giorno”, dice Hamza finendo il suo drink. “L’ultima contro di me proveniva da qualcuno in Germania. Il tizio ha detto che sarei stato il prossimo. Ma quando penso ai nostri reporter all’interno di Raqqa, io che sono fuori … io vivo una vita normale, facendo cose normali. In qualche modo, non mi interessa cosa ne sarà di me. Rispetto a loro, io non sto facendo nulla. “