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150 anni di Alice: Alice disorientata

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI.  (NDF)

di Licia Ambu

Un tale mi disse che risvegliandosi la mattina presto è meraviglioso trovare, almeno in complesso, tutte le cose allo stesso posto dove erano la sera […] il momento del risveglio è il più rischioso della giornata; una volta superato senza essere trascinati via dal proprio posto, si può stare tranquilli per tutto il giorno[1].

Rebecca Dautremer
Rebecca Dautremer

Alice è un frattale.

Frattale è quella figura geometrica dove un elemento ripete se stesso su scale diverse e sempre più piccole, all’infinito. Alice è un frattale del disorientamento. Alice è un frattale del sovvertimento. Una bambina senza sottrazione di possibilità,

fiduciosa, pronta ad accettare le cose più folli e impossibili con tutta quella fiducia totale che solo i sognatori conoscono; e infine, curiosa, follemente curiosa, e con l’avido godimento della Vita che viene solo nelle ore felici dell’infanzia, quando tutto è nuovo e bello.[2]

e composta da una testa, un corpo, linguaggio, nozioni e molta immaginazione. Tutti elementi che concorrono a formarne l’identità e che, cadendo nel buco, attraversano metamorfosi e mutazioni tali da fargliela perdere.

Alice che cade nel buco sognando: è proprio andare via da un’altra parte con la testa restando qui col corpo. Una fuga da fermi. Alice resta sul prato […] Quello che ti fa andare da un’altra parte con la testa è qualcosa che senti, sempre molto fisico. […] dov’è che sei tu? Nella testa o nel corpo? […] Come se il corpo richiamasse a sé la testa passando in rassegna il suo sapere per rimetterla a posto, per ritrovare un’identità: chi sono? Che ora è? Dove sono? Alice non sa più chi è. Dove ha lasciato il suo corpo e dove va con la testa?[3]

Il buco è incipit di un altrove costellato di buffe creature, un luogo basato sull’armonia universale del non senso e zeppo di roseti da ridipingere dietro cui si ordinano continuamente decapitazioni. L’immaginazione di Alice apre le danze, partendo senza riserve al seguito di un coniglio sbucato dal nulla. La sperimentazione del disorientamento ne investe tutte le parti: il suo corpo cessa di essere statico e inizia a mutare, ad allontanarsi da lei, a comprimerla, a renderla microscopica o gigante. Improvvisamente il collo si allunga talmente da farla scambiare per un serpente, e i piedi sono così lontani da farle prendere in considerazione l’idea di iniziare con loro una corrispondenza scritta. Corpo che si plasma all’evenienza esterna, ma con una regolazione senza possibili previsioni e attraverso curiosi espedienti. Una domanda di metamorfosi che serve ad appagare il desiderio ambientale: una minuscola serratura, una casa, una chiave da raggiungere. Di fronte a questo disorientamento fisico bisogna correre ai ripari, dunque la testa, come unico mezzo di salvezza, inizia a mandare a memoria le filastrocche per capire bene se le cose sono in regola. Richiamare il sapere di proprietà personale per restare ancorati, per ridefinire una realtà, per avere la certezza di non essersi persi. Si muove la testa se il corpo è fermo, si ferma la testa quasi se il corpo si muove. Ma nemmeno i versi stanno al loro posto, c’è un coniglio bianco vestito di tutto punto e Piccol’ape tutta scombinata. Le cose che Alice sapeva, e sapeva di sapere, non sono più nel posto in cui le aveva lasciate e questo può solo portare alla logica conclusione che nemmeno lei stessa si trovi più lì.

Sta a vedere che alla fin della suonata sono proprio Mabel, e mi toccherà far trasloco in quella sua baracchetta sciatta sciatta e avrò si e no uno straccio di giocattolo e, oh, quante cose che dovrò imparare daccapo! No, qui bisogna prendere una decisione: se sono Mabel non mi sposterò di un millimetro! Inutile che ficchino dentro la testa per convincermi ‘Vieni su, tesoro! Mi limiterò a guardarli dal basso in alto e dirò: ‘Ma allora chi sono? Prima me lo dite e poi, se mi andrà di essere quella persona, ritorno su, altrimenti sto qui finché non sono diventata qualcun altro… ma, oh cielo![4]

La piccola vittoriana si ritrova ad abitare un corpo senza possibile controllo, con una testa apparentemente inutile alla causa, e viceversa. Lo stesso smarrimento si gioca anche sul piano del linguaggio, stordito anche lui rispetto ai canoni. Nelle parole di questa storia, nell’impianto stesso della lingua, il suono prevale sul senso così che il significante cambia di forma, di corpo: la butterfly ha le ali fatte di burro e il racconto del topo si confonde con una coda molto lunga,

Mine is a long and a sad tale!
It is a long Tail, certainly

2. Filastrocca topo_aliceLa dilatazione del suono è un ventaglio di possibilità che disorienta il senso. La certezza del racconto, e del sapersi narrare, come risoluzione vacilla di fronte all’incertezza data dalla perdita di senso. Il linguaggio non è più collante ma diventa lui stesso una possibilità, una realtà alternativa. I segni che sono la convenzione vigente si bagnano, anzi sono immersi, nel suono e ne consegue un necessario negoziato costante per riportarli a casa, per ricalibrare le conoscenze al grado zero della propria verità.

Le parole che significavano una cosa ora ne abitano un’altra, riempite di una pertinenza diversa. Il linguaggio, forma di controllo e determinazione della realtà, strumento di definizione del sé per assonanza o differenza, è completamente mutato nella sostanza e dunque la percezione del reale tutto cambia. La struttura crolla, le parole non sono più loro, hanno altre identità. E se le parole che avevo per raccontarmi non sono più quelle, allora come mi racconto adesso? Mi racconto un’altra? Mi racconto Mabel o matta o serpente? Alice è proprio come una parola che deve rispondere a innumerevoli significati. Lei stessa diventa un suono pieno di possibilità di essere. In questo luogo dell’immaginazione non ci sono le stesse prove del mondo reale, l’immaginazione partorisce all’occorrenza le evidenze che le servono a darsi plausibilità e così la libertà può manifestare se stessa all’infinito, alimentando al contempo un proprio equilibrio.

Mi dici per piacere che strada devo prendere?
Dipende più che altro da dove vuoi andare, disse il Gatto
Non mi interessa tanto dove…, disse Alice
Allora una strada vale l’altra, disse il Gatto
…basta che arrivi da qualche parte, soggiunse Alice a mo’ di chiarimento.
Oh, questo è garantito al limone, disse il Gatto, basta che metti un piede dopo l’altro e ti fermi in tempo.

La testa ci prova. Corre sul binario della convenzione, della regola grammaticale delle rime per contenere un corpo che segue suoni che ne mutano la forma, sovvertono la sostanza e plasmano. E mentre il corpo dorme, invece, la testa gioca liberamente a credere che sia possibile, al facciamo finta che, Alice ci sta alle carte che non sono solo carte, al Cappellaio, ai funghi, alla quadriglia, al coniglio. La percezione del qui e ora rende l’esperienza infinita anche per ciò che dura un solo attimo, non c’è prospettiva evolutiva, ma una sorta di ripetizione del tè delle cinque e perciò il luogo in cui sei esiste nel momento in cui lo concepisci possibile, lo inventi, lo senti, lo leggi,

Perché io ho la dimensione di ciò che vedo
E non la dimensione della mia altezza.[5]

3. tenniel_alice
John Tenniel

Ma è anche una signorina centrata, Alice. Il suo disorientamento pare conoscere bene la differenza tra la realtà e l’immaginazione qualche volta, sa quando accettare che un mazzo di carte può sì ridipingere delle rose e giocare a croquet, senza scordare del tutto che resta sempre un mazzo di carte quando si perde la pazienza. Il gioco è bello ma poi deve anche finire a un dato momento.

Alice non si può far altro che seguirla, non si può fissare mai perché è mutazione, movimento costante. Il disorientamento è chiave, bottiglietta, risveglio, unico modo per cadere come si deve. Dietro un coniglio che è una serendipità continua, si snoda il viaggio di un’eroina che esiste per noi come una carta, o come una bimba, o come una storia in cui ci piace cercarci.

Il buco di Alice non è mai dove pensi che sia. Un buco stabile, che sai già dov’è, è solo spettacolo, finzione teatrale o turistica. Le strategie di controllo ti propongono buchi stabili che sono li per portarti lontano. Ma la questione sta nell’avvenimento che ti passa vicino; non ti accorgi neanche che sta per succedere, poi succede, allora lo vivi o niente. Inutile stare a fare la critica dell’avvenimento; e non puoi neanche tenerlo come modello una volta che l’hai vissuto. Per questo il buco di Alice non è un modello, è soltanto un movimento di caduta. Alice che cade nel buco sognando: è proprio andare via da un’altra parte con la testa restando qui col corpo. Una fuga da fermi.[6]

Alors, qu’est-ce que t’as fait?
 J’ai vieilli[7]

[1] Franz Kafka, Il processo, Mondadori, 1980.

[2] Lewis Carroll, Alice on the stage, The Theatre, Aprile 1887.

[3] Gianni Celati (a cura di), Alice Disambientata, L’erba voglio, 1978.

[4] Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Feltrinelli, 2005, testo originale a fronte, trad. it di Aldo Busi.

[5] Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, 2001.

[6] Gianni Celati (a cura di), Alice Disambientata, edizioni L’erba voglio, 1978.

[7] Raymond Queneau, Zazie dans le métro, Gallimard, 1959.

L’Europa dei popoli: con Arci a sostegno della Grecia

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L’Arci promuove questa campagna per sostenere concretamente il popolo greco. Tra le moltissime cose scritte in queste settimane intorno all’Europa e alla Grecia, da soggetti più o meno autorevoli fino alle chiacchiere dei social, un piccolo gesto reale è ancora la voce più forte, un modo per ricordarci che i greci esistono, noi esistiamo e non siamo soli. Quindi, doniamo.

arcigrecia

In questi giorni è stata scritta una pagina buia della storia del nostro continente. Non riguarda solo la Grecia, riguarda tutti e tutte.

L’Europa che vogliamo non umilia i popoli, non affama le persone, non mette le banche prima della dignità, non sostituisce la forza del potere alla democrazia.

Non vogliamo morire di austerità. Chiediamo a tutti e tutte un gesto concreto. Con generosità e convinzione, come gesto politico di resistenza alla guerra contro i diritti e la democrazia che è in atto in Europa.

Per questo chiediamo un gesto concreto, un modo per stare dalla parte giusta. Dalla parte della nostra Europa, che è fatta di giustizia sociale, di diritti, di partecipazione, di solidarietà.

Sosteniamo con una donazione i centri di solidarietà sociale in Grecia.

Sono più di quattrocento, sono tutti gestiti da volontari e dagli stessi utenti.

Sono ambulatori e farmacie sociali, mense e ristoranti sociali, botteghe alimentari a costo zero, doposcuola, scuole di musica e di informatica, corsi di lingua, centri di assistenza legale, filiere di distribuzione alimentare senza intermediari, spazi di economia sociale, strutture di sostegno per chi ha perso la casa, è senza lavoro o è sommerso dai debiti. Sostengono greci, immigrati, richiedenti asilo.

Affrontano da anni collettivamente le conseguenze disastrose dell’austerità. Le persone si aiutano a sopravvivere e a difendere la dignità umana. Dalla solidarietà fanno rinascere la speranza. Trasformano la frustrazione in partecipazione e autogestione, generano mobilitazione e resistenza popolare.

L’Arci, che è nata dal mutuo soccorso italiano, e con i suoi cinquemila circoli è al servizio della partecipazione popolare, sta dalla loro parte. Facciamo appello ai nostri soci e socie, a tutte le persone e alle comunità di fare altrettanto, subito.

Con generosità e convinzione, come gesto politico di resistenza alla guerra contro i diritti e la democrazia che è in atto in Europa. Iniziamo con una raccolta di fondi straordinaria.  

D’accordo con Solidarity for All, struttura di servizio a 400 centri di solidarietà in Grecia (www.solidarity4all.gr),  i fondi raccolti saranno destinati a sostenere: un ambulatorio sociale, un centro culturale, una struttura per l’infanzia e un centro di prima accoglienza per immigrati e richiedenti asilo, con i quali si costruiranno nelle prossime settimane i primi gemellaggi con comitati e circoli dell’Arci.

Per effettuare le donazioni:

  • Banca: BANCA POPOLARE ETICA
  • BIC: CCRTIT2T84A
  • Conto: ASSOCIAZIONE ARCI ~ IT36A0501803200000000000041
  • Causale: solidarietà con la Grecia

La campagna sulla pagina di Arci Nazionale.

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Di seguito alcuni articoli interessanti usciti in questo periodo.

Alessandro Gilioli su L’Espresso: L’impossibile violenza dell’eterno presente

L’intervista a Jürgen Habermas su The Guardian. Ripresa in parte da Repubblica

Alexis Tsipras: eroe, traditore, eroe, traditore, eroe di Alex Androu

Cracks in the Deal? – Jacobin   di Stathis Kouvelakis, membro del comitato centrale di Syriza, esponente della “piattaforma di sinistra” del partito. Insegna teoria politica al King’s College di Londra.

Grèce : de l’absurde au tragique – Contretemps  di Stathis Kouvelakis sul dopo referendum.

L’alternative à l’austérité – Contretemps testo presentato dalla piattaforma di sinistra di Syriza durante l’assemblea del gruppo parlamentare del partito il 10 luglio 2015.

Greece: The Struggle Continues – Jacobin intervista di Kouvelakis (realizzata da S. Budgen) sull’accordo raggiunto dal governo greco con l’Eurogruppo.

Costas Lapavitsas su Grexit – Contretemps Il testo è la trascrizione (in francese) dell’intervento di Lapavitsas (deputato di Syriza, esponente della piattaforma di sinistra, e professore di economia alla SOAS di Londra) alla conferenza “Democracy Rising”  (Atene, 17 luglio 2015)

L’avenir-commence-maintenant – Contretemps  di Panagiotis Sotiris, membro della direzione di Antarsya, coalizione della sinistra antagonista greca. Insegna presso l’Università dell’Egeo. Sulla capitolazione di Syriza dopo il referendum.

Tsitsovic: «Prima che ci buttino fuori, meglio dire no con orgoglio» – Il manifesto  Intervista di A. Mastrandrea a Tonia Tsitsovic (Syriza) che solleva delle obiezioni rispetto alla sostenibilità dell’accordo con l’Eurogruppo.

Germany won’t spare Greek pain – it has an interest in breaking us – Guardian  Articolo di Varoufakis dopo le dimissioni dall’incarico di ministro delle finanze, in cui analizza le fasi della crisi greca dal 2010 ad oggi.
Why I voted No – Varoufakis.eu (e la versione italiana) L’ex ministro spiega le ragioni della sua decisione rispetto al primo pacchetto di misure salvaGrecia sottoposto dal governo Tsipras al voto il 22 luglio.

Perché ho votato Sì – Varoufakis spiega perché ha votato il secondo pacchetto di riforme il 23 luglio.

Varoufakis and Elster, place your bets… Versobooks.com Una discussione tra Varoufakis e il filosofo John Elster sulla crisi greca alla luce della teoria dei giochi.

The End of Europe – Jacobin di Cédric Durand, sugli effetti della crisi greca a livello europeo.

 

SENTIERI PARTIGIANI SUL MONTE GRAPPA (quattro testi sul dubbio della memoria)

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di Giovanna Frene

 I. BRONZO DI AUGUSTO MURER

monumento ai denti digrignati, che non sono tutti uguali: ci sono
denti più digrignati di altri, la lirica di massa, informe, poltiglia:

 

denti paterni e superiori VS denti figliali e inferiori
denti allineati e solari VS denti aspri e intricati
– e non hanno identica Patria, o non sono per la Patria uguali denti?

 

a morsi, a frammenti mai ricomposti il basso striscia proteso in alto
legato sopra la porta stretta, estrema retta di coraggio,
retta anche la posta in gioco – sì, ma a quale tavolo?
non si ricorda una memoria, che è così con-divisa

 

anche così si rimuore e solamente
ma anche così il morire è sotto sotto
solo un morire

 

 

*
Morire per la Patria è sempre morire

*
“(…) e che il verdetto
non si misura allora
a peso di parole (…)”
(L. Cecchinel, Le voci di Bardiaga)

*
“Furono mandati a Mussolini centinaia di telegrammi, lettere, poesie da ogni parte del Reich”
(B. Mussolini, Storia di un anno)

 

 

 

II. A COLUI CHE PER PRIMO USCÌ, FERITO, DALLA GALLERIA DI FAMIGLIA

inizia da qui la fine del sentiero, con un colpo di fucile, ma a fine gara:
per il primo che esce dalla galleria un premio eterno, la lapide
invece è temporale, all’imbocco del tunnel sul Monte Frontal

…cambiarla, e non c’è occhio che non guardi più la tua vita, colpito busto:
una condanna verosimile seppellita come la bottiglia di un naufrago
sgomento di fronte all’effettivo costo di disvelare questa verità

che spesso è colpita anche nell’immagine, nella forra, in fondo
anche col segno è giusto perseguire ogni nero di qualcosa, tra fibbie
d’argento e orbite più scure della stoffa, che non ha mutato colore: non può

esistere pietà per tutti i morti perché uccisi
anche se il morire è solo il morire
le colpe strattonano solo i piedi colpevoli

 

[in memoria di Aldo Torresan , 19 anni . scrivo il tuo nome per ricordare il tuo essere]

[…]

 

 

Note per la lettura

 

L’anno del Centenario dell’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale è anche l’anno del Settantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, di cui la Resistenza rappresenta il nucleo etico indissolubile. Personalmente, ho riscoperto nel Monte Grappa il luogo dove i due elementi si fondono in una testimonianza inscindibile, e tuttavia per alcuni versi non riconosciuta come tale: il Massiccio che vide una parte della resistenza dell’esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto, tra il 1917 e il 1918, fu teatro pochi decenni dopo del feroce rastrellamento nazifascista (settembre 1944), che culminò nell’aberrante impiccagione collettiva di Bassano del Grappa. I partigiani rifugiati sul Grappa (circa 1200 persone), che dovettero fronteggiare l’attacco di circa 8000 nazifascisti, erano sorretti dalla speranza che, come i loro padri non avevano ceduto all’urto degli eserciti tedesco e austro-ungarico durante la Grande Guerra, così sarebbe stato anche per loro. Naturalmente, nel giro di due giorni ogni resistenza venne sbaragliata, molti partigiani vennero uccisi sul posto o catturati, alcuni riuscirono a fuggire. […] Sulla sommità del Monte Grappa, per volontà di Mussolini negli anni del fascismo venne costruito un celebre ossario a forma circolare; più in basso, rigorosamente fuori dell’area sacra, venne inaugurato nel 1974, per volere dell’onorevole Gino Sartor, il “Monumento al Partigiano e alla Resistenza”, con una scultura di Augusto Murer, e su ideazione, tra gli altri, di Andrea Zanzotto. La piccola galleria sul Monte Frontal, davanti alla quale venne ucciso il partigiano Aldo Torresan – il quale, uscito per primo dalla galleria una volta che i nazifascisti vi avevano gettato una bomba a mano, venne raggiunto da una fucilata in pieno petto ­–, a Crespano del Grappa, si trova su un appezzamento boschivo di proprietà di mio padre; la vidi per la prima volta nella mia infanzia.  […]

 

 

 

–––––––––––––––

 

 

 

** La serie completa delle poesie è in corso di pubblicazione nella rivista Le Voci della Luna. Quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica, n.62, in uscita il 25 luglio 2015. Qui di seguito un estratto dall’editoriale.

 

 

L’arte è utile? La cultura può cambiare il mondo? La poesia serve?

Partire dagli interrogativi alla maniera di Jaar.

Marinella Polidori

 

“È responsabilità del poeta essere donna tenere d’occhio
il mondo e gridare come Cassandra, ma per essere
ascoltato questa volta.”

Grace Paley

 

Una realtà costellata di battenti chiusi la nostra, come nell’illustrazione di copertina; battenti dietro ai quali si intravedono i mille occhi dell’ostinazione più cieca, del giudizio aprioristico, del pre.giudizio appunto. Atteggiamento mentale non ascrivibile soltanto, come spesso si è portati a pensare, a situazioni culturalmente svantaggiate, arretrate, ma diffuso in larga parte in tutti gli ambienti, tanto che rintracciare sguardi curiosi e coraggiosi è impresa ardua anche nel nostro settore, dove capita che lo sguardo arrivi solo poco più in là della propria formazione, delle frequentazioni, poco più in là di orizzonti amici o amici di amici.

E’ l’atto dell’aprire che darebbe invece inizio al cambiamento, favorendo il contatto con l’esterno e ridimensionando quel microcosmo di certezze che mai abbiamo vagliato […].

L’arte migliore, l’arte che serve, in questo senso è allora quella che favorisce questo tipo di apertura e che partecipa, agendo, a quel faticoso e lento processo che chiamiamo cambiamento culturale, quel processo, appunto, che “cambia il mondo una persona alla volta” come afferma Alfredo Jaar. Proprio in riferimento agli interrogativi che questo artista politico si pone, abbiamo indirizzato le nostra piccola mappatura di buone pratiche, di pratiche artistiche utili, iniziando dalla scelta di una cornice iconografica significativa nella quale inserire altri esempi di arte, vorremmo azzardarci a dire, politica.

L’opera raffigurata in copertina è tratta da “Munnizza”, rielaborazione creativa di un’esperienza vissuta da tre artisti, Licio Esposito, Andrea Satta e Marta dal Prato, in una Cinisi invasa da giovani per il concerto omaggio dei Têtes de Bois nel giorno del trentesimo anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato. […]

Questo tipo di arte è indiscutibilmente utile e serve, non ce ne voglia Baudelaire, perché apre al cambiamento, favorisce la diffusione di una cultura in grado di sbrigliare la nostra umanità, di scuoterci dal torpore come direbbe Bachmann, perché alza la voce, “suona un campanello d’allarme” (Vezzali in questo numero), e non ci lascia “parziali” tra la vita e la morte, corresponsabili di un mondo buzzianamente di mezzo.

Ma i poeti, ugualmente, possono qualcosa per mettere alla luce questa dissociazione etica che si è attuata tra il dire ed il fare, per sminuire il valore assolutorio dell’indignazione?

Noi pensiamo di si.

Servono però strumenti e processi utili alla disautomatizzazione della parola, utili a riattivarne la sensitività nella sfera della comunicazione, come ricorda Franco (Bifo) Berardi. La poesia è utile e allora serve, se restituisce la parola alla sua funzione pienamente espressiva, comunicativa, se la libera da quella speculazione “informativa” che l’ha gonfiata a dismisura, se la sottrae a quella bolla semantica che ne ha svalutato l’unico valore reale, il valore di scambio, di comunicazione appunto.

E’ utile quella poesia che non segue i tempi svelti della produzione, che non si “festivizza” nel dopo lavoro, che non si consuma come qualsiasi spettacolo ma che sa progettare a lunga scadenza, un impegno in progress, una poesia che sa riappropriarsi di una funzione sociale, traducendo valori, necessità e denunce, entro un sistema simbolico fàtico, misurabile nella sua efficacia “retorica”,  nella sua capacità di dire “a” e “per” gli altri, restituendo al più forte tra i leganti sociale, la lingua, il suo reale valore d’uso. E’ utile quella poesia che aiuta il rinnovamento dei mezzi di comunicazione e diffusione, che sperimenta strade di scrittura collettiva, editoria autoprodotta, indipendente, coerenti con quella visione antiliberista che i più dichiarano di professare, a parole. […]

Arte “espansa, diffusa”, plurilogica, plurilinguistica, collettiva, fors’anche anonima; poesia che si fa laboratorio creativo partecipato […].

 

 

Frau Sahra Wagenknecht, la rossa

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di Antonio Sparzani

Sahra Wagenknecht (Jena 1969 –) vicepresidente di Die Linke, partito della sinistra tedesco
Angela Dorothea Merkel, nata Kasner (Hamburg 1954 –) cancelliera federale tedesca

i poeti appartati: Antonio D’Agostino

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di vilio
Immagine di Salvatore Di Vilio

 

Essendo il dentro un fuori infinito #6

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The morning comes to consciousness
Of faint stale smells of beer
From the sawdust-trampled street
With all its muddy feet that press
To early coffee-stands

T. S. Eliot

Amel canta gli orologi della casa, chiude le porte nei ritorni, si affaccia all’ora di preghiera : rivolto al sole, o forse l’opposto, Amel grida pianto, tace un piano, pianifica gli eventi. Nella casa delle quattro porte vivono otto maledetti : un incendiario, un collezionista, un portatore di niente, un arbusto alto due metri, il piccolo rifugiato con tre donne nella tasca, la donna con gli occhi di civetta, il ragazzo che si ferma come un sasso, un animale impazzito, femmina.

Il sasso dice: sai cosa significa non muovere un dito? cosa significa fermare il tempo? cosa significa l’immobilità dei muscoli? uno scheletro, lo sguardo fisso dei monaci? e non c’è fame, e non mi accorgo, e non c’è mondo. 

Ma Amel non ascolta nessuno, ha chiuso i pori per proteggersi dall’osceno, chiude nella dispensa la sua testa di coniglio. Ha il collo più lungo della testa, spinge il cranio in avanti, i muscoli degli occhi all’infinto. Dalla porta ad ovest fuoriescono litri di sangue e vomito, scarti di presente : tutto s’inonda, tappano la tazza con una scritta : non toccare, non aprire, non sedersi.

Amel ha la sua tazzina di caffé, il pollo con la testa insanguinata tagliata a mano, la testa come un pollo insanguinato.

Dice : sposerò una donna e canterà al mattino.

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I galli preparano l’estate come ogni mercoledì. Si assegnano i turni della morte, una piccola roulette, le macchinette del caffé che infiammano : sai cosa significa inondare? cosa significa pensare ad un morto e non pensare? cosa significa non pensare, cosa portare il vuoto, in grembo, un vuoto. Cosa significa una lettera a un mondo, e il mondo è un gruppo di cavalli imbizzarriti, e lo insegui e non lo corri e non lo segui e non fa mondo. Sai cosa significa infiammare? Il mio tempo è morto. Ho un corpo che mi frena e mi addormenta : puoi vedermi? Puoi sentirmi? Sai cosa significa inondare?

Amel spacca i sassi, confonde il buio con l’autunno. Vive di notte, alza il braccio ondeggiando la pasta molle, la matrice di un nutrimento. Amel mi sposa sul terrazzo degli ossicini, mi salva dalla madria imbizzarrita, dalle bave un po’ sudicie un po’ niente, un po’ suicide.

***

Nella casa delle quattro porte viviamo in otto maledetti. Un incendiario, un collezionista, un portatore di niente, un arbusto alto due metri, il rifugiato con il naso di un bambino, il ragazzo che si ferma, Amel che sposa e risposa e risposa, la donna con gli occhi di vetro – e io occupo l’ottavo.
Un letto, una risorsa, il fumo, la nebbiolina, il vomito che esce dalle latrine, la finestra, l’orticello per i vermi, un allarme.

Sai cosa significa annegare? cosa significa non dire più niente, non mangiare, non vestire, non crepare, non morire, non fare niente, non dire niente, non essere che un sasso, non essere la terra, non essere ferito, non ferire il non ferito, non forgiare, non parlare, non mangiare, non vestire, non crepare, non fare niente, non dire niente.
Sai cosa significa inceppare? Cosa significa un disco rotto, un sottofondo senza fondo, un macabro ritorno dell’uguale, un non uguale, un non diverso, un non parlare, non mangiare, non più niente, non vestire, non crepare, non morire, fare della crepa una miseria, non dire niente. Essere quel niente.

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Amel chiama quattro volte i vigili, i fucili, i caschi rossi, blu, verdi della notte, mi siede, mi sposa, mi chiama. Dalla porta serrata continua ad uscire la melma, come liquido di mare e petrolio : l’indicibile non è una parola : è un tanfo solido che ci appartiene, che scivola la notte da stipiti e grondaie, che è vomito e sangue e un po’ di sperma. Un odore che fredda le narici, che gonfia il ventre come un cane quando è morto.

Sai cosa significa morire? cosa significa l’orecchio che non sente, il battito dello strumento che non batte, cosa significa guardare il vuoto, per sempre, vuoto sempre vuoto, cosa significa non crepare, non morire, fare dell’occhio un bersaglio, non colpire, non maneggiare, con cura non curare, non sentire, non poter morire, cosa significa saltare e non saltare. Essere un pezzo di niente, quel tanfo che ci fa orrore. Cosa significa non morire, dormire non dormendo, non dormire, non parlare, non cadere.

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Mi chiedi di non ascoltare, di tapparmi le orecchie, di bloccare con la cera gli ingressi non voluti. Ma ho un pozzo nell’esofago che si prende cura dell’incurabile :  ho un posto scuro che non può non dire.

Mr. Mercedes

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di Gianni Biondillo

Stephen King, Mr. Mercedes, Sperling & Kupfer, 2014, trad. Giovanni Arduino

Una mercedes grigia sfreccia all’alba, in una cittadina duramente colpita dalla crisi, e falcia la vita di decine di persone. Il criminale, mascherato da pagliaccio, fugge, non c’è modo di scoprire chi sia. Willian Hodges, detective a un passo dalla pensione, non riesce a risolvere il caso. Un anno appresso, abbrutito davanti alla televisione, il vecchio poliziotto a riposo riceve una lettera beffarda dal killer. Una sfida.

Da qui si dipanerà la storia raccontata in questo thriller che non si risparmia colpi di scena, agnizioni, ironie beffarde del destino, omicidi efferati. Come è ovvio immaginare Hodges accetta la sfida, tenendola segreta ai suoi ex colleghi di dipartimento e facendosi aiutare da un ragazzo geniale e da una donna che alla sua età mai avrebbe immaginato di incontrare.

Stephen King, in Mr. Mecedes, non disdegna l’idea di lavorare su una storia che è stata raccontata più e più volte. La sua grandezza sta nella capacità di raccontare un poliziesco senza negare nessuno dei suoi classici cliché ma sapendoli trasformare in veri e propri topoi letterari. Il lettore smaliziato sa cosa si deve aspettare, eppure lo attende con trasporto perché la scrittura di King riesce ad evocarlo come in una seduta spiritica. Spesso con autoironia, quando cita se stesso e i suoi incubi dei romanzi più famosi.

L’opinione comune crede che la peculiarità di King stia nella capacità di creare trame mozzafiato, che “ti incollano alla pagina”. Non è così. Quelle trame ormai le sanno fare tutti. La differenza che lo rende unico sta nella sua capacità di entrare empaticamente nelle vite dei suoi protagonisti. Compreso quelli che vivono nel buio. Un vero autore di romanzi psicologici, altro che di thriller!

(pubblicato precedentemente su Cooperazione, n° 51, 16 dicembre 2014)

L’importanza di essere piccoli. Quinta edizione, 3 -6 agosto 2015

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l'importanza-di-essere-piccLa poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.
P. Celan, Microliti, ed. Zandonai

 

PROGRAMMA

Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si svolgono a partire dalle ore 21:00

 Lunedì 3 agosto, ospiti dell’affascinante castello neogotico Manservisi di Castelluccio (Porretta Terme) dentro un grande parco con alberi secolari e che si estende fino al Museo Laborantes, il più grande Museo etnografico della montagna bolognese, due “regine” del panorama cantautorale e poetico nazionale, Cristina Donà e Elisa Biagini,  condivideranno per la prima volta il palco regalando al pubblico una raffinata serata tutta al femminile. Con la sua “parola verticale”, sfrondata da ogni elemento ridondate, e per questo motivo ancor più incisiva e limpida, la poetessa fiorentina annoderà i suoi versi con l’eco e il respiro delle voci di Paul Celan e Emily Dickinson. Un dialogo elettivo e sentimentale composto da versi taglienti affacciati “ai bordi” della vita e sempre tesi verso l’altro da sé. Dopo l’ascolto della poesia sarà la volta del live acustico di Cristina Donà, uno dei talenti più cristallini e influenti emersi alla fine del millennio dalla nuova scena milanese e poi decollata, grazie al suo talento vocale e al valore poetico dei suoi testi, verso un successo internazionale. Per L’importanza di essere piccoli sarà accompagnata dal compositore, arrangiatore multistrumentista Saverio Lanza, anche produttore dell’ultimo album Così vicini, un disco delicato e potente composto da canzoni intime e “vicine”, adatte a una condivisione ravvicinata e più intima.

Nei giorni del festival nascono dei legami che durante l’anno continuano a crescere e a ramificarsi, per questo motivo martedì 4 agosto saranno di nuovo gli ampi e assolati campi del circolo culturale ippico Scaialbengo di Castel di Casio ad ospitare Francesco Di Bella e Guido Catalano. Il clima gioviale e semplice dell’associazione che fa vivere allo stato brado i suoi cavalli, ben si addice con l’entropia di Guido Catalano tra i poeti più irriverenti, odiati-amati e letti degli ultimi anni. Le ultime due raccolte di poesie,Ti amo ma posso spiegarti e Piuttosto che morire m’ammazzo edite da Miraggi Edizioni, hanno venduto circa 18.000 copie e la sua fan page è seguita da quasi 20.000 persone. «Le poesie che fanno ridere di cuore e di pancia, e i reading  memorabili lo confermano come uno degli autori che riesce di più ai coinvolgere il pubblico.» Se Catalano il rock l’ha portato tra i suoi versi,  Francesco Di Bella, nel suo progressivo allontanamento dai 24 Grana, gruppo che assieme a 99 Posse e Almamegretta ha rappresentato il meglio della scena musicale napoletana negli anni ’90, si è invece ritirato dai ritmi punk elettronici della band in una dimensione più intima dedicandosi alla composizione pura. La sua voce appassionata e dolente chiuderà la serata attraverso un viaggio nella Napoli settecentesca in cui, tra gioielli sconosciuti scoperti in decine di vinili-capolavoro, confluiranno, anche dei brani  più famosi dei 24 Grana. Nasce così  Francesco Di Bella & Ballads Cafè che accompagnerà gli spettatori nel centro della notte, con le sue canzoni ipnotiche dal suono corposo e inebriante.

Vivere il margine non solo geograficamente ma anche nell’uso di lingue smarrite e in disuso, sono tra i temi cari al festival che quest’anno focalizza la sua attenzione sulla poesia dialettale ospitando tre autori che  attraverso questa lingua “povera” riescono a raccontare in modo autentico la vita. Mercoledì 5 il poeta veneto Longega e la romagnola Teodorani daranno vita a una lettura incentrata sulla musicalità della parola  nel borgo di Castagno di Piteccio, data che conferma  la volontà del comune di Pistoia,  partner del festival  dal 2014, di rafforzare il legame tra Toscana e Emilia Romagna. La chiarezza e schiettezza dei versi di Annalisa  Teodorani,  paragonata ad «un meteorite precipitato sul parterre della poesia italiana», ricordano quelli di Tonino Guerra, di cui è da molti considerata erede. Dalla pastosità “amabile” della lingua di Santarcangelo all’ariosità del veneto di Andrea Longega, un autore che fila e tesse le parole con la cura dei lavori artigianali, un mestiere che richiede tempo e pazienza e che riconduce il lettore a una giusta dimensione, più piccola e malinconica. Primo lustro è il suo libro più recente, da poco uscito per Nervi Edizioni, casa editrice di Fabio Donalisio, Francesco Targhetta e Marco Scarpa, che presenteranno proprio in questa serata il loro progetto editoriale. La tiratura di ogni volumetto è di cento copie, ognuna caratterizzata da una attenta lavorazione, curata nella scelta dei titoli e nell’estetica dei formati.  «L’idea di tornare a fare libri partendo da scelte semplici ma consapevoli: un’impaginazione elegante, la scelta di un carattere ben leggibile e piacevole alla vista, e una cura nell’assemblare tutto questo» sono, dalle parole degli editori, il valore di questo progetto. Una poetica aderente a quella del festival che quest’anno ha deciso di ospitare la casa editrice dando visibilità a un mestiere nobile e antico. La serata si concluderà con il live acustico di Roberto Dellera, bassista degli Afterhours, un originale folletto, vintage e psichedelico, che si muove attraverso epoche e stili con brillante disinvoltura.» Dopo il sorprendente debutto da solista, Colonna sonora originale (2012),  Dellera ritorna con il secondo albulm Stare bene è pericoloso, un disco di rock’n’roll e, in quanto tale, contiene vari elementi: dal pop al rock, dalla psichedelia, al folk e al jazz ma soprattutto lo spirito della musica popolare moderna.

Per l’ultimo  appuntamento di giovedì 6 agosto si salirà verso uno dei luoghi più antichi dell’Appennino, l’antica pieve romanica della Rocca di Roffeno, nel comprensorio del comune di Vergato. Un piccolo curatissimo borgo immerso nel silenzio, tra ortensie e gerani, in grado di incantare con la semplice e robusta architettura tipica della montagna. L’Abbazia, sorta nel X secolo per dare ristoro ai viandanti, ospiterà la lettura  del terzo poeta dialettale Emilio Rentocchini, di Sassuolo (Modena); di lui sulle pagine del Corriere della Sera Giovanni Giudici  ha scritto: «Rentocchini ci offre nella sua ricca tematica un dono di poesia antica e nuova: il coraggio della malinconia; la vanità delle imprese umane».  Dialetto in forma di sonetti che rivelano una  grande tecnica allacciata a una profonda ricerca dentro l’animo umano, approfondimento che rivela una moralità  che si manifesta dentro la materialità delle cose. E se Rentocchini è stato anche  definito “un virtuoso della musica per parole”, sarà il cantautorato  di alta qualità a concludere il festival con l’omaggio ai grandi autori e compositori italiani interpretati da DiodatoA Ritrovar Bellezza è il disco con cui Diodato omaggia quegli artisti che con le loro opere, a cavallo degli anni ’60, hanno reso grande la musica italiana nel mondo. Come Diodato stesso racconta “Queste canzoni ci appartengono, ancora ci raccontanoe sono in grado di ricordarci di quanta forza e bellezza siamo ancora capaci.” La voce intensa e le originali riletture di ‘grandi classici’, oltre al talento dimostrato nelle composizioni originali, hanno portato Diodato all’attenzione nazionale prima grazie al successo ottenuto al 64esimo Festival di Sanremo e quindi attraverso la costante presenza nelle puntate domenicali della scorsa stagione di “Che Fuori Tempo Che Fa”, parte conclusiva del programma di Fabio Fazio in onda su Rai 3.

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Anche quest’anno poi il festival presenterà una serie di creazioni originali e uniche da parte di vari artisti e artigiani che hanno realizzato opere specifiche per l’evento. Borse in lino e cotone cucite a mano, abbinate a una chiocciolina di stoffa imbottita che riprende il tema dell’immagine di questa V edizione sono la proposta di Carohandmade, una creativa della provincia di Livorno che ha preparato una serie ridottissima di questi oggetti unici il cui acquisto darà una parte dei proventi a sostegno del festival. Ritroveremo poi i ‘miniquadri’ di Cifone, al secolo Simone De Berardinis, di cui il fumettista Maicol Rocchetti (il noto autore degli ‘Scarabocchi animati’ di maicol&mirko) ha detto “Cifone è uno dei più grandi artisti che mi è capitato di conoscere. La potenza dei suoi disegni, dei suoi modellini di cartone e delle sue foto ricordo è devastante. Cifone riesce a stupirmi da ormai trent’anni. Le sue cose sono sempre vere, giuste, entusiasmanti, commoventi. Soprattutto non sono mai una truffa”. Saranno presenti poi i taccuini cuciti a mano della ditta artigiana 13sedicesimi di Torino, che pensa, disegna, stampa e rilega meravigliosi quaderni che per il festival riportano in copertina alcuni versi di Amelia Rosselli, tratti dal poemetto ‘La libellula, panegirico della libertà’. Gli stessi versi, ovvero: “Io non so cosa voglio, tu non sai/ chi sei, e siamo quasi pari” sono impressi su una serie di magliette realizzate dalla ditta Macron di Crespellano (BO) su generoso dono dell’Hotel Helvetia Thermal Spa di Porretta Terme.  Verranno inoltre presentati inoltre alcuni esemplari di poster d’arte numerati, pezzi unici realizzati appositamente secondo le antiche modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d’arte bolognese Anonima Impressori. Tutti questi specialissimi piccoli grandi oggetti verranno proposti al pubblico in una raccolta fondi a sostegno delle attività del festival.

Ad arricchire la rassegna saranno presenti i due bookshop della libreria “L’ Arcobaleno” di Porretta e de “LO SPAZIO di via dell’ospizio” di Pistoia.

 

INFO

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ufficio stampa SassiScritti: Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

Nancy, Tonya

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delahaye | tatiana-grigorenko-missing-link-EPF-Finalist-e1358169891830di Federico Pevere

Nancy ha gli occhi luminosi ed è la campionessa annunciata. Tonya è la perdente destinata. Entrambe danzano sul ghiaccio. Jeff è il marito di Tonya e ha un’idea. Shane è l’esecutore materiale di quell’idea, o meglio, di quella bastonata. Shawn è la guardia del corpo di Tonya e ha una visione invidiabile di tutto ciò.

da “album”, da “taccuino”

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Estación_de_Antropoides_de_Tenerife._Fotografía_Asociación_Wolfgang_Köhler.  di Claudio Salvi

mi raccontate di quella notte che un cervo vi è saltato davanti. l’avete abbattuto ma quando siete scesi—lei si era aggrappata al sedile—il cervo era andato via. per fortuna, avete detto, non ci siamo fatti niente. ma quell’animale è morto, hai aggiunto. come ogni volta avete affrontato la salita e siete saltati giù tremanti al cancello. una lampadina illuminava le begonie. da allora, passando sulla strada gridate, qui abbiamo ucciso un cervo. noi facciamo silenzio. potete credere che non lo sappiamo. ma ormai, credetemi, lo sanno tutti.

 

 

domenica.

lassù cambiano di posto al mobilio.

che modo di impiegare il tempo.

di fronte pende una gabbia.

adesso in giardino è buio. 

News Town #2

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home page NT

[Continua la ricognizione su l’Aquila, città di frontiera, cominciata qui e continuata qui.]

 

di Alessandro Chiappanuvoli

 

Cominciai a sentirne parlare da Mattia, uno dei fondatori, con cui vivevo insieme all’epoca. Mi disse che stavano cercando di mettere su un giornale, e aggiunse poco altro sullo stato dell’informazione in città, sulla necessità di fare qualcosa a riguardo. Io rincarai la dose sostenendo che i media locali fin dai primi giorni dopo il terremoto sono stati troppo passivi, decisamente poco critici su quanto avveniva. Dopo un anno e mezzo, quel proposito era online: NewsTown – le notizie dalla città che cambia, il nome del quotidiano, la pagina web a incidenza rossa, nera e grigia e il logo formato da una N e una T con un braccio di gru nel mezzo che sposta un pezzo della N.

Prima del 6 aprile 2009, tre o quattro erano le testate giornalistiche in città, nei mesi successivi invece sono proliferate, tra quotidiani online, redazioni televisive, free-press; senza contare i numerosi blog che, a diverso carattere, hanno provato a testimoniare. È stata un’onda, spinta dal desiderio di raccontare, dal bisogno di dare un senso a quel che accadeva, e mista al sano spirito d’iniziativa o al più becero opportunismo.

Braccia rubate (al cinema) – atto I

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BRACCIA RUBATE LOCANDINA_BY Irma Vecchiog

 

Presentando il mio ultimo romanzo («L’età definitiva», Liberaria Edizioni: https://www.youtube.com/watch?v=6xHNTfCLcBI) mi capita spesso che mi chiedano quale sia la differenza tra scrivere un libro e realizzare un film. Io rispondo sempre, più o meno, con le stesse parole, ovvero dicendo che entrambe le pratiche nascono dalla medesima urgenza, che è quella di costruire mondi in cui vivano personaggi in un dato spazio/tempo, seppur ogni linguaggio abbia codici propri e tecniche specifiche. E ogni volta che rispondo in modo così saggio e banale, mi viene voglia, invece, di urlare un’altra verità, di ammettere cioé che non è così, che non si tratta della stessa urgenza, ma che la scrittura è una pratica solitaria, in qualche modo alienante e nostalgica, che ci ripara e ci esclude dal mondo (così come la lettura), mentre fare cinema (o guardare un film), al contrario, ci concilia col mondo, nasce dal desiderio di prendere parte, di emozionarsi nel presente. Ma una volta espressa, questa idea così perentoria, vorrei ritrattarla. Per uscire da questa impasse, mi sono confrontato con alcuni amici cineasti, chiedendo loro quale rapporto abbiano con la letteratura, se scrivano perché la scrittura è, in fondo, un modo di fare cinema « no budget »  o se siano mossi da altre necessità. E loro mi hanno risposto inviandomi dei racconti inediti, bozze (di sceneggiature e di soggetti) rimaste o destinate allo « stato  letterario», che ho deciso di pubblicare  su Nazione Indiana, dedicando la rubrica Braccia rubate (al cinema) agli amici miei, al bisogno disperato di stare al mondo e di evaderne al tempo stesso, di vivere e di guardarsi vivere.

Ecco il primo racconto della rubrica, corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa). Le prime braccia rubate sono quelle di Edoardo Morabito con la sua storia alcolica di giornalacci, baretti e déjà-vu.

 

 

ATTASSO: L’OCCHIO CHE UCCIDE

di Edoardo Morabito

 

 

Una volta uno scrittore ha detto che il giornalismo consiste nel diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, essere molesti. Il resto è propaganda. E visto e considerato ciò di cui mi ridussi a occuparmi negli ultimi anni al giornale, si può ben capire come avessi del tutto perso la passione per il mio lavoro. Sebbene fossi sempre stato un amante delle culture locali, scrivere per raccontare le sagre di paese o per elogiare quei ridicoli omuncoli obesi con la minchia sempre a sbrodolare e il lessico ripugnante che ricoprivano le varie cariche comunali – cavalieri senza peccato del cui impegno profuso per la prosperità della città il popolo doveva essere messo a conoscenza – non rappresentava esattamente il mio ideale di giornalismo. Ma l’affitto toccava pagarlo, e i vecchi ideali toccava rimisurarli con la condanna a una mediocrità quotidiana da cui non sembrava possibile trovare riparo.

Questo fino a quando la mia posizione al giornale non fu ritenuta sacrificabile, in termini di bilancio. Fu allora che ritrovai la libertà e con essa anche la depressione. Era stato facile invocare gli ideali disattesi come motivo d’infelicità, prima che il vuoto ideale mi risucchiasse per davvero. Senza lavoro, non riuscivo a dare forma a niente: né alle mie giornate, né alla mia disperazione. In una silenziosa e ovattata esplosione mi vidi sbrindellato nei mille frammenti che di me volarono impazziti dappertutto. Ve n’erano sparsi in ogni dove nella strada sotto casa, sul tetto dell’ascensore, nei percorsi tra la mia psiche e tutto ciò che era fuori, dentro alle tasche. La depressione si attaccava ai palazzi, imparai, si avviluppava alle forme che tutt’intorno creano l’illusione di una realtà fatta di balconi, palazzine anni Sessanta, piazze, voragini, semafori, marciapiedi impazziti. Una città che rifletteva la mia assenza e da cui dovevo nascondermi. Per mesi mi chiusi in casa. Persi gli amici, gli aperitivi.

Poi un giorno, come tutto era cominciato, tutto finì. Bastò che Andrea, il più affezionato tra i miei colleghi, cominciò a farmi visita tre volte a settimana. Ricordo che passeggiavamo, come si ricorda il primo raggio di sole intravisto nell’idea dell’infanzia, un sogno rimasto ad aspettare il ritorno della primavera, il coraggio di mettersi le scarpe.

Dai balconi le stanze si aprivano al tiepido sudore primaverile lasciando scorgere dalla strada lenzuola, cassettoni, fugaci movimenti di corpi che si davano da fare per l’appartamento gravitando lievemente.  Lampade accese che impallidivano al contatto con la luce sempre nuova del sud che, dalle finestre, ora si ricordava pure di loro, degli abitanti del centro storico di palazzi attagliati l’uno con l’altro in un groviglio di spigoli e prospettive confuse, figli di un’edilizia caotica e spontanea che aveva creato vanedde: stretti vicoli in cui il sole arrivava a spicchi e solo in alcuni momenti della giornata. D’improvviso la luce irrompeva netta e rivelatrice, giungendo a riscaldare quei profili in penombra, volti nascosti da una tendina o da un vaso, una reminiscenza d’inverno, pronti a saltare giù, per strada, ansiosi di meravigliarsi e farsi scoprire.

Bastarono quelle chiacchierate, la voglia di farmi salvare e la mia vicenda, a raccontarla così, passeggiando sotto il sole di una domenica di maggio per la via principale della città, s’allontanava da me in maniera inaspettata, come se stessi raccontando la trama di un film. E proprio come si realizza lo sviluppo di un personaggio soltanto una volta usciti dal cinema, mi sembrava di comprendere soltanto adesso ciò che m’era capitato. Ero tornato al senso vitale di due gambe che semplicemente camminano, a delle mani intente a tracciare nell’aria i ricordi mimando i pensieri, qualcuno che ti ascolta e il tuo vuoto che sorride ricomponendosi passo dopo passo.

Per la via il solito passeggio di giovani uomini cacciatori era intensificato dal bel tempo. A piccoli gruppi percorrevano avanti e indietro la via osservando le ragazze che, anche loro a gruppi di tre o quattro, calcavano le basole innerite dal tempo, dai passi che erano stati delle loro madri e delle loro nonne in un rito di comunione che al sud ancora si manteneva, eterno. Ogni loro gesto era alluso alle attenzioni di quegli uomini che ridevano sotto i baffi, se una di loro rispondeva a uno sguardo fingendo di farlo di nascosto, per poi comunicarlo alle compagne e scrosciare in fragorose risate che risuonavano tra i denti come armonici squillanti. Gli amanti già insediatisi, invece, si baciavano agli angoli del marciapiede affollato di pretendenti. Isolati, riparavano la propria conquista dalle mani vogliose e pronte ad arraffare di quella consistente parte di mondo che non conosce l’amore e che arranca nella tristezza di un desiderio mai appagato.

Entrammo nell’unico bar che trovammo aperto.

Il barista era uno di quelli esageratamente allegri e conviviali. Calvo al centro della testa, era magro di una magrezza che sembrava artificiale, come se un tempo fosse stato obeso e poi dimagrito con la forzatura di una dieta feroce. Questa sensazione veniva alimentata dal suo viso gaio ma incavato e dai pantaloni che indossava di almeno due taglie più grandi del necessario. Aveva dei folti baffi che ridevano allargandosi assieme ai movimenti spensierati di tutta la sua corporatura imponente. Probabilmente, pensai, doveva essere già ubriaco alle quattro del pomeriggio.

Ci portò due grappe che riempì abbondantemente. -Le migliori! Disse con la sua voce baritonale, -Gustatevele con calma. Poi, abbassandola teatralmente: -Il tempo finché c’è, non manca! L’uomo versò da bere un po’ di grappa anche per sé, appena un dito, e alzò il bicchiere fissandomi negli occhi come se mi cercasse dentro, con decisione ma discretamente. Brindammo e lui tornò dietro il bancone. Non era ubriaco, ma soltanto allegro.

Non saprei spiegare il perché, ma lo sguardo che l’uomo mi rivolse mi colpì particolarmente. Sembrava che alludesse a qualcosa, qualcosa che avrei dovuto sapere e che invece mi sfuggiva. Era come lo sguardo di un vecchio amico che ti conosce meglio di te, ti incontra dopo anni e la sensazione è quella che custodiate lo stesso segreto: il segreto di una vita codificata insieme, senza ancora le barriere che condannano gli uomini alla loro impenetrabilità, prima ancora che l’età adulta vi avesse modellato secondo i criteri di una più ragionevole esistenza al riparo dalle incertezze e dall’ingenuità.

Andrea continuava a raccontarmi di ciò che era successo in redazione nei mesi della mia assenza: noiose informazioni sulla stagista che s’era portato a letto, questo o quello che era stato licenziato a causa della carenza di finanziamenti che comportava un inevitabile dimezzamento del personale, la pagina culturale sostituita da una rubrica di costume in cui si raccontavano i gossip sulle divinità dello spettacolo che tanto interessavano i lettori. Ma la mia attenzione era interamente canalizzata dal barista. Lo osservavo con la crescente sensazione di conoscerlo, sebbene non ricordassi dove come e quando potevo averne fatto la conoscenza. Mi aggrappai alla sua voce cercando di collocarla in qualche scaffale impolverato della mia memoria, ma niente. Lui, sentendosi osservato, a volte mi guardava con quei suoi occhi che a prima vista sembravano allegri, ma che nascondevano un livore forse, un disagio indefinito ma cordiale, un’angoscia profonda che in superficie assumeva i tratti di una scomposta goliardia. Le sue ciglia erano lunghe, come quelle di un clown, le pupille lucide e pulsanti, e continuava a fissarmi con una specie di folle e ingiustificato rimprovero.

– Hanno fatto fuori pure il critico cinematografico, mi informò Andrea mentre il barista conversava con un vecchietto che verosimilmente doveva passare la maggior parte della sua giornata in quel bar, a leggere il quotidiano per poi discutere dei contenuti con gli astanti.

– L’hanno sostituito con un curatore di rubriche mondane. “Dobbiamo eroicamente abbassare il budget della cultura!”, gli ha detto il direttore, “e dare maggiore spazio a contenuti più leggeri. Massificare i contenuti culturali per propinarli sotto forma di servizi di costume e altri pezzi facili da ingurgitare sul bus o in metropolitana È necessario abbassare le ambizioni intellettuali per aumentare il numero dei lettori, mi capisci, vero?”. Il tono con cui il direttore gli comunicava la morte della sua rubrica era solenne, come se si trovasse al funerale di un’importante capo di Stato. “No! proprio no!” gli ha risposto lui uscendo dallo studio urlando che il problema non erano gli italiani, che pure ignoranti lo erano senz’altro, ma i direttori di giornali come lui.

Ora il barista aveva abbandonato il vecchietto col giornale e s’era affacciato dall’ingresso del bar, appoggiandosi con la spalla destra allo stipite. Osservava in strada il via vai di quella domenica pomeriggio. Allora ricordai, perfettamente.

– Andrea, ricordi il servizio che feci sul primo Gay Pride che s’è tenuto in città?

– No.

– È stato dieci anni fa. Era un evento importante e proposi al direttore di fare delle riprese video per quell’occasione.

Andrea controllò il telefonino che gli era squillato per un messaggio. Forse la stagista.

– M’ero dimenticato di caricare la batteria, il giorno prima, così entrai in questo bar e mi sedetti proprio in questo tavolo, vicino alla presa. Ordinai un caffè e siccome il corteo era già cominciato, registrai il passaggio dei manifestanti da questo punto di vista. Il barista s’era affacciato per osservare quella gente festosa e stramba, proprio dal punto in cui si trova in questo momento, entrandomi nell’inquadratura.

Andrea si voltò verso l’ingresso del locale, dove il proprietario stava immobile, nella stessa posizione di dieci anni prima. Io ero folgorato, chissà perché, da questo ricordo che si ripeteva esattamente nello stesso modo. Un déjà-vu reale, non uno scherzo della mente, bensì un episodio della vita che ritornava a tanti anni di distanza con la precisione di una premonizione, di un fatto magico che probabilmente non doveva avere nessun significato, ma che riempì quel momento di una poesia strana, inafferrabile, che a raccontarla non sarei stato buono e che probabilmente non avrebbe attratto l’attenzione di nessuno, così come non colpì l’immaginazione di Andrea.

Il barista sputò per strada prima di rientrare, ma lo fece con garbo, senza volgarità, come se invece di scagliare la propria saliva rancida sul marciapiede avesse fatto l’inchino a una dama che gli passava davanti. Decisi di dirglielo, del video, e se avesse voluto gli avrei portato una copia. Era come se avessi privato quell’uomo di una parte della sua esistenza, che poteva interessargli o lasciarlo nella più legittima indifferenza, ma che non avevo certo il diritto di nascondergli negandogli così un luogo, uno spazio e un tempo del passato dove lui era stato: una vita che egli aveva vissuto, pur non sapendolo.

Quando l’uomo passò accanto al nostro tavolino lo fermai. Non ricordò con esattezza l’evento sino a quando non gli dissi la data esatta. -Come no! Porco il clero… fu quel giorno che cominciarono tutti i miei guai.

Perse tutta la sua allegria e mi fissò cercando di decifrare la mia identità, col segreto timore che la mia persona potesse rappresentare una minaccia. Indietreggiò di qualche passo, aumentando la distanza di sicurezza. Come me, anche Andrea calò in un silenzio di smarrimento. Il gioco di quell’atto magico a cui io avevo dato forse sin troppa importanza e che aveva fatto sorridere il mio amico di un affettuoso compatimento nei miei confronti, forse pensando che la ritrovata vitalità doveva esasperare in me la percezione emotiva di ogni singolo e insignificante evento, assunse per entrambi un senso di gravità imprevisto che gestimmo nel silenzio più assoluto, mettendoci in ascolto.

– Non fosse mai arrivato quel giorno. Quella sera chiusi il locale come sempre, alle nove. A quei tempi avevo altri due locali sparsi per la città, oltre a questo, e avevo l’abitudine di raggiungerli a piedi per chiuderli e poi tornare a casa non prima delle undici. Lavoravo come un maledetto e quella passeggiata notturna era il mio unico, vero, momento d’intimità della giornata. Mia moglie si lamentava sempre del fatto che potessi dedicarmi a loro solo il fine settimana. Ma io dovevo lavorare, giusto? O no? Come avrei fatto a mantenerli a lei e ai due figli se non lavoravo? Questo, mio padre mi ha insegnato: la serenità di un uomo è la misura della sua felicità, e per la serenità di un uomo è necessaria la serenità della propria famiglia. E io questo facevo, mica altro! Pensavo a loro, solo a loro.

L’uomo diventò cupo, perdendosi in un silenzio che doveva lasciare in profondità per sopravvivere, durante le sue giornate, e che il ricordo ora rendeva assordante. Riacciuffò i propri occhi dal vuoto in cui erano sprofondati e me li rivolse contro. Supplichevoli, sembravano invocare ai miei la conferma che si trattasse di verità: che le sue erano parole di cui non si potesse dubitare e che quel pensiero avesse davvero condotto tutta la sua vita, rendendolo un buon cristiano. Sarebbe stato semplice, in fondo, vivere, finché gli fosse riuscito di perseguire questa unica, fondante e tutto sommato elementare idea.

– Anche quella notte mi incamminai verso il locale che avevo alla scogliera. Per raggiungerlo ero costretto a passare da strade larghe e buie, dove neanche i cani osavano avventurarsi. Mi trovavo vicino a dei cassonetti, quando quel ragazzo sbucò fuori dal buio. Voleva il portafoglio: il mio portafoglio. E io non ero certo disposto a darglielo, a quel ragazzino che non avrà avuto neanche vent’anni. Non riuscivo nel buio a distinguere bene il suo volto, ma doveva avere più o meno l’età di mio figlio. Lui aveva più paura di me e vedendo che non cedevo afferrò un’asta di legno chiodata che qualcuno aveva buttato, lasciandola per terra vicino al cassone. Mi colpì nel fianco con tutta la forza che aveva in corpo. Mi assestò un colpo così forte, che se solo fossi stato più esile mi avrebbe senz’altro accasciato a terra. Allora gli tolsi il legno dalle mani e cominciai a inseguirlo mentre scappava, con i suoi neanche diciott’anni buttati nel cesso. Era proprio un ragazzino. Mi toccai il fianco, ma non mi sembrò nulla di grave. Continuai il mio giro per andare a chiudere i locali.

Passarono i giorni e il dolore a poco a poco svanì. A mia moglie non avevo detto nulla riguardo l’accaduto. Lei si impressionava troppo facilmente, era il tipo da cominciare a tempestarmi di telefonate durante quel tragitto che percorrevo ogni notte prima di rientrare a casa, vivendo ogni sera con l’ansia, se solo glielo avessi detto. Inutile darle preoccupazioni. Le giornate passarono normalmente e neanche io pensai più all’accaduto. E così passarono i mesi.

Un giorno notai che m’era spuntato un bubbone proprio sul fianco, vicino a dove mi aveva colpito il ragazzo, ma non proprio nello stesso punto e così non collegai gli eventi. Lo feci vedere a mio fratello, una sera che venne a trovarmi al bar. Mi consigliò di farmi dare un’occhiata da un dottore e mi mandò da un tale, uno che prende a cuore i pazienti, mi aveva assicurato. Il dottore mi pronosticò un tumore in stato avanzato che in sei mesi al massimo mi avrebbe fatto fuori. Ero spacciato. Non so dirvi con esattezza come mi sentii in quel momento. Mi chiusi sempre più in me stesso e persi la voglia di lavorare. A casa inizialmente non s’accorsero di niente. Non ci vedevamo che la domenica, quando la mia stanchezza dopo sei giorni di lavoro era più che giustificata, e al bar era facile sbarazzarsi dei commenti di interesse verso la mia salute, espressi dai clienti che mi vedevano incupire ogni giorno di più. Dopo averli completamente abbandonati per quattro mesi, ho dovuto chiudere gli altri due locali, il ristorante alla scogliera e il pub sotto il castello. Ormai passavo le mie giornate in questo bar. Conosco tutta la gente del quartiere qui, perché ci lavoro sin da bambino. Era il bar di mio padre, questo.

Io e Andrea eravamo paralizzati, come due bambini a cui si racconta una storia paurosa prima di andare a letto. Le nostre coperte che ci tiravamo su per nascondere il viso impaurito erano le sigarette che divoravamo senza smettere di ascoltarlo, la grappa che continuavamo a versarci dalla bottiglia che il vecchio aveva lasciato sul tavolo. Naturalmente pensai a mio padre per un attimo, morto di cancro cinque anni prima, ma fu come se fosse un passante nel fondo del bar, uno che si muove lontano, sommerso da rumori di bicchieri e auto, lascia una mancia sul bancone dove ha consumato il suo caffè e poi s’avvia verso l’uscita. Andrea ogni tanto prendeva a osservare il pavimento, come se fosse stato lo schermo in cui veniva proiettato il film che l’uomo ci stava raccontando.

– A mia moglie e ai miei figli non avevo detto niente. Non volevo che passassero sei mesi con un morto che cammina, per Dio. Quale dolore avrebbero provato guardandomi mentre volavo via senza che potessero fare niente per trattenermi? Se ne sarebbero accorti, del resto, nel momento in cui avrei cominciato a lasciarmi andare nel fondo di un letto. È così che capita. A che serviva tormentarli con un male senza rimedio?

Che gli affari con gli altri due locali fossero andati male era un fatto che poteva capitare, ma mia moglie non la prese bene. Non fu solo questo, probabilmente, ma credo che il fallimento del lavoro ebbe un ruolo decisivo, nel modo in cui cominciò a guardarmi e a trattarmi, a un certo punto. E assieme ai locali persi pure la mia famiglia. Li evitavo, forse per reggere la fatica del mio maledetto segreto. Neanche la domenica li vedevo più ormai, avevo cominciato a tenere il bar aperto anche il fine settimana. Senza che neanche me ne accorgessi mio figlio cominciò a non parlarmi più, e mia moglie cominciò a nutrire per me un disprezzo che in quel momento passò in secondo piano, come tutto il resto, d’altronde. Fino a quando non prese la sua roba e se ne andò da sua madre, assieme ai ragazzi.

Io non mi ribellai a quella decisione, forse perché era una buona soluzione, dopotutto: li avevo staccati da me dolcemente, o almeno più dolcemente di quanto avrebbe fatto una morte improvvisa. Pensavo che perdermi in questo modo, in seguito a quella che era stata una loro libera scelta, la scelta di non vivere più con un uomo intrattabile e assente, sarebbe stato il modo più facile per dimenticarmi e farsi un’altra vita. Li avevo salvati dal dolore, ma il prezzo era stato alto. Avevo dovuto sacrificare l’unica cosa che sarebbe sopravvissuta alla mia disgrazia: il ricordo che avrebbero conservato di me nel tempo. Chissà se in futuro, quando non ci sarei stato più, avrebbero capito il mio gesto d’amore e dal ricordo ne sarei uscito nobilitato, ristabilito l’affetto per me. Intanto io vivevo in un mondo in cui non c’era spazio per nessuno, in una cappa di vetro dove esisteva unicamente l’ossessione per la morte che stava correndo forsennatamente verso di me. Nella mia percezione la realtà si ridusse a un dettaglio con cui non mi relazionavo se non con gesti meccanici. Aprire il locale, ordinare la merce, fare i caffè, rispondere alle domande sul meteo dei miei clienti o sulla politica del paese. Ero già dentro la bara e non me ne accorgevo. La mia nuova ossessione era tale da non farmi accorgere che in tutti quei mesi le mie condizioni fisiche non erano mai peggiorate. M’ero immaginato di cominciare a claudicare, a un certo punto, di venire sopraffatto da debolezze e malesseri vari, ma niente. Mi guardavo e il mio corpo non era che un pupazzo inanimato che presto si sarebbe spento del tutto. Non provavo più nessun attaccamento a lui, tanto da non essermi accorto di nulla: né di stare ingrassando schifosamente, né del fatto che nessun nuovo sintomo arrivava a confermare la mia malattia. Ma col tempo questo isolamento divenne insostenibile, anche per me che ero già morto. È incredibile come la vita faccia di tutto per rimanere viva, dentro di te. Tu ti arrendi? E lei s’inventa sempre nuove soluzioni che noi magari non capiamo, all’inizio, ma che sono dei processi necessari a tenerci in vita. Qualcosa dentro di noi lotta inspiegabilmente per la sopravvivenza, anche contro la nostra volontà. Un giorno, per la prima volta dopo mesi, sentii il desiderio di parlarne con qualcuno. Fino a quel momento non avevo detto a nessuno di avere i giorni contati. Ne parlai con Pippo, una sera, a quel tavolo.

L’uomo indicò con la testa, ma senza guardarlo, il vecchietto che leggeva il giornale. Non aveva bisogno di accertarsi che quello fosse seduto lì, al suo posto come sempre, a sfogliare le grandi pagine del quotidiano mentre beveva un amaro che sembrava interminabile.

– “Ma come! I dottori sono come le donne!”, mi disse. “Bisogna provarli tutti per sapere qual è il migliore”. Mi convinse a farmi vedere da un secondo dottore. “Non è niente”, mi disse quello. “Era soltanto un grosso ematoma, un grumo di sangue che s’era rappreso”. Mi tornò in mente allora il colpo di bastone preso dal ragazzo, e glielo dissi. Mi indicò la lastra. “Vede? Sta scomparendo. Tra pochi giorni non avrà più niente. Certo, se l’avesse curato le sarebbe passato molto prima”.

Io e Andrea ci rilassammo in un sorriso, emettendo un sospiro di sollievo per uno. Andrea si accese una sigaretta e mi porse il pacchetto per prenderne a mia volta.

– Non potete immaginare la gioia che provai. Tornai a casa ballando per la contentezza. Andai da mia moglie e le raccontai tutto, di corsa, senza riprendere fiato. Gli dissi di come per mesi non avevo detto niente, del terrore in cui avevo vissuto per tutte quelle settimane e che non era niente, niente per Dio! Le dicevo che la nostra vita sarebbe ripartita, le chiedevo scusa per tutto il dolore che avevo recato a lei e ai ragazzi. Ma la sua faccia non perse mai quell’espressione di severità con cui aveva deciso di annullarmi dalla sua vita, ormai. Rispose che la mia situazione non era molto migliore da sano cinquantenne quale m’ero rivelato essere, piuttosto che da malato terminale. Che le avevo mentito per tutto quel tempo, a lei e ai suoi figli, e che oramai non sarebbe riuscita ad avere più alcuna fiducia in me. Come potevo sperare che tornassimo ad essere la famiglia di un tempo, dopo che gli avevo mentito su una cosa così importante? E anche ammesso che lei fosse riuscita a dimenticare l’inganno, tutte quelle mie menzogne perpetrate per mesi, come avrebbe potuto rivalutare l’essenza di un uomo che nel dolore s’era mostrato egoista e malvagio?

– Ma neanche sua moglie, a quel tempo, ha fatto niente per cercare di capire la sua condizione!

Andrea irruppe violentemente, mostrando un’invadenza che reputai fuori luogo, ma che doveva scaturire da un sincero impulso di empatia. Anch’io provai rabbia, una rabbia vaga che non riusciva ad avere una collocazione chiara all’interno del racconto. Verso chi provarla? Per la moglie tradita ma irremovibile, o per quell’uomo che vigliaccamente era fuggito dal confronto con i suoi cari, precipitando in un vortice di dolore che aveva distrutto la sua vita, proprio nel momento in cui questa era tornata a impossessarsi di lui?

L’uomo si fissò una scarpa. Ogni muscolo del suo viso era immobile, proteso verso un passato irredimibile. Guardò Andrea col compatimento che si prova per l’ingenuità di un bambino.

– Vedete cari signori, il fatto è che ancora oggi io non so quanto lei avesse torto o ragione. Non riesco a tornare a quei mesi con la lucidità necessaria per comprendere ciò che successe. L’unica cosa che so, è che qualcosa è successo. Non saprei dirvi perché non parlai mai a mia moglie del mio problema, né se questa storia m’ha liberato dal mostro che avevo in casa, oppure se ha svelato al mondo il terribile mostro che ero io, perché no. Oggi la mia famiglia mi manca, si, ma non sono infelice. Sto qui nel mio bar a parlare di politica o di sport, ma con gli occhi ben serrati in quelli del mio interlocutore del momento, occhi che non mentono perché nessuno di loro ha niente a pretendere da me, se non un buon caffè o un cappuccino. E se il caffè non gli dovesse più piacere, cambierebbero bar senza troppe spiegazioni.

Riemerse come da un sogno, i suoi occhi tornarono presenti e s’accarezzò i baffi con un lento gesto della mano. In quel momento un uomo entrò silenziosamente e senza guardare nessuno di noi si andò ad appostare al bancone, che prese ad osservare aspettando qualcuno a cui ordinare il suo caffè.

-Arrivo, signore!-.

Il barista prese il posto che il cliente s’era aspettato che qualcuno occupasse, senza porsi domande. Né l’avventore s’era guardato intorno per cercare un cameriere. Aveva giusto aspettato, con la certezza che qualcuno sarebbe arrivato. Il vecchio sfoderò un sorriso e gli preparò un buon caffè.

Conosci il pittore Oskar Kokoschka?

La voce di Andrea emerse come da un sogno che mi intratteneva ancora dentro le sue reti.

– Chi?

– Kokoschka.

– No.

Cercavo di mettere a fuoco il locale, ancora. Il racconto del vecchio mi aveva turbato non poco.

– Era un pittore del periodo della psicoanalisi, Freud e tutto il resto. Una volta ritrasse uno psichiatra, Auguste Forel, e lo raffigurò con i sintomi di una paralisi. Auguste probabilmente si offese, perché non accettò in dono il quadro che l’amico gli aveva fatto, forse irritato da quel problema fisico che il pittore gli aveva attribuito. Due anni dopo però lo psichiatra fu davvero colpito da una paralisi. Non solo, Kokoschka immortalò pure uno scrittore, Kanikowski, mi pare si chiamasse, come se fosse sull’orlo di una crisi psicotica, che gli venne per davvero poco tempo dopo la fine del quadro.

– Hai troppa fantasia, Andrea. Dovresti scriverci un racconto.

– È storia, questa.

– A me pare fantasia. Oppure una nuova forma di attasso.

– Esatto! Una specie di mavaria, di malocchio. Non sai che gli indigeni uccidevano i fotografi occidentali quando questi gli fotografavano il gregge? Li accusavano di furto. Pensavano che fotografando le bestie gli rubassero l’anima. E li facevano fuori.

– Superstizioni primitive. E non vedo il nesso col pittore.

– In effetti no. Nel suo caso forse l’artista semplicemente era in grado di individuare nei suoi modelli ogni segno di debolezza. Non si può prevedere il futuro, certo, ma immaginarlo in base alle condizioni del presente, sì.

– Che c’entra tutto questo con il mio servizio sul Gay pride per il giornale?

– Non so, ma è davvero strano. È come se tu riprendendo il barista con la tua telecamerina l’avessi ucciso, o gli avessi rubato l’anima, insomma. Ci pensi?

L’uomo che aveva ordinato un caffè se ne andò com’era arrivato: guardando i propri passi sul pavimento. Il barista tornò sorridente al nostro tavolo. Si versò della grappa e ci indusse a brindare ancora. In quel momento gli afferrai il braccio stringendogli con affetto l’avambraccio sinistro. Lo feci di scatto, senza aver avuto l’intenzione di farlo. Ovvero senza averlo pensato, prima di compierlo, quel gesto.

 

FINE

 

Edoardo Morabito (Catania 12/02/1979). Nel 2003 frequenta il corso di montaggio presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nel 2013 vince il premio come “Miglior Film” al 31 TFF, con il documentario “I fantasmi di San Berillo”, da lui scritto, diretto e montato. Con lo stesso progetto vince nel 2010 una menzione speciale al Premio Solinas, sezione Documentari.  Nel 2014 il suo progetto “Il corso di sopravvivenza”, è finalista al Premio Solinas, sezione Documentari. Come montatore ha montato, tra gli altri, il film “Belluscone. Una storia siciliana”, di Franco Maresco, vincitore nel 2014 del Premio Speciale della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia, sezione Orizzonti, e il David di Donatello nel 2015 come Miglior Documentario Italiano. Sempre con Franco Maresco ha montato “Io sono Tony Scott. ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz”. Nel 2014 e nel 2015 ha insegnato montaggio presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, sede di Palermo.

Parole sotto la torre

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Parole sotto la torre, Portoscuso – IX edizione. 23-26 luglio 2015. Le verità dell’inganno

Cosa rende affascinante e misteriosa l’idea che abbiamo dell’arte? Il rapporto ambiguo col concetto di verità. La filosofia classica non aveva dubbi in merito. Gli antichi greci parlavano di aletheia (αλήϑεια): “disvelamento”. Tolto il velo del pregiudizio la verità di dimostrava nella sua interezza. Il filosofo cercava la coerenza fra il dato di fatto, la realtà oggettiva e la sua rappresentazione. È il principio di non contraddizione, su cui si basa la logica classica.

Eppure, quasi a contraltare, da sempre l’arte è il luogo dell’inganno. La vita che viene rappresentata, che sia con una scultura, un dipinto, un poema, proprio perché rappresentata e non vissuta è intrinsecamente falsa. Contraddittoria.

Lo schermo che il filosofo ha tolto per il disvelamento, l’artista lo ripristina. Su quello schermo, su quell’inganno, costruisce la sua verità. Un mondo coerente solo dentro l’opera: che sia un romanzo, un film, una piece teatrale.

Perché solo attraverso l’inganno, solo attraverso la verosimiglianza, l’artista può dire la verità. Una verità che va oltre al dato oggettivo e diventa universale. Non possiamo credere a nulla di quello che ci viene raccontato e proprio per questo possiamo fidarci senza remore. Mettiamo fra parentesi l’incredulità e aderiamo al mondo dipinto sullo schermo. Che così si fa lente d’ingrandimento, per quanto deformante, del mondo.
Rappresentandocelo ce lo racconta più vero del vero. Le verità dell’inganno, le uniche ammesse dalla letteratura.

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Giovedì 23 luglio

21.30 Il traduttore malinconico

Bruno Arpaia Conduce Vito Biolchini

23 Il canto dell’inganno. Dodici corti sulla meraviglia, lo stupore e la verità

A cura di Skepto International Film Festival Con Despina Economopoulou

 

Venerdì 24 luglio

19.30: La memoria presente 

Giulia Clarkson e Giulio Angioni Conduce Anna Rita Briganti

22 Notizie dal profondo Nord

Giorgio Fontana e Enrico Remmert Conduce Gianni Biondillo

23.30: Il canto dell’inganno. Dodici corti sulla meraviglia, lo stupore e la verità

A cura di Skepto International Film Festival Con Nicola Piovesan

 

Sabato 25 luglio

19.30: Resistere a vent’anni

Marco Rovelli Conduce Camilla Barone

22 Nero metropolitano

Gianni Biondillo e Maurizio De Giovanni

Conduce Anna Rita Briganti

23.30: Il canto dell’inganno. Dodici corti sulla meraviglia, lo stupore e la verità

A cura di Skepto International Film Festival Con Matt – Willis Jones

 

Domenica 26 luglio

21.00: Cantarle fuori dai denti

Daniele Sanzone e Luciana Parisi Conduce Gianni Biondillo

22.30: Verità rubate e bellezze dal profumo di passione e riscatto

Concerto dei: Lello Analfino & Tinturia in acustico

 

Il canto dell’inganno. Dodici corti sulla meraviglia, lo stupore e la verità
A cura di Skepto International Film Festival

  

Giovedì 23 luglio

Inganni a tempo determinato

I frutti sperati – 15′ – Italia

Debtfools – 9′ – Grecia/Spagna
L’homme qui en connaissait un rayon – 20′- Francia
Tuesday – 6′ – Svizzera

Venerdì 24 luglio

La verità nell’inganno: tra il surreale e l’imprevedibile (parte 1)

Deus in machina – 20′ – Italia
8 ay – 20′ – Turchia
Ehi muso giallo – 15′ – Italia

Sabato 25 luglio

La verità nell’inganno: tra il surreale e l’imprevedibile (parte 2)

Dos caras – 14′ – Argentina
A Short Film on Conformity – 10′ – Norvegia
Not funny – 15′ – Spagna
Hotel – 11′ – Spagna
A cura di Skepto International Film Festival

Non è un gesto finale

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di Francesco Borrasso

Quando le parole non esistono più, inizia a prendere forma il gesto. Quando nessuno ti ascolta, i pensieri ti si spezzano nella gola. I muscoli del collo stringono la presa, una spugna nella faringe che cattura la saliva e consuma il respiro, pochi secondi. Mi basterebbe il pianto; basterebbe, forse, per rendere meno reale questa muscolatura estranea. Appena qualche lacrima, come un fiume potente, porterebbe via i detriti che raccatta lungo il cammino: un poco di dolore, una parte di rabbia, questa tristezza che con una gravità contorta mi spinge verso il basso. Ho terminato con la domanda che circolava nella testa come un cane sciolto: dove sei? Ho smesso con questo gioco sadico che preparavo per bene prima di dormire; raccoglierti e portarti nel pensiero con la speranza poi di trascinarti dentro il sogno. Era un conforto questa piccola certezza, il nostro luogo di esilio, nel sonno. Le mattine agitate, gli occhi rossi pieni di vene pronte, sembravano, a spezzarsi; il viso pieno di espressioni sbagliate, senza forza per tenere su un sorriso. Non mi pento di averti cercato così a fondo; non chiedo scusa a nessuno per averti confuso con qualche ombra, durante la notte, a luci spente. Non rinnego l’ansia, i tranquillanti; faccio uso del percorso come fosse un insegnamento; di questi giorni passati da morto in mezzo ai vivi. Se mi giro e ti do le spalle, ti prego, tu non prendertela. Sono state eccessive le ore in cui sono stato immobile, travolto continuamente dalla tua assenza che crocifiggeva ogni mia voglia di libertà; sei stato una prigione, senza una finestra per vedere il giorno, con le pareti umide, che in estate faceva l’inferno e in inverno un gelo senza regole. Certo, una prigione, ma ci sono entrato per capire meglio cosa fosse vivere senza te.
Mi comprendi, lo so, e per questo provo a non starci male in questo gesto di allontanamento. Sono uomo anche io, adesso. Vivo, e lo sento dal sangue che fa il suo giro, dalla pelle che si arrossa per un calore tenuto troppo vicino, per la tensione della schiena e dagli occhi che cercano chiusura dopo troppe veglie estreme. Lo immagino, questo lasciarti andare, come un movimento veloce, quasi distratto; io che mi volto dopo averti sorriso e tu che finalmente ti senti leggero, ti fai distante e diventi materia celeste. C’è una parte del ricordo che vive nella testa come fosse un sentimento di non appartenenza; mi rimanda di continuo a ciò che sono stato. Ero il centro di una fiamma, ero la luce, nel cuore del fuoco; ma tutte le persone che mi circondavano erano costrette alla distanza per non rischiare la bruciatura. Ho educato i miei sogni, cercato di farli volare con coscienza; ho ascoltato il sudore della pelle, le braccia indolenti e indolenzite, la compagnia meschina delle vertigini che confondevano le mie coordinate, il mio mondo era divenuto un costante terremoto dove l’unica cosa che andava in frantumi ero io. Adesso mi riaggancio ad una sensazione lontana, deve essere stato così quando appena venuto al mondo hanno reciso la carne del mio cordone ombelicale. Questi giorni hanno il sapore di una definizione. Ascoltare il passato non deve essere per forza cedere alla caduta; imparare ad ascoltarne la voce è come comprendere che la fiamma scotta solo se non sei veloce con il dito. Ho un ricordo nitido della prima cucina; della prima volta davanti al mare, la sensazione di essere insignificante e che tutto poi fosse solo un gioco di prestigio. Adesso mi sembra uguale a quella volta lì, nel giardino della nonna: ero spaventato sulla bicicletta e tu mi dicevi che per il prossimo giro non mi avresti seguito, con un sorriso credevi che l’equilibrio, questa volta, sarei riuscito a tenerlo saldo. Tu lontano ad osservare, io, su due ruote. Questo momento è identico, come istruirsi per quella magia una seconda volta, imparare a farcela, senza di te. Certo, ora sei alle mie spalle, ma mi basta un movimento, un gesto veloce del busto, un braccio che si alza e prova a stringere, per abbracciarti; sei talmente vicino che dalla schiena puoi toccarmi il cuore.
Ecco, mi alzo, sono le mie gambe che mi portano lontano; i miei polmoni che si allargano e si restringono; io sono il mio stomaco che sente una frattura, ma non smette di fingere indifferenza. I primi passi sono pieni di terrore, poi ne faccio un altro, e un altro ancora; e mi stupisco, va bene anche così, può andare bene anche in questo modo. Bisogna sempre credere di poter volare per riuscire almeno a stare saldi con i piedi in terra.
Non è un movimento finale, lo sai bene; giungerà un punto nel vorticare del tempo, in cui ritorneremo a trovare un punto di giunzione, forse sarà dentro un silenzio troppo rumoroso, forse dentro una luce che spogliandoci di tutto ciò che siamo stati, ci vestirà con i ricordi e smetterà di farci stare sospesi.
Provare a cancellare dalla mente di una persona: un evento, un oggetto, un volto, un’emozione; tentare di togliere via tutto questo con le pillole, con i ceffoni, con le punizioni, è come spiegare a un bambino che è tempo di camminare e di abbandonare le quattro zampe, obbligandolo a stare in piedi, mantenendolo in equilibrio su due piedi anche quando è stanco, anche quando piange pregandoti di lasciarlo riposare.
Dalla carne e dal copro non si cancella niente, sono lo scrigno del ricordo a prescindere dalla mente.

La poesia di Viola Amarelli e l’escatologia del quotidiano – Il caso de L’ambasciatrice

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di Daniele Ventre

Nella strana, umbratile e popolosa plaga della scrittura di versi è raro scovare delle opere che mostrino al contempo un’espressa autonomia di discorso poetico e una consapevole e selettiva padronanza critica dei mezzi d’espressione. In una di queste opere, rarae aves della nostrana respublica letteraria – oggi forse non meno eterodiretta e scassata dell’altra nostra repubblica – abbiamo avuto la fortuna d’imbatterci. A chi la accosti senza pregressa conoscenza dell’autrice, L’ambasciatrice di Viola Amarelli si presenta in una veste libraria tanto pregevole quanto giocosa: spessa e nera copertina cartonata, rilegata a grana grossa di verde, sulla quale campeggia la stilizzata immagine d’una rana. Il libro, uscito in appena cinquanta copie numerate, è una piccola opera artigianale delle “sarte utopiche” Francesca Genti e Manuela Dago. Ma di una tessitura tutt’altro che utopica, carica anzi di limpida concretezza, nonché della stessa ironia e dello stessa aura di lusus che ne connota l’apparenza materica, si fanno portavoce le pagine dei suoi versi, che si dipanano attraverso sette sezioni (più un’appendice finale, contrassegnata dal segno matematico d’infinito), declinando tutte le forme possibili del fare poesia, fra densità metafisica d’aforisma e immagine arguta sgranata in forma narrativa, fra maniera breve e poemetto disteso.
Al di là della sua forma esteriore di raccolta poetica, L’ambasciatrice (che trae il suo titolo dal poemetto centrale) si configura come un singolare e corposo romanzo dell’esserci. Come tale essa si apre e si chiude con uno spiraglio di teologia negativa calata nel sermo cotidianus, secondo una rigorosa composizione circolare. Incipit di questa struttura ad anello, la poesia difficile rivela sin da subito quella leggerezza tramata di giochi linguistici, risegmentazioni, bisticci, che nella poesia di Viola Amarelli costituiscono un tratto stilistico peculiare, una strategia comunicativa supralineam rispetto alla catena parlata, su cui pure ambiguamente fa perno, un effetto verbale impiegato a tempo debito con parsimoniosa pregnanza:

-Troppo difficile da dire
-E tu non dire

Un riccio rosso, rosari di sabbia
Le vene, l’arterie
L’avviene.

Alle due simulate voci interiori dell’esordio dialogico segue l’immagine dell’esistenza come intreccio di flussi, entanglement e pulsazione di sangue e sgranata sostanza terrosa, “L’avviene”, omologo dinamico eracliteo dell’il y a di un Lévinas in paronomasia e assonanza equivoca con “Le vene, l’arterie”, parola, quest’ultima, non a caso accompagnata da una forma apparentemente aulica, ma in realtà dialettale ed espressionistica, di elisione. L’allusione a questa metafisica dell’inesprimibile quotidiano, nell’apparente semplicità di un dettato volutamente librato sul limite del quietamente cantabile, si ritrova nell’explicit, non c’è altro, poesia costituita di appena due versi, un ottosillabo di andamento trocaico e un dodecasillabo, pur esso trocaico, formato da un ottonario e un quaternario graficamente divisi:

non c’è altro da capire

non c’è altro da sapere

questa luce

La raccolta, aperta e conclusa con questa variazione sul tema del limite del linguaggio, parrebbe dominata da questa musa del non dire-non sapere. Tuttavia non siamo di fronte a una poetica della vuotezza, dell’azzeramento chenotico: piuttosto, il non detto nasce all’interno di un duplice termine positivo: da principio la rinuncia all’intellettualismo del logos in favore di un pulsante slancio vitale, infine la luce meridiana del vivere in attenzione nel tempo, lontani da ogni eccesso di tematizzazione razionale. È fra questi due momenti che L’ambasciatrice si dipana come un’opera-mondo tascabile, ripercorrendo in parte e approfondendo la linea già segnata da altre opere precedenti dell’autrice, come Cartografie o Le nudecrude cose e altre faccende. Minimizzata la proliferazione del dire-capire, con tutto l’orpello esplicativo-retorico correlato, resta l’occhio aperto sul panorama del concreto, in cui si succedono le più varie figure, alcune ancora piene tra le righe di uno specifico peso simbolico, alcune invece tutt’altro che implete, contorniate come sono d’un’aura sottile di ironia in rebus e ridotte a gusci di maschere.
Vere e proprie nature figurali sono in effetti quelle che balenano ne la candida, l’intatta, prima sezione che trae nome dalla seconda poesia:

Cuore bambino dove
la briciola diventa meraviglia
e l’orco resta ucciso grasso
e sciocco

la candida, l’intatta
noncuranza

in cui l’immagine del bambino interiore, apparentemente scontata, appare sottratta a ogni accostamento da ovvio memorandum letterario, ogni memoria razionalistica essendo obliterata in una embrionale dimensione narrativa, da morfologia archetipica della fiaba. La posizione di questi versi per come appaiono collocati, immediatamente dopo l’evocazione fondativa dell’avviene, ci indica che siamo ancora al primo mattino del mondo che l’opera costruisce: per questa ragione qui campeggia l’immagine del puer primordiale, l’Urkind creatore di tutto, una sorta di travestimento del Deus puer che gioca con assoluto candore a tramare la deriva destinale dell’essere. Allo stesso modo evoca la forma del femminile originario la quieta cammella, ritmata come filastrocca da battute ternarie (“due occhi d’incanto al suo cammelliere/la notte alle dune, due tette, si illuna” –e però si noti, nell’apparente semplicità, l’impiego del riflessivo “s’illuna”, di sapore dantesco) a cui segue, per immediata contiguità di trama d’immagini, terragna(“Movendo, metamorfosi di muta,/ serpe terragna fra quiete e polvere/ la cerca di/ gradienti verde.// Tutto dovrebbe essere/alberi ed erbe”), con il suo paesaggio ctonio da inconscio collettivo e la dissimulata corposità fonica dei suoi timbri, fra l’allitterazione dell’exordium, in cui gioca un ruolo anche l’ambiguità potenziale derivante dal duplice significato di “muta”, e l’iconica assonanza finale (“verde, essere, erbe”). In questa sequenza incipitaria della prima sezione, in cui campeggia, se si vuole, uno strano assoluto terreno, terragno, bambino – femminino, perfino il self portrait dell’autrice da giovane (“La puledra ferma al fieno/ Scarta al vento, si ombra di niente/ Imbizzarrisce, tenera e lontana”), con tutta la rete dei suoi rimandi sottesi e dei suoi ipogrammi appena sfiorati e ricacciati nel deliberato non detto, assume natura molteplice, e si configura come una sorta di cogito riorientato, un io-penso che si fa vissuto senza intellettualistiche mediazioni. Giocoforza allora, anche l’espressione verbale si restituisce alla sua dimensione d’origine, alla voce come presenza, come testimonianza e ordinatrice fisica di presenza. Né tale processo di ritorno all’origine della voce, quasi richiamata alla vita di un Vac vedico creatore, è in contraddizione con la poetica dell’inesprimibile di cui abbiamo parlato da principio: la voce poetica per come viene rifondata, diviene risonanza, tramata di figure di suono, risemantizzazioni, nuovi coni, parole macedonia o voci composte, che della poesia di Viola Amarelli sono un tratto distintivo: “risuona con l’aria, e l’acqua, terraventosa, non con gli umani…” (risuona); “vaneggiamenti ventriloqui variando, verba volant. virando versi, vesti, bestiari. le vergini vocali” –rigo di prosa ritmata, quest’ultimo, che evoca in tralice addirittura l’immagine delle muse, fra ironia, dimensione carnascialesca, proliferazione creativa. Nel frattempo si ingenera, nel retroscena di questa invenzione verbale, una sorta di contrapposizione di fondo, fra questa voce che risuona in un tutto che dovrebbe essere alberi ed erbe, e gli umani, e il loro voler a tutti i costi “capire” (prendere, catturare, distinguere per gramatica, tematizzare per logica): “tre cose mai capite: me, la matematica e gli umani”. Questi umani finiscono per incistarsi in uno strutturale processo di erosione (“rosi dal potere/ rosi dai vermi/ eroso il ghiaccio/ occhio terramonte…), in opposizione alla quiete del lasciarsi esistere senza concetto, senza angoscia (“non c’è nulla c’è/… un gigantesco, sereno, non importa). Così la prima parte de L’ambasciatrice sembra costituire una sorta di organon rovesciato, a partire dal quale comincia una nuova costruzione del mondo che prescinde da impalcature logico-concettuali e si fonda invece su un’idea di flusso vitale di esperienze, in cui i nomi-forma del dire/capire sono meri epifenomeni delle menti e del loro tessuto di segnali indicatori transitori (affetti compresi: “dolce, affettuoso e spaventato/ il nome-forma che era mio padre”).
Nel loro dipanarsi le diverse sezioni de L’ambasciatrice seguono così un principio di interna coerenza: dopo l’organon implicito de la candida, l’intatta, che abbiamo voluto analizzare più minutamente in quanto portatore, nella sua compattezza stilistica, delle ragioni di fondo del libro, viene la prospettiva en plen air del secondo capitolo di questo implicito romanzo di versi. Abolito l’organon logico distintivo del capire, asserito il gigantesco, sereno e cosmico non importa, il primo passo è riconoscere l’assenza dell’alterità potenzialmente negativa del nemico:

[…]

in fila le formiche invadono il terreno,
la zappa si conficca, le scompiglia
avanzano i più forti
tutto un presidio – io rimpiangevo i deboli

ho occluso i circuiti, bruciati i ponti
squarciati i by-pass, intorno c’è il deserto
nessun nemico –mi chino.

L’ipogramma costituito dalla famosa sententia conclusiva del Càlgaco tacitiano (…ubi desertum faciunt pacem appellant…), quale affiora nella chiusa di nessun nemico, viene rovesciato di senso: diviene l’espressione di un dominio interiore conseguito con fatica abolendo ogni comunicazione fittizia, in pro di un interno “vuoto” mistico che non è certo chenosi, e insistiamo nel ribadirlo di nuovo, ma piuttosto si configura come pienezza, abbandono e comunione con un nirvana prefigurato in corso di vita –e mai come qui le istanze buddhistiche dell’autrice sembrano fornire un grimaldello ermeneutico vittorioso. Sono queste le istanze che poco dopo, in lucreziana, affiorano con evidenza palmare: “qualsivoglia vita squagliando/fosse di gelsomino, l’aria ubriacata chiara,/ di stecco secco e storto, memoria tra le bacche,/ di cincia mattutina, cipria per piuma rossa,/ di uno vecchio idropico, la corsa da ragazzo,/ lascia una traccia invisibile inghiottita/sino alla prossima rinascita immersa nelle cellule/ le stesse forme diverse”. Torna ancora una volta la corposità fonica del discorso poetico (assonanze: “l’aria ubriacata chiara”, in un verso quasi mono-vocalico; allitterazioni e disseminazioni foniche a legare emistichi fra loro, da metrica medievale germanica: “di cincia mattutina cipria per piuma rossa”), ma la sua funzione fono-simbolica ridefinisce ora ogni tradizionale tessitura di suoni in un nuovo sistema, in cui i significanti si scambiano le reciproche componenti fonetiche, in una samsara verbale, un clinamen di atomi fonemici riaggregati, una armonia invisibile in cui gli enti in flusso eracliteo vivono la morte gli uni degli altri e muoiono la vita gli uni degli altri. Questo è il fondamento del teatro esistenziale che si manifesta del resto anche nelle strofe finali del testo en plen air (che dà nome all’intera sezione del libro) :

La vita è l’arte di essere perdenti, nulla di nuovo –dimentica
–si muore

L’istante che le frullano
le ali, d’un colpo la tortora che
plana e la farfalla enorme
candeggia questa luce, squaglia
crema, intanto che si scollano
etichette, si arrestano i pensieri
frullano insieme tutti –senti, i respiri

Fra la cripto-citazione del Qoelet (nihil novi) e l’immagine ingigantita dell’effetto farfalla e del suo caos sgretolatore-aggregatore, il processo tematico che L’ambasciatrice viene costruendo, dopo aver sviluppato la sua logica-ontologia fondata su un organon dell’immediatezza vitale, approda a una sorta di fisica fondata sull’accettazione dell’impermanenza come inevadibile dimensione d’esistere.
Forte sarebbe la tentazione di affermare che L’ambasciatrice, il poemetto centrale che dà il titolo al libro, con la sua atmosfera legata ai conflitti mediorientali costituisca l’etica a suggello di una visione del mondo, in una tripertita ratio filosofica da ellenismo. A tale tentazione è ovviamente opportuno non cedere, considerando la natura peculiare di questa parte dell’opera. Il tema politico è infatti soltanto uno sfondo necessario in cui si muove una storia tramata di tutti gli elementi già delineati nelle precedenti sezioni. Questo scenario da un lato è sicuramente un luogo figurale dove i mali della distinzione, dell’esclusione, dell’affermazione intollerante dell’identità e dell’attaccamento spadroneggiano con ferocia, dall’altro, tuttavia, è anche l’alveo del fluire, di vicenda in vicenda (attraverso una sorta di struttura a stanze capcaudadas con richiamo dell’ultimo termine e senhal della chiusa di una poesia nell’incipit o nel titolo dell’altra immediatamente successiva) delle figure femminili che si susseguono, ambasciatrice, madre, spia e bambina, con quest’ultima, specialmente, a rappresentare quell’ “umile mente gioiosa”, che finora il libro aveva delineato per scampoli d’epigramma. Così l’ambasciatrice – la donna, inizialmente non identificata – si muove fra le quinte del conflitto con cautela, come se ad ogni passo trattasse i termini minimi del suo stesso procedere, fra drusi, dromedari e droni, i tre elementi del paesaggio che la guerra consuma. Questa ambasciatrice di trattative perpetue avanza per quadri d’istantanea, sbozzati con un linguaggio secco da reporter, inverando all’estremo l’altro connotato, opposto complementare dell’invenzione verbale mirata, tipico dello stile dell’autrice: l’estrema concisione e l’ironizzazione degli ambigui limiti di ogni parola. Siamo di fronte a una figura femminile che, come l’io lirico di nessun nemico, avanza in un deserto di cammini combusti, alla storia si piega e per questo le resiste, a scherno sottile di ogni ostentato maschilismo politico, in terra islamica integralista e perciò elettiva di maschi: “Funziona –la maschera/del condizionamento. Tengo duro, sono/ femmina/ senza tempo di erezione”. La figura della donna resistente al teatro di guerra assume un connotato netto ne L’addetta delle pulizie, che si muove da casa, fra gechi e ramarri vita minimale del paesaggio desertico, fra vigilanti e perquisizioni, vita ordinaria del passaggio storico del momento,e a casa ritorna dove “l’aspetta la bambina”, protagonista a sua volta de La piccola. È, quest’ultima, il personaggio che l’autrice rende nella forma più pregnante, e ne fa simbolo del tipo di coscienza leggera che l’intera opera viene tratteggiando. Lo stesso andamento ritmico e sintattico della scrittura manifesta un deciso cambiamento di passo. Non più le istantanee fulminanti della sotto-sezione d’esordio, né la sequenzialità spezzata di animali cose persone de L’addetta delle pulizie. La bambina si muove invece in un paesaggio fiabesco, in cui per la prima volta compare l’acqua come spontanea immagine contraltare del deserto: l’acqua in cui la piccola vorrebbe allignare come rana, in una dimensione originaria di fluidità naturale senza confine, senza distinzione: senza le distinzioni, fra musulmani sunniti e sciiti, drusi, cristiani maroniti, che la costringono all’esilio e la fanno oggetto d’occhiuta sorveglianza. La rana diventa così, al culmine dell’intera raccolta, il simbolo della candida e intatta noncuranza che costituisce la dimensione originaria dell’esistenza nel fluido fuggire del mondo. Il poemetto si chiude, ancora una volta con una struttura circolare, dopo l’ episodio, anch’esso connotato da secca e recisa scansione sintattica, de La spia (che cerca, e deliberatamente finge di non avere trovato, la bambina protagonista e sua madre, ricercate per ragioni che volutamente non vengono raccontate,) con la sezione Le foto, tramata dei quadri e delle istantanee che nella vita della bambina si addensano, scatti di cellulare dell’amichetta rom o di teleobbiettivo da agente segreto che siano.

Come abbiamo cercato di mostrare, le poesie de L’ambasciatrice sviluppano momento per momento questa tematica della vita “autentica” come espressione di limpida consapevolezza che attraversa di attimo presente in attimo presente un liquido flusso d’esistenza fra due inesprimibili termini di confine, saltellando come la rana dei sogni della piccola drusa, pozzanghera per pozzanghera, nuvola dopo nuvola. È la stessa traccia che il lettore viene condotto a seguire ne il sale delle diete, in lungo il viaggio e nelle Stanze amorose, sezioni in cui la forma breve prevale, insieme a un tono diffuso di ironia, talora affettuosa talora pungente: tono pungente che diviene a tratti sarcasmo in io scrivo te metapoetica tranche dove, fra tanti tipi di poeti e di poetiche che vengono ironizzati, l’autrice consegna una dichiarazione espressa di dettato stilistico:

Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto, la brucio. Rimbalza, reingoia, la lingua già amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. Il mondo è parole, a cambiarle il mondo si cambia. Una rosa è una rosa è una rosa. Roseggia. L’ortica orticheggia. E risana.

Di questa lingua defilata, scomoda, sanatrice, di aggregati lessicali, di poesia dal tono prosastico e di prosa battuta, scandita, è intessuta l’opera di Viola Amarelli, che, movendosi con autentica leggerezza e senza impalcature, gioca e ci invita a giocare con la trama del mondo.

Novella Cantarutti (poeti friulani # 3)

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fotografie di Danilo De Marco

001-Novella-a-Frisanco-1994

 

 

 

 

 

 

 

Gent da la Grava (Spilumberc)

Li’ gravi’ a’ bévin

il sarègn da l’aga

da “Il numero dei vivi”

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img-rineke-dijkstra di Massimo Gezzi

 

Due ritratti

Un tempo dovevano essere diversi,
i ritratti dei fratelli: lui in posa
contro uno sfondo prevedibile, solenne
(la torre, il castello, l’ampio arco del cielo);
l’altra stanca, dimessa, presa quasi di sghembo
in una stanza poco nobile, magari
la cucina. Adesso che li guardi, con la torre, il castello,
la cucina ormai deserti da anni, sono foto
di una stessa paura, scatti presi di nascosto
nello stesso momento.

 

 

*

Poetessa cronofaga

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e_macadandi Romano A. Fiocchi

Eliza Macadan, Anestesia delle nevi, La Vita Felice, 2015.

Cronofaga / la chiesa / batte campane / di eternità. Ho trovato bellissimo questo “cronofaga”. Mi ha catturato come una trappola poetica. Ma di altre trappole poetiche sono disseminate le raccolte di Eliza Macadan, in particolare questa sua “Anestesia delle nevi”, uscita nel marzo scorso per la casa editrice milanese La Vita Felice. Trappole come il verso ricorrente a Nord della parola, pronto a catturarci con tanto di assonanza già nella prima lirica: con la frusta nell’aria / spavento / l’aurora / e vado a dormire / a Nord della parola. Il lettore attento (e quello di poesie lo è quasi sempre) lo vede tornare nella lirica a pagina trentadue: geliamo / verso il mattino / a Nord della parola. Poi a pagina quarantuno, spezzato in un enjambement: andrò a Nord / della parola / nella siberia sintattica / il gelo muto. Di nuovo a pagina cinquantaquattro: la mia glaciazione / comincia / a Nord della parola. Infine a pagina sessantuno: i motori del mondo / sono muti / a Nord della parola. Cosa c’è, dunque, a Nord della parola?

La cosa più inusuale è che a generare queste suggestioni verbali sia una poetessa romena bilingue che ha adottato l’italiano come strumento poetico per eccellenza. Sono dunque in lingua originale – e non tradotte – queste sessantadue brevi liriche, ciascuna composta da un minimo di cinque versi a un massimo di ventidue. Il linguaggio è scarno, essenziale anche graficamente: nessuna punteggiatura, rarissime le parole con iniziali maiuscole (Nord, Terra, Natale, Montblanc, Dio), nessun titolo: è sempre il primo verso a dettare l’argomento.

Ma chi è l’artefice di questa scarnificazione poetica? Una premessa storica. Nel 1989 la Romania fu attraversata da una rivoluzione che rovesciò la dittatura comunista di Ceausescu e culminò con la sua fucilazione. Qualcuno tra i meno giovani ricorderà ancora i servizi dei telegiornali con quell’inconsueto sventolio di bandiere bucate nel mezzo. I Romeni, pur di voltare pagina, avevano ritagliato e fatto sparire lo stemma comunista persino dalle loro bandiere. Finiva così un regime che aveva per decenni impoverito il Paese e creato un clima di terrore attraverso la sua polizia segreta, la Securitate. Da questa situazione sociale è uscita una generazione di letterati condizionata, per forza di cose, dal peso della miseria e dell’assenza totale di libertà. Letterati che hanno saputo dare voce al dolore di un popolo in cerca di riscatto. Basta un nome, un grande nome:  Herta Müller, premio Nobel nel 2009, trentaseienne all’epoca della caduta di Ceausescu e per anni bersaglio di una vera e propria persecuzione da parte del regime per via della sua attività letteraria.

Eliza Macadan appartiene alla generazione immediatamente successiva, quasi fosse una sorella minore della Müller. Se Herta Müller, scrittrice di lingua tedesca, è originaria del Banato tedesco, all’estremo Ovest della Romania, Eliza Macadan, poetessa di lingua romena prima e italiana poi, proviene dalla zona Moldava, verso il confine Est. Quando la dittatura di Ceausescu viene rovesciata, la Macadan ha appena ventidue anni. Ne ha respirato l’atmosfera opprimente durante l’adolescenza e la giovinezza ma in un certo senso ha potuto completare la propria formazione all’ombra della nuova libertà. Non a caso è stata corrispondente in Italia per alcuni giornali romeni, da cui il suo bilinguismo. Così come nella Müller (e mi riferisco a testi in realtà molto poetici come “Il re s’inchina e uccide” e “Il fiore rosso e il bastone”), è il bilinguismo ad alimentare il suo gusto per la parola in quanto significato e significante, suono, sensazione tattile e visiva, possibilità altra di esprimersi. Quasi il cambiamento delle regole del gioco linguistico mostri nuove verità.

La narrazione poetica di Eliza Macadan procede per immagini lapidarie, per illuminazioni improvvise che durano il tempo di una parola letta. Il respiro è dato soltanto dal verso in sé, spesso composto da due, tre elementi, talvolta da un solo vocabolo che assume un peso straordinario: mi manca la felicità / impietrita / sul viso degli zingari, scrive in una precedente raccolta, “Paradiso riassunto”. Un respiro che ricorda, per certi ritmi, l’ermetismo di alcuni nostri poeti del Novecento.

È una visione sofferta, quella di Eliza Macadan, che oscilla tra il dolore dell’esperienza interiore – appunto tutta ermetica – e la denuncia di un malessere sociale, a volte reale a volte metaforico: dalla povertà della zingara che indovina un amore legalizzato, al passante che mostra le sue zanne di fame, al bambino che piange davanti alla vetrina di dolci, al vecchio che mendica un soldo per un aspirina, ai morti che si contano al tiggì della notte, sino al tema della guerra. O meglio, delle guerre: case folli / di secolo caduto in ginocchio / recinti verdi / sparsi per strada / uomini partiti / nella prima guerra / e morti nella seconda / donne cieche / di tanta attesa / i loro amanti bambini / stanno nei cimiteri / del cielo. Ecco allora il leitmotiv della Storia, dell’Europa in quanto terra patria (la Macadan non nomina mai la Romania), dei sogni di libertà: usciamo dalla storia / quando tocchiamo la libertà (…) questa Terra è più fango / portiamo dallo psichiatra / l’Europa stuprata / mitologicamente.

E poi c’è la scrittura, il poeta con la sua funzione taumaturgica che ormai basta solo a se stesso: se non scrivo / il pianeta implode (…) scrivo racconti / su valuta forte (…) scrivo / per chiedere / perdono / produco artigianalmente / lacrime / ho venduto tutte le mie penne / e tiro fuori dalla matita / parole secche.

Le parole di Eliza Macadan si nutrono di tempo, ne fagocitano il più possibile per restare lì, testimoni di un viaggio verso la fine del mondo. Non per nulla viaggiare verso la fine del mondo è una prerogativa della poesia.

Un certo impressionismo: la scuola non è una setta di poeti estinti

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di Giovanni De Feo

Da qualche tempo gira sul web una lista di compiti delle vacanze di un professore di scienze umane, lista di vita che vanta istruzioni pittoresche come:AttimoFuggente

Ballate. Senza vergogna. In pista sotto cassa, o in camera vostra. L’estate è una danza, ed è sciocco non farne parte.

Un paio di settimane fa Christian Raimo ha scritto sull’Internazionale un articolo che prende spunto da quella lista per demolire un certo ‘impressionismo didattico’ che l’autore percepisce come un serio pericolo per la scuola Italiana.

Poster-boy di questa deriva sarebbe il professore Keating, quello che invogliava i sui allievi a lanciare il loro ‘barbarico Yawp’ nel film L’Attimo Fuggente di Peter Weir. L’articolo di Raimo critica non solo quel film ma anche altri come Ovosodo di Virzì, di cui cita la scena degli esami. In quella scena, lo ricordiamo, uno storditissimo Gabriellini, interrogato dagli insegnanti di Italiano su Leopardi, replica parlando invece delle sue letture: libri di viaggio, fumetti, saggi, tutti evidentemente lontani anni luce dagli interessi dei professori.

Secondo Raimo questa scena sarebbe un esempio perfetto del soggettivismo didattico che dilaga nelle nostre scuole. Fornire liste di vita, magari libri e fumetti che nulla hanno a che fare con il programma da svolgere, e soprattutto smarcare il lavoro serio sul testo. Insegnanti preparati invece dovrebbero insegnare innanzitutto l’analisi testuale, magari secondo i dettami del New Criticism, che gli sceneggiatori de L’attimo Fuggente avevano preso in giro nella famosa scena dello ‘strappo dei libri’. Quella scena sarebbe diseducativa in quanto spingerebbe a tralasciare l’ermeneutica, vero fondamento dello studio. Citando Raimo:

Per fortuna però la scuola italiana aveva allora e ancora ha al centro della sua didattica l’analisi testuale; e lo studio delle discipline umanistiche – la storia, la filosofia, la storia dell’arte – si basa su diverse forme di ermeneutica. Interpretazione dell’immagine, interpretazione dei dati (…), metodo scientifico.

Chiarita la sua posizione mi chiedo: per quale ragione l’entusiasmo per la lettura dovrebbe andare a scapito del lavoro serio sui testi?

Nella mia esperienza è vero propriMotivazione_Mezzadrio il contrario. Quando studiavo al DITALS, corso di didattica per insegnare Italiano agli stranieri, ci dicevano che l’insegnamento è composto da quattro fasi: motivazione,  globalità,  analisi,  sintesi e riflessione. La prima di queste fasi è appunto la ‘motivazione’. Ovvero, la prima cosa che deve fare un insegnante è motivare lo studente a comunicare. E questo avviene innanzitutto con il desiderio di far compartecipi gli altri di un’emozione.

 

Ebbene, per lo studio della letteratura è lo stesso. Lo dirò in modo cristallino: non ci può essere studio se prima non si è stati emozionati dalla lettura. Certo, è una condizione necessaria e non sufficiente. Prima l’impressione emotiva, poi la raccolta di dati, poi la riflessione. Però non solo una non va a scapito dall’altra, uno è fondamento dell’altra.

Va detta una cosa, io insegno letteratura in una scuola International Baccalaureat. È una scuola internazionale che nello studio delle materie letterarie ha come modello proprio il New Criticism di cui parla Raimo. Gli esami di letteratura della IB si basano in larga misura sul close reading –un’analisi rigorosa e minuziosa del testo– ovvero il fondamento metodologico del New Criticism.

Esempio: all’esame IB ci si trova davanti a una poesia che non si è mai letta, di cui non si conosce l’autore, e sIBOi deve commentarla. Il fatto è che, esaurito il bagaglio di tecnicismi, se lo studente la poesia non la legge con emozione, se non l’ha interiorizzata, come fa a parlarne? E a che serve poi? A fare la conta dei chiasmi?

Scopriamo le carte. Io sarei un epigone di Keating, ovvero uno di quelli che è diventato insegnante anche grazie a quel film. Vi dirò di più, L’Attimo Fuggente è il film che faccio vedere ogni anno, all’inizio del biennio finale della IB. Significa forse che salgo sulla cattedra e prescrivo marcette? In effetti dopo aver visto in classe il film lo faccio a pezzi. “Guardate” dico ai miei ragazzi “che lo studio non sarà tutto così, ci sarà da sgobbare, e sul serio”. Ma: non nego loro che lo studio della letteratura sarà fatto anche di lanci senza paracadute nei libri, di letture voraci e passione. Ovvio che il lavoro non è tutto lì, ovvio che si parlerà di critica, ovvio che si lavorerà sui testi, la IB ce lo richiede.

Però come potrebbero i ragazzi dirmi qualcosa sui libri che leggiamo in classe se prima quelli non li entusiasmano? La scuola dell’obbligo non è l’Università e non può essere solo un laboratorio per specialisti. I ragazzi non hanno scelto di studiare letteratura più di quanto abbiano scelto di alzarsi alle sette tutte le mattine. Non che in quell’obbligo ci sia qualcosa di sbagliato, ma qui sta la difficoltà di un insegnante di liceo rispetto a un professore universitario. Che ogni giorno i suoi allievi avranno sempre la stessa domanda negli occhi. Prof, perché dobbiamo studiare questa roba? E la risposta è sempre diversa ma alla fine è sempre la stessa: perché questa roba parla di te.

Non si nega affatto la critica e il close reading; ma tutto parte da qui, dall’entusiasmo e dall’ emozione che una poesia e o un romanzo suscitano in noi. L’articolo dell’Internazionale sostiene che una certa tendenza soggettivista rischia di rovinare la scuola Italiana. Bene, posso dire che se la scuola Italiana si sente minacciata da una lista di compiti delle vacanze forse c’è qualcosa che non va? A me pare che nel nostro paese al scuola sia per la maggior parte nelle mani dei tetri agelasti del film Ovosodo, insegnanti che difficilmente mettono in discussione le loro scelte e che mai si sognerebbero rispondere alla domanda negli occhi dei loro studenti: Prof, ma perché?

Attenzione, si sta dando per scontato che la scuola Italiana vada protetta così com’era e com’è. Allora vi chiedo: perché in Italia i dati di lettura sono bassissimi da anni? I dati Istat parlano del 7% della popolazione che legge più di un libro l’anno. Perché si legge così poco? Davvero l’insegnamento della letteratura nelle scuole non c’entra niente? Davvero la scuola così com’è va bene?

 

Non so, a me pare che i Keating Italiani siano così rari che i loro compiti facciano poi notizia sui giornali. La verità è che l’apprendimento è un processo troppo complesso per esporlo tutto in un film di due ore. Chi insegna lo sa, lo studio è fatto anche di lavori ripetitivi che servono a strutturare le capacità logiche del pensiero. Nel film di Weir non ci sono, chiaro. Ma lo scopo del regista sembrava piuttosto quello di centrare il cuore dell’insegnamento della letteratura, che è poi quello dare agli studenti gli strumenti per leggere se stessi.

Questa a me sembra una verità semplice ma non banale. Non è banale perché i mezzi per ottenere tale conoscenza sono molteplici e contraddittori, e possono rivolgersi molto facilmente contro l’insegnante e persino contro lo studente, come dimostra il finale stesso del filmEcce_Bombo. Però L’Attimo Fuggente è esemplare in questo, perché parla della ‘motivazione’ come il cuore pulsante dell’insegnamento delle scienze umane. Un fatto piuttosto banale in didattica delle lingue straniere, ma che a quanto vedo qui fa ancora scalpore. Forse perché prenderlo su serio costringerebbe a rimettere in discussione troppe premesse?

Personalmente credo che prendere Keating alla lettera salendo sui banchi sia un po’ patetico. Al contrario ritengo che il film di Weir nel suo complesso sia ancora oggi una straordinaria fonte di ispirazione. Lo è perché lo studente ideale non è quello ligio che fa bene i temi, bensì chi legge per conto suo, trasversalmente, mai sazio, entusiasmando se stesso e gli altri. Il vero modello de L’Attimo Fuggente non è Keating, sono i suoi studenti.

Chiuderò con una considerazione e una provocazione. Conoscete il titolo originale del film? È Dead Poet Society, dove society starebbe per ‘club’. Nel film è il nome del gruppo di studenti che si riunisce in una grotta e legge poesie fino all’estasi. Bene, la mia considerazione è che come insegnante io mi auguro studenti così, che leggano e facciano poesia in modi non tradizionali, e usino il loro senso critico su tutto lo scibile, purché li appassioni.

Ed ecco la provocazione. A me sembra che la scuola che si sta cercando di proteggere sia proprio una ‘setta di poeti estinti’. Se lo studio della letteratura nella scuola Italiana non cambierà resterà ciò che è sempre stato, un mattone di ‘dati’ che, se non fosse per l’intraprendenza personale di certi insegnanti, non comunicherebbe altro che noia. Col risultato che a estinguersi non saranno i poeti: ma i lettori.

 

La Siria nel mare magnum della disinformazione

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Lorenzo Galbiati, Fouad Roueiha, Alberto Savioli

Della guerra civile in Siria i media si occupano sempre meno, le notizie ora escono solo se l’ISIS compie qualche azione particolarmente grave. Anche i programmi di approfondimento, come lo speciale di Piazza Pulita di Formigli dell’8 giugno 2015, si occupano essenzialmente di narrare la nascita del gruppo  Stato Islamico, e l’attenzione si concentra su dove e come vengono reclutati i suoi militanti. Che in Siria vi sia ancora una opposizione politica e armata al regime, costituita in parte da siriani che possiamo considerare partigiani, è un dato oscurato dall’informazione.

E proprio per questo, forse, crescono le illazioni e le bufale, sempre più gigantesche, sull’operato dei siriani dell’Esercito Libero Siriano (Els). In Medio Oriente la più infamante delle accuse che si possa rivolgere ad un movimento è la connivenza con lo stato d’Israele, tanto che le leggi più liberticide varate dai regimi arabi si giustificano con l’esigenza di prevenire infiltrazioni israeliane e ogni male accada a Est del Giordano viene attribuito a non meglio identificati “complotti sionisti” con una frequenza tale da aver alimentato una ricca varietà di barzellette sul tema. Questa stessa retorica sembra attraversare il Mediterraneo, dove Israele (affiancato dagli USA) viene spesso citato dai siti antimperialisti come eminenza grigia di tutto quel che succede nel mondo. I siriani si ribellano ad Asad? C’è lo zampino di Israele. C’è un attentato non rivendicato? Forse è stato Israele. C’è un attentato rivendicato da una formazione islamista? E’ finanziata da Israele. Vittorio Arrigoni viene rapito e ucciso da un gruppo di salafiti? Li ha assoldati Israele. E così via.

Ultimamente a rilanciare queste ipotesi prive di fondamento non sono solo militanti antimperialisti a senso unico o antisionisti di maniera. Talvolta, anche agenzie stampa che fanno una meritevole opera di informazione sulle gigantesche violazioni dei diritti umani che compie ogni giorno Israele nel silenzio dei media mondiali cascano nella tentazione di vedere Israele coinvolto in ogni sorta di alleanza sotterranea con i più disparati gruppi armati arabi.

Stiamo parlando di Nena News (NENA), Agenzia Stampa Vicino Oriente, il cui direttore è Michele Giorgio.

Il 30 giugno apprendiamo infatti dalle pagine di Nena News (http://nena-news.it/israele-aiutiamo-i-ribelli-siriani/ ) che ormai sarebbe “ufficiale” l’aiuto fornito da Tel Aviv ai ribelli siriani. L’agenzia è giunta a tale conclusione dalle dichiarazioni del ministro della difesa israeliano Ya’alon, nelle quali si conferma quanto riferito nei quattro rapporti stilati dagli osservatori ONU in missione lungo le alture del Golan (territorio siriano occupato da Israele): è in atto un passaggio di soldati ribelli feriti dalla Siria a Israele, dove vengono curati, e di alcuni equipaggiamenti medici da Israele verso il territorio siriano controllato dalle forze ribelli. Nelle sue dichiarazioni il ministro Ya’alon conferma quanto già reso noto da mediattivisti siriani: Israele baratta la tranquillità dei suoi confini con cure ed equipaggiamenti medici; l’intento di Tel Aviv sarebbe quello di proteggere la comunità drusa (vicina ad Asad) dagli assalti di organizzazioni jihadiste. L’articolo di NENA cita anche l’assalto di drusi israeliani ad una delle ambulanze coinvolte in queste operazioni, ma trascura di dire che la tensione in seno alla comunità drusa è crescente da mesi e che quindi le dichiarazioni del ministro, che in realtà non rivelano alcun segreto, servono sopratutto a sedare gli animi. NENA ha anche ignorato di segnalare le notizie dei primi di luglio sui vari generali ed ex generali che facevano pressione sul primo ministro Netanyahu perché fornisse armi ad Asad per evitarne la caduta: in realtà illustri diplomatici e strateghi militari israeliani, dall’ambasciatore Avi Primor all’ex capo di Stato Maggiore, da quattro anni vedono nel regime di Damasco il “miglior nemico”, ossia una garanzia di stabilità per Israele.

Le dichiarazioni di Ya’alon non sono le prime che NENA ha sfruttato per dar spessore al teorema che svelerebbe una alleanza tra Israele ed i ribelli siriani.

Il 24 aprile 2015, Nena News ha diffuso la notizia secondo cui l’Esercito Libero Siriano avrebbe mandato una missiva all’ex assistente (Mendi Safadi) di un parlamentare israeliano druso del Likud (MK Ayoub Kara) in cui si congratulerebbe per il sessantasettesimo anniversario della fondazione dello stato ebraico, auspicando di poter celebrare il prossimo anniversario nella futura ambasciata israeliana in Siria, che si aprirebbe nel caso cadesse il regime di Asad ( http://nena-news.it/ribelli-moderati-siriani-auguri-israele-per-lindipendenza/ )

La fonte originaria di questa notizia, come riscontrato dopo una ricerca in rete, è il Jerusalem Post del 23 aprile ( http://www.jpost.com/Middle-East/Syrian-group-in-greeting-to-Israel-Next-year-we-celebrate-Independence-Day-in-Damascus-399005 ), che è stato ripreso solo da alcuni giornali della stampa israeliana di destra (Times of Israel) e da certa stampa pro-Asad.

È’ interessante notare come NENA, nel suddetto articolo firmato dalla sua redazione, attribuisca il prestigio di rappresentare l’intero Els a tal Musa Ahmad al-Nabhan, nome a tutti sconosciuto prima del 23 aprile. Dopo aver svolto un’accurata ricerca in rete del suo nome in inglese e in arabo, e aver chiesto sue notizie a vari contatti siriani che conoscono da vicino l’operato dell’Els, non abbiamo trovato nulla su Nabhan e, a distanza di due mesi, ad anniversario di Israele festeggiato (non in Siria, e non dall’Els) il nome di Nabhan non è più stato citato in alcuna notizia web o stampa.

Possiamo concludere che con ogni probabilità si è trattato di una bufala. Nella più remota delle ipotesi, Nabhan, ammesso che esista, potrebbe essere lontanamente legato all’Els ma senza alcun ruolo di rappresentanza.

I capi dell’Esercito Libero Siriano sono al momento Idriss “sul campo” e al-Bashir come comandante, ma ci sono proprio in questo periodo movimenti al vertice dell’organizzazione. Non omettiamo di dire che ci sono molti capi locali e molte fazioni di diversa natura, talvolta in opposizione tra loro, all’interno dell’Els, che contiene anche brigate che combattono insieme ai movimenti islamisti di al Nusra e Ahrar al-Sham. Ma pure in tutto questo variegato e contraddittorio universo, non ci risulta in alcun modo che questo Nabhan occupi una qualsiasi posizione di rappresentanza. Di più: non ci risulta nemmeno che l’Els abbia al suo interno un “ufficiale di politica estera”, come scrive NENA, attribuendo quell’incarico a Nabhan. Nulla di questa presunta notizia è verosimile. Del resto: è credibile che una organizzazione come l’Esercito Libero Siriano indirizzi ad un assistente parlamentare israeliano, e non un a un ambasciatore o a un esponente politico di spicco, una comunicazione del genere?

Torniamo a Mendi Safadi, l’attivista druso citato dal Jerusalem Post, poi ripreso da Ma’ariv, ed infine da Nena News. In un articolo di Ha’aretz datato agosto 2012 viene riconosciuto falso ciò che Safadi millantava ossia di essere delegato dalle autorità israeliane a dialogare con i ribelli siriani ( http://www.haaretz.com/blogs/diplomania/deputy-minister-s-aide-holds-talks-with-syria-opposition-presents-himself-as-official-israeli-envoy-1.458772 )

Quindi, cosa resta della “notizia” del Jerusalem Post rilanciata da NENA? Diremmo questo: “Un presunto appartenente all’Esercito Libero Siriano avrebbe scritto una lettera ad un ex assistente parlamentare, noto per millantare rapporti con l’opposizione siriana, in cui si congratulerebbe con Israele per l’avvicinarsi dell’anniversario della sua fondazione”.
Ma nel titolo di NENA la notizia è diventata: “Ribelli moderati siriani: “Auguri Israele per l’indipendenza””
L’articolo di NENA, peraltro, si apre parlando di rapporti che andrebbero a gonfie vele tra le opposizioni siriane e lo stato ebraico e prosegue così: “da quando è iniziata la guerra civile siriana, l’Els ha chiesto il sostegno israeliano per la sua campagna militare contro il regime di Asad, ufficiali ribelli hanno viaggiato in Israele incontrando vertici militari dello stato ebraico e un numero imprecisato di combattenti siriani (secondo alcuni commentatori israeliani stimato in alcune centinaia) è stato curato in Israele. Alcuni membri della Coalizione nazionale siriana (braccio politico dell’Els) hanno più volte proposto la cessione della parte siriana del Golan [secondo la comunità internazionale l’altra è stata annessa illegalmente da Israele nel 1981, ndr] a Tel Aviv nel caso in cui quest’ultima aiutasse in modo consistente l’Esercito siriano libero a sconfiggere le truppe di Asad. I rapporti sempre più stretti e quotidiani tra le forze moderate siriane e gli israeliani sono stati poi rivelati a dicembre in un rapporto dell’Onu presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

I fatti riportati da NENA sono effettivamente avvenuti ma, nel contesto di questo articolo, acquistano una interpretazione tendenziosa. Vediamo quindi di ricollocarli in un contesto più appropriato.

Gli ufficiali ribelli che avrebbero incontrato vertici militari israeliani sono in realtà alcuni esponenti di Jabhat Al Nusra (JAN) e alcune brigate del FSA della zona di confine di Daraa, le quali avrebbero negoziato una non ingerenza israeliana in cambio di rassicurazioni che JAN ed Els non avrebbero sconfinato. Risulta poi vero che ci siano stati combattenti siriani curati in ospedali israeliani, ma ci risulta che persino il figlio di Ismail Hanye (leader di Hamas a Gaza) sia stato curato in Israele, e come lui anche combattenti libanesi o palestinesi durante i passati conflitti. 
Passando ai “membri della Coalizione Nazionale Siriana” che avrebbero proposto la cessione del Golan: in realtà è solo un ex membro e fondatore della Coalizione, Kamal Labwani, espulso dalla stessa da oltre 2 anni. Labwani ha effettivamente proposto un suo “piano di pace regionale” in cui proponeva la cessione di parte del Golan e la normalizzazione dei rapporti con Israele in cambio di un sostegno militare, sopratutto in termini di aviazione, da parte di Israele. Si tratta di una proposta fatta a titolo personale: Labwani non rappresenta nessuno, è stato accusato di alto tradimento ed insulti da qualunque corrente della rivoluzione siriana. Infine, riguardo al famoso rapporto ONU che rivelerebbe rapporti tra i ribelli siriani e l’esercito di occupazione israeliano, si tratta dei rapporti degli osservatori ONU sul confine con il Golan cui facevamo riferimento in merito alle recenti dichiarazioni del ministro della difesa Ya’alon, ossia qualcosa di molto differente da un alleanza o una intesa politica: è quel che avviene nelle aree di confine in ogni guerra. Il comportamento di Israele è l’ennesima testimonianza di come lo stato ebraico stia alla finestra per poi intervenire, limitatamente, quando vede l’opportunità di far prevalere i propri interessi: lo ha fatto quando ha bombardato le spedizioni di armi verso Hizbullah e suggerito il piano per la distruzione delle armi chimiche poi attuato dalla Russia di Putin (
http://lb.shafaqna.com/EN/LB/126868 ) all’indomani dell’attacco con il gas Sarin su Damasco, evento che aveva messo Obama nell’indesiderata posizione di dover intervenire in Siria per non perdere la faccia davanti all’opinione pubblica.

In sintesi, la notizia sui ribelli moderati siriani che farebbero gli auguri ad Israele per l’anniversario della sua indipendenza (parafrasando quasi alla lettera il titolo di NENA) ha tutti i contorni della più classica bufala. Nena News, sempre attenta a svelare le mistificazioni della propaganda sionista, stavolta ci sembra essere stata vittima di quella propaganda. E, nel caso dei rapporti tra ribelli siriani e Israele, forse sarebbe il caso che NENA rivedesse il suo paradigma interpretativo. Del resto, quando c’è di mezzo la Siria, avvolta da anni nel Mare Magnum della disinformazione, è davvero difficile trovare notizie e analisi che ci permettano di comprenderne l’attuale situazione geopolitica.

Seia tre : Haruki Murakami

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9788806225872

Metamorfosi e solitudini

di

Seia Montanelli

Non fatevi ingannare dal buon Murakami: “Uomini senza donne”, il suo ultimo libro pubblicato da Einadi (222 pp., 19 €, trad. it di A. Pastore) è pieno di donne: desiderate, sognate, cedute, tradite, amate fino alla consunzione, ascoltate, invocate, evocate, fraintese, sopravvalutate e infine perdute per sempre.

Uscito nel 2014 in Giappone con il titolo “Onna no Inai Otoko-tachi” (traduzione letterale: uomini che non hanno fidanzate), “Uomini senza donne” è una raccolta di sette storie brevi, scritte a partire dal 2005 – anno in cui è uscita la prima raccolta dell’autore, “I salici ciechi e la donna addormentata” – e pubblicati quasi tutti sul mensile “Bungeishunju”, o apparsi su riviste di tutto il mondo e sul sito del New Yorker (solo un racconto è del tutto inedito).

Questi uomini senza donne in realtà di donne ne hanno avute, e come: ma per qualche accidenti della vita, o per loro incapacità a tenersele strette, hanno finito per perderle. Murakami ribalta così la solita visione della donna rifiutata, che ha riempito la letteratura e il cinema fino alla noia, e racconta la storia dal punto di vista degli uomini, sedotti e abbandonati, melensi e romanticamente disperati come – o forse di più? – le loro controparti femminili di ogni tempo e luogo.

Questo aspetto, l’inevitabile associazione all’omonimo romanzo di Ernest Hemingway (che pare Murakami avesse intenzione di evitare, modificando il titolo della raccolta per le edizioni straniere, ma poi deve aver cambiato idea) e un certo maschilismo di ritorno che affiora in qualche pagina del libro (si legga il racconto “Organo indipendente)”, in un primo momento mettono in allarme da “mattonazzo” (a prescindere dalla limitata mole del volume) il lettore un po’ smaliziato, ma l’autore vien considerato un possibile vincitore del Nobel ogni anno non per caso: è troppo bravo a raccontare delle storie per cadere in stereotipi o lagne da libro Harmony. Così continuando nella lettura ogni allarme si spegne e ci si addentra nell’animo ferito di questi uomini, di ogni estrazione e grado, spesso misteriosi, altre volte squisitamente banali, che hanno perso il centro del loro equilibrio insieme alla donna amata. Che sia morta dopo numerosi tradimenti, o sparita nel nulla all’improvviso, o persino che l’abbiano lasciata andare, a riempire i loro giorni è il rimpianto per ciò che poteva essere, la solitudine insostenibile perché piena di domande senza risposta.

Allo stesso modo il lettore si trova davanti a racconti che non hanno un punto focale: si entra e si esce da queste vite, portandosi dietro lo stesso senso di incompiutezza dei protagonisti. Solo uno dei racconti si apre alla speranza, l’unico che ha peraltro qualche rimando alla dimensione onirica che l’autore ha esplorato in altri suoi testi: trattasi di “Samsa innamorato”, un chiaro omaggio al più famoso racconto di Franz Kafka, in cui la storia viene ribaltata perché l’orrenda scoperta che Gregor fa una mattina all’improvviso è quello di essere stato tramutato in un uomo, e di trovarsi senza il duro carapace che lo proteggeva dal mondo. In questo stato, con solo quello strato sottile e roseo di pelle a fargli da scudo, gli accade di innamorarsi di una donna non propriamente attraente ma che per lui è bellissima: e questo amore diventa anche un modo per conoscere il mondo in cui si ritrova e la sua nuova condizione. Un altro omaggio letterario è nel racconto “Shahrazād”: qui una donna per intrattenere Habara, un uomo recluso non si sa per quale ragione in un appartamento, dopo aver fatto l’amore con lui comincia a raccontargli delle storie e quelle storie diventano per lui più importanti del sesso, sono quasi come delle compensazioni alla libertà che gli è negata. Dopo un’ultima storia lasciata in sospeso, Habara comincia a vivere nell’angoscia di non poterne più ascoltare altre e di non poter conoscere la fine dell’ultima nel caso in cui Shahrazād non tornasse.

Come Murakami fa dire al protagonista del suo ultimo racconto, il più disperato forse, che dà il titolo alla raccolta, per Habara e per tutti gli altri uomini che hanno subito la perdita di una donna è come «perdere quel fantastico vento da Ovest», come «essere derubati per sempre del proprio quattordicesimo anno». E, ancora, «a volte perdere una donna significa perderle tutte». E tutto. Tanto che Murakami racconta un intero universo fatto di suoni e di odori e di colori percepiti diversamente senza la donna amata, vera condizione esistenziale senza rimedio, e pur sfiorando spesso il paradossale, tutta la narrazione rimane possibile, tangibile, come il dolore che l’assenza si porta dietro mentre consuma questi “uomini senza”.

La nostalgia, il rimpianto, l’abbandono, il rapporto tra uomini e donne, l’impercettibile superamento della linea sottile tra realtà e fantastico: ci sono tutti i temi principali di Murakami in questi racconti – e anche il suo essere scrittore internazionale, moderno, pop perfino, con i ripetuti riferimenti musicali, i soliti Beatles, l’amato jazz, le influenze della letteratura statunitense, pur restando uno scrittore profondamente giapponese. E c’è quello stile difficile da individuare in una traduzione, ma che fidandoci della bravura di Antonietta Pastore, è lo stesso di sempre: frasi semplici, parole d’uso comune, spesso ripetute, un  linguaggio colloquiale con delle saltuarie colorazioni poetiche, con una precisione quasi maniacale nei dettagli e dialoghi vivaci e momenti anche di ironia.

Non fidatevi, perciò, del titolo del libro: ma abbiate piuttosto fiducia in Murakami e nella sua capacità di raccontare delle storie che difficilmente dimenticherete.