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la guerra non dichiarata ma proseguita

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di Helena Janeczek

L’incipit di una delle più famose poesie di Ingeborg Bachmann recita La guerra non viene più dichiarata, ma proseguita. L’inaudito è divenuto quotidiano. La poesia si intitola “Tutti i giorni” ed è stata composta nel 1953, all’apice della Guerra Fredda e nello stesso anno in cui fu deciso di condonare alla Germania gran parte del suo debito di guerra. Negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane, seguendo il conflitto tra il governo di Syriza e le istituzioni dei suoi creditori ho spesso pensato a quei versi.

da “La storia, i ricordi”

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di Gianluca D’Andrea

Trasposizione (o l’identità del poeta) 

Il fatto di essere non sussiste
esiste l’essere come un fatto
del sentire. Allora io sarà il nucleo
per cui posso essere me stesso,
non il triciclo abbandonato in strada
accanto ai bidoni ustionati.
Mia figlia pedala.
Io è le mutande del ragazzo
al semaforo che vende accendini.
Dopo un giorno di lavoro
brucio i fazzoletti abusivi
e raccolgo parole da uno schermo,
ustionato da tutti i contatti.

 

 

L’identità (o trasposizione del poeta) 

Sentiva di spostarsi e accadimenti
intercedevano per lui che si spostava,
sospinto dalla piena presenza
di se stesso. Impercettibilmente
ad agire era un moto secondario,
che diventava consistente e si perdeva.
Camminava pienamente.
Si alternava in tutto il movimento
la sensazione vera di non essere
se non se stesso in contatto perenne,
come accade nelle passerelle
agli aeroporti dopo un giorno
in piedi a calpestare i propri passi.

 

 

Qui leggibile in formato .pdf La-storia-i-ricordi, lungo estratto da una silloge inedita di Gianluca D’Andrea, che si interroga sul ‘ritorno’ della storia, l’impotenza politica, il mito (e il disagio) dell’identificazione poetica, le illusioni della comunicazione totale, le epoche eroiche della formazione giovanile che si intrecciano ai fantasmi cupi di un’epoca sempre più delineata nella sua ansia dissolutoria. (rm)

 

 

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Europa rapita

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di Giorgio Mascitelli

193px-Ratto_di_Europa_(III_sec._d.C.)

Circa vent’anni fa un vecchio esponente democristiano, non mi ricordo più se schierato con Berlusconi o con il centrosinistra, disse che preferiva la Macarena a Bandiera Rossa. Credo che avesse fatto questa affermazione in risposta a una domanda di un giornalista che gli chiedeva di commentare il fatto che il congresso di Rifondazione comunista si era chiuso intonando il vecchio inno. In questa battuta, che esprimeva largamente il senso comune, non si sosteneva soltanto che il consumismo aveva sconfitto il socialismo e ogni altra ideologia politica, ma nell’anteporre ironicamente un motivetto di successo a un canto politico emergeva per così dire un’antropologia implicita e assertiva: di soli consumi vive l’uomo.

Non che naturalmente questa antropologia sia priva di fondamento, anzi essa è autorizzata da un certo sviluppo storico delle società occidentali. Uno dei suoi corollari è che la partecipazione politica  del cittadino può e deve essere molto blanda e che qualsiasi forma di cittadinanza attiva, così pericolosamente vicina a quella che una volta si chiamava militanza, sia superflua, nella migliore delle ipotesi. Ovviamente la democrazia fa parte del kit della società dei consumi, ma esse viene intesa come una serie di procedure e di questioni amministrative anche importanti,  che tuttavia non avrebbero mai modificato nell’essenziale il tenore e i modi di vita della popolazione. Insomma le condizioni che si erano precariamente realizzate con il boom economico venivano percepite come un assoluto immodificabile, come una sorta di epifania della vera natura umana.

Piaccia o meno, era questa la cultura diffusa in cui è nata l’attuale Unione Europea, quella di Maastricht, degli anni novanta, prima era un’altra cosa per via del contesto internazionale.  Visto gli indubbi vantaggi che presenta per il potere una concezione che si rapporta così distrattamente alla dimensione politica, le élite europee lungi dal combatterla l’hanno coltivata, anche perché le idee dominanti sono quasi sempre quelle delle classi dominanti.

Ora, anche se non vivessimo in un’epoca di crisi e di repentini mutamenti, una siffatta mentalità sarebbe stata  largamente insufficiente per avviare un autentico processo costituente europeo, immaginiamoci in una situazione come quella attuale.  Inoltre questa scarsa propensione alle dimensione politica è stata rafforzata dal grande potere del capitale finanziario privato che è ormai, per usare l’eufemismo oggi in voga, postdemocratico.

In un contesto del genere qualsiasi contrasto che in una società democratica dovrebbe vestire le forme del confronto e, talvolta, perfino del conflitto politico, assume invece vesti diverse, pericolose che di solito attingono a un immaginario in grado di riattivare certe mitologie del passato e quando si riattivano le mitologie, esse poi hanno un funzionamento quasi automatico, macchinico, per dirla con Furio Jesi.

Per prendere il toro per le corna: nell’attuale vicenda greca la narrazione mediatica, ma ispirata da una parte influente dell’èlite europea,  è basata sullo stereotipo razzista del greco fannullone e un po’ imbroglione, al quale è stato risposto con un altro stereotipo ossia quello del tedesco  nazista, e prima ancora sul mito, solo apparentemente meno pericoloso, che le grandi questioni economiche dipendono in maniera automatica e consequenziale dai comportamenti individuali. Eppure lo scontro in atto sulla Grecia è descrivibile come uno scontro tra una parte politica che a fronte a un rischio di fallimento dello stato ha deciso di tutelare i grandi creditori privati, ivi compresi alcuni greci, e una parte che non accetta che a pagare i costi di questa tutela sia essenzialmente la popolazione.  Insomma lo spazio che dovrebbe essere della politica viene occupato dal rancore ancestrale, dal pregiudizio e dal mito.

E’ inutile lamentarsi della diffusione dei populismi, se poi sono le stesse classi dirigenti europee che preferiscono affrontare le proprie battaglie in una veste mitologica, pur di non riattivare processi di politicizzazione nella popolazione: almeno in parte sono esse stesse a fornire il propellente per i movimenti populisti. Altresì è molto pericoloso bollare come populiste tutte le forze che criticano gli attuali assetti europei e internazionali perché ciò rischia di fomentare una cultura autoritaria.

Il ruolo per un europeismo attuale, che non sia un irenistico richiamarsi a valori incomprensibili ai più, è  allora  nel politicizzare lo spazio europeo proprio nel momento in cui le sicurezze anche consumistiche dell’uomo europeo vacillano, come potrebbe confermare chiunque debba campare con un minijob nella ricca Germania.

E insomma, visto che ho parlato di mito, spero che mi si perdonerà se indulgo alla debolezza di paragonare la situazione attuale a quella di Europa rapita dal toro.

 

 

 

Panorama Pincio

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11037558_1611893982393343_2097850822137142316_ndi Francesca Fiorletta

“La vita non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconoscere, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio.”

Cerca un Panorama, probabilmente, come quello di Tommaso Pincio, appena edito da NN Editore.
Panorama è un social network, con regole di accesso e permanenza assai stringenti e precise, che lo fanno assomigliare preoccupantemente al famoso Panopticon, la prigione sempre illuminata ideata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham alla fine del 1700, in cui gli osservati speciali avrebbero finito per diventare essi stessi gli osservatori, e ciascuno, prima di tutto, sorvegliante attentissimo della propria cella.

La terra bianca

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di Giulio Milani

Dal Corriere Fiorentino Online:

La costa apuo-versiliese rappresenta da sempre, per i toscani e non solo, una terra tanto frequentata quanto enigmatica. Il romanzo d’inchiesta di Giulio Milani uscito in questi giorni per Laterza, “La terra bianca”, ci fa conoscere una realtà complessa, che parte dalla famigerata esplosione del serbatoio di pesticidi della Farmoplant del 17 luglio 1988 – evento ribattezzato dalla stampa di allora “la Caporetto del turismo” – per arrivare al braccio di ferro sulle cave che ha tenuto banco in questi mesi. Attraverso il racconto dei cavatori, degli anarchici, dei soldati apuani in Russia e dei partigiani, dei lavoratori del polo chimico e degli ambientalisti, Milani affronta in modo inaspettato, unendo ricerca storica, testimonianze e ricordi personali, il tema del conflitto tra ambiente e lavoro, o meglio “tra interessi collettivi e interessi privati”: a Massa Carrara come nel resto d’Italia pare si debba sempre aspettare il disastro per chiudere il discorso, anche se nel libro compare una terza via tra incidente e sabotaggio ambientalista. Così scopriamo che il vero business del marmo non sono i blocchi, la pietra che piaceva a Michelangelo, ma il carbonato di calcio che si ricava dalla polverizzazione delle Alpi Apuane: ogni anno ne scompaiono 9 milioni di tonnellate, producendo più costi sociali che benefici: la provincia è “al 76° posto della classifica nazionale per la qualità della vita, per il tasso di disoccupazione al doppio della media regionale, per il degrado urbano e il dissesto del territorio”. Ma non è questo l’unico tema di un libro che racconta tre generazioni di apuani, dal primo dopoguerra fino a giorni nostri, mettendo in scena saga familiare, epica del lavoro, conflitto generazionale e un disperato amore per la propria terra. Anche questa è Toscana.

Monte Bettogli
Monte Bettogli

Mauro riprese il filo del suo ragionamento non appena ebbe ordinato una grappa. “Comunque”, considerò, bagnandosi il baffo, “dalla fine dell’Ottocento la tecnica dell’esplosivo fu rimpiazzata quasi completamente dal filo elicoidale”. Errichetta volle saperne di più e Mauro le spiegò che il filo elicoidale era un dispositivo per il taglio del marmo costituito da una funetta formata da tre fili di acciaio, avvolti a elica e di lunghezza variabile, che poteva raggiungere i 1.500 metri per i grandi tagli. In un’ora di marcia un filo poteva segare, in media, sessanta metri cubi di pietra: veniva fatto scorrere a una velocità di cinque, sei metri al secondo, e il taglio del blocco era alimentato da una miscela abrasiva di acqua e sabbia silicea.

“Mio nonno Gardenio mi ha raccontato di aver usato il filo elicoidale fin quasi al momento di partire soldato, appena prima della seconda guerra mondiale. Questo dimostra che nelle cave, specie in quelle più piccole, le tecnologie entrarono molto lentamente. Per anni gli strumenti indispensabili del lavoro sono stati forza, coraggio, una buona dose di esperienza e la dinamite”.

“Quelli sì che erano uomini”, ghignò Errichetta sorbendo allegra il suo cordiale.

“Puoi ben dirlo”, s’inorgoglì lui, dando forse a intendere che ne discendeva. “Dopo la varata entravano in scena i riquadratori, per esempio, che a suon di subbia e martello cercavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quegli uomini dovevano avere una forza e una pazienza fuori dal comune. Mio nonno mi raccontava di aver conosciuto un vecchio che aveva lavorato ai tempi in cui il marmo lo segavano a mano. Ma ci pensate? L’avete mai vista una sega del genere?”.

Lasciai che Errichetta scuotesse la testa.

“Sapete come funzionava? Era una lama d’acciaio senza denti e veniva applicata su un telaio di legno manovrato per aria con le carrucole: due uomini da una parte e due dall’altra. Un lavorone. In un giorno se ne poteva segare quattro dita. Per segare un blocco ci volevano dei mesi! E non erano certo blocchi grandi come quelli che fanno ora, due metri per quattro, alti uno, ma blocchetti che si portavano in collo…”, rise. “E poi c’era il discorso del trasporto, ovviamente. Un capitolo a parte. Una volta riquadrati, infatti, i blocchi dovevano scendere a valle. Il lavoro, anche qua, era tutt’altro che semplice…”. E ci spiegò come, ai tempi di Michelangelo, per portare a valle i blocchi di marmo, c’era soprattutto un modo: farli rotolare giù, senza alcun controllo, sopra un “letto” di detriti. Questo rudimentale metodo di trasporto, che si chiamava “abbrivio”, era talmente pericoloso che verso la fine dell’Ottocento fu vietato per legge. Ma prima di arrivare al trenino a vapore – la “ciabattona”, come l’avrebbero chiamata –, c’era la “lizzatura”: “Sapete tutti, più o meno, come funzionava, un sistema vecchio di duemila anni: consisteva nel mettere i blocchi di marmo sopra una slitta ricavata da tronchi di faggio o di quercia e di farli scorrere verso valle. La ‘lizza’ era formata da diversi blocchi di marmo tenuti insieme da robuste corde di canapa, che servivano anche per far scendere lungo tutto il percorso l’intero carico”.

Alla lizzatura partecipavano in parecchi: era un lavoro di squadra davvero rischioso e Gardenio vi aveva preso parte diverse volte. Davanti a tutti c’era il capolizza, che aveva il compito di controllare che la discesa procedesse per il meglio. Era un compito delicato, e veniva affidato all’operaio più esperto. Era lui che disponeva i “paràti” sul terreno davanti alla lizza, e dava il segnale ai “mollatori” di allentare o stringere i cavi al momento giusto. “I paràti, poi, non erano altro che robusti pali di legno circolari, che venivano aggiunti anteriormente, mano mano che il carico scendeva, consentendogli di scivolare senza incontrare ostacoli. Un’altra figura molto importante nella lizzatura era appunto ‘l’uomo del piro’, chiamato anche ‘il mollatore’, che aveva il compito di mollare lentamente le corde in modo che il carico scendesse senza prendere velocità e fare danni. La lizzatura era una delle fasi più rischiose del lavoro in cava. Se il carico si liberava dalle corde e prendeva velocità, chi stava intorno veniva travolto. E questo, purtroppo, è successo più volte”. E qui Mauro ci spiegò come, a parer suo, il sentimento genuino dell’anarchia, un vero e proprio “distillato apuano”, avesse potuto svilupparsi proprio tra questi sfruttati.

“Nel lavoro in cava”, proseguì, “per esempio in quello del tecchiaiolo, si sperimenta la solitudine dell’individuo davanti alla morte, la sua irriducibile singolarità; ma nello stesso tempo ci si rende conto di come la propria vita sia legata alle mosse degli altri, alle loro manovre e capacità complessive, a una rete di solidarietà e cooperazione, come per esempio avviene nella lizzatura”.

Il lavoro di squadra della lizzatura, in ogni caso, finiva nel momento in cui il carico arrivava al “poggio”, che era il luogo dove i blocchi di marmo venivano liberati dalle corde e caricati sui carri trainati dai buoi. Così il marmo veniva portato a valle e da lì smistato verso varie destinazioni: Gardenio ricordava una miriade di botteghe artigiane, scultori o segherie tra Carrara e la Versilia, tutto un rumoroso indotto che adesso non esiste più, spazzato via tanto dall’impennata della richiesta del carbonato di calcio, ovvero del marmo polverizzato, al posto dei blocchi per l’uso ornamentale, quanto dall’incremento dell’export dei blocchi ornamentali sulla piazza estera, dove gli acquirenti hanno i loro opifici con costi di lavorazione ben più bassi.

“Il mondo che ha conosciuto mio nonno non esiste più. Col passare degli anni, le tecnologie hanno cambiato la cava. L’hanno resa più accessibile e soprattutto meno pericolosa. Meglio precisare: meno pericolosa rispetto a com’era una volta, perché la sicurezza in cava è un ossimoro, e gli incidenti accaduti anche di recente dimostrano che quello del cavatore rimane ancora il mestiere più a rischio”. L’uso degli esplosivi si è fortemente ridotto, e il filo elicoidale è ormai un oggetto da museo. L’avvento del filo diamantato permette di tagliare pezzi di monte a una velocità incredibile: se una volta per fare un taglio ci voleva un mese e mezzo, lo stesso taglio si fa adesso in tre, quattro giorni. “Il filo diamantato non so se l’avete visto, è fatto come una collana di perle: e infatti quei cilindrini che vengono infilzati sul cavo si chiamano ‘perline’, e sono dei piccoli diamanti artificiali, distanziati tra loro da minuscole molle. Unico grave inconveniente di questo metodo di lavoro è che le perline, quando si rompe il filo, partono come proiettili. Per questo gli addetti devono sempre stare a distanza, con la macchina in movimento”.

Quando approdarono in cava le pale meccaniche, gli escavatori sui cingoli e gli altri mezzi per il sollevamento dei marmi, furono messi da parte anche i buoi che ai tempi di Gardenio trasportavano i blocchi di marmo.

“Oggi una pala media solleva senza sforzo blocchi di trenta tonnellate, e in breve tempo, a seconda della perizia del manovratore, li carica sul camion. Anche le figure professionali della cava sono cambiate. Tecchiaioli e lizzatori non esistono quasi più; il capocava un tempo era l’indiscusso uomo di esperienza, che decideva tutto, mentre oggi è affiancato da un ingegnere minerario che ha il compito di dirigere i lavori, e controlla se il ‘piano di coltivazione’ della cava viene eseguito correttamente. Gli operai, inoltre, sono diventati sempre più manovratori di macchine. Oggi, un bravo ruspista che sa sistemare il blocco sul camion equivale a un gruppo di esperti lizzatori di un tempo”.

“In questo modo”, dissi io, “sono riusciti a portar via dalle montagne, negli ultimi vent’anni, l’equivalente di un’era geologica. Puoi apprezzarne l’effetto anche su Google Earth, i forzati della mistificazione lo chiamano ‘white impact’, ‘impatto bianco’. La tv tedesca, invece, una volta è venuta qui per girare un documentario e l’ha definito ‘il più grave disastro ambientale d’Europa’”.

“A me è sempre piaciuta la terminologia tecnica”, intervenne Errichetta, seguendo un suo ragionamento. “I ‘piani di coltivazione’, gli ‘agri marmiferi’, la ‘coltivazione degli agri marmiferi’, neanche parlassimo di pomodori: la tecnica, come sempre, si finge neutra e invece è schierata”.

“Tra le differenze di rilievo c’è anche quella del trattamento economico: oggi, un operatore di cava specializzato ha una paga più che dignitosa. Se piove è protetto dalla fiscalità generale col regime della cassa integrazione per maltempo. Per non parlare del nero che entra in tasca anche a loro. Una volta capitava perfino che i cavatori, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, andassero per boschi a raccogliere castagne o nel campo a coltivare l’orto, e magari con l’aiuto dei familiari rigovernavano le bestie”. E poi c’è il discorso sicurezza. Inesistente. “Il lavoro in cava è molto rischioso ancora oggi a causa degli incidenti. Rispetto al passato esistono ovviamente norme di sicurezza maggiori, che prevedono l’uso di caschetti, calzature antiscivolo, occhiali protettivi, cuffie per le orecchie, senza contare il fatto che è venuto meno il trasporto con la lizza, pericolosissimo a causa del peso dei blocchi ma anche dei pìri, dei paràti e dei cavi, che spesso si rompevano e vibravano nell’aria, colpendo gli addetti intorno. Mio nonno aveva visto morire parecchi compagni nei modi più diversi… Una volta era per la via di lizza, in fondo c’era un ponte per attraversare il fiume e si ruppe il cavo: un morto e due feriti, di cui uno grave che morì più tardi. Un’altra volta l’incidente fu provocato da una varata. Avevano previsto la ‘mina’, come chiamavano l’operazione con la dinamite, per il sabato, e quando fu sparata la mina, il capo prese la corda per calarsi con le funi lungo la tecchia e controllare da vicino gli effetti dell’esplosione ma venne giù una lastra e ‘lo spanciò’. In un’altra occasione, mio nonno mi raccontò di un cavatore che tirava l’argano, ma scappò un ferro e lo trafisse”.

Per Mauro vedere i propri compagni di lavoro morire in quel modo, o restare invalidi per sempre, doveva essere un’esperienza drammatica, accettabile solo all’interno del paradigma di una cultura sacrificale.

Trincale copertina cassetta Farmoplant

“Oltre agli incidenti legati al taglio, al trasporto o all’esplosione di mine, c’erano anche danni che si manifestavano più avanti nel tempo, ovvero quelli connessi all’inalazione di polvere di marmo, che contribuiva allo sviluppo di malattie polmonari come la silicosi, o quelli collegati al tremore continuo delle mani e delle braccia, provocato dall’uso dei martelli pneumatici protratto negli anni. Altri tipi di problemi andavano a carico dell’apparato uditivo: i continui rumori, ma soprattutto le forti esplosioni, causavano danni permanenti. Ma erano tutte cose che non venivano neppure calcolate: le preoccupazioni dei lavoratori di allora erano legate alla stretta quotidianità e alla semplice sopravvivenza. Gli uomini lavoravano come bestie e le donne si occupavano della casa e dei bambini. Anch’io mio padre l’ho visto sempre poco, in casa, come lui aveva visto poco mio nonno e mio nonno il suo. La dimensione del lavoro era totalizzante, una divinità sanguinaria che richiedeva sempre nuove vittime. Come soldati in guerra: non erano nient’altro che sacrificabili soldati in guerra, che ogni giorno dovevano soltanto badare a come riportare a casa la pelle”.

[…] Mauro ricordava con piacere i racconti del nonno, soprattutto perché quei racconti erano un tutt’uno col ricordo della sua infanzia in campagna, gli unici ricordi belli che riteneva di avere. Il ricordo di come suo nonno sarebbe partito per la guerra, per esempio. Il racconto cominciava sempre col discorso che in quei giorni, a Massa, sembrava che gli addetti del distretto militare avessero deciso di destinare tutti i soldati di leva nelle truppe di montagna. Lui poteva avere sei, sette anni quando sentì per la prima volta la storia: il treno che avrebbe condotto suo nonno, insieme agli altri soldati di leva, a Cuneo, era un serpente di carrozze sotto il sole acceso della prima domenica di marzo.

Fra meno di cinque mesi Gardenio avrebbe compiuto ventun anni, e la sua destinazione era presso il IV reggimento artiglieria da montagna, comando gruppo Mondovì, della divisione Cuneense. Tutte le volte che negli ultimi tempi gli era capitato di pensare a Cuneo, non aveva saputo tanto bene che cosa pensare. Ai parenti e agli amici che gli domandavano dove si trovava Cuneo e che cosa significasse far parte di un reggimento di alpini, lui non aveva saputo cosa rispondere, perché era nato a Massa e, a Massa, aveva sempre vissuto. Non sapeva che cosa fosse la naja alpina e non sapeva neppure che cosa fosse davvero l’esercito. Del resto, dall’età di quindici anni aveva sempre e soltanto fatto il cavatore e ora, sotto le pensiline della stazione, guardando la marea di familiari e fidanzate che accompagnavano i partenti, gli faceva un certo effetto pensare che alla fine di quel viaggio si sarebbe trovato davanti agli occhi lo splendore di nuove montagne coperte di neve.

[…] La quota da riconquistare era il sommo di un modesto colle, un’onda appena distinguibile dal mare di colline che increspavano quel tratto di steppa ghiacciata, ma l’unica scarificata all’osso dai bombardamenti. Dal colle scendeva il canalone, quasi il colle fosse franato. Gardenio fu mandato di rincalzo ai mitraglieri della 20a compagnia, che entrò in combattimento per prima. Le batterie della 115a compagnia avevano preparato il terreno concentrando il fuoco sulla cima. Il plotone fucilieri si portò sulla sinistra alla base della quota, poi fu il turno del suo. Il suo plotone avanzò come facevano gli altri, come avevano imparato a fare nei campi d’addestramento dietro casa. Una squadra sulla destra, una al centro, l’altra a sinistra. Il capitano stava in testa, al centro. Salivano ad ali alternate: “Avanti la prima!”, gridava il capitano, e la prima squadra faceva dieci metri e si buttava a terra. “Avanti la seconda!”, e la seconda faceva dieci metri e si buttava a terra. Visti dal basso, parevano i movimenti d’una squadra di calcio per arrivare a rete. Ma c’erano due mitragliatrici russe, sulla sommità del colle, con gli scudi pesanti. Loro salivano allo scoperto, e le mitragliatrici incrociavano i tiri e sparavano addosso.

Ogni ora che passava, le razioni di cibo aumentavano, per via dei morti. Per tre giorni e due notti, l’attacco alla quota venne portato sempre dalla stessa direzione, sempre dallo stesso lato. Non vi fu nessuna manovra diversiva, nessun accerchiamento, nessuna tenaglia. Salirono sempre frontalmente, una squadra dopo l’altra, sedici uomini alla volta, e sempre da sinistra a destra. Gli attacchi e i contrattacchi non si contavano più. Squadra per squadra, reparto dopo reparto, di tre compagnie impiegate era rimasta, a sera del secondo giorno, la forza di due sparuti plotoni. La mattina del terzo giorno sbucarono, come da una quinta teatrale, due carri armati tedeschi. Dove s’erano nascosti tutto il resto del tempo e perché non li avevano impiegati prima? Dietro i due carri avanzava, le schiene curve, un plotone d’alpini appiedati. Un plotone dalla forza di una squadra, non più di quindici uomini. Raggiunsero la cima del colle senza che le mitraglie potessero impedirlo, riconquistarono la quota senza sparare un colpo. Poi, più nulla. Il contatto con la linea avversaria si ridusse a brevi scambi di raffiche. Un giorno arrivarono due aerei nemici e mitragliarono. Un altro giorno… Non si sapeva cosa ci fosse davanti, non si sapeva cosa fosse successo alle spalle. Si sentiva, solo, un lontano tambureggiare, come il rumore di un temporale distante, e ficcando gli occhi dentro l’orizzonte, la notte, riuscivi a vedere i fuochi: lì c’era Stalingrado.

[…] La terra bianca che aveva intorno era come un paesaggio di cava rischiarato dalla luna. E pensò che dal lavoro alla guerra non era cambiato nulla, la morte era sempre con lui. E non c’era niente che lo trattenesse, non lo zaino affardellato, non la giubba, non la coperta che si teneva sulla testa, non il fucile, nessuna cosa oltre l’abisso di neve e lo scorcio improvviso del ponte, dritto davanti a lui, che nel chiarore dell’alba si slanciava oltre il nulla. Per la paura sentì i capelli drizzarglisi in testa, ed ebbe la sensazione di poterli contare: a metter giù due passi svelti era troppo, uno era troppo poco, non sapeva più come camminare. Pensò di buttarsi a terra e di staccare le mani dalla coperta, d’infilarle in tasca per mangiare qualcosa. Non c’era luna né stelle, era la neve che, cadendo dalla schiuma del cielo, portava indietro il brillio che rischiarava la notte. Avanzava e teneva d’occhio il tratto di pista che lo separava dal ponte. Ne vedeva i pali di segnalazione, neri, col fascio di paglia legato ognuno alla cima, che simili a un misterioso dispositivo d’aste da pesca semisommerse parevano pronte a scattare, quando la preda fosse risalita, per riempire le reti. A tratti sentiva i piedi che sprofondando sfioravano uno strato più molle, e immaginava qualcosa fuggire con bagliori biancastri; altre volte incespicava sopra un guscio di ghiaccio e le caviglie scartavano come afferrate. Vedeva il ponte che s’avvicinava, e pensava allo strano destino, prima ancora che tragico o beffardo o altro, che lo aveva protetto fin lì. Ed ebbe il vuoto davanti, il ponte sgombro che l’aspettava, e continuò deciso in quella direzione.

Giulio Milani, La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri (Laterza, 2015)

I poeti appartati: Mariagiorgia Ulbar

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Nota

di

Alida Airaghi   

Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione.

Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta?

Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi. “Ciò che lascia fuori la risacca/ gli oggetti strani, dimenticati o rotti/ quello che resta, lo scarto, i pezzi”, “E’ solo acqua ora sopra e sotto/ così non c’è modo di tirare/ su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore”. “Andrò sul fondo, sulla sabbia/ dove vivono le salme e i relitti”. Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco: “Qui mi sporcano la polvere, il catrame/ gli incarti di pasti già mangiati//…la terra, i balsami, le bende”, “Torno dove termina la strada/ dove resta solo il bivio/ dove trovo i calcinacci//…un solco, una crepa”, “asfalti e bar bollenti/ tavoli di plastica rossi e bianco avorio/ con il buco al centro senza ombrello”, “Sotto le rotaie e sotto il fiume/ vivono i topi…”.

Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: “mettere in un sacchetto il nostro oro/ se dovesse servirci all’improvviso/ per mangiare, lasciare un posto troppo buio,/ salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo/ fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo/ per una indicazione e acqua fredda in cambio”. Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta (“e a noi è mancata una guerra/ mondiale, ti ho detto all’improvviso”): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere (“noi siamo quelli che non disturbano mai”).

Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione “Mio padre era un re”, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: “Di metodo ho bisogno per passare,/ di metodo, di ordine, così invoco”. Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: “I cani andavano felici sulle spiagge,/ io in ultima carrozza/ col futuro alle mie spalle, dove vado/ mentre guardo le rotaie del passato/ che si allontanano.”

 

LA PUNTA DELLA LINGUA: POESIA FESTIVAL (X ed.)

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 Ancona e Portonovo, 13-18 luglio 2015

IL PROGRAMMA

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L’Atlante delle isole remote

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di Marco Viscardi

L’Atlante delle isole remote di Judith Schalansky (edito da poco nell’edizione tascabile per i tipi di Bompiani, trad. di Francesca Gabelli) è un elegante e smilzo libro per pigri. Per chi ama guardare i paesaggi senza contaminarli con la propria presenza, per chi considera oltraggioso quanto non è contemplazione; un libro per i meditatori di carte geografiche.
Da qualche anno, per una serie di fortunate coincidenze, mi capita di passare i miei inverni su di un’isola minuscola e introversa collegata da un ponticello a un’altra isola, ancora più piccola, dal nome invitante, che ricorda la vita e il vivario delle intelligenze e dei conigli. Per mesi ho visto questa ulteriore isola dalla mia finestra, illuminata dalla differente luce dell’autunno, dell’inverno e della primavera, spesso sovrastata da Venere. Questo Atlante è un libro per me che non ho mai avuto il desiderio di superare quel ponticello, appagandomi di contemplare il dorso della piccola isola proibita, la dolcezza della sua baia che ricorda a chi la guarda il cratere del vulcano che vive sotto quelle stesse acque dove d’estate è quasi impossibile fare il bagno a causa della folla di villeggianti.
L’Atlante delle Cinquanta isole dove sono mai stata e mai andrò, come dice l’autrice nel sottotitolo del volume, è appunto un libro per contemplatori e pensosi solitari. Ed è un vero atlante, con tanto di cartine e indicazioni geografiche, gradi, meridiani e paralleli, ma è soprattutto un atlante culturale perché ogni isola è depositaria di una storia, di una parabola, di una distanza, di una mistificazione. C’è naturalmente Sant’Elena, ultima minuscola dimora dell’imperatore del mondo, dell’isolano cafone, di oscura origine, che volle farsi re di un continente intero, il còrso che passò scapigliato il ponte d’Arcole per poi incoronarsi, dopo una visita dal barbiere, davanti al pontefice e a una aristocrazia da lui creata. E poi c’è l’Isla Robinson Crusoe che, impariamo da questo volume, dista 630 chilometri dalle coste cilene – sì, le distanze vengono indicate in chilometri, anche se sarebbe più opportuno indicarle in miglia marine: questa è forse l’unica pecca del volume, ma un miglio marino corrisponde a 1.852 metri, basta farsi due conti. L’isola dell’inesistente Robinson è in realtà l’isola dove naufragò Alexander Selkirk, il vero marinaio scomparso che visse perduto su questo scoglio di quasi 97 km2, oggi popolato da 633 abitanti, con un atteggiamento ben diverso dal suo fantasma letterario. Se la godette in quell’altrove senza regole e convenzioni; oziò, rispettò la domenica, e scrisse un diario, che secondo l’autrice è naufragato fra le carte della Biblioteca statale di Berlino, ed è oggi introvabile.
E poi ci sono le isole non fatte per l’uomo, come St. Kilda, al largo delle coste scozzesi, dove per secoli i bambini appena nati morirono misteriosamente, senza che mai si sia potuta trovare una spiegazione. E adesso l’isola è disabitata, a differenza di Pitcairin, francobollo britannico di 4,3 km2 sperduto nell’Oceano Pacifico, dove i discendenti degli ammutinati del Bounty per secoli hanno continuato a violentare donne e bambini, rivendicando quei gesti come diritti consuetudinari ereditati dai loro padri. La natura non è buona, e tanto meno l’uomo. Una ulteriore conferma viene dall’isola di Saint Paul, 7 km2 a 3.000 chilometri di distanza dalle Antille; gli inglesi che vi sbarcarono nel 1875 trovarono solo due uomini: il governatore e il suddito, e sepolti nella loro baracca i resti del mulatto, che forse i due avevano divorato senza pietà né cattiveria. Un dramma beckettiano sperduto in quell’orizzonte assolato, nei deserti dell’Oceano Indiano. E poi ancora isole, e ancora storie, orizzonti, domande, utopie polverizzate e aspirazioni struggenti e irrealizzate a cui aggiungere, a matita, l’isola delle isole: Ferdinandea, l’effimera e scontrosa che emerse nel 1831 nel canale di Sicilia, prima di tornare nelle profondità di quelle acque alla fine dell’anno successivo, dando giusto il tempo alle diplomazie francesi, inglesi e borboniche di rivendicarne il possesso.
Alla fine della lettura, sfogliando nuovamente il volume, senza ordine, per vedere le isole, inseguirne con lo sguardo i contorni frastagliati, il succedersi delle alture, l’irregolarità delle baie e la bellezza degli atolli, di quel vuoto di mare con attorno barriere di coralli e madrepore, si sospetta un senso ulteriore e profondo del libro. Ma non nella bellezza della riproduzione topografica che occupa la pagina destra del volume, dell’isola riprodotta al centro di un mare color carta da zucchero, bensì nel minuscolo planisfero che introduce, stavolta sulla pagina di sinistra, in alto, sul bordo destro del foglio, la nuova isola descritta. In quella minuscola riproduzione del mondo, grande quanto una moneta da cinque centesimi, è sempre l’isoletta remota a occupare il centro della scena, sempre circondata dalla mastodontica massa dei continenti, i quali se ne stanno ai bordi, come presenze boriose e incombenti, eppure periferiche e inessenziali. Perché se è vero che negli atlanti che si rispettino le piccole isole sono indicate appena quali note a piè di pagina, cacche di mosca in riguardi separati, riprodotte con scale differenti rispetto alla madrepatria, perché troppo piccole per la scala dei giganti del pianeta; se è vero, insomma, che negli atlanti compiaciuti, compilati con severa precisione da cartografi militari, quelle isole rappresentano l’inessenziale se non l’inutile, qui occupano invece il centro della scena. Sono l’ombelico del mondo, Te pit o te Henua, come gli antichi abitatori di Rapa Nui chiamavano quell’isola che per noi occidentali prende il nome dal giorno in cui fu scoperta: l’isola di Pasqua, che dista dalle coste cilene il doppio della distanza che separa la mia casa napoletana dalla porta di Brandeburgo (ma in questo volume scopriamo che esiste anche un’Isola di Natale, che non è lontana da Java e non è popolata da renne, ma da granchi sessualmente maturi che cercano di raggiungere il mare, mentre eserciti di formiche impazzite tentano di impedirglielo).
Una terra sferica, irregolare, scabrosa come un geoide informe (forse più simile a una pera che a una palla da calcio) possiede infiniti centri, a seconda dei punti di osservazione, e da ciascuno di questi punti di osservazione, remoti e secondari, il mondo cambia, investito da uno sguardo diverso da quello totalizzante dei grandi centri. Leggendo questa raccolta di cinquanta apologhi su altrettanti luoghi irrilevanti, sentiamo che ogni punto smarrito nello spazio è il centro verso cui convergono tutte le storie del mondo; che il nostro passaggio su questo pianeta, anche lui inessenziale, è in bilico nella tensione di un’esistenza strabica e bifocale che ci tiene in ogni momento al centro e in periferia, nell’occhio del ciclone e lontano da tutto. Travolti nel naufragio delle cose e accolti nella tranquillità domestica in cui si può leggere questo strepitoso Atlante. Ci dice, questo libro smilzo di una designer trentenne nata in un paese che le carte non riportano più (la DDR), che non esistono gerarchie geografiche e quindi culturali, che siamo sempre lontani dalla meta e coi piedi alla fine del cammino. Che vicino e distante sono concetti ambigui e problematici: la bussola delle grandi narrazioni è saltata, le ideologie non stringono più l’irregolarità del paesaggio come meridiani e paralleli, ma in questa difficoltà a dire dove siamo resiste una più profonda libertà di quella del secolo che ci ha preceduto: una libertà dell’imprecisione che suggerisce un’etica del disorientamento ma non dello smarrimento. Un’etica che ci porta a scegliere volta per volta, sulla base della bussola incerta della coscienza, cosa fare, quale scelta intraprendere, verso quali lidi andare. Le luci del porto sono effimere e lontane, ingannevoli e fantasmatiche, esiste solo la navigazione e proprio la navigazione, se si hanno il coraggio e l’incoscienza di considerare le cose senza angoscia, potrebbe essere il seme della felicità.

Il silenzio di Miłosz

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Di Marco Pasi

 

Ho appena finito di leggere Vado a vedere se di là è meglio, di Francesco M. Cataluccio.[1] Per chi ha fatto certi viaggi oltrecortina a una certa età, e ama la letteratura dei paesi slavi, è una lettura non solo piacevole ma direi indispensabile. Nel 1977, poco più che ventenne, Cataluccio se ne andò a studiare filosofia a Varsavia. Era l’inizio di un amore per la Polonia che col tempo ha reso Cataluccio uno dei conoscitori più fini e sensibili in Italia della storia, della cultura e della letteratura di quel paese. Non se n’è servito per una carriera accademica, il che torna a suo merito, ma piuttosto per portare da noi come traduttore e curatore quanto di buono si è scritto e pensato laggiù negli ultimi cento anni.

La memoria spoglia della Resistenza

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di Anna Vallerugo

Racconti partigiani

Sembrano nascere da una giustificata urgenza gli splendidi Racconti Partigiani di Giacomo Verri (Biblioteca dell’Immagine): dalla necessità di ribadire importanza e attualità della Resistenza in questi nostri tempi fluidi, oscurati da perdita di lucidità di giudizio e minacciati da rigurgiti di revisionismo storico. Non venga posta una pietra sopra al periodo partigiano, pare voglia dire questo libro, né vengano appiattiti in una sequela di aridi elenchi di gesta più o meno vittoriose le speranze, gli slanci umani, il pulsare di vita di quegli anni.

Sarebbe sufficiente questo voler onorare la dignità di un passato ancora recente e l’intento dell’autore di consegnarle spazio nel presente e nel tempo a venire a giustificare la lettura di questi brevi e preziosi racconti. Ma qui c’è di più: all’afflato civile si somma in Verri la meraviglia di una cifra stilistica personalissima, che lo conferma “una delle voci più originali del nuovo millennio” per usare le parole di Francesco Permunian nella prefazione al volume.

Come già nel precedente Partigiano Inverno (Nutrimenti), finalista al Premio Calvino 2011, è proprio nella cura del linguaggio che il giovane scrittore piemontese giganteggia: nella scelta della parola precisa con cui ci racconta stavolta otto piccole ma immense storie di partigiani dai nomi di battaglia luminosi: Urlo, Foscolo, Mirto, Manta. Uomini colti non nell’attimo in cui infuria la battaglia, ma nell’istante immediatamente successivo: quello colmo di uno sgomento tutto nuovo, tra l’incapacità di cogliere a pieno quanto è stato e l’impossibilità di comprendere in un unico sguardo ciò che di lì a poco sarà, nella Storia che preme e il cui corso va comunque delineato. Qualcosa di definitivo, in Piemonte dove sono ambientati così come tutta Italia, è accaduto:

“A Borgosesia, c’era un’aria completa e odorosa che non la vedi neppure per la Madonna a maggio: le donne grembiulate mollavano a metà quante faccende avevano, le case si vuotavano, mentre gli uomini ancora col Novantuno, ma come per celia, passavano le maniche di portici ridendo. Io il fucile l’ho posato all’ora di pranzo e poi tutto è finito”.

Passati ormai definitivamente i mesi di “stupende follie e coraggi e triboli e privazioni” cosa ci sarà? E’ una perdita di identità collettiva e del singolo quella che va affrontata: e che impaurisce.

“Paura nasceva in quelli che avrebbero faticato a smettere gli abiti ribelli, in quelli che avrebbero tribulato a tornare in fabbrica o in ufficio o agli studi, perché fare i partigiani, te lo assicuro, significava essere sempre in pari con se stessi, e mai di meno, per l’eccesso di volontà che ci teneva vivi, e mai di più, perché non ce n’era modo. Così in piazza, come ti ho detto, giravano i balli e i canti, i caffè mettevano fuori i tavoli col vino. Tantissimi uomini baciavano tantissime donne. Si urlava, si stringevano le mani e ci si avvolgeva negli abbracci amati e, a chi quel giorno era ancora lontano, si spedivano biglietti di gioia indivisa”.

Cosa seguirà dunque a questa ebbrezza collettiva? Giacomo Verri, che è scrittore serio, non indossa le veste di sociologo a basso prezzo e facile presa popolare: l’analisi del momento storico, meglio ancora, la sua precisa fotografia, c’è, ma rimane volutamente sullo sfondo.

In primo piano il sospeso, la moltitudine del possibile.

Un possibile che in uno scrittore del nitore di Verri passa necessariamente anche per la parola e la scrittura, per il suo ruolo fondamentale ed edificante che fa ribadire a un personaggio:

“…Di nuovo gli si imponevano alla mente i libri che erano gli unici a dire, dopo mille anni, o due o tre, il sangue con cui si sporcarono altri altari, e come, e quanto, e quando. Dunque, rifletteva, le guerre vanno fatte per scrivere dei libri, perché ogni libro porta a nuove posizioni sulla scacchiera dell’esistenza, e a scoprire inedite connessioni nel mondo”.

Eppure sono tutto fuorché libreschi, i partigiani di Verri: sono uomini e donne sanguigni e leali, “attenti, ammirati, fiduciosi nella gloria ventura, accalorati, eccitati, coi sorrisi attorno ai denti stretti, percorsi da forze sotterranee”: uomini capaci di grandi amicizie, e amori, e fede, e anche parole, parole a infiammare gli animi, parole importanti, con una morale propria, vera, lontana dalla facile retorica di propaganda.

E’ un’epopea umanissima, quella che Giacomo Verri narra, e del fondato timore di un suo parziale oblio o misconoscimento: meraviglioso e straziante, tra gli altri, il racconto “Parlo di Boezio”, dell’incontro con chi fu “partigiano di tante battaglie, ferito in quattro scontri. Anche alla coscia, una volta, quando diede sangue a mestoli sulla neve candida e alta come barili e si fasciò con un pezzo di tela di paracadute. Un male da strappare Dio dalle nuvole coi denti.” Che lo fece bestemmiare “tenacemente tra gli sputi di una saliva schifosa che sapeva di letto d’ospedale e di zinco”. Ce l’aveva fatta, poi, Boezio. Ma fatta a fare cosa? E a quale scopo?

Il narratore lo ritrova negli anni Novanta in fila alla posta, il vecchio eroe, tra una indifferenza che raggela: l’impiegata, come chiunque lo circonda – gli altri utenti frettolosi, perfino la famiglia stessa – gli negano qualunque identità, non riconoscendone splendori passati, né un nuovo ruolo nel mondo. Quasi fosse un peso, il detentore di un lingua ormai morta, di nostalgie di scarsa comprensibilità.

E invece Boezio è figura paradigmatica: se come per gli altri ormai ex-eroi “la storia per lui andava dal quarantatré al quarantacinque. Il resto era una postilla”, è nel riscatto fiero dell’uscita dall’ufficio postale al finale del racconto che ne rivediamo il partigiano che era stato e che sempre sarà, riconoscendone grandezza e valore: “Salutò, anche se non conosceva nessuno, sventolando la mano in alto, dando le spalle a tutti quanti”.

La scrittura di Giacomo Verri non ha mai un cedimento e trova anche negli altri racconti giusta misura nel contrapporre in rapporto dialettico la gioventù di passione, “del sudore, della paura, della rabbia”, di raffiche di fucile seguite da silenzio “completo, perfetto, come se avessero appena finito di crearlo” e un presente fatto di poveri corpi:

“Ora Enrico osserva il nonno, e poi il bicchiere smorto e drappeggiato di salive dov’era l’acqua che il vecchio ha appena tracannato. Ancora di più si sente le mani sporche, di una sozzura appiccicosa e stratificata, sporco su sporco, che sa anche di infetto e di stagnante, sì, il nonno sta stagnando lì, la sua vita è tutta nel rettangolo del materasso, inchiodata tra un pannolone e le piaghe da decubito che gli mangiano la pelle gialla. Poi guarda il quaderno, Enrico, e non ha dubbi: è in quella stanza solo per sentire ciò che esce dalle righe ben fatte degli appunti partigiani del vecchio”.

Un vecchio che continua ad illuminarsi nel parlare del “comandante Urlo, campione dei garibaldini”, colui che in un codice di comportamento non scritto ed esemplare, di rispetto del singolo fino all’ultimo sottoposto, “di ogni uomo della brigata ricordava il numero di scarpa, anche il nome della mamma, del papà e della morosa”.

Verri, infine, esce dai rigorosi, tradizionali margini della letteratura sul periodo partigiano, perché la storia resistenziale, a ben vedere, passa anche per protagonisti involontari, solo apparentemente marginali. E ci consegna tra gli altri il delicato e singolare racconto di Sebastiano, protagonista novenne di “Vene sottili e petali di rosa”, destinato a una iniziazione alla vita cruda e indimenticabile.

C’è molto Fenoglio, in questa raccolta, per ammissione stessa dell’autore, che ha deciso di chiuderla perciò con un’intervista impossibile proprio al suo “nume tutelare”: un colloquio che chiude perfettamente il cerchio, non facendosi facile divertissement fine a se stesso, che comprende invece piccole pagine illuminanti su quello che è, in fondo, il significato vero di questo libro: “cogliere, oggi, la memoria spoglia e confidenziale della Resistenza”.

Off Site Art / Artbridge per L’Aquila #1

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OFF SITE ART

di Alessandro Chiappanuvoli e Veronica Santi

Foto di Claudia Pajewski

Attraversi rapidamente il viale alberato che costeggia il Castello, stai andando in Centro, nella piccola parte resuscitata, sfili Porta Castello e parcheggi l’auto su Via Castello. Se non fosse per l’intensità d’azzurro del cielo di questi giorni che attira i tuoi occhi, forse, non ci avresti fatto neanche caso per la fretta che hai di solito quando esci, e da quanto tempo sono lì affissi quei cosi, è la prima domanda che ti poni.

Ich bin ein grieche

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Greek Bailout Fund

 

(ringraziando Giudo Scarabottolo)

 

150 anni di Alice: Mio padre il Giabbervocco

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. Quindi: cominciamo! (NDF)

 

di Corrado Premuda
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Non sapevo ancora leggere ma riconoscevo i libri dal dorso. Per dire la verità riuscivo a leggere lentamente alcune parole, come tutti i bambini che hanno imparato da poco, ma preferivo di gran lunga ascoltare le storie che mi venivano lette, guardando le pagine per gustare le immagini, i titoli in grassetto e l’avventuroso sfogliare della carta. Il libro di “Alice” era facilissimo da individuare nello scaffale: aveva un dorso più grosso degli altri (perché conteneva anche “Attraverso lo specchio”) e in copertina campeggiava la testa di un enorme leone che, felinamente infastidito, scrutava una leggiadra Alice in primo piano che portava un vassoio.

Ogni volta mi domandavo cosa c’entrasse un leone nella storia. Ma di quella domanda mi dimenticavo presto quando mio padre selezionava un punto del libro e cominciava a leggere. A lui “Alice” piaceva molto. Probabilmente erano i tanti piani di lettura ad affascinarlo e il nonsense della narrazione; ma di certo subiva il fascino della costruzione matematica del testo, dei riferimenti all’antimateria e alle teorie della fisica, delle possibili conseguenze dell’inversione temporale. Essendo una storia lunga e complessa, non me l’ha mai letta tutta: di volta in volta sceglieva un pezzo, ispirato da un personaggio, dal titolo di un capitolo, o dall’illustrazione che per prima colpiva la mia attenzione.

Seratinava e patti e pipistrani
sfarfagliando succhievano i tresetti,
sbufulavano tutti i baffigiani,
e stralunavan druci fra vottetti.
«Guardati, figlio mio, dal Giabbervocco,
che t’azzanna e t’artiglia atrocemente! …»

Questo è il punto del libro che amavamo maggiormente. È nel primo capitolo della seconda parte: nella Casa dello Specchio tutto funziona al contrario, anche la poesia che Alice sbircia nel libro è scritta con le lettere poste in modo speculare.

Nell’adattamento italiano di Alessandra Schiaffonati (autrice della traduzione integrale del testo di Carroll per le Edizioni Accademia, 1976), i neologismi sincratici di questa celebre poesia sono evocativi e spiritosi e io li trovavo, da bambino, proprio avvincenti. «Cosa vuol dire seratinava?», domandavo a mio padre. «Cosa sono i pipistrani e i baffigiani?» Lui rispondeva con calma, mescolando le informazioni che aveva letto nel romanzo con delle deduzioni logiche: «Seratinava significa che stava scendendo la sera. I pipistrani sono dei pipistrelli strani, i patti assomigliano ai tassi, mentre i baffigiani sono uccelli molto magri, col becco all’incontrario e grandi baffi. Sfarfagliare vuol dire volteggiare come una farfalla e sbufulare invece è sbuffare ululando…»

La parola che in assoluto piaceva di più a mio padre era Giabbervocco (il mitico Jabberwock nell’originale). Carroll, quando lo fa descrivere ad Alice alla presenza del saccente Humpty Dumpty, ne parla come di “una specie di drago al giulebbe con l’aggiunta di un po’ di mucca maschio”. Quel mostro ridicolo, che nel corso della poesia viene vinto e ucciso, colpiva a tal punto la fantasia di mio padre che, complice la sua autoironia, “Giabbervocco” era il soprannome che si era scelto. Parlare di sé come di un drago sfortunato lo divertiva molto, e per me lui era diventato, a quei tempi, il Giabbervocco.

In genere ricordo che gli adulti tendevano a correggere le mie storpiature nell’uso della lingua. Anche mio padre lo faceva ma ogni tanto assecondava la mia voglia di inventare parole. Lui era l’unico che mi leggesse “Alice” e si perdesse insieme a me nei meandri insidiosi e affascinanti di quel mondo assurdo governato da regole illogiche o buffe e da personaggi che nella maggior parte dei casi non hanno, agli occhi degli adulti, molte caratteristiche edificanti.

Io amavo farmi condurre da lui tra le spiazzanti filastrocche. Le porte dietro cui si muove Alice e che varca, dopo aver tentato di curiosare dal buco della serratura cambiando nel frattempo la sua taglia e diventando minuscola e gigante, erano come le porte con doppie maniglie – una ad altezza di adulto e una ad altezza di bimbo – della mia scuola materna alle quali mi accostavo sempre con trepidazione se ero da solo, sperando e temendo che dall’altra parte si aprisse un altro mondo.

Storpiare i nomi, o inventarne di nuovi, era diventato uno dei miei giochi preferiti. Le storie che inventavo, e che qualche anno dopo avrei cominciato a scrivere sotto forma di temi non sempre apprezzati dalla maestra, erano popolati da pentole e suppellettili di cucina che si animano e preparano il pranzo da sole, o da lumache combina-guai e pigri vermi con bombetta e sigaretta impegnati in avventure da giardino.

A causa del Giabbervocco e di quel promettente “Seratinava…” è l’aspetto linguistico in “Alice” quello che preferisco. Lei pone un sacco di domande ai diversi personaggi che incontra: quasi mai le risposte soddisfano davvero la protagonista, e il lettore. E allora a quelle domande Alice dà una sua interpretazione, e così fa il lettore. Che grande libertà, per un bambino, inciampare in un libro così e trovare un adulto che lo accompagna nel suo salto nel buco. “Alice” è un testo che va letto ad alta voce, magari coinvolgendo generazioni diverse, perché, nella condivisione, i giochi logici e verbali e le innumerevoli sorprese della lingua svelano con ironia le assurdità e le incoerenze della vita adulta. Questa scoperta avviene proprio grazie alla protagonista, dotata di quella capacità, tipica dei bambini, di osservare la realtà con perfetto candore.

La “budesprussione” è un male leggero, un’indisposizione, mentre la “slozia” è una forma di pigrizia cronica, la voglia di non fare niente. Ecco due neologismi inventati da mio padre per minimizzare i miei capricci infantili; qualche anno fa ho deliberatamente rubato queste due parole, e tutto il bagaglio di implicazioni personali che comportano per me, per inserirle in un romanzo (dal titolo eloquente: “Prematurità”). La lettura di “Alice” è una palestra per la creatività, diventando compagni di gioco della protagonista è inevitabile farsi prendere dall’entusiasmo di donare un nuovo nome alle cose: chi è che azzecca il termine più calzante? Non ha importanza, tanto come nella corsa di comitiva, non c’è un solo vincitore: vincono tutti. Di recente ho tradotto dal francese un romanzo surreale e fantastico scritto dall’artista Leonor Fini, Murmur. Fiaba per bambini pelosi, e per trasformare in italiano alcuni giochi di parole e rendere al meglio certi nomi inventati sono ricorso a quel laboratorio costante di scrittura creativa che sono le avventure di Alice con il prezioso carico di immagini identiche e diverse della realtà.

Forse per sdebitarmi del regalo ricevuto da mio padre quando ero piccolo, ho cominciato a regalargli, in occasione delle classiche feste del calendario, edizioni insolite e originali del libro di Lewis Carroll. L’ultima versione in ordine di tempo è illustrata da Tove Jansson, la mamma di Mumin, altra grande passione che mio padre è riuscito, senza fatica, a trasmettermi. Mio padre, il Giabbervocco.

SCRIVERE BENE, SCRIVERE MALE (Autismi mitografici # 5)

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di Giacomo Sartori

scrittura-egizia

 dedicato a Andrea C.

 (ma anche a Pippo D.B. e a Francesco  D.B., con un grande augurio)

 Naturalmente ben scrivere non vuol dire scrivere bene, e anzi equivale piuttosto (può equivalere, nei fatti finisce per equivalere, molti esempi dimostrano che nei fatti equivale) a scrivere male, o anche molto male. Parlo beninteso dell’italiano, lingua che lascia libertà infinitamente più grandi di tante altre, meno normalizzata e meno normativa, meno letterariamente irrigimentata, ma anche ben più corrotta da un autoctono conformismo, e provo a spiegarmi utilizzando la mia esperienza personale.

Davide Vargas: Il bene comune

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1. confini

1. confini_totem

 

Confini. Uno dentro l’altro.

Terra [notoriamente] di confine. Il lotto sul confine di tre comuni contigui. La struttura sul confine del lotto. Residuale. A ridosso di due noci floridi. Necessari a fare schermo alle impurità.

Una zattera triangolare nel vuoto scabro. La zattera di Saramago: dov’è la frontiera? chiede. Intorno due strade si intersecano sotto gli occhi di un’aquila di gesso montata sui piantoni di un cancello. Una generale sensazione di straniamento rende ogni angolo di questo mondo residuale.

Si arriva superando un cavalcavia. Dalla sommità i tetti bassi delle case si distendono come gramigna in un campo di stoppie. Il piazzale porta i segni dell’asfalto tagliato e rappezzato. Le macchine lasciano una scia di terra secca.

Ma se immetti qualcosa che rompa la continuità. Come una forma di Boccioni. La continuità dello spazio. Un punto che metta alla prova la realtà. Una perturbazione come una nube nera nel cerchio dell’orizzonte. Se fai questo, stai fondando un piccolo lembo di diversità. Le geometrie ruotano. Come in cammino

E nella controra di una giornata assolata quattro ragazze passeggiano e poi siedono sulle panchine alla base del totem. Una si distende e guarda in cielo. Con un che di perplesso nello sguardo. Un vecchio in bicicletta rallenta e poi si ferma. Il colore del giorno diventa indaco e di colpo cede la propria indolente saturazione al buio. Allora irrompe la luce della scatola bianca in cima. Due giovani si preparano per la corsa allungando i muscoli sulle stesse panchine. Il cielo si schiera per la battaglia. I lampioni brillano come occasionali stelle artificiali. Un cane fulvo entra nel recinto e si accuccia a ridosso della parete di cemento. Hanno già rubato i faretti. Ma l’uomo li ha rimessi.

I confini (questi confini) sono idoli svuotati. Una indistinta continua sequenza dello stesso racconto. Ma servono. A te servono. A farti stare dall’altra parte.

Non credo che cambi qualcosa. Una piccola cosa così. Ma forse un seme. Nel territorio. O in un te ostinato. O nel tuo ridotto intorno di persone e cose. Non importa dove. È tutto quello che può fare una piccola insignificante cosa. Ma solo questo e non sai se può bastare.

maggio 2015

 

2. confini_trittico

 

Le fotografie sono di Luigi Spina che da anni fotografa le mie cose. Ormai non c’è bisogno neanche di raccontare intenzionalità e aspettative. Ma con Luigi e Serenella condividiamo la stessa temperie dell’appartenenza ai luoghi.

 

2. bene comune

3. bene comune_ recupero scala

 

La scala condominiale. Che nella cultura di questa terra egoista non è di nessuno. Certamente non è mia. Può andare affanculo. Come i marciapiedi. Le strade. Gli androni. Le aiuole. Ogni cosa che è al di là della soglia di casa. Ho seguito una bottiglia di plastica calpestata e gettata davanti all’ingresso del mio vicino. È stata lì per giorni. L’ho tolta io.

Luigi e Serenella hanno messo i guanti. Incartato. Scorticato la vernice. Mi dice Luigi che non si toccava da sessanta anni. Poi hanno tolto la ruggine. Con il trapano. La carta abrasiva. Il bisturi, nei punti difficili. Poi hanno lavato e spennellato con il ferox e l’antiruggine. Infine hanno pittato. Si sono distesi sui gradini. Hanno lavorato accovacciati. O in piedi. Con il mal di schiena. Mettono alla prova la realtà.

La luce entra dai finestroni. Un occhio spalancato dalla città al dentro. Proietta ombre sui muri impastati di fuliggine. Striati dalle acque che hanno scorso da anni oltre la soglia. Adagiate come i fili piangentidel salice. Sui lacerti di intonaco mai rifinito. Sui buchi e le crepe. Sui rigonfiamenti. E le screpolature. Si accende dove le riggiole hanno conservato un’antica lucentezza. Indugia sugli spessori delle murature. Scardina le sue ombre. È la luce giusta. Non enfatica. Non ha niente da celebrare. Livida. Scultorea. È la luce del teatro di Eduardo. Delle scale di Ferdinando Sanfelice. Ma ogni cosa sparisce. Ogni superflua cosa della mente. Questa luce mascolina investe l’anima. Denuda gli stati dell’emozione. Gli umori. E basta. Restano i movimenti concentrati delle mani. Gli sguardi assorti. Il silenzio delle parole non dette. Niente più. Il barattolo di vernice. Il cavo elettrico. Il punteruolo. Sarà una piccolissima insignificante nascosta molecola di mondo restituita. Ma mondo, che altro se no?

È un lavoro.

aprile 2015

Occorre trattare con le istituzioni per modificare i luoghi. Tutta l’area è residuale. E non è chiara la proprietà tra Comune e Acquedotto. Ci stiamo provando.

 

3. Disegni

4.disegni_ pianta piazza

 

Al bene comune non posso offrire che un disegno.

Ma il disegno di architettura ha un che di speciale. È una credibile prefigurazione di realtà modificata. E vive. Appena disvelato sul foglio già esiste. Oltre la sponda del fiume dove scorre la sequenza di un’altra possibilità di vita. I pensieri degli uomini atterrano lì nella trama delle cose che avresti potuto fare. In quel preciso istante se avessi svoltato dall’altra parte. O se avessi detto o non detto quella parola. E seduto nell’angolo del proprio quasi-nulla[unica condizione di silenzio da dove puoi traguardare l’oltre] stai lì a guardare il canzoniere di una vita. E ti sembra vera. Più vera di questa in cui sei immerso.

Una finzione così è tanto distante dal mondo reale da poter vivere di una propria autonoma realtà. È narrazione. Nessuno sceglie gli argomenti. Ma ognuno è scelto da essi. Sono i demoni. Tutto ciò che stride con la realtà. Tanto da volerne rifondare un pezzo. Rimontando gli stessi pezzi nella prospettiva di una ricomposizione.

Qui la realtà stridente è un atlante di trame interrotte. Nel concreto, luoghi bisognosi di cura. Ma un posto è un’altra cosa dopo che è passato nel disegno. Non puoi tornare indietro e ignorare la vocazione alla trasformazione. La sottotraccia dell’idea che lo ha attraversato. I materiali. I colori. I profumi. La promessa del riscatto.

Posso dire così. Che se c’è un’anima in ogni schifoso lembo di luogo puoi disvelarla. Ci puoi mettere un’ora o una vita ma alla fine ce la fai. Ma ne puoi restare prigioniero. Nel senso che ti accontenti e non vai oltre. Perché ci stai bene a tu per tu con l’altra storia che ti scorre davanti. Puoi persino scoprire che vuoi farti imprigionare.

Ma tu sei al di qua.

maggio 2015

 

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Crediti

Progetto: Davide Vargas

Fotografie: Luigi Spina

Committente: Immobiliare Michelangelo

Località: Cesa (CE)

L’Orsa maggiore di Charles-Albert Cingria

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Cingria ritratto da Modigliani

di Ornella Tajani

«Una fosforescenza che corre», secondo Jean Cocteau, un autore dotato di uno stile «grasso e morbido, con qualcosa di monacale», per Jean Paulhan; ma anche «uno con l’aria di un clown, o di un prete spretato», nelle parole di Henry Miller.
Charles-Albert Cingria nacque a Ginevra nel 1883 da genitori le cui origini si snodavano attraverso vari paesi: «Io non sono svizzero – diceva -, sono di Costantinopoli, cioè italo-franco-levantino»; il padre era un «falso turco», la madre franco-polacca, la famiglia proveniva dalla Ragusa dalmata, repubblica filiale di Venezia.
Umbratile e libertino, nottambulo e mistico, iconoclasta e vagabondo, Cingria, sempre catalogato fra gli inclassables della letteratura francofona, è un autore semisconosciuto in Italia; l’unica sua opera tradotta in italiano è Gocciole alpine, edita da Tararà nel 2003 a cura di Cristina Costantini e considerata da Cocteau un capolavoro.

La Grande Ourse è un racconto lungo pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 2000.
Poiché il manoscritto non è mai stato ritrovato, è impossibile stabilirne la data esatta, tuttavia si suppone che Cingria lo abbia scritto tra il 1927 e il 1929, per affinità con altri suoi lavori quali Les Autobiographies de Brunon Pomposo e il già citato Pendeloques alpestres, datati rispettivamente 1928 e 1929. L’edizione Gallimard si basa sul dattiloscritto che si trova presso la Fondation Bodmer di Cologny, vicino Ginevra.
Si tratta di una eccentrica composizione di frammenti, ricordi, pensieri e memorie di viaggio: dalla Costantinopoli d’infanzia alla Berna che festeggia il centenario di Beethoven, da Lucerna a Saigon, tra apparizioni di fantasmi, considerazioni filosofiche sull’autenticità e tabelle disegnate in cui sfoggia la sua precisione nella contabilità di una società che gestisce risciò, il narratore finisce, dopo sei anni di flânerie, col trovare la fede in un santuario del Cristo Re.
Attraverso quella che è stata definita una fiction démantibulée, cioè squinternata, fatta di digressioni e immagini di sogni, Cingria tenta di trascendere il quotidiano ed elevare l’ordinario a metafisico; come ha osservato Fabrice Gabriel, l’autore «trasforma la realtà in ciò che dovrebbe essere: un libro di metamorfosi».
Propongo qui di seguito la traduzione delle prime pagine.

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L’Orsa maggiore

« Tutto il cembalo ma piano »1
– Beethoven

Quel grosso violino color pulce non è perfettamente al centro. È voluto: è una legge astronomica.
L’eccesso del nostro sordo lirismo è a due battenti. Sono l’Imperatore su una semplice sedia, in abito da città. Il Papa passa dalle prese al Concilio.
Tutti gli scanni sono soltanto semplici sgabelli o semplici banchi rivestiti.
La corte è piena di giovani che scalpitano – rinforzano le lance -, il cuore denso come il firmamento d’estate.
Il selciato è ordinario, già come quello della strada che ci sarà.
Un cardinale di tufo parla in greco a un busto. Il naso di un busto cade. Dei pavoni battono i minuti.
Andiamo!

Dopo aver cercato a lungo, nei miei primissimi anni, quale potesse essere il tempio dell’autenticità occidentale, non ero riuscito a capire che una lira non è quel gesso dai contorni di polvere che sporge da una statua e che i discepoli dei pittori imitano nel tratto pensando che un giorno, forse, andranno in Italia.
Avevo ingerito ogni falsa disciplina – discipline del visivo – e subìto una spinta alla durezza. Facevo dell’ironia stupida e, io che sono tutt’altro, mi abbandonavo a tutte le malvagità dello spirito. Soltanto dopo – non racconterò di quegli inutili viaggi al sole in cui mi anemizzai il cervello – capii che bisognava chiudere gli occhi e aprirli soltanto dopo aver dato ascolto alla mia bontà originale.
Una lira non ha altra forma prima di quella che ci manifesta; non vuole altro cielo prima di quello che crea; è come il nostro vestito dal colore sobrio, che ci piace perché è utile, ma soprattutto perché è decoroso. Un violino è attuale e decoroso. Ha un passato ma è antiarcheologico – questo è importante – perché, dietro un aspetto sobrio, non è un’evoluzione ma un essere e, come dire, una presenza reale. Lo amiamo allora come un pittore quando desidera dipingere (quando non può far altro che dipingere). Quel legno che suona, e su cui la pittura è utile, è insuperabilmente scelto e ben scavato, e trascina gli dèi senza che ci sia bisogno che questi ultimi abbiano dei nomi; subito, dovunque, quando l’archetto nuota; e allora quanto ci si conosce meglio, non è vero, fratelli miei: non tutti (non i malvagi), ma voi che avete questi posti.
La tartaruga, che noia a pensarci! E anche quella favola di Mercurio e di una caverna e di Giove e i suoi buoi. Lì c’è davvero di che morire, e bisogna vivere. Ma il violino è così senza pensarci: una presenza dall’aspetto sobrio. Apollo viaggia in incognito. Una mano è in contatto col fuoco centrale e tutto il delirio delle stelle. Sotto (che importa questa redingote da pazzo) c’è un cuore torrenziale.

Voglio soltanto una cravatta bianca e una bombetta, e camminare a piccoli passi senza preoccuparmi di niente. Sono un signore. Voglio passare il più inosservato possibile. E soprattutto non voglio che si dica di me che ho del brio, né che mi paragonino a chi ha o non ha brio (me ne frego del brio). Piuttosto: essere perfettamente decoroso; dire scusi quando si sale sul tram; essere serio; ridere soltanto in rarissime occasioni; articolare sempre soltanto cose intere; non dire nulla d’inesatto; essere morale e molto fermo. Tacere? No, perché se è sistematico, diventa, in compagnia di gente senza ritegno, una grossissima impertinenza. Al contrario, parlare, ma con misura e un certo distacco se si ha a che fare con degli avversari o delle signore.

Ero stato fotografato con un’aria tremenda, e pensavo che fosse il mio destino: questo a tre anni (avevo un collaretto e un cagnolino, e una lunga carabina a due canne; il fotografo mi aveva sistemato col tutto su una poltrona e uno sfondo) e, allora, a pensarci, e anche perché ero circondato da altri bambini viziati e dispettosi e perché mi prendevano in giro o lo credevo io, ero diventato selvaggio.

A volte avevo talmente voglia di fare pipì che non riuscivo ad accendere una candela. Mentre l’accendevo, la spegnevo.
Questo per il mio quinto, sesto, settimo anno.

Una volta avevo ingoiato un chiodo. « Un chiodo come?… » Mi avevano mostrato delle minuscole punte. « No, un chiodo così ». Li avevo trascinati tutti verso un armadio dove c’erano quei chiodi di ferro che servono ad appendere gli abiti. Era uno di quelli che avevo ingoiato e poteva anche fare nove centimetri. Era successo mentre ci giocavo, come fanno tutti i bambini che mettono in bocca tutto quello che trovano; ed era partito d’un colpo, senza che me ne accorgessi, per una debolezza abominevolmente complice dell’ugola, e l’avevo poi sentito scendere. Avevo pure aspettato tre ore prima di parlarne. E così dopo, quando l’avevano ritrovato – aveva fatto un piccolo rumore secco nel vaso – il dottore che era un po’ scroccone e che era a tavola proprio quel giorno si era fatto delle grandi risate. « Un chiodo così! Porca miseria! Ma lo sapete che solo in tre casi su mille non ci si perfora l’intestino!… Ecco un ragazzo destinato a grandi cose. »


1. In italiano nel testo

“i più forti esigono quanto più è possibile, e i più deboli acconsentono” (Tucidide)

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testo e fotografie di Danilo De Marco

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Scelgo un passo terribile da La guerra del Peloponneso di Tucidide. Nel 416 gli abitanti dell’isola di Melo, alleati di Sparta, si ribellarono agli ateniesi:

Miti Moderni/16: api

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unnameddi Francesca Fiorletta

Ti svegli per partire, vuoi continuare a dormire, decidi di non fare proprio niente.
Ti prepari per lavorare, rimanda quell’appuntamento, ti alzi di corsa dal letto e non capisci dove sei.
Asciuga gli occhi senza un senso, si lacera l’abbraccio, quel sogno fatto all’alba l’hai già dimenticato.

Traduci piano l’abc, i bugiardini elettrici, la luce sul display sbarra il supermercato del futuro.
C’è tanta strada davanti, le teche di vetro ancora vuote, fai lunghe code alla toilette, un grissino come piccolo sostegno.
Fingere il suono delle api.

“Le braci di un’unica stella”. Per l’edizione digitale di Princesa

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di Ugo Fracassa

(Il testo compare come Nota all’edizione nel sito www.princesa20.it)

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“Qualcosa abbiamo già nello scaffale. Un giorno li ricorderemo come piccoli classici della letteratura immigrata”: così iniziava l’articolo pubblicato in controcopertina sul primo fascicolo della rivista “Caffè. Per una letteratura multiculturale”, nel settembre del 1994. Tra i “cinque o sei libri” cui si alludeva, Princesa, vent’anni dopo, non ha finito di dire quel che aveva da dire; se ciò non basta a farne un classico a tutti gli effetti [1] giustifica però la previsione formulata in quell’occasione. In altre parole, sembra giunto il momento di istruire ed avviare il processo di canonizzazione per un’opera che, inizialmente, sembrava dover esaurire il proprio raggio di azione e ricezione entro i ristretti ma mobili confini delle cosiddette “scritture migranti”. Se, nel frattempo, quelle scritture hanno compiuto la maggiore età, [2] il libro di Fernanda Farias de Albuquerque e Maurizio Iannelli ha incontrato lettori ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori [3] e, in particolare, ha contribuito a creare l’habitat idoneo al fiorire attuale dei “nuovi realismi italiani” [4]. Ha affermato recentemente Bruno Racine, direttore della Bibliothèque Nationale Française, a proposito delle 120 giornate di Sodoma – un classico che, al pari di Princesa, intravide la luce in carcere: “È senz’altro un testo atroce e radicale ma bisogna riconoscerne il valore storico e culturale”, tale da costituire “patrimonio nazionale” [5]. Del resto, era stato Michel Foucault a portare ad esempio proprio la figura del marchese de Sade, nelle celebri pagine dedicate alla questione Che cos’è un autore:

Se un individuo non fosse un autore potremmo dire che ciò che egli ha scritto o detto, ciò che egli ha lasciato fra le sue carte, ciò che è stato riportato dai suoi commenti potrebbe essere chiamata un’ opera? Finché Sade non è stato un autore che cos’erano le sue carte? Solo dei rotoli di carta sui quali, all’infinito, durante le sue giornate in carcere, egli elaborava i suoi fantasmi [6]

Maurizio Iannelli è oggi certamente un autore, premiato e riconosciuto per alcune serie di docufiction televisiva costruite intrecciando vita reale, documenti processuali, cronaca nera e finzione narrativa. [7] Quando riordinava, trascriveva e rielaborava, nel carcere romano di Rebibbia, i manoscritti di Fernanda, tuttavia, era consapevole di maneggiare un materiale grezzo cui forniva, oltre ad una veste linguistica apparentemente standard, lo scheletro diegetico atto a sostenerne la forma editoriale. Non per questo avrebbe sottoscritto le parole di Cesare Lombroso, prefatore dei Palimsesti del carcere:

Se, nel fingere il linguaggio dei demoni, il Poeta non poté non esprimersi in versi sudici, a me, ch’ero il paleografo, il trascrittore dei pensieri di questa specie di demoni terrestri, non era certo dato far meglio [8]

La relazione coautoriale, infatti, era fondata sulla condivisione dello stato di detenzione e sulla consapevolezza di un’affinità che, al di là delle apparenze, univa la condizione esistenziale di un detenuto politico in “piena crisi d’identità” con quella transessuale di un criminale comune. Prima ancora del diritto all’autorialità, perciò, Iannelli riconosceva all’estensore di quei manoscritti il diritto alla biografia. “Non tutti gli individui che vivono in una determinata società hanno diritto ad una biografia. Ogni tipo di cultura elabora i suoi modelli di uomini senza biografia” [9], ce lo ha insegnato Jurij Michailovič Lotman il quale ci fornisce pure una minima tipologia delle relazioni tra testo e contesto che, di volta in volta, nei vari frangenti storico-culturali, decidono dell’artisticità di un’opera letteraria. Si dà, per esempio, il caso di uno scrittore che “non crea il testo come opera d’arte ma il lettore lo recepisce come opera d’arte”: qual è la posizione del lettore di Princesa, venti anni dopo, rispetto all’avantesto che finalmente viene reso disponibile nell’archivio del sito [10]? Posto che “il quadro offerto dalla storia della letteratura ai diversi stadi del suo sviluppo è considerevolmente più complicato” [11] dello schema elementare cui ci si richiama, si potrebbe qui ipotizzare un caso di “artisticità retroattiva” poiché è evidente – a scorrere appunti, interviste, pagine di diario, trascrizioni di favole nordestine, anamnesi oniriche, schizzi di mappe prodotti da Farias de Albuquerque in un biennio di pratica scrittoria coatta – che l’aura di letterarietà acquisita dal racconto della vita di Fernandinho / Fernanda / Princesa nei due decenni della sua storia editoriale [12] riverbera oggi sui manoscritti accumulati in carcere.

*

Sia detto però fin da ora che l’eccezionalità di un’eventuale inclusione di Princesa nel canone della nostra letteratura – quella che un tempo si definiva italiana, nazionale e che oggi, nel contesto dei processi di globalizzazione culturale, è talvolta detta italòfona – è più apparente che reale, se ci si riferisce alle peculiari caratteristiche genetiche dell’opera. Raccontare le proprie esperienze “migratorie” ad un compagno di prigionia che le trascrive in un altro codice linguistico (letterariamente codificato), in cui filtrano però dall’oralità alcuni dialettismi, prima che quel racconto vada incontro a nuove versioni, riscritture e riduzioni, è precisamente ciò che fece Marco, alla fine del Duecento in un carcere genovese, al cospetto di Rustichello da Pisa, compagno di sventura. Ne sortì Le divisament dou monde, ovvero la redazione in lingua d’oïl del libro che, in versione toscana, è meglio noto come il Milione di Marco Polo, classico della letteratura nazionale.

*

Quanti hanno riflettuto sull’antica e nobile tradizione della “letteratura carceraria”, provando in qualche caso ad estrarre le invarianti di un “genere” che, da Cervantes a Mandel’stam, annovera alcuni tra i maggiori scrittori di tutti tempi, concordano sulla ragione primaria che conduce alla scrittura nelle istituzioni “complete e austere”, come le definiva L.P. Baltard nel 1829, o “totali”, secondo la più recente definizione foucaultiana: “far sopravvivere la propria integrità, in tutti i sensi”. [13] Era questo il progetto alla base dei laboratori di scrittura organizzati a Rebibbia, da cui prese le mosse l’attività editoriale di Sensibili alle foglie, e lo stesso Giovanni Tamponi, che per primo esortò Fernanda a mettere nero su bianco i propri ricordi, aveva autonomamente sperimentato e propagandava le potenzialità terapeutiche di una tale pratica. Iannelli che quelle carte contribuì a suscitare, raccolse e manipolò, ultimo arrivato nel trio di “funamboli” [14] della scrittura a Rebibbia, riuscì a neutralizzare l’“individualizzazione coercitiva” che fonda l’istituzione carceraria [15] – aggirata dai primi due grazie ai benefici di mobilità derivanti dalle mansioni svolte tra i reparti – in modi talvolta rocamboleschi (per esempio comunicando attraverso la grata che dava sul passeggio dei transessuali, limitrofo alla cappella della casa di reclusione). Insomma, come è stato notato, “Voler raccontare tutta la storia è un’altra forte motivazione per lo scrittore imprigionato”, ciò che non inficia la riuscita dell’opera dal momento che “l’autenticità della voce del narratore contribuisce alla buona qualità della letteratura”. [16] Ma al di là dell’attendibilità di una voce che, nel caso di Princesa, si dimostra essere la risultante di una miscela polifonica (quando non di un atto di vero e proprio ventriloquismo), ciò che di autentico si sperimenta in condizioni di restrizione coatta è innanzitutto “il modo in cui i rapporti di potere possano passare materialmente nello spessore stesso dei corpi senza che neanche debbano essere trasformati nella rappresentazione dei soggetti”. [17] In una storia di vita transessuale come quella di Princesa aleggia minacciosa, ben al di là dei pur frequenti ed espliciti episodi di violenza privata e di repressione poliziesca, la sovradeterminazione biopolitica di ogni scelta di genere. Se la sessualità è coestensiva al potere – Foucault afferma e Judith Butler conferma [18] – sono proprio gli individui in transizione intersessuale, oltre ogni retorica di liberazione, a pagare il prezzo più alto:

En réalité, il en va des catégories qui organisent notre monde, soit de l’ordre sexuel et de sa violence, tant symbolique que physique, dont les personnes intersexes sont le révélateur en même temps que l’emblème [19].

Da questo punto di vista non cessa di stupire, per il grado di consapevolezza politica implicata, il corto circuito che connette, nell’intervista rilasciata da Farias e Iannelli per il citato primo fascicolo del “Caffè”, condizione transessuale e condizione postcoloniale o migrante [20]:

Come che è una scrittura bella, chi lo leggerà [Princesa] troverà un po’ di sentimento perché è una storia di realtà, una storia di vita transessuale ma anche di vita con tutta l’esperienza al mondo maschile, il fatto di come vive un transessuale in mezzo alla società, per affrontare le varie conseguenze che esistono […] con il problema che accade ai confronti di queste persone che sarebbe le persone del terzo sesso, o persone del terzo, diciamo, mondo [21].

*

Il bello della scrittura in Princesa, appunto. Chi ha analizzato il libro fin qui ha più spesso parlato di tradimento, da parte del coautore italiano, rispetto alla ricchezza non omologabile dell’impasto linguistico originario, del resto pressoché sconosciuto ai più, se non per un paio di brevi stralci pubblicati nel ‘94. Si è detto della standardizzazione imposta da un editing invasivo, della medietà di un dettato depurato da scorie dialettali o allofone. Per descrivere una lingua così – disanimata, ossificata – si potrebbe utilmente recuperare il giudizio espresso da Leonardo Sciascia nella relazione di minoranza alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Via Fani:

Gli esperti sono stati invece adibiti a studiare il linguaggio delle Brigate Rosse: e non c’era bisogno di esperti per scoprirlo poveramente pietrificato, fatto di slogan, di idées reçues dalla palingenetica rivoluzionaria, di detriti di manuali sociologici e guerriglieri […] L’italiano delle Brigate rosse è semplicemente, lapalissianamente, l’italiano delle Brigate rosse. [22]

oppure quello, analogo, rilasciato in occasione di un incontro del 1978 con i militanti di Lotta continua: “Ma a me sembra una cosa proprio ossificata, senza vita, disanimata, una specie di burocrazia del fanatismo. Questo loro amore per le sigle…” [23]. Allo stesso Iannelli, del resto, come ad alcuni leader storici dell’organizzazione terroristica, quel linguaggio era destinato ad apparire, col senno di poi, indigeribile:

Già allora [sequestro Moro] quel linguaggio mi appariva tremendo. Rileggendoli a posteriori, mi sono chiesto non tanto come avevamo fatto a scriverli [i comunicati] – non li rinnego, un senso lo avevano, eccome… Certo non ne ho conosciuto uno, di compagno, che sia entrato nelle Br perché conquistato dalla lettura di una Risoluzione strategica. [24]

Per questa ragione Sciascia indovinava, tra le fila dei brigatisti, una scarsissima confidenza col romanzesco: “Quelli che hanno scritto quei comunicati sono sicuramente gente che non ha mai letto un romanzo…”, al punto da “condannarli” per contrappasso ad un severo apprendistato letterario: “Che romanzi consiglieresti alle Br? Per contrasto un po’ di Proust andrebbe bene. Ma certo se leggessero un po’ di Voltaire e un po’ di Diderot, non sarebbe male… Poi anche il Vangelo” [25]. Prende forma qui, tra l’altro, un’imprevista ma suggestiva analogia: ne Il bacio della donna ragno, fortunato romanzo dell’argentino Manuel Puig (pubblicato nel 1976 e prontamente tradotto in Italia nel 1978), all’immaginario hollywoodiano e mélo grazie al quale l’omosessuale Molina riesce a dimenticare la dura realtà della detenzione, il compagno di cella Valentìn, guerrigliero incarcerato per motivi politici, oppone gli slogan del materialismo dialettico – “I miei ideali… Il marxismo, se vuoi che ti definisca tutto con una parola” – al punto da provocare questa reazione stizzita:

non gli racconterò neanche più una parola delle cose che mi piacciono, se la rida pure che io sono uno smidollato, vedremo se lui non molla proprio mai, non gli racconterò più nessun film di quelli che mi piacciono, me li tengo per me, nel mio ricordo, che non me li rovinino con parole sporche, ‘sto figlio di puttana e la sua porca merda di rivoluzione. [26]

Ma l’incontro tra Farias e Iannelli non è letteratura; la vita, per dirla con Zeno Cosini, “non è brutta né bella, ma è originale!” e forse per questo le cose a Rebibbia sono andate diversamente. Alla fine, proprio colui che era sospettato di non aver mai letto romanzi ne ha scritto uno. Bisogna, insomma, riaprire il caso Princesa, proprio a partire da quella scrittura che alla protagonista del racconto era parsa bella.

Tanto per cominciare, la “nuova lingua”, inaugurata nel libro del 1994, risulta dalla chimica di tre lingue materne. Il portoghese, l’italiano e il sardo [27], e il coautore non esclude che “mani e provenienze culturali diverse [siano] forse rintracciabili anche nella sua stesura ultima.” Se il libro deriva da un brogliaccio cui non si fatica ad attribuire le peculiarità dell’art brut, insieme autentica e unadorned (ma già disposto in fabula da Iannelli, in quella “copia iniziale di lavoro conforme all’originale manoscritto” che porta il sottotitolo “Sono venuta di molto lontano”), almeno una traccia della stesura originale di Farias è rimasta nel Glossario stampato in appendice al volume edito da Sensibili alle foglie. Burití, caatinga, caboclo, cajù, urutu: vale la pena di notare che le cinque voci elencate erano già presenti nel glossario che Edoardo Bizzarri allegava alla sua traduzione del Grande Sertão di João Guimarães Rosa (la traduzione è del 1970 mentre il romanzo risale al 1956) e che si tratta di definizioni relative ad aspetti naturali del territorio nordestino. Nel fitto epistolario che lo scrittore brasiliano intrecciò con Bizzarri [28] si legge dell’imbarazzo per quanto di “esotico” transita nella versione italiana e resiste tuttavia alla traduzione: “Quel che deve aumentare i grattacapi del traduttore è che la parte concreta è esotica e mal conosciuta” [29]. È stato lo stesso Iannelli ad indicare nel fluviale racconto di Guimarães Rosa – che narra della storia d’amicizia e d’amore tra Riobaldo, un guerrigliero jagunço [30] e il suo compagno Diadorim che, caduto in battaglia, rivelerà la sua natura femminile – una fonte preziosa per il suo primo ed unico libro. [31] Inoltre, la figura dello jagunço o cangaço era ben presente alla stessa Fernanda che, richiesta da Maurizio, ne offre una definizione nell’intervista sul Carnevale (la trascrizione che segue è incompleta a causa delle sottolineature accumulate da Iannelli in questa zona del testo): “M – Invece gli uomini come erano vestiti? F – Gli uomini si vestivano come cangaçeiros […] M – Ah, il cangaçeiro è una specie di bandito-rivoluzionario. F – Sono [illeggibile] dei banditi che combatevano contro la polisia” [32]. L’influenza del capolavoro di Guimarães Rosa è riconosciuta però limitatamente all’acquisizione dell’immaginario legato al folklore nordestino e, in particolare, alle leggende connesse col fantastico e demoniaco paesaggio della caatinga. Non sorprende perciò riconoscere in Princesa la traccia di detti popolari, come il seguente, letteralmente estratto dal romanzo: “Ragazzini-roba del diavolo” (Princesa); “Non c’è forse il detto: ragazzino – roba del diavolo?” (Grande Sertão ). Il riferimento al vitello che compare in uno dei primi paragrafi di Princesa, inoltre, variando riecheggia l’incipit del Grande Sertão. Il romanzo del ’56 si apre infatti all’insegna di un bestiario – “un vitello bianco, erratico, gli occhi che manco un cristiano – che era apparso; e con faccia di cane” – che ricorre nei giochi d’infanzia di Fernandinho ed assume, nella trascrizione di Iannelli, coloriture diaboliche estranee all’originale manoscritto:

Io ero la vacca. Genir il toro, Ivanildo il vitello. Camicette e pantaloncini sfilavano via in mezzo al bosco. Lontano da tutti, era il segreto. Genir muggiva e m’inseguiva. Una fantasia di spinte, toccamenti e fiato grosso. Montava la vacca, indiavolava sopra di me.

A chi scrive, tuttavia, il debito contratto da Iannelli con l’ipotesto brasiliano pare investire anche il versante stilistico, della scrittura. A tratti, sembra quasi che l’italiano abbia introiettato il metro sul quale si dispiega la saga latinoamericana, quel procedere per densi fiotti estratti dal parlato e come rigurgitati. Così la prosa del brasiliano nella traduzione di Bizzarri: “Faccia di gente, faccia di cane: decisero – era il demonio”. “C’erano tutti, e con loro la mia diffamazione: Signor Diaz, ha visto Fernandinho! Cammina come una femmina! Rildo vociava come un forsennato”; “È pericoloso andare solo per il bosco, c’è il gatto selvatico, il serpente! Povero Francisco, la sua ingenuità”; “Lui abbassa il finestrino, lei entra tutta spalle e natiche in esposizione. Lui si accorge e urla di spavento: Vattene, mostro”; “Mi confondo nella folla. Sono tuttapposto e passo liscia, presente e invisibile nella distrazione della gente: una donna”: così quella dell’italiano, che dissemina il testo di tessere prosodicamente calcate sulla traduzione del prototipo nordestino. Oltre l’apparenza di una superficie linguistica livellata sugli standard veicolari di un italiano ipermedio, perciò, la scrittura di Iannelli nasconde un doppio fondo. Quella “nuova lingua” è il risultato di negoziazioni condotte a vari livelli, dalla reale consistenza del parlato, attraverso una normalizzazione della meccanica comunicativa (che può conservare memoria di usi linguistici legati alla trascorsa militanza politica), alla frequentazione di un modello letterario di seconda mano. Una lingua costruita per dare conto di vicende intimamente connesse coi contemporanei processi di globalizzazione e che trova il proprio modello nella traduzione di un idioma postcoloniale. Scrive Giuliana Benvenuti: “la traduzione è il luogo privilegiato della mediazione e della negoziazione e la sua funzione interseca questioni legate al genere, alle migrazioni, all’informatizzazione e alla biopolitica” [33]. In questo senso, l’operazione di Iannelli va ripensata nel quadro dei processi di denaturalizzazione dei legami tra lingua, cultura, nazione e cittadinanza in atto in epoca globale. Era, del resto, lo stesso Guimarães Rosa il primo ad esserne consapevole e a rivendicare per sé l’utilizzo di un codice letterario come lingua seconda:

Quando scrivo un libro, mi comporto come se lo stessi ‘traducendo’ da un altro originale, esistente altrove, nel mondo astrale o sul piano delle idee, degli archetipi, per così dire. Non so mai se sto riuscendo o fallendo in questa ‘traduzione’. Perciò, quando mi ‘ri-traducono’ in un altro idioma, non so mai, in caso di divergenze, se non è stato il traduttore che di fatto ha azzeccato, ristabilendo la verità dell’originale ideale che io avevo distorto [34].

Quel registro traduttese sul quale è giocata la prosa di Princesa, perciò, denuncia innanzitutto una relazione non lineare del coautore con la propria lingua nel momento in cui questa è chiamata a farsi carico di esperienze, biografiche e culturali, non autoctone, di migrazione, in una parola: postcoloniali.

*

Edoardo Albinati col suo Maggio selvaggio. Un anno di scuola in galera (Mondadori, 1999) sta di diritto, insieme a Walter Siti, Edoardo Affinati, Antonio Franchini e altri, nel canone degli autori cui si attribuisce la paternità dei “nuovi realismi italiani”, quella galassia narrativa intorno alla quale il dibattito è stato inaugurato sulle pagine della rivista “Allegoria” [35]. Il diario di Albinati contiene un appunto, datato fine estate 1998, che funge da cavallo di Troia per il trasferimento di Princesa dentro la nuova temperie. Si tratta di un episodio nel quale l’insegnante riveste il ruolo di mero spettatore, al punto di dover chiedere lumi ad un detenuto circa l’identità di un personaggio osservato al passeggio. Questa pagina, che contribuisce a focalizzare la presenza transessuale in carcere, registra pure la fortuna cinematografica del carcere romano, a testimonianza di un “ritorno al reale” che non investiva, alla fine del primo millennio, la letteratura soltanto:

   In questa fine estate infuriano le polemiche riguardanti il carcere, soprattutto Rebibbia, a leggere il giornale pare che la metà dei film presentati al festival di Venezia siano stati girati lì – come dice la canzone, “apposta per scandalizzare”. Ammetto di essere infastidito e preoccupato di questa spettacolarizzazione permanente, un paiolo di frasi fatte in cui il giornalismo rimesta stancamente la sua lunga pertica. […] A quello girato da Fioravanti & Co. si aggiunge un documentario su un trans brasiliano, Princesa, ricordo il giorno che a Rebibbia la riprendevano in pose molto glamour, piantata in mezzo al piazzale, tutti gli occhi puntati addosso a lei, aveva un culo magnetico e somigliava, non a Sonia Braga come dicono sul giornale, bensì a Florinda Bolkan (giustamente me lo fece notare Croccolo seduto accanto a me), una Bolkan pompata e assai più donna dell’originale, mito androgino dei film morbosi di quando stavo alle elementari, Metti, una sera a cena ecc. Ricordo che ero seduto sugli scalini insieme a un gruppetto guardando, con un lieve sorriso sulle labbra, la scena, il set fotografico […] sicché mi permisi di chiedere all’orecchio del vecchio Croccolo chi fosse quella fata, e lui che conosce i peccati del mondo mi raccontò la storia di Princesa, cominciando così: “A lei ruppero il culo che teneva solo sei anni…”

L’autore non pare consapevole dell’esistenza del libro dedicato alla Princesa ripresa al passeggio, o almeno sceglie di non dar peso alla cosa, nonostante l’omonima canzone di De André e Fossati avesse nel frattempo dato vasta popolarità al personaggio, né poteva conoscere regista e titolo del documentario delle cui riprese si era trovato ad essere involontario testimone: Le strade di Princesa di Stefano Consiglio (1997).

Uno dei modi narrativi in uso in molti esemplari riconducibili alla recente voga reali(ty)sta [36] è quello dell’autofiction, col quale elementi autobiografici vengono liberamente immessi in un tessuto di invenzione romanzesca, talvolta su uno sfondo ostentatamente cronachistico, nel quale è dato riconoscere luoghi, vicende e personaggi reali, anche grazie all’uso di documenti (carte processuali, pagine di diario ecc.). Ebbene, con qualche anticipo sulla manifestazione della nuova tendenza a livello di mainstream editoriale, procedimenti non dissimili erano in opera nell’ambito delle scritture migranti, in particolare quando, nella prima metà degli anni Novanta, si rendeva ancora necessaria la collaborazione di un coautore italiano.

In libri come Princesa, appunto, o Immigrato di Mario Fortunato e Salah Methnani la proiezione autobiografica sulla narrazione risulta, se possibile, più complessa ancorché non sempre consapevole, derivando da ben due biografie spesso inopinatamente miscelate. Così Mario Fortunato nella premessa alla riedizione del 2006:

Lui raccontava, io facevo domande. Qualche volta prendevo appunti. Quasi mai abbiamo usato il registratore. La storia che si dipanava aveva per me un valore innanzitutto romanzesco, narrativo Per me si trattava di un romanzo il cui contenuto aveva realmente avuto luogo […] In un secondo momento me ne andai da solo in Calabria […] In quattro settimane di lavoro ininterrotto, il testo era scritto. Lo avevo scritto come si trattasse di una storia interamente mia […] sciorinavo la storia di Salah come fosse la mia propria storia. [37]

Anche Maurizio Iannelli ricorda come il processo creativo prese slancio nel momento della separazione da Fernanda: “Perché il testo, il dialogo col testo di Fernanda, è iniziato nel momento in cui ci siamo separati. Nel momento in cui mi hanno trasferito in un altro istituto”. Così Iannelli, ancora nel 1994, nell’intervista al “Caffè”:

La mia scrittura è un’altra scrittura. È indubbio che alla fine, e non solo tecnicamente come scrittura, penso che ci sia molto di me. Anche se introdotto in un modo del tutto clandestino, in un gioco di assunzione di ruoli, e di costruzione poi del personaggio […] Insomma, Princesa è stato anche un libro di rapina se volete. […] Scrivere un’autobiografia in due implica un cortocircuito. [38]

Analoghe riflessioni proporrà, nel 2008, intervistato a proposito della sua docu-soap Reparto Trans (girata insieme a Marco Penso) e, più in generale, della nuova attività di regista e autore televisivo:

in ogni caso, con le scelte di regia, il posizionamento della macchina , il montaggio, l’autore parla sempre di sé, anche quando parlano gli altri, la sua presenza non si risolve nel mero artificio stereotipo della voce narrante. La presunzione di poter rappresentare oggettivamente l’altro è un’illusione (neanche l’altro si conosce realmente per come è). Il regista, e così l’autore, racconta alla fine se stesso ed il lettore-spettatore è innanzitutto chiamato a decifrare questo. [39]

Appartengono certamente al coautore italiano, e alla sua storia personale durante gli “anni di piombo”, le scelte espressive che portano ad enfatizzare costantemente gli episodi di violenza poliziesca registrati nei manoscritti di Farias, dove tuttavia vengono spesso risolti con un breve giro di frase. Sono suoi gli innumerevoli riferimenti al diavolo che, pur presente nell’immaginario nordestino esemplato dal Grande Sertão, non sono estranei alla nostra tradizione cattolica. Riguardano l’esperienza del terrorismo pure alcune particolari consonanze con la fonte brasiliana: Iannelli che avrebbe sottoscritto, nella lettera a Rossana Rossanda pubblicata sul “Manifesto” nel 1987, l’auspicio di uno “sbocco politico e sociale” della lotta armata, non poteva non leggere nelle pagine del romanzo dedicate al pentimento di alcuni guerriglieri jagunços l’eco di avvenimenti che stavano caratterizzando il destino carcerario di alcuni ex appartenenti alle Brigate rosse. La scelta, infine, di terminare il racconto di Princesa con l’arresto della protagonista è, nella sua natura omissiva (gli appunti di Fernanda riguardano anche la quotidianità carceraria), un gesto che pertiene alla responsabilità dell’autore:

Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare.

Mai come in questo caso diventa palese l’avvenuta sovrapposizione della voce di Iannelli, mediatore autoctono, a quella di Farias, testimone immigrata. Sotto finale, insomma, l’implicita doppiezza della prima persona nella quale la vicenda è narrata resta allo scoperto, essendo quella di Iannelli l’unica cui ragionevolmente attribuire le ultime parole del libro: “ho deciso di non raccontare”. E, come detto, omettere è, almeno quanto raccontare, specifico compito dell’autore. Se un lettore d’eccezione come Fabrizio De André attribuiva integralmente la paternità di Princesa – che la coautrice brasiliana apertamente definisce nel documentario di Stefano Consiglio: “questo mio libro”- al coautore italiano: “ho tratto [Prinçesa] da uno splendido, breve romanzo [di Iannelli] in effetti una biografia”, allo stesso modo Cesare Segre sottolineava il carattere uno e bino dell’autore del Milione, senza che questo interferisse, peraltro, con il dato acquisito del valore artistico dell’opera. [40]

Quanto il laboratorio di Princesa sia risultato decisivo per certi sviluppi della docufiction in Italia, ovvero per la variante televisiva del “ritorno alla realtà”, è dimostrato poi dalla più recente stagione professionale del coautore di Princesa. Dopo aver ideato, diretto e prodotto le docu-story Residence Bastoggi (2003), Liberanti (2006) e Reparto trans (2008) – ancora gravitanti, queste ultime, intorno all’universo carcerario di Rebibbia – Iannelli è oggi autore di un fortunato format televisivo (ideato insieme a Matilde D’Errico e Luciano Palmerino). La serie RAI Amore criminale (in onda dal 2007), che ha contribuito a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la drammatica realtà del “femminicidio”, ripropone, per diretta ammissione del regista, [41] il medesimo metodo di lavoro inaugurato all’epoca della stesura di Princesa: costruire la narrazione attraverso l’uso integrato e la contaminazione tra materiali documentari e invenzione letteraria.

*

La forma comunicativa che sta all’origine di Princesa è la conversazione, sebbene nei modi necessitati e precari che il carcere tollera o consente dentro uno stringente disegno di “individualizzazione coercitiva”. Questa nuova edizione, annotata on line, del libro di Fernanda Farias de Albuquerque e Maurizio Iannelli restituisce innanzitutto l’opera ad un ambiente comunicativo fondato sull’ “oralità di ritorno” tipica dei media elettronici. [42]

La nuova struttura dialettica dell’ipertesto finirà per spingerci come sottolinea Derrida, a “rileggere gli scritti del passato secondo una differente organizzazione dello spazio”. Non soltanto è oggi possibile trasferire in una forma compatibile con il computer testi scritti originariamente a mano o a stampa, ma anche dare loro strutture ipertestuali. In qualche caso questa operazione di traduzione restituirebbe loro l’antico tono di conversazione. [43]

Proporre oggi l’edizione critica di un “piccolo classico” della scritture migranti, per ratificarne e insieme promuovere l’inte(g)razione col canone letterario nazionale, comporta perciò l’immediata apertura ad un orizzonte digitale, capace di contenere e restituire la dimensione intertestuale e transmediale. Solo in questo modo è possibile radunare come “braci di un’unica stella” [44] gli elementi della costellazione audio- video-testuale di nome Princesa. Se il potenziale di un libro “così poco letterario”, come il Milione di Marco Polo si misura, infatti, secondo Cesare Segre, sulla varietà di letture e riscritture che ne hanno fatto la fortuna (almeno fino alle Città invisibili di Italo Calvino) [45], nel mutato contesto culturale [46], la fortuna della così poco letteraria” Princesa consiste nell’attitudine a migrare, non soltanto tra testi, ma tra media diversi. La fortuna, appunto, di migrare.

[1] In Perché leggere i classici (1991), Italo Calvino offre la seguente come sesta definizione del genere: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.

[2] Cfr. Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, a cura di F. Pezzarossa, I. Rossini, Bologna, CLUEB, 2011.

[3] Anche grazie alla riscrittura in forma di canzone – Prinçesa – realizzata da Fabrizio De André e Ivano Fossati nel 1996.

[4] Cfr. Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, a cura di R. Donnarumma, G. Policastro, G. Taviani, in «Allegoria», 57, gennaio-giugno 2008. Del tema si continua a discutere, in Italia e all’estero: cfr. Les nouveaux réalismes dans la culture italienne, Colloque international, 12-14 juin 2014, Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3.

[5] La dichiarazione è stata riportata in: A. Ginori, Il testamento maledetto. Un intrigo internazionale per il manoscritto di De Sade, “la Repubblica”, 1.6.2013, p.39.

[6] M. Foucault, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 4-5.

[7] Iannelli ha visto premiato il proprio lavoro di documentarista al Torino Film Festival (Un bel ferragosto, 2001) e al Roma Fiction Fest del 2008 per Città criminali. Ha girato nel carcere di Rebibbia la docu-soap Reparto Trans (Sky, 2008) ed è attualmente autore e regista della trasmissione RAI Amore criminale.

[8] Scriveva Cesare Lombroso nella nota “Al lettore” premessa ai Palimsesti: “Il volgo […] crede che il carcere sia muto ma [ …] quest’organismo parla […] sulle mura del carcere, sugli orci da bere, sui legni del letto, sui margini dei libri che loro si danno nell’idea di moralizzarli, sulla carta che ravvolge i medicamenti, perfino sulle molli sabbie delle gallerie aperte al passeggio, perfino sui vestiti, in cui imprimono i loro pensieri col ricamo” (C. Lombroso, Palimsesti del carcere, Torino, Fratelli Bocca, 1888. La citazione nel testo deriva dalla pagina 38 dell’edizione curata da G. Zaccaria per l’editore fiorentino Ponte alle grazie nel 1996).

[9] J. M. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di S. Salvestroni, Venezia, Marsilio 1985, p. 181.

[10] Brevi stralci del materiale sono stati pubblicati sulla rivista “Caffè. Per una letteratura multiculturale”, nel 1994. Il dattiloscritto intitolato Princesa. Sono venuta di molto lontano, copia iniziale di lavoro sulla quale Iannelli ha elaborato la forma testuale definitiva di Princesa, è stato pubblicato per la prima volta in allegato alla tesi dottorale: A. Proto Pisani, Dans une autre langue. Écrire l’altérité : femmes, migrations et littérature en Italie (1994 – 2010), Doctorat d’Aix-Marseille Université, 2013.

[11] J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 1972, p. 336.

[12] Dopo essere stato pubblicato o per i tipi di Sensibili alle foglie nel 1994, e concesso in licenza prima a CDE Milano, nel 1995 e, due anni dopo, all’editore Tropea (col richiamo in copertina: “da questo libro Fabrizio de André ha tratto ispirazione per Princesa”ed il sottotitolo Dal Nordeste a Rebibbia: storia di una vita ai margini), il libro viene periodicamente stampato on demand, in tirature limitate, dalla casa che ne detiene i diritti.

[13] Così Sioban Dowd nell’introduzione a Scrittori dal carcere, Milano, Feltrinelli, 1998, p.261.

[14] Così Iannelli nelle citate Brevi note di contesto premesse all’edizione di Princesa: “Come tre funamboli ci inseguimmo incerti lungo il filo di una spirale epistolare che ci portò oltre le mura, oltre il carcere. Così Princesa è nata. Da un incontro irregolare, da tre storie, tre persone che approdano al carcere lungo itinerari diversi: la lotta armata delle Brigate rosse il mio, la prostituzione transessuale quello di Fernanda, la vita pastorale e la rapina quello di Giovanni”.

[15] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino Einaudi 1976, p. 261.

[16] S. Dowd, Introduzione, Scrittori dal carcere, cit., p. 21.

[17] M. Foucault, Dalle torture alle celle, Cosenza, Lerici, 1979, p. 122.

[18] Cfr. J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2013 [1990].

[19] E. Fassin, Le vrai genre, in Herculine Barbin dite Alexina B., Paris, Gallimard, 1978, p. 237.

[20] Sandro Mezzadra nel suo La condizione postcoloniale (Verona, Ombre Corte, 2008), rintraccia l’eredità del colonialismo nelle politiche europee di controllo delle migrazioni. A proposito di colonialismo, ecco quanto afferma Fernanda (foglio 25 dell’ Intervista sul Carnevale rilasciata a Iannelli e disponibile nell’Archivio del sito): “nella colonissasione del Brasile come lo sai che la popolasione brasiliana era indios e ogni rasa aveva un nome come qui in Italia c’è i napoletani sardi sisiliani”.

[21] La figura di una donna, “Caffè. Per una letteratura multiculturale”, 1, settembre 1994, p. 4 (miei i corsivi).

[22] L’estratto è citato in esergo a G.Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, Torino, Einaudi, 2003.

[23] L. Sciascia, Incontro con Lotta continua (1978), “Lo Straniero”, 173, novembre 2014, p. 8.

[24] M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994, p.141.

[25] L. Sciascia, Incontro con Lotta continua (1978), “Lo Straniero”, cit., p. 13. Per onore del vero – e in omaggio alla teoria degli opposti estremismi – Sciascia diagnosticava la stessa incompatibilità romanzesco-proustiana alla casta degli aristocratici ancien-régime: “Perché non ho mai letto un romanzo. Il romanzo è una sconvenienza, una volgarità […] non ricordo Marcel Proust. Anche in certi luoghi alti, che lei ancora non conosce, e dove mi aspettavo di dover rispondere dell’amore e dell’odio, la prima e sola domanda che mi hanno fatto è stata questa: ‘si ricorda di Marcel Proust?’. No, non mi ricordo: sono un’anima persa” (il brano è tratto dall’ Intervista a Maria Sofia ultima regina di Napoli, testo elaborato da Leonardo Sciascia per la serie radiofonica delle Interviste impossibili).

[26] M. Puig, Il bacio della donna ragno, Torino, Einaudi, 1978, p.87.

[27] Si parafrasa qui quanto è scritto nelle Brevi note di contesto premesse al racconto: “Per comunicare con Fernanda partecipai e contribuii al farsi della nuova lingua. Alla variazione, scritta e orale, che risultò dalla chimica delle nostre lingue materne. Il portoghese, l’italiano e il sardo”.

[28] La relazione epistolare con Guimarães Rosa ebbe inizio nel 1959 e durò per otto anni. Nel 1981 le lettere furono pubblicate con il titolo João Guimarães Rosa: correspondência com o tradutor italiano Edoardo Bizzarri.

[29] Il passo si legge nella traduzione di Vincenzo Barca e deriva dall’articolo “Che Dio protegga il traduttore” di Davi Pessoa, ora in http://strademagazine.it/2013/01/20/che-dio-protegga-il-traduttore/

[30] Si riporta qui la definizione offerta da Bizzarri nel citato Glossario annesso alla sua traduzione del Grande Sertão: “Fuorilegge in un contesto socioeconomico che non permetteva il funzionamento effettivo della legge […] il jagunço presenta, quale figura umana, un’assai ricca gamma di situazioni umane, dall’idealista difensore degli oppressi al mero bandito di strada”.

[31] “Poi sono andato a leggermi subito, d’un fiato, il Grande Sertão” dichiarava Iannelli a pagina 5 del citato fascicolo del “Caffè”.

[32] Foglio 13 della citata Intervista sul Carnevale.

[33] G. Benvenuti, R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, Bologna, il Mulino, 2012, p 160.

[34] La citazione, tratta da João Guimarães Rosa: correspondência com o tradutor italiano Edoardo Bizzarri , è riportata da Davi Pessoa nel citato articolo: “Che Dio protegga il traduttore”.

[35] Nel fascicolo intitolato al “Ritorno alla realtà”, numero 57 del gennaio- giugno 2008

[36] Realitysmo è un’altra definizione proposta, per gli esemplari narrativi coinvolti nel “ritorno alla realtà” negli anni zero del 2000 ed è presente, ad esempio, nel Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris del 2012.

[37] M. Fortunato, S. Methnani, Immigrato, Milano, Theoria, 2006 [1990], p. 6

[38] La figura di una donna, in “Caffè. Per una letteratura multiculturale”, cit., p 5.

[39] Trascrivo dall’intervista rilasciata nell’incontro organizzato presso “Il Cassero”, LGBT Center di Bologna, l’undici novembre del 2008 (disponibile in rete all’indirizzo:. http://www.puta.it/blog/2008/11/11/queer/reparto-trans-al-cassero)

[40] Sulla questione si veda: C. Segre, “Introduzione”, M. Polo, Milione. Divisament dou monde, Milano, Mondadori, 1982, pp. XII-XIII; V. Bertolucci Pizzorusso, “Introduzione”, M. Polo, Milione, Milano Adelphi, pp. IX-XXI

[41] Ancora dall’intervista bolognese per il Cassero del 2008: “sul piano del montaggio le docu-storie hanno una struttura narrativa che vuole applicare al documentario le scansioni narrative della fiction”.

[42] Più di trenta anni fa, Walter J. Ong prefigurava la comunicazione culturale del futuro all’insegna di una oralità di ritorno : “Solo ora, nell’era dell’elettronica, ci rendiamo conto delle differenze esistenti fra oralità e scrittura; sono stati infatti le diversità fra i mezzi elettronici e la stampa che ci hanno reso consapevoli di quelle precedenti tra scrittura e comunicazione orale. L’era elettronica è anche un’era di oralità di ritorno, quella del telefono, della radio, della televisione, la cui esistenza dipende dalla scrittura e dalla stampa”: W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, il Mulino, 1986 [1982], p 21.

 

[43] J. D. Bolter, Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura, Milano, Vita e pensiero, 1993, p. 150.

[44] Si cita qui il verso della canzone Prinçesa.

[45] Né è mancata, tra le forme di riscrittura, la canzone: è del 1984 Marco Polo, il concept album del cantautore romano Flavio Giurato.

[46] “Con il concetto di rimediazione (remediation) da un decennio ci si riferisce alla necessaria interpenetrazione dei media in un contesto storico dove la digitalizzazione ha imposto la sostanziale convergenza di tutti i mezzi di trasmissione, di tutti i format comunicativi e dei codici semiotici entro un sistema interconnesso, interattivo e integrato, al punto che il contenuto dei media digitali sono tutti gli altri media” (S. Calabrese, Il romanzo della Globalizzazione, Enciclopedia Treccani on line, http://www.treccani.it/enciclopedia/il-romanzo-della-globalizzazione_%28XXI-Secolo%29/

 

Il pasticciaccio, Cutigliano

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Francesco Bargellini è mio conterraneo, concittadino e quasi coetaneo eppure l’ho incontrato da pochissimo per i casi di un concorso di poesie all’interno delle scuole elementari e medie. Mi ha regalato i suoi libri, tra cui questo, Sono paura (Polistampa 2013), che ho letto appena avuto, durante un viaggio in treno, con lo stupore di un riconoscimento attraverso le nostre diversità. È un libro complesso, articolato nell’alternanza di prosa e poesia e in parti che mettono a dialogo l’intimo e l’assurdità del mondo esterno, i compagni di vita e quelli silenziosi che escono da altre epoche e dai libri, come il danese Sören Kierkegaard. I testi che ho scelto di proporre appartengono alla prima sezione, abitata dalla biogeografia, dall’adolescenza e il suo luogo smarritisi in un  lutto improvviso e reinventati dalla parola che in un processo di avvicinamento ed elaborazione richiama in vita, storpiandolo, Cutigliano, paese della montagna pistoiese, che si fa mito, ombra e infine paradosso, un nome per tradire l’esperienza (nota personale di Francesca).

di Francesco Bargellini 

Proviamo di nuovo,
andiamo alla cerca, in avan-
scoperta, vediamo. Una cava,
 
paolino, fitta di draghe
che rodono la carne scoperta
del monte, ecco cosa
ho visto, ancora, e attorno
 
un verde inconsolabile e ghiaccio.
Salviamo, paolino, il salvabile, diamo
tutto in mano al ricordo o in pasto
il pasticciaccio, Cutigliano…

***

Non mi pare uno scherzo il furto di un paese, né immagino le ragioni e la stazza di chi abbia potuto; ma il fatto è dato, e il silenzio di tutti è soltanto imbarazzo, quando non sia, ed è un pensiero che scaccio, cattiva coscienza. Mancano le case, gli uomini. La natura resiste, ma è un fondo, appunto, inumano.
Ne parlo con paolo, ancora. Paolo è scampato alla rapina e lo sarebbe comunque, se anche non l’avesse rapito assai prima un chi o un che cosa a corto di motivazioni evidenti – non forse, chissà, di ragioni. Paolo che richiamato ascolta, e come sempre divide il dolore. Ciò non toglie che debba sempre rassicurarlo, e non certo perché lui me lo chieda o ne abbia davvero bisogno. Sono io che mi scuso, ogni volta, senza essermi macchiato di una simile colpa né che intenda, un giorno, arrivare a tanto. Voglio dire dimenticare: lui (il lui di carne e adolescenza lontana) e tutto il paese. No, non c’è rischio.

***

E dov’è il paese nostro, paolino,
dove, chi l’ha preso? Non era
proprio un ninnolo o una spilla né
davvero era prezioso, forse
tutt’altro. A che scopo
rubarlo? Ma non c’è
più. Paolo, e se poi dimenticassi,
pensa… no paolo mio
no, guarda, sputo il loto,
l’oblio. E però il paese nostro
non c’è più, paolino, e l’appennino
è un guanto vuoto.

***
La natura, disumana, lo è per ogni verso, perché se anche Cutigliano è vivo, e non lo so, s’impone a rispetto del rapito, e fino alla notifica del riscatto, una prassi adeguata. Osservare, almeno, il canonico silenzio (diverso dall’omertà, certo), ché tutto si può dire fuori che il caso sia in via di scioglimento, o che il decesso… ma via, non voglio pensarci.
E invece lassù il vento, ridotti gli ostacoli, imperversa con fischi indecenti, le poche bestie, prima del forzato ritiro invernale, scalpicciano e brontolano senza ritegno, il sestaione, torrente che trasforma in fiume la nostalgia dei frenetici, chiacchiera come prima e di più – ciàcola, avrebbe detto mia nonna che in qualche passaggio l’avrà pure visto. Vergogna.

***

Possibile che tutto si debba
a una femmina maga
maldestra? Vedremo. Ah,
sono solo pretese, e non credi.
Ma sbagliò con puntiglio
il suo trucco: scosse il cilindro
e dissolse il paese (non trasse
un coniglio). E tutti di stucco.

***

Dalla casa, arroccata sul più alto quartiere, godevo una vista golosa. E perché? Perché si può fare tutto, dove non c’è che la possibilità. Dove non esiste che spazio, da occupare e definire, in cui definirsi e occuparsi – impadronirsi di sé, un processo di anni nodali che non posso scalzare dalla memoria senza, con essi, depennare il paese.
Comigliano è quegli anni, e i tentativi di sbrogliare faccende assai gravi (serissime: politica interna/estera, ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in primis, ragazzetti impulsivi che eravamo). La durata spaventosa dello scoppio delle nostre granate, le rispettive adolescenze, è Cordigliano.

***

Ma ti ricordi, respirava forte
la nostra adolescenza,
a stantuffo. Sbuffava.
Vedi, mi vengono
immagini buffe. Sembrava,
la nostra adolescenza,
il mio caffè di ogni giorno:
nera fervida viva – e tanto spesso
una polta cattiva. Eravamo
ardentemente infelici. Di ramo in ramo
del paese albero si cantava
pieni d’amore e di spasimo.

***

Certo, non erano tutti così,
l’adolescenza di alcuni non ansimava:
soffiava come la serpe, un soffio armato e principe,
imperiale, la loro stagione… E noi
gelosi matti e innamorati insieme
del loro passo sicuro, le sere
d’estate, in paese, a struggerci
per un lumino di quello splendore
(parlare d’amore, e sapere…).
Erano tanto bravi a darcela a bere.

***

Così finiva: gli orologi ammolliti, le case strutte, forse gli uomini. E i caronti che ti portano indietro, ti rubano alla parentesi perché si riaprano i corsi della vita consueta.
La lentezza di Coccigliano non era spregevole, il suo abbraccio non era cattivo. Io mi rannicchiavo, lo so, nel ritmo lasco. Lo sa paolo, lo sanno i suoi cari che, a differenza di lui, non hanno mai smesso di cadere in quel punto, sopra la pietra in via roma. E durante il precipizio, però, mi hanno assegnato tante volte il potere di riportare il loro ragazzo brevemente tra loro, per misteriosi cenni, segnali che si farebbero in me testimonianza. Ma io semplicemente appaio, e agisco il ricordo: lo risveglio, mai così feroce, credo, come quando ripullula da sé, nelle menti di chi ha perso la tua eredità, paolino. Soprattutto per questo mi vogliono tanto bene tua sorella, tua madre e tuo padre.
Li ho poi rivisti. Sempre.

***

Ho poi rivisto tua sorella tua madre
tuo padre. Caddero con te
senza finire, caddero e basta.
Dio sa se aveva un fondo il selciato.
Chi era vivo dio sa.

***

Se anche le indagini proseguono (con le consuete, alterne vicende), bisogna non farsi illusioni. Una scomparsa è un’incisione nella storia, non un incidente: la sottrazione solca la terra. Che facciamo, paolo, allora? E’ ancora possibile rivisitare, per salvarci davvero?
Se deponessimo, ad esempio, la congettura del furto. Se vincessimo la nostra paura di continuare, dopo la scomparsa, vestendo Corvigliano di panni nuovi. Potremmo dargli vesti materne, visto che eravamo tutti, allora, in età da custodia; purché si tratti di una decorosa madre asciutta, però, tale da capire il tempo di lasciarci quando noi non l’avremmo mai colto. E potremmo, d’altronde, spogliare Cessigliano di quella stanca qualifica di luogo dell’anima che pare trarsi appresso da secoli, quando la sola ragione per esserlo sarebbe serbare il tuo ricordo. Ma tu risei e riesisti, con o senza memoria, proprio come questo futuro.
E allora basta, via. Cessiamo.

***

E in fondo cos’era il paese
rubato? Luogo dell’anima no,
se non perché accoglie la tua
ed è molto, per un loco abusato.
È proprio un ricordo
il suo corpo, l’essere suo,
prendiamone atto come una schiarita
in questo scuro compianto.
Pure scomparso, il paese non è la mia vita.
Sarà una mamma spartana
che volge le spalle a suo figlio
se la sua parte è finita.

*****

SECCAMENTE, TUO PADRE

Sono un padre pelle e ossa. Ah tesoro
come ti ci voleva invece
un babbo nutrito, carneo, dolce. Il ruolo
voleva floridezza, e io manco di polpa.

Coi denti che crocchio
che strido e che stringo non mangio,
ci reggo l’anima che il vento mi litiga
e intanto mi struggo. Così

sono tanto asciutto che non mi si vede
la bocca ma io ti bacio in mente
e non lo sai. Ah tesoro che comodo
ti avrebbe fatto un babbo poltrona, però:

e pensala rossa, pure, come l’umore
del sangue in amore; o non è meglio
un babbo divano sennò, largo che perdi
il telecomando nei golfi laggiù
finché ricompare; e sul babbo
ci vai a consumare, ché è antetivvù,
il tuo rito serale? Papà canapè

è a prova di culo, già più che essenziale,
ché nient’altro è più atto
a tutto il culame dei culi di questa
famiglia normale. Un babbo stanziale

che non lo rimuovi, col gatto
che piange la palma perduta
in domesticità; ma certo, animale
più caro sarebbe un tal babbo e bello ai begli occhi
di tutte le mamme di un mondo normale, si sa.

Ma io così secco e risecco, io che ti abbraccio
e mi spezzo, quest’ostia, che fare? Per te
pan grattato con l’ossa, dalla mia pelle
spremute. Come sono, io, tutto,
fuorché la salute.

Nannetti

1

Il peso della parola / su Nannetti di Paolo Miorandi

di Mariasole Ariot

BIANCHI RUMORII,associati,
radiali
passaggi
sopra la tavola
con il messaggio-nella bottiglia
(P. Celan)

Un libro come un muro lungo 180 metri per 2, perché lo spazio non è una questione di dimensioni. Tre voci o forse una : come Nannetti graffiava l’intonaco con la fibbia degli internati per costruire una parola – quando le voci interne possono uscire dalla gola per potersi finalmente pronunciare – così la penna di Miorandi incide piano la pagina bianca, per ogni parola uno scavo preciso, non ferita ma feritoia : non una scena che si mette in scena ma un invito alla sospensione, come sospesa è la punteggiatura. Solo i nomi restano maiuscoli.

Nannetti Oreste Fernando N.O.F 4 : reparto Ferri del Carcere di Volterra.

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Se il messaggio-nella-bottiglia di N.O.F.4 ha rotto i vetri che lo costringevano, sconfinato e tracciato un nuovo confine attraverso i tratti delle sue parole, così Paolo Miorandi, riprendendo nuovamente la poesia di Celan si ascolta, porge/ascolto a un mare/lo beve/per giunta, e disvela/le mal praticabili/bocche.

Il narratore torna nei luoghi, entra nelle zone interstiziali, piega l’occhio per affondare la vista, parla con Aldo l’infermiere, custode della parola e traduttore : l’uomo che ha trascritto l’intero muro su carta, segno dopo segno, riconoscendo, traducendo lettere, simboli, stelle, onde radio, compagno di viaggio di un austronautico ingegnere minerario del sistema mentale, alieni con il naso ad Y, e ancora segni, e ancora lettere, e dichiarazioni, e simboli, e onde radio, e mani minerarie e stelle – e le tre voci diventano unico suono che restituisce non il racconto di un uomo ma il racconto di un racconto, che inclina la testa da parte a parte ad ascoltare il mondo dell’altro, dell’altro-dell’altro e del proprio.

panchina nannetti

Se Nannetti incideva le lettere attorno al bordo dei compagni seduti sulla panchina (tre vuoti che segnano l’ombra antica di tre corpi), così la scrittura dell’autore non chiede all’altro di piegarsi, non spinge strattonando per aprire uno spazio forzato ma circonda con la parola il vuoto necessario al lettore per appoggiarsi a quel muro. Le sagome date per sottrazione comportano così una doppia testimonianza : la testimonianza di chi scrive, la testimonianza di chi legge.

La voce di Miorandi – come pure si dispiega nella realtà fisica quando parla : pacata, cadenzata, una grazia ipnotica – restituisce così l’ostinazione di un urlo che per poter urlare ha bisogno della pazienza e dell’incisione lenta.

Ogni parola porta un peso specifico : non una pietra che cade ma un muro che, non potendo cadere, decide di parlare.

***

Copertina NannettiEstratti da Nannetti, Paolo Miorandi, il Margine 2012

 

[1]

la prima volta che si sale per la stretta strada nel bosco dopo essersi lasciati alle spalle il pomeriggio estivo ed essere piombati di colpo in un precoce imbrunire, passata una curva, i padiglioni appaiono senza preavviso, come visioni venute dal nulla, o come gigantesche carcasse d’automobile abbandonate lungo il bordo di certe strade del sud e ormai diventate elementi del paesaggio naturale, rocce, sassi e tronchi seccati; la prima volta che si va avanti non facendo caso al divieto d’accesso e si supera quella che doveva essere la guardiola della portineria generale, e che, parcheggiata la macchina nello spiazzo, si prosegue a piedi guidati dal richiamo dei corvi, da quel loro gridare e scappare come bambini impauriti al sopraggiungere dell’oscurità; quando, entrati nel cortile del Ferri, adesso stanco e remissivo come una cittadella sconfitta, aperta al termine dell’assedio, e senza riuscirci si prova a vedere, e allora si avanza ancora di qualche passo guardando con maggior attenzione, come se in quella luce ombrosa e spessa gli occhi facessero fatica a distinguere i contorni delle cose e le tracce umane si confondessero in perfetta mimesi con i segni naturali, con la corteccia rugosa dei tronchi, l’ondeggiare dei rami, l’intreccio delle sterpaglie; quando poi, diradata la nebbia dallo sguardo, prima davanti e solo in seguito ai lati, si cominciano a percepire i richiami delle cicatrici di pietra, fratelli e sorelle, fratellastri e sorellastre, come tracce di antichi tagli, 1927, Nannetti Mara, alta un metro e settantacinque, sorellastra, nonna e madre; Nannetti Oreste Fernando, il nome che più di ogni altro hai inciso sul muro, alto un metro e sessantacinque, fratellastro; e ancora, cugini, bocca stretta, cuginastri e cuginastra, nonnastra, 1900, sempre bocche strette; Nannetti Oreste Fernando, il nome che ti hanno consegnato quando sei arrivato qui, lungo da scrivere e che un’altra volta hai scritto sul muro, questo muro che adesso si apre come un libro di fronte agli occhi; N.O.F. 4, grado colonnello, nato nel 1925, 1927, ventinove, trentadue, nato a Roma, capitale dell’Impero, nella congiunzione astrale tra il triangolo e il rame, il triangolo della faccia, il rame dei fili elettrici; assieme agli altri uscivi da quella porta, in fila indiana come uno scolaretto alla ricreazione, esco da quella porta e vengo in questo cortile, porta, cortile, muro, ogni giorno, anche se piove

[2]

basta che non piova a dirotto perché in tal caso non ci portano all’aria e allora non posso scrivere; quando piove dobbiamo girare tutto il tempo attorno al tavolo del refettorio come piccoli pianeti dall’orbita stretta, saturno, mercurio, nettuno, questa tua ossessione per i nomi degli astri e dei minerali, sole uranio, stella uranio, rame, luna urania, lancio su stella 2040, visioni dell’era spaziale che sta per venire; se piove a dirotto, quando giriamo attorno al tavolo del refettorio, accade sempre che qualcuno prima o poi diventa nervoso, attacca briga e si azzuffa, per questo l’infermiere di turno è costretto a intervenire; ma anche se ci chiamavano infermieri, a quei tempi noi ci sentivamo più che altro guardiani, perché questa in fin dei conti rimaneva pur sempre una prigione, sbarre, celle di contenzione, filo spinato; gli stessi superiori ci consideravano guardiani, soldi per loro ce ne davano pochi, noi dicevamo, con i soldi che ci date non potete mica pretendere che li curiamo, ma chi v’ha detto che dovete curarli, voi dovete sorvegliarli, punto e basta; di matti non ne sapevamo nulla, obbedivamo agli ordini, oggi turno al secondo piano, domani turno alle serre, si obbediva agli ordini dell’ispettore generale e del medico, poi ognuno si regolava come meglio poteva; allora l’infermiere di turno dice, la volete piantare sì o no, poi dice, ve l’ho detto già una volta di piantarla, poi è costretto a chiamare l’altro infermiere di turno e portare via quello che dà noia e non vuole più girare attorno al tavolo del refettorio; allora gli infermieri devono prenderlo per le braccia, uno per un braccio e uno per l’altro, devono riportarlo in camerata e se necessario usare le fasce, una da una parte e una dall’altra parte del letto, ma è certo che non sono io quello che gli infermieri devono portare via, io continuo a girare attorno al tavolo del refettorio seguendo il cerchio della mia orbita, non do noia a nessuno, non attacco briga, sto zitto e aspetto che la pioggia finisca; se era bel tempo si usciva in cortile, ognuno faceva le sue cose, lui stava sempre per conto suo; conosciuto? sì l’ho conosciuto, per come era possibile conoscere uno come il Nannetti; ne sono passati di anni, adesso non ci vengo quasi più, è come se questo posto mi mettesse paura, anche se paura non è la parola corretta, ha visto com’è ridotto? lasciato andare in rovina, le racconto volentieri quello che so, no, non si preoccupi, il tempo non mi manca

[5]

ma di certo io non scoppio, ho il muro, ho la fibbia del gilet che è la mia penna e la mia matita e non ho bisogno d’inchiostro; gli altri si fanno l’acciarino con la fibbia del gilet, acciarino è una parola piena di stranezza, li ho guardati, usano la fibbia del gilet e un bottone di madreperla, usano la scatoletta di latta delle pastiglie per la gola, un filo e un cencio bruciacchiato; io non faccio gli acciarini, tolgo la fibbia dal panciotto, ce l’abbiamo tutti qui dentro, e la uso per scrivere sul muro, è la mia penna e la mia matita; posso indossare il panciotto anche senza fibbia, per me fa lo stesso, gli infermieri lo sanno e non mi dicono più, dove hai ficcato la fibbia del panciotto? non farai mica scherzi vero? sanno che non faccio scherzi; hai scritto, sono l’uomo invisibile armato di fibbia catodica, i fantasmi sono formidabili, dopo la seconda apparizione prendono sembianze materiali; adesso vai dall’Aldo e gli chiedi una cicca, e lui te la dà se è di luna buona, gli dico, Aldo me la dai una cicca, e lui me la dà, ma non tutti i giorni, e se non me la dà non insisto, avrà i suoi motivi, mi dico, l’insistenza è una brutta cosa, per il resto me ne sto per conto mio, non parlo con nessuno e nessuno parla con me; qui tutti erano soli, ma se c’era qualcuno ancora più solo degli altri, quello era il Nannetti; non aveva nessuno, non possedeva nulla; quando l’hanno condotto in fagotteria per la consegna degli effetti personali non aveva niente con sé eccetto i vestiti che indossava;

[6]

se loro non mi parlano arrivano le ombre, strisciano lungo le pareti del corridoio, entrano nella camerata e si accostano al mio letto, gli dico, andate via, ma non vanno via, alzo la mano, la sposto e la ruoto per migliorare la ricezione, ma non sento niente, dico, uno, due, tre, qui Forte Forestal, ricevente attivata, parlate, ma non è in corso nessuna trasmissione, loro non parlano, ci sono solo le ombre; hanno attraversato le inferriate della finestra, non sono certo le inferriate che possono fermarle, sono entrate nella camerata, hanno strisciato lungo il pavimento e si sono accostate al mio letto, gli dico, andate via, ma non vanno via, sono nere e lucide come petrolio e possono passare anche sotto le porte, entrano da ogni buco, mi tappo le orecchie con le mani e sto fermo senza respirare, ma poi devo respirare e allora faccio un respiro corto come un singhiozzo, quando riapro gli occhi sono ancora lì, qui Forte Forestal, Volterra, Pisa, pronto pronto, ricevente attivata, ma ci sono solo disturbi catodici, telequadrante a scariche cosmiche, nubifragi elettrici, e freddo, freddo come in inverno; le ombre sono vive, dopo la seconda apparizione prendono sembianze materiali, la luna nel pozzo è sparita, Saturno, Mercurio, Nettuno, sole uranio, stella urania, luna urania, andate via per favore, dico, stella pazza, due soli fanno due ombre, rispondetemi; aiutami Milena, cara cugina Bianca, rispondimi e mandami mille lire che qui di tutto abbiamo bisogno, in questa casa della misericordia mentale, avamposto nucleare, mia cara Milena, la tua bocca di madreperla, un manicaretto domenicale per il tuo bambino, aiutami, lancio da Forte Forestal, divisione territoriale inglese, lancio su stella 2010 (duemiladieci), lancio su Urano, settore natalizio; trasmissione nel sistema telepatico da base missilistica di San Finocchi, Ospedale Psichiatrico di Volterra, reparto giudiziario, quarta sezione, settore territoriale della svizzera sovietica, lancio su stella 2040, Nannetti Fernando, Ferri, Ferruccio, ferroviere, fischietto, sezione quarantaquattresima, Parigi, possedimenti coloniali francesi d’oltremare, possedimenti coloniali franco-spagnoli, linea costiera, trasmissione notturna da Forte Forestal, base missilistica neuronale, ricevente attivata su frequenza catodica, trasmissione, uno due, pronto, pronto? nel silenzio non si sa, meteorismo cosmico, non sento niente, nessun rumore nella camerata, nemmeno il respiro grasso di Pampana, non sento passi nel corridoio, tintinnare di chiavi, né rumore di padelle in cucina, non sento gorgogliare l’acqua nei tubi, non è la pioggia, sento solo il latrare di un cane, ma so che non è un cane