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Fermiamo la strage subito! L’Europa nasce o muore nel Mediterraneo

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Un gruppo di associazioni (vedi promotori e firmatari sotto) lancia un appello per fermare la strage di migranti nel Mediterraneo, e invita a una mobilitazione il prossimo 20 giugno 2015. Di seguito il testo dell’appello, che riproduciamo integralmente.

Fermiamo la strage nel Mediterraneo

La regione del Mediterraneo è una polveriera ed il mare è oramai un cimitero a cielo aperto. Dall’inizio del 2015 nel mediterraneo sono morte più di 1700 persone. L’Europa, per storia, per cultura, per geografia, per il commercio, è parte integrante di questa regione ma sembra averne perso memoria.

Il dramma di profughi e migranti, il loro abbandono in mano alle organizzazioni criminali, il dibattito su come, dove e chi colpire per impedire l’arrivo di uomini e donne che cercano rifugio o una vita dignitosa in Europa, non è altro che l’ultimo atto che testimonia l’assenza di visione politica da parte dei governi dell’UE.

Questa drammatica situazione ha responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi europei che non consentono nessuna via d’accesso sicura e legale nel territorio dell’UE e costruiscono di fatto quelle barriere che provocano migliaia di morti nel Mediterraneo, nel Sahara, nei paesi di transito, nella sacca senza uscita che si è creata in Libia. Scelte coscienti e volute che configurano un crimine contro l’umanità.

La risposta dell’UE, confermata nell’Agenda Europea sull’immigrazione, ripropone soluzioni che hanno già dimostrato di essere miopi e di produrre effetti opposti agli obiettivi dichiarati.

Aumentare le risorse per avere più controlli e più mezzi per pattugliare le frontiere, anziché salvare vite umane, è sbagliato e non fermerà le persone che vogliono partire per l’Europa. I conflitti irrisolti e le guerre hanno prodotto ad oggi, oltre 4 milioni di profughi palestinesi, circa 200.000
saharawi accampati nel deserto algerino, 9 milioni di siriani tra sfollati e profughi, 2 milioni di iracheni sfollati. Il flusso di uomini e donne dall’Afghanistan e dall’inferno della Libia, le persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan e da altri paesi africani, da anni è continuo. Dietro le storie di queste persone oltre a povertà, malattie, dittature e guerre, ci sono interessi politici ed
economici internazionali.

Guerre, povertà, saccheggio delle risorse naturali, sfruttamento economico e commerciale, dittature, sono le cause all’origine delle migrazioni contemporanee. Essere liberi di muoversi, migrare, deve essere una conquista dell’umanità non una costrizione. L’Europa deve costruire una risposta di pace, di convivenza, di democrazia, di benessere sociale ed economico, ispirandosi al principio di solidarietà e abbandonando le politiche securitarie, dell’austerità, degli accordi commerciali neolibertisti., di privatizzazione dei beni comuni. L’Europa deve investire sul lavoro dignitoso, sulla giustizia sociale, sulla democrazia e sulla sovranità dei popoli.

L’Europa siamo noi. Noi dobbiamo fare l’Europa sociale solidale.

  • Le nostre dieci priorità per uscire dall’emergenza e costruire l’Europa del futuro sono:
    1. La UE attivi subito un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo.
    2. Si ritiri immediatamente ogni ipotesi di intervento armato contro i barconi che, oltre a non avere alcuna legittimità, come ribadito dal Segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, rischia di produrre solo altri morti e alimentare ulteriori conflitti. Si rinunci all’ennesimo strumento di una più ampia strategia di esternalizzazione delle frontiere europee.
    3. Si aprano subito canali umanitari e vie d’accesso legali al territorio europeo, unico modo realistico per evitare i viaggi della morte e combattere gli scafisti. Si attivi contestualmente la Direttiva 55/2001, garantendo così uno strumento europeo di protezione che consenta la gestione dei flussi straordinari e la circolazione dei profughi nell’UE.
    4. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta ai profughi di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente, con un fondo europeo ad hoc, l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Ciò nella prospettiva di arrivare presto ad un sistema europeo unico d’asilo e accoglienza condiviso da tutti i Paesi membri.
    5. In attesa di un sistema unico europeo, si metta in campo, in tutti i Paesi membri, un sistema stabile d’accoglienza, unitario e diffuso, per piccoli gruppi, chiudendo definitivamente la stagione dell’emergenza permanente e dei grandi centri, che ha prodotto e produce corruzione e malaffare. Un sistema pubblico che metta al centro la dignità delle persone, con il coinvolgimento dei territori, dei comuni, con soggetti competenti, procedure trasparenti e controlli indipendenti.
    6. Si intervenga nelle tante aree di crisi per trovare soluzioni di pace, senza alimentare ulteriori guerre, o sostenere nuovi e vecchi dittatori, promuovendo concretamente i processi di composizione dei conflitti e le transizioni democratiche, la difesa civile e non armata, le azioni nonviolente, i corpi civili di pace, il dialogo tra le diverse comunità.
    7. Si sospendano accordi – come i processi di Rabat e di Khartoum – con governi che non rispettano i diritti umani e le libertà, bloccando subito le forniture di armamenti.
    8. Si programmino interventi di Cooperazione per lo sviluppo locale sostenibile nelle zone più povere, dove lo spopolamento e la migrazione sono endemici e non si consenta alle multinazionali di usare per interessi privati i programmi europei di aiuto allo sviluppo.
    9. Si sostenga un grande piano di investimenti pubblici per l’economia di pace, per il lavoro dignitoso e per la riconversione ecologica.
    10. Si sostenga la rinegoziazione dei dei debiti pubblici ed annullamento dei debiti pubblici non esigibili o prodotti da accordi e gestioni clientelari o di corruzione.

Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!

Le organizzazioni firmatarie di questo appello invitano a partecipare alla giornata di mobilitazione internazionale il prossimo 20 giugno 2015:

ACLI, ACTION, AMM – Archivio delle Memorie Migranti, ANSI, Antigone, ARCI, ASGI, Centro Astalli, CGIL, CIAC, CILD, CIPSI, Cittadinanzattiva, CNCA, COSPE, European Alternatives, FIOM-CGIL, FOCSIV, GUS, LasciateCIEntrare, Link – Coordinamneto Universitario, , LUNARIA, NAGA, NIGRIZIA, Rete della Conoscenza, Rete della Pace, Rete degli Studenti Medi, SEI-UGL, SOS Razzismo, Unione degli Studenti, UDU-Unione degli Universitari, UIL, Verità e Giustizia per i nuovi Desaparecidos.

Scuola, feticci e bugie

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di Renata Morresi

Il riordino della scuola in atto non crea lavoro ma lo precarizza, non affronta i problemi degli alunni ma li rimanda, non riguadagna autorevolezza al sapere e alla professione docente ma accentra l’autorità. Eppure abbiamo assistito a scene di commozione alla Camera, abbracci, giubilo. Perché? Chi governa e legifera è davvero così avanti, così illuminato circa le sorti della scuola italiana? Prosegue imperturbabile a costruire un futuro migliore per tutti? O non è – come sostiene chi a scuola ci vive ogni giorno – che semplicemente ignorante? O non è che invaghito della nuova, dilagante, sindrome efficientista? O non fa che rispondere al risentimento di una società in crisi, che ancora crede di vedere negli insegnanti dei privilegiati? Sì, io credo che vi sia una arroganza illusa, l’allucinazione presuntuosa di essere i punitori dell’improduttività, i guaritori del disagio sociale e della depressione (in termini quasi psichiatrici), nonché gli autori delle arcinote, ormai quasi mitiche, RIFORME. Quelle moderne, quelle che yes, we can, quelle che nessuno finora ha avuto il coraggio di bla-bla. Quelle che nemmeno la Gelmini… la quale si era “limitata” a tagliare risorse, far classi pollaio e sbandierare l’importanza del grembiulino. Invece qua, caspita: la smania utilitarista si è splendidamente fusa al controllo biopolitico. Il feticcio del “merito” viene ribadito ad ogni piè sospinto; giusto ieri Renzi a Mentana: “lei non ha incontrato un insegnante più bravo di un altro? Siamo d’accordo che ci vuole un po’ di merito?” Come se il merito fosse una entità trascendentale che sta oltre il lavoro, le lauree e i titoli (pur emanati dallo Stato), come se ci fossero parametri superiori, come se il prof dovesse essere unanimemente adorato, ogni prof trasfigurato in un ineccepibile John Keating, che ispiri i suoi alunni, li instradi al “mondo del lavoro”, somministri test Invalsi e obbedisca al POF. E il rendimento, che diamine, ci dimostri il suo rendimento!

L’ossessione della valutazione continua, ravvicinata, ipercodificata si innesta alla pervicacia del modello scuola-azienda. L’impostazione tecnicistica e aziendalista messa a punto da estensori privi di consapevolezza fa il paio con lo slancio futur-riduzionista in stile lavagnetta renziana. La miscela è micidiale. In un rovesciamento quasi surreale la crisi economica e la disoccupazione giovanile vengono imputate al non adeguamento dell’insegnamento ai bisogni del capitalismo globale, da qui una legge sulla scuola che non solo si rassegna alla proletarizzazione del ceto medio, ma crede che sia l’unica speranza, sottraendo ore di scuola ai ragazzi per mandarli ad “imparare un mestiere” e investendo tutto sul rinnovamento della gestione e nulla in un progetto di società in cui i giovani siano i protagonisti del futuro, non i muli che dovranno pagare il costo sociale di scelte scellerate.

Ne viene una riforma che taglia, cancella, priva, umilia, e mente, semplicemente mente. E con estrema convinzione. Tanto spudoratamente che nessuno, nemmeno una opinione pubblica abituata al malaffare e una classe dirigente adusa all’ipocrisia come sono quelle italiane, nessuno riesce davvero ad avvertire l’enormità delle menzogne. O forse sì? O, forse, davvero, a nessuno più importa?

Per esempio. Le tanto sbandierate centomila persone che saranno assunte a settembre lavorano già da anni. Da 6, 10, 13 anni a volte. Albi territoriali dove i docenti sono classificati in base al merito (esperienza, titoli di studio, abilitazioni, specializzazioni) esistono già: si chiamano graduatorie. “Ma come? Vi diamo lavoro e non siete contenti?” – protesta il governo. Di cosa dovrebbero essere contenti, in termini professionali, economici o di ruolo sociale, visto che guadagneranno meno, saranno meno tutelati, dovranno in tanti casi fare un lavoro diverso dal loro, saranno perpetuamente instabili? I soliti cinici diranno che la precarietà oggi riguarda tutte le forme del lavoro – come non saperlo? Vi sono oramai enti di formazione che chiedono la partita IVA agli aspiranti docenti. Che sono, sì, professionisti, nella fattispecie professionisti della relazione, ma la cui professionalità non può essere rilanciata dall’agonismo o misurata in base al fatturato. I risultati formativi non sono calcolabili nei termini numerici del profitto economico, l’appagamento degli alunni non è paragonabile alla retribuzione dei dipendenti, né quello dell’insegnante ai ricavi della gestione. L’unica similitudine aziendalista che posso tollerare è quantitativa: un insegnante di inglese ha sei classi, mediamente composte da 25 studenti, per un totale di circa 150 persone. Come un’azienda di grandezza media, insomma. Il suo stipendio è comparabile a quello di un manager? Ahah! No, è lì fermo da sette anni. Il paragone comunque è fuorviante, non solo perché gli insegnanti non guadagnano quanto i dirigenti, ma soprattutto perché la loro opera non può, non deve essere determinata da criteri meramente utilitaristici. Si impone loro di appiattirsi sul modello concorrenziale capitalistico, quando chiunque abbia letto anche solo un manuale di didattica sa che la collaborazione, l’ascolto, il rispetto, la progettualità comune sono le azioni cruciali per migliorare la qualità dell’insegnamento. La verità è che non si chiede agli insegnanti di essere migliori, solo più competitivi, spendibili, comunicativi, acchiappanti. Di produrre, insomma, una performance più appetibile (e misurabile) di quella dell’insegnante concorrente. E di accontentarsi delle soddisfazioni simboliche (di certo non economiche) che tutto codesto “merito” dovrebbe indurre. Si ignora che gli insegnanti, in quanto esperti, programmatori ed educatori, e gli studenti, in quanto discenti inesperti e giovani esseri umani, vivono in una comunità educativa, dove si ha quanto più possibile cura dello sviluppo armonioso dell’individuo in mezzo agli altri, e dove la convivenza giornaliera, i rapporti, gli atteggiamenti psicologici, i genitori, il personale tecnico, le attrezzature disponibili, l’attività extrascolastica e così via, chiamano in causa aspetti culturali, personali e sociali che quella comunità contribuiscono inevitabilmente a modellare.

Al di là degli slogan vuoti, lo scopo primo dell’educazione non è procurare gente che faccia girare l’economia e paghi i contributi, non è solo la trasmissione di un patrimonio di saperi dati, non solo il raggiungimento di alcuni fini condivisi prestabiliti, ma soprattutto la promozione autenticante della personalità degli alunni. Vogliamo esseri umani liberi, autocoscienti, eticamente consapevoli, responsabili del loro futuro. Questa è la preparazione che creerà il lavoro. Pensiamo davvero di poter valorizzare gli educandi avvilendo di continuo la categoria degli educatori? Schiacciando le discipline sulle urgenze della competizione? Facendo vivere 28 ragazzi in un metro quadro a testa? Proponendo un riordino della gestione delle scuole che le mette in mano a dirigenti che si ritroveranno a dover stilare piani, fare selezione del personale, attirare contributi in denaro, rendere l’offerta didattica accattivante (attività per cui, peraltro, non sono stati formati)? Come fanno a credere che in questa riforma vi sia una visione? Mentono. Ma sanno di mentire?

Per esempio. Perché il preside dovrebbe chiamare i docenti non per i punti che si sono guadagnati in questi anni (punti dati dall’esperienza, dall’università, dal Ministero stesso), ma per la loro (presunta) compatibilità con gli obiettivi specifici, espressione dell’autonomia dell’istituto? Una norma troppo simile all’articolo 27 della riforma firmata Vittorio Emanuele, Mussolini, De Stefani, Gentile: “Le supplenze ai posti di ruolo e gl’incarichi di insegnamento di qualunque specie sono conferiti dal preside”. (Allora il dirigente sceglieva “tenendo conto, anzitutto, del servizio militare in reparti combattenti”, oggi chissà.) E cosa saranno mai questi obiettivi specifici, questa tanto ostentata autonomia, questa offerta formativa ad hoc, personalizzata a seconda dei famigerati bisogni del territorio, ecc.? Perché mai la chimica di Trento dovrebbe essere diversa da quella di Catania? O lo spagnolo di Biella diverso da quello di Campobasso? O non è questa dell’autonomia una scusa, che finisce per accettare, anzi promuovere, la differenziazione delle scuole in “sedi di primaria importanza” e “sedi di secondaria importanza”, proprio come da regio decreto del 1923? Perché chi ci governa ha ceduto a questa ideologia della diseguaglianza?

In ultimo, vorrei spendere due parole sulla distruzione della fiducia. È difficile capire. Non ho mai incontrato qualcuno che potesse capire senza esservi direttamente coinvolto. I percorsi della formazione docente sono così divisi, frammentati, screditati che arrivati a questo punto anche i più volenterosi di solito si arrendono. Le innumerevoli identità (prima, seconda, terza fascia, abilitati, specializzati, congelati, idonei, ecc.) in cui si è frantumata la professione non fanno che stancare. Stancano persino gli attori stessi, spesso fatalisticamente arresi al sarà quel che sarà. Per farla breve: gli aspiranti insegnanti sono ripetutamente ingannati.

Un esempio concreto: fino a ieri si è investito su corsi abilitanti a numero chiuso per selezionare e formare i futuri professori, i cosiddetti TFA. D’ora in poi, per quanto siano del tutto assimilabili, nella selezione e nei risultati, alle vecchie scuola di specializzazione (SSIS), essi non permetteranno più l’accesso alla professione, ma solo ad un ulteriore concorso, che precederà un ulteriore periodo di prova (3 anni!) senza stipendio e col rimborsino spese. Con lo stesso titolo di chi li ha preceduti, insomma, costoro (che al momento sono spesso già docenti supplenti a stipendio pieno) l’anno prossimo ripiomberanno indietro allo stato di stagisti. Dopo non una, ma due selezioni concorsuali. In tanti casi, dopo anni già spesi a scuola. Il nuovo percorso di formazione di chi vorrà insegnare (nuovo? ancora? negli ultimi 7 anni è cambiato già 4 volte) si paventa come un intricato labirinto di pedagogismi, tasse, tirocini, burocrazie, e anni senza paga. Vedete la truffa? Vedete la menzogna? Di anno in anno vengono tradite migliaia di persone, e su questi tradimenti si vuole riformare il paese.

Ma qui non si tratta di una legge sull’occupazione – lo dice anche Renzi: mica possiamo assumere tutti! Ma già lavorano, signor Presidente, già lavorano – qui ci si chiede come tutelare lo spazio di libertà, crescita e conoscenza dei ragazzi italiani. Uno spazio di cui gli insegnanti – non i genitori, non i funzionari, non gli pseudo-manager votati alla politica – sono i custodi. Eppure le norme che riguardano gli alunni con bisogni speciali, il problema della dispersione scolastica, il diritto allo studio, non esistono: si è solo votato per darle in delega al governo. Tutto è rimandato, niente sarà dibattuto in Parlamento.

Perché crediamo che questo sia giusto? A molti conviene credere. In primo luogo ad un governo che sbandiera il cambiamento ma deve far portare i conti fino all’ultimo spicciolo: risparmiare sul comparto scuola, così vasto (e, tutto sommato, ahimè, inerte) aiuta. Altri vogliono credere. Non potendo accettare la propria progressiva riduzione ad ingranaggi preferiscono immaginarsi protagonisti del grande efficientismo che ci porterà avanti, fuori, lontano da ogni crisi brutta e cattiva. Altri non credono affatto. La guerra civile cellulare imperversa e ognuno cerca di salvare la pelle o almeno la pensione. “Francia o Spagna, basta che se magna” sembra riecheggiare. È la paura che serpeggia in Italia che fa prevalere il fatalismo e, assieme, la voglia di legge del più forte. Avremmo bisogno non di una politica del fare ad ogni costo, ma di un pensiero rigoroso e visionario insieme, che abbia a cuore l’equità e il paese che viene.

Seia uno : Livia Manera Sambuy

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Otto interviste per un’autobiografia sentimentale

di

Seia Montanelli

 

Diceva Longanesi che «l’intervista è un articolo rubato» perché a scriverlo è l’intervistato con le sue risposte. Questo vale ancora oggi, forse anche di più, perché la maggior parte delle interviste avviene per email, o sono cotte e mangiate alla fine di avvenimenti sportivi o conferenze stampa, o rincorrendo politici fuori dai palazzi.

Che sia di tipo sportivo, politico, economico, letterario, l’intervista è sempre un modo veloce per riempire le cartelle a disposizione e se l’interlocutore ha anche un nome che pesa, è buona per vendere spazi pubblicitari. E anche per il lettore medio, con una soglia di attenzione sempre più bassa, è più semplice seguire un botta e risposta veloce che un lungo articolo di commento o una vera e propria conversazione tra un giornalista e il suo soggetto.

Quella dell’intervista è però un’arte sottile e se fatta bene assurge a vero genere letterario, poco praticato nel nostro paese, soprattutto se d’argomento culturale, nonostante esempi illustri come l’Arbasino di “Parigi, o cara”.

Per questo è curioso vedere ben collocato in libreria un testo   che attira subito l’attenzione per la copertina di Adrian Tomine, illustratore del “New Yorker”, e offre otto interviste ad altrettanti grandi autori stranieri: “Non scrivere di me” (Feltrinelli, pp. 203, 16 €) è il titolo, di Livia Manera Sambuy, giornalista culturale del Corriere dalla Sera (ma anche ex consulente per la casa editrice Einaudi, traduttrice, talent scout editoriale, autrice di due libri e un documentario su Philip Roth).

Il libro in realtà è una lunga narrazione, frammentaria perché scandita in otto capitoli ciascuno dedicato a uno dei protagonisti che accompagnano l’autrice nel suo percorso: Mavis Gallant, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Richard Ford, James Purdy, Paula Fox, Philip Roth (ma non si può parlare di (e con) uno scrittore senza richiamarne un altro e un altro ancora, e allora compaiono anche Karen Blixen, Nicole Krauss, Edmund Wilson, Alexander Stille, Raymond Carver, Don DeLillo…).

Da antidoto alla frammentarietà del testo fa un sottile fil rouge: la passione di Lidia Manera Sambuy per la letteratura e per le storie, la sua profonda conoscenza della materia, nonché il rispetto per i soggetti delle sue interviste, tanto da rendere quest’ultime delle vere e proprie conversazioni, spesso protratte nel tempo, talvolta sullo sfondo di vere e proprie amicizie.

Il libro viene concepito nel 2008, quando la crisi economica sta travolgendo i giornali italiani e la cultura è la prima a farne le spese. L’autrice decide quindi di trasferirsi a Parigi, una città dove le storie d’amore pare «finiscano tra le sette e le otto di sera» e in cui non conosce nessuno, e della quale non parla la lingua.

Che rievochi la nascita del suo rapporto ormai quasi ventennale con lo schivo Philip Roth, a cui si deve il titolo del libro, si commuova con Paula Fox o si stupisca di dover incontrare un diffidente David Foster Wallace in uno squallido autogrill fuori Chicago, la giornalista non smette di seguire la storia che si cela dietro ciascuno di questi personaggi, continua a ricercarne il mistero, come «la scheggia di ghiaccio nel cuore» che Richard Ford le confessa di avere, parafrasando Graham Greene. Del resto dice di sé Manera Sambuy: “Scrivo di libri e di scrittori. Eppure non mi piace raccontare le trame di quello che leggo”, da cui il tentativo inesausto di andare oltre la pagina e oltre l’autore.

È la ricerca dell’uomo e della donna dietro il letterato a muovere l’autrice, la volontà di scoprire da dove arrivi il talento come pure la spinta alla scrittura, e infine il desiderio di penetrarne l’unicità, quella singola caratteristica che li rende grandi. Per quanto non tradisca mai il rapporto di fiducia «che si pone tra chi scrive e il suo soggetto», e sul quale si interroga soprattutto nel capitolo dedicato a Philip Roth data la natura della loro relazione, e possieda evidentemente quella capacità di contrattazione di cui parla Hillman, che è alla base delle interazioni umane – e da cui discende direttamente la capacità di ascolto – Manera Sambuy non fa sconti ai suoi “personaggi”, li presenta nella loro realtà, alterati dalla vecchiaia, arroganti, sbruffoni, teneri, ironici, indifesi.

Divertente e commovente è il paragrafo intitolato «una storia d’amore che comincia e finisce in un giorno di dicembre del 1993», in cui incontra Joe Mitchell, giornalista e scrittore che ha anticipato di qualche decennio il New Journalism di Truman Capote e Tom Wolfe; mentre particolarmente intenso è il capitolo dedicato al suo incontro con David Foster Wallace, l’unico con cui non si creerà un feeling duraturo, non solo per le note idiosincrasie dello scrittore o la sua morte prematura, ma anche per la lontananza culturale tra l’autrice e l’opera di Wallace, che le impedisce forse di entrare in sintonia diretta con lui, nonostante il riconoscimento dei suoi meriti e del suo genio.

Ironico e brioso è invece il resoconto del suo rapporto con Mavis Gallant, nonostante il gioco di specchi tra la vita e l’opera della scrittrice canadese e le vicende personali della giornalista italiana. Laddove rude e tenero al tempo stesso è il legame con Richard Ford, generoso con gli amici e poco incline al perdono con i critici del suo lavoro.

Intimo e più difficile da imprimere sulla pagina, e per questo forse lasciato per ultimo, è il capitolo sull’amicizia con Philip Roth, il più famoso degli autori citati nel libro, ma sicuramente non meno outsider degli altri, per il temperamento, l’opera e la biografia.

Rievocando gli incontri con questi otto scrittori, scelti per passione, per il mistero che si portano dietro, ma anche per ciò che hanno lasciato nella sua vita, l’autrice racconta se stessa, intrecciando stralci di conversazioni e aneddoti non inseriti prima nelle interviste pubblicate sui giornali, a momenti della sua vita intima – quando, ancora ventenne, leggeva Hemingway; e poi il trasferimento a New York, la crisi del suo matrimonio, l’arrivo a Parigi – rendendo la sua ricerca non solo letteraria, ma personale. E, come in un cortocircuito tra letteratura e realtà, tutti diventano personaggi di una storia.

Una storia che, scrive Lidia Manera Sambuy si identifica con la sua vita: «la vita di una persona che ha fatto del leggere il proprio mestiere e che nel corso del tempo ha coltivato la convinzione che abbiamo bisogno di storie perché le storie ci aiutano a vivere».

Nota

di Effeffe

Con questo primo set si inaugura una rubrica interamente dedicata ai libri a cura di Seia Montanelli. Due volte al mese sarà la sua quinzaine. A lei i miei ringraziamenti per aver accettato il mio invito.

Ida Vallerugo (poeti friulani # 2.2)

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testi di Ida Vallerugo e fotografie di Danilo De Marco

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Côru mut

 Si tu vedés indurmindìda rôsa

ce mout che al mont a si davierç la rôsa

 

Si tu vedés ce mout c’a s’impîinin

a una a una li bieli nêstri citâs.

Carmen Gallo: Paura degli occhi

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Come avere paura degli occhi
come sapere che tutte le bocche
professeranno il falso
e per prima la tua
dirà cose che non vuole
vedrà cose che non sa
ma il vero più del falso
resta nelle parole che non riconosco
perché non hanno la tua forma
la calce bianca dei tuoi sensi
deformati per l’occasione
parole annerite, scartavetrate
cercano rifugio tra le mie
ma non trovano
che una pace fatta di spilli
di mura che non tengono
di soldati che non parlano la tua lingua

*

Come abitare in un paese straniero
ogni notizia che giunga da te
abbatte aerei, rovina raccolti
costruisce mura intorno
a un cielo bucato

*

Barcollare sulle tue facce distese
inciampare nella tua fronte
farsi largo tra le voci
e chinarsi a raccogliere solo le mani più mature
lasciare le acerbe a macerare sugli occhi
chiusi, sempre chiusi
avanzare tra ciglia nere
aggrappandosi al ricordo
dell’Orsa, cancellare sguardi
ammutolire salive
e rimettere al loro posto le labbra cadute
gli zigomi divelti

*
È arrivato il dono, il fuoco
il rosso
è arrivata la terra, la città
che non conosco
e dovrebbe essere facile
a questo punto
sistemarvi al centro
la trama visibile dei polsi
la schiena curva delle parole
e lasciare che gli occhi sentano
che la pelle infine veda
ma qualcosa ancora trema
ed io resto immobile
a guardare la trama
che hai scelto per me
la sollevo e penso
scegli me
scegli me

*
Non restare buchi neri
fondi fedeli al vuoto
affilare la lama che separa
i lati bianchi della strada
nel paese che nasconde
il cielo nelle cave
essere terra non chiamata
invocazione senza nome
distanza da percorrere sottovoce

*
Prima degli occhi, al posto degli occhi
le palpebre al muro
e la sfilata delle ciglia divelte
poi i capelli da incendiare all’alba
dei nostri migliori propositi
contarsi in segreto le dita
incollando i palmi
alle regioni dei vivi
prima degli occhi, al posto degli occhi
dividere le mani
in vagoni da espatriare

*

Non basteranno gli anni
gli involucri di vuoto
in cui affondano le braccia
per ogni parola
che resta in gola e che si fa
alone umido intorno agli occhi
e sguardo cavo
nel petto ancora umano
*

Abitarsi nelle mani e addormentarsi
a poche bocche di distanza
al riparo della corteccia
della sua forma improvvisata
c’è un vento che ci ascolta
arrivare da lontano
da dove è profondo e non si tocca
da dove si resta vivi a guardare
a largo, ancora più a largo ci teniamo
la terra si fa grido fermo, e non ci vede
noi soli la sentiamo
nelle sere che non riempiamo
nelle facce che risalgono il fondo
crespo di ogni superficie
la luce ci sorprenderà estranei
da ciò che non abbiamo scelto
nella perdita degli occhi
tutto sembrerà inseguirci
ma noi impareremo a vivere
a essere senza di noi
polmoni pieni d’aria
sotto il vetro dell’acqua

*
E mai più cercare ragione del torto
perché il torto lo portiamo al collo
come una pietra levigata nella stretta
un silenzio da osservare da vicino
allentare la presa non è ancora
respirare ma entra l’aria lo senti
nelle spalle che accolgono il colpo
nelle braccia liberate in dispersione
come se gli occhi fossero finalmente
da un’altra parte come se la fronte
non stesse lì a dividere il soffitto dalla gola
e la caduta è rivendicazione silenziosa
di ogni cosa al di qua della visione
una domanda che scende dagli occhi
e non si riempie e non si svuota

*

Portarsi i pazzi a casa
dare loro da mangiare
la nostra lunghissima sera
togliere il nome alle cose che non tornano
prima che sia troppo tardi anche per noi
afferrarsi le maniche e chiedere ragione
di questi occhi che non si chiudono
di queste risa strette contro il giorno
oggi si accendono le luci
i cani non girano più armati

*

Nella gravità delle cose
che non cadono
sostenere lo sguardo
del disastro

 

Nota

Le poesie sono tratte da Paura degli occhi, edito da L’arcolaio Editrice nel 2014.

Carmen Gallo è nata e vive a Napoli, dove al momento insegna Letteratura inglese.
Nel 2014 ha pubblicato con L’Arcolaio, Forlì, la sua prima raccolta, Paura degli occhi.
Ha scritto sulla poesia di John Donne. Traduce dall’inglese poesia contemporanea, e collabora con riviste e lit-blog di poesia.

Con Bernardo De Luca e Alice Colantuoni ha curato la rassegna “Poeti all’Asilo”, all’ex Asilo Filangieri di Napoli.

[Una mia lettura di Paura degli occhi, si può trovare qui. B.C.]

La cena del verbo

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di Marina Pizzi*

Per ognuno di noi che acconsente
vive un ragazzo triste che ancora non sa
quanto odierà di esistere.

– Franco Fortini, “Complicità” (1969)

1.
Unica tregua somigliare al fango
Alla migliore traccia di sangue
Per sconfiggere speranza con l’anemia
Del balzo tenerissimo con la concreta
Realtà di andarsene finalmente superstiti
Bonari. Di te non credo la vitalità più bella
Né la cometa azzima di luce
Perché la ressa delle rondini è soqquadro
Sul finire dell’ultima cimasa.
Non resta che pagliaccio la sirena
Irrisa da soldati di conquista.

2.
Annuncio di chitarra vederti all’angolo
Dove la sposa cieca ti sorride
Coriandolo e malessere per sempre.
L’ausilio del gemello francescano
Non consente libertà di scelta
Ma esuli le palpebre di brevetto.
Dimmi perché piange la baldoria
Del fiume dotto di non tornare mai
Quasi del secolo il messaggio a dio.

3.
Dio della notte il mio sospiro
Sparuto quanto un indice di nebbia
La crudeltà del sale sfatto palmo
Con il mistero che deride la faccia
Faccenda senza resine di baci.
Il male barricato sulla fronte
Dissolve l’ossigeno geniale
La gente sugli spalti delle tombe.
Tu dimmi quale rondine corsara
Sapienza di dio non sapere
Perché le baracche da sole spopolano
Esatte bramosie cercare dio.
Capitomboli di sabbie volerti bene
Dietro la rotta tragica del guado
O di domani la speranza d’essere.
Pagliaccio al grado Generale
Questo fantasma d’anima malarica
Dove intercede il regno del cipresso.

4.
La notte dell’abaco quando più nulla conta rimanere
Al bacio dell’algebra bravura
O sotto teca ricordare il nonno
O la maretta insita alla darsena.
Inverno bello quanto un calamaio
Felice pagliaccio della poesia
Barriera al maestrale colma vendetta.
Materna la briciola che sogna da sola
La grande pagnotta della patria
Sgominata con un soffio di penuria.

5.
Ho una critica al rito perché non piange
Parla e recita cinge l’altare
Sulla truppa delle lacrime di altri
E questa piccolina aria di asilo
E’ vicina al mio collo gracile come un biscotto
La meringa di madre che mi fu amorosa gara
Qualora giungi in ritardo e il dondolo del sole
M’insegnò la rima con la luce pietosa
Dentro le tombe con gente che se ne va
Bruciata o sottoterra oltre i santi che non ci sono
Giammai vicini nonostante il calendario o a
Decine di copie per festeggiare il nuovo anno.
Le medicine delle nuvole piangono disperano
Su tutti, le resine non bastano per Natale
La fanga è ennesima maligna agro.
Tu graziosa mungi per l’anima marina e d’ara.
Addio, puoi morire da Capitano gentile.

6.
qui nel pianto che rottama chi fosti
si stipola la sporta delle lacrime
nel crimine del giglio che si oscura.
l’ennesima malizia della ruggine
germoglia girandole di pargoli
dove la madre è un astio di bestemmia.
biblioteca di aceri rossi le tue guance
stipendiate da dio per una riserva d’ àncora
o almeno in coro ripetere l’enigma
di fausti almanacchi creduli al pompiere
di fuoco l’acqua piccolina in pozze
tombale l’anemia di chi fosti.

7.
Viltà del tarlo il crollo ben tradente
Quanto la logica di perdere la vita.
Matassa di elemosine vederti
Sotto la vana statua la tua venere.
Ebbene adesso il secolo vanesio
Sibila silenzi dentro gli sguardi ebeti
Delle maestre fatue oltre il vento.
Ben oltre dio ho scoperto l’astro
Valente quanto un calice di stimmate
Immacolate madri di ben alte stature.
Il Carso di Ungaretti è raso al suolo
Per rendere maligne le retate
Tanto bacate le lignee strade fatue.
Intorno alla marea di guardare il cielo
Si sviluppa un popolo di lutto
Vano del tutto in pasto alla fanghiglia.

8.
L’età felice un granello di sabbia
Sotto gli esposti papaveri di niente
Con la morte del cielo non sedata
Lugubre attivista quale un rantolo
Bacato dalla resina di resistere.
La mia spoliazione rimprovera le spose
Le taniche vecchie senza fiori attorno
E’ così che piange il mio gendarme
A me tenuto stretto come un ciondolo
Una ripetizione che sa di arsenico
Buono lo sciroppo per i bimbi superstiti.
Nel lento sprofondare della palude di casa
Ho perso il ludo di guardarmi attorno
Tu presente maschia agonia che il lo sia.
Tutta una civiltà di panico
Anche l’agonia lo sarà nonostante tu
Creda alle sbarre alle terre dei morti.
Libri d’infami lettori stare a casa e non capire
Le pagine miliardarie di parole.
Un libro dopo l’altro ho perso il fare
La lunga cattedrale del portone che schiavi
Speciali trattiene. Intorno ai poveri senza parola
Si getta dalla finestra il lessico la sposa senza rima di bontà.

9.
La rondine nel passo
Nel lutto della foce giacché morente
Sono trappola vivente verso il so
La culla ennesima del falò
Però non brucio anzi ritorno
Fantoccio di sangue velenoso
Si dipana il libro che nessuno capirà
Ma poco importa tracciare il fantoccio
Della sapienza. Il postino all’orizzonte
Calcola gli zeri che incontra e la marina amorosa
Dove s’intana il coma di pargoli
Gotici. Padre di alta messa per perdonare i lupi
E le gentaglie alle prodezze degli assassini.
In fondo i colori amano i piangenti
I fagotti dei poveri che non sanno amare
E il carro funebre con la rodine in cima
Somiglia il paradiso che non c’è.

10.
Le bambole di pane ebbero tempo
di frangere aurore per gli abiti
quali un manipolo di baci.
Sto quaggiù dove piange il sale
le rotte nude di trovare il giorno
mancato per abitudine al cadavere.

_______________

*
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti” (ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure” (LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca Pensa 2006), “Dallo stesso altrove” (La camera verde, 2008, selezione), “L’inchino del predone (Blu di Prussia, 2009), “Il solicello del basto” (Fermenti, 2010), “Ricette del sottopiatto”(Besa, 2011) “Un gerundio di venia” (Oèdipus, 2012), “La giostra della lingua il suolo d’algebra” (Edizioni Smasher, 2012); “Segnacoli di mendicità” (CFR, 2014); “Plettro di compieta” (Lietocolle, 2015). Altre raccolte inedite in formato cartaceo, complete e incomplete, rintracciabili sul Web: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”, “Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”; “Staffetta irenica”, “Il solicello del basto”, “Sotto le ghiande delle querce”, “Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Ricette del sottopiatto”, “Dallo stesso altrove”, “Miserere asfalto (afasie dell’attitudine)”, “Declini”, “Esecuzioni”, “Davanzali di pietà”, “L’eremo del foglio”, “L’inchino del predone”, “Il sonno della ruggine”, “L’invadenza del relitto”, “Vigilia di sorpasso”, “Il cantiere delle parvenze”, “Soqquadri del pane vieto”, “Cantico di stasi”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario dell’alba”. Ha inolttre pubblicato le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura.

Premio Nazionale Elio Pagliarani

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Il Premio Nazionale Elio Pagliarani  ha lo scopo di promuovere e valorizzare, nello spirito sperimentale del poeta, la scrittura poetica e la ricerca letteraria che dimostrino qualità creative ed espressive originali nell’innovazione linguistica.

La vita in tempo di guerra

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foglie-di-autunnodi Sergio Garufi

Per capire un libro non serve leggerlo da cima a fondo. I libri, più saggi degli uomini o forse solo più scaltri, cedono prima l’anima del corpo, tanto quella, si sa, è immortale. A volte la esalano così in fretta che non si fa neppure in tempo a toccarli. Non è difficile. Per cogliere lo spirito di un libro basta sfogliarlo, annusarlo un po’, leggerne qualche brano, e se vale davvero ne saremo subito conquistati. Succede così con La Vita Gueresca, le memorie dal fronte dell’agricoltore trentino Giacomo Beltrami. All’apparenza è il classico diario di un reduce della Prima Guerra Mondiale, che racconta i bombardamenti e gli assalti con una lingua elementare, ma è sufficiente scorrerne poche righe in un’antologia e fra mille errori si scoprirà un verso immortale, di quelli che si studiano a memoria nella scuola dell’obbligo. La perla è la celebre similitudine della poesia Soldati, solo che Beltrami la scrisse due anni prima di Ungaretti, nel 1916, osservando che il nemico “cadeva come le foglie deli alberi lautuno”. Non si tratta di plagio, sebbene l’analoga circostanza bellica autorizzi il sospetto, intanto perché il manoscritto di Beltrami non fu mai pubblicato, e poi perché i versi di Ungaretti valgono più per la struttura, con i due settenari ritmati dall’enjambement, che per la similitudine, tutto sommato ovvia; se no anche mio nonno anticipò Yves Klein quando pitturò di blu la porta della cantina. Però è il segno evidente di una sensibilità estetica non comune, dell’appartenenza a una grande tradizione, difatti la stessa immagine si trova, con motivazioni diverse, in Omero, Virgilio e Dante, volendo citare solo i maggiori. Per Ungaretti il motivo dell’accostamento tra uomini e foglie era la precarietà umana, quel “si sta” sempre in bilico tra la vita e la morte, mentre per Beltrami significava la caduta, la sconfitta, non a caso riservata al nemico; e il nemico di un suddito dell’impero austroungarico erano anche gli italiani, tanto che i trentini venivano mandati a combattere lontano, contro i Russi, temendo che lo scontro coi fratelli di lingua li potesse indurre a disertare.

Ma il ricorso alla similitudine in Ungaretti e Beltrami non fu un caso isolato. A leggere le tante testimonianze dal fronte pubblicate per il centenario, come quelle incluse nella Storia intima della Grande Guerra di Quinto Antonelli (Donzelli editore), fu soprattutto con la similitudine, la più semplice e diretta delle figure retoriche, che i poeti nei versi e i fanti nelle lettere provarono a raccontare gli orrori del conflitto. Evidentemente, una violenza così cieca e distruttiva, frutto della prima guerra davvero mondiale per dimensione, uomini e Stati coinvolti, doveva essere ricondotta a qualcosa di noto per renderla comprensibile a chi era rimasto a casa. A parte questo tratto comune però, la scrittura dei soldati e quella degli ufficiali appartenevano a due mondi totalmente diversi. Gli ufficiali si arruolarono volontari, perché fu il partito degli intellettuali e dei giornalisti, come i futuristi di Marinetti e i seguaci di D’Annunzio, a trascinare in guerra una nazione titubante. Secondo loro l’Italia era fatta ma non compiuta, e serviva un lavacro di sangue per riconquistare le terre irredente e cementare lo spirito identitario del popolo. Nel voluminoso epistolario degli ufficiali curato da Antonio Monti, la retorica patriottica della bella morte che anima quelle lettere è finalizzata a sostenere la bontà della causa italiana. Anche considerando la mano pesante della censura, i veri destinatari sembrano essere i posteri, più che i familiari. Le similitudini usate dagli ufficiali restano lugubri e angosciose ma sono sempre riscattate dallo scopo eroico, dal sacrificio consapevole, al punto che a volte, come nelle parole del sottotenente Annibale Calini, s’invitano i genitori a benedire la guerra perché “come il fuoco mi ha distrutto, ma ha coronato di luce la mia fine”. Al contrario, il soldato semplice in genere era un contadino, un artigiano o un manovale obbligato a combattere. Molti ufficiali lo ritrassero in modo paternalistico e indulgente, come fosse un bambino sperduto, in alcuni casi lodandone addirittura la beata ignoranza.

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Giani Stuparich (in Guerra del ’15, fresca ristampa di Quodlibet), notando un contadino sul treno per il fronte, ne rimarcava l’espressione terrorizzata e ammutolita da animale condotto al macello; e forse fu proprio per ridargli voce che l’interesse degli storici col tempo s’è concentrato sulla scrittura popolare dei combattenti. L’emersione di uno sterminato corpus di epistolari e memorie ha favorito una storiografia “dal basso” che intendeva porre l’accento sui veri protagonisti della guerra. Sembrerà strano che in quelle condizioni bestiali, dentro trincee infestate da topi e pidocchi e in mezzo a cadaveri insepolti, i soldati sentissero ugualmente il bisogno di scrivere, ma quello era l’unico modo che avevano per fuggire l’orrore del presente. Filippo Guerrieri, un giovane tenente, in una lettera ai genitori spiegò l’importanza di quel rapporto: “Difficilmente mandiamo delle maledizioni, perché a tutto siamo abituati, non ci si arrabbia se piove e non abbiamo da cambiarci, se il rancio non arriva, se il fuoco infuria, siamo alla guerra e deve essere così, ma guai se la posta non arriva, è l’ira di Dio che si scatena”. Molte lettere esprimono la nostalgia di casa, la paura di morire, la speranza in una rapida fine delle ostilità; ma in alcune regna lo sconforto più nero, come le parole agghiaccianti che il fante Andrea Pistoia rivolse alla moglie: “non pensare troppo a me, considerami perso, io non sono più niente, non esisto più, non spero neanche più di vederti”. La sintassi è spesso impacciata, rasenta l’afasia, quasi che la necessità e l’impossibilità di raccontare l’inferno non fossero due principi opposti, bensì due facce di un unico processo. In una lettera del calzolaio trentino Angelo Poli, coinvolto nella terribile battaglia di Rawa-Ruska, questo ossimoro suggella un lungo elenco di atrocità. Dopo aver tratteggiato dettagliatamente un panorama apocalittico da “finizione del mondo”, Poli conclude dichiarando: “era una roba che non si può nemmeno deschrivere”. In queste lettere si avverte spesso lo sforzo di abbandonare il dialetto, e tuttavia è grazie a quei goffi tentativi che la lingua risulta più aderente ed efficace nel registrare lo choc della guerra.

Anche la scrittura di Beltrami risente della sua formazione vernacolare, oltre al fatto che compila le sue memorie a quarant’anni, ben lontano dai ricordi scolastici, eppure i frequenti errori non affaticano il lettore, che si sente totalmente immerso nella storia grazie allo stile diretto e partecipe. Spedito nell’agosto 1914 a combattere in Galizia, Beltrami scrisse queste memorie due anni dopo, durante la prigionia in Uzbekistan. Da quel gelido finisterrae raffigurò il tramonto della sua civiltà con grande tenerezza ma senza infingimenti, sapendo che le contraddizioni di quella civiltà erano insuperabili, ma sapendo pure di affondare le proprie radici in quelle contraddizioni. In questo senso, La Vita Gueresca è il resoconto di una disfatta personale e collettiva, il testamento di un’esistenza che si scopre infine abbandonata a se stessa. Al ritorno a casa, dissolto l’impero asburgico, Beltrami diventerà il suo nemico fraterno: un cittadino italiano. Farà in tempo a sposarsi, ad avere una figlia, a vedere un’altra guerra e a morire poco dopo, nel ’48, senza più riprendere in mano la penna. Quel bellissimo manoscritto resterà un unicum, tenuto nascosto perfino ai familiari. Consegnato postumo all’Archivio della scrittura popolare di Trento, oggi lo si può leggere integralmente solo in rete, in allegato alla bella tesi di laurea che Federico Manica gli ha dedicato. Descritto dai discendenti come un uomo basso e schivo, dedito unicamente ai frutti del suo orto e alla coltivazione del tabacco, Beltrami visse l’esperienza della scrittura come una breve parentesi, qualcosa che cominciò e finì con la guerra. Fece come le nespole che danno il meglio di sé e acquistano le ali cadendo, quelle che maturano nel breve spazio tra il ramo e il suolo, che si staccano acerbe e trasmigrano come anime nel tempo di un respiro, lasciando sul terreno soltanto una piccola poltiglia silenziosa.

Miti Moderni/15: tempo massimo

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ponti-spettacolari-9di Francesca Fiorletta

Sei sempre fuori tempo massimo, mangi un panino, non hai voglia di spostarti dall’oblò, fumi una sigaretta, ti dovrai arrangiare, ti consigliano severi, infila al collo la cordicella, penzola al vento il cartellino, sei un impiegato, sei una massaia, bisogna accontentarsi, ti ripetono, troppo seri, che a questo mondo siamo sempre soli, in mezzo a tutti, non si riesce a stare da soli mai. 

L’Amalassunta, animale strafottente

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di Giacomo Verri

È un romanzo che ha la pazienza di perdersi. Che va e viene e torna sui propri passi. L’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte, vincitore del Premio Calvino 2014 (ora in libreria per i tipi di Giunti), racconta l’anima inquieta di un io narrante, Antonio Accurti (il nome è svelato solo a pagina 51), che tanto sa d’alter ego da assottigliare pericolosamente la linea che separa la persona reale dell’autore dalla finzione-funzione di narratore.

Antonio molla tutto, quasi improvvisamente, per inseguire una specie di sfilacciata amenza, la passione forse insana, certo ineludibile, per la “storia del pittore”: è Osvaldo Licini, fiorito all’Accademia di Belle Arti di Bologna, astrattista in bilico sempre tra sottili chimere e periclitanti e liriche geometrie. Era originario di Montevidone, il buon Licini, un paesino dell’entroterra marchigiano, a forma di P, adagiato al colle, neniato in cima alla sella che scandisce la valle: lì torna dopo gli studi bolognesi, dopo il soggiorno parigino, dopo le delusioni incassate qua e là lungo la groppa movimentata della penisola (i primi importanti riconoscimenti gli verranno solo a fine carriera, alla Biennale veneziana, nel 1958). Anche Antonio torna, rimette i piedi a Torano, quaranta chilometri a sud di Montevidone. Ci torna per una fantasmatica e potentissima “forma di inconsistenza”, lascia la morosa, Nina, lascia Torino, lascia le vuote certezze della vita. Non che quella di prima fosse un’esistenza falsa, e quella di ora sia autentica. Com’era nella sensibilità del pittore, la vita è marcata dal bilico silenzioso e assolutizzante di chi sta per lanciarsi nel vuoto, di chi “rimane così, spiovente sulle leggi di Euclide”. E il ritorno ha un significato al limite dell’ermetismo, un significato attorno al quale l’io narrante preferisce non essere assillato.

Nelle vallate fermane, tra Torano e Montevidone, Antonio parla di Licini con l’amico d’infanzia Germano, con Marcello, che comanda un drappello di giovani archeologi venuti a “cercare i reperti nella valle”, e con altre donne o uomini che lo conobbero – anni Trenta – quando l’artista tornò al paese a braccetto della moglie straniera. Antonio va a vivere nella vecchia barberia del nonno: e lì respira quell’aria stantia, diroccata, ma ricca e sofferente e estremista, perfino, che diede corpo alle tramutanti idee del pittore.

Il pittore, sì. Il romanzo lo rincorre, come si rincorrono i miti finite le esaltanti prime sensazioni. La passione ossessiva che ci sconvolge, per un uomo, una donna – badate bene: non parlo d’amore –, per un’idea, per un’opera, vive dapprima di slanci ubriacanti, di impazienti estremismi. Ma quando poi si è superato l’iniziale strato di familiarità, il contatto con il nostro mito diventa più intimo, e più difficile, a un tempo. Che può dire, ancora? Fino a dove? Fino a dove ciò che io posso sapere di lui – nel nostro caso, ‘il pittore’ – può invaderci, intriderci, levigarci? Brandimarte di Licini ripercorre, con una struttura a spirale che agglutina di continuo, e di conserva, passato e presente, le tappe della vita, quelle grandi e quelle minori, gli studi, la guerra, le ferite, l’amore delle infermiere e l’altro, le delusioni e le passioni e la rabbia. Dalla china dei lustri, risalgono all’oggi tanti insegnamenti sempre validi, tante impressioni sempre dorate. Lo stesso trattamento stilistico – dal lessico alla sintassi – che il narratore dispone per la propria materia ha echi che affondano in quel passato: dai primi dei decenni del secolo breve discendono le pagine di Brandimarte, punteggiate come brevi poemi lirici che ricordano tanto le prose bellissime e impareggiabili di chi scriveva a cavallo del primo conflitto mondiale, quando cioè la regola era che la singola parola, nell’inconsutile tessuto testuale, affiorasse alle carte solo dopo attente meditazioni, con una persuasione quasi superstiziosa. È bello da leggere il libro di Pier Franco Brandimarte, perché, con una sguardo nel presente, smuove rumori antichi, i passi spirituali di chi era partito volontario per le trincee e aveva scommesso l’intera propria esistenza sul fango.

Lo scavo nel passato è qui sempre un dialogo: esaltante, sulle prime, qualunque cosa ne sorga: “la parte più eccitante viene quando si scava, allora prima di riesumare un vecchio tappo di birra si può immaginare un tesoro disperso, una moneta romana o un bracciale piceno”. Un dialogo, certo, a volte inconcluso, spesso labirintico, eppure l’impressione è che tutto si tenga come nelle architetture dei trabocchi che si protendono in mare. L’Amalassunta, che è la luna, – e assieme a lei altre tante tele di Licini – sono come “estensioni della capacità umana di toccare e prendere”, sono portolani e mappe dell’esperienza; e Licini medesimo è “il cacciatore-pittore” che “delinea i percorsi noti fin dove conosce, e dove non conosce arriverà la sirena, il drago, l’abisso o l’Amalassunta”. L’Amalassunta è una enorme e struggente lassa testuale che s’avvinghia, come fanno i sogni, attorno al mistero della vita, soprattutto della vita adolescente, dove un senso d’eternità percuote le vicende di tutti i giorni.

Così, in ogni alba di Antonio Accurti, in ogni alba di Osvaldo Licini c’è un senso di lontana ripetitività che “inganna il tempo, lo mescola come lo zabaione, lo rende cremoso e denso”. È un romanzo colmo, come pochi se ne leggono oggi, in cui le vite seguono una linea che non è sempre quella segnata dalla volontà, ma spesso è quella comandata dalle venature del materiale di cui è fatta, come avviene nel marmo. Perché la vita è composta di tanta realtà, e di essa una creatura umana ne può sopportare solo una certa misura. L’Amalassunta è allora il viaggio interiore che conduce a trovare quella misura e a superarla, dando sfogo alla “voglia d’indeterminato, d’inconcluso, voglia di giocare eternamente coi possibili, di evadere la forma”, trasformando l’esistenza in un continuo palinsesto di se stessa. “Mi accorgo che tutte le similitudini fabbricate in questi mesi non valgono a fermare quella luna che come un animale strafottente non appena inquadrato cambia forma, si riavvolge, si tramuta in qualcos’altro”. Sì, è così.

EN SOLIDARITÉ AVEC ERRI DE LUCA

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domani pomeriggio, 20 maggio, in una libreria di Nantes (café-librairie Les Biens-Aimés, 2 rue de la Paix) verranno letti dei passi di “La parole contraire” (traduzione di “La parola contraria”), di Erri De Luca;

ci sembra una cosa bella e opportuna; se ci fossero iniziative del genere anche in Italia, o altrove, vi preghiamo di segnalarcele, che le publicizzeremo volentieri (GS);

questo il testo diffuso dagli organizzatori:

“En solidarité avec Erri de Luca, accusé d’incitation au sabotage dans le cadre du projet de construction ferroviaire de la ligne à grande vitesse Lyon-Turin, qui comparaîtra en justice le mercredi 20 mai, nous lisons son livre La parole contraire, dans lequel il défend sa liberté de parole, notre liberté de parole. Erri de Luca refuse de voir son procès confiné dans une salle d’audience. Il veut un débat public. Partout, dans le val de Suse en Italie, à Sivens, sur la ZAD de Notre-Dame-des-Landes, il s’agit de défendre notre droit à la désobéissance face aux grands projets inutiles. C’est pourquoi nous lisons son livre, aussi à Nantes.”

http://nantes.fr.eventsdroid.com/ici-ailleurs-en-solidarit%C3%A9-avec-erri-de-luca-les-16-20-mai-%C3%A0-nantes.html

Ida Vallerugo (poeti friulani # 2.1)

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testi di Ida Vallerugo, fotografie di Danilo De Marco

Ida Vallerugo che guarda  copy

 

 

 

 

 

 

Alba sull’Acropoli

 Ma mi assale il tempo. Non qui, non ora

in quest’alba calma fra queste colonne.

Non qui, non ora, in questo silenzio vivo, fra le voci

Critica del lavoratore culturale

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di Andrea Inglese

[Di tutta la faccenda scandalosa e sintomatica riguardante i mancati pagamenti della casa editrice Isbn nei confronti di autori, traduttori & collaboratori a vario titolo, la cosa che io trovo più scandalosa e sintomatica è il fatto che la denuncia esplicita e mirata sia venuta da un signore straniero, quando è evidente che, in termini numerici, le vittime di queste condotte ciniche siano state innanzitutto persone italiane. Non si tratta di rigirare il coltello nella piaga, ma di cominciare a fare i conti anche con l’omertà delle vittime che rafforza giornalmente quella dei carnefici. Certo, è tempo di dare forma politica, e ancor prima sindacale, alla rabbia e alla frustrazione che lo scandalo suscita. Ma varrebbe anche la pena di riflettere in una prospettiva più ampia sulla figura del lavoratore culturale, sulla cultura del precariato in cui s’inserisce, sulle ambiguità del suo posizionamento etico e politico. Quello che segue è un mio contributo a questo tipo di riflessione. Esso è raccolto nel volume Le culture del precariato, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi,  Ombre corte, 2015. Un altro intervento qui. a. i.]

La costruzione del due

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di Ivan Campesi

zero – Ai margini di una stretta di mano, celati dai vetri appannati di un bar, costruiamo con fatica reti di relazioni sociali, in cui ci avvolgiamo in cerca di conforto. Ritroviamo ogni volta, nella velocità di un messaggio istantaneo o nella chiarezza con cui facebook riassume i punti salienti delle nostre vite, nuovi bisogni di solitudine da esacerbare: in quei momenti, siamo sempre abbandonati su un divano a scrutare inganni di stupefacente bellezza – brandelli di telegiornale, tribune politiche e talkshow, pezzi di realtà pericolosamente estranee e distanti –. La nostra presenza riempie alla perfezione il vuoto degli spazi domestici, ma non sembra avere nessun’altro senso.

 

uno – Durante notti d’insonnia e d’attesa, PQ amava costruire elaborate geometrie immaginarie, dentro cui collocare la ragione della sua esistenza. Era una disciplina meticolosa che scaturiva dall’osservazione minuta di particolari insignificanti – la pubblicità che interrompeva un film d’azione scadente, trasmesso a tarda notte; le esitazioni della barra di avanzamento di un aggiornamento di sistema; o altri piccoli momenti di dolore inspiegabili, che PQ distillava con la sua scienza esatta –. Aveva da tempo capito che il problema erano le sue scelte, che vedeva intessersi lungo lo svolgersi delle sue costruzioni mentali: era soprattutto la vita in un altro luogo, con altri ritmi, con altre sicurezze e soddisfazioni, a lusingare la sua fantasia cartesiana. Un costruttore di futuro, a cui il presente non sembrava altro che lo spazio inerme oltre la finestra della sua stanza, dove fremevano le luci della città notturna.

 

uno e 1/2 – Il bagliore discreto di un crepuscolo amaranto, diffuso tra la densità prospettica dei palazzi e delle strade. Ele camminava immersa nel tramonto sfavillante di smog, senza riuscire a esprimere un pensiero che la liberasse dallo stato di sospensione di cui si sentiva prigioniera. Non aveva mai una meta precisa, o se l’aveva, cercava di relegarla in uno stadio rarefatto e sfilacciato del pensiero, mentre il suo corpo la guidava verso di essa con gesti automatici – l’università, il centro o casa di PQ: erano le destinazioni di percorsi tracciati dalla bicicletta di Ele tra le abitudini dei passanti –. Solo così poteva sopportare la bellezza che si intrufolava sotto forma di luce, tra le sagome della città, e scacciare la convinzione che quello spazio, in realtà, non fosse adatto alla vita umana.

 

uno e 2/3 – Dispersa nei raggi di luce rossa, che filtravano dal vetro di una finestra, la presenza discontinua di Ele incrinava la perfezione dei sistemi di PQ: nel rapporto che aveva costruito con lei PQ avvertiva qualcosa di inspiegabile, che non riusciva a posizionare nelle geometrie in cui racchiudeva le possibilità del futuro. Così, PQ tornava a essere lo schermo della tv o le pagine di un libro, sondando con i polpastrelli la superficie irregolare del tappeto. In realtà, PQ aspettava. Durante serate piovose e prive di luce, aspettava che Ele tornasse, per poter riprendere a studiarne le grinze di una cicatrice su un ginocchio, o il neo scuro sotto un capezzolo: una mappatura estesa di Ele come fenomeno fisico sembrava essenziale a PQ per poter comprendere la sua realtà sfuggente, all’interno di quel vuoto inarticolato in cui si consumavano una dopo l’altra le giornate.

 

uno e 3/4 – Non che Ele immaginasse un altrove, in cui fosse possibile conciliare i frammenti difformi della sua esistenza – malinconie improvvise come flash, solitudini aperte come schermi –; eppure, mentre si dirigeva verso casa di PQ, Ele avvertiva sempre qualcosa di sbagliato, una frattura che era necessario ricomporre e suturare. In quei momenti, vedeva se stessa e le persone che incontrava come improvvise interruzioni del paesaggio continuo della città al tramonto – c’era un legame sottile ma evidente tra i cassonetti dell’immondizia e il nitore abbacinante delle automobili; tra le vetrine iridescenti e la nausea grigia assembrata nel cielo –. Ele era certa che fosse proprio la sua presenza a costituire l’inessenziale, un grumo di realtà superflua e invadente, di cui il resto del mondo avrebbe fatto bene a disfarsi. Tuttavia, a volte, nei discorsi che PQ le faceva durante serate di noia, quando anche il sesso era qualcosa di laterale e sfuggente, aveva la sensazione di scovare, dietro l’attesa che scandiva le giornate, dei percorsi di senso su cui parevano avviate le loro presenze accessorie tra le linee asciutte della città.

 

quasi due – Durante mattine arse di luce, stretti nell’abbraccio del sonno, ci sussurriamo frasi lette nei libri e ci stupiamo dell’esattezza delle parole – «a volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane» –; poi restiamo in silenzio, a osservare quei profili netti disegnati tra di noi dalle parole e incapaci di aderire alla superficie porosa delle nostre vite. In quei momenti, aspettiamo il segnale improvviso di un cambiamento.

les nouveaux réalistes: Fabio Ermoli

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Dimensioni-Campo-Basket

playoff

di

Fabio Ermoli

Sabato vado verso l’Iper per necessità, con lo scooter attraverso Piazzale Accursio, guardo il campetto da basket che una volta era territorio del Pitone di Via Nansen, l’attuale Avv. Ranzoni, quando per la prima volta insieme ai soliti ragazzini filippini ci vedo un ragazzetto bianco bianco lungo e dinoccolato che in realtà si sta allenando da solo.
Nell’altro canestro.
Il semaforo rosso mi consente di osservare 4 tiri.
Il semaforo diventa verde ma non me ne vado pur di vedere il quinto. 
Tira da molto lontano, con la palla che schizza tra le gambe in arretramento, raccolta con la sinistra e tirata a canestro in sospensione cadendo all’indietro, come a liberarsi di un avversario che ha già affrontato.
Un movimento che conosce.
Non è roba da tutti, ve lo garantisco.
Nel campetto di Piazzale Accursio la retina del canestro si gonfia e la palla fa quel rumore che ci piace tanto, ciafff.
 Metto la moto sul marciapiede, ci penso un attimo, voglio solo chiedere al tipetto dove ha imparato a fare quei tiri. 
Uscito di casa ho addosso i jeans e le Champions da € 19,90 finte Converse, bianche, con le calze blu filo di Scozia che non c’entrano un cazzo. 
E una polo grigia di Robe di Kappa sfigatissima sotto il giubbotto nuovo di pelle.
Praticamente sembro uno sbirro da telefilm. 
Vabbè, al limite sembrerò un vecchio adescatore.
Mi avvicino al campo ed al ragazzetto che dimostra un 15 –16 anni, mi paleserò e lui si domanderà probabilmente che cazzo voglio.
E infatti mi dice: 
 – Cazzo vuoi?
 – Il pallone – rispondo io. – Guarda saran vent’anni che non faccio un tiro. Faccio solo due tiri e poi vado all’Iper a fare la spesa.
Fa tre passi in avanti tranquillo con la palla tra le mani, una Wilson di cuoio, bella.
Troppo bella per un playground della Bovisa.
Mi accorgo che complessivamente è alto come me, e io sono circa 1,90.
Mi tolgo in giubbotto, lo metto per terra, mi giro e lui mi passa la sfera.
La ricevo, faccio un paio di palleggi per capire, esco dall’area arretrando e faccio lo stesso tiro che gli ho visto fare per ultimo.
Diciamo saltando meno, ma quello è il concetto.
Che lui recepisce.
– Ah… ho capito, sei brutto cliente, tu, lo so – prende la palla che scende dal canestro e me la passa ancora.
Accento balcanico, quasi turco.
Niente preamboli.
– Vuoi giocare? Uno contro uno? Poi tu vai a fare tua spesa all’Iper.
Al che mi sono domandato.
Se uno decide intorno ai 50 anni di farsi deliberatamente del male in un campetto della Bovisa, che male c’è? 
Giochiamo, allora.
Palla a me, passaggio a terra.
La prendo mentre rimbalza, lui non si avvicina.
Aspetto un attimo, non viene.
Tiro. 
Canestro.
 Se non difendi, io segno.
Palla a me, all’americana.
Stavolta apro il palleggio per farlo muovere. Fermo il palleggio, lui non difende.
 Tiro. 
Canestro.
– Non difendi? – gli chiedo.
Lui sorride e mi fa:
 – Adesso tu ha voglia di giocare, vero?
Ha ragione.
Gli ridò la Wilson.
Mi porta a sinistra per entrare a destracercando un tiro dal limite dell’area, finta, sgamba sulla linea di fondo e al momento del contatto cerca di farmi un controllo del corpo spingendomi con la gamba destra.
Bellissimo movimento, ma io l’ho imparato nel 1983.
Più o meno alla tua età.
Fisso la mia linea difensiva con un piede sulla linea di fondo e lo fotto.
Esce dal campo con la palla in mano, non poteva tirare da dietro il tabellone.
– Dove hai imparato a giocare a basket? Sei forte, giochi bene – devo chiederlo, ha una preparazione tecnica che non c’entra niente con il campetto di Piazzale Accursio.
Dovrebbe stare in una palestra tutto il giorno a tirare a canestro finché non va alle Olimpiadi
Da dove spunta questo alieno?
I filippini dell’altra metà del campo si sono fermati e ci guardano.
Si sono ingolositi, lo chiamano e gli parlano, evidentemente lo conoscono.
Vorrebbero per una partita, almeno una volta, due giocatori nel ruolo di centro di 1,90 circa, uno per squadra, loro che generalmente arrivano al 1,70.
Ecco perché giocava da solo. 
Era troppo forte, o lungo, in ogni caso non giocava con gli altri nel multirazziale campetto di Piazzale Accursio, con la Wilson ci tira solo lui, infatti la mette sotto il canestro.
Il capo dei filippini mi convoca nel suo quintetto
 – Tu giochi con noi.
Fanno le squadre eccitatati e intanto gli chiedo: 
 – Come ti chiami?
 – Armin.
Armeno o giù di lì, dunque.
Io dovevo fare la spesa all’Iper, i miei gatti e mia figlia aspettano rifornimenti, ma sono troppo curioso.
Giochiamo, allora, mi stringo meglio le stringhe, sennò a cosa servono, se non a stringere?
Le Champions gemono, i piedi pure.
Abbiamo giocato per una mezz’oretta e passa.
Hanno vinto loro.
Armin ci ha fatto vedere tutta la pallacanestro che si può fare, e io ho difeso per fargli sudare ogni punto.
Totalmente rilassato, alla fine della partita ai 24 punti abbastanza concitata, il giovane espatriato ci ha regalato uno show di precisione, tirando quasi da fuori il campetto illuminato dagli ultimi raggi di sole di questo Aprile.
9 su 12, statistiche da Pro.
Dopo gli ho chiesto:
– Cosa ci fai qui oggi?
– Sono armeno e albanese, ho giocato per 3 anni in Turchia e ho vinto il campionato europeo Under 17 ma dopo sul confine a casa mia un casino, avevo un contratto a Istanbul con grande squadra, ma la mia famiglia è anche mezza siriana e ho dovuto aiutare, altri parenti hanno cercato fortuna, mio fratello era un campione di basket, per venire in Italia ci siamo fidati delle persone sbagliate, tutti i nostri soldi sono spariti, siamo arrivati tutti vivi solo perché io avevo dei soldi nascosti e abbiamo preso camion, tutti quelli che cercano di arrivare qui con il mare forse muoiono, ma forse sono già morti prima che partono.
– Come fai a dirlo?
– I nostri cugini sono morti in mare tanti anni prima di adesso, in mare.
– In che senso?
– È normale, se vuoi andartene, qualcuno della famiglia muore.
– È una cosa che pensate? È necessaria? Non c’è scelta?
Lui rimane zitto, mi guarda come se fossi un vecchio rincoglionito.
– Tutti i governi accettano che loro popolo scappi dalla loro terra perché vogliono soldi dagli altri paesi che devono prendere queste persone. Se muoiono tante persone è meglio, in giro per il mondo si muore di fame, anche vicino alla tua porta di casa e non te ne accorgi, ma adesso stanno venendo tutti in Europa.
– In Europa?
– Dalle altri parti del mondo non ci vanno, non si può, non li accettano più e li mandano indietro, fanno come tutti, aspettano che muoiono.
– Che lavoro fai?
– Il muratore in nero, con mio cugino.
– Ti faranno fare i controsoffitti senza la scala, vero?
– Non capisco…
– Scherzavo, quanti anni hai?
– 17.
– Anche no.
– 17 a ottobre.
– Giochi in una squadra?
– Niente documenti, niente squadra.
– Continua a giocare, sei veramente bravo.
– Lo so.
– Ciao Armin.
– Ciao.

 

700

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di Gianni Montieri

Settecento diviso sette
fa cento. Sette file da cento.
No, non va bene, ritento
Settecento diviso cento
fa sette. Cento file da sette
sul lungomare, non ci stanno.
Divido settecento per dieci:
fa settanta, sono morti
dieci volte settanta, ordinati
sette volte cento, ammassati
cento volte sette paga pegno
di sale e aritmetica è il regno.

Intervista a Pepe Mujica

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presidente_pepe_mujica
José Alberto “Pepe” Mujica Cordano è stato presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 e, secondo lo statuto di quel paese, come di altri dell’America Latina, non può effettuare due mandati di seguito. Sul quotidiano madrileno El Paìs del 6 maggio scorso è apparsa (qui l’originale) un’interessante intervista che vi propongo qui tradotta dal mio vecchio amico. dal titolo “La corruzione uccide la sinistra. Ciò che sta succedendo in Brasile è inspiegabile”: Mujica era in Argentina alla presentazione del libro “Una pecora nera al potere”, ove parla di Cuba, di Nicolás Maduro (presidente del Venezuela) e di Podemos. L’intervista è firmata da Carlos E. Cué, Buenos Aires, 6 maggio 2015.

Domanda: Sta per recarsi in Spagna a ritrovare le sue origini basche. Un cerchio che si chiude?

Risposta: Si. Andrò a Muxica in memoria della famiglia di mio padre, e poi mi recherò in un paesino della Liguria, vicino a Genova, dove vive la famiglia di mia madre. Vado perché ho un’età tale che se non lo faccio ora potrei non farlo mai più.

D. Dicono che sarà di nuovo presidente dell’Uruguay, che è sempre lei il punto di riferimento.

R. Si, continuo ad essere il punto di riferimento, ma ho 80 anni. È difficile pensare a come sarò quando ne avrò 85 e potrei ripresentarmi come candidato alla presidenza. Non le pare?

D. Lei segue la situazione politica della Spagna. Il partito Podemos rivendica di ispirarsi alla sinistra latinoamericana. Lei vede similitudini?

R. Mi pare che quando una nazione patisce una crisi profonda, come è successo alla Spagna la cosa migliore che può succedere sia che le tensioni trovino un alveo nella politica. Che la crisi spagnola abbia prodotto un fenomeno come Podemos mi sembra altamente salutare. È un fenomeno più maturo. E pertanto più governabile. Proviamo ad immaginare la Francia che non ne vuol più sapere della Unione Europea, e che si chiude e caccia fuori i neri. Dove andremmo a finire? Io sempre preferisco e scommetto sulle soluzioni politiche.

D. Pensa che ci sia un ritorno della politica?

R. La crisi della politica solamente accentua l’individualismo. Io preferisco che le persone non si allontanino dalla politica: meglio non essere di sinistra che allontanarsi dalla politica. Sono disposto a pagare questo prezzo. L’antipolitica è avventurismo o fascismo. Preferisco comunque la politica, anche se politica conservatrice.

D. Teme il populismo?

R. Temo i senza partito, coloro che non rispondono a nessuna disciplina. I partiti sono il primo elemento di controllo degli individui. Che si chiamino PP, socialismo, o Podemos. Sono comunque qualcosa di collettivo. Però attenzione: se il populismo è la lotta per alzare il livello di vita o la politica di uguaglianza allora evviva questo peccato. Il limite di questo populismo è quando si prendono provvedimenti che paralizzano l’economia, perché vuoi redistribuire tanto che alla fine ucciderai l’interesse per il lavoro e per gli investimenti. Se uccidi questo, se superi questo limite, non avrai niente da dividere più equamente. Ecco direi che il populismo è superare questo limite.

D. Sta pensando al Venezuela?

R. Il Venezuela ha la disgrazia del petrolio. È il paese più saccheggiato dell’America Latina. Come può sopravvivere una società dove costa di più una bottiglia d’acqua che un litro di benzina? [100 volte di più, N.d.T.]

D. Ha suggerito a Maduro di evitare di mettere in carcere gli oppositori?

R. Credo che ci sia una opposizione in Venezuela che aspira ad essere incarcerata. È un modo di essere di parte dell’opposizione, una tecnica, una forma di lotta. Spingono il governo a superare i limiti (costituzionali) in modo da creare una patente contraddizione ed una situazione internazionale insostenibile. E questi tonti ci cascano. Gliel’ho detto (a Maduro). È un errore.

D. La gente protesta e si allontana dalla politica in Brasile ed in Cile per via della corruzione. Crede che le nuove generazioni siano più esigenti?

R. È un vero flagello di carattere etico. Quando il desiderio di far soldi si fa strada nella politica è un vero disastro per la sinistra. Perché è tanto diffusa la corruzione? Le sembra sensato che gente di 60 o 70 anni si insozzi per quattro luridi denari? Eppure sanno bene di non aver molta vita davanti a sé. Far denaro può essere importante come strumento di progresso nel mondo del commercio o dell’impresa dove ci sono rischi elevati , ma quando entra nel mondo della politica allora siamo fritti. È successo in Italia, e in parte in Spagna , in Brasile è addirittura incomprensibile. E qui in Argentina il vicepresidente è sotto processo.

D. Nel libro dice che sembra impossibile far politica in Brasile senza cedere alla corruzione.

R. La democrazia moderna è molto costosa, ed il Brasile è molto grande. Ci sono Stati [il Brasile è una repubblica federale, N.d.T.] grandi come nazioni. Ci sono forze locali e il Governo nazionale deve mediare con queste forze locali. Lì comincia il problema della corruzione.

D. Si annuncia un periodo difficile per la sinistra latino americana?

R. Non lo sappiamo. D’altra parte non mi sembra che la destra abbia molte risposte. Non credo che sia capace di fare cose meravigliose. Direi che la sinistra in Europa vive un momento di arretramento, mentre in America Latina vive un momento di stasi.

D. Come vive l’avvicinamento di Cuba e Stati Uniti uno che è stato guerrigliero?

R. Era un residuo della guerra fredda e che andava eliminato. Negli Stati Uniti molta gente pensa che questo produrrà grandi cambiamenti nella società cubana e i cubani pensano che resisteranno. La storia deciderà. I cubani hanno un punto forte: mandano migliaia di medici all’estero con un tasso di diserzione bassissimo. Potranno resistere? Non lo so. Perché bisognerà vedere l’effetto che avrà su Cuba la il “fascino del mercato” per dirlo con Trockij.

D. Sta svolgendo un ruolo di mediazione nel conflitto in Colombia?

R. Non sto svolgendo nessuna mediazione, pero devo parlare con la gente della FARC per via delle difficoltà del negoziato. Non posso dirle nulla altrimenti mando tutto all’aria, però devo parlare.

D. È ottimista?

R. Mai si è stati cosi vicini (a un accordo). Vale la pena impegnarsi. Mantenere un conflitto eterno non è una strategia. E la geografia della Colombia è tale che sconfiggere la FARC sulle montagne è impossibile. La guerriglia non potrà mai vincere però annientarla è impossibile. È una guerra permanente, infinita. Il presidente Santos è in buona fede ma affronta grandi resistenze e vorrei vedere se ciò che viene negoziato dalla FARC a Cuba viene accettato sul terreno da tutta la FARC. Quando si hanno le armi in mano la politica passa per il mirino del fucile. È il problema di sempre degli uomini armati. Tendiamo a vedere sempre la strategia politica attraverso le armi e non abbiamo fiducia nel resto.

D. Lei è la prova che si può arrivare al potere dopo aver lasciato le armi.

R. Sì, però conosco il problema, la malattia di tenere le armi in pugno. Alle organizzazioni armate costa molta fatica avere la capacità politica di negoziare. Però ormai viviamo in un’altra epoca.
Con il progresso tecnologico la guerra è un’illusione ottica che viene risolta dalla tecnologia. Non c’è nulla che abbia a che fare con l’eroismo. Significa accettare di essere uccisi da un telecomando. Oggi si possono mettere in gravi difficoltà i governi senza sparare un colpo. E non c’ è bisogno di andare sulle montagne.

[Nota dell’intervistatore: Pepe Mujica È stato guerrigliero per metà della sua vita, è stato in carcere per 15 anni, ha vissuto alla macchia e in clandestinità, e adesso dice che è vecchio e non può dire come starà tra cinque anni, quando potrebbe ripresentarsi per un nuovo mandato come presidente dell’ Uruguay. Però ascoltandolo, nessuno direbbe che Pepe Mujica è al capolinea della sua traiettoria politica. Strabordante, influente come nessun altro in Sud America, attento a tutte le situazioni del continente e a tutti i protagonisti, Pepe Mujica è venuto a Buenos Aires per la presentazione del libro sulla sua presidenza “Una pecora nera al potere” (Una oveja negra al poder) che Andres Danza e Ernesto Tulbovitz hanno scritto e che uscirà presto in Spagna per i tipi di Random House Mondadori.]

didascalie: Ma Dan

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Muro di casse

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di Vanni Santoni

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…e dalle case di pietra sotto cui passi prima di arrivare, le vecchie sbirciano; sulla strada i vigili danno mano, addirittura. È esistita un’epoca, ricordo adesso, in cui sui giornali si potevano prendere per quello che erano, semplificando al massimo, quei ragazzi: appassionati di musica, solo un po’ strani. Tra i lampi tremolanti dei fari di chi cerca di far manovra incroci facce che vengono da lontano e altre che invece arrivano certamente giù da basso; per un Claust di Innsbruck e una Marystelle di Roubaix ecco un Baldo, un Colle, una Sarina.
E seguirò proprio te, Sarina: tu che procedi all’apparenza sicura verso il monte, con le calze smagliate e gli scaldamuscoli rivoltati sopra le scarpe da skate, con la felpetta nera su cui hai cucito, o lo hai fatto fare a tua mamma?, una toppa col logo dei Narkotek, quante volte hai fatto su e giù, in questa settimana? Chi ti ha dato uno strappo fino a mezza strada, stavolta? Che fai, ti metti da parte, ti fermi a giocare con un cane? Se fai così ti supero…
Servono capsule?
O Sara, sono Iacopo, il Gori.
Ah mi’, ciao Iacopo. Vuoi capsule?
Con tutto il ben di dio che ci sarà lassù…
Bo vabbè cioè te le mettevo a dieci, è md francese…
Immagino.
Senti Iacopo… Che ce l’hai mica una sigaretta?
Tieni, Sarina, e prende la sigaretta, se la mette sull’orecchio, poi ci ripensa, la accende, intanto arrivano altri tre, piccoli come lei, due ragazzine e un tizietto con una visiera da tennis sulle ventitré.
Ciao… Lucy?, fa alla prima del gruppo, ci prende, ottiene riconoscimento; si affianca, allora, e ritrova la voglia, finalmente, di fare strada: ti seguo, Sara, hai visto cosa hanno messo su? Proprio qui da noi. Tu che per la prima volta hai visto una vera festa cinque settimane fa, che dalla loia impestata del campeggio di Arezzo Wave qualcuno ti ha caricata su, e ti ha portata all’In the wood, al confine con l’Umbria, e lì sì che hai visto i tuoni e i fulmini e i diavoli che uscivano a mazzi dalla terra, e ora puoi ben fare come se bazzicassi questi sentieri da sempre, e come se questi sentieri per sempre dovessero esistere: non è così, Saruccia, vorrei dirti oggi, ma intanto ecco i primi tuoni, e i primi camper scassati e coperti di adesivi, ecco che sbirci quelle lucine che sembrano di lanterne a olio, lì nel riflesso di quegli interni di legno o simillegno,  e c’è chi vende sebbene l’ora non sia tarda, te lo figuri a dire Veggano, veggano che fiore di mercante! Qui v’è di tutto; e son nullameno tutte cose rarissime e senza eguali in terra, oppure oh raga serve qualcosa, e allora tu sbircia e salta qua e là, Sara! Altro che le capsule con cui ti bulli di smerciare anche tu, che ti sei preparata sbriciolando un grammo di md presa ieri e dividendola dentro gli involucri svuotati di qualche medicina di tua madre; qui, Saretta, c’è ogni cosa, stasera da Castiglion Fibocchi passa la Via della Seta,
ecco Odilon con l’oppio andaluso
e Kirsten con le superman bianche (tutte anfetamina)
e quel gruppo da Marsiglia con gli acidi marca Timothy, che sta per Timothy Leary, l’hai mai sentito, Sara? non prenderne più di mezzo, si raccomanda uno di loro, sono da trecentosessanta microgrammi
da trecentosessanta microgrammi
e il Falacci (lui, be’, lo conosciamo) che è venuto da Reggello e ha un mezzo chilo di nero
e Rocamadour con Sayfa che hanno lo speed base, senti come odora, e la ketch indiana appena cucinata, e se vuoi anche le paste, smile blu, lo so c’è tanta md in giro,  ma queste son buone davvero, guarda, te le metto a cinque, a quattro
e al camper col graffito di Luigi (quello di Super Mario) affettano panette di zero zero
ma hanno anche la ganja olandese
e alla tenda, quella con la bandiera dei pirati, hanno le micropunte e il 2C-B, addirittura
raga serve oppio, serve md
ora che si formano le prime stradelle, ora che i tuoni e i lampi si aggregano in nodi e nubi sui crinali ecco anche nascere i crocevia coi loro mercanti, ognuno una lampadina al collo o sulla testa, qualcuno il cane, c’è chi si è portato una sedia da picnic
trip?
fumo?
serve speed ragazzi?
funghetti? guardalo, col cappello da cowboy e i sandali e il torso magro e nudo su cui penzola un rosario di legno, da dove sei arrivato tu, dall’accento potresti venire da qualunque posto, essere qualunque cosa
funghetti mezzicani ragàz?
Sarina, quasi ci hai ripensato? Buoni i funghetti, ma ti sei già comprata due Timothy, stai tranquilla, che se davvero sono da trecentosessanta microgrammi, mezzo ti basta e ti avanza
GHB?
erba?
volete birre ragazzi?
fresche nella bacinella da bucato riempita d’acqua di fonte
un bicchiere di vino cinquanta centesimi!
cecina, piade, magliette,
per caso vi serve mica un generatore usato, raga? funziona eh
Si sarebbe detto poi in Valdarno, Sara, che dopo quella festa ti eri messa con un francese di una tribe, e che ti avevano ritrovata lacera e perduta su un marciapiede di Marsiglia, sembrava una storia primi anni ’80, di quelle a fosche tinte; la verità è solo che avevi rivisto questo tipo incontrato all’In the wood (che poi, di lì a dire che quel Pascal, un devastato in canotta aggregatosi all’ultimo ai Sikotronik, fosse “uno di una tribe”, ce ne correva), e ci avevi pomiciato e gli avevi fatto una sega e ti eri ficcata in testa di metterti con lui, ma lui mica voleva troppo, ed eri arrivata a infilarti nel loro furgone, e allora lui, va là che non si butta via niente, il viaggio è lungo e una scopata ci sta, ti aveva presa su, ma arrivati a Marsiglia si erano tutti rotti il cazzo di Pascal e quindi figuriamoci di te (alle prime beghe peraltro subito disconosciuta), e arrivati su era chiaro pure che nessuno ti avrebbe portata in giro – neanche ti parlavano! – e così, senza neanche provarci, ad andare alla festa che dovevano organizzare qualche giorno più in là in certi hangar del porto sud, te l’eri fatta all’indietro, elemosinando e facendoti buttar fuori dai controllori treno dopo treno, e alla fine eri riapparsa qua, un po’ scossa e sbattuta, ma nulla di terribile, e però si sa, in paese ogni storia appena anomala si gonfia e sfugge di mano… Ma adesso siamo in quota, Pratomagno 2004, tutto questo non è ancora accaduto e grandi sono gli spazi bui tra i sound e possenti i tuoni, e farai bene ad approfittarne, a saltare e correre di qua e di là secondo il ritmo incessante che si alza a ogni orizzonte, ogni spiazzo è un mondo e dietro ogni crinale c’è un sound più grosso, e io stesso ti perdo, tu svalli mentre mi fermo a girarmi una sigaretta, approccio un sound che manda breakbeat, cos’è quel fagotto lì sotto, ah no aspetta è una persona… Oh mi’ c’è i’ Futre. Vomita, i’ Futre.
Ciao Futre, che fai, sgori?
Urg, hei Iacopo, um…
Ecco un esempio di quelle improvvise fluttuazioni verso il basso del pensiero cosciente che si hanno mentre sale l’effetto della ketamina. Ad alcuni poi, l’avvio causa una certa nausea, per l’effetto anestetico. Specie se, a giudicare da quanto il Futre sta rimettendo sull’erba bagnata, si viene da una corpata di spaghetti all’amatriciana e vin cattivo. Ma l’ho del resto visto vomitare una mezza dozzina di volte, ai tempi del liceo, quando era punk e bene declinava tale appartenenza. E sì che proprio lui allora cantava inni contro i “discotecari dai capelli colorati”, sebbene al Fitzcarraldo di Terranuova Bracciolini o al Mulino di Figline Valdarno, che erano le uniche discoteche che avessimo mai visto, nessuno avesse i capelli colorati – c’erano in effetti le stesse persone che incrociavamo ogni mattina durante l’intervallo. Si trattava forse di una sovrapposizione tra i discotecari di casa nostra e quelli che a volte facevano capolino sui giornali o in TV, in un servizio sulla Love Parade di Berlino (o sul The West di Venturina, che faceva 07:00-17:00 anche se ai tempi la parola rave in Italia neanche esisteva: quelli erano gli afterhour), i quali poi volendo erano ben più sovversivi di un gruppo di punk di paese, ma capisco l’equivoco, sono solidale: non era facile capire che ballare poteva essere qualcosa di sensato. Ti approcci al ballo la prima volta alle feste delle medie (ma se serve vi porto i dischi/così potrete ballare i lenti), è un orrore, poi al biennio c’è la discoteca della domenica, peggio ancora se non per il fatto che permette di tornare a casa la sera sfondati di cocktail e cenare di ottimo umore e solo un po’ giallastri coi genitori prima di svenire sul letto, né sono migliori quei dancefloor del mare, messi su in spiaggia alle 21:30 con tre faretti colorati; e pure quando cominci a rovistare le librerie dell’usato in cerca di quei “mille lire” di Stampa Alternativa con le interviste a Albert Hofmann o i suoi carteggi con Huxley, Jünger, Leary e Vogt, quando insomma cominci ad aprirti a una cultura che col ballo confina dai tempi dei tamburelli degli sciamani, ti capita fra le mani (nella stessa collana, in effetti) Anche le oche sanno sgambettare, e insomma, Don Milani non sarà Hofmann ma dato che conferma quello che già pensi è difficile non dargli ascolto, anche se il pogo, quello che fai ai concertucci punk, non è forse un ballo? Servirà ancora una fase di transizione, in quei postacci tipo Blue Kaos o Duplé dove per via della “progressive” la più turpe ottica da discoteca si mescolava con un primo, possibile, gusto del ballare per ballare (ma sempre con la testa sul fatto che ti stanno guardando, sul come ballare, sul cercare di non essere ridicolo, sul quando-avvicinare-quella-che-hai-puntato-prima), prima di capire che ballare è bello, anzi che il ballo è celebrazione, è rito, è il più elementare abbandono dell’io, i bambini lo sanno, basta che li metti davanti a una cassa e ballano, i bambini senza che nessuno glielo insegni girano su se stessi fino a stordirsi. Quanto ho girato! Facevo le feste già a tre anni, a casa della nonna: non mi si biasimi allora se remo sotto cassa.

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Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza 2015

Annegati negati

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sammartinodi Romano A. Fiocchi

Mimmo Sammartino, Un canto clandestino saliva dall’abisso, Sellerio Editore Palermo, 2006.

C’è un libro che ha anticipato tutto. Sono andato a riprenderlo e l’ho riletto. È un libretto in-16 uscito nove anni fa, piccolo e potente. Fatto di poesia, prosa, citazioni di Eliot, di Coleridge, di Jacopone da Todi che si integrano nella narrazione. Versi presi in prestito rispettivamente a La morte per acqua (La terra desolata), La ballata del vecchio marinaio, la laude Il pianto della Madonna. Ventun capitoletti che evocano un dramma e denunciano un naufragio fantasma, negato da tutti. Dramma e denuncia reali che convergono nelle parole, per quanto di fantasia, di una madre realmente esistita e tuttora esistente – in qualche parte dello Sri Lanka:

L’altra notte ho sognato mio figlio

che dormiva sul fondo del mare.

Mi porgeva un passaporto

con il sorriso che conosco da sempre.

Un passaporto impigliato in una rete

di pescatori.

E nel sogno

gli ho accarezzato i capelli

bagnati

e gli ho baciato la fronte

e l’ho benedetto”.

Che parla è Parameswary, madre di Anpalagan Ganeshu, nato il 2 aprile 1979 a Chaukachceri, Sri Lanka del Nord, penisola di Jaffna. Anpalagan è morto nel naufragio della notte di Natale del 1996 al largo di Portopalo, Canale di Sicilia. Insieme a lui, oltre il fratello Arulalagan di un anno più vecchio, morirono annegate altre duecentottantuno persone provenienti dal Punjab indiano, dal Pakistan e appunto dallo Sri Lanka. L’assurdo è che quel disastro, poi riconosciuto come il più grande naufragio del Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale (ma che ora sappiamo essere solo il primo di una triste serie di grandi naufragi), fu negato per almeno due anni. O comunque messo in dubbio sino al 2001, quando grazie alla caparbietà di un giornalista del quotidiano La Repubblica e all’utilizzo di un robot subacqueo avvenne il ritrovamento dell’imbarcazione e delle vittime.

Un canto clandestino saliva dall’abisso, dicevo, ha anticipato tutto. Gli sbarchi degli anni successivi, le collisioni, gli affondamenti, i gommoni alla deriva, l’incremento dei numeri e dei morti sino alla tragedia che nell’aprile scorso ha stravolto, questa volta senza che si potesse nascondere nulla, i dati statistici: oltre ottocento morti annegati in un solo naufragio.

Quella di Sammartino è una ricostruzione lirica, una cronaca di quegli eventi filtrata dai sentimenti. Sono i sentimenti di chi ha vissuto il dramma in prima persona, di chi è sopravvissuto e di chi è morto, di chi ha assistito impotente ai primi macabri ritrovamenti: un corpo, un teschio, il passaporto di Anpalagan impigliato nella rete e ritrovato dal pescatore Salvatore Lupo (anche questo nome autentico di persona reale). Sino allo sgomento della gente di mare che vive a Portopalo e che scruta l’acqua con un presentimento che le soffoca il cuore:

A Portopalo la sera s’alzava un vento d’oriente. C’era chi lo chiamava per nome. C’era chi ne riconosceva il fiato. C’era chi continuava a sentire, dentro al suo grido, la voce degli annegati che risaliva dal fondo”.

Poi ci sono gli sciacalli umani, scafisti e armatori, esseri che lucrano su questi viaggi della follia e della speranza, che cambiano persino il nome delle barche. La Yiohan, responsabile del naufragio, l’ha fatto quattro volte. L’ultima, appunto, a seguito del disastro del Natale 1996, dopo che in fase di trasbordo dei passeggeri ha speronato la F-174, un peschereccio maltese dal legno mezzo marcio colato a picco come un sasso con il suo carico di vite umane.

È un libro, quello di Sammartino, che oltre ad essere ben scritto andrebbe letto nelle scuole. Così come si legge il Diario di Anna Frank. Un libro scritto dalla parte del dolore, un dolore composto. Non c’è pietismo, non ci sono accuse dirette. Solo la denuncia di una migrazione di massa che rischia di generare drammi senza fine. E dove un dramma in particolare, quello al largo di Portopalo, si fa narrazione e poesia. O, come precisa l’autore, “trasfigurazione lirica di fatti realmente accaduti”. I morti annegati diventano allora spiriti del mare dalla presenza proteiforme: ora misteriose sirene nel racconto di un pescatore ubriaco, ora “lamenti rimasti impigliati nelle reti”, ora coro di anime rassegnate che vagano nel silenzio dei fondali:

Dormiamo nell’abisso

dove l’acqua che ci accoglie

ci accarezza i capelli

e culla il nostro riposo.

Ma il suo sale non è dolce

come il pianto delle madri

sui sepolcri dei figli”.

L’ho riletto tutto, questo libretto. Cento paginette si leggono in fretta. Specie quando l’argomento è così scottante. Non so perché ma mi si è affacciata l’immagine di altri eventi per noi lontanissimi nello spazio e nel tempo: la tratta delle navi negriere del XVI, XVII e XIX secolo. Schiavi o migranti, sempre gente in qualche modo forzata ad imbarcarsi per terre sconosciute. E a morire rinchiusa nelle stive, incatenata alle travi degli scafi o soltanto alla speranza vana di un mondo migliore in cui poter vivere.

Il libro si chiude con alcuni versi di Rocco Scotellaro, il poeta-contadino:

Non muore niente

siamo solo noi provvisori

perché a tutti rimane

anche una mollica di pane.

***

Per approfondimenti su Nazione Indiana:

I fantasmi di Portopalo, un’intervista a Giovanni Maria Bellu 

Sulle tracce dei fantasmi di Portopalo 

L’amore di un Padre

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foto di Chris https://www.flickr.com/photos/86305247@N00
Foto di Chris, https://www.flickr.com/photos/86305247@N00/

di Orso Tosco

Padre M odiava volare.

Prendere l’aereo gli era sempre sembrata un’occupazione da gente che imbocca barboncini, un gesto frivolo, indegno della tonaca preziosa con cui era solito abbigliarsi. Il passaporto diplomatico rilasciato dallo Stato Vaticano ispirava immediata soggezione nei vari addetti aeroportuali, è vero. Li spingeva a compromettere i loro abituali automatismi burocratici, è innegabile. Incrinava la loro freddezza doganale, è la verità. Per Padre M si trattava di soddisfazioni ridicole. Il fatto che i porci temano il loro fattore non lo rende migliore delle sue bestie: tutti loro vivono nello stesso miscuglio di sangue e grasso e avena e merda.