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‘O Strega: una cinquina che è un terno al lotto

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cepodue

di

effeffe

(nelle foto i maestri Biagio Cepollaro e Giorgio Mascitelli rilanciano la bottiglia e l’idea del premio VoV)

Questa sera, a una certa ora, la sporca dozzina dei selezionati allo Strega ripulita sarà di sette per lasciare dentro i cinque.

Le dodici opere candidate sono:

Il paese dei coppoloni (Feltrinelli) di Vinicio Capossela

La sposa (Bompiani) di Mauro Covacich

Storia della bambina perduta (e/o) di Elena Ferrante

Final cut (Fandango) di Vins Gallico

Chi manda le onde (Mondadori) di Fabio Genovesi

La ferocia (Einaudi) di Nicola Lagioia

Il genio dell’abbandono (Neri Pozza) di Wanda Marasco

Se mi cerchi non ci sono (Manni) di Marina Mizzau

Come donna innamorata (Guanda) di Marco Santagata

Via Ripetta 155 (Giunti) di Clara Sereni

XXI Secolo (Neo) di Paolo Zardi

Dimentica il mio nome (Bao Publishing) di Zerocalcare

mascio

 

La mia personale Top Five insindacabile e ineleggibile è la seguente:

Uno- Final Cut di Vins Gallico.

Motivazione

Perché autore di rete e di area di rigore, nonché padre di Nico con i capelli rossi.

Due- Il genio dell’abbandono  di Wanda Marasco

Motivazione

Perché quando la scrittura di ricerca trova, è sempre meglio non farsela scappare.

Tre- La ferocia  di Nicola Lagioia

Motivazione

Perché senza più la classe, c’è rimasta solo la lotta

QuattroStoria della bambina perduta di  e/0 Elena Ferrante

Motivazione

Perché e/o è lui o/è lei

CinqueXXI Secolo di Paolo Zardi

Motivazione

Perché è lui, il mio candidato vincitore, Paolo Zardi , Ballard italiano.

furlèn

 

Che Nervi! (un’intervista)

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nerviedizioni-logodi Francesca Fiorletta

Nasce Nervi, un progetto editoriale a cura di Fabio Donalisio, Francesco Targhetta e Marco Scarpa. Sono libri di poesia cuciti a mano, curati al dettaglio, stampati in cento copie per ciascun titolo e distribuiti più o meno come si faceva una volta: su richiesta. M’è venuta curiosità, e ho fatto qualche domanda agli editori. Ecco cosa ne è saltato fuori.

Scrittori e storia, una conversazione

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Partigiani

di Daniele Giglioli e Davide Orecchio

Questo dialogo via mail tra Daniele Giglioli e Davide Orecchio si è svolto fra il 20 dicembre 2014 e il 14 gennaio 2015*

D.O. – Caro Daniele, in una giornata d’inverno romano che invece sembra portegno – con l’umidità, la pioggia, quindici gradi di temperatura media, il cielo basso da fine (geografica) del mondo (finis terrae; fatta salva, io spero, l’umanità) – la mia compagna mi passa una pagina del Domenicale e commenta: “Forse t’interessa”, senza aggiungere altro. Da questo episodio nasce, qui e ora, il mio tentativo di conversare con te. La pagina ospita un articolo di Sergio Luzzatto. È un’invettiva. Lo storico accusa. Tutti. Scrittori, registi di film, documentari e serie tv, persino i musei: costoro – argomenta Luzzatto – hanno ridotto la storia a una “maionese impazzita” dove gli elementi didattici e cognitivi della disciplina, e i suoi valori che Cicerone riassunse nella formula della magistra vitae, sono ora “mischiati e rimischiati senza criterio, come in un cocktail dell’assurdo”. La scienza cede il passo alla testimonianza, la storia alla memoria, il sapere alla rappresentazione, alla sceneggiatura, allo storytelling. Scrive Luzzatto: “Non c’è oggi testimonianza che non venga contrabbandata come verità; non c’è messaggio che non venga spacciato per magistero; non c’è memoria che non venga confusa con la storia”.

Anche tra gli scrittori, salvo alcune eccezioni (il collettivo Wu Ming, Javier Cercas, Emmanuel Carrère), Luzzatto non salva nessuno, e condanna ogni “narratore travestito nei panni di un buono o di un cattivo del passato”. Né risparmia i critici letterari, che non provano “davvero a distinguere, se non l’olio dall’uovo, il grano dal loglio”. Va detto che Luzzatto sceglie la solitudine, visto che anche nella sua disciplina non vede che “libri illeggibili” per chiunque non sia uno storico di professione, monografie destinate a poche decine di lettori, un “fossato” che si allarga tra lo scrivere e il farsi leggere, il sapere e la sua trasmissione. Ciascuno, a suo modo, sbaglia: per dilettantismo, per troppo spettacolo, per eccesso di specialismo. Le parti lese sono due: la storia stessa e i giovani (i “figli”) che la vorrebbero, e dovrebbero, apprendere.

Tu questo pezzo l’hai letto? Sono quasi certo di sì. Per questo m’è venuto in mente di coinvolgerti. Anzi, credo che tu sia già coinvolto. Affiorano, mi pare, i temi di Senza trauma e Critica della vittima. I sintomi che hai segnalato stanno anche nella diagnosi di Luzzatto, o no? Sul Corriere della Sera, un paio d’anni fa (vado a memoria), pubblicasti un articolo che, seppure a un grado minore di polemica rispetto a Luzzatto, esponeva perplessità simili rispetto all’ossessione per la storia di certi narratori, alla patologia delle fonti, degli archivi, della documentazione esorbitante. Luzzatto, dalla prospettiva dello storico, mi pare voglia mettere in guardia dalla narratività; per lui la maionese impazzisce a causa di uno “storytelling spendibile alla fiera della creatività letteraria”. Tu, dalla prospettiva della “critica letteraria e sintomatica”, segnalavi la patologia del documento, l’acribia comunque e sempre imperfetta, perché lo scrittore non sarà mai uno storico e, insomma, dove vuole arrivare, perché lo fa? Vorrei farti una domanda diretta: pensi che sia il momento di smetterla? Solo l’astinenza può guarire dalla malattia storica? Ma, anche se volessimo, potremmo davvero disintossicarci dall’ossessione per la storia?

D.G. – Caro Davide, nel frattempo è arrivato l’inverno, come se la nostra conversazione seguisse i ritmi dei carteggi di una volta: il freddo atlantico e ora il Burian siberiano. Faremo fronte, come abbiamo fatto fronte un po’ inquieti un po’ contenti al calduccio anomalo di un lungo autunno riottoso ai suoi doveri di stagione. Riscaldamento globale a parte, non ha senso prendersela col clima. Come mi sembra faccia invece Luzzatto nell’articolo che citi: piove, governo ladro, tanto per rovistare nello stesso registro delle frasi fatte della maionese impazzita (come mai ti è piaciuta tanto?). Per quanto ne so, la maggior parte degli storici sono più preoccupati da internet, dal cinema Blockbuster e dalle playstation, e non vedono nella letteratura un pericolo mortale: chi legge un libro ha in sé già tutti gli anticorpi della ricezione critica – e ricezione critica, a pensarci bene, poi, di cosa? Del passato “per come veramente è stato”? Del suo uso inevitabilmente ideologico, della sua appropriazione da parte del presente a fini non conoscitivi ma vitali? Nella rampogna di Luzzatto si coglie del resto l’eco di una contrapposizione antichissima: Michel De Certeau ha scritto una volta che la storiografia “scientifica” nasce sempre, fin dai greci, come gesto polemico contro il mito, la leggenda fondativa, la diceria incontrollata, proponendosi come spazio di sapere non contaminato da interessi che non siano l’accertamento della verità. In questo stanno la sua forza (ciò che la spinge ad affinare continuamente le sue tecniche, i suoi metodi, i suoi riscontri e i suoi dispositivi di controllo), e insieme la cecità che le impedisce di vedersi appunto come un discorso rivale, un discorso tra i discorsi, che trae forma e senso proprio perché si colloca in un orizzonte dove i discorsi sul passato sono tanti. Tra Berta filava e la storiografia scientifica odierna ci sono innumerevoli stadi intermedi; ma la storiografia tutta non esisterebbe senza Berta, grazie a Berta e contro Berta. Nell’articolo di Luzzatto si rinnova in fondo quel gesto originario, addizionato però a una certa malmostosità che forse deriva, più che dalla preoccupazione per la rovina della patria, dall’inquietudine di certi suoi tentativi recenti (per esempio il libro su Primo Levi), che in effetti non sono né storiografia né letteratura.

D.O. – Daniele, mi chiedi perché mi sia piaciuta la metafora della maionese impazzita. Non è che mi sia piaciuta, è che ho paura di far impazzire la maionese! Immagino succeda a chiunque affronti imprese domestiche, a lungo solitarie. Per coincidenza, poi, proprio mentre usciva l’articolo di Luzzatto un’amica ha paragonato un mio libro alla maionese fatta in casa che “all’inizio allappa – sostiene lei – e ti chiedi come possa uscirci qualcosa di buono. Ma continui a girare e il limone profuma ed è aspro, però ci sta proprio bene e non puoi smettere di mangiarla”. Lieto fine a parte (perlomeno nel giudizio dell’amica), il timore resta e ho l’impressione che troppe maionesi mi circondino.

Tu, per nulla convinto dall’articolo di Luzzatto, accenni, tra gli altri temi, a un presente che cerca di appropriarsi del passato “a fini non conoscitivi ma vitali”: temo di essere costretto a parlare ancora un po’ di me. Sebbene Luzzatto non abbia probabilmente idea di chi sono e polemizzasse con (o elogiasse) altri scrittori, mi sento coinvolto. Sto nel mezzo. Quando studiavo storia e frequentavo gli archivi, le pratiche di narrativizzazione alla Hayden White erano l’avversario (dei miei maestri e, di conseguenza, il mio). Adesso che mi sono messo a scrivere libri che adoperano la storia per raccontare storie, mi chiedo: sono forse diventato il nemico? Eppure ho cercato di essere onesto, ho provato a rendere evidente al lettore il gioco col mestiere di storico, la manipolazione letteraria delle fonti, l’invenzione stessa delle fonti. Per evitare d’essere fuorviante, sono arrivato ad adottare gerarchie di virgolette che consentissero di orientarsi tra le citazioni fittizie e quelle vere. Insomma ho esposto la strumentazione dello storico in un organismo però letterario, senza pretese cognitive o “scientifiche”. Ma forse tutto questo, caro Daniele, non basta a mantenere il controllo della maionese.

Perché lo faccio? Me l’ha chiesto, qualche mese fa, la rivista Lo Straniero, che ha aperto le sue pagine al contributo di oltre sessanta scrittori chiamandoli a spiegare le ragioni del loro interesse per la storia recente, per i “nostri ieri”. I testi saranno raccolti in un libro curato da Goffredo Fofi, in uscita in questi mesi per Contrasto, che dovrebbe intitolarsi Il racconto onesto. Come vedi, torna il tema dell’onestà: nella peggiore delle ipotesi siamo animati da buone intenzioni. Quanto a me, per spiegarti riprendo il ragionamento che facevo su Lo Straniero: forse ho una carenza di orientamento, forse ho perso la coscienza di una direzione nel presente e verso il futuro. Quanto più il mio oggi è (o mi appare) privo di storicità, tanto più cerco rifugio nei trascorsi alla ricerca ostinata di un senso. Mi sembra che dalla paralisi odierna (molto occidentale, molto italiana) fiotti una pesca nei depositi della storia accaduta. In genere una società dinamica e storicamente protagonista s’impossessa del passato per volgerlo, anche distorcerlo, ai fini non sempre commendevoli del presente. Ma se l’epoca s’impaluda nella stasi, o peggio ancora nel regresso, può accadere al contrario che il passato assuma il dominio e i viventi gli si affidino così da prendere una loro rincorsa, e che si guardino indietro per non stare fermi, per darsi slancio, superare l’ostacolo e riprendere il cammino. Più di un indizio mi dice che “lo faccio” per questo motivo. Il “come” lo faccio credo dipenda da un’ulteriore difficoltà autobiografica che il Novecento mi crea. Nei miei studi universitari scelsi di occuparmi di secoli leggermente distanti: il Settecento, l’Ottocento. Il passato prossimo, la contemporaneità, invece m’intimoriva. Solo dopo, abbandonati da tempo aule e archivi, ho trovato il coraggio di (provare a) narrare epoche più recenti e decisive per me. È curioso, insomma, che giusto in un’operazione letteraria e di tradimento del metodo io sia riuscito a occuparmi della storia contemporanea. Ma perché ho dovuto inventarmela, questa storia, e in parte tradirla? Forse – molto banalmente, penserai, più a fini vitali che conoscitivi – perché l’ho avuta in casa, incarnata in una figura paterna dalla quale ero distante, anagraficamente, più di mezzo secolo. Un uomo che aveva attraversato il fascismo da giovane, che poi era stato partigiano, infine giornalista comunista nell’Italia democratica e repubblicana; ma che a me non raccontava nulla. Quasi una sfinge. La fonte primaria era muta. Persona del secolo breve, e colui che mi aveva generato: rifiutava di spiegarmi quel secolo; a volte lo sussurrava con un tono di fondo da Poltergeist, altre volte lo formulava in aforismi e teoremi orfani della dimostrazione. Questo è il mio ieri: un discreto silenzio. Dunque ho dovuto inventare.

Storia
Gerarchi fascisti passano in rassegna le truppe. Archivio Storico Cgil Nazionale

 

Vorrei aggiungere che da giorni, caro Daniele, ho messo in un cassetto col clima portegno anche l’articolo di Luzzatto, dal quale ero partito per dialogare con te, e ho ripreso in mano tutti i contributi pubblicati su Lo Straniero. Non so se tu abbia trovato il tempo di leggerli. Penso che la raccolta ti potrebbe incuriosire. Questi scrittori (escludo me dal giudizio) mi sembrano tutti molto seri, responsabili, ‘onesti’ appunto nell’enunciare le ragioni del loro volgersi alla storia. I contributi possono offrire spunti nuovi, e anche conferme, alla tua critica letteraria e sintomatica. Credo che la maggior parte degli autori condivida con te la presa d’atto che “mai, nel corso della sua storia, l’umanità si è trovata a vivere un tempo così radicalmente controrivoluzionario” (cito da Critica della vittima). E molti di loro cercano nei “nostri ieri” quella spinta cui accennavo sopra, quanto serve per ‘andare avanti’ e superare l’ostacolo.

Penso ad esempio a Helena Janeczek, che spiega di avere avvertito, “negli anni successivi a Lezioni di tenebra”, “il bisogno sempre più chiaro di passare dalla Memoria alla Storia”. “Ricordare com’erano gli uomini e le donne di oltre mezzo secolo o qualche decennio addietro, forse significa anche proiettare delle diverse possibilità di esistere sul nostro futuro”. Alessandro Leogrande invece scorge “un paesaggio di orfani”; e per lui “rivolgersi al passato” serve a trovare “ciò che in una data epoca inferno non era, nel mezzo di un inferno più vasto, ed è stato poi soppresso”. Vittorio Giacopini ragiona sul romanziere “come storico degli ‘atti mancati’”, perché – spiega – “chi voglia parlare dell’Italia (…) dovrà fare i conti col carattere guasto del tempo storico sfalsato di un paese ‘incompiuto’ e ‘irrisolto’ proprio in essenza”. La crisi di orientamento pragmatico nel presente storico, che è poi una crisi di identità politica, la vedo nitida anche nelle pagine di Francesco Pecoraro. Al suo riguardo in Senza trauma scrivevi di una “vulnerabilità preventiva” rispetto alla sconfitta. Ti cito solo questo passaggio dal suo testo uscito su Lo Straniero: “È esattamente nel momento in cui, non ostanti gli sforzi compiuti per restare al passo, percepisci una diversità tra quello che sei e ciò che prevalentemente ti circonda, che capisci che per tutto il corso della tua esistenza sei vissuto nella Storia, inzuppato di Storia, trascinato dalla Storia. E capisci anche che proprio in quel momento lì, tremendo, di percezione dell’estraneità totale del contemporaneo, la Storia ti ha abbandonato ed è andata in una direzione talmente diversa da quella che ti aspettavi”.

Credo anche che alcuni testi pubblicati da Lo Straniero confermino quel “forte impulso risarcitorio” rispetto alla storia che tu stesso riconoscevi in Senza trauma. Forse – ma qui vorrei sapere cosa ne pensi – non solo per “giustificare i fallimenti e l’impotenza del presente”, il “non è colpa nostra” che individuavi, ma anche per capire. Una “controstoria dell’Italia contemporanea” – sempre tua la formula – che però in questi autori (penso a Igiaba Scego e Wu Ming 1) si spoglia dell’abito paranoico (il complotto a tutti i costi) e sceglie di vestire un esercizio cognitivo, certamente un progetto meno emotivo rispetto al sentimento della sconfitta e della perdita, e con una sua radicale lucidità. Emergono letture alternative e forse più veritiere, senz’altro più oneste delle vulgate, dei miti, dei discorsi pubblici. Affiorano a volte dall’ignoranza forzata. Scego ad esempio ammette di aver “imparato proprio poco” dalla scuola, di storia. “Quello che sapevo mi veniva dalla famiglia e dalla curiosità personale”. Dev’essere per questo che, con Roma negata (Ediesse 2014), la scrittrice italo-somala ha voluto rivelare la topografia coloniale (monumenti, piazze, persino cinema) che i romani hanno dimenticato.

Roma negata – spiega Scego – è un libro nato per colmare delle lacune. Riempire di senso una storia che non ci è stata tramandata”. I luoghi del colonialismo italiano a Roma sono “poco conosciuti, luoghi spesso nel degrado e nell’abbandono. Luoghi che però ci parlano di una relazione tra l’Italia e il Corno D’Africa. Era importante far capire che la presenza di somali, eritrei, etiopi in Italia non era casuale”. Non diversamente Wu Ming 1 spiega che il suo collettivo (tra i pochi a convincere Luzzatto, ti ricordo) pesca le storie “dai ‘luoghi oscuri’, dai coni d’ombra e dai rimossi della storia”. Per loro si tratta di “stare tra l’archivio e la strada”. “Su quel materiale ci sforziamo di esercitare uno sguardo il più possibile ‘obliquo’, sghembo, spiazzato”. Il progetto narrativo, anche per loro, parte spesso dal togliere la maschera al monumento bolso, tronfio, ridondante se non del tutto bugiardo. Il monumento è la storia come impresa soggettiva di pubblica menzogna, lettura fuorviante. Il libro, la letteratura secondo Wu Ming 1, si prende il compito di offrire un altro sguardo: “Se un monumento lo aggiriamo, può capitarci di scoprire una storia diversissima, una storia alternativa. Non la consueta, banalissima, ‘storia nascosta’, esoterica, occulta, quella che piace ai complottisti, ma la storia del conflitto che viene ogni volta rimosso, del molteplice ricondotto a forza all’Uno”.

Sono solo alcuni, pochi qui per ragioni di spazio, degli autori che riesco a citare; ma quasi tutti mi hanno convinto (per il fatto di assumere una postura che entra nel ritratto collettivo, che non discorda; ciascun punto si ficca nel tragitto di una parabola geometricamente raffigurabile). Certo enunciano, mentre sono le opere che dobbiamo valutare, non gli enunciati. Ma su questo lascio a te l’ultima parola.

D.G. – Forse siamo d’accordo su questo: che gli scrittori di romanzi si volgano alla storia è un fatto, un indizio, un sintomo da interpretare. Di che cosa sia sintomo è la cosa che interessa. Tu mi dirai che il sintomo rimanda immediatamente al tema della malattia, ed è vero. Ma non si tratta certo di una malattia squisitamente letteraria, come tu stesso hai scritto qui sopra. E’ vero che anche io mi ero interrogato sul fenomeno; ma per capirlo, non per deplorarlo. Come che sia, non sono certo i sintomi ma le cause che ci si deve sforzare di curare. Il sintomo è un segnalatore d’allarme, e in quanto tale parte essenziale di una possibile guarigione.

Guarigione da cosa? Ti sei già risposto, e con te tanti scrittori interpellati da Lo Straniero. Anche io ho trovato molto oneste nel complesso le risposte che hanno dato. Anche troppo, sinceramente. Buone intenzioni, buoni sentimenti, scrupoli morali, pensose preoccupazioni civiche. Ottime cose, quelle che sempre ci si augura di trovare in qualcuno quando bisogna farci assieme la dichiarazione amichevole di sinistro dopo un tamponamento. Ma confesso, dammi pure del romantico o dell’ingenuo, che da uno scrittore io mi aspetto che sia almeno ogni tanto anche un po’ predone, pirata, mistificatore: scrivo di storia perché mi piace, perché lo so fare, perché lo fanno anche altri e vedo che funziona, perché sono poi alla fin fine fatti miei. Un po’ più infantile, insomma, per non perdere del tutto quello stupore che ci faceva guardare da bambini i film in costume. Un eccesso di responsabilità raffredda i muscoli.

Ma sto divagando, e non è giusto ciò che dico: quelle preoccupazioni ci sono, anch’io le condivido e anch’io voglio mostrarmi altrettanto educato nel porgere la zampa alle interrogazioni, alle lodi e alle eventuali rampogne: perché lo fate? Bravi, è utile (o inutile, o dannoso). Accantono il senso di ribellione che non so perché mi sorge e provo a risponderti.

Di cosa è sintomo questo volgersi alla storia lo hai già detto tu benissimo. Senso di paralisi, atrofia del presente, panico da isolamento, sospetto lievemente paranoico di aver passato tutta la vita dietro ad uno schermo, reculer pour mieux sauter, recuperare i conflitti e i rimossi, dar voce agli esclusi, cercare alternative a un presente che si presenta appunto come monolitico, inscalfibile, infessurabile. Più profondi delle intenzioni politiche mi sembrano però due moti passionali, opposti ma affini: la paura e la speranza. Entrambi hanno a che fare con il tempo, generano una miscela sempre diversa di presente e di futuro: in che senso li si può declinare al passato?

Soldati russi in fuga. Da Internet Archive Book Images https://www.flickr.com/photos/internetarchivebookimages/
I guerra mondiale. Soldati russi in fuga. Da Internet Archive Book Images

Vediamo prima la paura. Paura del presente, più forte di quella del futuro. Paura che il presente non ci basti, ci imprigioni in una finzione di realtà che ci sottrae qualcosa che non mi riesce di chiamare altro che “la vera vita”. Quella vera vita che viene a torto o a ragione attribuita al passato. Quelli sì erano tempi, lì sì che c’era qualche cosa da narrare. Non importa che gli eventi di cui ci si occupa siano in genere tragici, luttuosi, sanguinari (pensa alle tante narrazioni che si esercitano sul Novecento delle stragi, delle guerre, delle deportazioni; lo sai meglio di me). Anche il dolore più feroce aveva senso, quel senso che oggi sembra evaporato. L’effetto nostalgia è secondo Fredric Jameson una componente fondamentale della postmodernità: si può aderire o no alle sue spiegazioni, ma il fenomeno è innegabile. Agli uomini e alle donne è stato dato un tempo di vivere di meglio, dovesse anche quel meglio essere stato una catena di lutti: il vero lutto è quello di oggi, è la paralisi di cui tu hai messo a fuoco i tratti. In questo senso, prendendo a prestito una espressione di San Paolo che Carl Schmitt ha messo al centro della sua teologia politica, ho l’impressione che il passato venga convocato in scena come katechon, ovvero come ciò che ritarda, che trattiene, che contiene lo scatenarsi di qualcosa. Di che cosa? Dell’anticristo, pare volesse dire Paolo (o i suoi interpreti, che variamente vedevano il katechon come figura della chiesa, o dell’impero). E come definiva Paolo l’anticristo? Lo definiva il figlio dell’“anomia”, dell’assenza di nomos, legge, norma, senso. È l’anomia contemporanea che ci fa paura, il mondo e le vite interamente in preda all’insensata irrazionalità mercantile e finanziaria, una forza sterminata, una deriva inarrestabile che nessuna morale (la chiesa, ovvero l’ideologia) e nessuna spada (l’impero, ovvero la politica) riesce più a trattenere. Nel Novecento dei conflitti (e nei secoli precedenti che gli fanno da allegoria) si lottava ancora. Oggi la lotta è persa, l’anticristo è arrivato. Ti pare che esageri? Va bene, si tratta di metafore. Ma il senso di spavento senza fine (e senza nemmeno quella promessa della fine che era la paura dell’apocalissi nucleare, cui nessuno pensa più), quello è vero e reale. Che ci si volga al passato, che si trattenga il passato, ci si trattenga (e ci si intrattenga) al passato, è da questo punto di vista perfettamente comprensibile. Come se si sospettasse che dar forma coi materiali del presente a quella che a metà Ottocento Marx e Baudelaire avevano chiamato la poesia della vita moderna sia un’operazione già battuta in breccia, un autoinganno colpevole (salvo poi adorare le serie televisive americane, che a quanto pare ci riescono).

Qui si vede del resto come la paura sia strettamente legata al secondo moto passionale di cui ti dicevo, la speranza. Molti degli autori interpellati da Lo Straniero hanno citato Benjamin e la sua idea che la ricostruzione di un frammento di passato andato sommerso (la storia degli sconfitti senza storia, affidata unicamente a una memoria soggettiva sempre rimossa dalla narrazione ufficiale) sia in realtà qualcosa che redime insieme il passato da conoscere e il presente che conosce: lo Jetztzeit, il “tempo ora”, il “tempo-che-è-ora”, il famoso balzo di tigre nel passato, il ricordo che balena nel momento del pericolo. Forse non tutti i conti sono chiusi. Forse il nemico non ha ancora vinto. Forse in quello che è andato storto si annida una potenzialità ancora vitale, un bivio a cui è possibile tornare. Ma pur sempre di tornare, come si vedi, si tratta. Non è mica un caso se Spinoza diceva che paura e speranza sono tutte e due passioni tristi. Un tempo contro il tempo, dunque, risentito, che non accetta che il passato sia andato come è andato perché non riesce a modificare il presente che gli ha fatto seguito.

Non so quanto tu condivida ciò che dico, e quanto lo sottoscriverebbero i tuoi colleghi. Forse è solo una proiezione soggettiva. In ogni caso, ora che l’ho detta mi si chiarisce meglio il fastidio per il modo virtuoso e fin troppo perbene con cui mi sembra che molti scrittori affrontino la questione. Ci sono in gioco cose enormi. Di queste cose enormi avvertiamo tutti la presenza nella nostra vita quotidiana. Perché non essere allora un po’ più radicali? Se la letteratura ha un vantaggio (anche produttivo!; nel senso che la si fa a costi contenuti) è quello di poter guardare in faccia l’abisso. Non varrebbe la pena provarci?

D.O. – Guardare l’abisso. Hai ragione, varrebbe la pena di provarci ad averne la capacità e la forza. Ma di cosa abbiamo davvero paura? Ti avverto: dove scrivo c’è il pieno dominio dello choc. Poche ore fa, nella redazione di un giornale parigino, dodici persone sono state assassinate. Anche questo è il presente: la strage dei satiristi di Charlie Hebdo; è senz’altro vero, come segnali anche tu, che non mi basta e che m’imprigiona (preferisco parlare solo a mio nome), ma non sembra incapace di ferocia e lutto, di morte, di fattualità; quello che gli manca è la facoltà di lasciarsi comprendere. Ossia manca a me. Ossia: nonostante me, un’altra storia sta accadendo ma, a differenza di quanto poterono i miei nonni e i miei padri con la loro storia, io non solo non la agisco, non solo la subisco, ma la subisco senza mappe ideologiche né navigatori satellitari. Sono dunque ammalato di una Orientierungskrise che sembra aggravarsi: è questa la mia autodiagnosi, che già ti citavo sopra con una formula di Koselleck. Allora l’abisso (che potrebbe anche essere l’ostacolo), nell’indigenza del codice per decrittarlo, induce a rinculare nel territorio conosciuto, nel Novecento degli schemi e dei conflitti trasparenti e ormai tradotti; attitudine e medicina di cui non mi sfugge la natura palliativa, visto che il presente (e più che mai il futuro) lo si conosce solo nella misura in cui lo si fa.

C’è un altro aspetto che rilevi, quando scrivi: “Tutta la vita dietro a uno schermo”. È un sintomo grave, secondo me, della mia (della nostra) emarginazione dall’accadere. Lo schermo non è solo il monitor nel quale guardiamo, è lo scudo che ci tiene al riparo dalla realtà. In un incontro pubblico recente, Giorgio Vasta (scrittore cui non manca il coraggio di guardare l’abisso) ragionava sul fatto che sempre più va radicandosi in alcuni di noi una condizione psichica ed esistenziale di claustrofilia, di benessere nel chiuso, nell’angusto, nel non andare fuori. Non è casuale che il tema intercetti un passo di Luca Ricci, l’ultimo che ti cito dall’inchiesta de Lo Straniero: “Sembrerebbe che la Storia – se non proprio la realtà – sia estromessa dalla mia letteratura, e forse è vero, eppure mi pare che indirettamente questo modo di procedere dica moltissime cose della mia generazione, di chi è nato nei settanta, è cresciuto negli ottanta e si è poi formato o deformato nei novanta del secolo scorso: siamo gente che è rimasta al chiuso, console (Intellivision o Atari), computer (Spectrum o Commodore 64, e poi Amiga 500), telefonino, note-book, tablet, smartphone”. Siamo gente che è rimasta al chiuso. Surroghiamo l’esperienza googlando un divenire storico dal quale distiamo sempre più, avendo noi scelto di abitare un luogo e un tempo di conoscenze mediate, ossia multi e massmediali, iperreali, spettacolari che ci fanno sia inermi, sia illesi. Siamo entrati in un campo di concentramento, e nel Ghetto di Varsavia, grazie a un film di Spielberg o Polanski. Videogame e playstation ci portano nei territori della guerra. Ogni accadere, che sia odierno o passato, è per noi disponibile previo il filtro dello schermo. Persino nei musei che visitiamo la storia è tutta una resurrezione digitale e materiale di fossili: immagini, suoni, oggetti, memorabilia. Fingendo di riviverla, anche fisicamente, apprendiamo la storia. Ma è davvero questo il metodo giusto? Davvero dobbiamo far finta? E quanto influisce tutto questo sulla nostra letteratura, sulla sua timidezza oppure sul suo coraggio?

D.G. – Caro Davide, in effetti gli appelli al radicalismo ti si gelano in gola non appena vedi con la bruciante concretezza di questi giorni cosa succede quando si arriva ad una stretta; e siamo solo all’inizio, purtroppo. Ho passato come immagino anche tu un sacco di ore incollato a internet a leggere articoli e commenti, patisco la tua stessa difficoltà di orientamento, e la cosa che più mi accora è il fatto che, se si dovesse tracciare un diagramma dei discorsi in campo, tutto sarebbe riconducibile a un’opposizione tra opinioni ottuse e opinioni decaffeinate. Queste ultime faranno senz’altro meno male al cuore, ma non lo curano di certo.

Mi chiedi se, alla resa dei conti, questo rapporto con la storia sempre un po’ difensivo, regressivo, rinunciatario (visto che non facciamo la storia di oggi, raccontiamoci almeno la storia di ieri, che aveva una forma e un senso, a differenza della nostra), non sia insidiato dal rischio della simulazione più o meno consapevole: far finta. Io penso di no. Io penso che l’impulso che lo muove sia fondamentalmente sincero, e veritiero. Un’ammissione di debolezza presuppone sempre un rapporto con la realtà (a far finta è chi si pretende forte quando non lo è). Ma forse, a sgomberare del tutto il campo dal sospetto, varrebbe la pena di recuperare almeno un assunto del tanto vituperato storicismo.

Noi siamo cresciuti tutti sotto la costellazione di Benjamin, e lo storicismo era la sua bestia nera: il tempo omogeneo e vuoto, la storia aggregata al carro dei vincitori, eccetera. Aveva ragione. Ma c’era una cosa implicita nella concezione storicistica che io credo sia male vada perduta, e cioè l’idea di una relativa inconfrontabilità dei tempi storici. Gli uomini e le donne del passato non erano come noi; possiamo paragonarci ma non identificarci, comprenderli (alla fin fine, diceva Vico, si tratta sempre di modificazioni della stessa mente) ma non conoscerli interamente, pena il fraintendimento, la mistificazione, l’uso allegorico più piatto e sempre in qualche modo violento: la storia in maschera. Dal sospetto di spianare l’eterogeneo non esce mondo nemmeno il metodo allegorico benjaminiano, anche nel caso in cui lo si eserciti dalla parte degli oppressi. Gli altri non sono noi. Le singolarità non sono sovrapponibili. E’ impossibile accostarsi al passato senza far intervenire un principio di analogia (altrimenti ci resterebbe interamente alieno). Ma altrettanto forte deve essere il gioco della differenza. Continuità e discontinuità devono essere tenute in una dialettica costante, altrimenti sì che dal “balzo di tigre nel passato” si arriva inevitabilmente alle playstation.

Gli altri non sono noi, d’altra parte, è un assunto purtroppo o per fortuna valido non solo nel tempo ma anche nello spazio, nella nostra stessa contemporaneità. Ci sono in giro, qui e ora, a casa nostra e altrove, molti altri che non vogliono essere come noi. Prova ad applicare il criterio delle analogie e delle differenze agli attentatori di Parigi. Da una parte vedrai dei classici emarginati di periferia; dall’altra delle persone che in nome di una idea sono disposti a fare una cosa feroce e stupida come uccidere e farsi uccidere. Tu lo faresti? No. Puoi comprenderli (il che non vuol dire giustificarli; ma smettiamola anche con questa perenne aura di tribunale)? Probabilmente sì, almeno in parte. Puoi pensare di fare qualcosa insieme a loro? Chi lo sa. Questo è il problema, no? Ma questo vorrebbe dire oggi fare la storia. Se la guardiamo così, la storia finisce davvero per apparirci il grande ballo delle differenze – differenze con cui, tra l’altro, è molto più facile scontrarsi che incontrarsi.

Se questo è vero, bisogna dire che la letteratura, in quanto discorso esente da un’immediata verifica fattuale, ha una bella carta da giocare. Può sperimentare l’alterità sapendo bene che una componente di finzione è inevitabile nel rappresentarsi l’altro, il che implica sempre in parte anche il rappresentarsi come altro. Finzione consapevole non equivale però a discorso menzognero. Il pericolo comincia quando il principio di analogia domina incontrastato e si rappresenta tutta la realtà, presente e passata, alla luce delle categorie etiche e affettive di chi la conosce oggi. Abbandonata a se stessa, l’analogia si riduce a tautologia: vediamo solo noi stessi, immaginiamo solo quello che sappiamo già, riformattiamo l’alterità che ci provoca, ci sfida e ci seduce insieme, negli schematismi del Blockbuster hollywoodiano (chi più gore, chi più eroico, chi più piagnone). Siamo monolinguistici. Ma a me viene in mente che secondo Proust i bei libri sono scritti sempre in una sorta di lingua straniera. E’ una cosa di cui abbiamo davvero un estremo bisogno, oggi più che mai, e dunque un bel compito che ti sta davanti, visto il mestiere che ti sei scelto. Tanti auguri allora, e un abbraccio.

* Pubblicato su Nuovi Argomenti (69, 2015), col titolo Gli altri non sono noi.

(nella foto in copertina: partigiani, Archivio Storico Cgil Nazionale)

Giovanna Marmo da “Oltre i titoli di coda”

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gio2

 

Il palco destinato

Sono qui e sono armata.

Gli elicotteri sbucano dall’oscurità, lampi di luce

squarciano la scena, ma voi non potete vedermi

bene, l’ombra mi copre il viso.

Sono ricoperta di peli bagnati

e alghe umide, odoro di animale imbalsamato.

 

Le crepe si allargano mentre il vapore filtra.

I cani urlano. limite della terra cede,

la superficie brilla. Le corsie sono lunghe,

fosforescenti e i numeri crescono

nel mio cervello. Non trovano più spazio.

 

Non conosco i vostri nomi e non voglio vedere

i vostri volti. Siete molecole pesanti

nell’universo vuoto. Inutile affaticarsi,

qui non c’è posto dove sedersi.

I resti dei corpi saranno ritrovati in un campo fumoso.

Le bolle umide non si staccano dal recinto.

 

Mi è stato destinato il perimetro che delimita il palco.

Non so chi mi stia guardando,

mi prende una specie di vertigine.

La platea è buia. Sono accesi i fanali dell’orchestra.

Ha smesso di piovere, le sentinelle sono immobili.

Lo spettacolo sta per incominciare.

 

È impossibile staccare lo sguardo.

 

Rumore di unghie

Il pubblico prende posto. Da questo momento

può iniziare a guardare, ma senza muoversi:

l’infezione potrebbe diffondersi.

 

Rumore di unghie. Il sipario

scavato nella pelle si apre.

Ciò che si sta svolgendo è un ostacolo,

ha una voce distorta,

sta perdendo  il significato delle parole.

Ripete un suono remoto.

Suono di interferenze.

 

Inchiodato nella parte più buia, un polmone

respira, si gonfia, ingoia l’aria. Un laccio

emostatico unisce le linee di fuga del linguaggio.

 

In alto, sopra le poltrone della platea, le grate

di ferro si abbassano. Sotto, il terreno è soffice,

si lascia dissodare con agilità.

 

Tutto si è consumato senza gocce di sangue.

Ma il sipario non si chiude.

 

Punto di origine

In primo piano mi appaiono fiale

tappate con il cotone. Al di là del sipario

intravedo una presenza.

 

Non so perché l’ho fatto. Un gesto

che non termina, ma neanche descrive

il divenire. Un gesto in sé contenitore

di tutte le possibilità, che raccoglie

la mia carne. Un assassinio.

 

Sul muro uno schedario e ancora fiale tappate

con il cotone. Intorno a lei, sul palco, tutti erano calmi.

Dopo avere osservato gli attori,

girò la sedia a rotelle e tornò nel suo camerino.

Lo sguardo vuoto si perse

tra i riflessi dorati del tavolo.

 

Al di là del sipario c’è sempre una presenza.

Sembra urlare,ma non si sente niente.

Forse è solo suggestione,

qualcosa continua senza il pubblico.

 

Primi versi

Abitiamo da sempre il nero della scena.

Le zone dell’agire non si comprendono.

A che punto siamo dello spettacolo?

Cellule che si distruggono e si aggregano.

Le sedie accolgono con fatica i nostri corpi

invadenti, ma ognuno di noi è un posto vuoto.

 

La carne del linguaggio è l’abito più usuale,

denso e trasparente.

Sullo schermo si proiettano solo memorie,

la prima e l’ultima immagine coincidono.

 

Una lamina impiccata sul vuoto gira su di sé.

La luce nella camera di ferro si abbassa,

la porta è troppo piccola per essere umana.

 

Note

I testi fanno parte di “Oltre i titoli di coda”, in uscita presso l’editore Aragno.

Giovanna Marmo ha pubblicato: Poesie (Studiozeta, 1998), Fata morta (Edizioni d’if, 2006), Occhio da cui tutto ride (No Reply, 2009), La testa capovolta (Edizioni d’if 2012) e il cd audio Sex in Legoland (Derive Approdi, 2002). È presente in antologie e riviste tra cui Verso, l’immagine. (Fondazione Baruchello, 2004), Sette poeti italiani (Oédipus, 2005), Veus paralleles (Rema 12, 2007), Poesie dalla fine del mondo (Derive Approdi 2007), La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone 2011), “Sewanee Theological Review”, “Italies n.13. Parcours poétiques au féminin”, “Chicago Rewiew”, “il Verri”,“Semicerchio”, “Atti impuri”, “alfabeta2”. Tradotta in francese, inglese, catalano, russo, serbo. Nel 2005 ha vinto il premio Delfini.

 

 

Selfie: Beppe Sebaste

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Sono molto lieto di ospitare qui alcune pagine del nuovo romanzo di Beppe Sebaste. FALLIRE. Storia con fantasmi   sarà  pubblicato su Amazon tra una settimana circa.  Si tratta, com’è scritto nel comunicato stampa, “di  un gesto critico nei confronti dell’attuale politica editoriale. Come se la letteratura dovesse, anche suo malgrado, uscire dall’editoria “classica” cui appartiene per avventurarsi come uno spettro nell’immaterialità del libro on line. Ed è proprio di fantasmi che questo libro ci parla ­– fantasmi psichici e sociali, scrittori fantasma.” I miei auguri sono tutti per lui. effeffe L’immagine che ho scelto è intitolata Dr. Heisenberg Magic Mirror of Uncertainty, 1998 © Duane Michals

 

FALLIRE. Storia con fantasmi

di

 Beppe Sebaste

(introduzione e inizio primo capitolo)

   Quando eri ragazzo era naturale che i giovani fossero giovani, e che i vecchi fossero vecchi. I vecchi erano sempre stati vecchi e i giovani sarebbero sempre stati giovani. (Anche gli adulti erano vecchi, però di meno).

   Il mondo era eterno.

   Poi si è rotto, come un giocattolo. Come la pellicola di un film durante la proiezione.

   Non è avvenuto di colpo, come uno strappo. Succede poco alla volta, ma quando te ne accorgi è sempre troppo tardi. Non serve dire “i giocattoli si rompono”, non puoi comprarne un altro.

   Tra le crepe scricchiolanti di ciò che resta del mondo, i giovani restano ragazzi anche da adulti, i vecchi muoiono o sono già morti, altri ragazzi arrivano non si sa da dove.

   È sempre stato così, dicono, ma non è vero. Le cose e le persone hanno perso la loro durata. Anche il tempo non ha più durata.

   Le luci del cinema sono quasi sempre accese. I film non sono fatti di pellicola, ma di una sostanza immateriale.

   Tu però non sei giovane né vecchio.

   Non sono niente, dici, non sono nessuno.

°°°°°°°°°°°°°

   Ti trovi a Venezia fuori stagione – due cose che vanno molto bene insieme – ospite della Biennale d’arte. Si presenta un film intitolato Io è un altro, e devi parlare di “arte e disabili”. Non era un caso che il seminario si tenesse di fronte all’isoletta di San Servolo, dove c’era il manicomio e adesso c’è un museo dei suoi “resti”, e la Fondazione Franco Basaglia.

   Non esiste un’arte dei disabili, dici, ma la disabilità è spesso un’arte. Non occorre essere disabili per essere disabili, né per essere artisti, e non c’è bisogno di essere artisti per non essere disabili; ma hanno entrambi, disabili e artisti, delle abilità speciali, compresa la propria ineguagliabile disabilità.

   L’indomani, passeggiando nel parco della mostra così simile a uno zoo coloniale, poco dopo la Ruota del destino del tuo amico Christian Boltanski nel padiglione francese (un samsara di tubi Innocenti lungo i quali scorrono volti di neonati polacchi e di defunti svizzeri) t’imbatti in un’installazione dal titolo Feuilleton, nel padiglione del Belgio.

   Dei video-schermi alternano immagini di fatti di cronaca, politici, gente famosa, luoghi pittoreschi, animali feroci. News, clichés. Su di esse è proiettata la mano dell’artista mentre traccia segni e forme senza alcun rapporto con le fotografie che scorrono, che copre anzi parzialmente in un delicato conflitto con esse, un’impari ma ostinata competizione con le immagini ufficiali del mondo.

   Le pennellate dell’artista, tocchi di colore lievi come farfalle, si stagliano fragili nel monitor sullo sfondo di quell’imponente rumore visivo di “notizie” che, raramente belle da guardare, hanno un potere ipnotico simile alle scene di un thriller su cui si capita per caso senza conoscere la trama.

   La trama di quelle immagini invece – alcune, stampate e ingrandite, erano appese a una parete – era semplicemente la realtà, ovvero quello che accade secondo la testimonianza dei media (il fatto che siano i media a creare ciò di cui danno testimonianza è un altro discorso): non serve dire «non guardo la tv», «non leggo i giornali», «non vado su Internet» (tu la televisione non la possedevi da anni malgrado i bollettini di pagamento che ricevevi, non avevi neanche il decoder messo in vendita dal fratello del Presidente del Consiglio, senza il quale era impossibile vederla), perché nessuno può dichiararsene immune. Quelle immagini ci influenzano come un virus, rimbalzano per mille traiettorie e penetrano dentro di noi, le riconosciamo, le possediamo, ne siamo posseduti. Ripensandoci, forse era giusto che tutti pagassero un tributo, anche chi la tv non ce l’ha – un’imposta, appunto, sulla “realtà”.

   Lo stesso valeva per le parole, riguardo alle quali provavi da tempo il claustrofobico timore che alla fine sarebbero rimaste solo quelle scritte sui giornali, sulle insegne pubblicitarie, sulle scatole di cereali o di detersivi, nei gialli e nei romanzi a trama – insomma solo le parole finalizzate a uno scopo, gli slogan e le parole pubbliche.

   Guardando Feuilleton, opera dell’artista Angel Vergara, ignoravi se la storia romanzesca a cui alludeva il titolo fosse quella impersonale macinata sullo sfondo o se, viceversa, consistesse dei gesti singolari e quasi evanescenti della gente – la mano, i colori e i sogni dell’artista che in qualche modo ci rappresentano. Capivi però che era su quelle immagini del mondo diffuse dai monitor, su quel rumore e visore continui, che la vita trascorre ogni giorno; che qualunque cosa uno pensa, scrive, immagina o dipinge, è su quella ineliminabile tela di fondo che la continua a fare e immaginare[1].

   Il che rispondeva almeno in parte a una tua domanda frequente: perché dovevi venire a sapere quello che non avevi nessuna voglia di sapere, che anzi ti ripugnava sapere.

   Fu mentre riflettevi a queste cose che all’improvviso, richiamato dalle urla, esci nei giardini e vedi una belva – una grande, stupefacente tigre – che correva tra i padiglioni coloniali della Biennale di Venezia, come se fosse uscita da un dipinto o scappata da un altro mondo. Avrebbe di sicuro aggredito e sbranato un gruppo di bianchi turisti americani, e una signora di Milano, se dal padiglione di un Paese dell’Asia non fosse uscito con arco e faretra (facevano parte di un’installazione ispirata alla memoria e all’iconografia del Mahabharata), un uomo che assomigliava moltissimo a Arjuna, arciere ed eroe spirituale dell’antico poema epico indiano. Il quale, tendendo la corda con incredibile forza e calma, scoccò una dopo l’altra – incantandoti col vigoroso suono d’arpa dell’arco vibrante – una miriade di frecce dorate che mirarono non a uccidere la fiera ma a formarle intorno, quasi ricamandola nell’aria, una specie di gabbia che immobilizzò la tigre, finché vennero a prenderla degli strani, compìti guardiani dal capo coperto.

   Così com’era apparso l’uomo sparì, non prima però di venire verso di te e affidarti, con tua grande meraviglia, il suo arco e la faretra. I quali, non appena furono nelle tue mani, rimpicciolirono magicamente fino a diventare miniature, tascabile come un portachiavi. Avvenne tutto in un baleno. Per ovvie ragioni avevi dovuto raccontare molte volte questa storia: ogni volta la gente faceva fatica a crederci, ma aveva il merito di interrompere il tono un po’ saggistico delle tue osservazioni in questo inizio di romanzo.

   In quel periodo leggevi solo classici – il Mahabharata, Omero, Dante, Stendhal, Richard Brautigan. Per anni avevi scritto sui giornali, ma avevi smesso di farlo. Ti era impossibile scrivere e pubblicare parole di cui fossi sicuro che non avresti provato vergogna subito dopo, o che non sarebbero state annullate immediatamente nel rumore di fondo, insieme a tutte le altre che sgomitano nella semiosfera come batteri, come pezzi di plastica nelle discariche. (O, viceversa, che non fossero così presuntuose da ignorare il dissolversi di Tutto, quindi anche di se stesse, nella Grande Discarica all’orizzonte).

   Per dire la verità, non t’importava niente delle cose che prima ti interessavano. Stare in un posto invece che in un altro ti era indifferente, non abitare da nessuna parte sarebbe stato l’ideale. Se qualcosa avevi imparato, era che “desiderare” significa essere perduti. Avresti volentieri ricominciato da capo in una casa in cui tornare, una casa nuova dipinta di fresco – azzurro, giallo, rosa – ma tornare dove, ricominciare che cosa? Stavi con una donna, le volevi bene, vi eravate lasciati, vi eravate ripresi, vi capivate poco, vi davate tristezza e allegria, non capirti con un’altra donna e volervi bene con tristezza sarebbe stato uguale, e la stessa cosa valeva per gli amici – tutto era intercambiabile, era questo il Male. Non c’era niente di eroico nei giornali – i razzi, le autobombe, i massacri, le riforme – li sfogliavi e li gettavi nel cassonetto. La parola «opportunità» ti dava il vomito, non volevi arrivare in nessun porto, né raccogliere i frutti delle tue eventuali buone azioni. Ti commuovevano i cani, odiavi le cornacchie, amavi i pappagalli verdi che strillavano volando intorno alle tue finestre come se fosse l’India. Il rumore e il gesto di un’aspirapolvere in una casa, e quello più insensato di una lavatrice che gira, ti deprimevano al punto che dovevi uscire. Ti piaceva toglierti le scarpe e tagliarti le unghie dei piedi all’aperto, ti piaceva leggere le storie che non avresti mai saputo scrivere, ti piaceva crederci fino alle lacrime. Ma non avresti mai creduto a qualcuno che, come hai fatto sopra, annunciasse di «dire la verità».

   L’installazione Feuilleton ti ricordò un’altra opera, La Pressa, un dispositivo inventato e costruito dall’artista Ciriaco Campus: una macchina rumorosissima che letteralmente piega e schiaccia, una alla volta, migliaia di immagini della storia politica, sociale, culturale e di costume degli ultimi cinquant’anni, ricaricabili e ricambiabili.

   Lo stesso anno in cui il suo autore realizzava in un emporio di elettrodomestici a Roma una video-installazione dal titolo 100 presse x 100 televisori e rumore di pressa per 188 frigoriferi, 32 cucine, 155 lavatrici, 39 microonde, 58 ferri da stiro, 43 computer, 108 cellulari, 21 asciugacapelli, 42 videocamere e altro – mettendo in funzione contemporaneamente televisori di tutte le dimensioni con un rumore assordante di fabbrica – la Pressa venne esposta nella bianca teca di marmo dell’Ara Pacis durante un congresso di semiologi.

   Era un’opera radicale, intensa, sgradevole. Sembrava la traduzione di un canto dell’Inferno. Che venisse valorizzata da esperti di semiotica delle immagini non ti stupì, avevano forse intuito che si trattasse della rappresentazione di una condizione di dannati a loro prossima – l’inferno dei semiologi non potendo che essere congruente al dominio della comunicazione su cui si fondava la bruttezza del presente.

   L’opera che ti aveva attratto a Venezia aveva un ritmo meno drammatico, una malinconica sfumatura di speranza, con quei disegnini che si rimodellavano di continuo come le figure animate di plastilina nella vecchia pubblicità del Fernet Branca. Sembrava più un Purgatorio che un Inferno. E il Purgatorio, si sa, è la vita stessa, venata di nostalgia.

   Quei disegni a colori erano come una storia a puntate sullo sfondo dei Grandi Eventi (o grandi opere), elegia degli sforzi che ognuno fa per tirare avanti, costruirsi ogni giorno un racconto credibile e vivibile della propria singolare esistenza sul fondo brulicante di immagini alienate (il Grande Moloch, aveva scritto Allen Ginsberg). Nel tentativo non dichiarato di oscurare il potere di quelle immagini, i guizzi colorati dell’artista sembravano farfalle svolazzanti che volessero impedire, con la gratuita bellezza delle loro ali, il bombardamento di un B52.

   (E perché no?)

   Scrivere era la stessa cosa, almeno nei suoi esiti migliori: fermare una bomba con un fiore. Non necessariamente il fiore vero che in alcune storiche fotografie una ragazza offre a soldati armati con l’elmetto, perfino a un carrarmato; ma la parola «fiore», un fiore scritto a mano, in corsivo, come la rosa che è la rosa è la rosa è la rosa di Gertrude Stein. Costruire nuovi sfondi su cui vivere e demolire gli orizzonti fasulli e i muri di carta che il Potere in ogni epoca allestisce – pur essendo sempre possibile il dubbio che quel potere e quella carta siamo sempre già noi, chiedersi cioè se siamo noi quelli già raffigurati sul muro nell’atto di sfondarlo con la testa, quelli che guardiamo mentre ci prepariamo nuovamente a farlo.

   Una delle immagini ingrandite in Feuilleton era il volto insanguinato dell’allora primo ministro italiano Silvio Berlusconi, la sera del 13 dicembre 2009 in Piazza del Duomo a Milano.

   Ricordavi il primo istante in cui avevi visto quelle foto perché, vedendole, avevi provato paura.

   […]

[1] Salvo che non fosse l’inverso, che quell’installazione fosse il prototipo di una macchina per vampiri psichici, dispositivo per risucchiare idee e paure della gente e metterle in circolazione come immagini, secondo le esigenze della Sicurezza – cioè del Mercato. Macchine così, pensavi, sono forse sparse ovunque, camuffate da oggetti estetici e d’intrattenimento, ma anche da persone in carne e ossa…

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Un Post, Scritto come Mode d’emploi

Per molti versi la situazione della letteratura e dell’editoria che la dovrebbe rappresentare assomiglia a quella della politica. Anche le “larghe intese” – la fusione di cui si parla tra Mondadori e Rizzoli – saranno servite. Ma ho in mente altro, e precisamente il ruolo sempre più invasivo del marketing, criterio e pensiero unico.

Alcuni mesi fa ho letto una lucida sintesi di Antonio Paolacci (già editor in passato di una piccola casa editrice), scritta a nome della neonata associazione editoriale Progetto Santiago. Non entro nel merito delle loro proposte, ma ripropongo alcune frasi di quel documento:

“Concepite come aziende interessate al profitto, molte case editrici importanti da qualche anno affidano a consulenti di marketing e comunicazione anche le proprie scelte artistiche, culturali e letterarie. Sono diventate così aziende che, per aumentare i guadagni, mirano al cosiddetto “pubblico di massa”, di certo più numeroso, ma anche, per definizione, meno interessato alla lettura. 
Tali strategie sono oggi dominanti nell’intero mercato editoriale. In più, fenomeni quali l’aumento delle librerie di catena o le modifiche del sistema distributivo schiacciano tanto i librai quanto gli editori indipendenti. 
La reperibilità dei titoli in libreria e la loro divulgazione a mezzo stampa (recensioni e consigli di lettura sui media) dipendono ormai quasi esclusivamente da esperti di vendite quali distributori e librerie di catena, oltre che da accordi economici tra alcuni editori e la stampa (pubblicità, più o meno esplicita) e tra alcuni editori e librerie (affitto degli scaffali, degli spazi pubblicitari, delle vetrine). Tuttavia, i lettori restano in gran parte convinti che la maggiore visibilità in libreria o nei media sia dovuta a una maggiore qualità dei libri più in vista. L’idea di scrittore e quella di editore si stanno gradualmente perdendo: a entrambi non sono più richieste professionalità, originalità, competenza, ma solo le capacità necessarie a imporsi in un mercato concepito per non-lettori…”

Sono frasi molto vere. La crisi dell’editoria sarà anche economica, ma è soprattutto culturale: la logica del marketing ha sostituito ogni altro codice e strategia, proprio come nella politica – il cui estremo scandalo non è la corruzione, ma il sottoporre preventivamente a un sondaggio le idee e i programmi per scegliere poi quelli da adottare. Nell’editoria, affidare a esperti di marketing le scelte editoriali è ovviamente nefasto per il destino di quella pratica e universo di linguaggi e testi che si chiama “letteratura”, che resta pur sempre uno dei non disprezzabili esiti (non sono poi tantissimi) dell’umana esperienza e Storia.

Nell’editoria di oggi, nell’orizzonte generale dello scrivere e del pubblicare (che non sono sinonimi), c’è quindi una solitudine immensa dell’autore, il quale, nella generale alienazione e sofisticazione del mondo editorial-letterario, ignora perfino la qualità stessa della propria scrittura, nonché le ragioni per cui viene (o no) pubblicato.

Qualche anno fa, in una memorabile lettera al direttore della Repubblica sulla rimozione della cultura in Italia, il regista Bernardo Bertolucci chiedeva, contro le censure e le autocensure imperanti: “un film come Novecento sarebbe possibile oggi, nella sua libertà, nella sua utopia produttiva, nella sua megalomania, nell’estremismo delle sue contraddizioni? […] Mi torna in mente anche Salò, l´ultimo Pasolini, girato negli stessi mesi e a poche decine di chilometri, film atroce e sublime. Sarebbe possibile oggi Salò?” [Seguì un mio pezzo, su l’Unità e su aprileonline, intitolato “Intellettuali da marketing”, ripreso col titolo “Politica significa immaginare” qui, insieme all’intervento dell’amico Bertolucci].

Credo che oggi l’area di ciò che non risulta possibile fare, produrre e pubblicare si sia ampliata a dismisura. Quello che manca rispetto al passato (per es. gli anni Settanta) è però un’area di sperimentazione condivisa, un’officina variegata della controcultura che sopperisca alla censura, al restringimento dell’orizzonte del dicibile e del visibile. Quello che manca forse, ed è il dato più drammatico, è una comunità. Non credo possa esistere letteratura senza comunità, credo anzi che lo “spazio letterario” sia esattamente il luogo fondativo della vita comune, ciò che crea e popola moltitudini, comunità plurali.

Tutto questo è per me la necessaria premessa per qualcosa che voglio annunciare: la decisione di affidare all’universo del web, il mio nuovo libro, se si chiama ancora così, un romanzo alla mia maniera. Il quale, da quanto mi pare di capire, e per usare il linguaggio in vigore, sembra essere troppo letterario (cioè troppo se stesso, non abbastanza snaturato da risultare commerciale e liquido, troppo imprevedibile, troppo poco markettaro (da marketing), troppo isolato, troppo per i cazzi suoi, troppo poco apparentabile ad altri dieci o quaranta o centoventi titoli già collaudati, per risultare facilmente pubblicabile.

È buffo, ci si sente un po’ dei fuorilegge, dei fantasmi, dei clandestini (che è poi il sentimento di cui parla il mio libro e che attraversa tutte le sue pagine). Come se la pratica della letteratura fosse messa al bando, condannata cioè a vivere nella banlieue. Ma sono i margini che fanno la pagina, diceva un filosofo. Penso anche alle molte case editrici i cui libri sembrano specie di tombe della scrittura alla deriva, o condomini in cui si vive come dentro loculi, e mi viene lo sconforto. Penso a quelli che lavorano nelle case editrici e sono intimamente d’accordo con queste parole, un po’ come quelli della minoranza del Pd che sono intimamente d’accordo con idee di sinistra. Intimamente, appunto.

Non so ancora che cosa significhi pubblicare in rete, è un’esperienza nuova, un’avventura. A volte immagino il web come una specie di prateria virtuale, e allora sarebbe bello accendere un fuoco la sera e fare bivacchi e festa all’aria aperta. Sarò grato a consigli più esperti e al passaparola. Non si può diffondere nulla senza solidarietà e condivisione, ma non può esserci giustamente condivisione senza un senso di comunanza, di riconoscimento in un orizzonte. Un po’ come il popolo di alberi di cocco, banani e palme che si vede sopra, in cui ero immerso fino a pochi giorni fa nel sud dell’India.

 

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Stato di minorità

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daniele-giglioli-stato-di-minoritadi Alan Poloni

Uno potrebbe tranquillamente vivere di editoriali e amache, magari ritagliandosele per farsene un bel quadernetto a fine anno, ma un libro è un libro. Rabdomantico o randomantico quanto volete, un libro è un libro: se un giornalista e un saggista appaiono accomunati dall’avere Amedy Coulibaly o la sclerosi della comunicazione al centro della sintassi, in realtà le differenze del loro lavoro sono sostanziali: al primo la realtà si concede da vicino, sotto le suole di una corsa violenta e impetuosa che sa di assalto al nemico, al secondo è dato sedersi al tavolo del quartier generale e ordinare gli scatti fotografici che la ricognizione aerea gli ha fruttato. Come dire: senza l’impellenza di dover conquistare un centinaio di metri giornalieri, lo scrittore svolge un lavoro di largo spettro, probabilmente più decisivo. Il quartier generale in questo caso si chiama Stato di minorità, di Daniele Giglioli. (Solaris, Laterza) 

LETTERA A UN PROFESSORE SULLO STATO DELL’EDITORIA

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di Marco  Alloni

Caro Salvatore Ritrovato,

una volta mi hai detto che la letteratura è morta e non resta che l’editoria. Il paradosso si risolve in modo elementare: la letteratura-prodotto ha soppiantato la letteratura-idea, e lo “spirito di scissione” di cui parlava Gramsci, che è la cifra stessa della letteratura come idea, ha dovuto lasciare il passo allo “spirito di adesione”. Questo non significa che per fare letteratura bisogna oggi abdicare alle idee in quanto tali, ma la natura delle idee portatrici di un afflato scissorio, polemico in senso pieno, non adesive, tale natura è estromessa dall’orizzonte delle attenzioni editoriali. Quali tipi di idee possono allora trovare accoglienza nel circuito della letteratura-prodotto? Le idee il cui “spirito di scissione” sia solo apparente, ovvero serva non già la messa in discussione dell’esistente ma la sua conferma. Persino il marxismo riletto “polemicamente” in chiave anti-capitalistica è funzionale al sistema della letteratura-prodotto: serve infatti la causa speciosa e fasulla del capitalismo come terreno della libertà assoluta, compresa quella di critica. In verità solo laddove il discorso “critico” al capitalismo permette la sua perpetuazione – per esempio subordinando la ferocia anticapitalistica del neomarxismo di Diego Fusaro alla sua vendibilità – esso ha diritto di cittadinanza nel sistema della letteratura-prodotto. Laddove agisce alla radice per la sua dissoluzione, per la sua scissione, esso è respinto. Ovverossia: è accolto solo laddove la “critica” è integrata, neutralizzata dal sistema. La paralisi e l’ostracizzazione della letteratura-idea dovrebbe dunque, a rigore, coincidere con la sua sensatezza. Ovunque si abbia prova di una letteratura che non serve l’autoperpetuazione del sistema capitalistico occidentale, là è il nucleo, la cellula essenziale della letteratura-idea. Ovunque un testo viene respinto o ignorato, là è la conferma della sua verità. Ci si trova così nella contraddizione in termini che il senso pieno della critica abita solo laddove non è esercitabile. Come si esce da una simile impasse? Una soluzione di accomodamento sarebbe quella di accontentarsi di una visibilità gregaria, cioè di una militanza in solitudine o quasi: dentro il sistema ma nelle sue retrovie. È quello che genera, e degenera, nel pensiero radical-chic, inutile in quanto autoreferenziale. È l’opzione disperata che anima la vanità del popolo dei dissidenti insussistenti. Altra opzione più radicale è la violenza. Se l’azione culturale è preclusa dalla logica della subordinazione dell’idea al prodotto, per dirla semplicemente dalla logica del profitto e della mercificazione del pensiero, lo strumento dialettico cessa di essere nella disponibilità dell’intellettuale, e al suo posto si offre solo quello del terrorismo armato. Su scala planetaria il fenomeno è ben compreso da chi non moralizza la storia ma la osserva nella sua dinamica essenziale: contro il sistema occidentale non esiste più politica, tantomeno di sinistra, che sappia proporre alternative al capitalismo monoteistico. Il solo paradigma concesso – e non concesso – all’opposizione è la violenza islamista. Non poteva essere altrimenti e sarà così per un periodo ancora molto lungo, lungo quanto la renitenza delle sinistre storiche a ripristinare una politica di dissociazione reale e non solo cosmetica. Ma nel recinto asfittico delle nostre micro-esistenze il meccanismo è il medesimo: l’esclusivismo autogenerativo del sistema capitalistico-consumistico produce quello stesso risentimento che in scala maggiore possiamo identificare nel terrorismo. Un risentimento del quale un’editoria illuminata dovrebbe riconsocere il potenziale mercantile, di quel “mercato del futuro” che ancora non si vuole osare concepire come concretamente concorrenziale rispetto a quello attuale. È sulla base di questo malcontento strisciante, latente, potentissimo e irrefrenabile che io credo si debba quindi tentare un ragionamento eversivo costruttivo. Poiché esso, paradossalmente, potrebbe generare, oltre alla violenza di cui sarà scaturigine naturaliter, quella revulsione storica dell’idea di profitto che potrà, forse in tempi non brevi, rifondare il mercato democratico della letteratura-idea. Non so se mi sono spiegato, ma l’idea di fondo è: noi dobbiamo agire per costruire un’alternativa di mercato nobile a quello attuale. E il pubblico dei risentiti è molto più vasto di quello che il prudenzialismo conformista dell’attuale editoria vorrebbe riconoscere. Questa intendo io per militanza: avviare, anche da una posizione di subordine rispetto al sistema mercantile in auge, una lotta coerente per creare le basi di un mercato del risentimento.

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Tracce di cammino

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di Antonio Sparzani
Dag Hammarskjold
Era nato nel 1905 a Jönköping, popolosa cittadina sulla sponda meridionale del lago Vättern, nella Svezia meridionale, Dag Hammarskjöld, figlio d’arte, si potrebbe dire, data la sua carriera futura e dato che il padre Hjalmar fu presidente del Consiglio in Svezia nei difficili anni 1914-17. La carriera di Dag fu lineare e in continua ascesa: divenne presidente della Banca di Svezia nel 1941, carica che mantenne fino al 1948, quando entrò al Ministero degli Esteri.
Il 7 aprile 1953 venne eletto all’unanimità nell’assemblea delle Nazioni Unite per succedere al norvegese Trygve Lie nella carica di Segretario generale, carica nella quale venne riconfermato nel 1957 allo scadere del mandato. Non finì il secondo mandato perché la notte tra il 17 e il 18 settembre 1961 il suo aereo cadde vicino a Ndola (nell’allora Rhodesia del nord), sul confine tra l’attuale Zambia e l’attuale Repubblica Democratica del Congo, con ogni probabilità sabotato da chi si sentiva minacciato dalle attività di Hammarskjöld in favore della pace nella crisi congolese. Quella che ora è la Repubblica Democratica del Congo aveva allora da pochi mesi conquistato l’indipendenza dal Belgio (era infatti a quei tempi il “Congo Belga”, o Congo Kinshasa, dal nome della capitale, divenuto in seguito Zaire).

Ma, lungi dall’addentrarmi nei meandri della morente politica coloniale europea dei tempi, desidero qui segnalare un suo libro, ancora disponibile in italiano, dal titolo Tracce di cammino, che costituisce una specie di diario intimo, o diario spirituale. Intimo ma discreto, sobrio, talvolta visionario ed ellittico, ma sempre aperto a comunicare una esperienza di vita interiore — Hammarskjöld era credente, così averne di credenti –, una esigenza etica, di livello a mio parere straordinario. Il libro è edito da Qiqaion (comunità di Bose) e molto ben curato da Guido Dotti, con la prefazione di Wystan H. Auden e una nota di Carlo Ossola e costa 15 €.
È fatto di molta prosa e di qualche poesia, comincia con una poesia:

E vengo spinto oltre,
verso una terra sconosciuta.
Il terreno si fa più duro
l’aria più fredda e pungente.
Le corde dell’attesa
vibrano
mosse dal vento della mia meta ignota.

Con mille altre domande
giungerò là
dove la vita si spegne . . .
semplice, chiara nota,
nel silenzio.

E prosegue, scandito dagli anni della scrittura: le prime cose risalgono al 1925-30. Ecco invece un passo del 1950:

Tutti sono uguali. Verità che crudelmente annulla la differenza tra coloro che hanno ricevuto molti talenti e coloro che ne hanno ricevuti pochi, ma che non vale per l’uso che se ne fa. Il confine tra la vita e la morte, tracciato dall’eternità, passa di lì. Eppure verità valida comunque: siamo sempre davanti alla possibilità di oltrepassare il confine, in entrambe le direzioni. Poter bruciare tutto nel fuoco di uno sguardo limpido, sperando che qualcosa di valore possa poi ritrovarsi nella cenere.

Per me è stata una scoperta, ho trovato il libro su una bancarella a pochi euro, l’ho comprato perché mi ricordavo il nome e la fine tragica del personaggio, era l’inizio del mio secondo anno d’università. Mi ricordavo soltanto una faccia simpatica e lontana dai clamori, nulla sapevo delle trame nascoste che si celavano dietro a questi avvenimenti, e del resto anche adesso nulla sappiamo di certo su ciò. Ma è uno di quei casi di cui Pasolini direbbe “io so e ho le prove”.

Il cerchio dell’odio

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cerchio dell'odio di Gianni Biondillo

Massimo Galluppi, Il cerchio dell’odio, Marsilio, 2014, 653 pagine

Raul Marcobi è il nuovo (l’ennesimo, viene da dire) poliziotto del giallo italiano. Nuovo ma già ben strutturato nel suo profilo psicologico e nella costruzione del suo passato: famiglia borghese, frequentazioni giovanili al tennis club, esperienza alla DEA di New York e ora capo alla Omicidi di Napoli.

Quella raccontata ne Il cerchio dell’odio è – dopo tanto, troppo, “plebeismo partenopeo” degli scrittori di questi anni – una Napoli benestante, accademica, internazionale, vista con gli occhi di chi la conosce per davvero. Massimo Galluppi – ex docente all’Orientale di Napoli – è uno scrittore esordiente, ma per sua fortuna non è un giovane scrittore. Niente ansie da prestazione, nessuna scrittura tirata via, tutta presa dalla trama piuttosto che dal controllo degli scenari. Quella di Galuppi è una scrittura matura, limpida, esperta, di chi sta in mezzo alle parole da sempre. Il Cerchio dell’odio sembra anzi l’opera di un narratore navigato, capace di gestire oltre 650 pagine di trama con poche cadute nella pedanteria.

Tutto inizia con l’omicidio all’Istituto Superiore di Studi Orientali di Bruno Canalis, sinologo di fama internazionale. Il movente passionale di un fidanzato geloso della liaison fra il professore e la sua fidanzata appare da subito troppo fragile per Marcobi, poliziotto ossessionato dalla scoperta della verità, più che della giustizia. In gioventù Canalis apparteneva ad un gruppo extraparlamentare, il Cerchio Rosso. Un altro omicidio, di poco successivo a quello di Canalis, con la vittima che ha un trascorso da militante nello stesso gruppo maoista negli anni Settanta, orienta le indagini del poliziotto verso un passato irrisolto che è (anagraficamente) quello di Galluppi ma è anche il nostro. Quello che ancora oggi vogliamo colpevolmente dimenticare e che insiste a vivere, represso e compresso, nelle nostre esistenze. Continuando, dopo decenni, a mietere ancora le sue vittime.

(pubblicato su Cooperazione, n° 28, 8 luglio 2014)

les nouveaux réalistes: Simone Delos

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L’invenzione di Marcel

di

Simone Delos

 

 

 

 

C’era da risolvere la situazione del movimento in sala.

Il front end di una società telefonica è basato sulla produttività. Non sono bruscolini che stacchi il pezzetto di buccia e te li mangi.

Il capo area signor Corvo stava lì, appoggiato al suo box come una guardia giurata che ha esagerato col gel per i capelli.

Gli operatori giravano come moscerini. I supervisori sembravano estranei ai fatti.

Eppure la formula era semplice: meno movimento, più chiamate gestite, maggiori ricavi.

In codice MMPCGMR.

Aveva personalmente umiliato almeno una trentina di persone nell’ultimo mese. Media di rispetto.

Risultati ottenuti: un’operatrice in lacrime prontamente consolata.

Inefficienza pressoché totale, anche la sua.

– Inaccettabile- lo si sentiva dire da qualche tempo tra sè.

Un giorno aggiunse: -Assolutamente- ed -Inaccettabile-. Era il limite.

La prima riunione fu di venerdì.

Il Capostruttura, Ingegner Gervaso al centro della sala, Corvo alla sua destra. Il responsabile di RU a sinistra.

Supervisori allineati come le bottiglie nel tirassegno dei luna park.

Il discorso andò avanti un oretta, Gervaso tossì almeno cento volte.

Fecero pesare a tutti il grosso investimento che l’azienda avrebbe fatto per la consulenza di un esperto europeo nella produttività dei call center.

I supervisori, che fino a quel punto avevano annuito scagliandosi sulla natura nullafacente degli operatori, a un tratto impallidirono.

Corvo li indicava.

Disse: – Tu, e tu, e tu, e tu-. Poi si gonfiò il petto.

– La colpa è vostra!-.

Martedì il consulente era già in azienda: giacca blu, calvo, sorridente.

Corvo uscì dal box e si presentò.

Il calvo disse solo: -Marcel Solver-, e lo precedette all’ascensore che portava ai piani alti.

L’’atmosfera in sala era tesa. I supervisori erano per natura portati al pettegolezzo. Gli operatori sapevano tutto.

Gli aziendalisti evitarono di andare in bagno. I sindacalisti, invece, cospiravano.

Al quinto piano si discuteva.

Marcel parlò di ganci alle gambe che con un complicato sistema di timer si aprivano e chiudevano all’occorrenza impedendo di alzarsi

– Costoso -, disse Gervaso.

Poi propose un sistema di cannule comunicanti per convogliare l’urina dalle postazioni agli scarichi dei bagni.

– Costoso –

Un pavimento saponato, come quelle attrazioni dei parchi acquatici.

– Costoso-.

Corvo ebbe la netta sensazione che Gervaso si stesse  pentendo.

Visto l’esborso economico che aveva fatto per quel consulente, il suo pentimento avrebbe significato il taglio della sua testa.

Non era preparato a questo. Era un capo già da bambino. Dava ordini agli amichetti, teneva riunioni sui posti migliori dove prendere il gelato. Cose così.

Non poteva permettersi di essere declassato. Aveva già in mente la sua contromisura nel caso si fosse messa male. Si sarebbe impiccato al bagno srotolando gli asciugamani.

– Inaccettabile-, disse tra se, mentre gli occhi si inumidivano sotto le lenti.

A un tratto il signor Marcel drizzò la testa come uno struzzo di Savana.

– Posso parlare con il responsabile del facility management?- disse con un accento francese che Gervaso detestava.

La segretaria uscì di corsa dalla stanza e ne rientro pochi minuti dopo col signor Marzapane al seguito.

Era un uomo minuto, sempre impolverato ma che praticava intensa attività sessuale con le operatrici.

– Vogliate scusarmi-, disse Marcel.

– Ho finora proposto soluzioni senza considerare la precarietà del vostro conto economico. Chiedo venia. Ora se permettete mi assento un attimo con questo signore-.

Detto questo uscì dalla porta della sala con Marzapane.

Marcel si fece accompagnare nel magazzino aziendale dove c’era di tutto. Computer inutilizzati, sedie con lo schienale scoppiato, compressori per ridurre il volume in cuffia e risme di  carta.

Chiese gentilmente di poter restare da solo nel gigantesco magazzino.

In sala attendevano con preoccupazione il “ding” dell’ascensore. Qualche operatrice anziana e ansiosa chiese ore di permesso per andarsene.

I supervisori erano stretti come se dovessero ripararsi da una bufera. Parlavano del più e del meno bevendo litri di caffè.

Marcel rimase più di un ora nel magazzino.

Solo una volta Marzapane guardò dalla serratura e lo vide prendere le misure del pavimento con un metro lunghissimo.

Finalmente aprì la porta e uscì.

In mano aveva almeno cinque bustoni pieni di non si sa cosa.

Raggiunse la sala dove aveva lasciato gli altri due e si chiuse la porta dietro.

Fuori rimasero la segretaria e Marzapane.

All’inizio sentirono un fitto parlottare impossibile da decifrare.

Poi silenzio.

Poi risate. Grasse risate. Risate di gioia e di soddisfazione. Si sentì distintamente il rumore di pacche sulle spalle e il fruscio delle giacche nelle strette di mano.

Corvo uscì dalla stanza e scese in sala correndo per le scale con il pugno chiuso che stringeva qualcosa di misterioso.

– Tutti i supervisori da me. Ora!-

Il trenino si mosse e tutti entrarono nel box in fila indiana.

Appena tutti furono dentro, Corvo aprì la mano rivelandone il contenuto.

Le reazioni furono imbarazzanti e contrastanti tra lecchini e polemici di professione.

– È assurdo!-

– Finalmente la soluzione!-

– Quel francese è scappato da un manicomio!-

– Come abbiamo fatto a non pensarci prima!-.

Corvo dette le disposizioni necessarie ad attuare la Soluzione. Poi li congedò.

Usciti dal box i supervisori andarono in sala e salirono sulle sedie per farsi ascoltare.

– Sentite tutti. Da adesso e fino a operazione conclusa nessuno si alzi per nessun motivo. È chiaro a tutti?-

Gli operatori li guardarono come le scimmie guardano dalle gabbie i turisti dello zoo.

Data la notizia i supervisori sparirono di nuovo e li si sentì salire le scale frettolosamente.

 

“Ding”.

La porta dell’ascensore si aprì e ne uscì Marcel.

Fischiettava incrociando gli sguardi terrorizzati degli operatori.

Poi si sedette soddisfatto su un fancoil.

Un altro “Ding”. Questa volta era l’ingegnere con la segretaria e il responsabile di RU.

Corvo uscì dal suo box e rimase assieme ai capi ad aspettare.

I supervisori arrivarono tutti con delle buste in mano.

Si allinearono ai margini della sala e poi ne rovesciarono a terra il contenuto.

Palline rosse.

Centinaia, migliaia di piccole palline rosse invasero  le postazioni e i piedi degli operatori.

Marcel aveva trovato una riserva enorme di queste palline che l’azienda aveva utilizzato come addobbi natalizi nell’arco degli anni.

Banali ma efficaci palline rosse che rendevano il pavimento inutilizzabile a meno di rischiare pericolose cadute.

Lo sgomento tra gli operatori fu enorme.

Molti si alzarono cercando di fuggire e caddero a terra. Urla di dolore, ambulanze. Tutto messo in preventivo. Tutti sacrificabili per una duratura e solida efficienza.

Ai supervisori erano state date aspirapolvere per risucchiare le palline quando gli operatori avessero finito il turno.

Per il resto sarebbero rimasti lì. A produrre. Senza più distrazioni.

Quando il giorno dopo si seppe che l’operatrice Marisa, cinquantotto anni, matricola 08803122 era morta in ospedale per il trauma cranico dovuto alla caduta, si osservarono due minuti di silenzio. Anche Corvo ossequio la memoria della donna col capo chino.

Guardò l’orologio, fece un cenno con la mano, e le palline rosse inondarono di nuovo la sala come formiche.

Le fotografie che non ho scattato

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di Cristiano Denanni

Ad Antonella

In dialetto
Abbandonasti la tua terra vent’anni prima che io nascessi e abbandonasti questa terra fra le mie mani un pomeriggio d’estate attraverso il quale transitò la linea circolare che chiuse la storia più importante di quelle dentro la mia. T’incazzavi in dialetto, mi urlavi da finestra a cortile in dialetto, era sera e ora di mangiare in dialetto, rispondevi male al mondo in dialetto, poi parlavi da sola rifacendo i letti e le pulizie, e contavi con le mani, facevi l’uncinetto, sommavi gli anni che -chissàallora m’immaginavo onesti, fra le pareti dell’unica casa che ricordo come le braccia di una casa. Da allora stare a dormire in un posto come un altro non mi è più interessato, ora prediligo qualunque mondo, meglio lo stato di chi sa di non essere ancora arrivato, si evitano imbrogli, io quelle volte che ti vidi piangere le pensavo come i momenti di più grande dolore del mondo poi capii, m’ha fregato spesso il tempo, che ogni dolore ha il suo posto, e neppure si contrabbanda alcun giorno con un altro.

Le fotografie che non go scattato

Tu in dialetto mi parlasti sempre, è ora di dirci la verità, io in italiano non ti riconoscevo non t’avrei riconosciuta. Che cosa fa una persona che non comprende che il mondo migra?, fa pochetto e per il resto non è. Tu in dialetto costruisti il pianerottolo dal quale io partii per quel viaggio che viaggio ancora, che cosa fa una vita?, alcuni pomeriggi migliori alcuni peggiori di altri, e le mattine che a scuola entri pensando cose senza patria e poi le notti che mi svegliavo urlando di un’incubo e il mezzogiorno che t’abbiamo detto che tuo figlio non c’era più, anche lì piangesti in dialetto e poi iniziai a intuire -per non finire più- che la felicità ha un passato, una storia, sta a me non disperderli. Gli ultimi tempi t’avevo vista due volte in compagnia d’una lacrima tracciarti una cifra tra le ciglia e l’orlo del naso ma non parlavi quasi più, su quella sedia eri più bella di Dio, poi quel pomeriggio spalancasti gli occhi e con la mia mano sulla tua sopra il petto sentii che onda dopo onda la marea si ritirava, sulla spiaggia rimanevano conchiglie vocianti sopra sabbia bagnata e tiepida e un bambino o due -una popolazione da fine di sogno possiamo dire- non si vedeva neppure una casa, meno male quelle eran tutte alle spalle. Furono proprio il ritrarsi all’alba della marea le palpebre tue, quelle palpebre al ricongiungersi lento con la quinta per sempre degli occhi, io ho idea che non c’entri la vita con la vita e la morte ma soltanto con le donne e gli uomini che siamo stati, che siamo stati in grado d’essere, che abbiamo voluto essere in grado d’essere, la tua migranza nel mondo e nella mia vita sono il dialetto di un paese di rare anime del sud che dice il mondo, non riesco a dire Io sono qui senza dire te.

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Paul Éluard

Stai appoggiata alla libreria con in mano il foglio dove hai trascritto a penna rossa due poesie di Éluard, la prima è quella che comincia

Quei tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo

e del modo con cui la tua schiena sorregge l’immagine degli scaffali non dico nulla perché di tutto si può parlare eccetto che del tuo stare in uno stesso luogo in cui sto io senza cadere nell’illogico tranello delle parole che significano cose che non hanno intenzione di significare e poi che cosa sai di quegli scaffali, in fondo, se non che appartenevano a mio padre, ma il corollario del tempo e dei tempi facilmente amalgama i piani e i modi e se una volta di quei libri non avrei potuto dire altro che Passato ora posso scrivere di te che è come scrivere Presente, e se se ci facciamo caso sostenere che tu sei il presente è fra le dichiarazioni d’amore la dichiarazione d’amore più ardua e credibile, non appare melensa ed è sicuramente romantica anche se il romanticismo sappiamo quando nacque ma non sappiamo la fine che possa aver fatta né se l’ha fatta però ora ascoltami, è sera, e non dirmi che vedi ormai più quel che hai trascritto su quel foglio, a parlare a parlare non ho scattata la fotografia che volevo fare, con il vestito bianco la gonna a sbuffo di vento le gambe nude e le poesie in una mano a fianco di tutte quelle pagine chiuse di mondi sommersi e viaggi a mareggiata, eppure come vedi ci sono decine di modi di non scattare una fotografia e uno di questi si chiama Presente te lo presento ha la forma che hanno i tuoi sguardi che seguono le parole nel buio del foglio, in altre parole la fotografia è un modo dell’intenzione, e ciò che lascia è il nostro tempo migliore, e probabilmente non è più neppure il caso di badare a ciò che non c’è stato perché sta forse proprio lì ciò che abbiamo voluto maggiormente: il tempo sospeso di tutte le possibilità, l’unico che ci fa sentire vivi. Stai appoggiata alla libreria con in mano il foglio dove hai trascritto a penna rossa due poesie di Éluard, la seconda è quella che finisce

Tutta la sciagura del mondo
e il mio amore addosso
come una bestia nuda.

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Alla fermata dell’autobus
Finiva giugno quei giorni ed era metà mattina al terminal autobus di una Torino da autopsia. Finiva, va detto, nella più totale indifferenza. Fra le persone in piedi alla fermata due uomini, entrambi africani, forse senegalesi, blateravano in un sottovoce denso, busto e testa vicini vicini, confessioni imprescindibili, ma cosa vuol dire forse senegalesi?, forse senegalesi. Vicini vicini. Al momento di salire sull’autobus scelsi il finestrino, al solito a destra, lato spiazzo di fermata. Rimase a terra uno dei due uomini, salì il secondo, la mia stessa fila, finestrino opposto, solo la coda dell’occhio percepisce le specifiche. Rimase a terra a piangere, quello oltre il vetro attraverso il quale assistetti, lacrime di bambino disperato, bocca schiacciata dal tremore, sguardo in fila indiana verso il mio. Non capii e mi voltai, l’altro uomo stava in piedi nel corridoio fra i sedili, e la fila indiana trovò il suo triste senso. Era come lanciasse parole mute attraverso gesti frenetici delle mani, chiese di potersi sedere al mio posto, mi feci da parte, vorrei lo facesse il resto delle cose altrettanto, e li vidi raggiungersi. Il vetro era uno specchio che restituiva l’imbuto oliato di saliva e lacrime di entrambi, le mani contro il vetro contro le mani, contro il vetro contro le facce, contro il vetro contro i nasi, contro il vetro contro le labbra, contro il vetro contro giugno, e contro un vetro perenne che è quello specchio attraverso il quale due uomini forse senegalesi ma cosa vuol dire forse senegalesi?, forse senegalesi non possono per una maledizione attraversare sembra mai più. Tardivo pudore mi obbligò a voltare lo sguardo all’altro lato della strada, spezzando il racconto miseramente breve di una storia che sancì una portata molto più estesa della sequenza di quella rappresentazione. Il momento che mi voltai fu il momento di una fotografia che non scattai. Mentre invece capii. Che quegli uomini forse senegalesi ma cosa vuol dire forse senegalesi?, forse senegalesi di chissà quale lingua, storia, provenienza, età, destinazione, stavano significando ciò che erano. Che non è come essere e basta, come stare, bensì una narrazione complessa e poderosa di un momento di storia che raccoglie e sperimenta il prima e il dopo di quella storia. Non seppi insomma chi fossero ma seppi che non avrei fotografato due uomini bambini ma due distaccati, due necessità inaccolte, due stranieri a una mole di paesi, due panni stesi ad asciugare.

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Questo progetto
Sono fotografo, di professione. Eppure non tutte le fotografie le scattiamo. Perché non abbiamo con noi la fotocamera, perché abbiamo perso l’attimo, perché rimaniamo imbambolati, perché abbiamo preferito rispettare un evento, una persona, perché non ne avevamo il coraggio, perché non siamo stati capaci di fare altro che esserci, anziché assistere..

“Le fotografie che non ho scattato” sono i racconti di quegli scatti che per mille motivi o neppure per uno non ho realizzato, ma ho visto, ho immaginato, ho desiderato. Non l’ho scattata ma te la posso raccontare, perché io l’ho vista quella foto, e me la ricordo.

Note in margine al manifesto più breve del mondo

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di Giorgio Mascitelli

( questo intervento è stato scritto per Libera occupazione poetica, iniziativa in occasione della giornata mondiale della poesia, tenutasi a Torino il 21 marzo scorso presso la fondazione Antonicelli e curata da Andrea Inglese, Francesco Forlani e il collettivo Sparajuri)

Alcuni anni or sono mi capitò di redigere un manifesto letterario che per la sua brevità chiamai il manifesto più breve del mondo ( sono sempre stato pigro ) e in effetti si componeva di un solo punto che suona così:

  1. Oggi una Monna Lisa cyberpunk è più bella di un automobile lanciato in folle corsa che è più bello di una Vittoria di Samotracia che è più bella di una Monna Lisa cyberpunk. E puoi capire che il gioco va avanti sempre così.

Come si può notare facilmente, il manifesto più breve del mondo è caratterizzato da una certa improntitudine semigoliardica al pari della situazione in cui fu ideato. Eppure, se si analizza la situazione estetica attuale dal punto di vista dei valori estetici novecenteschi, possiamo affermare che esso descriva il presente in maniera ineccepibile. Questa sottospecie di morra cinese nella quale tutti i valori sono indifferenziati e in fondo niente prevale su niente è in un certo senso la trascrizione fedele, per quanto goliardica, dell’assoluta libertà espressiva e comunicativa dell’ Occidente attuale ( in termini naturalmente di estetiche prescrittive).

E’ chiaro che l’indifferenziata tolleranza produce un effetto di non senso, soprattutto se si pensa che il Novecento, e tutto sommato anche l’Ottocento, è stato contrassegnato da aspre battaglie di poetica ed è chiaro che questo stato di cose, senza volere con ciò idealizzare una situazione che produceva spesso preconcetti alle soglie del fanatismo e talvolta dell’idiozia, contribuiva a determinare un orizzonte di significato collettivo che valeva non solo per gli artisti impegnati dentro queste battaglie di poetica, ma anche per i refrattari, gli individualisti e i disertori di ogni credo poetico in nome della libertà d’artista ( perché, si converrà, fare l’individualista laddove regnano idee collettive ha un senso, che non ha nell’esserlo quando tutti sono, volenti o nolenti, individualisti). Non è però utile spiegare il non senso che nasce da questo indifferenziato in termini di nichilismo postmoderno: non che sia sbagliato, ma non è la prospettiva più interessante. Si può leggere più utilmente questo effetto di non senso come il segno dell’imporsi di un nuovo ordine di vedere le cose che vanifica le contrapposizioni precedenti: laddove una poetica vale l’altra per le istituzioni della cultura, significa che ciò che conta per la società non è più il modello o l’idea dell’arte.

Il valore della produzione  estetica, cioè, non sta più nel veicolare simbolicamente nella forma o nei contenuti determinati immagini o valori a vario titolo importanti per la cultura o per la società, ma sta nel suo accreditarsi pienamente come merce e dunque nella completa uniformazione alle leggi che determinano il resto degli ambiti sociali ossia quelle di mercato. Mi è capitato di chiamare estetica del profitto questo nuovo stato di cose, intendendo con questa espressione l’idea, diffusa tra il pubblico, anche se ancora priva di una formulazione organica e accattivante dal punto di vista teorico, che la bellezza di un’opera coincida con il suo successo commerciale. Si tratta di un’idea veicolata dalle forme di classifica di vendita e poi da tutte le altre classifiche di merito che popolano la nostra quotidianità mediatica. Questo pensare per top ten produce progressivamente un’attenuazione dell’idea estetica in passato corrente basata sull’estetica dell’originalità di origine romantica, che è quella che spingeva a redigere nuovi manifesti per nuove poetiche: così l’opposizione tra successo commerciale e successo artistico per la gran parte del pubblico colto sparirà.

Negli ottanta alcuni scrittori di valore salutarono la fine del clima degli anni settanta, caratterizzato anche nella letteratura da poetiche di impegno politico e di sperimentalismo, come un trionfo della libertà dell’autore e del lettore. Avevano in un certo senso ragione, solo che le libertà che trionfavano erano quelle dei grandi operatori di mercato e dei loro clienti.

Una delle prove più eloquenti di questo genere di trionfo è la totale marginalità nel discorso ufficiale della poesia, che sussiste nella memoria collettiva tutt’al più come ricordo scolastico. Del resto è ovvio che, in un’epoca determinata dall’estetica del profitto in maniera molto più profonda di quanto il residuo dibattito culturale registri, un genere così poco commerciabile sia, per così dire, in una situazione di perenne mobilità in uscita.

Ora sto per affermare che paradossalmente questa situazione comporta anche dei vantaggi per la poesia e per i poeti, ma temo che questa mia tesi venga scambiata per un discorso del tipo “tutto sommato è meglio così”. Evidentemente non è un bene che la poesia sia così emarginata, ma visto che la stato dei fatti è questo, è meglio esaminarlo con attenzione e cercare di fare di necessità virtù. Il fatto che la poesia sia una merce così scadente dal punto di vista del mercato  e che i suoi artefici siano figure paragonabili agli esodati o a quelli in mobilità lunga, cioè siano figure ormai superflue per il processo di produzione del valore aggiunto, è disastroso per l’immagine sociale del poeta e della poesia, ma nel contempo crea alcuni spazi impregiudicati di manovra.

Infatti tutta la produzione artistica e culturale in una società dominata dall’estetica del profitto paga un pesante tributo a quel non senso montante a cui mi riferivo sopra. Anche un film o un romanzo o un’installazione pregnanti nel significato, innovativi nel linguaggio e critici rispetto alla realtà presente perdono un parte di significato in un processo di pubblicizzazione che usa canali di diffusione fatti per le merci: anche opere piene di senso rischiano di risultare la voce di colui che grida nel deserto delle merci. Il paradosso della poesia è che la sua marginalità è così accresciuta che anche i suoi canali di diffusione sono al di fuori di qualsiasi commercializzazione e dunque sono protetti da questa deriva di non senso.

Insomma potrebbe succedere che alcuni canali artigianali di circolazione della poesia vengano visti a un certo punto da una parte del pubblico come i luoghi di verità perché solo lì circolano quelle domande sul senso, che sono alla base  dell’esperienza artistica. Per rendere realizzabile un’ipotesi del genere occorre, però,  che la poesia accetti a pieno il proprio status di paria sociale e non cerchi di nasconderlo tramite giochi di prestigio mediatici o accademici. Ogni parola di verità o di senso, se si preferisce, può venire soltanto da chi non si fa illusioni circa la propria condizione ( sociale, perché su altre condizioni personali bisogna ammettere che può essere più complicato smettere di nutrire illusioni su di sé).

Nella società attuale il vecchio proverbio medievale homo sine pecunia imago mortis rappresenta la mentalità dominante amplificata dall’apparato mediatico con l’aggravante che oggi ai tabù dei discorsi sul sesso si è sostituito quello dei discorsi sulla morte. E nel suo biglietto da visita ogni poeta, in quanto poeta, porta scritto questo proverbio. E’ da qui che la poesia può cominciare a parlare in maniera sensata lontano dal non senso dell’estetica del profitto; poi naturalmente servono belle poesie, ma questo mi sembra superfluo aggiungerlo.

 

Il grasso ci salverà?

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cop

di

Marino Niola

Un carrello ferroviario sta per investire cinque persone legate sui binari. C’è un solo modo per salvarle. Dare una spinta a un grassone che sta sul cavalcavia e farlo precipitare sulla linea perché fermi il veicolo. Voi lettori lo fareste? Non mettetevi a ridere perché la cosa è molto seria. Si tratta infatti di un dilemma logico-etico che viene proposto abitualmente come esercizio nelle classi di filosofia morale inglesi. Ed è oggetto di un libro di David Edmonds. Uccidereste l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore (Cortina Editore). Un titolo che è tutto un programma. E l’autore, un noto divulgatore, ne è perfettamente consapevole. In realtà la carrellologia potrebbe essere un gioco innocente se non si poggiasse su un presupposto inconfessato. Cioè la lipofobia contemporanea. Perché la prima cosa che viene da chiedersi è come mai l’esercizio prevede che l’uomo sul cavalcavia debba essere necessariamente un oversize. Sul piano logico e su quello fisico un normopeso o un sovrappeso non dovrebbero fare differenza.

sid-250_f_02_1234888È chiaro che invece a fare la differenza è il peso simbolico dell’obeso. Che si porta dietro un carico di immoralità che rende morale porsi la domanda se sacrificarlo per salvare delle persone. Mentre buttare giù dal ponte una persona magra sarebbe evidentemente più grave.

Etica per etica, invece che dare una spinta all’obeso dovremmo essere noi a buttarci sul carrello. Se servisse a qualcosa. In realtà mai come in questo caso a far difetto sul piano della morale è la domanda e non la risposta. Perché per sviluppare l’aritmetica utilitaristica del male minore, finisce per liberare il demone dell’obesofobia. Parente stretta del razzismo.

pubblicato con un altro titolo  sul Venerdì di Repubblica  il 29-maggio 2015

Didascalie: la Biennale di Venezia

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Fabio Mauri Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.  Valigie, borse, bauli, materiale da imballaggio, tessuto e legno. 400 × 400 × 60 cm.
Fabio Mauri
Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993.
Valigie, borse, bauli, materiale da imballaggio, tessuto e legno. 400 × 400 × 60 cm.

Con Esplicitazione del rimosso
Das Kapital alla Biennale di Venezia

di

Giulio Ciavoliello

La Biennale d’arte Venezia è incredibile. Tutta la città è un pullulare di mostre e iniziative legate alle arti visive, ben al di là dell’ente Biennale che già di per sé propone moltissimo, ai Giardini, all’Arsenale, con i padiglioni nazionali interni ed esterni. E il fenomeno nel corso degli anni aumenta sempre di più. Nei giorni della vernice ogni due passi si scopre un luogo dove inizia una mostra, spesso con un cocktail, occasione di incontro per addetti ai lavori e curiosi. Si ha la sensazione di beneficiare di tante proposte mentre permane un dubbio come sottofondo. Ci si sta perdendo qualcosa di meglio da un’altra parte? Non mi trovo nel posto giusto al momento giusto? Certo per il visitatore professionale esistono delle linee guida, riguardo a dentro e fuori Biennale. Ma limiti di tempo, l’ubiquità impossibile, fanno vivere l’angoscia della perdita, nello stesso momento in cui nel muoversi per mostre si decide di arrendersi, quando bisogna fermarsi. Non si può più immagazzinare informazioni. La mente non ce la fa più a comprendere. E’ necessario rimandare all’indomani.

Il senso di incompletezza aumenta fino all’esasperazione se si pensa alla continuazione di attività dal vivo e temporanee che si tengono all’interno della Biennale, per i quasi sette mesi della durata complessiva. Qui, giorno dopo giorno, soprattutto nella cosiddetta Arena, una struttura d’impianto teatrale appositamente costruita nell’edificio principale ai Giardini, si tengono letture, conferenze, dibattiti, spettacoli. In effetti l’incompletezza rientra nelle intenzioni del curatore, Okwui Enwezor, perché è prevista, dichiarata, con una esplicita contraddizione fra staticità di ciò che viene proposto in modo fisso e vitalità di ciò che accade in svariati momenti, con risvolti prefigurabili solo in parte.
Si tratta di un modello espositivo non nuovo, ma che a Venezia trova la sua originale articolazione in un fondamento: la lettura e rilettura quotidiana da parte di attori de Il Capitale di Carlo Marx. La pervasività del capitale, intesa come economia e profitto, costantemente rimossa dai riti del mondo dell’arte, diventa centrale nella Biennale di Enwezor. Tutta la mostra, in alcuni casi con il concorso di padiglioni nazionali che rinunciano all’autonomia prevista dallo statuto, si declina tenendo conto di conflitti, sperequazioni, migrazioni, emergenze ambientali, implicazioni della globalizzazione, legati ai rinnovamenti del capitale, alle sue capacità di adeguamento a nuove prospettive di profitto.

Terry Adkins
Terry Adkins

Ha una posizione primaria ai Giardini l’opera di Fabio Mauri. Il suo muro di valigie quasi sbarra la strada ai visitatori per ricordarci le diaspore dell’umanità, che nel caso di Mauri rimandano in primis a l’Olocausto.
Allo stesso modo, alle Corderie il cannone di Pino Pascali può essere assimilato  alla volontà di un fuoco di sbarramento nei confronti del pubblico.
In questa zona si trovano ben collocate le sculture di Terry Adkins, realizzate con l’assemblaggio di strumentazioni musicali, in base a suggestioni provenienti soprattutto dalla cultura afro-americana.
Im Hueng-Soon ha ottenuto il Leone d’Argento per il suo documentario sul lavoro precario femminile in aziende asiatiche.
From the Horde to the Bee è un libro di Marco Fusinato che accoglie una selezione di copertine di pubblicazioni di controcultura e underground italiani custodite nell’Archivio Primo Moroni, attualmente ospitato al Cox 18 di Milano.
Fusinato in proposito ha rilasciato la seguente considerazione (Simone Mosca, Laguna rossa, in “La Repubblica”, 12 maggio 2015, pagina della cronaca milanese): «Per me è un’operazione da Robin Hood, direi anzi proprio di riciclaggio di denaro sporco. Ho stampato 10mila copie, se le venderemo tutte verranno raccolti 100mila euro che usciranno dalle tasche gonfie degli inutili fan dell’arte e riempiranno quelle vuote ma pure dell’archivio».

Marco Fusinato From the Horde to the Bee (2015) 10496 pagine di documenti stampati, tavoli, banconote, telecamera in time-lapse. Dimensioni variabili
Marco Fusinato
From the Horde to the Bee (2015)
10496 pagine di documenti stampati, tavoli, banconote, telecamera in time-lapse. Dimensioni variabili

È noto il Padiglione dell’Islanda, perché ne è arrivata notizia sulle prime pagine dei giornali: Christoph Büchel ha trasformato in moschea la chiesa di Santa Maria della Misercordia, chiusa al culto da più di quarant’anni e di proprietà privata. Questo naturalmente ha suscitato proteste. Ancora una volta è una questione di memoria corta. Autorità impegnate nella manutenzione opportunista dell’esistente, oltre a cronisti che leggono come provocazione qualsiasi azione non conforme, convergono nel non ricordare che la storia dell’umanità è colma di inversioni di segno, anche religioso. In tutta l’area mediterranea sono numerosi i casi di trasformazioni di edifici da luoghi di culto di una dottrina a luoghi di culto di altre dottrine. La storia reale di luoghi e genti ha visto avvicendarsi tante volte chiese, moschee, sinagoghe.

Dopo aver visto molto e aver perso sicuramente qualcosa di buono e interessante, a distanza di giorni nasce una considerazione. La proposta di Enwezor è essa stessa una manifestazione della pervasività del capitale, del suo livello più alto e sofisticato. A Venezia il capitale fa un triplo salto mortale, non neutralizza ma amplifica criticità e opposizione, facendole proprie, in una delle manifestazioni artistiche più accreditate sul piano internazionale. Questa edizione della Biennale è costituita dal riconoscimento di differenze, alterità, percorsi originali e nello stesso tempo è un’espressione della magnanimità dell’establishment artistico mondiale. Del resto la realtà economica ci sta abituando a connubi fino a qualche tempo fa inimmaginabili. Valga per tutti il capitalismo comunista cinese.

Veniamo al Padiglione Italia. Vincenzo Trione che se ne è occupato, appena nominato aveva tenuto a dichiarare la non appartenenza alla categoria dei curatori ma a quella dei critici. La distinzione è apparsa bizzarra e contraddittoria, dal momento che essere critici o curatori è una questione oggettiva di ruoli e non di volontà soggettiva. Non si comprende perché il critico ha proposto un progetto di mostra al ministero dei beni culturali, cui spetta la nomina, o non ha respinto l’incarico a curare il padiglione italiano. Chi se ne occupa assume almeno temporaneamente il ruolo del curatore.
Trione ha scelto «artisti di varie formazioni che incarnano il “codice genetico” dello stile italiano, pensato come combinazione tra il bisogno di sperimentare e il desiderio di riabitare momenti talvolta marginali della storia dell’arte, attingendo a quell’immenso giacimento che è la memoria». Purtroppo tale prospettiva, che può essere feconda, si è tradotta in una mostra piuttosto cupa, dal sapore cimiteriale: luce fioca, per cui molto si fruisce in penombra, netta separazione degli spazi equivalenti (a ognuno la sua cappella).È come se il rapporto col passato potesse esistere solo in accezione necrofila. Alcuni artisti invitati hanno assecondato l’impostazione, altri hanno resistito. Alis Filliol e Marzia Migliora non ne sono stati soggiogati.

Im Heung-Soon Factory Complex, 2014 Installazione con video in HD, colore, suono. 81’.
Im Heung-Soon
Factory Complex, 2014
Installazione con video in HD, colore, suono. 81’.

Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures

Photo by Alessandra Chemollo

Courtesy: la Biennale di Venezia

 

Palmira. Tra verità e menzogne

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di Alberto Savioli*

11157518_10206402671206712_9171213090329810753_oNel dicembre del 2010 mi congedavo da un caro amico residente nell’oasi di Palmira, affidandogli parte dei miei bagagli e anche una sella da dromedario e un tappeto beduino in feltro, chiamato ceben o lubbad, ricordi personali della mia vita tra le tende e tra i beduini che ho frequentato per quattordici anni.

Doveva essere un breve distacco di soli tre mesi, ma purtroppo è diventata un’assenza di più di quattro anni. Ogni volta che chiamavo il mio amico a Palmira mi diceva: “La tua sella, il tuo feltro e la valigia sono sempre qui da me, non ti preoccupare quando tornerai saranno sempre qui”.

Dopo la recente conquista dello Stato Islamico (Is) dell’antica oasi carovaniera di Palmira, il cui nome arabo è Tadmor, so che non vedrò più i miei bagagli, il mio tappeto e la mia sella da dromedario, il mio amico è scappato e di lui non ho più notizie, alla vigilia dell’attacco dell’Is le comunicazioni telefoniche sono state interrotte.

Se quest’amico è scappato alla conquista dello Stato Islamico, un secondo si trovava detenuto da tre mesi nel famigerato carcere di Palmira, dove negli anni sono stati rinchiusi anche dissidenti politici e oppositori al regime.

L’hashtag #SavePalmira viene rilanciato come un mantra all’avanzata delle bandiere nere del califfato e vengono snocciolati numeri e dati senza verifica di fonti e fatti, per questo motivo va fatto a riguardo un po’ di ordine, per vedere cosa realmente succede alla città, agli abitanti e al sito archeologico.

Lo Stato islamico distruggerà Palmira?

Anche io, come archeologo, sono allarmato per la conquista dell’Is della città, ma Palmira è realmente in pericolo? Perché è in pericolo? I miliziani dello Stato Islamico la distruggeranno come hanno fatto i siti iracheni di Nimrud e Hatra?

Secondo la stampa nazionale Palmira è già stata distrutta, ma naturalmente ciò non è avvenuto, e a mio avviso questo allarmismo preventivo mette ulteriormente a rischio le rovine della città.

Palmira non è il primo sito archeologico di rilievo che si trova nei territori conquistati dallo Stato islamico, sia in Siria che in Iraq, e solamente alcuni siti archeologici sono stati danneggiati, la distruzione non è stata sistematica.

Per fare degli esempi concreti voglio citare dei siti di rilievo presenti in Siria e non distrutti dall’Is. Dura Europos situata sul corso dell’Eufrate a sud di Deir ez-Zor presso il villaggio di Salhiyeh, fondata da Seleuco I Nicatore attorno al 300 a.C. e posta ai confini orientali dell’Impero romano, a contatto con il mondo Partico e Sasanide è attualmente conservata.

L’importante sito archeologico di Mari (Tell Hariri) nei pressi di Abu Kamal, posto sempre lungo l’Eufrate, raggiunse il suo massimo splendore nel II millennio a.C. e venne distrutta da Hammurabi di Babilonia nel 1759 a.C.

La città di Halabiyah, un tempo nota come Zenobia, posta sulla riva dell’Eufrate a nord di Deir ez-Zor, fortificata da Zenobia la regina di Palmira nel III secolo d.C., è un sito di 12 ettari protetto da mura massicce e con una cittadella nel punto più alto.

Ma potrei citare altri siti come Qasr el-Heir al-Sharqi, a nord di Sukhne, costruito dal califfo omayyade Hisham ibn Abd al-Malik nel 728-29 come castello di caccia nella steppa siriana; o gli stessi monumenti che si trovano all’interno della “capitale” siriana dello Stato islamico, Raqqa, risalenti al periodo abbaside, quando per tredici anni (dal 796 all’809) la città divenne di fatto capitale dell’Impero e sede del califfo Harun al-Rashid.

DuraEuroposPurtroppo la maggior parte dei siti siriani sottoposti all’influenza del califfato sono stati depredati e scavati illegalmente in modo sistematico, questo almeno dicono le immagini satellitari che mostrano un incremento degli scavi clandestini a Dura Europos e Mari dalla conquista dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) nel 2013.

Tuttavia i monumenti e i siti non sono stati distrutti in quanto tali. Perché ciò è successo ad alcuni siti iracheni?

Perché lo Stato islamico distrugge le immagini delle divinità.

Alcuni video tristemente noti hanno mostrato la distruzione di alcune statue (oltre che di alcuni calchi in gesso) dal sito partico di Hatra e un toro androcefalo assiro (lamassu) conservati al Museo di Mosul, di un secondo toro androcefalo che si trovava sul sito di Ninive nella porta di Nergal, il Palazzo Nord-Ovest a Nimrud che conservava una serie di rilievi assiri, e alcune sculture sul sito di Hatra.

Tutte queste distruzioni hanno in comune le immagini di divinità o che vengono interpretate come divinità dai miliziani dell’Is. Secondo la visione dello Stato islamico tutte le immagini di divinità all’infuori di Allah, interpretate come falsi dei, vanno distrutte. Allo stesso modo vengono distrutti santuari di santi locali (spesso si tratta di santuari sciiti o sufi) considerati da loro connessi alla pratica del shirk, il politeismo, perché compromettono l’assoluta devozione a Dio.

71L’Is nel fare ciò utilizza un hadith in cui il profeta Muhammad ordina ai suoi compagni di “non lasciare alcun idolo senza cancellarlo e qualsiasi tomba senza livellarla”, tuttavia innumerevoli esempi dei primi conquistatori della storia dell’Islam, mostrano come l’Islam inducesse a distruggere i “falsi dei”, dunque le immagini ancora adorate di altre divinità.

I siti distrutti fino ad ora hanno seguito questa linea dettata dall’Is, quindi Palmira non dovrebbe venire distrutta in quanto città antica, eventualmente a rischio sono le immagini di divinità, o immagini interpretate come tali dai miliziani dello Stato islamico.

Naturalmente questo non significa che vi è la certezza che la distruzione non avverrà, tuttavia a mio avviso questo allarmismo preventivo potrebbe fornire una motivazione all’Is per distruggere le antiche rovine. Uno dei motivi che inducono l’Is a mostrare i video delle distruzioni, realizzati con le tecniche più moderne e sofisticate, utilizzando droni e la tecnica dello slow-motion, è l’intento di colpire e impressionare, e cosa c’è di meglio che distruggere un sito su cui sono puntati gli occhi del mondo.

Fa bene l’Unesco a preoccuparsi per Palmira, tuttavia questa attenzione spasmodica che porta la stampa a scrivere che l’Is avrebbe già distrutto le rovine, non solo è cattiva informazione ma mette anche ulteriormente a rischio il sito archeologico, senza poi potere fare nulla di concreto per salvarlo.

Il pericolo reale per le rovine può venire da uno scontro tra lo Stato islamico e l’esercito siriano come è appena accaduto (1, 2, 3).

I danni a Palmira prima dell’avvento del califfato.

palmyra1Se veramente la stampa nazionale è preoccupata per Palmira, mi chiedo perché in questi ultimi due anni non abbia posto l’attenzione ai danni causati al sito archeologico e messo a rischio dal regime siriano che ha militarizzato l’area archeologica e il castello di Fakhreddine ibn Maan che sovrasta le rovine.

Il sito Apsa2011 fornisce documentazioni video e fotografiche relative a Palmira dal 2013, queste mostrano lo scavo di trincee nell’area archeologica, il posizionamento di lanciarazzi, l’installazione di armamenti pesanti, carri armati posizionati nell’area archeologica, il danneggiamento del colonnato nell’agosto 2013 a causa degli scontri tra l’esercito governativo e i ribelli.

Inoltre è dal 2014 che la Direzione generale delle antichità e dei musei di Siria (DGAM) intercetta busti e statue in calcare trafugate dalle necropoli romane di Palmira, mentre la città era saldamente nelle mani dell’esercito siriano (1, 2, 3).

1384034_591290174272644_1331698259_nIl 15 maggio un attivista ha accusato il generale Wafiq Nasser a capo dell’intelligence militare di Sweida di avere saccheggiato i busti di una tomba di Palmira.

E non va dimenticato infine che tutte queste opere d’arte trafugate, indipendentemente di chi sia la responsabilità, vengono vendute dalla case d’aste occidentali e finiscono nelle collezioni private europee, americane, giapponesi e cinesi.

Recentemente è stata sequestrata alla dogana americana una testa di toro androcefalo di epoca assira proveniente dall’Iraq, il suo valore è di un milione e duecento mila dollari, il trasportatore sosteneva che venisse dalla Turchia e che il valore fosse di 6.500 dollari.

Nella primavera scorsa la casa d’asta Bonham’s di Londra fu costretta a ritirare dalla vendita la parte inferiore di una stele assira raffigurante il sovrano assiro Adad-ninari III, la cui base d’asta era di un milione di euro, il proprietario risultava un anonimo collezionista svizzero.

La statua proveniva da scavi clandestini sul sito siriano di Tell Sheikh Hamad, l’identificazione è stata possibile poiché la parte superiore della stele era stata scoperta nel 1879 in questo sito e ora è conservata al British Museum.

Lo Stato islamico sta trucidando i civili?

Il 24 maggio la Reuters, quindi una fonte informativa seria e attendibile, ha scritto di 400 civili uccisi dallo Stato islamico a Palmira, “in maggioranza donne e bambini”, tuttavia la fonte originaria è la tv di stato siriana, una fonte che non si è dimostrata attendibile fino ad ora in quanto di parte.

Questo non significa che queste uccisioni non siano possibili o non siano avvenute, ma non vi sono fonti attendibili che al momento lo confermano.

Secondo la pagina facebook “rivoluzionaria” e i tweet di Revo.Palmyra (1, 2), non certo un organo di informazione favorevole al regime siriano, ma nemmeno allo Stato islamico, queste 400 persone non sono state uccise, si parla invece di quasi 300 morti tra membri dell’esercito, della sicurezza e di chi lavorava per il governo siriano. Altri tweet di un profilo favorevole all’Is parlano di un alto numero di uccisi tra i soldati governativi, con l’intento di esaltare l’operazione militare.

Secondo questo profilo i contingenti Is sarebbero di 400 unità, mentre i soldati governativi 4000 con una milizia di 200 unità. Tutti numeri difficili da verificare e probabilmente del tutto propagandistici, tuttavia si evince la nazionalità dei “conquistatori” di Palmira: ceceni, afghani, africani, europei, e arabi.

Del tutto probabile quindi che i 400 giustiziati, se la notizia verrà confermata, siano soldati e collaboratori del regime; non per questo accettabile come fatto, ma che si inserisce in una dinamica di una guerra truce e non di uccisioni gratuite di civili.

I giornali scrivono di “Quattrocento vittime civili dell’Isis, i cadaveri allineati per le strade di Palmira”. Le uniche foto che sono disponibili a riguardo mostrano i corpi di nove combattenti uccisi e decapitati appartenenti al gruppo tribale degli Sheitaat che hanno difeso la città accanto alle truppe governative.

Altre foto mostrano venti soldati dell’esercito siriano catturati dall’Is, si nota chiaramente che sono stati percossi e hanno i volti spaventati, sembrano soldati di leva e nulla hanno a che fare con i corpi speciali che stazionano a Damasco o con le forze speciali iraniane o di Hezbollah che non vengono mandate in queste aree periferiche.

11265302_674061582726326_4488267617859196623_nL’unica notizia confermata e quasi taciuta dai media, è il bombardamento della città da parte dell’aviazione conseguentemente alla conquista dell’Is. Nella sola mattina del 25 maggio si sono registrati quindici raid aerei e in un bombardamento aereo sarebbero state colpite le rovine archeologiche a ovest della base della sicurezza militare.

Molti attivisti con i loro tweet hanno diffuso le foto e video delle case bombardate dall’aviazione siriana (1,2). Lo stesso organo di informazione parla didanneggiamenti al Tempio di Baal Shamin e al Tetrapylon di Palmira causati dai bombardamenti dell’aviazione siriana. Certo anche queste sono notizie da confermare che tuttavia parlano di danni a settori precisi della città.

Salvare Palmira senza salvare i siriani.

Molti amici siriani che ho sentito in questi giorni, pur amando Palmira che prima di essere patrimonio dell’Umanità è un loro patrimonio, è un patrimonio dei siriani, hanno espresso indignazione per l’attenzione esclusiva rivolta al sito archeologico.

Come dice Eva Ziedan in un’intervista a Radio Vaticana: “Quando diciamo ‘save Palmira’ a chi ci rivolgiamo? Palmira è una città che è stata consegnata sotto gli occhi di tutti”.

Si può scindere la preoccupazione al patrimonio storico di una nazione dall’attenzione alla vita delle persone?

CFwgp4YWAAAsb39Perché parlare dei morti non confermati dello Stato islamico, e non di quelli accertati da parte del regime? Dal primo al 20 maggio sono morti 150 civili ad Aleppo a causa dei bombardamenti dell’aviazione siriana, quotidianamente arrivano foto e video di corpi di donne e bambini sepolti sotto alle macerie dei palazzi, con le membra straziate e sporchi di sangue distesi su barelle improvvisate, senza braccia, piedi, o gambe.

Secondo i dati forniti da Amnesty International gli attacchi con barili bomba, riempiti di esplosivo e frammenti di metallo, lanciati dagli elicotteri governativi hanno ucciso 3.124 civili nel solo governatorato di Aleppo tra gennaio 2014 e marzo 2015, e solo 35 ribelli (672 civili sono morti invece a seguito dei colpi di mortaio lanciati dai ribelli).

I civili uccisi in questo modo sono più di 11.000 dal 2012.

Il presidente Bashar al-Asad, in un’intervista del febbraio 2015, ha negato categoricamente che i barili bomba documentati con centinaia di video siano mai stati utilizzati dalle sue forze, e i giornali non ne parlano più (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7).

Scindere il patrimonio dell’umanità dalla vita umana, non solo non è un atto di giustizia ma vuol dire consegnare queste persone stanche e disilluse tra le braccia del califfato, e indurle a distruggere quanto a noi sta più a cuore dal momento che noi non abbiamo attenzione alle loro vite.11160576_10206243111257813_8438532072380598400_n

Un recente sondaggio indetto da Al Jazeera chiede ai lettori se siano favorevoli alle vittorie ottenute dallo Stato islamico, l’82% (27.015 persone) hanno risposto affermativamente.

Con tutta la passione che ho per il mio lavoro, e la sofferenza che provo nel vedere i monumenti distrutti dalla guerra, mi rifiuto di chiedere alla comunità internazionale di intervenire per Palmira come fanno molti, senza chiedere allo stesso tempo corridoi umanitari per i civili assediati o una no fly zone che li protegga dai barili bomba.

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*questo articolo è uscito su “Sirialibano

Amiche mie

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ballestra di Gianni Biondillo

Silvia Ballestra, Amiche mie, Mondadori, 2014, 272 pagine

La vita sociale ci mette a disposizione per ogni età luoghi di aggregazione. I bambini hanno la scuola, i loro genitori il bar di fronte. Aggregazione informale, ma centrale per la vita di molti, perciò scenario ideale per raccontare storie. Il tempo di un caffè e di una chiacchiera al Bar Golden Palomino e le storie di quattro donne diventano, nel romanzo Amiche mie di Silvia Ballestra, materia di narrazione.

Ci sono Sofia, Carla, Norma, Vera, e tutti gli altri comprimari a fare da coro greco ai monologhi interiori delle protagoniste. Un anno di tormenti metropolitani: ossessioni igieniste, nevrosi, ironie, sarcasmi, tragedie incombenti, esistenze cupe, spesso disfatte. Quattro racconti all’apparenza legate appena dall’unità di luogo (il bar) che però retrospettivamente diventano, finita la lettura, un’unica storia.

La scrittura sa cambiare modulazione in funzione di come lo sguardo indugi su una o l’altra protagonista. Sa far ridere e coinvolgere, sa essere caustica e compassionevole. Attenzione però: non ostante la presenza di quattro protagoniste non si creda che questo sia un romanzo “al femminile”. L’autentico personaggio principale di questa narrazione è la generazione, di donne e uomini, che oggi veleggia spossata fra i quaranta e i cinquant’anni. Generazione tenuta compressa, quand’era adolescente negli anni Ottanta, in un edonismo smodato, inchiodata ad una gioventù obbligatoria, nell’attesa beckettiana di poter trovare finalmente il tempo e lo spazio per potersi esprimere, e che ora si ritrova, dopo il crollo delle illusioni, senza punti di riferimento. Alle spalle una giovinezza infinita, di fronte la vecchiaia fin troppo vicina, senza aver mai trovato il modo e lo spazio di sentirsi per davvero adulta e necessaria alla società stessa.

Silvia Ballestra diventa così l’eminenza grigia, la quinta amica, la anonima testimone di queste vite affaticate e sconfitte da una città, Milano, che ormai non sa neppure più illudere, o persino ingannare, i suoi abitanti.

(pubblicato su Cooperazione n° 17 del 22 aprile 2014)

il Sottofondo italiano di Giorgio Falco

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coverdi Francesca Fiorletta

“Avvertivo tutta questa infinita cupezza, e così, non volendo suicidarmi alle scuole elementari, pregavo in spiaggia, a otto anni invocavo bisbigliando sotto l’ombrellone, inventavo una lingua che non fosse l’italiano per farmi ascoltare da un dio straniero. Portami via, imploravo nella lingua inventata che doveva uccidere l’italiano; portami via da qui, dalla mia famiglia, da questa nazione, da coloro che scrivono in questo Paese e riescono a commentare e giustificare qualsiasi cosa.” 

Un giardino di resistenza

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Di Mariano Bàino

 Sul libro di Alessandro Tarsia, Perché la ‘ndrangheta?(Antropologia dei calabresi), Pungitopo, 2015.

 “La Calabria è una regione povera, con un livello disastroso di occupazione, di evasione fiscale e di altri parametri. È la patria di una delle organizzazioni criminali più estese e pericolose al mondo, che registra la presenza di cosche armate ricche e violente in più continenti. Non c’è forse un rapporto tra la cultura popolare calabrese e questo tipo peculiare di mafia?”.

Dal rito al ritmo: leggere Muro di Casse e non prendere congedo dal sogno collettivo

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di Francesca Matteoni

Anni fa Vanni Santoni mi girò un suo lavoro inedito incentrato su una mappa di Europa riscritta dallo sguardo di due giovani, fratello e sorella, i cui viaggi o vagabondaggi per teknival o i più borghesi club delle capitali erano il fuoco in cui il passato si consuma mentre i luoghi e le storie sopravvivono ben oltre i singoli destini. Da quella lettura uscivano alcune domande fondamentali e interconnesse: cosa tiene vivo il vecchio continente sopra un mucchio di stereotipi e richiami ipocriti alle comuni radici culturali? Cosa resta del percorso esperienziale quando incontra il suo momento più estremo e deve decidere se abbandonarvisi, attraversarlo o voltarsi altrove? Quale rito ci farà credere che siamo stati vivi una volta? Quale libertà non si può istituzionalizzare, categorizzare perché è pre e post verbale, ha il ritmo di quell’anima del mondo che ci tiene inconsapevolmente insieme? E, in sunto, come si racconta tutto questo, cioè, ciò che resta sempre fuori dalle mappe?

Tracce di quel manoscritto riemergono da Muro di casse, il romanzo con cui finalmente l’autore affronta l’esperienza dei free party, le feste ritmate dalla musica tekno (o, in tempi più recenti, psytrance), tenutesi nell’arco di oltre vent’anni in località liminali del continente: campi incolti, vecchie fabbriche, edifici dismessi – paesaggi squallidi nella luce diurna, capaci di trasformarsi in terre iniziatiche nella notte, sotto la cattedrale del soundsystem. Ed è appunto con una cartina sentimentale di quest’Europa che si apre il libro: nessun confine politico, nessuna caratterizzazione fisica – solo la sagoma bianca al cui interno spiccano i nomi dei luoghi di raduno: Portalegre, Altopascio, Uxbridge, Tuzla, Beauvais, Odessa, per citarne alcuni.

La categoria “romanzo” permette a Santoni di scegliere una forma ibrida, che varia dal romanzo-documento al romanzo-intervista e al saggio-narrativo, fornendo apparati, note e bibliografia in chiusura, ma sfruttando il potenziale di immersione che solo l’atto del racconto può offrire. La voce narrante muta dalla prima persona al tu di un dialogo serrato, tramite una struttura tripartita che sembra evocare  visioni platoniche e rinascimentali dell’io e dell’universo, dipanandosi in Corpo, Intelletto, Spirito, ovvero tre personaggi con cui l’autore si immedesima (Iacopo) o interagisce (Cleo e Viridiana) facendo emergere la dimensione sensuale, lo sguardo teorico-politico e infine l’adesione profonda all’esperienza dei festival quale scelta di vita.
L’ibridazione continua nella potenza della lingua, che mescola slanci lirici, inflessioni gergali, scambi sincopatici di battute e flussi, seguendo proprio la progressione della musica elettronica e portando, come una scrittura algida e puramente saggistica non potrebbe fare, traccia della natura sincretica dei teknival, dove si fondono  elementi della sovversione punk, delle culture hippie e freak, dello ska e del reggae.
La cultura rave non si esaurisce infatti nella partecipazione a una festa illegale: si tratta (o si trattava: i voli low cost hanno inevitabilmente compromesso l’idea di distanze europee e di viaggio), di arrivarci via terra, su furgoni e camper, spostandosi quindi come i traveller, corrispettivo irlandese e scozzese degli zingari slavi; di perdersi per strade e sentieri polverosi, rischiando di scoprire all’ultimo cambiamenti di data o destinazione, dovuti a sgomberi e incursioni delle autorità locali. Si tratta ancora di fondere il puro godimento estetico e perfino lo “sfascio”, unica attrazione per alcuni dei partecipanti, ad un momento di trance collettiva, regolata, come nei rituali sciamanici, dalla ripetitività della musica. Si tratta di chiamarsi fuori dalla cultura dominante attraverso le sostanze stupefacenti e il loro uso, troppo facilmente stigmatizzato dagli allarmismi del senso comune, della cattiva informazione, della più ottusa legalità che di buon grado si accompagna alla legge di mercato, vero demone di ogni atto libero. Si tratta di rifare la geografia del continente, disegnandola nei suoi spazi desolati, abbandonati, periferici, reliquiari della contemporaneità più selvaggia, la cui bellezza “quindi la speranza”, luccica nei corpi e nella danza dei raver, di un collettivo che travalica confini nazionali, etnici e linguistici. Si tratta infine di tirar dentro anche il più estraneo dei lettori nell’utopia autorigenerante di questo unisono, niente affatto commercializzabile. Si capirà bene che un saggio non poteva funzionare.

Grazie al suo strano, appassionato romanzo Vanni Santoni riesce a chiudere il cerchio aperto anni fa con Gli interessi in comune, di cui qui ritroviamo il narratore, Iacopo Gori: dal particolare della provincia, che è la cifra di una giovinezza, siamo trasportati nell’universale dei festival internazionali, che sono la giovinezza, intesa senza alcun moto condiscendente come quell’energia vitale (e sì, nella sua forza, anche distruttiva e destabilizzatrice), che dà senso al tentativo di raggiungere se stessi, perché si situa sempre oltre ogni domanda, ogni spiegazione, ogni costrutto sociale – è un qui e ora umano e celebrativo. E se la giovinezza anagrafica dei personaggi e del loro sogno di festival sfuma, si fa nostalgica e dubbiosa, perché le feste non sono più quelle di una volta –  frase che colei che scrive questa recensione ha sentito esclamare e ha a sua volta esclamato svariate volte su altre esperienze sorelle, come il blues di Pistoia e il suo mai troppo rimpianto campeggio al Parco della Rana o il festival di Pelago -,  è pur vero che la giovinezza quale ideale e tensione, non viene meno: si trasforma, ricomincia da capo, si scrolla di dosso ogni lamento e delusione, balla imprendibile sui margini.

Inizialmente avrei voluto dire che questo è un libro coraggioso, fra le altre cose, per l’onestà sulle droghe,  un libro da citare nella battaglia per la loro definitiva liberalizzazione contro le speculazioni economiche, contro la morte che l’ipocrisia, il perbenismo e il cinismo si portano appresso; coraggioso perché rende dignità a una parte della storia estatica dell’umano, che pare andar bene in un testo di antropologia o storia delle religioni, ma non va giù quando è pacificamente non codificata e contemporanea. Ma in realtà è un libro bello e coraggioso perché schiude la giovinezza in un atto d’amore e, tornando alla provincia (perché se alcuni moriranno goani invece che teknusi, altri democristiani invece che comunisti, noi dopo aver girato mezzo mondo, moriremo toscani), di toscanissima irriverenza.

Nota conclusiva

Altre recensioni, sicuramente, sottolineeranno questioni tecniche, bibliografiche, sociologiche – la mia purtroppo non può perché viene dal disordine del cuore, quel cuore che si è riconosciuto leggendo questo estratto che volentieri vi riporto:

“Ed è mentre Cleo mi stacca un pezzetto di calendario maya, mentre mi alzo e me lo metto nella tasca davanti della giacca a vento, e intanto lei parla di chissà che festa o problema legato alle feste, lei che alla fine non ce la fa a non sistematizzare, analizzare, a non vedere tutto sotto un’ottica politica, lei che sulle feste ci ha fatto addirittura la tesi, al sound intanto – perché quel tir sulla cui scaletta stavamo seduti conteneva un soundsystem, che era dispiegato lì accanto, non visto perché ancora muto, scuro nella notte – ora si accendono due
luci, qualcuno grida qualcosa in francese, si sente un rumore a mezzo tra un fischio e un frullio, e partono i primi battiti, e con Cleo sorridiamo,
è lì,
fu lì, che una mano prese la mia e mi portò a ballare, una mano che faceva capo a una testa di capelli mezzi arruffati, a caschetto, turchesi, con una frangia troppo cresciuta, e due occhi sottili e in qualche modo – oh, così mi sembrarono, allora? – saggi, come quelli che a volte hanno i bambini, e insieme prendemmo a ballare e senza che nulla fosse fatto o detto dai visi e dai corpi se non la celebrazione di noi e di tutti lì intorno, lei mi baciò e fui mondato.
Fui mondato da quando a sei, sette otto anni mille e mille volte andavo a giocare a casa della Laurina e mi chiedevo se davvero avrei dovuto provare ad appoggiare le mie labbra sulle sue.
Da quando vidi la Masini e il Lapi, in seconda media, chiavarsi delle gran lingue in bocca.
Da quando strappai un bacio, finalmente, quindici anni avevo, dalla Dania, grazie a un “obbligo o verità”. Da quando baccagliai la Federica, la Chiara, la Beatrice, Katia, la Candice, fino a ottenere un coito da quest’ultima, diciannove anni avevo, quanta fatica.
Mondato da infiniti discorsi, palle su palle raccontate per strappare un bacio, o al massimo una toccata di billo, da serate “per chiarire”, da cene a quattro da pompini senza ingoio da scopate venute male perché troppo sbronzi, da “one night stand” che costringono poi a scappare nella notte, da relazioni lasciate crescere solo perché lei era bella e allora mi piaceva portarla in giro, da relazioni sessuali invece coltivate al buio, al riparo, perché lei aveva qualcosa che non mi andava giù ma non volevo rinunciare a una tacca sull’aereo prima (mondato da quando, a ventitré anni, fui felice per l’essere finalmente entrato “in doppia cifra”) e a una trombata sempre pronta dopo, a tutta una corda di pochezze su cui avevo costruito un’esistenza, un’idea interiore di me.
Fui mondato da tutta la merda che avevo dentro, boccate e boccate di merda, merda che scorreva profonda, e se qualche volta qualcosa da allora cercai, fu sempre e solo un riflesso di quell’allora, di noi, qualche ora dopo, che facevamo l’amore nel camper di una sua amica e le baciavo il viso e gli occhi mentre un tosa inu guardava dal posto guida, dalla rete che separava il posto guida da noi lì dietro, e io provavo a sillabare due parole in francese e lei mi prendeva in giro dicendo Arezzo, Arezzo, e io ma che Arezzo, Figline! e lei Arezzo, Arezzo, e mi guardava stringendo gli occhi a fessura e mi stupivo della nostra nudità, mi riappropriavo di quello che mi avevano tolto a sette, quattordici, diciannove, venti, ventitré anni; e sarei andato per feste, mille e mille volte ancora, l’Italia, l’Europa, credendo a volte di star cercando lei, ma in realtà cercando ancora
un’altra
rinascita”

Orson Welles – Davanti alla legge

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di Alberto Brodesco

i.
“Siamo ricondotti al paradosso cruciale del Reale il quale, lungi dall’essere semplicemente l’In-sé inaccessibile, è simultaneamente la Cosa-in- e l’ostacolo che impedisce l’accesso alla Cosa-in-” (Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico).

ii.
Orson Welles apre il suo Processo (Le Procès, 1962) raccontando e mostrando il celebre apologo kafkiano Davanti alla legge. Il regista commissiona l’illustrazione del racconto all’inventore della tecnica dello schermo di spilli Alexandre Alexeieff. Una serie di diciotto quadri mette in scena quello stallo lungo quanto una vita.

iii.
Il racconto è narrato dalla voce di Orson Welles. Come ne L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), essa appare prima di qualsiasi personaggio. Il regista anticipa il racconto all’inizio del film, per poi riprenderlo e rimodularlo anche nella scena ambientata all’interno della cattedrale dove appare nel libro.

iv.
Del confronto tra guardiano e viandante le illustrazioni con lo schermo di spilli restituiscono immagini grigiastre, a bassa definizione. Marshall McLuhan l’avrebbe definito un medium freddo. Anche in questo caso, come McLuhan insegna, l’attrazione per l’occhio esercitata dalla bassa definizione sta nel fatto che rimane allo spettatore il compito di completare l’immagine, in perfetta risonanza con l’enigma costituito dal racconto di Kafka.

v.
La tecnica dello schermo di spilli combina semplicità e sofisticazione: è primitiva, così come l’opera che genera, ma richiede pazienza, precisione, lavoro, uno sforzo che sembra perdersi o volatilizzarsi in un prodotto finale incerto. Una tecnica fondata sull’evanescenza dell’oggetto illustra un racconto il cui senso continua da un secolo a sfuggire a ogni tentativo di cattura.

vi.
Tutto si colloca sotto il segno della vanità e dello spreco: vanità, spreco di vita da parte del viandante; vanità, spreco di vita da parte del guardiano, custode di una porta ad personam che non sarà mai varcata da colui che ne è titolato; e poi, a livello rappresentativo, vanità del tentativo di Alexeieff e Welles: nonostante la tensione artistica li spinga a sfidare con il loro genio visivo quel racconto, entrambi sembrano in definitiva arrendersi all’impossibilità di rappresentarlo o semplicemente “vederlo”.

vii.
Anche il tempo di riflessione cui questo apologo costringe il lettore e lo spettatore sembra porsi sotto il segno dello spreco – Medusa letteraria che paralizza davanti alle porte dell’interpretazione.

viii.
Nella parte ambientata nella cattedrale il film ritorna davanti alla legge. Joseph K. si confronta con il suo avvocato, il quale gli narra la storia del viandante e del guardiano. K. la conosce già e lo dimostra all’avvocato, completando egli stesso il racconto. K. vorrebbe dare per risaputa la parabola, ma non è possibile, e lui lo sa, essendo una storia che cambia a ogni ascolto.

ix.
Mentre Davanti alla legge viene di nuovo evocato, un proiettore riproduce le immagini di Alexeieff mostrate in apertura, sovrapponendole agli spazi della cattedrale e al corpo stesso di Joseph K. La parabola viene applicata al protagonista del Processo sia a livello di enunciato (l’avvocato esplicita verbalmente la pertinenza del racconto rispetto alla vicenda di K.) che di enunciazione (la figura di K. è intrappolata in quelle immagini).

x.
Installazione, performance, compressione degli spazi tra le arti. Come nel labirinto di specchi de La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai, 1947) il gioco di rifrazioni disorienta e affascina.

xi.
Il ritorno delle illustrazioni di Alexeieff ha di nuovo a che fare con la loro evanescenza. Ma qui cambia la chiave di lettura, non c’è più niente di vano e di inutile. Si tratta di un mistero che descrive con precisione la ragnatela fragile ma tenace che intrappola Joseph K. Il paradosso interno al racconto non appartiene solo alla forma del sogno – come sostiene Orson Welles nel commento che segue la sua prima lettura della parabola –, ma espone in modo razionale e incomprensibile la trama della realtà. Non per niente, nella citazione che apre queste note, Slavoj Žižek si sta riferendo alla meccanica quantistica.

xii.
Se Kafka riesce problematicamente ad accettare il dato di una realtà che concede cittadinanza al paradosso, Orson Welles non lo consente. Il suo finale anti-kafkiano mostra un’esplosione che fa saltare in aria non solo K. ma anche quel suo mondo da incubo.

xiii.
Agli occhi di Orson Welles il guardiano della porta della legge può certo assumere la familiare fisionomia del produttore cinematografico.

xiv.
La grande domanda di Quarto potere (Citizen Kane, 1941): questo è ciò che Kane (K.) ha fatto. Ma chi era? È una domanda solo apparentemente meno kafkiana di quella del Processo: questo è ciò che K. non ha fatto. Ma chi era?

xv.
1915-2015: centenario della nascita di Orson Welles e della prima pubblicazione di Vor dem Gesetz.