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Autostrada: confine Campania/Puglia

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di Umberto di Donato

È la linea del confine nell’idea
maligna che divide in due
la terra, il suo fantasma, spirito
di paglia ed erba spada.
Di qua inciampo in una storia, di là cambia
la regione, la ragione dei fatti,
la montagna in due squarciata
da pensieri divergenti, da altre burocrazie,
da una balza oppure da una rupe,
da cespugli double-face.

Rumina l’idea sull’assetto divisorio,
sul non vissuto, sul non taciuto
fantasticare su bigamo e bifronte,
sul me due volte molle, su questa
bilingue geografia che un albero
di arance vorrebbe ad un tempo e di limoni.

Non è palmare questa sensazione,
non si tocca, non si sente,
ma si conferma nella fede,
nel quasi rettilineo sentimento
che si fa crisma, unzione,
cresta e ciuffo,
filo d’erba che conteso
adesso è l’unica salvezza.

Passa un tratturo stretto fra le siepi,
un gregge passa e sconfina con un carro
nell’altra idea, nell’altro nulla che
la recinzione in se trattiene e stoppa
il suo raggio, la sua giurisdizione.
Nessun controllo di belato, nessun crollo,
ad ognuno il suo. Non è
tempo di frazioni.

Miti Moderni/13: il primo sole

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lucedi Francesca Fiorletta

“Certe cose si capiscono al volo”, ripete lei, spegne una sigaretta, cerca un comico americano prima di andare a dormire, senza piangere, e intanto il piatto resta sporco, la cena ferma da due giorni, quante parole contate, che non devi usare, per spiegare, il disavanzo. 

Venga il Regno

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carrereuna (lunga e articolata)  intervista di Alessandra Coppola Emmanuel Carrère 

Emmanuel Carrère, perché adesso questo libro sui primi cristiani e la scrittura dei Vangeli? A questo punto della sua vita e della sua carriera? Che cosa rappresenta per lei Il Regno?

È un “adesso” molto lungo, perché è un libro cominciato sette, otto anni fa. Penso che anche se non si è credenti – è il mio caso e quello di molti lettori ai quali mi rivolgo – valga la pena in un momento della vita di porsi la domanda: dove mi colloco rispetto a questa storia? Che cosa rappresenta per me? Parlo del cristianesimo, perché per noi occidentali è il cristianesimo la religione nella quale siamo stati formati. Che cos’è per me questa specie di oggetto strambo, al tempo stesso molto ingombrante che è il cristianesimo. Che posto ha nella mia vita, nella mia coscienza. A un certo punto, c’è un momento in cui ha senso, un momento in cui non è una perdita di tempo porsi questa domanda.

(Risate in sottofondo. Uomini e donne parlano rumorosamente in inglese a un tavolino del bar dell’albergo, tra il balcone e la vetrata sul giardino. Interrompiamo l’intervista e ci spostiamo in una sala laterale. Il francese Emmanuel Carrère è a Milano per la presentazione della traduzione italiana del suo ultimo libro, Le Royaume, Il Regno, edito da Adelphi, 432 pagine, 22 euro. Scrittore, sceneggiatore, autore televisivo e molto altro. “Io mi definisco reporter”. Riprendiamo dalle ragioni per cui ha scritto ora un libro sul cristianesimo delle origini).

Fin qui la ragione un po’ astratta, generale. Poi ci sono dei motivi più piccole, più terreni. Dopo aver scritto La vita come un romanzo russo non avevo progetti, non sapevo bene che fare. Mi avevano proposto di scrivere una serie televisiva – non Les Revenants, è stato molto prima. Una serie che non è mai esistita, su una storia di gangster. In realtà, non mi interessano molto le storie di gangster. Mi avevano detto: “Se hai un’altra idea, ci interessa”. Ed era il momento – non so se è lo stesso per voi in Italia – ma era il momento sette, otto anni fa in cui tutti cominciavano a interessarsi alle serie tv. Non solo i fan del genere, è diventato una specie di luogo comune culturale. È un’opinione un po’ paradossale, ma ha senso dire che le serie tv sono l’equivalente dei grandi romanzi del XIX secolo: ci siamo tutti messi a guardarle. Ho un po’ riflettuto su che cosa proporre e ho pensato di poter fare una serie sulle prime comunità cristiane. Con questa idea in testa ho cominciato a leggere gli Atti degli Apostoli, le lettere di Paolo… Ma ho abbandonato l’idea di una serie tv, perché il tema mi è interessato al punto che volevo essere il capo, non volevo avere cinquanta persone che mi dicessero che fare. È cominciata così, cercando un soggetto, e poi è diventata una grande impresa.

Voleva chiamarla L’inchiesta di Luca, perché poi ha scelto Il Regno?

Perché a un certo punto è comparso il titolo Il Regno, che è mille volte più bello. L’inchiesta di Luca non è un bel titolo, francamente. Non è orribile, ma non grandioso. Quando all’improvviso ho pensato al Regno mi sono detto: “Se il titolo per caso è già stato usato, non fa niente, lo userò lo stesso”. È il titolo del mio libro nessuno ha il diritto di impossessarsene, e anche se qualcuno l’ha già utilizzato dieci anni fa, non importa, correrò il rischio. Sarebbe una catastrofe dover rinunciare a questo titolo. Come L’Avversario: era un titolo che aveva la stessa evidenza, e sono dei titoli molto vicini. Tutte e due hanno una forte connotazione religiosa. Ho adorato questo titolo. Ed è anche l’argomento del libro. Più il libro avanzava, più era l’argomento del libro. Al principio non lo era. Malgrado tutto, le parabole del Vangelo, soprattutto nella versione di Luca, sono davvero le parabole del Regno, e sono veramente sconvolgenti.

Luca è il personaggio più vicino a lei, di questa storia è lo “scrittore”. Ma dalla lettura del Regno sembra ci sia anche qualcos’altro che glielo rende vicino, familiare. Meno eroico di Paolo, più tiepido, ma più umano. Al punto che, come lei osserva, per la sua mediocrità Pier Paolo Pasolini lo detestava.

Certo. Al tempo stesso sono consapevole che sappiamo molto poco di lui. Le sue idee sono contenute in due libri, il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Ma quanto al personaggio storico, dubitiamo perfino della sua esistenza, non sappiamo nemmeno se si chiamava Luca. Non sappiamo niente. Naturalmente, ho molta più vicinanza con questo personaggio. Ma allo stesso tempo, a partire da questi due libri, percepiamo un’identità di scrittore e anche d’uomo che non ho completamente inventato. È vero: mi è molto simpatico Luca, ho l’impressione di un personaggio fraterno . Paolo è una figura più impressionante, grandiosa, magnifico eroe del libro. Ma non mi sento per nulla vicino a Paolo. Mentre Luca, con la sua umanità, la sua assenza di fanatismo, la sua attenzione all’opinione contraria alla propria, mi piace molto. Anche con quelli che possiamo considerare difetti: essere un po’ d’accordo con l’ultimo che ha parlato, il suo modo di voler sempre riappacificare le persone, il suo lato molto consensuale… Comprendo l’ostilità di un uomo così esigente e radicale come Pasolini. Ma Luca mi piace molto, e mi piace molto lo scrittore che è in lui. E se guardiamo tutte le cose che esistono solo nel suo Vangelo, che portano il suo marchio personale, sono le cose più belle del cristianesimo. Sono cose magnifiche.

È la storia della prima generazione cristiana, ma Il Regno è anche la vicenda di una “piccola setta ebrea, fondata da pescatori ignoranti, che in meno di tre secoli ha divorato dall’interno l’Impero romano ed è durata fino ai nostri giorni”. C’è anche quest’atmosfera di fine di un’era nel suo libro, ne ha accennato anche sul Corriere nella recensione all’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione: “La laicità, il secolarismo, il materialismo ateo hanno fatto il loro tempo”…

(Carrère interrompe la mia – lunga – domanda, e la completa). C’è qualcosa in questo ribollimento religioso un po’ confuso (del primo secolo dopo Cristo, ndr) che potremmo paragonare anche alla nostra new age, queste credenze sincretiche… Qualcosa sta succedendo…

Dunque stiamo vivendo, anche noi, gli ultimi giorni dell’Impero?

Diffido delle grandi analisi storiche. Ma sì, ho l’impressione che siamo alla fine di qualcosa in termini di civiltà, c’è qualcosa che non continuerà tanto a lungo. Non voglio giocare a fare il profeta. Se c’è una cosa che ammiro in Houellebecq è questa visione molto forte del momento stupefacente che stiamo vivendo. Penso che ci sia davvero una mutazione in corso. E lui ne ha una visione molto acuta e al tempo stesso molto originale. È uno straordinario osservatore. Non mi sento assolutamente in grado di competere con Houellebecq su questo terreno. Ma è vero, studiando questo momento della storia – anche se il mio libro non parla della fine dell’impero romano, è un po’ fuori dal quadro, è evocata, arriverà poi -, la civiltà greco-romana e il modo in cui è arrivata sino alla fine dell’antichità rappresentano una storia appassionante.

Non so se ha degli insegnamenti per noi, non so se è possibile trarre delle lezioni dalla storia, ma c’è qualcosa di evocativo, certo, ci ricorda qualcosa. Davanti a fenomeni storici religiosi che disorientano, difficili da classificare, che non ci ispirano simpatia, abbiamo sempre interesse a ricordarci che cos’era il cristianesimo. Che è diventato, qualunque cosa ne pensiamo, la base di una grande civiltà: per il mondo greco-romano era qualcosa di alieno, considerato con disgusto, con diffidenza, con ripugnanza, qualcosa di pericoloso, ostile. Una sorta di quinta colonna infiltrata. Ricordiamocelo, qualche volta, che cos’è la civiltà che vogliamo difendere: rispetto alla grande civiltà precedente, era qualcosa che faceva paura e disgustava.

Il fenomeno che oggi ispira paura e diffidenza è l’Islam? Nel Regno lei osserva “la democrazia laica è la nostra religio (…) la superstitio che vuole la nostra morte è stato il comunismo oggi è l’islamismo”.

Sì, e non è molto originale pensarlo. Si riferisce a qualcosa che è un sistema di pensiero esterno al nostro, e che non bisogna ignorare. In fondo era per me una delle poste in gioco, e anche l’interesse di scrivere un libro come Limonov , dedicato a lettori un po’ come me, come lei: per quanto possiamo essere diversi, con opinioni politiche di destra o di sinistra, ma abbiamo in comune la democrazia, i diritti dell’uomo, la libertà d’espressione… Cercare di fare un ritratto di un uomo come Limonov – per il quale tutto questo è completamente bullshit, e che considera eroi personaggi come come Bin Laden, Saddam Hussein, Gheddafi eccetera – è interessante. Per noi è un pensiero alieno. Ma ci sono molte persone nel mondo che la pensano così . Limonov pensa, per esempio, che la democrazia – che ci sembra una gran bella cosa e che cerchiamo di portare a della gente che non la desidera particolarmente – sia esattamente l’equivalente del colonialismo cattolico con la stessa convinzione di voler portare il bello, il bene, con le migliori delle intenzioni… Il punto di vista di Limonov rappresenta tutto quello che è l’altro dalla nostra civiltà occidentale. Io non lo condivido questo punto di vista, sono dalla parte della civiltà occidentale. Ma mi interessa vedere il mondo dal punto di vista dell’avversario, dal punto di vista di chi pensa di dover far saltare tutto questo. Limonov è un personaggio marginale, forse, ma è un buon esempio di questa visione del mondo.

Mi sembra, a proposito di Limonov, che uno dei tanti temi del libro sia l’umiltà. O piuttosto un rapporto difficile con l’umiltà. E che forse questa sia anche una delle ragioni della sua attrazione per il cristianesimo. Assieme a un desiderio di resa. Quando scrive nel Regno della sua conversione, usa i termini “rinuncia”, “sollievo”, “abbandono”. Il passaggio del Vangelo secondo Giovanni che segna la sua svolta si conclude con le parole: “Quando sarai vecchio, un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”…

Questa frase è esattamente il mio ingresso nel cristianesimo . Ed è ancora valida, non solo per non solo per il cristianesimo. E’ valida per tutti i percorsi spirituali (non amo per nulla il termine spirituale, lo trovo puerile, enfatico, non amo gli scaffali di “spiritualità” nelle librerie ). Ma questa frase non è valida solo in una prospettiva religiosa. La psicanalisi è anche questo: ti porta assolutamente altrove rispetto a dove volevi andare. Ed è quello che ci possiamo augurare dalla vita. Se la vita ti porta esattamente dove volevate andare, non ti porta molto lontano. Anche se sei molto ambizioso, andare dove non volevi è sempre meglio, è più interessante. Ci sono più possibilità di una realizzazione umana.

Che cosa le è rimasto del suo periodo cristiano? Io ho un’idea al riguardo…

Quale?

Credo che lei sia stato molto colpito dall’idea cristiana di amore, l’agape. Che non è carnale (eros), né tenero e familiare (philia ). I latini lo traducevano con caritas , osserva lei nel Regno, “ma dopo secoli di onorato servizio oggi ‘carità’ non basta più (…). Agape va oltre. È l’amore che dà invece di prendere (…) l’amore svincolato dall’ego”.

Sì, ne sono toccato ancora, anche se faccio fatica a dargli corpo nella mia vita. E non sono il solo . Rispetto a quel periodo della mia vita che racconto al principio del libro ho una specie di imbarazzo e l’impressione di essere molto lontano dal giovane uomo al tempo stesso molto inquieto, molto egocentrico, nevrotico. Non che oggi io sia un modello di equilibrio, ma ci sono stati dei progressi. Dunque, la fede è qualcosa da cui mi sono molto allontanato oggi. Ma al tempo stesso – è un po’ l’interrogativo della fine del libro – ho l’impressione che aver passato otto anni a scrivere un libro attorno ai Vangeli (con i mezzi che ho) vuol dire che qualcosa è ancora vivo, o che in ogni caso non è una vicenda chiusa: non posso archiviare il dossier. E sarebbe stupido farlo, non solo per me, ma per tutti. Al fondo, conservo l’impressione che in questo soggetto ci sia qualcosa di più grande di me.

copTornando all’idea di agape, per sua moglie Helène – lo scrive lei – “la vita è amore non carità”. E ’ d’accordo?

No, non sono completamente d’accordo. Mia moglie è straordinariamente diffidente nei confronti di tutto ciò che è religioso. E’ il motivo per cui ho pensato a lei come a un lettore che per me conta molto: se a lei interessa, mi sono detto, è fatta. Perché non leggerebbe mai un libro su un tema simile. Una posizione un po’ affrettata. Il mio stesso interesse per queste cose è qualcosa a cui guarda con tenerezza ma anche come “suo marito si occupa di qualcosa un po’ bizzarro, disgustoso”. Ai suoi occhi è disgustoso. Mia moglie tende a pensare che l’ideale cristiano di agape sia qualcosa, come dire? Che basterebbe già riuscire ad amare quelli che ci conoscono, che ci amano. Che quando amiamo tutti alla fine non amiamo nessuno. Che l’agape sia un amore che esclude la preferenza e se escludiamo la preferenza in realtà ci ritroviamo a non amare nessuno. Che sia una specie di amore senza fisicità, l’amore di chi ama l’umanità. Io capisco bene che cosa intende, capisco l’argomentazione, e ho la stessa reticenza nei confronti della gente che parla troppo dell’amore per l’umanità e non ha interesse per le persone singole. Ma contrariamente a lei, anche se non ne ho davvero l’esperienza, penso che questa cosa che chiamiamo agape esiste e che ci sono persone che la vivono. Non è alla mia portata. Ma esiste.

E la cerca? Le interessa l’amore come carità?

Diciamo che la coabitazione tra eros e philia è già sufficiente a rendere la vita complicata e ricca, aggiungere agape sarebbe un bene. Forse verrà col tempo, con maggiore saggezza, ma per ora è un po’ troppo: appesantisce troppo la barca (sorride).

Si aspetta una domanda sulla pornografia? In un’intervista alla Rai ha detto di essersi meravigliato di non aver ricevuto durante le presentazioni in Italia domande sulle (quattro) pagine pornografiche del libro (la visione di un video su YouPorn, condivisa con Hèlene), pagine che invece in Francia hanno suscitato molta curiosità…

Sono solo quattro pagine, sono d’accordo con lei. Ma moltissimi lettori, giornalisti francesi me l’hanno chiesto: che senso ha? Perché l’hai messo? L’hanno detto come rimprovero o con simpatia. Ma è qualcosa che ha molto disorientato, a volte scioccato. L’ho citato in tv, per dire che il pubblico italiano l’ha presa con molta più naturalezza

A pensarci, però, non è una domanda fuori luogo: quattro pagine di pornografia colpiscono perché, al contrario, è un libro di 400 pagine piuttosto casto, particolarmente asessuato…

È il problema delle origini del cristianesimo, questo lato un po’ casto e asessuato. Quando lo si afferma, ci sono sempre delle persone, cristiani, specialisti del Vangelo che ti dicono “ma no, non è vero, Gesù era circondato di donne. San Paolo, sì, era un puritano infernale. Ma Gesù per nulla”. A leggere i Vangeli, però, la sessualità è qualcosa di completamente cancellato, che non esiste. Onestamente, ho davvero dell’amicizia per il cristianesimo, ma mi infastidisce questa modo di ignorare la sessualità. Anche prima di condannarla. Ci sono versioni colpevolizzanti, nevrotiche, e non era così alle origini. C’è gente che vi dice che Gesù andava a letto con Maria Maddalena. Ma in realtà io non ci credo. E forse avrei preferito che lo facesse. È una delle cose che mi manca nel cristianesimo. Ed è vero che il libro è molto casto, i suoi eroi sono per la maggior parte uomini. Trovavo che il libro mancasse un po’ di donne, di sesso e forse ne ho messo un po’ artificialmente. Ma mi mancava (ride), mi mancava…

A proposito di donne, le tre religioni monoteiste sono tutte e tre piuttosto misogine. Un ritorno dei fenomeni religiosi, e un indietreggiare dei diritti dell’uomo, deve preoccuparci?

Apro una parentesi. È una cosa di cui non si parla abbastanza. Non sono un conoscitore dell’Islam, posso parlare un po’ di cristianesimo, l’ho studiato per anni mentre l’Islam mi è sconosciuto e non voglio aggiungere sciocchezze alle numerose che già si dicono a riguardo. Ma c’è una cosa di cui non parliamo tanto. Contrariamente a Gesù, il Profeta era un uomo circondato di donne, che amava le donne, che non so quante ne ha avute e che una cosa per cui si definiva era la sua passione per le donne. Una passione carnale, non spirituale. Non significa che fosse un maniaco sessuale, non mi faccia dire questo. Ma il Profeta amava le donne. È qualcosa che dovremmo dire a sua difesa e che non diciamo abbastanza. Il puritanesimo dell’Islam non è presente alle origini.

Come è stato portare il suo Regno – agnostico anche se aperto al mistero – in un Paese molto cattolico come l’Italia?

Pensavo che qualche lettore sarebbe stato scioccato. A quando pare per nulla. Sarebbe stato bene essere un po’ condannato dalla chiesa, dare un po’ scandalo (ride) ma per nulla. Meglio così.

Del resto, lei scrive che la religione cattolica è l’unica di cui si può scherzare senza conseguenze gravi…

Sì, può succedere che qualcuno scenda in strada per protestare, ma nessuno prende una mitragliatrice e spara per questo. Manifestano, esprimono eventualmente la loro collera. Certamente è in ragione della sua età: il cristianesimo è oggi una religione molto inoffensiva. Non mi sembra possa far male a nessuno.

Inoffensiva perché vecchia?

Certo, rispetto all’Islam ha cinque secoli in più . Se guardi il cattolicesimo anche solo 500 anni fa, non è difficile pensare all’inquisizione, ai roghi, che erano volti del cristianesimo che non ci ispirano molta simpatia. Al di là delle specificità di ognuna di queste religioni, cinque secoli di scarto spiegano qualcosa in termini di ritardo di integrazione nei confronti di una società laica, democratica e nei confronti della libertà di espressione.

Da giornalista-lettrice penso – assieme a molti – che i suoi libri siano speciali per “il metodo Carrère”, punto di riferimento imprescindibile oggi per chi scrive: la miscela tra cronaca, diario, ricerca storica, reportage. Tra realtà e finzione. Sembra che con il Regno lei abbia preso maggior consapevolezza di questo “metodo”.

È possibile. È curioso che mi dica questo, mi fa prendere coscienza di qualcosa: ho la sensazione di essere arrivato alla fine di qualcosa e non so che cosa verrà dopo. E può essere che sia legato a questo, al fatto di aver preso coscienza di quello che ho fatto, dei processi, e che a partire da qua i processi non funzionano più. E’ qualcosa che è stato fatto in modo cosciente. La prossima volta dovrò trovare un altro modo di fare, non so cosa. Ma ho l’impressione della fine di qualcosa con questo libro.

Anche dal punto di vista del modo di lavorare?

Del modo di procedere. Questo insieme di cinque libri cominciato con l’Avversario finisce con questo qui, come una specie di ciclo. È anche un po’ angosciante. Ho la sensazione che c’è qualcosa che dovrà cambiare un po’ nel modo di fare.

Il prossimo lavoro potrebbe non essere un testo scritto? Forse sarà un film? Una serie tv?

Non lo so, non ho nessun progetto, nessuna idea. Ma ho la sensazione – e quello che lei dice si lega molto bene – di un ciclo finito.

 

(intervista pubblicata in versione assai più breve su Il Corriere della Sera del 5 aprile 2015)

Nozioni di marketing ( le avventure di Barabànov e Mariputèn)

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di Paolo Gentiluomo

*

 

Una estate per Barabànov

non c’era stato mare, o quasi.

Giusto un paio di volte c’era stato mare,

che era già agosto, mare,

e aveva stabilito che quell’agosto

senza mare o quasi, quell’estate

senza mare o quasi, doveva essere

un deciso spartiacque della sua vita.

Spartiacque vuol dire una roba in mezzo

che poi c’è un di qua e un di là,

poteva essere tipo che decideva

di non fare più mare d’ora in poi,

e allora c’era un prima con mare

anche se poco e c’era un dopo

senza mare, niente niente.

Solo che capite bene che basta una volta

che ci hai la debolezza di andare al mare

e hai annegato in un attimo fuggente

il tuo bel proposito mai più mare.

Il prima si mescola col dopo,

lo spartiacque non ha retto,

la tua volontà non ha retto,

ti senti un uomo di merda, per di più bagnata,

perchè non hai rispettato la tua decisione,

hai fatto mare, e fosse stato un bel mare.

Magari un mare con spiaggia ingolfata di corpi

e mare pieno di stronzi galleggianti, e tu

per ‘sto mare qui, che c’era il sole coperto,

ci hai messo una vita per arrivarci

e ti multano l’auto, se non che te la portan via,

perdi un sandalo, ti urtica una medusa,

per questo mare qui hai infranto lo spartiacque,

hai affogato il prima e dopo, miserabilmente.

Complimenti, non c’è che dire, dice Mariputèn.

Complimenti, cosa viviamo a fare al mare,

traslochiamo in campagna.

 

 

*

 

Avveniva che per l’ennesima volta

Barabànov e Mariputèn cambiassero casa,

avveniva per l’ennesima volta che Barabànov

trasportasse le cose più inutili da un posto all’altro

senza considerare la possibilità di liberarsene,

approfittare di un trasloco per buttare via delle cose,

cose nel vero senso generico della parola,

se scrivi cose nel tema senza nemmeno leggere il resto

metto due, così alle scuole medie la professoressa pucci

che insegnava a Mariputèn che dice:

la tua stupida memoria si porta dietro

le stesse cose inutili che ti porti dietro tu.

Ti porti un mobile che serve per dispensa?,

no, ti porti uno scatolone di piccole carabattole!,

ti ricordi come si interviene in caso di urgente soccorso?,

no, ti ricordi come si chiama la mia professoressa

di italiano delle medie!,

e chissà cosa ti serve di più adesso

che il mobile è crollato sul corpo

del tuo amico venuto a darci una mano?

Eh, lo schiaccia inesorabilmente, vero? Dice Barabànov.

 

 

*

 

La passione per gli uccelli, gli uccelli

soprattutto quelli con grande apertura alare.

Limpidamente maestosi nel volo.

Le lame, le donne, abitare in campagna.

Una casa alla fine di una strada.

Si avvistano cerbiatti e cinghiali.

E da lì prati e boschi scendono giù

fino alla valle dove scorre il fiume.

I ghiri demoliscono pian piano il tetto.

Molare alcuni preziosi coltelli sì,

ma pistole ad aria compressa?

Barabànov non è il tipo da armi da fuoco.

Per i ghiri, dice. Che male ti fanno,

dice Mariputèn. Eh, il tetto!

I tuoi uccelli del cazzo, ci faranno morire tutti

con la loro influenza del culo!, dice un loro amico

incastrato sotto un mobile. Barabànov a bruciapelo

gli spara colla pistola per i ghiri. Che dire.

Mariputèn si limita a constatare che sia deceduto.

Come? Tagliandogli la gola con una delle preziose lame

affilate di recente. Che bel tramonto si vede da qui!

 

*

 

Barabànov vuole fare a tutti i costi

bumping jumping per eliminare

con l’adrenalina il rimorso di aver lasciato

andare in malora il tetto della casa di campagna

e di aver lasciato andare in malora il suo migliore

amico accorso per l’impegnativo trasloco:

un nuovo impianto inaugura non distante.

Capita che lui sia sempre stato un po’ debole

di stomaco e che mentre pratica il salto elastico

gli venga alla bocca la colazione. L’esito

è un fiotto sulle teste di un comitato d’onore

intento a celebrare qualcuno o qualcosa.

Da quel momento Barabànov indefesso

affronta il problema di chi assiste a un evento

e d’improvviso viene colto da bisogno impellente.

In men che non si dica l’ha bello che risolto:

tutto contento dice che ha inventato un nuovo stadio,

il Popodromo, con diecimila posti a sedere, tutte tazze

con tanto di asse, metri e metri di condutture fognarie.

Mariputèn plaude e pensa di sfruttare l’affare

vendendo rotoli di carta igienica. Barabànov gongola

petando un po’ di cacca nello spartiacque delle sue mutande.

 

 

*

 

Barabànov e Mariputèn hanno rilevato

un negozio di carta igienica,

questa mattina si avviano

al solito orario per aprirlo

e sulla saracinesca leggono il cartello

CHIUSO PER LUTTO,

ma essendone gli unici proprietari,

gli unici gestori, gli unici che ci mettono

piede dentro a dir il vero, essendo gli unici

indiziati ad essere deceduti,

corrono all’obitorio per piangere

il cadavere l’un dell’altra o viceversa,

o mostrar cordoglio per la dipartita di entrambi

prima che la società civile dia loro comunque

degna sepoltura.

 

L’Africa di Ryszard Kapuscinski: intervista alla regista Olga Prud’homme Farges

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© Ryszard Kapuscinski

 

Intervista e traduzione di Giuseppe Schillaci 

 

Nel documentario « L’Afrique vue par Ryszard Kapuscinski », andato in onda il 4 marzo 2015 sul canale franco-tedesco Arte,  la regista Olga Prud’homme Farges raccoglie l’ultima testimonianza dello scrittore polacco prima della sua scomparsa (avvenuta il 23 gennaio 2007). Il film attraversa il continente africano della decolonizzazione, restituendoci un appassionante ritratto di Kapuscinski. Ho incontrato Olga Prud’homme Farges a Parigi, dove vive e lavora come regista e produttrice indipendente di film documentari (http://www.kolam.fr).

 

Come hai avuto l’idea di girare un documentario su Kapuscinski?

Sono d’origine polacca e ho sempre avuto voglia di fare un film su un soggetto polacco. Così, anche se non si tratta di un film sulla Polonia, quello su Kapuscinski è un documentario legato a questa mia necessità. Penso inoltre che lo sguardo sull’Africa di un polacco come Kapuscinski sia ancora più interessante per un pubblico “occidentale”, ovvero legato alle vecchie nazioni colonizzatrici. La Polonia, in effetti, non è mai stata una potenza coloniale; al contrario, è stata essa stessa colonizzata dai Russi e dai Tedeschi, per diversi secoli. Mi è sembrato interessante, dunque, fare un documentario sull’Africa della decolonizzazione dal punto di vista di un europeo, il cui Paese sia stato a sua volta colonizzato. E poi l’incontro coi libri di Kapuscinski è stato determinante; sono stata subito affascinata dalla sua scrittura.

 

Qual è il libro di Kapuscinski che preferisci?

Non posso citare soltanto un libro, perché ciascuno è diverso dall’altro. È questa varietà la forza dello scrittore Kapuscinski. C’è comunque un libro che mi ha molto colpito: “Lo scià”, opera che racconta sotto forma di flash fotografici la caduta dello scià d’Iran, libro molto originale e insolito, che il mio film non menziona perché tiene conto soltanto dei viaggi di Kapuscinski in Africa.

È dunque “Ebano” il libro a cui mi sono più avvicinata per realizzare il film, perché è l’opera che tratta delle “avventure africane” di Kapuscinski. Ma nel mio film chiamo in causa anche altri libri sull’Africa, come “Il Negus” su Hailié Salassié, o ancora “Da una guerra all’altra”, che racconta la sua esperienza nella Guerra d’Angola.

 

Hai scelto di raccontare il Kapuscinski scrittore o il Kapuscinski giornalista?

Non ho davvero potuto distinguere l’uno dall’altro. Se Kapuscinski non fosse stato giornalista, forse sarebbe stato uno scrittore meno interessante. Non ho potuto, né voluto scegliere tra l’uno e l’altro, e questo non è stato facile da accettare per il produttore e per la televisione, che invece amano mettere delle etichette sui loro prodotti. Fortunatamente, le persone che hanno seguito il mio progetto sono persone preparate, che hanno avuto esperienze nel settore dell’editoria e che sono dunque sensibili ai documentari in cui si ha a che fare con scrittori. Ho potuto dunque, con la complicità di Mary Stephen, la montatrice del film che è una grande amante di letteratura, fare un film fedele a Kapuscinski, ovvero a un personaggio  la cui figura di scrittore è imprescindibile da quella di giornalista, e viceversa.

D’altronde, lo scrittore letterario Kapuscinski nasce dalla frustrazione per la scrittura giornalistica, e lo afferma lui stesso nel film, quando dice: “redigevo i dispacci scrupolosamente, perché quello era il mio lavoro. Allo stesso tempo, raccoglievo materiali per i miei futuri libri. Mi rendevo conto che mi trovavo in un posto unico e che, limitandomi soltanto a redigere i miei dispacci, avrei perso una massa formidabile d’informazioni, e anche di strati interi di cultura. La lingua della stampa era troppo povera. Così, annotavo le miei impressioni, le mie osservazioni. Dopo, il tempo m’avrebbe permesso di purificare il testo”.

Dunque questo film racconta anche come sia nato lo scrittore dal giornalista e come la scrittura, la letteratura stessa, sia divenuta, a un certo momento della sua vita, alla fine degli anni Settanta, l’ultimo rifugio contro le disillusioni del reporter di guerra che Kapuscinski era stato.

 

Perché l’Africa? Cosa rappresentava questo continente per lui? 

Ho scelto di limitare il mio film all’Africa perché ho considerato che tutto quello che c’era da raccontare su questo vasto continente era sufficiente per un film di un’ora. Ma poi: sono stata davvero io a fare questa scelta? Nel senso che il mio film è nato da una lunga intervista di otto ore con Kapuscinski, l’ultima prima della sua scomparsa. In queste otto ore, lui ha essenzialmente parlato dell’Africa. Io avevo preparato molte domande sulla caduta dello scià in Iran, per esempio, sulla dissoluzione dell’impero sovietico o ancora sui suoi viaggi in America Latina; ma lui rispondeva in modo lapidario a queste domande e tornava sempre ai suoi ricordi dell’Africa. Perché? Penso che sia stato il posto che l’ha impressionato di più, e oggettivamente è il luogo dove ha passato la maggior parte del tempo e su cui ha scritto di più. Penso dunque che sia il continente col quale Kapuscinski abbia avuto più empatia e risonanza con sé stesso. Come se fosse stato affascinato, soggiogato da quei paesaggi e da quei popoli. Forse s’è fatto ammaliare da qualche “marabù” di una tribù africana, chissà… . Ma c’è anche un’altra ragione per cui ho voluto concentrare il mio film in Africa: perché le persone che non conoscono Kapuscinski possano avvicinarsi, almeno, alla storia africana. La storia dell’Africa, infatti, la si conosce poco o male. Parlo ad esempio della Francia, dove c’è stata e c’è ancora una sorta di amnesia sull’Africa, a causa del nostro passato colonialista.

Da liceale ero appassionata di storia, ma nei miei libri di liceo non c’era nulla sull’Africa; è stato soltanto leggendo i libri di Kapuscinski che ho cominciato a capirne qualcosa. É anche questa scoperta di un continente, attraverso gli occhi di Kapuscinski, che ho voluto coindividere col pubblico del mio film.

Infine, poche persone al mondo hanno vissuto da vicino, e per così tanto tempo, la storia tumultuosa ed eccezionale dell’Africa della de-colonizzazione. Chi altro può dire: “il Ghana di Nkhruma, c’ero; il Congo di Lumuba, c’ero; la Tanzania di Nyerere, c’ero; l’Etiopia di Négus, c’ero; Zanzibar durante il colpo di stato d’Okello, c’ero; il Nigeria, la Repubblica Centraficana, l’Angola, nel 1975… “. Kapuscinski è stato dappertutto, ovunque accadesse qualcosa; è stato  dappertutto perché era un rompiscatole, e anche per una semplice ragione: la Polonia era un Paese povero, e quindi non aveva i mezzi di mandare diversi inviati in ognuno di quei Paesi, e inviava sempre lo stesso, Kapuscinski appunto, che doveva coprire tutti i diversi conflitti. E così soltanto Kapuscinski ha potuto avere una visione d’insieme di un intero continente in tumulto; è stato lui il filo conduttore del mio film sulla decolonizzazione africana, un po’ come un attore che ci porta dentro una storia.

 

Un ricordo delle riprese con Kapuscinski.

Abbiamo girato a sessioni di due ore ciascuna, al mattino, per una settimana, nel suo studio all’ultimo piano di un piccolo palazzo di Varsavia. Il suo studio mi faceva pensare alla grotta di un orso, un “orso intellettuale” con libri dappertutto, ai muri, sulle menzole, sui tavoli… dappertutto.

 

Che cosa hai capito della figura di Kapuscinski facendo questo film?

Il mio incontro con Kapuscinski e le otto ore d’intervista che ci ha concesso mi hanno confermato l’idea che mi ero fatta di lui leggendo i suoi libri: un uomo dolce, raffinato, posato, che crede solo a ciò che vede, che rispetta gli antichi, come Erodoto, suo « maitre à penser », che ama condividere, trasmettere il sapere, e che ha anche senso dell’umorismo, perché ci vuole un certo spirito per attraversare quei luoghi di conflitto e non restarne distrutti emotivamente.

 

Hai inserito al montaggio delle immagini di animali e di insetti come metafora di alcuni comportamenti umani legati al potere, in riferimento alla storia dell’Africa post-coloniale: una scelta originale e potente.  É un’idea che viene dalla lettura di Kapuscinski?

L’idea m’è venuta dalla lettura d’un passaggio di “Ebano”, nel quale Kapuscinski descrive minuziosamente, nel corso di tre pagine, l’attacco d’un geco a una zanzara. Kapuscinski racconta che si trova in un paese sperduto dell’Africa nera, in un hotel desolato, allungato sul suo letto, e assiste a uno spettacolo spietato. L’autore descrive la strategia del geco che gira intorno alla zanzara, facendo dei giri sempre più stretti, fino a catturarla e divorarla. Quando ho letto questo passaggio, ho avuto l’impressione che si trattasse della strategia criminale di un qualsiasi dirigente africano che voglia eliminare il suo oppositore. Leggendo questo passaggio, che è molto visivo, quasi cinematografico, mi sono detta che serviva una scena come questa al mio film. Pensavo di trovare facilmente immagini di questo tipo, nei vari archivi o persino su youtube, ho cercato a lungo ma non ho trovato nulla di buono, allora ho deciso di girarla ex-novo. Ho cercato uno zoo tropicale a Parigi, sono andata in questa grande serra tropicale in piena città e ho girato diversi insetti e animali; alla fine, nel film, è presente una lucertola che mangia una larva, ma anche un camaleonte, che evoca Kenyatta, e un coccodrillo per Amin Dada.

 

Qual è il personaggio africano presente nel film che ti ha colpito di più?

Ho cercato di trattare tutti gli uomini politici più o meno allo stesso modo. Alla fine, è forse l’uomo della strada, il passante, lo sconosciuto Masai o Peul che mi ha colpito di più.

La gente di campagna cammina con la schiena dritta, ti guarda negli occhi; è nobile, restando comunque semplice, qualità molto rara. Ho voluto mostrare diverse fotografie, sempre in bianco e nero, che Kapuscinski ha fatto durante i suoi viaggi, perché nelle sue immagini si vede bene questo insieme di nobiltà e semplicità della gente comune.

 

Gli archivi sono molto belli. Come ci hai lavorato?

La ricerca d’archivi è stata lunga e appassionante. Innanzitutto, c’erano le fotografie di Kapuscinski che lui stesso mi aveva affidato, una settimana prima delle riprese: centinaia di contatti e negativi. Ho fatto una selezione e ho utilizzato queste immagini per evocare i ricordi personali di Kapuscinski.

Per esempio, c’è un’immagine di Carlotta, questa bella donna angolese, una soldatessa, morta un’ora dopo che la fotografia fosse stata scattata. Siccome Kapuscinski aveva parlato di questa sua fotografia in uno dei suoi libri; sapevo che mostrandogli questa immagine si sarebbe emozionato e mi avrebbe raccontato la storia di Carlotta. E poi ci sono tutti gli archivi storici, a seconda del soggetto trattato (Nkrumah, Lumuba, l’elezione di Nyerere…). Ho visionato diversi archivi; spesso sapevo già quale estratto dei libri di Kapuscinski volessi illustrare.

E poi volevo assolutamente cercare degli archivi in Polonia. Così sono partita per vedere ciò che restava sul periodo africano tra il 1950 e il 1980 alla Cineteca di Varsavia. Non c’era molta scelta, ma tutti gli archivi erano esteticamente belli. Mi sono detta che, in ogni modo, lo sguardo di un operatore polacco sarebbe potuto esser simile a quello di Kapuscinski: uno sguardo polacco, con la grana particolare della pellicola d’epoca. Quindi, per completare le mie ricerche d’archivio, ho cercato anche nei fondi amatoriali, alla Cineteca di Bretagna, perché cercavo immagini di persone che osservavano in modo non ufficiale quello che stava succedendo in Africa; e ho trovato delle sequenze molto interessanti, filmate da francesi che abitavano in Africa e che avevano uno sguardo « quasi neutro », senza una funzione precisa, un po’ come quello di Kapuscinski.

 

Quale sarà la vita di questo film? Possiamo vederlo in Italia?

Non so ancora. Il produttore delegato del film detiene i diritti delle vendite all’estero. Spero proponga il documentario alla televisione italiana perché so che, stranamente, Kapuscinski è più conosciuto e letto in Italia che in Francia. Ho anche il progetto di pubblicare il film con alcuni testi, in DVD. Forse questa versione potrebbe interessare Feltrinelli, l’editore italiano di Kapuscinski. Ecco, magari questa intervista raggiunge qualche interlocutore italiano interessato al film e alla promozione dell’opera di un autore unico e prezioso come Ryszard Kapuscinski.

 

MONICA GIORGI Tennis, studio e anarchia

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Monica-Giorgi

 

di Nadia Agustoni

Gli anni 70 lo sport la politica.

Intervista a Monica Giorgi

Perché parlare di anni 70, sport e politica? Cosa hanno in comune queste tre parole? All’apparenza nulla, ma negli anni 90 durante i bombardamenti sulla Serbia le stelle dello sport di quel paese, in quel momento impegnate in Italia, ci hanno ricordato che nessuno vive su un pianeta così isolato e fortunato da rimanere immune dalla vita, dagli eventi, dalla storia. La memoria va anche ad altri avvenimenti, dal pugno alzato dagli atleti neri alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968, alle lontane olimpiadi di Berlino nel 1936, quando Hitler lasciò lo stadio per non stringere la mano a Jesse Owens. Tornando al tema cui accennavo, dico subito, che da tanto pensavo di condividere con Monica Giorgi, tennista, anarchica, femminista, scrittrice, alcune riflessioni. Ne è mancata l’occasione dal vivo per ora, ma questa intervista è un primo approccio a un possibile scambio di idee. In passato ci siamo già confrontate, da punti distanti. In comune abbiamo l’amore per il tennis, l’anarchia, il femminismo, la parola. Partiamo da qualcosa di simile per approdare a mondi diversi. Le mie domande tuttavia, non vertono sulla diversità del nostro cammino. Sono domande rivolte a Monica Giorgi perché ci racconti qualcosa del suo percorso che ritengo sia interessante.


 

N.A. A questa conversazione ho pensato a lungo. Ogni volta avevo troppe domande da farti, ma nessuna molto chiara. Prevaleva la voglia di parlare a ruota libera, di chiederti mille cose. Ad esempio mi incuriosisce la tua carriera di tennista, con risultati ragguardevoli e sul lato opposto, ammesso però sia opposto, il tuo impegno politico e poi i tuoi studi su Simone Weil e Clarice Lispector, il femminismo e molto altro.

 

M.G. Sì, tennis e studio appaiono due versanti opposti, ma in pratica non sono stati inconciliabili. Quasi distrattamente li ho vissuti come il riflesso di un di più. L’esercizio dell’uno migliorava la prestazione dell’altro. Tennis e studio, che considero molto vicini all’impegno politico e in rapporto all’esserci-starci nel mondo, mi hanno aiutato molto nella vita, materialmente e spiritualmente. Cura del corpo e cura dell’anima mi si sono rivelate esigenze imprescindibili per dare senso alla mia vita e, al contempo, ordinarlo nelle contingenze dell’esistenza, anche se l’una e l’altra le ho praticate con una certa discontinuità per tempo dedicato. Tempo però che non ho mai mancato di prestare ad entrambe. Ancor oggi, sulla soglia dei 70 anni, sento la necessità di fare esercizio fisico per rifocillarmi dalla fatica mentale e per ricompormi, con l’attenzione riservata agli studi, nell’equilibrio del corpo. Non vorrei dare un’impressione sbagliata, di misurare cioè la cosa con il bilancino per programmarla sistematicamente. Mi ci abbandono, quando ne sento il bisogno, lo assecondo…
 
Sono diventata una tennista professionista per caso fortuito e per necessità materiale. Mio padre era uno sportivo di passione; praticava il tennis, il canottaggio, il calcio, amava la pesca; non poteva non trasmettere la sua passione alle figlie, prima alle maggiori e poi a me anche tramite loro. Ho avuto così la fortuna di ereditare una passione alla terza potenza. Poi alla passione si sono aggiunte la voglia di competere e il bisogno di misurarmi. Subentrò di conseguenza una certa professionalità riconosciuta dalla Federazione, dagli sponsor di allora, per i successi nei tornei, nei campionati. Figurati! il tenore dei ricavi si basava sul risparmio dai rimborsi spese, sulla generosità di qualche magnate con la passione per il tennis, sulla rivendita di racchette avute in omaggio… Quel che conta, però, è che il tennis mi ha permesso di mantenermi agli studi, aiutare mia madre e di sopravvivere divertendomi. Ho viaggiato in quasi tutto il mondo, ho visitato luoghi lontani, conosciuto persone “di tutte le razze” – come si dice in livornese quando si vuole esaltare benevolmente le differenze umane di ogni sorta – con cui mi sono confrontata e che mi hanno arricchito più, dico io, di un contratto da 100 milioni di dollari. Mi sono arrangiata con il tennis e con il tennis ho preso la vita con filosofia… alla lettera.

 

N.A. Allora parto dalla fine, dal tuo libro su Simone Weil La clown di Dio, uscito per Zero in Condotta l’anno scorso. Le avevi già dedicato un dossier apparso con A rivista anarchica, ed ora questo lavoro. Ne ho tratto l’impressione che ti interessi molto di Weil l’approccio alla religione, una spiritualità la sua ancorata alla vita reale e nello stesso tempo capace di riflettere su Dio libera da costrizioni. Parliamo di una donna che stava tra gli operai, tra gli scioperanti, tra gli anarchici nella guerra di Spagna del 1936, ma che solo pochi anni prima aveva insegnato filosofia a giovani studentesse prendendole molto sul serio, impartendo loro lezioni di una qualità invidiabile. Un’intellettuale che non sottovalutava nulla e nessuno. Tu sottolinei il suo essere ironica, scherzosa anche, da lì credo il titolo che hai scelto. Vuoi dire qualcosa?

 

M.G. La clown di dio! È la sortita di un’amica, un’imprevedibile esclamazione uscita per bocca di lei durante le nostre appassionate e coinvolgenti discussioni su Simone Weil. Ho detto su, ma in fondo sento di dir meglio, con Simone Weil Non ho scelto il titolo, è il titolo che mi ha scelta, perché quell’espressione mi fece sonoramente scoppiare a ridere. Era qualcosa di vero, dunque. “È troppo bella – incalzai – bisogna scriverne”. E così mi presi la briga di farlo, sentii la cosa come un obbligo, man mano che la scrittura procedeva.
“Intellettuale” mi sembra un termine riduttivo nel definire Simone Weil Come tu accenni, è certo un’intellettuale sui generis, e direi piuttosto un’intellettuale-outsider, una filosofa straordinaria che della filosofia fa “cosa esclusivamente in atto e in pratica”, come si legge nei Quaderni.
Detto altrimenti, è a partire dall’esperienza concreta che lei realizza pensiero teorico.
“Se non avessi fatto quelle cose, non potrei dire queste cose”, precisa Simone a chi le rimproverava quelle particolari stranezze, o idiosincrasie che generalmente sono ritenute ininfluenti, se non addirittura ingombranti, per lo status di filosofa da accademia, all’importanza, alla bellezza e alla profondità dei suoi pensieri e dei suoi scritti che viene riconosciuta dagli stessi contemporanei secondo i quali lei “chiedeva la luna”.
 
Fisiognomica della grazia è il capitoletto attraverso cui ho cercato di trascrivere l’ironia e la scherzosità della sua figura, un po’ imbranata e al contempo divertita (basta osservare alcune istantanee, come quelle che la ritraggono miliziana nella colonna Durruti), accostandole alla mente divina di cui lei era, anzi si rivela, mediazione vivente.
Sì, come tu sottolinei, del pensiero di Simone Weil mi intriga la dimensione religiosa, non schiacciata in nessuna delle chiese istituite, totalitarie secondo il regime dogmatico dell’ “anathema sit”.
Una nota dei Quaderni e una lettera al fratello, per quel che ne so, riconoscono alla vena mistica, che è data scorgere in seno ad ogni religione positiva e rivelata, (la mistica è sempre stata guardata con sospetto dai poteri istituzionali, quando non atrocemente e criminalmente perseguitata come eresia), l’essenza stessa del discorso religioso inteso alla lettera, ossia come religio, cosa che raccoglie, riunisce in ordine simbolico, le differenti espressioni dell’umana dimensione: spirituale e materiale, reale e soprannaturale a partire, uscire da sé, senza delega di rappresentazione. Insomma qualcosa ben oltre la tolleranza e ben al di qua dei regimi di verità assoluta, qualcosa d’altro che non si risolve nel dialogo interreligioso, ma mira alla ricerca e all’espressione di un linguaggio in cui possa riconoscersi ogni fede, compresa l’atea.
 
In realtà, proprio per me atea, nutrita o, per meglio dire alla luce odierna, malnutrita nel e dal linguaggio materialistico della seconda metà del secolo scorso, che è anche fine millennio, tutto ciò che era in sentore di chiesa e di religione veniva considerato qualcosa di cui sbarazzarsi per essere “politicamente corretti”…Eppure è stata proprio la reticenza verso la religione che mi ha spinto a comprendere ciò che non mi tornava leggendo S.W…
 
Sai?, la famosa asserzione marxiana ”la religione è l’oppio dei popoli” la ritrovai capovolta in quel capolavoro, per senso realistico e aspirazione ad altro, che è Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale. Il termine rivoluzione – si legge – così vago ed abusato, così privo di riflessione che chiunque può metterci il significato che più gli aggrada, spinge l’autrice, nel più ampio contesto di analisi critica del materialismo storico, assunto nel linguaggio marxista leninista quale dottrina in grado di spiegare ogni cosa, e non semplicemente un metodo di indagine sulla realtà politico-sociale, la conduce, dicevo, a proseguire il discorso affermando ”…non la religione, ma la rivoluzione è l’oppio dei popoli”. Ecco, questo è stato un passaggio cruciale nello studio appassionato e per il riconoscimento di autorità che riservo agli scritti di vita e di pensiero lasciatici da questa favolosa filosofa.
 
E ciò che non mi tornava è divenuto il punto di leva per sollevare lo sguardo “anarchico”, senza cancellarne la potenza ideale, in una prospettiva altra, non ristretta, per esempio, al principio sloganistico Né Dio né Stato. Da che dio si è parlati quando non se ne vuol neppure sentir parlare? Quale stato ingombra la mente quando essa non riesce a prescinderne sviluppando ragionamenti contro lo stato?
Non sono domande retoriche, sono domande che sto ponendo anche a me stessa, domande che necessitano risposta sollecitando altre domande.
Sfumature anarchiche in Simone Weil, il dossier pubblicato con A, Rivista anarchica è stato il testo di un pretesto, il bisogno cioè di ri-leggere la tradizione del pensiero anarchico alla luce del corpo testuale di una filosofa donna, che procede non per dimostrare la validità ideologica di un’opinione, ma per ricercare e ripensare, senza rete di salvataggio, un pur minimo precipitato di verità inaudita.

 

N.A. I progetti di Weil, dal lavoro in fabbrica al viaggio in Germania all’avvento di Hitler, fino alla Spagna della guerra civile, hanno dato esiti di pensiero su cui riflettiamo ancora oggi. Tu metti in evidenza il suo dare corpo, dall’esilio londinese, all’idea di una squadra di infermiere ausiliarie addestrate per andare in prima linea a prestare soccorso a tutti i feriti. De Gaulle neanche volle prenderlo in considerazione. Forse vi traspare un fastidioso senso di onnipotenza femminile e in più quel battersi contro il male si, ma vedere anche altre efferatezze. Alla fine le donne fecero molto per la resistenza e in tante combatterono e finirono nei campi di concentramento. Strategie sempre diverse; scelte che poi dopo la guerra sono confluite in percorsi anche originali, ma quasi sempre marginali. Devo dire comunque, dopo aver ripreso la lettura di Don Lorenzo Milani e per esperienza, che proprio la marginalità consente la libertà maggiore e dei buoni risultati.

 

M.G. L’agire in marginalità può sortire un senso di libertà più intenso di quello che è forse avvertibile quando si è costretti ad agire sulla scia di un sistema già detto e già visto, autoreferente. I “buoni” risultati, l’efficacia dell’azione per quanto di “nuovo” e di inaspettato mette al mondo procedono, secondo la lezione weiliana che sento di poter cogliere, dalla traversia di bilanciarsi in contesto avendo presente necessità e libertà. Sia per l’impegno politico e sindacale – che non poteva esprimersi se non con l’esperienza diretta del lavoro in fabbrica, condividendo cioè, accanto agli operai, la condizione di esistenza di chi lavora(va) alla catena di montaggio -; sia per l’adesione alla guerra civile in Spagna, Simone Weil ha esplicitamente dichiarato di voler stare nei “ranghi, nelle retrovie”, rifiutando categoricamente qualsiasi posto di prestigio, di alto grado gerarchico. La marginalità in Simone Weil è declinata nella forza dell’umiltà per amore del mondo e, senza dubbio, non si profila con tratti di irresponsabilità in fatto di impegno e radicalità di pensiero. Piuttosto che di marginalità fuori contesto, (lei ha vissuto i tempi del periodo prebellico e nel culmine della seconda guerra mondiale con tale intensità di partecipazione per cui Nadia Fusini l’ha nominata “La guerriera”), parlerei di audacia che affronta il male terreno non con la presunzione di portare il bene perché si ritiene esente dal male; la leggo in una sorta di forza della fragilità lo attraversa in pieno, proprio come “il peggior male” che rimanda, in controsenso, “ il bene più grande”. Il progetto di una formazione di infermiere di prima linea, per il quale si prese della pazza da De Gaulle, intende spiazzare lo sguardo, con la semplice persistenza di un qualche servizio di umanità nel punto culminante della ferocia, dalla scena della forza eroica, militarista e militarizzata. Quella delle armi che decretano: “Morte tua, vita mia”.
 
Lei si sentiva in un esilio insopportabile quando si trovava in America – aveva dovuto mettere in salvo i genitori in seguito all’occupazione nazista di Parigi e all’instaurazione del governo di Vichy, affrontando un viaggio che l’avrebbe tenuta lontana dalla Francia, dal “territorio del diavolo” che era anche il luogo vivo della resistenza e della lotta. All’amico e compagno di studi Maurice Schumann, esponente di alto grado nei quadri di France Libre a Londra, diretto collaboratore di De Gaulle, scrisse una lettera in cui si raccomandava di non lasciarla morire di dolore, e di consentirle almeno di raggiungere Londra. Cosa che ottenne (fu impiegata come redattrice negli uffici dell’interno di France Libre) ma che non le bastava. Da lì infatti sperava e chiese ripetutamente di essere mandata in Francia per un’azione di sabotaggio… sabotaggio d’amore, è proprio il caso di dire. In poche parole si sentiva in esilio, sradicata, per usare un termine a lei caro, quando era fuori dal contesto dove le cose del mondo bisognava affrontarle davvero, senza vie di mezzo, dove l’obbedienza al tempo che è dato vivere non rimandava ad altro momento la necessità di agire, ora e qui.
 
L’onnipotenza femminile, che tu avverti fastidiosa, forse è la stessa avvertita dai suoi diretti superiori: -Butti fuori tutto, la invitava Closon, poi avrà il tempo di pensare alle cose serie-. Quali fossero per lui le cose serie, non lo dice… si possono supporre serie quelle cose utili per decidere le cariche di potere da assumere nella fase costituente e nell’ambito istituzionale del periodo postbellico?… Se si pensa che l’attualità di Simone Weil, testimoniata oggi dal rigoglioso fiorire di studi, di scoperte e di riscoperte, di riedizioni o editi ex novo delle sue carte è “profeticamente” rilevata proprio in quelle cose “da buttar fuori” che sono Gli scritti di Londra appunto, tra i quali emerge il testo che Camus volle pubblicare nella collana ”Espoir” di Gallimard, La prima radice (in essa sono presi in considerazione i bisogni dell’anima e gli obblighi verso gli esseri umani, non gli interessi di supremazia economico-militare degli stati vincitori), allora “la fastidiosa onnipotenza femminile” ha le sue ragion d’essere nel conflitto simbolico dei sessi, malcelato in più uomini che in donne sotto il velo ipocrita del normale buon senso e del sano realismo della ragion di stato. Ragion di stato per l’affermazione della quale, più uomini che donne, hanno rimosso quel poco-tanto di vero, di bene e di giusto che è pur sempre alla portata umana.

 

N.A. Il tuo rapporto con la scrittura quanto è implicato col pensiero della differenza di cui ti senti parte?

 

M.G. Molto, per un motivo a due punte. Essermi avvicinata a questo pensiero frequentando donne che lo andavano esprimendo al tempo in cui vivevo la scrittura, se scrivevo, ricercando la coincidenza con idee già date, nel mio caso quelle anarchiche, mi ha fatto fare un salto politico e simbolico da dove mi trovavo, avvinta da quella considerazione sulla scrittura. Mi sono resa conto di praticarla in uno stato di finzione; quella convinzione sulla scrittura non era e non esprime un pensiero pensante, ma si dimostra un esercizio utile, nel migliore dei casi, ad esprimere opinioni, a confermare e/o criticare ideologicamente, cioè pensare e scrivere per refutare, dato che la soluzione è già posta in partenza. L’altra punta di implicazione tra scrittura e pensiero della differenza è un interminabile lavorio di scambio tra il pensiero teso a dar voce al libero senso della differenza sessuale e la ricerca di parole autentiche. È un lavoro di scrittura senza fine, non una ricerca tecnica buona per tutte le occasioni. Scrittura dunque in quanto pratica di sé a prescindere da sé, scrittura che, per una sorta di imperfetto rimando analogico, non ha da essere se non poetante…

 

N.A. Cosa significa per te un’altra figura di scrittrice, Clarice Lispector, su cui hai fatto la tesi?

 

M.G. Clarice Lispector ebbe a dire: “…letteratura è detestabile, è fuori dall’atto di scrivere…”. Questa citazione precisa quanto ho cercato di dire maldestramente prima; l’ho posta all’inizio della mia tesi, come una specie di dedica. A chi? Alla scrittura, beninteso.
Ebbi la fortuna di leggere intorno alla seconda metà degli anni 80 L’ora della stella. Mi commosse, nel senso letterale dell’espressione. Mi toccò, mi stupì e ne piansi; mi sentii radicata in qualcosa di così vero a cui non sapevo dare nome.
Lessi poi La passione secondo G.H.. Non trovai nulla di quanto solitamente mi aspettavo dalla lettura di un romanzo: lo svolgimento cronologico di una trama schematizzata secondo il genere, l’unità di tempo, di luogo, di azione, l’opinione moralistica dell’autore verso i comportamenti dei personaggi, la risoluzione del plot narrativo, una conclusione, ecc.ecc. Niente di tutto ciò, scoprii invece una scrittura epifanica. Capii poco o nulla di quello che lì era scritto. Ma c’era scritto quello che non capivo, quello che l’ego non capisce e per cui vale la pena continuare a starci sulle pagine scritte. C’era scritto qualcosa di estremamente prezioso. L’ho continuato a leggere come un “vademecum” senza precetti: un “vade cum altero” di una storia d’amore senza fine.

 

N.A. Monica tu ti dici ancora anarchica. Il pensiero anarchico è spesso travisato, ma ci sono di fatto varie correnti e tanti “cani sciolti”, come dicevamo un tempo. Negli anni 70 il tuo impegno politico era in campo libertario e non violento prima ancora che femminista. Ne parleresti spiegando come lo conciliavi con lo sport che praticavi?

 

M.G. L’impegno politico è scaturito dai tempi in cui mi è stato dato di vivere. La criminalizzazione tout-court degli anarchici riguardo ai tragici eventi del 12 dicembre 1969 mi spinse, sull’onda di una controinformazione che metteva a nudo evidenze sconcertanti e inoppugnabili verità di fatto (l’assassinio-suicidio del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli), per essere considerata una strage di stato, a conoscere di persona anarchici e anarchiche e a frequentare i luoghi di discussione e di lotta del movimento.
I l “mio” ’68, però, è stato il ’77 e del femminismo mi prese non tanto la vena emancipazionista dell’uguaglianza con gli uomini, bensì l’anima della libertà femminile che affermava: il privato è politico. Fu un’asserzione dirompente da cui prese origine il femminismo italiano della differenza. Come ho cercato di spiegare all’inizio di questa nostra conversazione, non mi ponevo il problema di essere in sintonia tra un ambito e l’altro; sport e impegno politico.

 

N.A. Come altri volevi un mondo migliore, ma ci fu quella vicenda del carcere e ti ha cambiato immagino.

M.G. Non c’è stato nessun rinnegamento in seguito alla ⇨ vicenda del carcere. Le istituzioni totali, carcere compreso, sono state l’ambito in cui il mio impegno politico si è manifestato intensamente negli anni 70. Da Niente più sbarre – il collettivo che si era costituito a Livorno per denunciare, diciamo eufemisticamente, i soprusi e le violenze subite dai detenuti, molti dei quali erano o si definivano detenuti politici – l’esperienza si prolungò con l’andare dietro le sbarre. Da quell’esperienza ho imparato molto. Nel bene e nel male come ogni esperienza anche quella mi ha dato qualcosa in più e qualcosa in meno di quanto l’immaginazione un po’ esaltata mi aveva lasciato credere, con le implicite aspettative fantasmatiche, appunto. Nessun pentimento, credimi. Il guadagno ricavato da quella vicenda lo esprimo in questi termini: il mondo non cambia se non cambia il proprio rapporto con il mondo.

 

N.A. In Sud Africa durante un torneo scendesti in campo con una maglietta particolare: piedi bianchi e neri sovrapposti come di due che facessero l’amore. La reazione del pubblico fu negativa e così ci fu una protesta della federazione sudafricana con conseguenze al ritorno in Italia. Ma vorrei chiederti visto che erano presenti campioni come Arthur Ashe e Evonne Goolagong se puoi dirci come venivano trattati loro e se pur essendo ammessi al torneo erano però isolati o invece no. Hai avuto l’impressione di essere stata la sola ad essere infastidita da quel pensate clima di segregazione?

 

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M.G.Evonne Goolagong era la numero uno e Arthur Ashe tra i primi tre del mondo e su questo riscontro gli altri giocatori li rispettavano e su questo dato di fatto erano conformemente trattati dagli organizzatori di ogni torneo a cui loro partecipavano, qualunque fosse il paese dove la competizione si svolgeva.
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All’open di Johannesburg fu Arthur Ashe a rifiutare l’invito della Federazione sudafricana per protesta contro il regime razzista del paese. La Goolagong, in quanto componente della squadra australiana, si limitò a giocare la Federation’s Cup che si svolse la settimana successiva al torneo. Non posso dire diversamente per quanto era dato vedere in ambito pubblico; ma vai a sapere cosa passava nel privato…
 
5849Il pesante clima di segregazione lo riscontrai nelle strade e nell’ambiente familiare delle abitazioni dove le giocatrici, me compresa, erano ospiti gradite e ambite; lo riconobbi dalle scritte che stigmatizzavano l’uso dei gabinetti per bianchi e neri; nella proibizione per la gente di colore di salire sui mezzi pubblici a disposizione dei soli bianchi; nel divieto assoluto per un essere umano dalla pelle nera di trascorrere la notte sotto lo stesso tetto di un essere umano dalla pelle bianca; dal modo di trattare i domestici neri tutto-fare-sempre-obbedire-niente-parlare nelle case dei ricchi.
 
apartheidLa storia della maglietta la pensai e me la preparai prima di partire. Sapevo che il centrale di Johannesburg aveva un settore degli spalti riservato ai Black Peoples, una vera e propria gabbia con tanto di recinto e mi promisi di presentarmi con il messaggio d’amore dipinto in bianco e nero sulla maglietta. Il caso volle che per sorteggio la squadra italiana di Federation’s Cup dovesse incontrare al primo turno quella australiana e con ciò l’assegnazione del campo centrale per la disputa degli incontri. Non mi lasciai certo sfuggire la fortunata coincidenza di poter indossare la maglietta e rivolgere direttamente con un saluto al pubblico del settore black, prima di iniziare l’incontro con la giocatrice aborigena che, per forza o per amore, si accingeva a giocare nel Sudafrica dell’apartheid.
 
Non so precisarti se la contenuta esclamazione di un Oh! che percepii da tutto il pubblico avesse avuto un timbro di disappunto, mi sembrò di meraviglia. Ma quello che mi rimprovero, e a cui allora non pensai neppure, è che forse avevo messo in imbarazzo proprio quelle persone a “favore” delle quali stavo manifestando. Ma la cosa è andata così e se così è andata è così che doveva andare, con tutti i ma, i se e le relative conseguenze, anche quelle disciplinari.

 

N.A. Nel 2012 ha fatto parlare di sé una giovane tennista Laura Robson, indossando agli Australian Open un nastrino tra i capelli dei colori dell’arcobaleno in solidarietà gay friendly. Eppure si ha l’impressione che ormai prevalga sempre lo spettacolo. Grandi rischi in quel circuito privilegiato non sembra ne corra nessuno.

 

M.G. Si, l’impressione che hai l’ho riscontrata anch’io ai miei tempi. Difficile uscire dal proprio tornaconto… Mi viene in mente la scelta opportunistica dei dirigenti e dei giocatori italiani a disputare e vincere – per la prima e finora unica volta – la finale di Coppa Davis in Cile (qualificatosi perché la squadra australiana o quella statunitense, non ricordo, si era ritirata dalla semifinale per protesta), proprio all’indomani dell’uccisone di Allende per mano dei generali golpisti capeggiati da Pinochet. Ma come tu stessa riporti non mancano mai del tutto, anche all’interno del più assodato ambiente conformista esempi di rottura, di crepature che lo rimettono in discussione. Poi vai a sapere quando il cuore è puro? Forse nell’amore che non ci corrisponde, in quell’amore che sbrigativamente diciamo illecito…

 

N.A. Viaggiavi, vedevi il mondo, partecipavi ai grandi tornei dello Slam ma come vivevi quell’ambiente? Era diverso da come appare oggi o in germe c’era già questa competitività sfrenata? A volte ha avuto risvolti tremendi; penso al caso delle tenniste bambine, Andrea Jager e Jennifer Capriati e poi al caso di Monica Seles. Ecco la Seles per esempio ha saputo riprendere in mano la sua vita e reagire anche alla paura del dopo attentato. Le ci è voluto tempo. Andrea invece si è fatta suora dopo avere raccontato le violenze del padre che quando non vinceva la riempiva di botte. Nè le donne sono state le sole a subire coercizioni; Andre Agassi non ebbe un buon rapporto col padre padrone.

 

M.G. Lo vivevo con una certa estraneità: per esempio non ho mai partecipato alle feste di gala di Wimblendon o alle ufficialità di qualsiasi altro torneo; me la svignavo sempre con qualche scusa. Vedi il mio difetto di essere un po’ orsa, lupa nella steppa, è anche la mia idiosincrasia: non sentirmi mai del tutto a mio agio negli ambienti sociali rappresentativi, anche in quelli connotati con un’etichetta politica. Sono anarchica per natura prima di esserlo per appartenenza ideale. L’ambiente del tennis era per me il campo da tennis. Non mi sono mancate tuttavia le amicizie; per esempio quella con Lea Pericoli, impensabile se si tiene conto delle diversità di carattere, di storie personali, di ambizioni, di percezioni della realtà che intercorrono tra noi due, ma è proprio lì, nella diversità che può nascere l’amicizia, lì dove non te l’aspetti…
 
m giorgi
Il tennis, come ti ho detto, mi è stato trasmesso dalla passione che mio padre aveva per lo sport. Considerava lo sport una scuola per imparare ad accettare nella vita le dure sconfitte più che a raggiungere facili vittorie. Ricordo il suo ammonimento: non importa se perdi, l’importante è che tu abbia giocato bene e abbia dato fino in fondo tutto quello che potevi. Insomma, mi insegnava ad essere generosa. Sicuramente gli devo la convinzione che il guadagno sta già nella spesa.
Lo so che i rapporti con il proprio padre e la propria madre sortiscono nei figli e nelle figlie reazioni e recriminazioni del tutto singolari, ma mi sembra ingiusto riconoscere soltanto la parte dolorosa e di duro sacrificio di un’esperienza, sentirsi vittime pur avendo raggiunto successi che consentono evidenti privilegi.
 
L’incremento odierno della competitività nel circuito tennistico, imparagonabile all’agonismo dilettante che si viveva ai miei tempi, credo sia dovuta ad un incremento direttamente proporzionale all’espansione mediatica, pubblicitaria, in definitiva al giro d’affari, di denaro e di potere che ruota intorno allo sport in genere e al tennis in particolare. Non ho il polso per valutare dal di dentro cos’altro passi in altri termini.

 

N.A. Tra le campionesse in campo avevi un modello? E chi hai ammirato di più nel tempo? Gianni Clerici parla di te come di un’indimenticabile attaccante.
 

M.G. Maria Esterita Bueno, la campionessa brasiliana che, fin dagli anni ’50, impresse al tennis non solo femminile ma anche maschile, il serve and volley.
Per la determinazione e la forza di non cedere fino all’ultimo punto, Lea Pericoli.
Mi difendevo dal pesante, soprattutto per me che ero mingherlina, gioco da fondo campo, attaccando a rete. Cercavo di rubare il tempo all’avversaria, di romperle il ritmo, sfruttavo la mia velocità di corsa e di slancio, unita all’effetto sorpresa: le avversarie non si aspettavano tanto ardimento. Insomma, potrei parafrasare con una sortita mutuata dalla mistica: “dov’era il mio meno, nacque il mio meglio”…

 

N.A. Cosa ti fa impugnare ancora la racchetta? E se posso chiederlo così, in coda, non soffri mai di nostalgia?

 

M.G. Il piacere di giocare, se la mia provata schiena me lo permette. No, non soffro di nostalgia colma di rimpianto. Ma di nostalgia felice sì, ne godo ancora.


 

Un approccio laterale alla scrittura: Intervista con Letizia Muratori

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muratoria cura di Kate Willman

I vari romanzi e racconti di Letizia Muratori assomigliano a una costellazione di idee, a dei frammenti che formano un insieme; nell’intervista che segue, lei stessa ha rivelato che sono «come altri capitoli dello stesso libro». Un libro che ha come fil rouge l’esplorazione delle relazioni con gli altri, specialmente in famiglia, ma anche un approccio stilistico che dimostra quello che Wu Ming 1 ha chiamato nel suo memorandum sul New Italian Epic «sovversione nascosta di linguaggio e stile». Per questa ragione il testo della Muratori La vita in comune (2007) fa parte della nebula del New Italian Epic, e la Muratori appare come una rara voce femminile tra i tanti uomini nel corpus fortemente maschile del fenomeno.

chi dice che è morto, mente!

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di Tina Nastasi
Magritte per Galeano
(Eduardo Hughes Galeano: Montevideo, 3 settembre 1940 – Montevideo, 13 aprile 2015, un grande uruguayano)

E i giorni si misero in cammino.
E loro, i giorni, ci fecero.
E così fummo nati noi,
i figli dei giorni,
gli indagatori,
i cercatori della vita.
(la Genesi, secondo i Maya)

Sta ancora leggendo le sue storie ad alta voce. Lo sentite o non lo sentite?

Musica delle sfere

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di Sergio Pasquandrea

Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco. (Charles Mingus)

Il gran sacerdote del bebop?

Ditele l’assenza

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di Mariasole Ariot

Ditele che il giorno ha smesso di parlare, ditele che quando lo scorrere del tempo si inarca la vita diventa processione, ditele che un bambino urla, ditele che la conta delle ore non fa testo, ditele che la testa è piena, ditele che le uova non hanno cornice, ditele che l’insonnia è un’armatura per restare, ditele che la parola si misura in grammi e non in metri, ditele che la soglia è tutto questo vedere, ditele che il pianto non veste un cranio, ditele che la ruggine accade sull’umano, ditele che ho mani di caduta, ditele che quando il tempo non si piega la vita è un artificio, ditele che urlo, ditele che l’adulto ha mangiato il suo silenzio, ditele che piove, ditele che resto se restate, ditele che un albero blu se è stanco non reagisce, ditele d’ingiallire, ditele il vischio della pianta, ditele che il campo non è aperto, ditele che il mondo è una massa verticale, ditele l’assenza, ditele che il bianco che ho ingerito si è deposto sulle dita, ditele che grida, ditele che la via lattea ci attraversa in diagonale, ditele che un termine caldo non è un frutteto, ditele che non termino, ditele che il cuore ha scampo quando smette, ditele che tremo, ditele che ho un fiume sulla testa, ditele che rovistare non è una vergogna, ditele che il segno non è un gesto, ditele che un resto di sogno mi ha svegliato, ditele che non dormo, ditele del bianco appoggiato sulla vita, ditele dei gradi zero, ditele dei maiali appesi, ditele dei cadaveri che non smettono la morte, ditele che quando il tempo piega la vita è carneficina, ditele che il mondo è il retaggio di una madre, ditele che è un cratere spento, ditele che l’uomo ha fame dell’umano, ditele che la fame non è innocente, ditele che il giorno ha smesso di parlare, ditele che grido, ditele che è bianco, ditele che è forma, ditele che il niente ha il peso di un oggetto, ditele che il vuoto non è cavo, ditele che parlo.

Ditele la fame, ditele che la bocca è il centro di una testa, ditele che se piange è per pudore, ditele lo sputo, ditele che il cielo senza occhi non ha ragione, ditele che una parola è matura quando è grave, ditele che grido, ditele che hanno forato il cranio con un punteruolo, ditele che passano le voci, ditele che non passa, ditele che i bambini hanno lo sguardo torvo, ditele che non guardo, ditele che le maglie della terra sono strette, ditele che non usciamo, ditele che usciremo, ditele che l’uomo ha una gabbia sulla testa, ditele della cornea, datele una retina, ditele il sangue sui tappeti, ditele che non avrò figli, ditele che ha innaffiato fiori finti, ditele che non fingo, ditele che i pianeti quando non cadono è perché cedono, ditele che nel pozzo non cadano bambini, ditele di non cadere, ditele che il radicale è un frutto senza seme, ditele dei confini mancati, ditele che se non sono – sono l’altro, ditele della rincorsa dei coltelli, ditele della camera nera, ditele che un luogo non fa territorio, ditele che i territori sono reti, ditele della ragnatela, ditele che il mio scheletro ha la forma di una mosca, ditele dei ragni Ditele che non ho pertugi, ditele che il consiglio è : evaporare, ditele che un foro non è un passaggio, ditele che non passa, ditele che hanno cartografato il vuoto, ditele che la fedeltà non si misura in giuramenti, ditele che sono infedele, ditele che la parola è un segno, ditele che ci parliamo, ditele che vedo, ditele che l’uomo ha creato bocche ovunque, ditele che sono una buca, ditele che non ho un fondo, ditele dell’universo osservabile, ditele che se ho taciuto è per gravità, ditele che non ho mai taciuto, ditele che il principio di reazione ha fallito, ditele che è falso, ditele che ho fame, ditele che è freddo, ditele che piange, ditele che un uomo è un bambino in verticale, ditele che cado, non ditele niente, ditele della sbarra piantata sulla schiena, ditele che la verità è una menzogna, ditele che mento.

Ricordi propri e d’altri. Burri e i prigionieri italiani in Texas

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di Elena Frontaloni

hereford

 Della difficile amicizia tra Alberto Burri e le “parole” dice l’artista stesso con le sue poche dichiarazioni e interviste – 3 pubblicate nel corso dell’intera sua vita  –, e dicono anche le testimonianze di critici e conoscenti (meno quelle degli amici intimi e della gente di Città di Castello, con cui pare fosse molto più ciarliero). Per l’ufficialità, in ogni modo, Burri fu uomo orgoglioso e fiero, incline al silenzio e senza dubbio a lasciar parlare da sola la sua arte. Famosa, esibita nel corso dell’intera vita, è la sua diffidenza nei confronti dell’autocommento e della parola critica che vorrebbero spiegare la pittura e non lo fanno o non vi riescono

T or C

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marco_reali_coverdi Romano A. Fiocchi

Marco Reali, Verità o Conseguenze, La Vita Felice, 2014, 128 pag.

Scrivere ma soprattutto pubblicare racconti è di per sé una sfida. Nessun editore si vuole arrischiare, tutti ti dicono: i racconti non vanno. Ma come. E Carver? E Borges? E la Munro, che con i racconti ha vinto il Nobel? Forse non vanno solo in Italia. Ecco che allora molto coraggiosamente ci provano in due: La Vita Felice, che da decenni si dedica essenzialmente a pubblicazioni di poesia (e già questa è una bella sfida editoriale) e Marco Reali, che per vivere fa lo stesso mestiere che faceva Edgar Lee Masters quando pubblicò l’Antologia di Spoon River: l’avvocato. Direbbe qualcuno: che ci azzecca la giurisprudenza con i racconti. Nulla. O meglio: il filo sottile che lega la ricerca della verità, che non è mai assoluta ma sempre relativa. Sia per l’avvocato che per lo scrittore.

Sono racconti, quelli di Marco Reali, costruiti su reminiscenze di viaggi. Si spazia dall’India alle isole Frisone, dai cimiteri parigini al “cielo immenso” del Montana. Racconti in forma di viaggi e viaggiatori in forma di protagonisti. Gente che cerca se stessa, che cerca un altrove, una collocazione della propria identità nella storia e nella geografia del globo terrestre. E dell’universo. L’americano Dave Lovich, padre e non-padre della giovane Geena, il cuoco Ferdinand Louis Herzog sepolto in due cimiteri diversi, il fotografo Alain Laval che vaga per un’isola sperduta “auscultandone il respiro”, il polacco-guatemalteco Felix Kaminsky che trasforma il caos in falsi d’autore, Mariolino che fa viaggiare nel tempo la sua vendetta inconscia, l’io narrante di Diario indiano. Sono tutti personaggi che si muovono senza una meta precisa, per il puro gusto di viaggiare o forse per una necessità dinamica dell’universo di cui sono minuscoli ingranaggi, talvolta avendone la consapevolezza. Obiettivo non è un’ipotetica destinazione ma il viaggio in sé. Un viaggio nello spazio e nel tempo. Che, ormai lo sappiamo, sono un tutt’uno: lo spazio-tempo. E lo sa ovviamente anche Marco Reali.

A questo punto bisogna spiegare il perché del titolo, ostico come una formula matematica ma chiave di lettura che apre ciascuno dei sei racconti. Tutto parte dal nome curioso di una cittadina del Nuovo Messico, Truth or Consequences, subito abbreviata in T or C. Che significa proprio questo: verità o conseguenze. Sorta come Hot Springs, si è affrettata a cambiare il suo nome in T or C nel 1950, quando il conduttore del celeberrimo show radiofonico “Truth or Consequences” ha promesso di trasmettere il programma dalla prima città disposta a cambiare il nome in quello dello show. Così per decenni, prima attraverso la radio e più tardi attraverso la televisione, “Verità o Conseguenze” è andato in onda da T or C. E T or C ha a che fare con la prima storia, tanto da suggerirne il titolo che dà poi il nome a tutta la raccolta: Verità o Conseguenze.

Ma se Marco Reali ama evocare programmi radiofonici e televisivi, è al cinema che fa riferimento la sua tecnica compositiva, quasi si compiacesse di scomporre e riassemblare le scene con giochi di montaggio e dissolvenze. Sino ad arrivare all’oggettività da cinepresa di un occhio che osserva o addirittura che osserva osservare: “Era solo una piccola fessura tra le assi che consentiva all’occhio nocciola di sbirciare oltre la porta”.

La scrittura di Marco Reali è densa, carica di allusioni e di rimandi, di soluzioni e di indizi che si nascondono dietro a ogni riga, di ironie e di sottile sarcasmo. Le immagini sono costruite attraverso descrizioni precise quanto suggestive, qualche esempio: “La novità era un tucano dall’enorme becco giallo arancio che li origliava dal suo trespolo. Paradossalmente inespressivo, nella maschera grottesca a cui madre natura lo aveva condannato”, “una poltiglia variegata di conchiglie frantumate”, “prati verdissimi solcati da sentieri ortogonali come campiture di Mondrian”. Molte le citazioni velate che a loro volta suggeriscono altre chiavi di lettura. Spesso si tratta di pittori, come se il mondo, letto attraverso la visione di Pollock, di Hopper o di Mondrian, sia tutt’altra cosa da quello che crediamo di conoscere. È la relatività del reale che affascina Marco Reali (guarda caso un’allusione addirittura al suo cognome!). Gli stessi eserghi che introducono tutti i sei racconti – a firma di Nietzsche, Proust, Thomas Albert Sebeok, Edward Norton Lorenz, Hobbes, l’apostolo Giovanni – sono ulteriori strumenti di approccio, come ha fatto notare Luca Milite, che si rivelano tali solo dopo la lettura del singolo racconto. E generano ulteriori rimandi.

Quello di Marco Reali è insomma un gusto ludico per il messaggio tra le righe, per il detto senza essere detto, per le verità non verità, che cerca la complicità del lettore sin dal Prologo: “Il paleontologo statunitense George Gaylord Simpson, nel suo The Mearning of Evolution (1967) asserisce che l’ostrica di duecento milioni di anni fa doveva avere lo stesso aspetto, e senza dubbio il medesimo sapore, di quelle che oggi si gustano nei ristoranti. Alle storie, mi dissi, non vale la pena attribuire più senso di quanto ne possa assumere il menù di un ristorante per l’arco evolutivo dell’ostrica. Quanto alle verità, universali o spicciole che siano, le loro conseguenze non sono poi dissimili dallo scarto di un errore”.

E per questo che le sei storie – anzi, sette con quella contenuta nel Prologo – sfumano una nell’altra. Sembrano formare un tutt’uno. Non dico un romanzo ma un solo unico eterno fluire, come se l’autore non sfuggisse mai alla consapevolezza che tutto giri su quella sfera intenta a ruotare nello spazio dall’eternità verso l’eternità. L’ultimo racconto si chiude con l’ennesimo viaggio, apparentemente quello finale: il volo di ritorno verso casa. Ma qual è la vera casa? Ormai per il protagonista esistono solo delle piccole certezze: “Il mio vicino di Bombay ormai sonnecchia come un grosso gatto con un mezzo sorriso dipinto sulle labbra. L’inchiostro della notte ha già inghiottito la fusoliera dell’aereo”.

cinéDIMANCHE #23 FIORENZO SERRA Il pane dei pastori [1962]

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IL PANE DEI PASTORI documentario del regista sardo ⇨ Fiorenzo Serra [1921-2005]. Le riprese sono state effettuate nell’autunno del 1962 in varie località della Barbagia, in Sardegna, ma soprattutto ad Oliena, dove si è girato l’intero ciclo della lavorazione del pane carasau.



Alberto La Marmora
Itinéraire de l’île de Sardaigne
pour faire suite au voyage en cette contrée

Torino [1860]
 


 

ma dove vai

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di Giacomo Sartori

ma dove vai

con quei passetti

cosa sgambetti

ancora ti alleni

con gravità di atleta

su e giù per il giardino

bimbina vecchia

(quasi un secolo

fascismo compreso!)

les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti

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Série Bouteilles- Philippe Schlienger
Série Bouteilles- Philippe Schlienger

La Luna, forse
di
Maria Luisa Putti

C’è sabbia dappertutto. Negli occhi che appena riesco ad aprire, sulla pelle del viso. La sabbia è roccia che si sgretola. Pesa sul mio corpo sepolto, scricchiola sotto i denti. I capelli sciolti intrappolati nella terra mi tengono ancorata, immobile. Non mi posso alzare. Non posso liberare null’altro che i pensieri dalla duna bianca che mi avvolge. Sono sulla Luna forse, e attorno a me non c’è che uno spazio vuoto; organismi primordiali a cui ora assomiglio. Con le dita provo a scavare un tunnel. Non ho mai sopportato la sabbia sotto le unghie, nemmeno quand’ero bambina e mia madre mi lasciava giocare sulla riva: «Fai un bel castello!», mi diceva. Ed io me ne stavo lì, con il mio cappellino turchese – uno di quei cappelli da marinaio – e i secchielli di plastica pieni d’acqua, per liberare le mani dall’arsura della materia inerte che si essiccava al sole. Mi mancava l’aria, come adesso, che non so dove sono. Guardavo le conchiglie, gusci vuoti, saturi di polvere d’oro, e immaginavo che nascondessero labirinti segreti, stanze abitate dalle fate; minuscole bambine vestite di bianco, che si rincorrevano fino al mare. Avrei voluto tenerle sul palmo della mia mano, e pettinarle, come facevo con le bambole. Mi sembrava di sentire le loro vocine, il fruscio delle vesti che le coprivano fino alle caviglie, ai piedi.

Sì, i piedi. Li avverto ora come corpi estranei, divorati da milioni di microscopici insetti, lucertole, piccoli rettili e animali preistorici che credevo estinti. E le gambe: la sabbia le ha inghiottite fino a lasciarne solo il ghiaccio delle ossa vuote.

Il tunnel che ho scavato con le dita non basta a liberarmi le braccia dalla morsa che mi stringe. Mi sembra di sprofondare ancora più giù, come se le mie mani avessero aperto un varco sotterraneo che affaccia sull’abisso. Un mulinello d’aria di correnti sconosciute lambisce i miei fianchi. Ho freddo. D’un tratto, quasi animata da una forza estranea – o forse è solo l’istinto di sopravvivere – riesco a far leva sui gomiti e sento che una delle mie spalle è quasi fuori. Finalmente posso muovere il collo. Ecco, così. Ora anche l’altra spalla è libera. Mi faccio forza con i palmi delle mani sulla sabbia che mi circonda, emergo fino alla vita, e sento i granelli sottili muoversi sotto di me, lungo le gambe, sui piedi, tra le dita formicolanti e fredde, come filtrati dal foro sottile di una clessidra.

Posso respirare ora, un respiro profondo che odora di fiori, dei pollini dolci di aprile che riempiono l’aria da un finestrino abbassato, di un’auto ferma al rosso di un semaforo o nello slargo verde della strada che costeggia le mura, dove mi fermavo con le amiche a chiacchierare dei nostri segreti di ragazze.

Attorno a me le piccole creature primordiali si muovono operose in cerca di cibo. Raccolgono frammenti di alghe essiccate, petali, foglie, minuscole bacche colorate che sembrano le bocce di un biliardo, o le biglie che mi piacevano tanto quando ero bambina: le infilavo una ad una attraverso il collo di una bottiglia, fino a riempirla tutta quanta, e dopo cercavo di farle uscire, con le dita, per giocarci ancora. Una bacca celeste scivola sulla sabbia, ed io me la ritrovo in mano. D’un tratto dinanzi ai miei occhi le luci delle macchine abbagliano i miei ricordi: una bellissima ragazza bionda fa rotolare e saltare e scomparire e poi ricomparire ancora una pallina dello stesso colore. Dopo si avvicina ai finestrini per chiedere qualche spicciolo; ha gli occhi scuri, e porta un paio di occhialetti tondi da ragazzina delle scuole medie. Sorride, come se il suo lavoro di giocoliera nel traffico delle ore di punta bastasse a farla felice: è felice, è in vacanza, è a Roma!

Su un ramo che sporge dalle pareti di roccia a picco sulle dune c’è un alveare, lo vedo da lontano, lucente d’oro come il becco lungo degli uccelli che planano sulla riva. Le piccole bambine vestite di bianco si tengono per mano, come perline di una collana, una accanto all’altra, e adesso le sento cantare. Camminano tutte insieme, con i capelli sciolti, e le risate piccole dei loro giochi infantili. E loro giocano, e giocano, arrampicandosi sul dorso di animali giganteschi, gusci di tartarughe dalle strane teste, esseri preistorici impastati di sabbia, che si muovono lenti come il respiro di questo vento immobile. Senza paura, si avventurano nelle fauci aperte da uno sbadiglio torrido di un sonno antico. E tenendosi saldamente l’un l’altra per mano, come in un gioco di contrappesi, si lasciano pendere dall’alto di un’ala aperta in volo, catenella sottile di innocenza.

 

Série Bouteilles- Philippe Schlienger
Série Bouteilles- Philippe Schlienger

Guardare quelle creature minuscole mi porta lontano da me stessa, dal luogo in cui mi trovo ora, intrappolata, sepolta per metà in un mare di sabbia, la sabbia del tempo che mi fa prigioniera, che mi scorre accanto, lasciandosi sprecare nel suo fluire indifferente. Non contano gli orologi scolpiti nei fianchi ripidi delle montagne: le loro lancette giocano a rincorrersi, un minuto dietro l’altro, un’ora dietro l’altra, all’infinito. Le guardo senza più pensare che il tempo è la materia della vita, che plasma e disegna tutto attorno a sé, mutando le forme di ogni cosa. Me ne sto qui, ancora sepolta in questo paesaggio lunare, in questo mare che inciampa nelle sue stesse onde. È un lungo clacson che suona ininterrotto di auto incolonnate in disordine.

Una donna anziana attraversa la strada e porta per mano un bambino. I capelli grigi sciolti sulle spalle in una piega morbida, i vestiti colorati sul corpo sottile, l’azzurro della sciarpa, la fantasia lucente della giacca. Si volta verso il mare di macchine ferme; scatta il semaforo ma nessuno riparte, come se ogni cosa, gli appuntamenti, gli impegni, il ritardo, la fretta di correre chissà dove si fossero d’un tratto dissolti, al di là del tempo, che improvvisamente rallenta, e rallenta, fino a svanire: tutti guardano lei, il suo passo lieve, il suo essere ancora, sempre, bellissima.

La salvezza sta fuori, nel nulla

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di Giacomo Verri

In Metropoli, il nuovo romanzo di Massimiliano Santarossa, il racconto del futuro.

MetropoliNel duemilatrentacinque la Terra potrà riconoscere sulla propria groppa una sola enorme città: Metropoli. Sarà essa il solo ganglio della poststoria, il solo confine alle lande desolate che s’apriranno maestose quando tutto sarà azzerato, quando nel cielo, perpetuamente crollante di piogge, starà crocefisso, come una misera “palla incolore”, “il sole artico del mondo pietrificato”.

Metropoli, mostruosa tromba apocalittica cantata da Massimiliano Santarossa (che ora torna in libreria per Baldini e Castoldi, dopo l’agghiacciante Il Male del 2013), è una città, calvinianamente cresciuta nelle menti di ognuno, ma con bibliche proporzioni da incubo, “nata tra mura infrangibili, alte ventisette metri e spesse cinque, che erano l’opera più poderosa e fondamentale costruita dal Crollo Produttivo in poi, e con esse le Industrie delle Zone Lavoro, i Palazzi del Popolo, le Zone Svago, le arterie viarie sopraelevate”.

Sembra un libro delle Cronache, Metropoli, sembra un testo sacro in cui potrebbe essere contenuta la sapienza del futuro. Ma Metropoli non sorge con le misure della saggezza, tanto è vero che è potenzialmente infinita, perennemente schiacciata sul presente, non ha centro e manca di un sancta sanctorum: nessuno la governa, né un dio né l’uomo, ma è un mostro che innalza labirintici patiboli in cui gli esseri umani sacrificano tutta intera la loro vita, è un aberrante incrocio tra un lager e una città chiusa dell’Unione Sovietica.

Reduce dalla vita, qui giunge, tra algidi bagliori, un uomo, un viandante del mondo perduto; varcate le porte di Metropoli diviene il cittadino numero 5.937.178. In qualità di Sopravvissuto al Crollo Produttivo, viene indirizzato al Ricovero Fisico Psichiatrico, dove è lavato sotto un getto di acqua bollente, vestito con abiti “grigi, leggeri, candidi, inodori”, nutrito e ospitato in una Stanza di Contenimento, la numero 111. Sebbene il primevo impatto cromatico sia a Metropoli con il puro colore bianco, presto si scopre che quella è la tinta della disperazione che tutto riempie e tutto annulla. Annulla, sì, i guasti della precedente democrazia travestita da capitalismo (o del capitalismo velato da un approccio egualitario che ricorda la critica alla democrazia americana di Alexis de Toqueville: “Nulla era stato mai pensato per il progresso generale, milioni e milioni di persone si erano mosse esclusivamente a fine privato, ombelicale: fare per godere, di continuo e di più”), annulla il male, ma anche il bene, annulla la malattia, la guerra, ma anche la pace, elimina lo sporco danaro e il peccato, ma anche la memoria, l’amore, la fede, il futuro e ogni senso di grazia. Metropoli è la realizzazione del nichilismo robotico che scarnifica i volti umani voltandoli in crani “rotti da fori neri occupati da pupille ormai bianche, levigate da una vita troppo lunga”.

Le parole dell’uomo sono sostituite dal chiasso della Produzione: tutto è produzione a Metropoli (una produzione che, tra l’altro, vorrebbe, miseramente scimmiottare la Creazione), tutto è corpo senza mente. “Il cemento, il ferro, il vetro, l’acciaio, l’asfalto, parevano annientare l’uomo”, la nobile materia cambiata in vile materiale realizzava l’inferno sulla Terra. Un inferno che coincide con la divinità che lo regge: Metropoli è il demonio, è il Dio sradicato dal cielo che al cielo cerca di tornare impietosamente colonizzandolo, come a Babele.

Nelle Città invisibili, Marco Polo spiegava a Gengis Khan, parlando a proposito di Despina, che “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”. Ma il deserto è ancora qualcosa, sicuramente è meno delle speranze che Despina nutre nella mente del cammelliere o del marinaio. Ma il deserto c’è ed è la durezza che esalta il premio, l’aridità necessaria per godere fino in fondo dell’ombra. Attorno a Metropoli, invece, s’apre “un niente smisurato”, tanto eccelso che anche gli sforzi che la città compie per propagarsi hanno il sapore dell’inanità. E verso quel nulla non c’è alcuna forma di interesse, nessuna scintilla di curiosità, non è l’affascinante buio dell’universo, non è il trepidante deserto dei Tartari. Non è, appunto, niente. O, almeno, il Dio Metropoli vuole che ciò che sta là fuori non sia Niente, fino a quando non verrà inglobato dalle mura della città, e gli stessi uomini, divenendo nutrimento per i loro simili, si voltino in carne della città medesima.

Marcus, questo il nome dell’internato, incontra Sofia. Loro due sono gli unici esseri che sembrano essere rimasti umani, sono i soli a riscoprire, abbracciando il dolore per allontanare il terrore, che l’anima ha un peso e che non può essere prostituita all’“infinitamente osceno” che sulla terra si sta manifestando sotto la specie del vuoto interiore. Insieme, Marcus e Sofia prendono le misure della salvezza, che non è la salvezza abominevole promessa da Metropoli, “luogo regredito nel tempo di millenni”, nel tempo che fu prima di Dio e che più niente ha della “dignità della morte”.

La salvezza sta fuori, nel nulla. Forse anche nella morte. Ma io credo che risieda soprattutto nella parola: nella parola che Marcus bisbiglia a Sofia, in quella che lei restituisce a lui. La parola di Santarossa è un antidoto all’asetticità di materiali sempre uguali a se stessi, è una cura contro la monotonia da clone alla quale forse, un domandi, saremo condannati. È infine una parola che, mentre intacca e zaffa la superficie apparentemente immodificabile del grande mostro, conduce alla speranza di poter adoperare quella medesima parola per riempire il nulla da cui siamo minacciati.

“La libertà inizia al principio del nulla”.

Insieme MRK 1034

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di Maria Grazia Calandrone

.

le spirali delle due ammoniti sul tuo petto
ripetono la forma delle galassie gemelle
PGC 9074 e PGC 9071
della costellazione del Triangolo

una (la 9074, di tipo Sa) mostra una sporgenza luminosa, l’intenzione di un’alba, ma porta i bracci avvolti strettamente intorno al proprio nucleo

l’altra, la galassia che si srotola più a Nord nel nero siderale (la 9071, di tipo Sb), ha allargato le braccia da un discreto numero di anni-luce.
il buio dell’universo è sottoposto a magnetismi incommensurabili. altrimenti, è cieco.
questa forma di abbraccio
disabitata, questa custode con le ali aperte nel silenzio profondo, reca un dolore alla spalla destra. è un oggetto celeste dai tendini infiammati, a Nord-Est del tuo cielo

le due galassie sono scientificamente inseparabili. cito, da un articolo di Eleonora Ferroni, in Notiziario dell’Istituto Nazionale di AstroFisica: “sono abbastanza vicine da sentire l’una la gravità dell’altra, ma non ci sono disturbi gravitazionali visibili”

entrambe hanno prodotto “giovani e calde stelle retrostanti”, mentre “formazioni stellari più antiche e fredde” pulsano, gialle del giallo bestiale della savana, accanto al loro nucleo
e un corteo di stelle ormai lontane le circonda, come una corona di detriti

le due astrali Signore delle porte accanto hanno lasciato scie di sangue e dolcezza, scorie di amori ormai assorbite dal rombo dei venti galattici. ma la forza di gravità di ciascuna nei confronti dell’altra le porterà a confondersi in un unico grande fenomeno, in un abbraccio pieno.
l’articolo chiude infatti così: “tra qualche centinaio di milioni di anni le due strutture si fonderanno, perché l’attrazione gravitazionale che già le vincola avrà definitivamente attirato le due ormai inseparabili gemelle”.

sacre stelle pazienti. oggetti che non forzate
la curvatura spaziotemporale, limpide forze che state
nell’intervallo naturale
che sulla terra viene detto rispetto.
le stelle hanno la calma delle stelle.

questa forma cretacica fossile ha un disegno terrestre: le sue spirali, formate da rigoni d’inchiostro organico, riproducono la rotazione delle due galassie. cose forse avvenute nello stesso momento in terra e in cielo. 180 milioni di anni fa. cose delle quali siamo il futuro. o l’utopia.
questa insiemistica fantascientifica, lo stadio fossile-astrale della materia, è il mio dono per te.

in attesa di formare l’insieme al quale sono destinate, le due vicine svolgono un’intensa attività interiore, che porta entrambe a uno sprigionamento di energie attive, utili alla creazione di pianeti. esse sono due splendide officine, due fervidi laboratori di stelle. esse irradiano luce.

l’osservatorio on-line del telescopio spaziale Hubble della NASA-ESA, che le ha individuate, ha pubblicato la notizia il 24.6.2013 (di quel pomeriggio, ricordo un allegrissimo braccio di ferro al bar, sotto una parete di grappoli di glicine. non ha vinto nessuno. le nostre forze sono strutture equivalenti e complesse)

la suggestiva scoperta ha subito rimbalzato sui siti astronomici internazionali, nei primi giorni del luglio 2013. di quei giorni ricordo un dialogo sull’ironia della natura: scoprivamo che gli alveoli polmonari e il meconio si formano nel medesimo stadio evolutivo del feto umano: pneuma e feci. come sempre. l’umano.

poi, ricordo la musica di un amore immortale sulla rovina di Massenzio: “e si ’na stella canta pe’ ammore rimmane ’n cielo mill’anne e nun more”. poi, ricordo un sorriso, così profondo da perdonare i morti, invincibile come la forza gravitazionale che sulla terra viene detta destino. e poi ricordo un suono di campane, semplice come il caldo della tua bocca

che dura qui, ben oltre la mia vita

16.11.14

°

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[Mi sono innamorato di questa poesia, leggendola per caso, una mattina a Roma, luce solita che assolve tutte le malefatte cittadine, persino nazionali, luce stronza-belissima, e la leggevo, questa poesia sulle galassie, nell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, Serie fossile, Crocetti, Milano, 2015. È il testo che chiude il libro. I poeti dovrebbero scrivere di stelle anche oggi, ma è difficilissimo, meglio non farlo, eppure qui, Maria Grazia Calandrone, ci è riuscita con estrema efficacia e disinvoltura. a. i.]


	            

La famiglia che perse tempo

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copertina_salabelle_bdi Marisa Salabelle

Di tutti i libri pazzi e strampalati che ha scritto mio fratello Maurizio, La famiglia che perse tempo è forse il più pazzo e strampalato. L’ha scritto che avrà avuto, quanto, ventott’anni? Non lo so con precisione perché a noi non diceva nulla e in famiglia, che scriveva, l’abbiamo saputo in due occasioni: quella volta che la mia amica Benedetta mi fece vedere un numero di una rivista, Erba d’Arno, dove era stata pubblicata una sua poesia, e poi la volta famosa che Giuseppe Pontiggia telefonò a casa e a rispondergli fu nostro padre, il quale non se lo sarebbe mai immaginato che Giuseppe Pontiggia potesse telefonare a casa per dire che aveva letto il manoscritto di Maurizio e che gli era piaciuto moltissimo. Quel manoscritto era, credo, La famiglia che perse tempo, che piacque a Pontiggia e a Ermanno Cavazzoni ma che per ragioni contingenti è rimasto inedito fino a ora.

La storia è quella di una famiglia di cinque persone, genitori e tre figli adulti, tutti nullafacenti, se si eccettua  il figlio maggiore, che è medico, e occasionalmente riceve qualche paziente, e il narratore, che risponde all’improbabile nome di Phatrizio e per un periodo fa l’autista di autobus. Oltre a questo, la madre di tanto in tanto cucina e il padre fa misteriosi esperimenti chiuso nella sua camera: per il resto i cinque si trascinano dal divano al letto, si incrociano nell’andito, spilluzzicano i cibi imbanditi dalla madre, guardano vecchi film presi a noleggio. Oltre che svogliati e oziosi, i cinque sono affetti da stranissimi disturbi: perdono periodi di tempo, soffrono di letargia, attraversano momenti di grave depressione. Per capire l’origine dei loro mali analizzano gli oggetti che hanno in casa, orologi che diventano fuligginosi e che non segnano più l’ora, brandelli di stoffa infetti da strani germi, libri e opuscoli che cospargono il pavimento, provenienti da chissà dove. Scrivono memorie, si intervistano l’un l’altro, improvvisano conferenze al tavolo di cucina. Cambiano spesso casa, sperando così di risolvere i propri guai, ma i quartieri in cui vanno ad abitare si rivelano di volta in volta sempre più tetri, squallidi, al punto che neppure sono segnati  nelle mappe della città.

Se paragono questo romanzo ai successivi, che però sono stati pubblicati prima, vedo analogie e differenze.  Vedo innanzitutto che, rispetto alle altre opere, tutte caratterizzate da un’atmosfera surreale e da una trama fantastica, La famiglia che perse tempo è un romanzo ancora più rarefatto, astratto, paradossale. Non esiterei a definirlo un’opera altamente sperimentale. Vedo, però, anche le analogie con i romanzi successivi, in cui Maurizio mette in scena i suoi personaggi stralunati e le sue famiglie stravaganti. Padri sempre un po’ distratti, lontani dalla realtà, impegnati in attività bizzarre quali compiere esperimenti scientifici o consultare ossessivamente vocabolari; madri che svolgono in modo malcerto i loro compiti di accudimento, mettendo in tavola solo noccioline e patatine fritte, lavando le verdure col detersivo per i panni, inondando divani e poltrone di acqua saponata e così via. Fratelli e sorelle che vivono relazioni simbiotiche, uomini adulti stranamente impacciati con le donne o incapaci si svolgere lavori normali.

 Ogni volta che leggo uno dei suoi libri, penso alla nostra famiglia, e riconosco alcuni particolari, alcuni comportamenti e modi di esprimersi, che mi fanno dire: siamo noi, eravamo così. Quindi penso che Maurizio abbia voluto raccontare, in chiave surreale, la nostra vita; altre volte invece penso che abbia creato i suoi romanzi e i suoi personaggi come in un gioco, un divertimento fantastico e bizzarro.

E poi, naturalmente, c’è il suo linguaggio. Un lessico semplice, accessibile ma ricercato, parole a volte un po’ desuete, che lui sceglieva principalmente in base alla sonorità, un fraseggio caratteristico, con una sua musica interna, un suo ritmo ben preciso. «Nello scrivere, seguo una musica o un ritmo interno che è del tutto indipendente da ciò che narro» affermava infatti in un memorabile articolo, Un romanzo è un apparecchio complicato:  «È una musica poco appariscente e un po’ monocorde, che mi arriva non so da dove ma che sento di dover seguire e assecondare e che determina la lunghezza dei periodi, il numero di sillabe delle parole, la posizione dei segni di interpunzione.» E in effetti credo sia proprio questo senso rapsodico del linguaggio ciò che fa di Maurizio, veramente, uno scrittore. Che basta leggere una frase per dire, non c’è dubbio, è lui. Inconfondibile.

L’urlo e la musica: la scrittura della voce in Céline

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Céline mini di Andrea Inglese

… la voce umana, il suono meno ragionevole in tutta la natura…
Italo Svevo

[La voce tra rumore e canto – I excursus: il Joyce di Berio – II excursus: il Byron di Bene – Metafora della voce e teoria letteraria – Il romanzo come collettore delle voci inascoltate: Voyage au bout de la nuit – Il ritmo del fraseggiare – I romanzi della vociferazione assordante: Féerie pour une autre fois ]

XII quaderno di poesia italiana contemporanea

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Dodicesimo-quaderno-italianodi Francesca Fiorletta

Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.
[…]
Angelo Maria Ripellino

Il suono di queste parole mi riecheggia nella testa: Guai a chi costruisce il suo mondo da solo.

Il famoso verso di Ripellino è parte dell’epigrafe scelta da Diego Conticello, uno dei sette poeti presenti nel XII quaderno di poesia italiana contemporanea, curato da Franco Buffoni e pubblicato da poco per Marcos y Marcos.

Gli altri sei nomi presenti sono: Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Marco Corsi, Alessandro De Santis e Samir Galal Mohamed. Le prefazioni che accompagnano i testi di ciascuno di loro, sono curate da: Mario Benedetti, Stefano Dal Bianco, Gian Ruggero Manzoni, Fabio Pusterla, Niccolò Scaffai e Emmanuela Tandello.

Non possiamo abituarci a morire. Per Luigi Di Ruscio

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di DiRuscioLocandinaScriviamolo sui muri, la resistenza è ancora possibile, l’urgenza delle parole si frapponga fra noi e il resto.

La sconfitta non è definitiva, la speranza è tutta nella nostra capacità di ridere.

L.Di Ruscio

 

NON POSSIAMO ABITUARCI A MORIRE

( Festa-tributo-incontro sull’opera di Luigi Di ruscio )

A partire dall’opera di questo grande scrittore e poeta,  attraverso la proiezione di piccoli cortometraggi e frammenti video sulla sua figura e la lettura di suoi testi ad opera di poeti, scrittori e amici che l’hanno ammirato e conosciuto, questo evento vuole essere insieme  un momento di festa e di riflessione. In questi tempi dove l’uomo, la poesia e la bellezza vengono continuamente offesi, aspira ad essere un’alternativa il più possibile concreta alla volgarità e all’ignoranza che tentano di soffocare la nostra vita di uomini liberi.

 

INTERVENGONO:

Fabrizio Bianchi

Luigi Cannillo

Biagio Cepollaro

Nino Iacovella

Rosemary Liedl Porta

Christian Tito

Adam Vaccaro

Programma

 

Nino Iacovella presenta e introduce la serata :

 

  • Proiezione di un estratto dal web in cui Di Ruscio legge alcuni suoi versi sul ritorno dalla fabbrica e viene intervistato sulla sua poesia.

 

  • Lettura del primo blocco di lettere sulla speranza in poesia, estratte dal libro ” lettere dal mondo offeso”, ultimo libro postumo di Di Ruscio e Christian Tito, edito dall’Arcolaio a fine 2014.

(Tutte le lettere saranno lette da Luigi Cannillo che leggerà le lettere di Di Ruscio e Christian Tito che leggerà le sue lettere.)

  • Lettura e intervento di Rosemary Liedl Porta.
  • Proiezione di un altro breve estratto dal web che ritrae Luigi nei vicoli della sua infanzia a Fermo e successiva proiezione di LUIGI DI RUSCIO-OSLO ( ritratto di  Di Ruscio ad Oslo nel 2010, immagini girate da Alessandro Ansuini e montate da Stefano Massari)
  • Lettura e intervento di Fabrizio Bianchi
  • Lettura secondo blocco di lettere sulla fabbrica.
  • PROIEZIONE DI I Lavoratori Vanno Ascoltati , Documentario di Christian Tito sull’Ilva di Taranto con testi estratti dall’opera di Di Ruscio.
  • Lettura e intervento di Adam Vaccaro.
  • Lettura ultimo blocco di lettere, quelle della dolorosa separazione tra il giovane allievo e il vecchio maestro.
  • Lettura e Intervento di Biagio Cepollaro.
  • Lettura di Christian Tito che legge l’ultima lettera scritta a Di Ruscio a un anno dalla sua morte.

Intervallo

 

Concerto di chitarra classica con i musicisti  Claudio Ballabio e Nicola Panzarino.

 

Venerdì, 10 aprile, ore 19.00.

Milano presso Spaziotu di Maschere Nere,

Fabbrica del Vapore, Via procaccini, 4.

[ Sono particolarmente legato a Luigi Di Ruscio. Sia per la sua opera che per l’amicizia che ho nutrito per lui a partire dai primi anni ’90. Un mio breve contributo alla comprensione della figura di Di Ruscio come poeta e come maestro, avvicinato pur nelle tante differenze a Elio Pagliarani e a Giancarlo Majorino, relativamente al tema del poema,  si trova qui . B.C.]