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Al lavoro

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La mappa

di Davide Orecchio

I – RICORDARE IL LAVORO

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi. Insomma nel 2003. Mi trovavo in Molise. Nelle campagne di quella regione piccola. A poca distanza da Campobasso. Condotto a borghi terremotati da strade avvolte come cime. Sorvegliato da eserciti di pale eoliche. Spinto verso storie escoriate, crepe sulle mura delle chiese, campanili in frantumi, case butterate; a comunità sfollate e in lutto. Pochi mesi prima, nel sisma del 2002, era crollata persino una scuola. Decine di ragazzi erano morti.

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Non sembrava un’epoca felice. Eppure indossavo le scarpe da ginnastica! E la felpa comoda, ed ero leggero, perché avevo dodici anni di meno. Questo lo penso adesso che sono pesante, che ero leggero. Invece allora non so cosa pensavo. Non so chi pensavo di essere, né quale peso mi attribuissi. Forse non mi attribuivo una consistenza ma un movimento. Non ero mica tanto giovane. Non ero mica tanto vecchio. Però andavo.

Avevo carta, penne, un registratore. Il sindacato di là mi aveva assegnato l’agiografia di un vecchio dirigente locale, Nicola Crapsi (1899-1965), così amato dalla sua gente da sopravvivere in un quadro: lo espongono come un santo laico ogni Primo di maggio nel corteo che attraversa il suo paese di origine, Santa Croce di Magliano. Lo portavano, lo portano, lo porteranno per sempre lungo le strade del paese, quand’è il Primo maggio.

1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)
1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)

Che storia incredibile. Nicola Crapsi come un santo! Io poi la sua vita non l’ho scritta proprio come mi avevano chiesto di scriverla. Ma questa è un’altra storia. Qui invece la storia è che quella primavera del moltissimo – dall’odierno me – lontano 2003 incontrai un grappolo accorante, coriaceo, moribondo e vitale di vecchi vecchissimi. Contadini, braccianti, ottuagenari, centenari: i testimoni; custodi di scioperi alla rovescia, occupazioni di feudi e latifondi, scaramucce coi fascisti…

Ometterò nomi e cognomi, con una sola eccezione. Temo che siano tutti morti. Spero di no. Erano malati nelle loro scoppole, sui loro bastoni, tra le flanelle che li coprivano e io ad adorarli, assai conquistato dalla vita, mi deprimevo pure, però, al pensiero che stessero finendo, questi partecipi della legione che mi si mostrava, gli ometti del Novecento, il popolo di ieri.

Il primo che mi parlò, e l’unico che nomino, era stato sindaco di Santa Croce. Aveva 93 anni. Flaviano Iantomasi.

Dai miei appunti di allora:

«È il più vecchio di tutti. Il viso più bello di tutti: radioso, tra le rughe, e gli occhi sempre lucidi (nel senso di coscienti). Mi offre un ovetto di cioccolata e succo di frutta. Sediamo al tavolo. La moglie, minuscola e vestita di nero, circola attorno. Iantomasi mi mostra la sua “biblioteca”. Sale al piano di sopra per prendere il libro di D’Ambrosio. Piange al ricordo del funerale di Crapsi: la donna che venne da Casacalenda per piangere Crapsi».

Iantomasi aveva dettato un manoscritto di memorie: Il mercato della carne umana. Ricostruiva la vita bracciantile e i rapporti di forza nella campagna di Santa Croce del primo Novecento. Qui ne allego qualche immagine:

I braccianti: un mercato di carne umana si allestisce a Santa Croce ogni otto di settembre, dove in piazze e «bettole» «tra un bicchiere di vino e l’altro» padroni e chi si offre raggiungono «il costo di una vita per un anno di lavoro». «Lamerce che stava invendita erano uomini adulti tutti qualificati per ogni specie di lavoro in agricoltura e pastorizia» e poi ragazzi dai sette ai sedici, «mercia messa sul mercato» dal prezzo stabilito a strette di mano. «Chi comprava la mercia messa sulmercato per un anno erano i proprietari terriere opure gli affittuarie di terreni seminativi e pascoli. Per stabbilire il prezzo di una vita umana per un anno intero 24 ore su 24 […] avveniva un faccia a faccia […] Non si facevano scritture bastava la presenza di uno o due testimoni […] La sunzione effettiva si faceva il giorno nove settembre alle ore 6 si presentavano per prendere consegna del proprio lavoro che avevano trattati per poi raggiungere la zienta in campagna…»

Ma i diritti erano pochi:

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***

Poi Iantomasi mi raccontò del Secondo dopoguerra (questa e altre trascrizioni sono grezze):
D: Mi hanno parlato dei cantieri-scuola. Cos’erano?
Iantomasi: Sempre una cosa che solo i mesi di inverno…
D: Ah, i cantieri-scuola erano una forma di sopravvivenza durante l’inverno!
Iantomasi: Sì.
D: E furono ottenuti dopo gli scioperi alla rovescia?
Iantomasi: Sì. Poi siamo passati a costruire delle strade interpoderali con quel lavoro del cantiere.
D: Cioè tra un podere e l’altro?
Iantomasi: La contrada che aveva una strada di campagna e si cercava di… bianca si faceva allora, con la breccia.
D: Grazie al cantiere-scuola.
Iantomasi: Sì. E proprio in quello di Melanico che è stato portato dal bivio di Piana Moscato fino alla proprietà di Piccirilli, proprietario che non era di Santa Croce ma foggiano.

***

Un’altra testimonianza

X: Sì, sì, figurati. Nel dopoguerra lavoro non ce ne stava, la fame ci stava, gente che aveva mogli e figli e non aveva lavoro, un macello. E dietro le lotte che abbiamo condotto noi, sai quante volte sono venuti a Roma con le corriere? Scioperi per tante cose. Io facevo due corriere per venire a Roma per fare le manifestazioni. Quindi non è che siamo stati fermi qua, siamo stati sempre scioperanti. Di Santa Croce avevano paura. Basta che dicevi Santa Croce e avevano paura.

***

Ancora dai miei appunti:

«V.: Influenzato. Sordo. Seduto al tavolo del tinello. La paura di non comprendere le mie domande. Mi si è avvicinato più volte. Ma le risposte, e i racconti, le rivolgeva al mio accompagnatore, non a me: timido, intimidito. Tocca il registratore (anche altri l’hanno fatto). Vive in un edificio moderno, molto alto, più alto della media a S.Croce. I bambini di là che studiano. La figlia e la moglie insieme a noi nel tinello».

«M.: un viaggio nella deprivazione della vecchiaia. Deprivazione di arti: entrambe le gambe amputate da 15 giorni (diabete, problemi di circolazione). La moglie anche a letto non si può muovere. Ma è lucido. Socialista da sempre, ha una copia dell’Avanti sul tavolo, quella del Primo maggio (30 aprile). Ha preso appunti sul Primo maggio. Mi offre un caffè e parla dei suoi mali».

«C.: il più intelligente e cattivo di tutti. “Non può registrare, deve scrivere”. Ha capito fino in fondo la storia del partito. Divora noccioline mentre racconta. “Faccia altre domande, abbiamo tempo”. “Funziono dall’ombelico in su”: gli hanno messo un bypass all’altezza del bacino».

***

Cosa mi disse M.

M: Io ho sempre un po’ lamentato veramente, anche quando stavo in attività, che di questo benedetto Primo maggio tutto si sa fuorché che cosa rappresenti. Per esempio, se io vado a chiedere a un giovane, i miei nipoti per esempio, figli di mio figlio, ditemi qualcosa del Primo maggio. Nonno, che ne sapete te e il Primo maggio. Non so se ho reso l’idea. E secondo me non va bene perché la storia è storia, la storia deve avere una continuità anche se aggiornata perché certo non possiamo rifarci all’epoca dei martiri di Chicago che hanno creato il Primo maggio, però io credo che parte di quel Primo maggio deve esistere nella continuità della storia. Adesso è proprio completamente dimenticata, non se ne parla più per niente.
D: Ai giovani non interessa?
M: Assolutamente no. Io veramente l’ho sempre lamentato, e io credo che siano inutili le feste e le festarelle. Sì, le feste e le festarelle vanno bene, però fin quando non creiamo sul vero senso della parola un sistema di sicurezza sociale che va, come diceva Pietro Nenni, dalla culla alla tomba, noi non abbiamo risolto i problemi sociali nel nostro paese perché ci troviamo sempre di fronte la disoccupazione, l’occupazione fittizia, il precariato, ma non abbiamo una stabilità…

***

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Il corteo del Primo maggio uscì da Santa Croce e prese la strada per San Giuliano di Puglia: lì, nel baraccamento, dopo la forra, dopo i licustri, dopo la morte di ventisei bambini e una maestra, si tenne il comizio e il pranzo della festa. In un prato conversai con una giovane donna. Parlammo di Roma, dove lei aveva studiato. Parlammo del terremoto. Mi sembrò che il terremoto le avesse lasciato sulla gota un solco simile agli squarci che non riuscivano a deturpare la bellezza di chiese antiche, edifici rustici, municipi. Una ruga che avrebbe voluto essere uno sfregio, e aveva fallito. Quella bella giovane donna mi disse che uno dei ventisei bambini morti era suo figlio.

***

II – TROVARE UN LAVORO

Trovare, offrire, cercare un lavoro. Tutti verbi legati al desiderio. O al bisogno. Ma oggi cosa desideriamo? Di cosa abbiamo bisogno? Quel viaggio molisano nel ricordo del Lavoro, quella rammemorazione del Novecento, fu anche un tour tra assi cartesiani, nello strumentario: conflitto, associazione, partito, sindacato, liderazgo, pensioni, direzione, progresso.

Qui lo strumentario è appassito. Ma davanti non c’è nulla. Oggi in Italia il 40% dei giovani non lavora. E chi lavora, come Giulia (neolaureata al Dams, inserita nel progetto europeo Garanzia Giovani, una sorta di apprendistato e avviamento al mondo del lavoro), è piuttosto una vittima:

«Lavoro 8 ore al giorno – racconta a rassegna.it (qui l’articolo integrale) –, sto in ufficio dalle 9 alle 17, vengo pagata 500 euro al mese. Il pagamento però arriva ogni due mesi. Dicono che il mio è un tirocinio formativo: ma lavoro dalla mattina alla sera, non ho tempo per fare altro. A me sembra un lavoro vero. […] A ottobre ho avuto un colloquio con una cooperativa di Roma che si occupa di turismo. Poi mi hanno richiamato: ‘Ti prendiamo ma devi iscriverti a Garanzia giovani’, hanno detto. Così la Regione Lazio paga 400 euro al mese, l’azienda ci mette 100 euro e ricevo il mio stipendio. […] Lo stipendio ufficialmente viene pagato ogni due mesi dalla Regione, tramite l’Inps. Io lavoro due mesi, finito il bimestre mando per raccomandata alla Regione una serie di documenti, in cui certifico che ho svolto quel monte di ore. Poi aspetto che mi arrivi a casa un assegno postale. Questo ci mette un’altra ventina di giorni. Infine devo andare alle Poste per incassare l’assegno. […] Pago l’abbonamento dell’autobus, mi preparo il pranzo a casa per non comprarlo fuori. Sto spendendo molti più soldi di quando non lavoravo, ne ho di meno visto che non sono passati 80 giorni e ancora non mi hanno pagato. Per ora lavorare è solo un costo».

Questo post esce il Primo maggio. Che non si dovrebbe lavorare. Questo post è a modo suo uno sciopero alla rovescia. E, come tutti gli scioperi, esprime un desiderio: reddito minimo di cittadinanza.

Un'offerta di lavoro nell'ambito di Garanzia Giovani
Un’offerta di lavoro nell’ambito di Garanzia Giovani

Qualche settimana fa sono tornato nel mio ex liceo, dove c’era da spiegare il “mestiere di scrivere” agli studenti del penultimo anno, quelli che devono orientarsi al “dopo di qui” per l’università. Un’intera mattinata nell’aula magna. Ha parlato una giornalista, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere. Poi ha parlato uno sceneggiatore, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere: per gli sceneggiatori è un momento buono – ha detto –, si producono molte serie tv, la qualità aumenta, gli investimenti anche.

Quand’è toccato a me, io non sono stato bravo. Cioè, io lo sapevo che non potevo essere bravo. Cioè, io non volevo neppure essere bravo. Insomma, quale mestiere? Le attività degli altri due “docenti” hanno una dimensione economica; la mia no (non abbastanza). Scrivo questo e quest’altro, ho fatto un po’ di questo e un po’ di quest’altro, ma alla fin fine, cari ragazzi, se proprio v’interessa il mio sentiero, la prima cosa da fare è:

TROVARE UN LAVORO
CERCARE UN LAVORO
trovare un Lavoro qualsiasi
sì, Cercare, e troVare, un LaVoRo.
[e se vi dicono che il lavoro non c’è, sputategli nell’occhio]

Mentre parlavo mi deprimevo perché li deprimevo, e scoraggiandoli mi scoraggiavo. Ma vacci tu a raccontare cazzate ai ragazzi di 16 anni. Come fai a raccontare cazzate a uno studente? Bisogna essere proprio cinici, no? Dunque non ero positivo, non ero ottimista. A un certo punto (il più basso) gli ho anche detto che Carver faceva il taglialegna in un posto che si chiama Eureka.

Allora uno studente s’è alzato e m’ha rimproverato:

«Io non capisco. Lei non è stato incoraggiante. Noi abbiamo bisogno di fiducia. Dobbiamo scegliere. Lei non ci dà fiducia».

Aveva individuato l’anello debole. Questo era OK. Questo vuol dire che io ero stato OK. Perché il mio compito era proprio mostrare l’anello debole, cioè io [sic], che ero lì per non diseducare, per non illudere.

A casa mi chiesero: beh, com’è andata?

E io [sic]: ho fatto schifo.

Poi il tempo è passato; e si dimentica.

Fino a oggi.

Oggi m’è arrivata questa notizia: il figlio di una conoscente frequenta il mio ex liceo, e ha raccontato alla madre di aver partecipato con la sua classe a un incontro sul mestiere di scrivere, qualche settimana fa. C’erano uno sceneggiatore, una giornalista e uno scrittore. Sostiene il ragazzo che lo scrittore gli è piaciuto:

«Ci ha detto che dobbiamo trovare un lavoro».

Il solito dittatore
Il solito dittatore

III – UN SOGNO DI PASQUA

Questa notte, dalla quale apro gli occhi, ho sognato che una sedicente regista filmava un documentario sui miei luoghi; mostrava un bosco ripariale lungo l’ansa di un fiume; sabbia, ghiaia e depositi di argilla denunciavano una valle fluviale; un sentiero era contornato da pioppi bianchi, roverelle, cerri, alberi di Giuda dalle fioriture violacee. Lungo il sentiero passa una carrozza. È lentissima e il suo portamento ricorda la discesa del secchio in un pozzo. Dondola in silenzio. Tardi raggiungerà la prossima stazione, dove ci si confronta col dolore. Nelle sue tappe colleziona giorni di pioggia, bare, smacchi, malattie, divorzi, fallimenti. Ha ruote di legno cigolante, solo tre: una davanti e due dietro. Il cocchiere è un manichino nudo nel legno con la testa calva e forata sulla teca e l’onda dei seni visibile. Il cavallo non c’è, le briglie strisciano per terra davanti al cocchio e lo tirano. Mai stato laggiù, dove non c’era nulla di mio. Eppure la regista veniva a incassare. Inviava un contratto sulle cui pagine, molte, leggevo le mie firme, e nel quale m’impegnavo a versare novecentomila euro in mille rate da novecento.

Quel bosco era forse il Novecento?

Chiedo consiglio a mia madre, opportunamente resuscitata per il sogno di Pasqua: «Che faccio? È un furto. Non dovrò mica pagare?». E lei, già arresa: «Paga le prime rate, poi vedremo». «Ma come? Ma cosa dici!» «Devi pagare, Davide, è la tua vita».

Poi il sogno deviò in questioni di rabbia presente, nella veglia della contingenza e la coscienza era uno scivolo, oppure scivolavo verso la coscienza e affiorava una protesta ad alta voce e solo la fata del rispetto notturno, della pastiera infornata, della pioggia sussurrata, del letto incorniciato, del cuscino saldato, della veilleuse fredda, del libro chiuso, dell’acqua immobile, dell’armadio sedato, del bambù assopito, fu in grado di pronunciare le parole giuste per chiudere.

***

IV – LETTERA DI PRESENTAZIONE

Gentile Dottore,

voglia prendere in esame la mia offerta di collaborazione. Come potrà leggere nel curriculum Europass che Le allego, al momento esercito nel settore dei peraccotai. Sì, c’è scritto “peracottaro” (al Settore). Tuttavia l’attività che più amo e so svolgere è vendere il ghiaccio, che smercio in primavera e d’estate. Ma quando viene l’autunno, e poi l’inverno, a nessuno più serve il mio ghiaccio; per questo nei mesi freddi io vendo le pere cotte e le mele. Ad ogni modo col primo caldo o tepore io torno al ghiaccio, che è la mia vera passione; difatti ho condotto per anni un esercizio, anche, di grattacheccaro (veda sempre il curriculum alla pagina due). Ora però – e vengo alla ragione del mio scriverLe – sento crescere in me un desiderio di cambiamento. Lei penserà: «Non è ragionevole! Se ama tanto il ghiaccio, perché cambiare mestiere o anche solo desiderarlo?». Il fatto è che la realtà non solo circonda come una cornice me e Lei, gentile Dottore, ma ci modifica e bagna come un mare forte e profondo; e ne veniamo su umidi, asciutti mai più.

Così mi succede di voler cambiare, seppure io ami il ghiaccio e non odii le pere, gentile Dottore, perché il tempo mio e Suo è di innovazioni e rottamazioni. Mi spinge il vento del modificarsi, più forte di me, con le sue leggi che il Governo impone e le Camere approvano (m’informo anch’io) e che non m’ispirano alcuna fiducia (al contrario, diffidenza e terrore) e assieme m’ipnotizzano e costringono a essere nuovo, forse diverso, meno felice. Ma no, cosa c’entra l’infelicità? Non cancello la riga soprascritta giusto per la schiettezza e sincerità che Le voglio, Dottore; ma io sarò felice, non ho dubbi, e sono ben consapevole d’essere felice di voler cambiare, al di là della legge, non ostanti le norme. Dunque eccomi a Lei col mio desiderio di lasciarmi il ghiaccio alle spalle, e la frutta matura. Spero che Lei saprà cogliere, gentile Dottore, una scintilla delle mie capacità, un piccolo lampo delle possibilità mie nel CV Europass che Le allego.

Con stima e cordialità, e in attesa di un riscontro Suo, La saluto (per questa sera e per sempre).

Le belle di Maggio

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L’Abécédaire de Gilles Deleuze: E comme Enfance

“A proposito di ferie pagate mi ricordo la spiaggia di Deauville il primo anno delle ferie pagate. Uno spettacolo che per un regista di cinema doveva essere un capolavoro, con tutta questa gente che vedeva il mare per la prima volta, è prodigioso. Ho visto qualcuno che vedeva il mare per la prima volta nella sua vita. È splendido. Era una ragazzina della regione di Limousin, era con noi. Se c’è una cosa di inimmaginabile quando non la si è vista è proprio il mare. Si può dire il mare è qualcosa di grandioso, di infinito, e non vuol dire niente. Ma quando vedi il mare… e quella ragazza è rimasta 4 o 5 ore davanti al mare, completamente inebetita come un’idiota dalla nascita, e non smetteva di guardare uno spettacolo così sublime e così grandioso.

La spiaggia di Deauville era sempre stata riservata ai borghesi, era loro proprietà. Quando sono arrivate le ferie pagate e la gente che non aveva mai visto il mare… è stato grandioso. Se l’odio di classe vuol dire qualcosa… mia madre che pure era la migliore delle donne parlava dell’impossibilità di stare su una spiaggia con della gente così. Era dura. Il maggio ’68 non è stato niente in confronto!

La paura, non si poteva fermare tutto questo. Se si davano le vacanze agli operai scomparivano tutti i privilegi borghesi. Un manovale che veniva sulla spiaggia era come il ritorno dei dinosauri. Come un’aggressione. Era peggio dei tedeschi.

Quello che succedeva nelle fabbriche i padroni non lo hanno mai dimenticato. Credo che abbiano ancora una paura ereditaria. Più spaventoso del ’68 che pure ha fatto paura e ancora ne fa.

Quindi dicevo siamo rimasti con mio fratello a Deauville ed è allora che ho smesso d’essere un idiota.”

 

https://youtu.be/DR7lYynyCDA

Le culture del precariato

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di Silvia Contarini

“Pensare il precariato e le differenze nell’Italia della globalizzazione”9788897522973

L’articolo è incluso nel volume Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Verona, ombre corte, 2015.

 

Questo nostro saggio intende contribuire a pensare l’interazione tra precariato e differenze, con riferimento specifico alla situazione italiana attuale. Procederemo per giustapposizione di problematiche allo scopo di mostrare come una riflessione sul precariato non possa ignorare fattori quali l’appartenenza sessuale, la questione razziale e il fenomeno migratorio: “La precarietà della condizione salariale riguarda alcuni gruppi sociali più di altri: le donne e gli immigrati, a cui generalmente erano riservati settori specifici nel mercato del lavoro, sono generalmente i più colpiti. Sessismo e razzismo si combinano infatti […] per mantenere una parte della popolazione in posizioni subordinate nel mercato del lavoro”[1].

Premettiamo che su questi temi si interrogano da anni femministe di orientamenti diversi, tra cui quelle che fanno capo al cosiddetto femminismo postcoloniale, come Talpade Mohanti, che riflette sulle “connessioni esistenti tra strutture sessiste, razziste e classiste a livello internazionale” nonché sul “lavoro da donne”[2]. Anche il femminismo italiano si interessa alle nuove configurazioni e accezioni del “lavoro femminile” in connessione con precariato e migrazioni, nel più generale contesto della globalizzazione e della decolonizzazione[3].

  1. Somali a Roma

Nel suo romanzo Madre piccola, Cristina Ali Farah, scrittrice di madre italiana e padre somalo, vissuta fino a diciotto anni a Mogadiscio poi fuggita in Italia a causa della guerra civile, racconta le vicissitudini della diaspora somala, in particolare della comunità romana. Una delle protagoniste, Barni, da anni immigrata a Roma e piuttosto felice di viverci, di professione ostetrica, così commenta la situazione: “In fondo per noi donne è molto più semplice, non è forse vero che facciamo la stessa vita ovunque ci troviamo? Non continuiamo forse a occuparci, a prenderci cura di qualcuno?”[4]. Barni afferma insomma che uomini e donne non vivono l’e/im/migrazione nello stesso modo, le donne si adattano meglio grazie a un’atavica abitudine al sacrificio di sé e alla dedizione; inoltre, il tipo di attività che esse svolgevano in patria (lavori domestici o di cura) è lo stesso nel nuovo paese di residenza. Questo succede nella fiction romanzesca[5], come nella realtà: Nuruddin Farah, scrittore somalo di lingua inglese, descrive una situazione simile in Rifugiati, Voci della diaspora somala[6], un libro composto da riflessioni personali e interviste a somali in diaspora. Come un leit motif, le donne somale intervistate gli raccontano che sono costrette a lavorare per mantenere mariti, figli, fratelli, cugini; tuttavia così si emancipano e si integrano e perciò “se la passano meglio degli uomini” o addirittura “stanno godendo di un certo successo economico”[7]; gli uomini, invece, non si abbassano a fare lavori umilianti, e bighellonano nei luoghi di ritrovo comunitari, restano tra loro, e “per sopravvivere, contano esclusivamente sul sudore delle donne, piuttosto che su quello della propria fronte”[8]. C’è di più: benché alla fine dipendano dalle donne, gli uomini continuano a considerarle loro subordinate e pretendono di essere serviti. Dice una somala che ospita numerosi “ragazzi” della sua famiglia:

“Pur essendo padrona di me stessa, non sempre riesco a mantenere il controllo sulle cose […]. Io indosso la veste di donna di servizio sei giorni a settimana, per guadagnare da vivere, e il mio stipendio mi serve per dare da mangiare a degli uomini che pretenderebbero fossi io a mettere in ordine il loro caos, dopo che ritorno a casa mia. In quanto donna, sono perennemente soggetta a recriminazioni e rimproveri, se non servo gli uomini in tutto e per tutto”[9].

 

Va subito osservato che questi comportamenti maschili e femminili, lungi dall’essere imputabili a una cultura specifica somala, riproducono strutture patriarcali dominanti su scala transnazionale. Ma va osservato anche che alle donne immigrate, doppiamente subordinate, vengono doppiamente assegnati lavori di domesticità, di cura. Il cosiddetto fenomeno delle domestiche della globalizzazione, già oggetto di studi[10], assume particolare rilievo in Italia[11] dove l’immigrazione fin dagli anni Novanta è caratterizzata da una forte presenza femminile, spiegabile in gran parte con l’invecchiamento della popolazione e le carenze del welfare[12]. Le donne immigrate sono dedite in grandissima maggioranza a tre attività: lavori domestici o di assistenza familiare (colf, badanti, infermiere, etc.), lavoro casalingo (donne arrivate per ricongiungimento familiare), lavoro nell’industria del sesso (il commercio sessuale è svolto in percentuali superiori all’ottanta per cento da immigrate)[13]. Le immigrate rimangono quindi confinate a lavori di cura e di prostituzione, ossia attività convenzionalmente femminili. Si osservi anche il divario che si instaura tra le donne italiane, che svolgono fuori casa attività socialmente riconosciute, e le donne immigrate, che le sostituiscono nei lavori domestici: l’emancipazione delle une si fa grazie al mantenimento delle altre in ruoli subordinati[14]. Secondo i punti di vista, alcuni notano che in questo modo due donne lavorano, altri che due madri non si occupano dei propri figli…

Un’ulteriore osservazione va a rimarcare che il lavoro di cura diventa fonte di reddito: se tra le immigrate si perpetuano ruoli di genere tradizionali, il lavoro, sia pure quello domestico, umile e precario, rappresenta un momento di autodeterminazione e uno strumento di autonomia economica; di conseguenza, l’immigrazione crea una possibilità di svincolo dalle strutture familiari e dalla cerchia comunitaria, crea una possibilità di transizione da una condizione, certo stabile ma ancestrale e fissa, a un’altra certo precaria ma autonoma e in movimento. E, come nota Campani, “il cambiamento di ruoli tra uomini e donne, nei più recenti flussi migratori, è percepito all’interno dei gruppi immigrati e non manca di provocare tensioni, crisi, difficoltà”[15].

Un’ultima osservazione, trattandosi nel caso preso in esame di immigrazione dalla Somalia, riguarda il fattore postcoloniale, poiché le eredità del colonialismo “hanno giocato un ruolo fondamentale nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia contemporanea”, afferma Sabrina Marchetti nel suo recente Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale[16], libro dedicato all’immigrazione femminile in provenienza da un’altra ex-colonia, l’Eritrea. Marchetti si interroga sulle relazioni tra soggettività migrante postcoloniale, lavoro domestico e di cura, e storia del colonialismo e della decolonizzazione; come suggerisce, si potrebbe vedere nelle colf e badanti del corno d’Africa oggi in Italia una variante neo-coloniale delle donne a servizio nelle famiglie italiani ai tempi del colonialismo. Anche su questo punto, la fiction fornisce rappresentazioni suggestive; basti pensare al romanzo Regina di fiori e di perle, dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi, nel quale leggiamo la storia di Woizero Bekelech: era meno sfruttata quando lavorava come domestica in una famiglia italiana di Addis Abeba, di quanto lo sia ora che fa la badante in un paesino emiliano, presso una famiglia che le fa subire anche umiliazioni di stampo razzista e colonialista[17].

  1. Femminilizzazione del lavoro

Queste osservazioni, che pertengono alla questione del precariato in rapporto a immigrazione e genere, ci hanno permesso di entrare in materia. In una prospettiva diversa, focalizzata sulla valorizzazione del care, si situa invece il recente saggio di Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, pubblicato con una prefazione di Judith Revel nella collana UniNomade di ombre corte[18]. Morini sviluppa diverse osservazioni sulle donne e il care labour, i lavori di cura alle persone, formulando la proposta originale di incrociare i due concetti di differenza e precarietà, per definire la condizione del soggetto precario-differente, un soggetto multiplo, dice, senza identità fissa né sostanza stabile, soggetto transitorio e in trasformazione[19]. Nel primo capitolo intitolato Razza precaria, Morini spiega che la transizione è lo status comune del soggetto contemporaneo, e perciò occorre far leva sull’alterità piuttosto che sull’identità[20]. Precisa però che il concetto di differenza è di per sé insufficiente per spiegare le trasformazioni del mondo del lavoro, in particolare la sua femminilizzazione. Nel secondo capitolo, intitolato appunto La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo, Morini precisa che per femminilizzazione intende non tanto un aumento quantitativo della popolazione attiva femminile[21], quanto piuttosto una modificazione qualitativa del lavoro contemporaneo, di cui il lavoro femminile diventa paradigma: le condizioni normalmente riservate alle donne (assoggettamento, precarietà, bassi livelli salariali, disvalore sociale) si estendono agli uomini; nel contempo, la manodopera a basso costo, flessibile, ricattabile, ricercata a livello mondiale con le delocalizzazioni, si trova anche in loco, in Occidente, grazie alla presenza sul mercato di donne e immigrati. Infine, per femminilizzazione del lavoro intende anche l’estensione del care labour, concetto inclusivo del cognitive labour, in correlazione al disfacimento di un sistema welfare che assicura sempre meno prestazioni sociali.

Nel seguito del saggio, Morini riporta una sua inchiesta di terreno, condotta a Milano, tra lavoratori della conoscenza precari (giornalisti free lance). Ora, a nostra sorpresa, le interviste di Morini danno risultati curiosamente simili a quelli delle interviste alla comunità somala condotte da Nuruddin Farah. Le giornaliste italiane free lance, come le immigrate somale, confrontate a una nuova situazione, hanno maggiore capacità di adattamento degli uomini, i quali “mostrano più difficoltà ad adattarsi alle nuove dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo”[22]. Questa dimensione polivalente e qualitativa introdotta dalla femminilizzazione del lavoro includerebbe una generalizzazione dell’oblatività, ossia la richiesta di totale disponibilità e dedizione da parte del soggetto. Ne traiamo la seguente conclusione: proprio la capacità di adeguarsi e consacrare se stesse che rende le donne appetibili per il mercato del lavoro, rende il lavoro non più appetibile a chi non voglia adattarsi e dedicarsi, ossia femminilizzarsi… Insomma, il mondo del lavoro attuale richiede requisiti (sacrificio di sé, disponibilità totale, predisposizione alla cura) di cui le donne si avvarrebbero senza sentirsi svalorizzate, o perché già tali.

Il saggio di Morini indurrebbe a osservare che la precarietà sembra contribuire alla de/ricostruzione identitaria, degenerizzando il lavoro; in altri termini, la precarietà andrebbe contro la dicotomia, anche fordista, uomo/donna, produzione/riproduzione; il lavoro oggi andrebbe “oltre il genere”, oltre la classica divisione sessuale del lavoro[23]. Ne consegue, per Morini, che uomini e donne, entrambi precarizzati nel mondo globalizzato, subiscono le stesse condizioni e devono portare avanti la stessa lotta e le stesse rivendicazioni; per esempio, nell’immediato, la richiesta di un basic income (reddito garantito), il quale permetterebbe il recupero dell’autonomia del soggetto, l’autodeterminazione, il diritto alla scelta del lavoro. Un’ulteriore affermazione di Morini si pone sotto il segno della volontà di cambiamento: rivalutare e riappropriarsi del care può indicare “un fare comune”, la costruzione di un modo diverso di pensare e vivere nel mondo[24].

Sebbene le analisi proposte da Morini siano stimolanti e individuino con precisione molti nodi problematici, né l’una né l’altra delle conseguenze che ne trae sono del tutto convincenti, e anzi sollevano perplessità. Nell’affermare che nel mondo globalizzato e precarizzato donne e uomini, italiani e immigrati, bianchi e neri, subiscono le stesse condizioni, si appiattiscono proprio quelle differenze poste inizialmente alla base della riflessione sul soggetto precario-differente; e l’invito di unirsi rivolto ai precari rischia di riattualizzare la vecchia diatriba sulla priorità della rivoluzione di classe rispetto ai movimenti di liberazione. Ma le maggiori perplessità vengono dall’altra conclusione di Morini, l’incoraggiamento a rivalutare il care, ossia il prendersi cura degli altri, prerogativa culturalmente e storicamente assegnata al genere femminile, per farne la base di un nuovo modo di vivere comune, senza interrogarsi sul fatto che così si estenderebbero agli uomini (o piuttosto, a certi uomini, disoccupati, immigrati) i valori su cui si è costruita nei secoli la condizione di assoggettamento e sottomissione delle donne. Noi non saremmo così sicuri che il sacrificio di sé, l’oblatività, la domesticità, il curare anziani, malati e bambini, la mutua assistenza siano le migliori fondamenta per un cambiamento positivo.

  1. Connessioni precarie

Alle lotte contro il precariato sono dedicati diversi siti e progetti[25], ma di connessione tra differenze e precariato, con attenzione specifica ai fenomeni migratori e alle problematiche di genere, si parla soprattutto su connessioniprecarie.org, un sito fondato da precari e migranti, ricco di materiali a carattere politico, sociale e culturale, condivisibili o meno. La dichiarazione di intenti che figura in home page è particolarmente interessante; leggiamo: “∫connessioni precarie è un’area di uomini e donne, precari e non, migranti e italiani che hanno assunto come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e complessiva del lavoro contemporaneo. La nostra scommessa è quella di rompere l’isolamento dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dalle differenze che li dividono. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà”. Un “legame globale” personificato dai migranti, “il pezzo di globalizzazione soggettivamente presente in Italia e in Europa”[26], così definiti in un altro articolo, dedicato al basic income, la cui attribuzione, secondo gli autori, vedrebbe opposti lavoratori precari italiani e immigrati con difficoltà di regolarizzazione.

I fondatori e animatori di questo sito ritengono quindi che le diverse forme di precarietà e le diverse lotte non vadano pensate al di là delle specificità, ma proprio a partire da queste. Leggiamo, in un altro editoriale, che “il lavoro è sempre più frammentato, solcato da differenze e gerarchie che sono contrattuali, sessuali, razziali, di cittadinanza”[27]. Le connessioni tra migrazione, precarietà e genere, sono ribadite anche nel testo-manifesto, I diritti e qualcosa di più: Verso una Precarious’ Charter, diviso in dieci “comandamenti”. Recita il quinto comandamento: “Precario ricorda che sei migrante. Il lavoro migrante è una forma paradigmatica di precarietà”, insistendo sulla ricattabilità del precario, sulla precarietà del permesso di soggiorno, e sul razzismo istituzionalizzato.

Recita il sesto comandamento:

“Precaria ricorda che sei donna […]. La femminilizzazione del lavoro non riconosce alcuna qualità specificamente femminile, ma è una modalità di messa al lavoro e di sfruttamento di tutti i precari e ancor più delle donne. Nel privato le donne pagano – spesso con il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e di cura; nel pubblico, il welfare che ancora sopravvive fornisce contributi monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di cura. Le donne non sono solo un segmento del lavoro tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma contemporanea di tutto il lavoro”[28].

Insomma, le due categorie che più subiscono il precariato e lo sfruttamento sono gli immigrati e le donne[29]; gli uni perché ricattabili e oggetto di disprezzo a connotazione razziale, le altre perché storicamente confinate a lavori di cura. L’analisi qui sopra, vicina a quella di Morini, se ne distingue per due sfumature che teniamo a sottolineare e sviluppare: la prima è che la cosiddetta femminilizzazione del lavoro non rimanda a qualità specificamente femminili, col rischio di naturalizzarle, è una modalità di sfruttamento radicata in secolari rapporti di dominazione. La seconda è che riflettere sulla posizione delle donne (ovvero: la sedicente predisposizione femminile alla cura, al dono e al sacrificio, sfruttata dalla società patriarcale) permette di pensare la posizione attuale del precario, sfruttato dalla società neoliberale.

  1. Connettere le disconnessioni

Nel presentare in un primo capitoletto, attraverso un romanzo e un libro di interviste, la situazione delle donne somale in Italia e più in generale la situazione delle domestiche della globalizzazione tra emancipazione e precariato; in un secondo capitoletto, lo studio di Cristina Morini sulla femminilizzazione del lavoro e sull’influenza e la diffusione del care; e in un terzo, un sito web di lavoratori precari dall’emblematico nome connessioni precarie, in cui si afferma l’importanza delle differenze per affrontare la riflessione sulla precarietà, abbiamo operato anche noi un collegamento, forse temerario, di problematiche e materiali disparati, con l’intento di “attraversare” le differenze, farle dialogare. Così operando abbiamo voluto soprattutto mettere in rilievo non tanto l’evoluzione del mercato del lavoro e della precarizzazione nello specifico italiano, quanto lo stretto legame su scala mondiale tra migrazione, femminilizzazione, precariato, e quindi affermare la necessità – quando si vogliano pensare le trasformazioni in corso nel mondo globale attuale, e quindi in Italia – di non sottovalutare le interazioni tra fattori di differenti soggettività.

Per concludere, vorremmo citare ancora Morini, quando afferma che “il potere non disdegna di ‘femminilizzare’ anche gli uomini, se questo significa abbassarne le condizioni e ridurne i diritti. Li femminilizza anche nella richiesta di partecipazione e di oblatività”[30]. Leggendo questa giusta osservazione, ci siamo chiesti: allora, hanno ragione gli uomini somali quando rifiutano di accettare la condizione di migranti e precari, rigettando lavori di cura o schiavizzanti (come la raccolta di pomodori), perché così esprimono il rifiuto di una condizione degradante, quella riservata alla donna e al servo, una condizione di doppia sottomissione? Il loro rifiuto della femminilizzazione di sé, in questo senso, è rifiuto della subalternità nella sua forma neocoloniale. Ma ci si può chiedere anche se non abbiano ragione le donne (somale, eritree, italiane, etc.) che, accettando la disponibilità e l’abnegazione insite nel care, accettano anche la transitorietà e il cambiamento, facendo propria una nuova condizione in cui vedono l’opportunità di autodeterminazione e autonomia.

Una prima risposta la possiamo dare insistendo sulla necessità di non semplificare la complessa articolazione dei rapporti di dominazione, in particolare l’interazione dei fattori di genere, etnia, classe, rinviando al dibattito, tuttora in corso in ambito femminista, sul concetto metodologico di intersezionalità, che permette di pensare la difficoltà dell’articolazione dei rapporti di discriminazione ed esclusione[31].

Una seconda risposta ci permette di tornare su una precedente considerazione. Quando si propone di rivalutare il care per farne la base della costruzione di un “fare comune”, o quando si parla di degenerizzazione del lavoro come superamento positivo della divisione sessuale del lavoro, si rischia di sottovalutare il radicamento della polarizzazione femminile/maschile, la determinazione di prerogative che culture secolari hanno assegnato a donne e uomini: perché di fatto il femminile resta fortemente ancorato alla negatività (degrado, subordinazione, passività) squalificando qualunque soggetto ne porti il segno, sia esso donna o uomo; mentre il maschile resta il polo positivo, che implica affermazione, forza, intelletto, dominio. Vogliamo dire, ricordando queste ovvietà, che il fattore di genere come quello di razza rinviano – oltre a divisioni di ruoli sociali – anche a categorie ideologiche (e non naturali), a interiorizzazioni di valori; e queste sono molto più insidiose, molto più profonde di quanto si pensi, e perciò molto più difficili da scardinare.

In altri termini, una riflessione sul precariato che ignori l’impatto delle differenze è inevitabilmente parziale, nel duplice senso di incompleta e di parte. Come ricorda Talpade Mohanty, “Proprio come le idee di ‘maternità’ e di ‘domesticità’ sono costrutti storici e ideologici piuttosto che ‘naturali, l’idea di un ‘lavoro tipico da donne del Terzo mondo’, in questo contesto particolare trova il proprio fondamento nelle gerarchie sociali strutturate da sesso/genere, dalla razza e dalla classe”; e ancora: “Le ideologie della clausura e della domesticità delle donne sono di chiara natura sessuale, essendo la derivazione diretta delle nozioni maschili e femminili di protezione e proprietà. Si tratta anche di ideologie eterosessuali, basate sulla definizione normativa delle donne in quanto mogli, sorelle e madri – mai slegate dalla relazione matrimoniale e dalla ‘famiglia’”[32].

[1] Giovanna Campani, Genere, etnia e classe. Migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa 2005, p. 136.

[2] Chandra Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti, trad. it. di G. Giuliani, ombre corte, Verona 2012, p. 102. Ai fini del presente studio, si rimanda soprattutto ai capitoli Cartografie della lotta, pp. 63-114, e Lavoratrici e politica della solidarietà, pp. 137-175.

[3] Menzioniamo almeno: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della ri-produzione, Rubettino, Roma 2001; Beatrice Busi, Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale, in Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi, culture, lavoro, manifestolibri, Roma 2006, pp. 69-83; Alice Mattoni, La questione femminile nelle lotte contro la precarietà in Italia, in “Inchiesta”, luglio-settembre 2008, pp. 102-115; Laura Fantone (a cura di), Genere e precarietà, Scriptaweb, Napoli, 2011, scaricabile in formato PDF su https://www.academia.edu/7204504/Genere_e_Precarieta. Benché non riguardi direttamente la situazione italiana, si veda anche Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, trad. it. di A. Curcio, ombre corte, Verona 2014.

[4] Cristina Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, Milano 2007, p. 264.

[5] Vedi anche il romanzo di Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma 2004, in cui una delle tre protagoniste, Barni, “faceva la domestica a ore e si doveva scapicollare per diverse zone di Roma a lavare cessi rosa molto sudici” (p. 21).

[6] Nurrudin Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, Roma 2003, trad. e intr. di A. Di Maio.

[7] Ivi, p. 212 e p. 238.

[8] Ivi, p. 105.

[9] Ivi, pp. 108-109.

[10] Vedi per esempio Rhacel Salazar Parreñas, Servants of Globalization Women. Migration, and Domestic Work, Stanford University Press, Stanford 2001; Ruba Salih, Mobilità transnazionali e cittadinanza. Per una geografia di genere dei confini, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 153-166; Silvia Cavallini, Il lavoro domestico delle donne immigrate in Italia, in Maria I. Macioti, Vitantonio Gioia, Katia Scannavini (a cura di), Migrazioni al femminile. Protagoniste di inediti percorsi, EUM, Macerata 2007, pp. 65-86.

[11] Tuttavia, anche in altri paesi, si assiste a fenomeni simili; si veda per esempio Maria Kontos, Donne migranti in Germania e mercato globale del lavoro domestico, in Giovanna Campani (a cura di), Genere e globalizzazione, ETS, Pisa 2010, pp.159-175.

[12] I dati Istat aggiornati al primo gennaio 2013, confermano la tendenza: le straniere residenti sono 2.327.968, gli stranieri 2.059.753 (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1&Lang=). Cfr. anche Antonio Ricci e Franco Pittau, La presenza femminile nella immigrazione: famiglia, matrimoni e coppie miste, in Migrazioni al femminile, cit., pp. 17-63; Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, p. 20.

[13] Sui settori di attività delle donne immigrate, rinviamo a Campani, Genere, etnia, cit., pp. 112-146. Sul lavoro sessuale, rinviamo a Busi, Il lavoro sessuale, cit.

[14] Non è questa la sede per attardarsi sul punto, ma vorremmo attirare l’attenzione sul pericolo insito nell’idea di una di emancipazione “colpevole” delle donne occidentali, quale emerge, per esempio, dalla Presentazione di Renate Siebert al volume di Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., pp. vi-vii.

[15] Ivi, p. 141. A cura della stessa Campani, meno incentrato sulla situazione italiana e sul mercato del lavoro, si veda anche Genere e globalizzazione, cit.

[16] Sabrina Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Ediesse, Roma 2011, p. 26.

[17] Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007. La Storia di Woizero Bekelech e del signor Antonio è alle pp. 243-277.

[18] Ricordiamo anche il precedente: Cristina Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, DeriveApprodi, Roma 2001.

[19] Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010, p. 38.

[20] Ivi, p. 48.

[21] Sul punto, ma con prospettive diverse, si veda Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., la quale analizza il “processo di femminilizzazione della produzione sia a livello concreto che metaforico” (p. 47) nei mutamenti globali in corso. E si veda anche Judith Revel, Féminisation du travail et précarisation de l’existence: deux paradigmes superposés, in Silvia Contarini e Luca Marsi (a cura di), Précariat. Pour une critique de la société de la précarité, Presses Universitaires de Paris Ouest, Nanterre 2014, pp. 125-136; Revel osserva anche che nel processo di femminilizzazione delle condizioni di lavoro (ossia di degrado) le donne, inizialmente preposte a questo genere di lavori, vengono sostituite da immigrati e precari. Si veda infine Gruppo Sconvegno, Un’istantanea della precarietà: voci prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà, in Fantone (a cura di), Genere e precarietà, cit., pp. 117-133.

[22] Ivi, p. 70.

[23] Ivi, p. 124.

[24] Ivi, pp. 20-21.

[25] Cfr., per esempio, http://www.precaria.org/ e http://www.universitadelledonne.it/precas.htm.

[26] Costellazione precaria: riflessioni minime sul reddito garantito, 12 gennaio 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/01/12/costellazione-precaria-riflessioni-minime-sul-reddito-garantito/ (senza firma).

[27] Dai precari alla precarietà: per dire addio a entrambi, 22 settembre 2011, in http://www.connessioniprecarie.org/2011/09/22/dai-precari-alla-precarieta-per-dire-addio-a-entrambi/ (senza firma).

[28] I diritti e qualcosa di più: verso una Precarious’ Charter, 19 marzo 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/03/29/i-diritti-e-qualcosa-di-piu-verso-una-precarious-charter/.

[29] Sulla precarietà lavorativa e esistenziale delle donne, cfr. anche saggi e testimonianze raccolti da Clotilde Barbarulli e Liana Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari 2006.

[30] Morini, Per amore, cit., p. 125

[31] Cfr. tra i vari studi, in lingua italiana, Sabrina Marchetti, Intersezionalità, in Caterina Botti (a cura di), Le etiche della diversità culturale, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 133-148. Si veda anche Elsa Dorlin, “Sexe” “race” et “classe”: comment penser la domination?, in Sexe, genre et sexualités, PUF, Paris 2008, pp. 79-88.

[32] Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere, cit., p. 102, la prima citazione, p. 152 la seconda.

Musica nell’orto: note a margine di una grammatica del sapere.

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di Tina Nastasi

musica vegetale

Giorgio, 11 anni: “la mia prof di musica non è normale. Fa cose di arte e poi ci fa fare anche l’orto. Cosa c’entra l’orto con la musica?!”

Non è una vera domanda, naturalmente. Mi suona subito come una protesta. Ecco – mi dico – un altro ragazzetto di scuola media cresciuto a supponenza,  che già alla fine del primo anno è pronto alla sassaiola contro chi gli insegna. Ne ho visti almeno di tre future generazioni differenti. Il modello non è cambiato, malgrado tre riforme.

 

Lo sfido: “prova a farti davvero la domanda, è molto buona, sai? Prova a ragionare per assurdo, sai come si fa in geometria?” – Sono una prof di italiano, storia e geografia e devo spesso farmi perdonare i miei sconfinamenti epistemologici nelle altre discipline, specie le scientifiche, ma questo non sembra preoccupare Giorgio, al momento –  “Prendi un’affermazione e prova a dimostrare, in tutto e per tutto, che è vero il suo contrario. Dunque, sei convinto che musica e orto non abbiano nulla a che vedere”. “Sì”, – replica lui – “niente!. Tutto è nato dal fatto che il mio zaino è cascato sul piede della prof e a lei è sembrata una zappata”. “Va bene”, dico io, “prova lo stesso a concentrarti e vedere se ci sono collegamenti possibili tra musica e orto”.

Sembra entrare nel gioco per una frazione di secondo, poi ne esce subito: “io non ne trovo”, ammette. “Ben diverso non trovarne dal non essercene”, dico io.

Mi viene in mente la storia della chiesa di Rosslyn, sulla cui pietra hanno scoperto scolpita in figure un’intera partitura di musica rinascimentale. “Cosa ha a che fare la musica con i capitelli delle colonne di una chiesa”, gli chiedo. Gliela racconto. Mi godo il suo silenzio. Poi ci salutiamo. E mi chiedo: quando finirà questa nostra contemporanea vivisezione del sapere che educa al “divide et impera”?

La ministra Giannini afferma, in un’intervista sul quotidiano Repubblica, che la Buona scuola sarà legge a metà giugno: in Senato non ci saranno problemi, ne è convinta.

Sinceramente non ho trovato da nessuna parte, nel testo della legge, parole che sappiano di educazione e cultura del sapere.

Anzio, 26 aprile 2015.

Storie (quattro inediti)

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di Damiano Sinfonico

 

 

Mi telefona nei momenti sbagliati.

Sempre, chiunque.

Non rispondo più. Lo faccio apposta.

Appare il numero sul display, e mi secca.

Lascio correre gli squilli, me ne infischio.

Richiamerà più tardi, nel pomeriggio, o alla sera.

Chiamerà quando ci sarà qualcuno in casa, non io.

La casa diventa una conchiglia.

Squilla, squilla, come fosse disabitata.

Io mi avvolgo nelle sue pareti bianche, e resto in ascolto.

A volte ho la tentazione di staccare la corrente.

*

Ci tocca questa trafila di vetrine, di manichini spogliati.

Allungano la mano, con borse e foulard sgargianti.

Dal magazzino scendono e salgono come fiocchi di neve.

Sorridono, scintillano, oscillano, bevendo la luce del mattino.

*

In libreria, si presentano due poeti.

Hanno l’aria tranquilla.

Parlano di dolore, impudicamente.

Resto perplesso.

Il cielo è grigio, si sta bene fuori.

Lascerò questa grotta sanguinante.

Il brillio di una postuma adolescenza.

*

alla P.

Che stupida !

Sì sì proprio stupida !

Ah ah mi dicevo.

Ma poi la tua insipienza si trasformava.

E usciva la farfalla della perspicacia.

“Fuori, vicino, attraverso”. Festa di Nazione Indiana a Pistoia

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9-10 MAGGIO, Circolo Le Fornaci, Pistoia

Fuori, vicino, attraverso.

SABATO 9 MAGGIO

Ore 14.30  Inizio della Festa e presentazione del programma.

Ore 15.00 “Strani confini mobili”: traduzione & poesia

Tradotte e pubblicate per la prima volta in Italia, le opere di due tra le più influenti voci poetiche statunitensi contemporanee saranno presentate dalle rispettive traduttrici in un dialogo sull’esperienza e le sfide della traduzione: Dieci Bozze di Rachel Blau Du Plessis, trad. di Renata Morresi (Premio Nazionale per la Traduzione MIBAC 2014 e Premio Naz. Achille Marazza 2014 per la traduzione poetica) e Pastorali di John Taggart, trad. di Cristina Babino (Premio Naz. Achille Marazza 2014 per la traduzione poetica) pubblicati dall’editore Vydia.  Ne discutono Renata Morresi e Cristina Babino. Modera Francesca Matteoni.

Ore 16.10: break.

Ore 16.30 Gender & suoi derivati. Presentata da più parti del mondo cattolico (incluso la sua massima autorità) come uno spauracchio collettivo, la cosiddetta “ideologia del gender” corre sulle bocche e sulle tastiere di molti, con spot e testi a difesa dell’eteronormatività toccando picchi certamente caricaturali. L’anatomia patologica di una teoria inesistente che cela paure omofobe e visioni stereotipate della relazioni uomo-donna ci introduce, invece, ad una ricerca mobile dei concetti di identità e desiderio. Ne discutono Pina Caporaso, Renata Morresi, Daniela Brogi e Tiziana de Rogatis.

Ore 17.50: break.

Ore 18.00 Incontro su Letteratura sudamericana. Da Borges a Bolaño, passando per García Márquez, Cortázar, Neruda, Onetti, Sepulveda e molti altri: dalla mitologia al disincanto? Una storia sentimentale della letteratura ispanoamericana degli ultimi decenni (e dei suoi labirinti) attraverso le traduzioni di chi, come Ilide Carmignani, più di tutti l’ha scoperta e svelata. Ne discutono Ilide Carmignani, Roberto Gerace, Helena Janeczek.

Ore 19.30 “Fuggire per le fessure dei denti”: Incontro su Gian Giacomo Menon. Gian Giacomo Menon (Medea 1910 – Udine 2000), dal 1939 al 1968 ha insegnato storia e filosofia nel liceo classico Stellini di Udine. Ha scritto centomila poesie, ma non ha pubblicato quasi niente. Individualista, solipsista, pragmatico, strenuo sostenitore della isostenia dei logoi, indicava così i suoi «segnali di vita»: casualità, nudità, paura. Dal 1957 Menon abbandona ogni forma di vita mondana per una «decisione di assenza» che perseguirà con determinazione trascorrendo oltre metà della vita ‘nascosto’ in casa «a consumare un’amara invenzione», evitando ogni contatto pubblico escluso l’insegnamento. Tra il 1970 e il 2012 dieci compositori hanno scritto musiche ispirandosi ai suoi versi. Un canzoniere d’amore di Menon è stato pubblicato da Aragno nel 2013, nel volume Poesie inedite 1968-1969. Ne parlano Cesare Sartori e Giacomo Trinci.

Ore 22.00 a cura di Lorenzo Dechlich

#Tessuto
Immagini e visioni di una ragazza in cerca di sua madre in un paese straniero compongono uno spettacolo basato sull’interazione fra recitazione, disegno dal vivo e musica live. I tre aspetti sono a tal punto compenetrati che non possono sussistere l’uno senza l’altro e creano un equilibrio sottile che attraversa l’azione teatrale, l’improvvisazione e la performance visuale. Con #Tessuto, opera di regia collettiva, frutto dell’incontro di persone dedite ad attività artistiche diverse e con background differenti, la compagnia Cascina Barà ha girato l’Italia e il Brasile (stato di S. Paolo) negli ultimi due anni.

DOMENICA 10 MAGGIO

Ore 11.00 Presentazione dell’ebook su Charlie Hebdo. Ne discutono Ornella Tajani e Giorgio Mascitelli.

Ore 12.00  “L’islam nudo: le spoglie di una civiltà nel mercato globale” di Lorenzo Declich
L’identità islamica, nel tritacarne della globalizzazione, è in via di ridefinizione. “L’islam nudo”, in equilibrio fra cronaca e divulgazione, racconta alcuni aspetti sorprendenti e inaspettati di questo processo, concentrandosi infine sul nascente “islam del mercato” i cui effetti sulla vita dei singoli credenti e delle diverse comunità musulmane sono spesso dirompenti. Le prime vittime di quella che in Europa e Nordamerica viene spesso percepita come una minacciosa invasione islamica sono infatti i musulmani stessi che, sempre più, sono pensati e gestiti dagli attori del mercato globale come muti e manipolabili “consumatori islamici”.

Ore 15.00 Le bambine nei fumetti.

Bambine dai capelli azzurri sperdute in una landa immaginaria, bambine giramondo nei luoghi e nelle vite altrui, bambine crudeli e ingenue, bambine che imparano a seguire l’anima, ovunque essa le porti, oltre  ogni convenzione e ricordando agli adulti che il reale non è il mondo dell’ordinario, ma delle varie possibilità che riusciamo a immaginare. Bambine che non temono di essere se stesse. Attraverso la fiaba, il dolore, la meraviglia ne parlano insieme Simona Binni, autrice di Amina e il Vulcano (Tunué) e Francesca Matteoni.

Ore 16.00 Incontro con Vanni Santoni  sul suo ultimo libro Muro di casseche inaugura la nuova collana “Solaris” di Laterza. Dalla quarta di copertina: Perché sognare un quarto d’ora di celebrità se potevi prenderti dieci o venti ore al centro dell’universo? E la bellezza. Potevamo creare ovunque la bellezza: in ogni angolaccio, sotto a ogni cavalcavia, poteva sgorgare una fonte di meraviglia. Ogni periferia, ogni cittadina di provincia senza più guizzi poteva tornare a splendere e ribollire per una notte. E non parlo solo dei posti dove andavamo: il fatto che andassimo in alcuni faceva sì che tutti, in potenza, custodissero la bellezza. Quindi, la speranza. Ne discutono l’autore e Roberto Gerace.

Ore 17.00 Cinema e Videoclip. In collaborazione con Presente Italiano.

Nel 1979 il mondo fu solcato da una profezia. “La tv”, diceva una canzone, avrebbe ucciso le “star della radio”. Ma tutto questo non accadde. Nel 1981, il videoclip di Video kill the radio star inaugurò la programmazione di MTV e rilanciò in modo decisivo la hit dei Buggles. Era la dimostrazione perfetta che la tv, e l’innumerevole proliferazione di video che sarebbe seguita, non avrebbe distrutto il paesaggio musicale, ma lo avrebbe profondamente trasformato. Molta della musica che ascoltiamo oggi proviene da quella mutazione. E i video, conquistando parte della rete e delle piattaforme digitali, sono diventati qualcosa di più di un semplice strumento di marketing. Smarcatisi molto presto dalla funzione accessoria di lanciare i singoli o promuovere l’immagine delle celebrità musicali, i video non solo sono diventati il banco di prova di registi che si sarebbero affermati nelle sale cinematografiche, ma hanno assunto lo statuto di opera d’arte. Per loro natura fulminei, ellittici, surreali, paradossali, sperimentali, abbracciando quasi tutte le strategie della narrazione e della messa in scena, i video sono ascrivibili alla categoria dei “pensieri in movimento”. Con Luca Pacilio autore di Il videoclip nell’era di youtube (Bietti), Giulio Sangiorgio (Film Tv) e Giuseppe Zucco. Introduce Michele Galardini.

Ore 18.00 break.

Ore 18.15 Settant’anni di Resistenza. Raccontare la Resistenza

Chi racconta, a 70 anni dalla Liberazione dell’Italia, la Resistenza partigiana come la racconta? E com’è stata raccontata nel passato? La domanda tocca trasversalmente sia le narrazioni documentaristiche che quelle finzionali, la letteratura e la storiografia, insomma tutto ciò che contribuisce a formare l’immaginario e la memoria collettiva. Ne discutono Stefano Bartolini, storico dell’Istituto Nazionale della Resistenza di Pistoia, Federico Bertoni, ordinario di Critica Letteraria dell’Università di Bologna e Helena Janeczek, scrittrice.

El amigo del desierto

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di Pablo d’Orsd'ors_cover-dors-deserto-mv

 

 

 

 

 

 

 

Dalla casetta in affitto a Béni Abbès vedevo più o meno quel che si immagina debba essere il paesaggio dopo una grande guerra: un orizzonte vuoto, uno specchio del nulla di cui consiste l’uomo, per quanto si sforzi di sembrare il contrario. Sentivo che da quel nulla che mi circondava poteva nascere qualcosa di nuovo e autentico.

les nouveaux réalistes: Silvia Bortoli

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Un uomo

di

Silvia Bortoli

Quello che è veramente buono, dice spingendo col taglio la salsa contro il bordo del piatto, è il sugo.

L’argomento di oggi è il caramello.

Se con la crema ci vogliano le uvette sul fondo dello stampo o non ci vogliano, o ci voglia magari il pan di spagna era invece l’argomento di ieri. I brusii di dissenso non lo turbano mai. È lui il padrone, e può dire quello che gli pare e gli altri hanno sempre torto. E se hanno ragione è da prima, perché lui, da prima, a suo arbitrio, gliel’ha riconosciuta.

Deve il silenzio che accompagna quelle divagazioni culinarie al suo carattere autoritario. L’unica che ha osato dar voce alla ridicolaggine, oltre che al disgusto, per il pan di spagna nella crema, e figuriamoci poi le uvette, è stata punita col silenzio e la disattenzione.

Le disquisizioni sulla crème caramel sono ricorrenti. Vengono fuori ogni volta che Olga, dopo che lui le sventola sotto il naso il risultato di esami quasi accettabili, cede e gliene fa un poco. Guarda qui, dice aggressivo, transaminasi, colesterolo, globuli bianchi, snocciola cifre e dati. Ma il caramello non è mai come lo vorrebbe lui. Quello del passato gli sembra sempre migliore e attribuisce la decadenza del cibo alla generale decadenza del mondo.

Dal regno animale è scomparsa la felicità e i suoi cibi, suoi di lui, che di quella felicità faceva parte, non sono che pallidi simulacri.

La crème caramel è diventata così un cibo mistico. Un cibo sulla cui inadeguatezza si accanisce, che lo innervosisce, come lo innervosisce la nostra presenza perché contrastiamo quel suo andare verso la morte scomposto e irascibile, legandogli intorno lacci d’affetto che non apprezza e che pure gli sembrano naturali e dovuti. Una zavorra, ma irrinunciabile. Le donne sono noiose, ci ha detto ieri guardandoci torvo, sua moglie ha alzato le spalle. Che scemo, ha detto lasciando la stanza. La sua reazione mi ha sorpreso.

Ieri si è fatto portare in giardino. È stato sollevato di peso e sistemato su una sedia, si è fatto caricare un fucile. Ha deciso di ammazzare le civette sul tetto, di sparare così, indifferente a ogni norma e legge. Dice che le sente respirare e gli dà fastidio il rumore. A nessuno è venuto in mente di chiedergli se scherzava, di opporsi. Un colpo ha grattato rumorosamente l’intonaco. Si è innervosito, ha fatto ricaricare sbottando in tutta la sua irascibilità sulla nostra pochezza e le mani tremanti hanno lasciato cadere il fucile per terra, ha preso in pieno una coperta stesa al sole. La rosa dei pallini l’ha quasi distrutta. Ha avuto un tale attacco di rabbia che abbiamo dovuto chiamare il medico e far finta che passasse per caso. Il dottore ci ha chiesto se siamo matti a mettere a rischio la vita di tutti per le stramberie di un vecchio bilioso, se viene a sapere di nuovo che lo lasciamo sparare va dai carabinieri e lo fa mettere dentro, e noi con lui.

Il medico è un vecchio amico. È il nostro fedele e mediocre dottore da quando ha cominciato a esercitare. Ma è una persona ragionevole e noi, se mai lo siamo stati, non lo siamo più. Ci prende un’angoscia a non poter far girare il mondo all’indietro, oltre che per amore credo per vigliaccheria. Non siamo all’altezza di questa vecchiaia irruenta. Non abbiamo medicine, consolazioni, rimedi.

Mia figlia è di corvée. Quando torna da scuola deve andare da lui ancora con la cartella sulla schiena, a raccontargli le novità, novità scolastiche di una bambina di terza media. Ci va volentieri. Pare, a sentir lei, che lui ascolti con attenzione e faccia domande e si beva le sue storielle. Solo un paio di volte il loro infantilismo non ha coinciso, si è innervosito e l’ha trattata male. Il cinismo di lei è però solo a nostro uso, è affascinata dal vecchio signore e se inventa, è solo per arricchire le poche cose che gli offre, perché sul fatto che siano poche lui non le lascia illusioni.

In un certo senso la disprezza, e nel disprezzo per lei disprezza se stesso, un povero vecchio, buono solo a star coi bambini, immobilizzato, legato, impotente.

È spesso torvo. Ignobilmente, dice il suo figlio maggiore, vede negli altri ogni genere di ignobiltà. Dove chi lo circonda si augura una fine armoniosa, che li riconcilii con lo specchio della propria morte, lui smania e ne mostra l’orrore, una continua crescente impotenza senza speranza né scampo.

Oggi ha un ginocchio gonfio e il dottore lo ha messo a dieta. Ha la gotta, il diabete, e ogni tanto sragiona. È convinto che se non mangia non vivrà a lungo e vivere a lungo per lui è indispensabile. È sicuro che il medico sia un cane e lo voglia uccidere per fame. Non vuole accettare la morte. Accettare la morte è come cedere lo scettro. Se lo facesse diventerebbe forse mite, o forse solo distratto. Cerca di non mostrare crepe, esibisce la sua vitalità di forte mangiatore, l’unica che gli sia rimasta.

Ogni volta che si parla di qualche centenario, cosa che vedendolo cupo facciamo volentieri, ci guarda con occhi fieri e allarmati. Sono fratelli suoi, i centenari, esemplari di una razza che è la sua, ma anche, per lui che ha sempre voluto vincere, antagonisti e nemici, e forse, se non starà attento, più fortunati.

Ogni tanto leggerissimamente svanisce e mi chiama Bruna. Succede per pochi minuti. Giorni fa ha gridato forte in tedesco, con ira, e aveva il viso corrucciato, rimpicciolito, infantile. Quando sono entrata mi ha guardato e ha girato la testa verso la finestra. Piangeva. Su se stesso, ho pensato.

Gli sono andata vicino e gli ho preso una mano. La sua è grande e asciutta, calda. Ha stretto leggermente, rispondendo. Mi sono seduta vicino a lui tenendogliela stretta e ascoltando mentre ripeteva le sue frasi senza senso. «È questo?» chiede con fervore fissando la parete al suo fianco. È questo, questo, questo, questo? Gli ho chiesto «questo cosa?», ma non mi ha risposto. Continua a tenere la testa girata e interroga il muro al suo fianco come se la risposta potesse venirgli dalla tappezzeria a righe, leggermente macchiata da uno spruzzo di soluzione sfuggito a una siringa che in uno scatto d’ira ha fatto volar di mano a un’infermiera.

È questo, questo, questo? continua a chiedere al muro, finché chiude gli occhi esausto e io lo lascio, esausta anch’io, desiderosa che muoia e ci lasci liberi.

Ieri ero in giardino e sarchiavo un’aiuola e ho sentito Olga che correva e sua moglie che correva più lenta dietro a lei. Ho pensato che stava per morire e ho aspettato, paralizzata dalla paura e dal sollievo. Ma aveva solo buttato per terra il vassoio della colazione, furente perché il brodo non sapeva di nulla. Di nuovo lui, di nuovo irascibile e ostile.

Non morirà, non morirà, lo sento. Per anni ancora ci terrà qui immobilizzati, legati dall’amore e dal bisogno, tutti dipendenti da lui, tutti in attesa della sua morte che ci permetta di vendere e separarci. Lo vogliamo pagare questo prezzo, ci ha costretti all’amore, ci ha umiliati con la sua generosità, ci ha comandati a bacchetta, ci ha abituati a dipendere da lui, non c’è mondo per noi se non il suo, regolato dalle sue leggi, anche adesso, amministrato com’è da donne armate di siringhe e biancheria pulita, che lo lavano, lo sollevano, mettono le mani tra le sue cose, fanno ordine nei suoi cassetti, neppure un angolo più di intimità, neppure i pochi centimetri quadrati del suo comodino gli appartengono oramai, la sua virilità umiliata, il suo dominio sospeso. Ma quella vuota scatola di leggi che ha promulgato funziona ancora e il padrone è lui e le sue grida a sproposito sono le grida di chi sa.

Oggi è di nuovo lucido. O forse no. Forse è un altro se stesso quello che mi chiama nella stanza, un suo doppio addolcito, il vecchio che avrebbe potuto essere se non fosse stato tanto attaccato alla propria forza.

«Vieni qui» mi ha detto. Mi ha chiamato con la mano, non gli hanno ancora fatto la barba e quei pochi millimetri di peli bianchi che gli spuntano sulle guance gli danno un’aria dimessa. «Ho una cosa per te» mi dice. Io so che non può darmi niente. Ogni cosa che regala va portata a sua moglie e lei decide se la si può accettare o no, lui però non lo sa. È una regola non detta, adottata tacitamente da tutti quando ha cercato di regalare la casa a Olga. Olga è andata da sua moglie scuotendo la testa. «Attenti al prete», ha detto. È sicura che un frate del convento vicino che ogni tanto lo viene a trovare cerchi di farsi lasciare qualcosa. «Ho una cosa per te» mi dice ancora e indica l’armadio. «Apri, apri». A gesti mi fa cercare in una scatola di carte e fascicoli, poi si irrita e me la fa portare sul letto. Cerca alla cieca con la mano e tira fuori un piccolo cartone arrotolato. «Apri» mi dice spingendolo con l’indice verso di me. Un indice dai polpastrelli solcati, leggermente adunco per l’artrite. Sciolgo il nastro e lo srotolo con delicatezza. C’è una testa di bambino disegnata a matita. Una piccola testa rotonda. Sorride con aria d’intesa. «È tua». Gli prendo la mano e mi piego a baciargli la guancia, ma si è già girato contro il muro, di nuovo chiuso in se stesso. Sua moglie dice che posso tenerlo. È lui da piccolo, dice, e io sono la moglie del suo figlio maggiore. È un disegno di nessun valore. Garbato, piacevole, posso tenerlo.

Olga gli ha fatto di nuovo la crème caramel. È il suo compleanno, ci sorride, da qualche giorno parla a fatica, gli brucia la gola, fa capire senza emettere suoni, noi lo accusiamo di pigrizia. Siamo arrivati tutti insieme nella stanza con fiori e caramelle e piccoli regali di cui non sa cosa fare, una bottiglia d’acqua di colonia, un volume sulle architetture rustiche della sua regione, abbiamo contrabbandato come regalo persino un nuovo pigiama. Si fa mettere ogni cosa sul letto, è calmo, è dolce. Tocca i pacchetti con le mani senza sollevare le braccia, solo le dita si muovono a destra e a sinistra a cercare, come se fosse cieco. Quando Olga entra con il dolce ci fa la grazia di un oh quasi muto, sa che Olga se lo aspetta. Ma è un oh terreno. Fa appoggiare il piatto sul comodino, dice che lo assaggerà più tardi. Improvvisamente a Olga tremano le mani, stringe le labbra e scuote appena la testa. Ha colto qualcosa in lui e subito lo sentiamo tutti, il caramello non ha più alcun senso. Non è più l’oggetto di quell’unico vizio che gli è rimasto, la gola, non è più un chiodo piantato sull’impervia parete della memoria, un termine di paragone, un’occasione di disprezzo per i tempi nuovi, i nostri, da lui non voluti né amati. Il caramello è un cibo come un altro, ormai, al quale un vecchio invalido fa le feste perché alle feste si risponde così, festeggiando, esclamando anche senza voce, rispondendo con un faticoso entusiasmo di vecchio alla fatica degli altri.

«Ha mollato» dice Olga uscendo dalla stanza con gli occhi lucidi. E improvvisamente sappiamo che è vero.

Il medico viene tutti i giorni, d’un tratto più efficiente e gentile, preoccupato soprattutto di sua moglie. Dà a qualcuno di noi consigli pratici, parla con Olga che vorrebbe sfuggirgli. Perché dovrebbe essere proprio lei, che più di tutti gli altri, priva com’è di legami di sangue, è una sua creatura, a dimostrarsi la più dura e più pratica? Si rifugia nelle vicinanze di mia suocera, cerca riparo, rifiuta le responsabilità. Noi la capiamo, vorremmo scappare tutti e invece, giorno dopo giorno aspettiamo, ci affacciamo alla stanza, entriamo a baciargli la fronte, gli teniamo la mano e lui sorride distratto, apre gli occhi uscendo dal suo sonno leggero, muove le dita e richiude gli occhi. I due figli lontani sono stati avvertiti e saranno qui tra poco. Io passo ore e ore seduta vicino a lui. Pensano che sia per affetto. Ma io non ne sono sicura. Sento invece un senso di dipendenza, mi chiedo come sarà la vita dopo di lui, non più regolata da lui. Ne sono curiosa, ne sono addirittura avida. Mentre lo guardo, le occhiaie sempre più incavate e pallide, il profilo sempre più trasparente, come se questo lungo sonno lo purificasse e imponesse una quarantena alle sue passioni, io mi chiedo soltanto come sarà la vita senza di lui. Fantastico. Non ho vergogna di me, non mi sento meschina. La verità è che in fondo al cuore non ci credo.

I giorni passano in silenzio, lunghi e privi di dolore, pieni come sono di una disciplinata laboriosità. Abbiamo preso un’altra infermiera perché ci sembra terribile che possa morire da solo, vogliamo che qualcuno corra subito a chiamarci, sentiamo che è male che muoia durante il nostro sonno, pensiamo che non ce lo permetterebbe, il suo egoismo vorrebbe la nostra attenzione, non è una cosa privata la sua morte.

E così una notte l’infermiera ci chiama. Sentiamo che ci trova assurdi, che sarebbe stato meglio per tutti scoprirlo all’alba. È morto nel sonno, avrebbe detto. È morto nel sonno, in pace, avremmo detto.

E adesso dunque lo vegliamo, nessuno osa dormire e domani saremo esausti. Come il dottore aveva suggerito, inavvertitamente, Olga prende delle decisioni, porta a letto mia suocera, si occupa di lei, si dà da fare, è attiva. È morto in pace, dice. Sì, diciamo tutti, siamo contenti che ci sia riuscito. Siamo sollevati che alla fine si sia calmato.

E alla fine capisco la sua domanda. È questo, mi dico, che cercavamo e che cercava anche lui nelle macchie del muro. Mi pare di capire finalmente la sua fatica, l’irascibilità di chi si concentra e viene sempre distratto, dalle sue proprie forze, da quelle degli altri, dal caotico e casuale brulicare degli affetti che trattiene irragionevolmente nella vita e costringe alla disarmonia.

 

 Nota

Il racconto, in una versione leggermente diversa, è presente nel volume Percezioni variabili, Piero Manni, 2005.

 

 

 

 

Stoner

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stonerdi Francesca Fiorletta

Finalmente ho letto Stoner, di John Edward Williams (1922 – 1994), pubblicato da Fazi Editore nel 2012, nella collana Le strade, con la postfazione di Peter Cameron.

Dico finalmente perché è un libro che in pochissimo tempo è diventato quasi un oggetto di culto, (tanto che il blog della casa editrice ha addirittura preso il suo nome!)

Storie indipendenti

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(Gli amici di Doppiozero hanno un progetto in testa che mi sembra molto interessante e condivisibile. E’ per questo che vi chiedo di leggere il post che ne parla. G.B.)

Nel 1999 la radio americana NPR invitò Paul Auster a raccogliere “storie vere”, scritte dagli ascoltatori, e a raccontarle con la sua voce. Nasceva così il National Story Project, presto composto da alcune migliaia di lettere tra cui Auster scelse quelle lette alla radio ogni domenica mattina. Dalla trasmissione lo scrittore trasse un libro, Ho pensato che mio padre fosse Dio, uno dei suoi più belli e meno noti, una raccolta di centoventisei racconti autobiografici di straordinaria forza espressiva e suggestione poetica…

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25 Aprile. Resistenza o resilienza?

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di Jamila Mascat 

A due giorni dalla Festa della Liberazione, tornare a parlarne ha meno del post e più della considerazione inattuale. Ma tant’è. La parola resilience mi pare che ricorra più spesso in inglese, forse come conseguenza dei dibattiti in voga nelle scienze sociali anglofone, dalla psicologia del lavoro alla sociologia ambientale. In italiano salta subito agli occhi quanto pericolosamente i due sostantivi resistenza e resilienza si somiglino. Il primo, non c’è dubbio, gode di un’eufonia che l’altro se la sogna, anche se solo per poche lettere di differenza. A livello semantico, a prima vista e grossolanamente, i due termini potrebbero parere altrettanto affini: in fondo tanto i resistenti quanto i resilienti possono essere rubricati nel novero degli individui alle prese con una situazione di difficoltà a cui devono sapere far fronte con coraggio. Solo che il coraggio dei resilienti consiste nella capacità di adattarsi ai cambiamenti e reagire positivamente ai traumi, mentre quello dei resistenti consiste nella determinazione a lottare contro. (Che poi “la resistenza al mondo, creduta eroica, – scriveva Fortini –  sembra per attimi, con orrore, infantile rifiuto dell’arido vero”, è un altro discorso che non c’entra con la Resistenza al maiuscolo). La distinzione, quindi, non è di poco conto. Ma per farla breve: un’impresa preferisce impiegati resilienti; invece resistenti sono i partigiani – e i combattenti per la libertà di ogni tempo e luogo.

In mezzo alle tante manifestazioni romane, come ogni anno da quattordici a questa parte, il comitato Quell@ che il 25 aprile ha organizzato la giornata della Liberazione al Pigneto, durante la quale, tra la altre cose, si rendeva omaggio alla memoria degli abitanti resistenti del quartiere attraverso il percorso guidato Pigneto ’44 – Ribelli”.

Mentre a fine pomeriggio sul palco si discuteva dell’esperienza della resistenza curda di Kobane, ricevo su whatsapp una vignetta in bianco e nero che recita: “Antifascism is the worst product of fascism”, firmato “A. Bordiga”. Nel dire che “il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo”, Bordiga combatteva quelli che riteneva essere i limiti macroscopici di una risposta democratico-borghese al fascismo. Nonostante le attenuanti – trattasi di un’espressione malamente estrapolata che meriterebbe in ogni caso di essere discussa e compresa nel suo contesto – una frase del genere risuona profondamente blasfema e difficilmente condivisibile. Eppure dice qualcosa, suo malgrado, rispetto a un pericolo  che minaccia e anzi già incrina la cultura della Resistenza, cioè quella costellazione di discorsi, riflessioni e commemorazioni che mettono a tema la storia e l’eredità dell’antifascismo e si condensano intorno alle celebrazioni del 25 aprile.

Finemente raccontata e tramandata dagli storici specialisti, la storia della Resistenza italiana (gli esperti obietteranno che ce ne sono più d’una, ma la semplificazione è d’obbligo in questo post, e per la complessità è bene leggere altrove, in particolare i contributi originali di D. Broder e F. Giliani) è nel bene e nel male patrimonio di tutti. Nel bene (è ovvio) e nel male (per quell’effetto “intramontabile” – a dispetto dei tentativi osceni di scrivere storie diverse, brutte e revisioniste – che ha il sapore del navy blue per i completi da uomo: buono per tutte le stagioni). 

Quel che lascia perplessi, del resto, non è il paradosso ecumenico per cui, solo per fare un esempio, il sindaco Marino e i centri sociali che l’amministrazione romana si diverte sgomberare da mesi, celebrino, ciascuno a suo modo, la Giornata del 25 aprile. Piuttosto, quel che lascia perplessi è che si possa convertire il capitale simbolico della Resistenza in una sorta di invariante metafisico, invocato e santificato ovunque, e tuttavia indeclinabile e perciò condannato a essere conservato solo in luoghi (istituzionali) freschi e asciutti.

Ma se si vuole evitare di trattare la Resistenza come un salume pregiato, allora non si tratta semplicemente di conservarla. Si tratterebbe invece di consumarla e mobilitarla al presente – “Ora e sempre Resistenza”, recita la famosa poesia di P. Calamandrei –  perfino in luoghi afosi e bagnati di sangue come i Territori Palestinesi, a qualche mese di distanza dall’operazione Protecting Edge contro Gaza.

Pochi, e tra questi Moni Ovadia sul manifesto, hanno risposto per le rime al presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha annunciato qualche settimana prima delle celebrazioni previste per il 25 aprile che la sua organizzazione avrebbe disertato i festeggiamenti, dopo che anche l’Aned e le Brigate ebraiche avevano confermato di non prendere parte al corteo di Porta San Paolo, storico raduno antifascista della Capitale. “Dato che sarà Shabbat non saremo presenti – ha dichiarato Pacifici – ma non ci saremo anche perché i palestinesi, che saranno al corteo, durante la guerra erano alleati dei nazisti”.

Risponde Ovadia che: “il gran muftì di Geru­sa­lemme Amin al Hus­seini, mas­sima auto­rità reli­giosa sun­nita in terra di Pale­stina fu alleato di Hitler, favorì la for­ma­zione di corpi para­mi­li­tari musul­mani a fianco della Ger­ma­nia nazi­sta e fu fiero oppo­si­tore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel ter­ri­to­rio del man­dato bri­tan­nico. Men­tre la bri­gata ebraica com­bat­teva con gli alleati con­tro i nazi­fa­sci­sti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne desti­tuito e arre­stato: oggi vedendo una ban­diera pale­sti­nese a chi viene in mente il gran muftì di allora?”. Piuttosto – continua Ovadia – “oggi la ban­diera pale­sti­nese parla a tutti i demo­cra­tici di un popolo colo­niz­zato, occu­pato, che subi­sce con­ti­nue e inces­santi ves­sa­zioni, che chiede di essere rico­no­sciuto nella sua iden­tità nazio­nale, che si batte per esi­stere con­tro la poli­tica repres­siva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più ele­men­tari ed essen­ziali. Un governo che lo umi­lia esco­gi­tando uno stil­li­ci­dio di vio­lenze psi­co­lo­gi­che e fisi­che e pseudo legali per ren­dere esau­sta e irri­le­vante la sua stessa esistenza”.

Ecco, forse, affinché la memoria della Resistenza non affoghi nel magma della resilienza, bisognerebbe continuare a resistere e non solo resilire (in questo caso, appunto, “pervertire” il senso della Resistenza). Ricordando e celebrando, insieme a (e non contro) gli ex-deportati e i  partigiani rossi e neri, generazioni di palestinesi resistenti contro i crimini israeliani.

Extraterrestrial Activity #1 : Confessione

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di Bob Perelman

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Gli alieni abitano la mia estetica
da decenni. Praticamente dagli anni Settanta.

Prima che iniziassi a scrivere come
il me attuale, ma giovane. Eppure

qualcosa deve essermi accaduto alla memoria,
allo spirito di giudizio – è evidente:

sono stato condizionato. Le vecchie cose,
il bivio nella testa, il mio

primo casa base, papà che cade
dalla macchina. Io ricordo le parole

ma non so tornare indietro. Penso
proprio che stiano monitorando le mie

sensazioni. È certo: le mie categorie
sono state scompigliate. Osservo le antologie

nelle grandi catene librarie, sugli scaffali
delle università, persino i piccoli editori

come case d’oppio, tutte quelle stanze
sullo spazio bianco: sembrano giusto modelli

usciti dai cataloghi. I modelli hanno
braccia e gambe e una testa,

le poesie solitamente no, ma a parte
questo, è dura, almeno per me,

distinguerle. C’è la poesia tipo biancheria
sexy, quella in tuta da lavoro

da indossare a una festa mascherata
in caso di necessità, la piccola

blasfema sottoveste in versi. C’è varietà,
dici: lo stile Oxford chiusa con

lacci intrecciati a mezza-rima; l’epica toga
che lascia scoperta qualche caviglia antica;

la Guarda! Il mondo è cambiato!
E infine vesto fluente casual con

gli shorts; poi il nudo integrale;
il disintegrato… Sì, suppongo ci sia

varietà, ma gli sguardi, quelli avanzano
e mi leggono dal di dentro

il tu rinchiuso insieme al mio
dispositivo facciale di Riconoscimento Capitale Culturale!

No grazie, Jay Peterman! No grazie,
“Sera qualunque a New Haven”! Sto

solo aspettando il biglietto di ritorno
per avere un qualche senso, aspetto

che calino le nuvole-a-padella! Le autorità
negano ci siano incursioni, non sorprende.

E io stesso le nego, pensate.
Cosa potrebbe motivare un gruppo di

tentacolosi viscidi estetisti dalle teste oblunghe
con tecniche molto oltre le nostre

a visitare la terra, rapire ingenui
poeti e inculcare in loro forme

ultramondane che sono persino, se credi
ai tabloid, lascive? E questi rapimenti

sembrano sempre aver luogo in qualche
ambientazione di provincia: non risulta più

che sospetta la cosa? Perché mai
non si manifestano sul tetto di

un editore newyorchese? Non sarebbe male
avere delle risposte soddisfacenti a riguardo…

potremmo imparare qualcosa, sulla poesia se
non altro, ma io non sono

di grande aiuto, essendo un rapito,
almeno in teoria, sebbene, come ho

già detto, non ricordi molto. Eppure
questa scrittura sembra abbastanza normale:

frasi complete; punti e virgola; blabla.
Pare che abbia perso il mio

abbonamento all’avanguardia nei panni da lavare.
Dicono sia tipico. Bene, dovrete usare

il vostro metro di giudizio, terrestri!
Giudizio: compito vostro! Al lavoro! Come

se poteste partire! E voi pensavate
che fosse la gravità il problema!

 

*

 

“Confession” è il primo testo di The Future of Memory, di Bob Perelman (1998), leggibile in lingua originale qui. La traduzione è di Renata Morresi.

 

Il pallone, la Citroën, l’antifascismo involontario

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di Helena Janeczek
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L’imminenza del 25 aprile mi ha fatto tornare in mente una storia. Non è una storia italiana, neppure una storia di resistenza in senso stretto. La trovo sorprendente, anzi bella, proprio perché è ambivalente e di profilo basso. Una storia tedesca. E di calcio.
L’aggancio per scoprila è stato un amico di mia madre, anche lui ebreo polacco di quelli scampati per miracolo, che gufava con tanta foga contro la Nationalmannschaft quanto tifava sfegatatamene per il Bayern. Non ci si poteva azzardare di allontanarlo dal televisore quando “i rossi” giocavano e qualche volta andava persino allo stadio con suo figlio.

Il lungo viaggio del partigiano Kim

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di Davide Orecchio

Quali sono le forze che muovono l’esistenza di un individuo? Verrebbe da rispondere – in un elenco tra l’evidente e l’ovvio – il carattere, la Storia (con le sue incisioni sul vissuto) e infine la più importante di tutte: la sorte. Ma forse, ragionando sulla straordinaria biografia di Ivar Oddone (1923-2011) – dapprima partigiano, poi pioniere della moderna medicina del lavoro italiana – si dovrebbe dire, prendendo in prestito le parole di Italo Calvino, che il suo motore fu «l’enorme interesse per il genere umano». Si può costruire la propria biografia sull’«enorme interesse per il genere umano»? Proviamo a verificarlo. E partiamo da un elemento unico che riguarda l’esordio di Oddone nelle gesta del mondo, e coinvolge pure Calvino, lo scrittore che lo narrò e in parte reinventò in un personaggio letterario.

La lingua del partigiano
Nel punto geometrico del Novecento dove storia e letteratura s’incontrano, e la carta nomina la vita in ogni riga di narrazione che offre, si può apprendere un giovane che ebbe il privilegio di abitare un romanzo. Se apriamo Il sentiero dei nidi di ragno (1947), opera prima di Calvino e uno dei classici della nostra letteratura sulla Resistenza, la formula iniziale che troviamo è una dedica: «A Kim, e a tutti gli altri»; dove Kim è proprio lui (o a lui si ispira): Ivar Oddone, coetaneo e amico dell’autore, e tra i protagonisti della lotta partigiana in Liguria cui prese parte lo stesso Calvino. Col nome di battaglia di “Kimi” (riporta il Dizionario della Resistenza in Liguria) Oddone, «studente in medicina, è tra i primi antifascisti a salire in montagna», dove aderisce al gruppo di Inimonti nell’imperiese. Commissario di distaccamento fino al luglio 1944, «assume il ruolo di vicecommissario della brigata Belgrano». Partecipa, tra le altre, alle battaglie di Chiappa in Val Steria (dove la squadra al suo comando elimina la postazione fascista San Marco) e di Montegrande. In seguito, e fino al 25 aprile 1945, è commissario politico della divisione Felice Cascione.

{ Aveva un enorme interesse per il genere umano. Cercava di creare linguaggi condivisi tra diversi ceti sociali perché agissero per obiettivi comuni. }

Questo lo scheletro dei fatti militari dalla vita di un ventenne precipitato in grandi responsabilità, che affrontò con uno spirito che proprio il romanzo di Calvino ci aiuta a comprendere: «C’è un enorme interesse per il genere umano, in lui – ecco di nuovo la formula che descrive Kim nel Sentiero –. (…) Il medico dei cervelli, sarà (…). Non è simpatico agli uomini perché li guarda sempre fissi negli occhi come volesse scoprire la nascita dei loro pensieri e a un tratto esce con domande a bruciapelo, domande che non c’entrano niente, su di loro, sulla loro infanzia».

Fra personaggi memorabili come il bambino Pin, il Dritto, Lupo Rosso, il Cugino s’aggira questo giovane, figlio di «padri borghesi», preso da un fervore mentale incessante, dedito a governare e comprendere le ragioni che hanno spinto operai e contadini, ma anche disertori e sbandati a combattere la guerra civile contro il nazifascismo. «Quando discute con gli uomini, quando analizza la situazione, Kim è terribilmente chiaro, dialettico», racconta Calvino. E ancora: «Gira ogni giorno per i distaccamenti con lo smilzo sten appeso a una spalla, discute coi commissari, coi comandanti, studia gli uomini, analizza le posizioni dell’uno e dell’altro, scompone ogni problema in elementi distinti, “a, bi, ci”, dice». Il suo punto d’arrivo è «poter ragionare» come i suoi compagni, «non aver altra realtà all’infuori di quella» che comprende loro tutti. Non è altro che la costruzione di un linguaggio comune, indispensabile a un agire di gruppo, quello che cerca Kim/Oddone.

Anni dopo (1964), nella prefazione alla riedizione del Sentiero, Calvino tornò sulla “nascita” del personaggio Kim:

«Con un mio amico e coetaneo (…) passavamo le sere a discutere. Per entrambi la Resistenza era stata l’esperienza fondamentale (…). Ci pareva, allora, a pochi mesi dalla Liberazione, che tutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che una retorica che s’andava creando ne nascondesse la vera essenza, il suo carattere primario». L’amico era Ivar Oddone e «l’unico personaggio intellettuale di questo libro, il commissario Kim, voleva essere un suo ritratto». Discutendo, i due giovani polemizzavano «contro tutte le immagini mitizzate» e, ricorda ancora Calvino, desideravano ridurre «la coscienza partigiana a un quid elementare, quello che avevamo conosciuto nei più semplici dei nostri compagni, e che diventava la chiave della storia presente e futura».

Lavoratori in pausa. Archivio nazionale Cgil
Lavoratori in pausa. Archivio nazionale Cgil

Tra gli operai
«Calvino ebbe una grande intuizione – spiega Alessandra Re, vedova di Oddone e come lui psicologa del lavoro –, seppe leggere molti dei tratti che poi rimasero delle costanti nella maturità di Oddone». Non solo la curiosità per gli altri, ma anche il sentirsi parte di una “spinta” storica e costituente (la «storia presente e futura») che nacque dalla vittoria sul fascismo e che portò Oddone a aderire al PCI e, sul piano teorico, al marxismo e alla lezione di Antonio Gramsci.

Smessi i panni di Kim, si laureò in medicina a Torino ed esercitò come assistente, fino alla fine degli anni ’60, nella clinica medica universitaria. Proprio al principio di quel decennio Oddone – adesso un adulto quarantenne – diventa protagonista di un’altra fase storica. È il momento che segna l’ascesa e le più importanti conquiste della classe operaia. Siamo nella stagione del boom, ma anche del “supersfruttamento” della forza lavoro. Un sistema concentrato sulla produttività e la ricostruzione dell’Italia dopo la guerra ha trascurato quasi del tutto le condizioni “umane” degli operai, e la loro sicurezza. Si susseguono incidenti e stragi nelle miniere e nelle fabbriche. Alla fine degli anni ’50 la media degli infortuni è impressionante: 171 per mille occupati, ma nell’industria metallurgica 231 ogni mille addetti.

***

«Dolori non ne ho, neppure febbre. Non è nemmeno una vera malattia la mia. Quasi me ne vergogno di parlarne, e mi è difficile spiegare quello che sento. È stanchezza e irritazione muscolare insieme. Non ho più appetito. Quel poco che mangio lo digerisco male. Stento ad addormentarmi; il mio sonno è breve, inquieto e interrotto. Dentro di me sento una continua ansia. Un nonnulla mi produce o paura o collera. Sono diventato scontroso, attaccabrighe, intollerante, l’orco della famiglia. Non ho più voglia di vedere amici né di uscire. Non c’è più nulla che m’ispiri gioia o interesse». Intervista a un operaio Fiat, Fabrizio Onofri. La condizione operaia in Italia. Roma, Edizioni Cultura Sociale, 1956.

***

Nelle grandi fabbriche del Nord esplode la domanda di avanzamento salariale, sociale e dei diritti, compresi quelli alla salute e alla sicurezza. Si abbandona la «monetizzazione del rischio», l’idea che gli infortuni siano un tributo da pagare al progresso, tutt’al più da risarcire in termini economici. Anche il sindacato cambia strategia sull’ambiente di lavoro. La nuova parola d’ordine è che «la salute non si vende»: impiegherà più di dieci anni ad affermarsi ma – grazie all’opera di un gruppo di attivisti tra i quali Oddone è protagonista – è qui che inizia il suo percorso. Ad esempio nel 1961 a Torino dove, per iniziativa della Cgil, la Camera del Lavoro istituisce una commissione medica mista cui affida il compito di affrontare la questione della nocività attraverso, in particolare, una “indagine-intervento” negli stabilimenti di Farmitalia. Si tratta di raccogliere informazioni e conoscenze da sfruttare per impostare una nuova medicina preventiva. Della commissione fanno parte sindacalisti, studenti, assistenti sociali, medici; lo stesso Ivar Oddone, che si dà un obiettivo preciso: bisogna ascoltare gli operai (perché «non c’è salvezza senza che essi lo vogliano», dice), raccogliere le loro esperienze, i disturbi di cui soffrono, quali protezioni adoperano, così da poter delineare un quadro epidemiologico da un lato, e dall’altro creare le condizioni della «non-delega», ossia affermare nelle fabbriche la convinzione che la gestione delle condizioni di lavoro non va lasciata alla proprietà. Questa “alleanza” tra tecnici e operai è destinata a seguitare: ad esempio nel 1964 con la realizzazione di un centro di medicina preventiva “partecipata” presso l’azienda elettrica municipale di Torino; e poi col varo di un progetto insieme alla Quinta Lega Mirafiori (l’organizzazione dei metalmeccanici in Fiat Auto) per l’elaborazione di una linea sindacale contro malattie e infortuni.

«Per raccogliere le testimonianze – ricostruisce Stefania Tibaldi –, si realizzarono una serie di interviste agli operai: Ivar Oddone voleva analizzare nei dettagli il loro lavoro, i tempi ed i ritmi che dovevano rispettare, le posizioni che assumevano, la fatica che provavano, la monotonia, la ripetitività dei gesti, il significato e gli obiettivi delle loro lotte e soprattutto l’influenza dell’ambiente di lavoro sulla loro salute». «Ma non era facile – spiega Alessandra Re –, in fabbrica, allora, non si poteva entrare, le prime indagini venivano condotte ai cancelli, dopo il turno». Questa mole di “azioni-ricerche” sul campo portò Oddone alla pubblicazione della famosa dispensa L’ambiente di lavoro (1969, milioni di copie diffuse e tradotta in molte lingue), uno strumento che rivoluzionò la formazione sulla sicurezza e salute, raccolse i fattori nocivi in poche categorie e adoperò soluzioni grafiche innovative che comunicassero con immediatezza i pericoli e le pratiche da seguire.

È lo stesso Oddone a ricordare quel periodo in una nota autobiografica:

«Passavo il mio tempo nella sezione universitaria dell’ospedale. Talora anche le feste. Al mattino e al pomeriggio. Mi guadagnavo da vivere con un’ora nell’ambulatorio della mutua dalle 19 alle 20, poi facevo le visite a domicilio, poi la cena, poi scrivevo. La quinta lega Mirafiori era il mio terreno di ricerca».

Prosegue Oddone:

«Alcuni gruppi di operai mi posero un problema che non sapevo risolvere. Mi chiedevano delle informazioni sul rischio che la loro condizione di lavoro poteva rappresentare per la loro salute».

Oddone

Cerca di rispondere a quella domanda – ricostruisce Alessandra Re – «ma non riesce ad applicare le sue conoscenze ai “posti di lavoro concreti”, perché la medicina non ne possiede il linguaggio, non li conosce». «Il primo problema era dunque di comunicazione», ricorda ancora Oddone. Per risolverlo, a Ivar serviva lo stesso «enorme interesse» del giovane Kim, quella disposizione (quasi una “lunga durata” biografica) a costruire nuovi codici tra persone e gruppi che fu un suo tratto tipico. Il medico doveva capire l’operaio, così come il commissario partigiano aveva compreso ciascun compagno di lotta. È in questo momento che abbraccia la psicologia, ne teorizza anzi la «priorità sulla medicina del lavoro – racconta Re –, capisce che è l’unica disciplina in grado di mettere in contatto l’esperto della salute e il portatore di rischio». Da qui, poi, doveva nascere un nuovo gruppo sociale, tecnico, politico: la «comunità scientifica allargata» – nelle parole di Oddone – di «operai, studenti, sociologi, psicologi, medici, economisti, sindacalisti, magistrati, legislatori» che «si incontrano per discutere di situazioni concrete e di modi per fare ricerca. Io definisco questi soggetti “esperti grezzi”. Uomini nodali (…) che tendono a strutturare diversamente le informazioni nella mente degli altri».

L’esperienza raggiunse il suo culmine nel 1973, quando un gruppo di delegati della Fiat Mirafiori, nel quadro delle 150 ore di formazione previste dal nuovo contratto, partecipò al corso di Psicologia del lavoro tenuto da Oddone all’università. Qui si concretò la comunità scientifica da lui teorizzata. Gli operai portavano le loro competenze, e gli esperti della salute le proprie. Anche attraverso pratiche di simulazione innovative (come le istruzioni al sosia) costruivano un sapere comune.

Tra quei lavoratori c’era anche Gianni Marchetto (ex delegato Fiom), che strinse un’amicizia profonda col medico/psicologo e ancora oggi ricorda:

«Trovai un linguaggio completamente nuovo per un operaio come me. Oddone era spregiudicato, autorevole, a volte autoritario. Aveva un carattere terribile. Eppure la formazione con lui ci servì a diventare individui autonomi, non solo operai consapevoli. Ci ha cambiato per sempre».

Heil Stalin!
Succede a ogni spinta che la sua propulsione si esaurisca. Oddone, però, ne ebbe fino alla fine. Elaborò progetti di mappatura del territorio tuttora applicati in Francia, esplorò le possibilità didattiche del web. Ma testimoniò anche il riflusso dell’epoca, i passi indietro nelle battaglie sulla sicurezza, la nuova metrica del lavoro nelle fabbriche Fiat (diceva di Marchionne: «Non vuole usare il cervello delle persone, ma i muscoli»). Il secondo millennio, insomma, gli portò rabbia e amarezza.

Quanto a Calvino – lo scrittore che per primo l’aveva capito e “predetto” – i due restarono amici. «Avevano un rapporto molto forte, diretto e libero – rammenta la moglie – anche quando erano in disaccordo». Potremmo immaginarli di nuovo giovani, al principio della storia presente e futura. Potremmo immaginare Kim che, con le parole di Calvino, cammina «per un bosco di larici», o nella valle «piena di nebbie», o «su per una costiera sassosa come sulle rive di un lago», mentre ogni suo passo «è storia». Ma forse vale la pena di citare uno dei pochi episodi della Resistenza raccontati da Oddone (lo riferì sia alla moglie, sia a Marchetto) e che, a suo dire, l’avrebbe tormentato per anni.

I partigiani di Kim hanno catturato un gruppo di soldati tedeschi. Decidono di passarli per le armi. Un istante prima che il plotone apra il fuoco, uno dei prigionieri, già di spalle alla morte, alza il pugno, lo chiude e urla: «Heil Stalin!». Nella sua lingua. Una lingua straniera che però, in quel grido, riesce a creare un significato comprensibile ai partigiani, e assurdo, e paradossale. Perquisiscono il suo cadavere. Sul risvolto interno dell’uniforme trovano cucita una piccola falce e martello. «C’era un antifascista anche tra loro! – ricordava Oddone sconcertato –. Ma come potevamo riconoscerlo? Come?».

Forse inizia da questo giorno il lungo viaggio del partigiano Kim alla scoperta dell’Altro.

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Qualche lettura

Incoraggiato da Cesare Pavese, Italo Calvino completò Il sentiero dei nidi di ragno, suo romanzo d’esordio, negli ultimi giorni del dicembre 1946. Sarebbe uscito nell’ottobre del ’47, nella collana «I coralli» di Einaudi. «Questo romanzo – per citare il giudizio di Alberto Asor Rosa – risulta tutto decentrato rispetto agli stereotipi di un’ideale rappresentazione letteraria della Resistenza». Il protagonista, Pin, è un bambino che guarda il mondo con sguardo infantile e fantastico. Fratello di una ragazza che si prostituisce con i tedeschi, si aggrega a una banda di partigiani irregolari. Il libro, assieme alle opere di Fenoglio, Meneghello, Cassola, ha segnato la stagione più alta della letteratura sulla Resistenza. Su Ivar Oddone si veda: F. Gimelli e P. Battifora, Dizionario della Resistenza in Liguria, 2008; Storia della Resistenza imperiese in 4 voll., Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea, 2005; I. Oddone, L’ambiente di lavoro, 1969 (la «nota autobiografica» di Oddone introduce la riedizione della dispensa del 2006;) ID., Medicina preventiva e partecipazione, 1975; I. Oddone, A. Re, G. Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, 1977 (2008); A. Re, T.C. Callari, C. Occelli, Sfide attuali, passate e future: il percorso di I. Oddone, 2014; S. Tibaldi, La figura di I. Oddone e la tutela della salute nei luoghi di lavoro, tesi di laurea, Facoltà di Scienze Politiche, Torino, 2012-13.

Ringrazio Diego Alhaique, Alessandra Re, Gianni Marchetto, Amelia Narciso (Anpi Savona) e la Biblioteca nazionale dell’Anpi per l’aiuto e il materiale fornito.

(Quest’articolo è uscito in versione ridotta su Pagina99, Anno I, n. 71, 6-12 dicembre 2014).

La tazzina dell’antiquario*

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di Filippo Tuena

  Impossibile sistemarla

  Della vecchia galleria conosci certamente qualche immagine, come quelle due gigantografie appese nel breve corridoio della casa di Roma. In quella che raffigura l’interno, si nota chiaramente il bel pavimento in listoni di parquet. Papà alla fine degli anni ’50, apportò alcune modifiche al negozio, come appunto la sostituzione del parquet con delle mattonelle di graniglia.
Una cliente, quando entrò a far visita alla nuova galleria, rimase inorridita: «Tuena – disse – che cosa ha combinato?». In effetti il parquet antico era piuttosto affascinante ma sotto l’impiantito, raccontava papà, per giustificare la sistemazione, si sentivano correre i topi che scendevano a frotte dal Pincio attraverso qualche cunicolo sotterraneo e il vecchio legno s’era marcito in più punti.
La prima macchina, una Fiat 1100 grigia e bianca, la com- prò con i profitti della nuova attività. Credo verso il 1953, quando nacqui io. Prima forse usava la macchina di nonno perché, essendo nata tua zia Maria Cristina, non credo che mamma e papà potessero più servirsi della Lambretta 125 che era stato il loro mezzo di locomozione appena sposati. Un pic- colo lusso in tempi di dopoguerra quando le autovetture erano ancora rare.
Con quella Lambretta papà andava a lavorare in banca e portava mamma a fare gite fuori porta la domenica.
Per un certo periodo fece anche altri strani lavori, come il piazzista di stoffe – flanella, lana per coperte – e raccontava spesso di viaggi nell’entroterra sardo non so se per acquistare lana o cercare di vendere i prodotti che commercializzava. Al contrario dei fratelli, che avevano frequentato il liceo classico, papà aveva compiuto studi commerciali. S’era diplomato in ragioneria e, forse per rivincita contro quella che gli sembrava una decisione sbagliata – erano stati i nonni a scegliere per lui quell’indirizzo – unico tra i fratelli, aveva proseguito gli studi fino a laurearsi in Economia e commercio. Per questo era entrato in banca, anche se penso che avesse cominciato a lavorare prima di completare gli studi. La passione per i numeri, per i conti gli era rimasta e come ti dicevo, era solito passare ore a stilare tabelle numeriche su quei fogli protocollo a quadretti che affollavano la sua scrivania anche quando forse avrebbe dovuto interessarsi di più a mobili e dipinti antichi.

Per l'arte
Per l’arte aveva un certo gustaccio, un’intuitività non peregrina; era attratto dalle apparenze più che dalla sostanza e fu un grande decoratore piuttosto che un esperto d’arte. Amava le commodes romane barocche, intrecci di legni dorati e inta- gliati, sormontati da grandi e spessi piani di marmi colorati. Soprattutto amava le sculture antiche, i frammenti romani di statue, cornicioni e capitelli. Sempre sorretto da un prodigioso intuito piuttosto che da studi specifici, aveva sviluppato un occhio attento, quasi infallibile.
Nei primi tempi del lavoro antiquario venivano spesso a trovarlo colleghi più anziani, amici di nonno che volentieri gli confidavano i trucchi del mestiere. Raccontava gustosi aneddoti. Un giorno si presentò un vecchio antiquario, molto elegante, che si aiutava a camminare con un bastone. Prese due porcellane da una vetrina della galleria e le mise su un tavolo. Poi alzò il bastone e mandò in frantumi una delle due chicchere. Papà lo guardò sbigottito. «Era falsa», disse l’anziano collega. «E anche questa», disse indicandone un’altra dentro la vetrina. Papà pensava che avrebbe rotto anche quella ma l’antiquario la prese delicatamente e la mise accanto a quella antica.
«Guardale spesso, quella falsa e quella buona. Toccale, soppesale, osservale. Tienile sempre sulla tua scrivania. Tra qualche settimana noterai la differenza e non commetterai più errori. È un buon esercizio e vale per tutti gli oggetti: dipinti, sculture, mobili. Vale anche per le amicizie. Quelle vere e quelle false».

*estratto da Quanto lunghi i tuoi secoli – Archeologia personale (2015, PGI – ProGrigioni Italiano edizioni)

 

Avere trent’anni

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averetrentannidi Federica D’Amato

 

Nacqui bizantina in epoca televisiva
d’alto lignaggio in participio d’amore
creatura d’avanzo nell’affamato universo
di sete e bassezze carestia bestiale d’amore
presto divenni eresiarca monumentale
il fuggire delle speranze
i mendicanti tutti ai miei piedi,
costretta a diventare la solita rosa. 

cinéRÉSISTANCE #01 FAUSTO FORNARI Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana [1952]

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di Orsola Puecher

1945-2015: un cambio di millennio e 70 anni di distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla Resistenza che cosa hanno lasciato nella memoria collettiva dello strano paese di segreti, rimozioni e persistenza che siamo? Che per anni non ha saputo raccontare la sua Storia recente nelle scuole, dove i programmi si fermano quasi sempre alla Prima Guerra Mondiale? Che ha permesso alla sua destra di mantenere un sostrato, mai defascistizzato completamente, di simboli, gesti, idee malsane, negazionismo strisciante? Ascoltando ⇨ le interviste di strada su che cosa sia il 25 aprile, il ventaglio di risposte assurde ci fa capire che alla fine non è rimasto poi moltissimo di quei momenti cruciali e fondanti. Mai abbastanza. Allora come raccontare all’oggi lo ieri? Negli anni ’70 tutto era politico, da il personale al voto ecumenicamente assolutorio degli esami universitari, ma oggi, passando dal tutto è arte, lungo tutti gli anni ’80 e ’90, attraverso un confuso periodo in cui le cose non furono più solo le cose, non solo pane e non solo frutta e non solo libri e non solo qualsiasi cosa, si è arrivati al dogma che tutto è narrazione, racconto, spesso per vendere meglio prodotti. Tutto si scrive da solo. Tutti scrivono, scrivono tutti. Scrivono anche senza scrivere. narrare Parafrasando il ogni istante è già memoria di Bergson, oggi ogni istante è già narrazione. Non c’è più bisogno di operazioni transitive e di soggetto e complemento oggetto. L’universo è riflessivo, il presente si racconta da solo trascorrendo. E allora chi racconta il passato? Solo le testimonianze, quelle che ci hanno lasciato i protagonisti, gli ormai pochi soravvissuti, i documenti originali, un vastissimo archivio di fatti, storie ancora poco conosciute, in cui la parola scivolosa e infida della fiction prova a fare un passo indietro, con rispetto.
 
copertina Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, uscito per Einaudi nel 1952, da cui il breve documentario di Fausto Fornari trae alcune testimonianze emblematiche per calarle nei luoghi e nel clima delle loro vicende, è un libro fondamentale per lo studio della storia della Resistenza. Attraverso le parole accorate ma lucidissime degli ultimi messaggi dei condannati, scritte in fretta, spesso su fogli di fortuna, incise con il temperino sulle pareti della cella, di fronte alla morte prossima, emerge il vero volto del popolo, operai, contadini, intellettuali, religiosi, donne, uomini, giovani, vecchi, che ha sconfitto il nazifascismo. Parole spesso minime, domestiche, con una grammatica elementare, di fede popolare, o alte di ideali politici, istruite, di profonda fede spirituale, insieme tracciano la commovente mappa di chi scelse e si ribellò, trovando nella morte, come nella vita, la dignità e il coraggio. Parole piene di futuro, di speranze per il futuro nel loro presente di sacrificio, nelle certezza che esso sarebbe servito a costruirlo questo futuro.
 
Il documentario di Fausto Fornari apre questo libro, legge fra le sue pagine, sceglie alcune delle lettere e cerca di incarnare le parole nei visi, nei luoghi dove si sono svolte le vite e le vicende, lungo i muri tetri delle carceri, i posti delle esecuzioni. Senza retorica, con un montaggio e una asciutta e poetica scelta di immagini tutto si radica nella storia, acquisisce quella tridimensionalità che si stampa concretamente nella memoria, indelebile. Non è facile restare con gli occhi asciutti ed è una commozione che non nasce da artifici narrativi, ma da una concretezza severa, dalla verità che ci parla senza filtri, ancora dopo 70 anni.
 
In una ⇨ interessantissia intervista sul sito ⇨ www.ultimelettere.it Fausto Fornari racconta la storia non facile del suo documentario, totalmente autofinanziato, in primo luogo la difficoltà ad avere i diritti da Einaudi, inizialmente diffidente sull’operazione:
 

Non mi fu facile, in un primo tempo, convincere Pirelli e Malvezzi a concedermi i diritti. Non riuscivano a capire come si potesse realizzare un documentario sulla base di sole lettere e mi chiesero se intendevo filmare i manoscritti.
Avevano ragione di fare la domanda.
Fino ad allora, infatti, i documentari, in genere, erano costituiti da una serie di immagini, più o meno in movimento, riproducenti facciate e interni di chiese, di fabbriche, di scuole, di ospedali.
Oppure i mestieri, la fabbricazione di prodotti.
Ripeto, in genere, freddi, noiosissimi album di foto.
Poi, dovetti convincere Giulio Einaudi, intelligente, coraggioso editore, ma freddo come il più freddo dei piemontesi.

 
La difficoltà in genere in quegli anni a parlare di Resistenza, in un clima di guerra fredda, di desiderio di dimenticare e di rimuovere:
 

Devo necessariamente generalizzare e semplificare. Dopo la fine della guerra, la ripresa dell’espansionismo sovietico porta alla guerra fredda.
Gli italiani del Nord, in parte divenuti antifascisti sotto i bombardamenti aerei o sui fronti di guerra, o nel disgusto e nel terrore delle violenze naziste davanti ai loro usci di casa, nelle privazioni e nei lutti, si dividono fra coloro che si dichiarano amici dell’Unione Sovietica e con essa si schierano e coloro che avversano la non improbabile presa di potere dei primi, nel timore di perdere, insieme ai propri beni materiali, anche la appena ritrovata libertà.
Anche a causa della sinistra di allora, che ne aveva dato un’interpretazione troppo di parte, e della stessa ANPI, che non mancava di esprimere simpatie filosovietiche, la Resistenza non è più vista, con unanime favore, come espressione di un popolo intero ansioso di pace e di libertà.
Togliatti, che alla Resistenza non aveva partecipato, fiuta la situazione e dice agli ex partigiani di stare buoni, che la Resistenza era stata un intermezzo, esaltante fin che si vuole, ma effimero.
Al Sud, dove non v’era stata, praticamente, soluzione di continuità fra la guerra lontana da casa e gli sbarchi alleati, si era passati, nell’endemica situazione di miseria e di sottocultura, dall’euforia bellicista all’euforia della pace americana. Le drammatiche giornate di Napoli non bastano a cambiare una sedimentata realtà.
Al Sud, allora monarchico e conservatore, la Resistenza, sconosciuta, era un trascorso del Nord da dimenticare.
I romani avevano duramente sofferto, ma la città liberata continuava ad esser retta dagli alti e bassi burocrati di sempre, immobili come statue fra nostalgie del recente passato e timore di un futuro incerto.
In tutt’Italia, con la rinuncia ai processi di epurazione e di esproprio dei beni accumulati illecitamente, la classe dirigente era sempre la stessa.
La società, come scrive Parri, “rimane, così pigramente ancorata, in tanta sua parte, ai retaggi del passato”.

 
Poi il successo alla Mostra di Venezia e, come da copione, la mancata successiva distribuzione:
 

Ma il clima politico e morale era tale, a quei tempi, che nessun distributore se ne volle occupare.
Nemmeno il presidente della più importante casa di produzione e distribuzione di cortometraggi del tempo.
Mi pare fosse la Documento film, chiedo scusa se ricordo male. Questo signore, guarda un po’, era Medaglia d’oro, ovviamente vivente, della Resistenza.
Molto gentilmente mi liquidò così: “Lei ha molto talento; mi faccia cento film su qualsiasi argomento, glieli compro tutti a scatola chiusa. Ma la Resistenza, no. L’argomento è finito e nessuno ne vuole sapere più”.

 
La vicenda stessa del film, quindi, ci apre uno spaccato significativo su quello che è stato il nostro dopo guerra, pieno di speranza, di attese, ma anche di non capacità e volontà di avere uno sguardo oggettivo sulla sua storia e di conservarla per le generazioni future.
 
 

[citazioni da Ultime lettere di condannati a morte e
di deportati della Resistenza italiana

http://www.ultimelettere.it, on line dal 26 aprile 2007
INSMLI, visitato giovedì 23 aprile 2014.]

Dall’appunto al frammento.
Raccontare la Resistenza oggi

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Partigiani attraversano piazza Beccaria per ricongiungersi alle forze alleate e continuare la Liberazione verso il Mugnone e oltre Firenze © Istituto Storico della Resistenza Firenz
 Partigiani attraversano piazza Beccaria per ricongiungersi alle forze alleate e continuare la Liberazione verso il Mugnone e oltre Firenze © Istituto Storico della Resistenza Firenz
Partigiani attraversano piazza Beccaria per ricongiungersi alle forze alleate e continuare la Liberazione verso il Mugnone e oltre Firenze © Istituto Storico della Resistenza Firenze

di Giacomo Verri

Beppe Fenoglio appuntava, su fogli recuperati dalla vita quotidiana della famiglia, i propri ricordi partigiani. Ricordi accesi, ancora attaccati alla carne. Ma con parole cercate tra tante e tante per dire un’esperienza eccezionale. Eccezionali, le esperienze, solo per chi le vive. Gli altri non le hanno esperite e non le esperiranno mai, ne sentono parlare, ne sentono i verbi fremere nell’aria, sono come il povero contadino che raccoglie le fole, le gesta di qualche cavaliere cantato sulla piazza, di chi aveva sconfitto il drago mai veduto o era stato sotto l’impero malvagio di un filtro stregonesco.

L’esperienza se n’era andata, dunque. Restava il racconto. Scottante dentro, interno e conficcato negli occhi e nella pancia. Fenoglio strappava fogli, tirava su dal basso i propri appunti per stendere in bella copia, per costruire sé stesso e il proprio passato e il passato di tutti. Scriveva per fermare il caos, il ribollire dell’esperienza, per portare l’esperienza fuori di sé e consegnarla a ciò che di più straniero e assoggettante c’è per l’individuo: la propria lingua. Appunta la propria storia, chiedendo il permesso al proprio linguaggio, sperando che la storia di Beppe diventi la storia di tutti. Ma spesso è Babele ad avere la meglio. Al partigiano di qui non convince la Resistenza narrata da quello di là, tutti traditori di un’esperienza d’eccezione. Il racconto e la parola sono meno o molto di più, troppo di più, di ciò che è stata la vita. Ma quella vita, quella esperienza non c’è più. Parlano attorno al vuoto. Bisogna accontentarsi delle parole e dei motti. Gli appunti partigiani, quelli di Beppe Fenoglio, quelli asciutti e robotici di Vittorini, quelli fiabeschi di Calvino o minerali e fisiologici di Meneghello, o quelli del più ignorante e analfabeta e bestia d’un partigiano, hanno dato inizio all’ultima era della parola.

Gli appunti hanno tenuto su il gran telo della vita. I racconti si sono inanellati l’uno nell’altro, rotolando a valle, diventando grandi e grossi. Parole, parole, parole, soltanto parole. Tutte traditrici? L’uomo non può vivere in pace senza parole, l’uomo adora l’adulterio. Nell’esprimersi, la Resistenza ha conosciuto i limiti della profondità, quando la profondità vuole essere detta, e si è voltata in cruccio, o si è perduta nell’encomio odioso, o si è contentata, per rabbia, o per ironia, o per cinismo, dei lati oscuri e bui del fare Resistenza. Perché la chiarezza lampante dell’azione diventa più nera dei peccati, degli errori, dei tradimenti, quando è ora di dirla. Se poi il mondo, come è accaduto, ha iniziato a distrarsi dal suo passato, allora la memoria ha preso a viziarsi. A giocare con se stessa e con l’avanzo di guazzabuglio che ancora abitava le menti di chi ci fu. E vide.

Ma il viaggio compiuto dal racconto della Resistenza a partire dall’appunto è mai approdato all’opera piena? Forse no, neppure con Il partigiano Johnny. I miti sono invecchiati e non vale la pena di tenerli vivi imbellettandone l’involucro, se dietro non c’è nulla. Tutte le idee hanno una scadenza e poi diventano museo. È stato così per il Risorgimento, sta accadendo per i caduti di cento anni fa. Sarà anche per la Resistenza. È una legge. Occorre però farla morire con stile. Non a caso ho dedicato i miei racconti Ai condannati all’oblio della Resistenza italiana: il cui indirizzo è ambiguo: coloro che l’hanno fatta e ora vengono dimenticati? Oppure coloro che, oggi, sono destinati a perdere la memoria di allora? In ogni caso, credo che dall’appunto si sia passati direttamente al frammento. La memoria odierna non può che essere disorganica, non può che essere disintegrata in scaglie di passato che bucano il presente con i particolari magari più insignificanti. Ma il frammento non è tanto il contenuto della memoria (che mantiene sempre quell’ombra di epicità) ma ciò che la memoria è diventata in sé o ciò a cui sono ridotti i possessori di memoria.

Settant’anni sono passati; per dirla con Dante, è passata una vita intera. La Resistenza è accaduta una vita fa. Il passato è perciò visto di scorcio, in maniera indiretta, attraverso filtri, cartilagini, fogli di alabastro ingiallito: assomiglia alla ricostruzione di un plastico, alle pagine di un quaderno gualcito; chi parla di quelle esperienze, avendole vedute con i propri occhi, è ormai gente anziana, che mostra intera la decadenza fisica e la stanchezza dei lustri. Sono frammenti, essi stessi, di vita. Frammenti incommensurabili e inaccomodabili. La memoria non può essere che frammento.

Car sharing e noleggio a Milano

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di Jan Reister

ATM ha deciso di mettere in vendita Guidami, la sua storica società di car sharing: potrebbe essere una buona notizia per la mobilità cittadina a Milano con l’ingresso nel mercato di un nuovo operatore.

Fondata nel 2004 dal Comune di Milano e dal Ministero dell’Ambiente, Guidami è una società di car sharing, o meglio di autonoleggio self service, costruita sul modello europeo dei car club. Nati prima della diffusione di smartphone e GPS, i car club permettono ai soci di condividere un parco macchine fisso gestendo un calendario condiviso di prenotazioni.

E’ un modello abbastanza rigido, basato su quote associative motivanti (io pago cica 90€ all’anno), un parco macchine molto vario (dall’utilitaria al minivan) in parcheggi fissi (3 vicini a casa mia), utilizzabili in base a prenotazioni pianificate in anticipo. Io solitamente prenoto con uno o due giorni di anticipo e per un numero di ore comprensivo di un abbondante margine in caso di ritardi e imprevisti.

L’avvento del car sharing free-flow a Milano, in cui si prende la prima macchina disponibile e la si usa finché si ha voglia, ha messo in difficoltà il servizio tradizionale di Guidami, che subisce la concorrenza dei tre nuovi operatori Car2Go, Enjoy e Twist sia sui prezzi sia soprattutto sui nuovi client. Questi sfruttano appieno la possibilità di trovare e prenotare una macchina direttamente da uno smartphone e offrono una flotta efficiente di macchine dello stesso modello e cariche di sensori (posizione, navigazione).

In questi anni Guidami ha costruito una base di utenti affezionati, nonostante la concorrenza ed i limiti sopra esposti. La mobilità urbana infatti è composta da esigenze e gradi di flessibilità differenti. Chi non ha grandi problemi di orario, si sposta da solo o in coppia, è in grado di camminare a lungo per raggiungere la prima auto disponibile e può riprenderne altrove una seconda per il tragitto di ritorno probabilmente trova conveniente il car sharing free flow come alternativa ai mezzi pubblici e al taxi.

Chi invece è legato ad orari precisi, ha una ridotta mobilità, deve trasportare persone dalle esigenze speciali (bambini, persone a mobilità ridotta) o ha bisogno di mezzi più spaziosi ha trovato finora un servizio utilissimo nel Guidami, che ha una struttura di costi più adatta all’uso organizzato e continuo, per periodi medio lunghi, da parte di un’utenza specializzata. Sono iscritto a Car2go, Enjoy e Twist e li uso saltuariamente, ma uso Guidami quando devo uscire con la famiglia e i bambini (e i loro seggiolini per auto).

Il mercato del car sharing free flow a Milano è saturo, la clientela più facile (giovani) è stata già catturata e gli operatori si fanno concorrenza sui prezzi contendendosi la stessa base utenti. Restano da sviluppare le fasce di utenti specializzate, aziendali e di nicchia, più piccole ma numericamente interessanti in una metropoli come Milano.

La vendita di Guidami potrebbe rappresentare un’occasione di rilancio del servizio, con l’ingresso di un nuovo operatore capace di affrontare i problemi dell’azienda: aumento della flotta, allargamento della base utenti, interfacce d’uso per smartphone (in Guidami ancora si prenota tutto via web), migliore elettronica in auto. Guidami potrerebbe in dote la rete di parcheggi fissi in città (con gli allacciamenti di servizi), una base di utenti consolidata, personale attento ed esperto e il patrimonio di dati sugli spostamenti degli utenti.

L’operatore più compatibile con questo scenario non è un gestore di car sharing concorrente, ma un’azienda di autonoleggio a breve termine interessata ad espandere e diversificare gli affari.

Le società di autonoleggio (Hertz, Avis, Sixt, Maggiore, Auroeuropa…) lavorano infatti prevalentemente nel settore Viaggi e subiscono in questi anni i fenomeni di reintermediazione e compressione dei margini da parte degli Over The Top (Booking, Tripadvisor, Expedia, Priceline…) tipiche di tutta la filiera: l’offerta si appiattisce sul prezzo, la fedeltà del cliente è nulla e i margini si spostano su servizi aggiuntivi (assicurazioni e optional) che nessuno vuole più o su clientela captive aziendale. Non è un caso che il settore autonoleggio a breve termine sia interessato da acquisizioni e ingresso di operatori low cost.

Già in passato a Milano Hertz ha provato a offrire un noleggio giornaliero in area urbana, con auto e furgoncini da affittare a blocchi di 3 ore, partendo dai propri garage. Se si potenziassero con un sistema di sorveglianza le decine di parcheggi Guidami in strada, l’offerta di autonoleggio a breve termine (dalle 3 ore ai tre giorni) potrebbe venire estesa a una nuova clientela urbana in un modo che attualmente è impossibile partendo solo dai garage delle società esistenti negi aeroporti e in città.

In gioco c’è il mercato costituito dalla mobilità nelle grandi aree urbane. Milano oggi è una città in cui non è necessario possedere a tutti i costi un’automobile e dove la seconda macchina in famiglia è superflua. La crisi economica rende poco interessante l’acquisto un bene che richiede un forte capitale iniziale come l’auto, se esistono alternative che permettono di affittarlo spendendo solo quel che serve.

Staremo a vedere quali saranno gli esiti di questa vendita. Da utilizzatore intensivo di car sharing e autonoleggio sono molto interessato e spero che l’esperienza di Guidami non vada persa.

POETI (elenchi # 4)

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di Giacomo Sartori

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poeti erotici

poeti eretici

poeti erratici

poeti ieratici

Autostrada: confine Campania/Puglia

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di Umberto di Donato

È la linea del confine nell’idea
maligna che divide in due
la terra, il suo fantasma, spirito
di paglia ed erba spada.
Di qua inciampo in una storia, di là cambia
la regione, la ragione dei fatti,
la montagna in due squarciata
da pensieri divergenti, da altre burocrazie,
da una balza oppure da una rupe,
da cespugli double-face.

Rumina l’idea sull’assetto divisorio,
sul non vissuto, sul non taciuto
fantasticare su bigamo e bifronte,
sul me due volte molle, su questa
bilingue geografia che un albero
di arance vorrebbe ad un tempo e di limoni.

Non è palmare questa sensazione,
non si tocca, non si sente,
ma si conferma nella fede,
nel quasi rettilineo sentimento
che si fa crisma, unzione,
cresta e ciuffo,
filo d’erba che conteso
adesso è l’unica salvezza.

Passa un tratturo stretto fra le siepi,
un gregge passa e sconfina con un carro
nell’altra idea, nell’altro nulla che
la recinzione in se trattiene e stoppa
il suo raggio, la sua giurisdizione.
Nessun controllo di belato, nessun crollo,
ad ognuno il suo. Non è
tempo di frazioni.