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Il sapore femminile

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peveredi Federico Pevere

Heidi Krieger è stata campionessa europea di lancio del peso. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Heidi negli anni è diventata Andreas e ama Ute. Ute Winter è stata una campionessa di nuoto. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Ute è rimasta Ute, e ama Andreas.

L’aquila e il pastore (da “Estampas rurales”) – Gabriel Miró

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(questo testo è tratto da “Il Molino a vento e altre prose”, bella antologia di racconti di Gabriel Miró (1879-1930), Benito Pérez Galdós e Vicente Blasco Ibáñez, tradotti da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, e curata da quest’ultimo, per Galaad Edizioni, 2015; nel mix di “desuetudine” e estrema potenza, a me ricorda da vicino il nostro Vincenzo Pardini; GS)

di Gabriel Miró

ilmolinoavento-665x1024Un’aquila seguiva sempre il gregge. Il suo verso risuonava in tutta l’azzurra vastità del giorno, le pecore si fermavano e la guardavano. A volte volava così bassa che si sentiva il fischio delle piume e del becco e la sua ombra enorme passava sui dorsi lanosi delle bestie.

Nelle ore più calde il pastore si coricava sul prato di gramigna e le pecore si stringevano contro le rocce. Tutto il fondovalle era inondato dal sole: rossi campi coltivati, alberi in fiore, orti recintati, ruderi di casolari, sentieri

Deserto solitario

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Desert solitaire(torna in libreria Desert solitaire. Una stagione nella natura selvaggia. Attualissimo, non ostante gli anni. Ringraziamo l’editore per averci regalato un estratto del libro. G.B.)

di Edward Abbey

Qui da solo, immerso nel silenzio, capisco il terrore che molti provano in presenza del deserto primordiale, la paura inconscia che li spinge a voler domare, alterare o distruggere ciò che non riescono a comprendere, a ridurre il selvatico e il preumano a dimensioni umane. Qualunque cosa piuttosto che confrontarsi direttamente con l’anteumano, con quell’altro mondo che ci spaventa non tanto perché sia pericoloso o ostile ma per qualcosa di molto peggiore: la sua implacabile indifferenza.

Via dall’ombra, nella calura. Procedo a passo pesante nella gola sinuosa, nel silenzio, severo ma fragile. In questa atmosfera così arida i suoni non svaniscono, non producono eco e neppure muoiono dolcemente ma si estinguono all’improvviso, bruscamente, senza il minimo riverbero. Il cozzare delle rocce l’una contro l’altra è come uno sparo: sordo, improvviso, eccessivo.

Dietro la curva successiva, eccolo, inaspettatamente, il ponte di pietra.

Inaspettatamente, scrivo. Perché? Avevo fiducia, sapevo che il ponte sarebbe stato qui, sfidando ogni probabilità. E sapevo anche abbastanza bene quale aspetto avrebbe avuto: tutti lo abbiamo visto in fotografia almeno un centinaio di volte. E non sono nemmeno deluso in quel modo vago che spesso proviamo quando ci troviamo di fronte a uno spettacolo che a lungo avevamo immaginato. Il Rainbow Bridge non sembra né più piccolo, né più grande di quanto avessi previsto.

Poi mi sento in colpa. Newcomb. Perché non ho insistito che venisse con me? Dovevo afferrarlo per i peli della sua lunga barba da selvaggio e trascinarlo per il sentiero, caricandomelo in spalla come San Cristoforo al momento di attraversare il torrente, inciampando sulle pietre e scaricandolo infine sotto il ponte, lasciandolo lì a marcire o a strisciare di nuovo verso il fiume. Nessuno avrebbe potuto desiderare una defenestrazione più incantevole.

Attraverso la finestra di Dio sull’eternità.

Oh, be’. Salgo ai piedi del contrafforte orientale e metto la mia firma e quella di Ralph nel registro dei visitatori. Lui è il numero 14.467 e io il successivo a firmare questo libro da quando i primi uomini bianchi raggiunsero il Rainbow Bridge nel 1909. Non molti per essere passato più di mezzo secolo, e soprattutto nell’era della pubblicità. Ma non è mai stato un viaggio semplice. Fino a oggi.

La nuova diga migliorerà le cose, ovviamente. Quando sarà piena, l’acqua arriverà fino al Bridge, trasformando un’avventura nella solita escursione in motoscafo. Per chi lo vedrà in futuro sarà impossibile capire che metà della bellezza del Rainbow Bridge risiedeva proprio nella sua lontananza, nella relativa difficoltà ad accedervi, nella natura selvaggia che lo circondava e di cui era parte integrante. Una volta rimossi questi aspetti, il Bridge non sarà nient’altro che un’isolata bizzarria geologica, un’ulteriore estensione di quel diorama museificato a cui il turismo industriale tende a ridurre il mondo naturale.

L’eccellenza è tanto difficile quanto rara, disse un uomo saggio. Se è così, che cosa accade all’eccellenza se eliminiamo la difficoltà e la rarità? Parole, parole… Il problema mi fa venire sete. C’è una sorgente sull’altro lato del canyon, proprio sotto una cengia alla base occidentale del Bridge.

Scendo giù, risalgo dall’altra parte e raccolgo l’acqua dal muschio gocciolante con l’aiuto di una lattina abbandonata lì da qualcuno.

Il caldo è impressionante. Mi riposo per un attimo all’ombra, mi addormento e sogno nella luce terribile del mezzogiorno. Quando il sole cala dietro l’orlo del canyon, mi alzo e ritorno da Newcomb e al nostro bivacco.

Ma vengo attirato dalla traccia di un sentiero che sembra condurre fuori dal canyon, passando sopra il Rainbow Bridge.

Tardo pomeriggio, il canyon si sta riempiendo di ombre, non dovrei tentare. Decido comunque di provarci: risalgo un ghiaione e traverso un lungo terrazzo inclinato che sbuca nell’aria sottile alla base di un alto dirupo. Impossibile proseguire.

Ma dall’alto penzola una corda, fissata a un punto invisibile. La provo, sembra ben ancorata, e aiutandomi con quella e qualche opportuno punto d’appoggio per i piedi e le mani mi faccio strada fino in cima. Da lì all’orlo del canyon la strada è lunga ma non impegnativa.

Sono di nuovo all’aperto, fuori dall’inframondo. Da quassù, il Rainbow Bridge, trecento metri più in basso, è solo una cresta di arenaria di non eccessiva importanza, un minuscolo oggetto perduto nell’intricata vastità del sistema dei canyon che si irradia dalla base della Navajo Mountain.

Più interessante è la vista verso nord, est e ovest, che rivela la struttura generale del territorio che abbiamo attraversato a bordo delle nostre piccole imbarcazioni.

Il sole, ormai in prossimità dell’orizzonte, splende nell’aria limpida sotto strati di nuvole, illuminando con tenui variazioni di rosa, vermiglio, terra d’ombra e ardesia, i complessi tratti e i dettagli, definiti in maniera netta dall’ombra, del paesaggio del Glen Canyon. Vedo la mesa dai bordi squadrati oltre la confluenza del San Juan e del Colorado, gli altopiani dello Utah centro-meridionale, e più in là, centocinquanta chilometri o anche più in linea d’aria, le cinque vette delle Henry Mountains, compreso il monte Ellsworth, vicino a Hite, da dove è cominciato il nostro viaggio.

A oriente una tempesta isolata ribolle sopra il deserto, una massa di nuvole color lavanda sta bombardando la terra di fulmini e pioggia. Ma è così lontana che non riesco nemmeno a sentire i tuoni. Tra qui e là, tra me e le montagne, si estende lo spazio selvaggio del canyon, il territorio magico di guglie, pilastri e pinnacoli dove non vive nessuno, e dove, non visto, nelle fosse neroblu della roccia, scorre il fiume.

Luce. Spazio. Luce e spazio senza tempo, perché in questo Paese le tracce della storia umana sono minime. Nella dottrina dei geologi, con il loro schema di ere, eoni ed epoche, tutto scorre, come insegnava Eraclito, ma dal punto di vista mortale dell’uomo il paesaggio del Colorado è come una sezione di eternità: senza tempo. In tutti i miei anni nel Paese dei canyon – a parte durante le inondazioni – non ho mai visto una roccia cadere di sua spontanea volontà, per così dire. Per convincermi dell’esistenza del cambiamento, e quindi del tempo, spingerò giù una pietra dalla cima di un dirupo, la osserverò scendere e aspetterò – fumando la pipa – di redigere il resoconto del suo impatto e della sua disintegrazione. Farò del mio meglio per aiutare i processi naturali e verificare le ipotesi della morfologia geologica. Ma non ne sono del tutto convinto.

Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare. Capovolgendo Platone ed Hegel a volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale. Roccia e sole.

Sotto il sole del deserto, nella sua dogmatica luminosità, le favole della teologia e i miti della filosofi a classica si dissolvono come nebbia. L’aria è limpida, la roccia intacca crudelmente la carne. Frantumate la roccia e l’odore della selce vi salirà alle narici, acre e pungente. Di giorno mulinelli di polvere danzano sulle pianure di sale; di notte i cespugli pieni di spine si incendiano. Che cosa significa? Non significa nulla. È come è, e non c’è bisogno di trovarvi alcun significato. Il deserto sta lì e svetta oltre ogni possibile qualifica umana. Per questo sublime.

Il sole sta per toccare gli altopiani traforati a occidente.

Per un attimo sembra sobbalzare, espandersi, poi all’improvviso tramonta. Mi metto in ascolto per un tempo lunghissimo.

Nel crepuscolo e alla luce della luna scendo verso la corda, verso la cengia, verso il fondo del canyon sotto il Rainbow Bridge. Nell’aria volteggiano i pipistrelli. Le lucciole volano vicino alle sorgenti e rospi piccolissimi ma dal vocione profondo cantano il loro gracidio verso di me mentre arranco oltre i loro stagni per il lungo sentiero che mi riporterà al fiume, al fuoco, alla compagnia e a una cena di mezzanotte.

Siamo alla fine del nostro viaggio. Al mattino, io e Ralph mettiamo via la nostra attrezzatura, la carichiamo sui gommoni e lanciamo un’ultima occhiata a questa scena che – lo sappiamo – non vedremo mai più come la vediamo ora: il fiume Colorado, maestoso, libero e selvaggio, che scorre

vicino alla base delle pareti torreggianti, che ruggisce tra i massi sotto l’imboccatura del Forbidden Canyon; il Navajo Point e il precipizio del Kaiparowits Plateau centinaia di metri sopra, oltre le pareti interne del canyon; e a oriente, banchi di nubi spinti dalla tempesta impilati l’uno sull’altro, bordati d’oro e scintillanti nell’alba.

Ralph fa una fotografia, rimette la macchina nella custodia waterproof che tiene a tracolla sul petto, e salta nella sua imbarcazione. Partiamo.

 

Renzi, Lucia e la buona scuola

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di Giorgio Mascitelli

 

 

Si sa che Matteo Renzi è molto abile nelle battute e anche nel caso della sua uscita sull’insegnamento dei Promessi Sposi che andrebbe vietato per legge si è mantenuto all’altezza della sua fama. Boutade perfettamente calcolata, anche nell’usare un’affermazione scherzosa di Umberto Eco fatta in un contesto diverso, ha il pregio di avere un sapore maledettamente antiestablishment colpendo un padre della patria senza dare fastidio a nessuno. E’ noto che ormai i padri non ci sono più ( questo l’ha detto lo stesso Renzi in un altro discorso) e quanto alla patria è chiaro come il sole che i soldi si fanno altrove. E poi a quale studente italiano non sta sulle scatole il romanzo di Manzoni?

Prendiamo a esempio quell’insopportabile Lucia perfettina e santarellina, un’autentica figa di legno si direbbe oggi nella città che dette i natali all’illustre scrittore: chi in tutta coscienza può dire di averla in simpatia? Lo stesso Manzoni aveva previsto che la sua protagonista non avrebbe destato i favori del pubblico e  provvide a mettere in bocca a un personaggio del romanzo tutte le nostre perplessità. ’Madonnina infilzata’ la definisce Perpetua, che è una metafora pudica del fiorentino ottocentesco, il cui significato è molto simile a quello della più sboccata metonimia milanese del XXI secolo. Ma tutto questo a Manzoni non servirà a molto: ormai per lui sono definitivamente tramontati i tempi in cui campeggiava sereno sulla banconota da centomila lire.

In realtà non si può seriamente pensare che il presidente del consiglio abbia detto una cosa del genere solo per il gusto di impressionare i borghesi o di farsi notare. La sua dichiarazione segue una serie di prese di posizione di altri esponenti politici ( Tremonti, Monti, Profumo), economisti, commentatori preoccupati per il nostro futuro e sopracciò vari del neoliberismo nazionale e internazionale contro l’inutilità della cultura umanistica. Non si tratta soltanto di un riflesso di fastidio per tutto ciò che non crea, o non sembra creare, profitti, ma la polemica antiumanistica è consustanziale alla politica pedagogica del neoliberismo verso la popolazione, in particolare  quella in età scolare. Visto che il progetto di preparare le persone alle esigenze del mercato si concretizza in “un’interiorizzazione delle norme di prestazione, in autosorveglianza costante per uniformarsi agli indicatori” ( Dordot-Laval La nuova ragione del mondo) e nello sviluppo fin dall’infanzia di quello spirito di competitività, che evidentemente non è così innato, è ovvio che ci sia una naturale diffidenza, se non ostilità, nei confronti di qualsiasi idea della vita altra rispetto al mercato come quelle veicolate dalle discipline umanistiche ( e anche da quelle scientifiche, se è per questo, quando queste educano a un comprensione critica della realtà e alla curiosità intellettuale). E’ chiaro altresì che nella scuola in particolare le idee sulla vita elaborate dalla tradizione culturale occidentale contrastano con l’instaurazione di quello specifico microclima ideologico che è necessario per inculcare quei tre valori o norme morali utili alla creazione di una cultura di mercato che ho elencato sopra.

A questo discorso neoliberista comune a tutto l’occidente si aggiunge l’invito specifico delle classi dirigenti italiane alla descolarizzazione e alla rivalutazione del lavoro manuale in considerazione del fatto che siamo un paese perdente nella guerra della globalizzazione: pertanto la maggior parte dei posti di lavoro che si troveranno in futuro sarà a bassa qualifica ed è considerato poco conveniente spendere molti soldi per la preparazione di gente che finirà all’estero.  E l’elementare idea che un accrescimento del livello culturale può portare benefici, magari non prevedibili, anche a livello economico è perfettamente estranea a menti  convinte che gli swap servano all’umanità e Manzoni no.

Proprio l’OCSE il 9 febbraio scorso nel suo rapporto sulla spinta alla crescita ( Going to Growth) raccomandava all’Italia di compiere le seguenti riforme dell’istruzione: istituire un sistema di valutazione degli insegnanti, sviluppare un sistema di istruzione professionale post diploma di secondaria, aumentare le tasse universitarie e creare un sistema di prestiti d’onore per gli studenti universitari. Si tratta di un progetto di educazione, contenuto in queste raccomandazioni, che tende a creare una scuola articolata intorno a un principio d’autorità nella formazione degli studenti, che rende difficile l’accesso all’università per le fasce più povere della popolazione e che immette sul mercato del lavoro qualificato manodopera facilmente ricattabile perché indebitata prima ancora di iniziare a lavorare.

Le raccomandazioni dell’OCSE non sono naturalmente semplici consigli disinteressati, ma al contrario sono indicazioni da recepire per tutti quei governi che vogliono riscuotere la fiducia dei mercati, come si suole dire oggi, oppure, se si preferisce usare le parole del Conte zio quando chiede al padre provinciale dei cappuccini il trasferimento di fra Cristoforo per aver osato ostacolare suo nipote don Rodrigo, sono gli amichevoli consigli di un’organizzazione che gode di attinenze cospicue nel mondo dei mercati finanziari.  Del resto la prima di queste raccomandazioni  è già stata recepita dalla Buona  Scuola renziana.

Quanto alla Buona Scuola, è una riforma ( a quanto pare è una riforma, nel senso che in autunno era stato detto che non si trattava di una riforma, evidentemente con l’avvicinarsi della primavera lo è diventata) concepita in un quadro economico di diminuzione delle risorse  pubbliche, in un quadro ideologico di aperta ostilità da parte delle élite nei confronti della cultura soprattutto per il suo valore critico ed emancipatorio e sotto la pressione di potenti organizzazioni internazionali che vogliono limitare l’accesso all’istruzione e subordinarla alle esigenze di un mercato del lavoro dal respiro breve, entro un progetto generale di riduzione di ogni aspetto della vita al mercato.

A questo proposito Matteo Renzi ha dichiarato, più o meno, che la Buona Scuola è una riforma importantissima perché definirà l’istruzione almeno per i prossimi cinquant’anni. A mio avviso, il presidente del consiglio ha peccato per eccesso di modestia: con premesse del genere c’è il caso che riesca a sistemarla per sempre.

Dell’evaporazione dei morti. Della bocca chiusa dei vivi.

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porte chiusedi Mariasole Ariot

Di Roberto Dalmonego ci si ricorda la saliva : una bava lenta, trascinata, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia delle lumache che sono già passate. Di Roberto Dalmonego ci si ricorda la camminata, uguale a tutte le camminate della corsia, la camminata faticosa del farmaco. Trascinata, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia di un sé già passato. Di Roberto Dalmonego ci si ricorda un corpo steso a terra, un urlo nella notte. Di Roberto Dalmonego non ci si ricorda nulla.

Del piccolo L. si ricordano gli anni. La sua voce masticata dai farmaci, i calzini bianchi, i suoi capelli alla Elvis Presley, il sogno di diventare psicologo – o forse economista, diceva, o forse Legge. La sua dichiarazione nella camera oscura : sono qui perché non sapevo più riconoscere il male dal bene. Ci si ricorda la finta torta di compleanno, il barattolo della nutella e il pane secco, ci si ricorda la risata improvvisa sui racconti di Maddy :

e allora ci addormentavamo con un po’ di benzina, e funzionava
ridevamo
e i miei nipotini sui covoni si rotolavano, e allora un po’ di benzina funzionava
ridevamo
ma io sono astemia, il vino no
ridevamo
poi sono morti tutti i bambini
lui continuava a ridere

Di Roberto Dalmonego non si è saputo nulla. Non ci sono tracce fino al 28 marzo 2015. I giornali hanno taciuto, i poteri forti hanno taciuto : quel che conta è silenziare. Strangolato nella notte del 31 marzo di un anno fa. Il piccolo L. l’ha preso alla gola. Gli infermieri del turno notturno : nessun indagato : tutti dormivano. Li ho visti distesi come larve, il respiro profondo, la fotografia del tacere.

Fate silenzio, c’è chi dorme : noi che non siamo loro, che non siamo voi.

Di Roberto non si saprà nulla. E’ morto un disperato, è morto un già morto con la bava alla bocca. Una bava lenta, veloce nella fine, un prolungamento inutile di un residuo di umanità, la scia delle lumache che sono già passate.

Il piccolo L. ha i fiori in bocca, ha camminato nella casa con il sole dipinto sulla porta : territorializzazione spinta, riciclaggio dei malati. Quattro euro l’ora e due turni a settimana, con tutti i pazzi c’è un gran risparmio. Un riciclo : dimissioni e poi riutilizzo.

Il sistema psichiatrico trentino piace alla Cina – scrivono i giornali. Una conquista.

I piccoli  L. a cucire borse, all’ex tossico un po’ di autolavaggio, un po’ di erba portata dai pazienti più esperti dai pazienti più datati, al ragazzo che cade nella paresi offrono un vecchio cesso su cui vomitare, qualche esperimento mattutino, la ragazzina senza corpo nella gabbia dei leoni, vediamo che succede, spingere per sottrazione, sottrarre per inclusione : venite tutti, tacete tutti.

Nessun commento, nessuna notizia. La stampa nazionale tace. Negli archivi della rete si trovano solo buchi : il niente di ciò che resta : un niente.

By definition, of course, we believe
the person with a stigma is not quite human
E.Goffman

In fondo si trattava di folli. Di chi vedeva demoni strangolando, e di chi sognava strangolatori e ed era già morto. Di chi dormiva strangolato.
Non saperne nulla : essere ciechi non per sciagura ma per godimento. Essere ragnatele trasparenti. Costruire una maglia sicura, allargarla, sperare che nessuno parli. Allargare il più possibile : escludere per inclusione. Fare della città un piccolo manicomio gentile, fareassieme per disfare. Quindici diagnosi a testa.

Ma l’importante è tacere. L’importante è tinteggiare i muri con la vernice trasparente. L’importante è verniciare, l’importante è svestire, l’importante è riciclare, l’importante è tacere.
Di Roberto Dalmonego nessuno sapeva nulla. Un solo articolo in un anno. Nessuno saprà nulla. Conta controllare questo nulla, fare del nulla il prestacorpo alle proprie zone morte, conta esportare il modello, dire superare Basaglia con una nuova legge che superi il superabile.
Conta superare per un apparente malinteso, conta scoprire i denti tenaci della novità a costo di distruggere per apparente forza contraria quel che di buono si era fatto.

Muore la 180 nelle zone interstiziali, muore nell’ombra, muore perché la parola non è contemplata, muore perché l’incompleto non si accetta, muore per desiderio di assoluto, muore per il totale, perché l’importante è che tutto funzioni : una macchina perfetta, ingranaggi ben oleati, il filo spinato sulle bocche.

Di Roberto Dalmonego resta l’ombra sulle piastrelle azzurre. Resta la sedazione come una bava, resta un volto senza faccia, resta un nome senza volto, resta un un corpo senza sepoltura.

Ma : i morti hanno bisogno di nomi, hanno bisogno che si dica, hanno bisogno che non si taccia, hanno bisogno del grave della parola, hanno bisogno di un peso, hanno bisogno del dire, hanno bisogno di vivi che smettano di allungare le spalle al cranio per dire semplicemente : càpita.

 

Fonti :

Il trentino non è un’isola felice
Il caso di Roberto Dalmonego
Il treno dei folli
Psichiatria democratica contro la proposta di legge 181
Un lapsus interessante nella proposta di legge 181 : “Sapere di ciascuno, sapere di lutti. Gli utenti è familiari esperti, un jolly prezioso”

Scrittori in tempo di guerra

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Cane di guerra


HANS CAROSSA
Kérdzi-Almàs, 25 novembre 1916
Pare che per i prossimi due giorni ancora saremo al sicuro da allarmi. Cerchiamo di sistemarci: molti tirano fuori libri e uniformi buone, qualcuno dispone sul tavolo una fotografia. Il mio alloggio è pieno d’irrequietezza; tutti i vicini entrano ed escono, poco fa è venuta qui una vecchia a mendicare acquavite. Oggi pomeriggio sono stato testimone d’una scena che, considerata in sé, non ha forse alcun significato, eppure ho la sensazione che mi riguardi, me e qualcun altro. Settimane fa vennero al mondo, in questa casa, molti gatti, che ora diventano molesti, tanto più che manca il latte per loro. Un ragazzotto di circa quindici anni, che è qui a servizio, sembra abbia avuto incarico di togliere di mezzo tutte quelle bestie. Mentre stavo scrivendo in camera, lo vidi portarle attraverso il cortile e prima che mi rendessi conto delle sue intenzioni, sbatterle con rapidità incredibile una dopo l’altra contro la parete del fienile, davanti a cui giacquero esanimi. Poi, fischiando e dimenando le braccia com’è il suo solito, il ragazzotto ritornò in cucina, dove appunto si stava portando in tavola, si sedette con gli altri e si mise a mangiare tranquillamente. Ma uno dei gattini giustiziati, grigio-azzurro, dal muso il petto e le zampe bianchi, e un bioccoletto argento chiaro sulla nuca, assolutamente diverso dagli altri, era rimasto soltanto tramortito e a poco a poco si riebbe. Solo allora notai che sanguinava al mento, per il resto sembrava incolume. Vacillando tentò piccoli passi, si fermò, si passò alcune volte la zampina sulle orecchie, come se ciò dovesse aiutarlo a riacquistare coscienza, e scivolò poi attraverso il cortile dentro la casa. Entrò esitando dalla porta della cucina e si guardò intorno. Quando vide la gente che banchettava, si sforzò di saltare sopra la panca, cosa che dopo alcuni tentativi gli riuscì; poi sedette per qualche istante immobile. Alla fine, venne a strofinarsi con fiduciosa preghiera contro il gomito del suo assassino, che masticava placidamente. Dal mio tavolino nascosto potevo osservarlo senza perderne un gesto. Quando s’avvide della bestiolina, quello seguitò ancora per un po’ a mangiare; a un tratto, sembrò lottare con la nausea, fu colto da una sorta di singhiozzo e respinse il cucchiaio. Non appena gli altri se ne furono andati, toccò con circospezione il gattino, come se ne avesse paura o dubitasse della sua presenza corporea. Finalmente, lo posò con tutta la delicatezza di cui era capace, quasi fosse un ninnolo di porcellana, sopra la tavola, e gli sbriciolò davanti i suoi resti di carne e pane. Quello ne mangiò un poco, e questo fatto rallegrò il ragazzo. (…) Il ragazzotto, da allora, ha ripreso il suo lavoro nel cortile. Ha raccolto i gatti morti con la cautela usata verso quello vivo, e li ha portati via. Mi sembra alquanto mutato nel suo contegno, il viso più sveglio, il passo più sicuro; inoltre da allora non l’ho più udito fischiare.

Domani arriva il principe ereditario austriaco, a passare in rivista la truppa presso Lemhény. Io mi dichiaro bisognoso di riposo e chiedo il permesso di restare a Kézdi-Almàs. Il tempo si fa molto ventoso e freddo.

STEFAN ŻEROMSKI
La guerra divenne l’elemento vitale del tenente Leszek Snica. Confessava a se stesso e agli amici che la guerra, da quando l’aveva conosciuta, era diventata nel suo intelletto quasi una prosecuzione, un ampliamento dell’attività artistica, un fiore che affondava le sue radici nella vita dell’uomo forte, dell’uomo creatore. Finalmente era caduto dalle sue possenti braccia creatrici tutto ciò che era meschino lavoro, preoccupazione di procurarsi cibi, bevande, indumenti, di sostenere famiglia. Era caduto come un inutile straccio. Tutto gli veniva consegnato in forma matematicamente perfetta, esatta, affascinante, ad una semplice richiesta: armi, indumenti, cibi, bevande, mantenimento della moglie e del figlio erano procurati con una puntualità al secondo da quella immane, complessa ed oltremodo possente macchina, che tutto pensava e tutto faceva ad un tempo, rispondente al nome di “Austria”. La sua vocazione di uomo, di marito, di creatore (la cui forza prorompente era guidata dalla saggezza) era diventata il valore, proprio il fine cui l’uomo creatore dovrebbe essere predestinato sulla terra. Quando il tenente Snica paragonava la sua vita precedente in Italia, una vita da furfante, da affamato, da vagabondo e da mezzo lazzarone, da “artista pittore”, con la sua attuale forza, tremava d’ira e vibrava di estasi. Là una nullità, qui un potentato. Potentato effettivo. La guerra aveva fatto sì che il mondo si spalancasse al suo sguardo intrepido e al suo pugno serrato. Si dischiudevano tutte le porte delle case, ogni scrigno fino ad allora inviolato, si infrangevano tutte le leggi che chiunque avesse mai scritto, si disperdeva in polvere il codardo cuore umano, proprio quello stesso che egli, oggi, un guerriero intrepido, sei settimane prima portava sotto l’abito borghese. Conosceva quella miseria e perciò gli piaceva ora guardarla come un oggetto estraneo. Lo affascinava la vita vagabonda della guerra, senza né data né ora prevedibile, fitta di esperienze travolgenti, di avventure e di eventi fantastici, che non riuscirebbe a sognare il poeta dalla fantasia più esuberante. All’avidità del suo animo insaziabile si offriva un mondo splendido e indicibilmente interessante. Dietro ad ogni collina, dietro ad ogni bosco attendevano delle nuove fantasmagoriche manifestazioni, che avanzavano continuamente, immagini irreali, dagli anfratti misteriosi del tempo e dello spazio. Poteva entrare in tutte le case, ispezionare palazzi e ville, conoscere persone e rapporti sempre nuovi, indagare all’interno dei casi più complessi, largheggiare in grazie e punizioni, reggere le vite e le sorti degli uomini, secondo l’interesse segreto della guerra, il che si poteva, a seconda delle circostanze, identificare col capriccio dell’individuo: tutto ciò era veramente attività artistica. La creazione di quest’arte non si esauriva mai, e non si era mai sazi di ammirarla.

ALFRED DÖBLIN
Le città renane erano in attesa dei reduci e adornavano le loro vie e i ponti. Padri, fratelli, figli ritornavano. Si voleva festeggiare chi era rimasto in vita, coloro che ritornavano dall’inferno, e festeggiare la fine della guerra. Coloro che avevano sognato grandi gesta di guerra e si aggiravano spauriti, erano lieti che il loro orgoglio, i reggimenti in marcia, i cannoni, i carri armati, le mitragliatrici, le fanfare e le bandiere, presto avrebbero riempito di nuovo le strade. Esisteva ancora la gioia, dunque, e non tutto era perduto. Altri s’attendevano un aiuto per le novità che sopravvenivano, perché non c’era più lo Stato, tutto pareva in dissoluzione, certi giorni pareva d’esser preda di bande brigantesche. Altri ancora attendevano i reduci per la rivoluzione, per la rivoluzione totale.

[…]

In mezzo ai soldati che bivaccavano, nelle scuole, ai posti di ristoro, s’affollavano persone con richieste molteplici. Infermiere e dame della buona società offrivano caffè, birra e piccole salsicce. Intorno ai pentoloni da campo dei soldati sulla piazza s’affollavano povere donne e molti bambini, uomini anziani che mendicavano pane e tendevano bicchieri. Davanti alle stazioni i comandanti cercavano di cacciar via i mendicanti.

[…]

– Mio caro figliuolo. Dopo ch’ebbe sparecchiato, lo trovò assorto, con lo sguardo chino. Egli disse: – Io sto qui disteso e seduto, rifletto e rievoco. Eccomi qui adesso. Qui ho vissuto e ho lavorato prima della guerra. Prima della guerra. È qualcosa più della guerra. Mamma, io so che non mi sono battuto per mesi con la morte e non sono ritornato a casa dalla guerra per continuare la mia vecchia vita. Non è questo il mio destino, me lo vedi in faccia. E anche se le mie membra fossero più forti, non mi sarebbe più concesso di farlo.

[…]

Egli incrociò le braccia e tacque a lungo. Poi toccò la mano della madre: – Di quale disfatta parli? – Di ora, del 1918. – La disfatta è più remota. Non intravedo ancora le sue radici. Si può essere vinti, ma non disfatti, e non è così. Questo è uno smascheramento. Non sapevano morire, temevano la morte come dei borghesi. Non possedevano il giusto rapporto con la morte e la vita – E dopo alcun tempo soggiunse: – Non erano autentici. – La madre stava seduta muta a contemplarlo. Era profondamente contenta di vederlo, di ascoltarlo e di averlo lì. Non lo capiva. Egli si tormentava. Oh, era malato, paralizzato. Tutto sarebbe migliorato lentamente. Amarezza, amarissima amarezza, quando sarai la mia cara sorella.

SCIPIO SLATAPER
Nella mia città facevano dimostrazione per l’università italiana a Trieste. Camminavano a braccetto, a otto a otto; gridavano: viva l’università italiana a Trieste, e strisciavano i piedi per dar noia alle guardie. Allora mi misi anch’io nelle prime file della colonna, e strisciai anch’io i piedi. S’andava cosí giú per l’Acquedotto. A un tratto la prima fila si fermò e dette indietro. Dal caffè Chiozza marciavano contro noi in doppia, larga fila i gendarmi, baionetta inastata. Marciavano come in piazza d’armi, a gambe rigide, con lunga cadenza, impassibili. Ognuno di noi sentí che nessun ostacolo poteva fermarli. Dovevano andare avanti finché l’Imperatore non avesse detto: halt! Dietro quei gendarmi c’era tutto l’impero austrungarico. C’era la forza che aveva tenuto nel suo pugno il mondo. C’era la volontà d’un’enorme monarchia dalla Polonia alla Grecia, dalla Russia all’Italia. C’era Carlo Quinto e Bismarck. Ognuno di noi sentí questo, e tutti scapparono via interroriti, pallidi, spingendo, urtando, perdendo bastoni e cappelli.

Io rimasi a guardarli con meraviglia. Marciavano dritti avanti, senza sorridere, senza ridere. La gente che scappava era per loro lo stesso che la compatta colonna che marciava per l’università italiana. Io rimasi fermo a guardarli, e fui arrestato.

Un gendarme mi prese per il polso sinistro e andammo. Era una cosa molto strana. Egli continuava a camminare del suo passo; io cercavo d’imitarglielo. Gli occhi della gente che passava mi percorrevan tutto come gocce fredde nella schiena, dandomi un brivido, tanto che il gendarme pensò: Der Kerl hat Furcht. Ma forse non pensò niente, e continuava a camminare del suo passo. Ricordo benissimo che un giovanotto passando estrasse la destra inguantata per arricciarsi il mostacchio destro, poi tirò fuori la sinistra per arricciarsi il mostacchio sinistro. Io avevo voltato la testa per vederlo, sí che, il gendarme procedendo, mi sentii tirare avanti. Una donna, con un bel boa, torse gli occhi, ma vidi che rideva. Perché mi lascio condurre da questo imbecille?

Ha le spalline grosse, giallonere. Perché non lasciarmi condurre da lui? Si va dove non so, ma non è necessario ch’io sappia. Mi conduce lui, svolta, scantona, e i miei piedi si pongono sempre paralleli ai suoi. La baionetta scintilla molto lucida. È carico il tuo schioppo?

Perché non mi risponde? E un garzone di beccaio, invece di far due passi di piú, salta oltre la panca di passeggio, e il grembiule macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte svolazzando. Appena siamo passati ci guarda e urla: “Dèghe al giandarmo!”. Scappa.

Io vedo bene pulsare l’arteria nel collo di questo imbecille. E le mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non c’è gente. Alboino… Ma io sono piú che Alboino. Io sono piú che Bismarck.

Riferimenti
Hans Carossa, Rumänisches Tagebuch (Diario rumeno), in Sämtliche Werke, Frankfurt a.M., Insel-Verlag, 1962, in Mario Schettini (a cura di), La letteratura della Grande Guerra, Milano, Sansoni, 1968, pp. 989-991, traduzione di M.T. Mandalari. Stefan Żeromski, Charitas (Dalla trilogia Lotta con Satana, 1916-1919), III ed., Warszawa, Czytelnik, 1956, Schettini, cit., pp. 1107-108, traduzione di Andrzej Zielinski. Alfred Döblin, Teuere Heimat, sei gegrüsst (Ti saluto, patria diletta), in Bürger und Soldaten 1918 (Borghesi e soldati 1918), Stockholm, Bermann-Fischer Verlag, 1939, Schettini, cit., pp. 531-41, traduzione di M.T. Mandanari. Scipio Slataper, Il mio Carso (Libreria della Voce, Firenze 1912), il Saggiatore, Milano 1965, pp. 45-47.

L’immagine
Cane con maschera anti-gas. Da Internet Archive Book Images.

Miti Moderni/12: c’è tempo…

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Luigi Ghirri
Luigi Ghirri
Luigi Ghirri

di Francesca Fiorletta

«Che ore sono?» disse Michèle sbadigliando.
«Insisti, dopo tutto quello che ti ho detto?» rispose Adam.
«Sì, che ore sono?».
«È l’ora in cui, chiara nella notte, vaga intorno alla terra errante con la sua luce altèra…»

[Il verbale,  J.M.G. Clézio, :duepunti edizioni]

Il tempo non c’è, non avanza mai, s’è perduto, piano piano, il tempo. 

La lottatrice di sumo

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La lottatrice di sumo, Giorgio Nisini, Fazi Editore

La lottatrice di sumo, Giorgio Nisini, Fazi Editore

di Giorgio Nisini

Margherita era stata una specie di “calamita dell’attenzione”, aveva ridato di colpo densità alle cose presenti, consentendomi di attraversare la fase finale della mia adolescenza senza perdere definitivamente il contatto con la realtà.

La giornata del backup

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Jan Reister

Oggi è la giornata mondiale del backup, nota anche come la giornata del senno di poi. È dedicata alle persone che hanno perso per sempre i loro dati, non hanno mai fatto un backup e per soprammercato vengono redarguiti dai loro amici supponenti che hanno sempre un backup (due, tre) delle loro cose.

Ho visto capitare di tutto: il nonno a cui è stato rubato il laptop con tutte le foto dei nipotini, lo scrittore con una consegna tra un mese e l’hard disk rotto, la ricercatrice a cui un virus ha cancellato i documenti di due anni di lavoro, l’architetto che perde tutti i progetti, fatture e foto dei figli, e nessuno di loro aveva pensato a mettere al sicuro una copia dei dati.

Questo articolo è dedicato alle persone normali e ottimiste, che usano un computer senza essere esperte di informatica. A loro dico: fai un backup ora!

Pensa

Chiudi gli occhi e immagina che il computer che usi scompaia nel nulla: rotto, rubato, cancellato per sbaglio da tuo figlio. Ne hai bisogno, ne compri un altro: di cosa hai bisogno per ricominciare una vita normale? Ti servono ad esempio i documenti di lavoro, le fatture, l’archivio della tua posta, i dati dei clienti, le password che usi in rete, le foto dei figli, la musica, i film introvabili che hai scaricato. Questi sono i dati che vuoi salvare perché siano sempre disponibili in caso di bisogno. Pensa a dove si trovano.

Compra un disco ora

Vai in un negozio di informatica e compra un disco esterno USB. Ce ne sono di vari modelli e dimensioni, ma tu compra il più economico che trovi. Ignora le funzioni aggiuntive, prendi il più economico.

Meglio ancora: prendine due.

Salva i dati

Collega il disco al pc e copia tutti i dati. Copiali ogni giorno, ogni settimana, ogni mese.

Noterai  che è molto lento e noioso ricopiare tutto ogni volta, per questo esistono dei programmi specializzati che rendono la cosa facilissima:

  • Windows 7: vai alla funzione Backup and restore e configura le opzioni.
  • Windows 8: vai alla funzione File history e configurala.
  • Mac: collega il disco e configuralo per Time machine.
  • Ubuntu Linux: configura il Backup.

Per ciascun sistema operativo, segui le istruzioni dettagliate sul sito del wordl backup day. O fatti aiutare da un amico.

Bonus: salvali ancora

Salva i dati anche sul secondo disco, ma con tempi diversi (una volta al mese per esempio) e conserva il disco in un luogo separato. Avrai una copia di emergenza anche nel caso che i dati vengano alterati sul primo backup (ad esempio da un virus come cryptolocker).

Per esperti

Se sei una persona esperta, puoi come configurare un backup remoto via rete. L’idea generale consiste nel salvare i tuoi dati su un server esterno, tramite Amazon S3, Dropbox, Tahoe LAFS, Crashplan, BTsync, Syncthing eccetera. La parte esperta della cosa è che dovrai cifrare i tuoi dati prima di trasferirli, pensare a un meccanismo di recupero della chiave di cifratura separato dal recupero dati, e molte altre cose. Se ti interessa, discutiamone nei commenti.

bruce

L’immagine ritrae Bruce Schneier, scettico, esperto di sicurezza, crittografo e divulgatore.

 

 

 

 

“Coniugare un luogo, un tempo e due persone”

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di Diego Bertelli

Mi dico: non temere questi fogli,
togli da sopra i risvolti
di polvere e memoria:
di quello che hai scritto per lei
non svelano niente.

Del resto d’inchiostro sulla carta,
dalla tua penna a una frase
di distanza, non fanno parola:

fanno che passi il momento
di ogni altra tua storia.

***

Tentando un inventario
di noi stessi tra le cose
spogliamo con lo sguardo
il superfluo di cui siamo
le parti meno necessarie –

nelle forme di un’incolmabile
scadenza ne tiriamo le somme
e l’eccedenza tra i rifiuti
da non differenziare.

***

Ridire ad alta voce
nomi comuni di cose ancora mie

pronunciarli con la lettera maiuscola
e un’inflessione disattenta
di piacere

dicendo ci sono
coniugare un luogo un tempo e due persone.

***

Le cose restano quiete,
soprammobili di fronte alle prese
del vuoto:

una disattenzione ai movimenti
le circonda, solide e ferme
per troppa mancanza di assenza.

Non tutte a pelle
sopportano il contatto:
di colpo reagiscono, di scatto

si lasciano cadere.

***

Constatazione di un oggetto
che non sia nuovamente
anomalia della memoria

la sola cosa che resista
al pensiero e non si muova
per finire dubbiosa
in un punto della mente
così interrogativo.

Mi chiedo chi resti senza me
di questa cosa, per quanto
debba ancora servire –

se anche una cosa senza vita
possa infine morire.

les nouveaux réalistes : Milo Busanelli

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All’orizzonte

di

Milo Busanelli

Opera di Claude Lazar
Opera di Claude Lazar

All’imbarco nessun problema, durante il volo neanche, poi lei scopre di aver dimenticato la guida. Lui non si scompone: rimarranno tutto il tempo sull’isola, sempre nello stesso resort, al più cambiando spiaggia. La guida è inutile.

Usciti dall’aeroporto vedono gli altri turisti che salgono sui taxi, contrattano con i tuk-tuk, partono a piedi anche se a portata di sguardo non c’è nulla, solo terra, piante tropicali, una striscia d’asfalto, niente sabbia, niente mare, i vestiti che si appiccicano alla pelle per il caldo umido, un ronzio d’insetti senza insetti, la stanchezza del viaggio e dei giorni precedenti, fatti di preparativi e lavoro straordinario per tornare col minor carico di arretrati possibile.

Si aspettano un cartello con il loro nome, ma non ci sono cartelli. Lui controlla più volte l’orologio, allora lei chiede informazioni a quelli che sembrano saperla lunga, fa qualche gesto in aria per spiegarsi meglio, ma loro scuotono la testa.

Poi sbuca un omino che li conduce a una jeep malridotta ma lavata di fresco e ai rimbrotti del cliente risponde che c’è stato qualche problema. Lui chiede quale, ma l’altro è concentrato a evitare le buche. Allora commenta che come inizio lascia a desiderare, ma lo fa nella propria lingua.

Il resort è come se l’aspettavano, se possibile anche meglio, ma lui si lamenta di una macchia sul tappeto. Una cosa è chiara: non vogliono tornare più stanchi di quando sono partiti. Poi vogliono tornare abbronzati e con qualcosa di esotico da raccontare.

A pranzo ci sono diversi tavoli vuoti, eppure credevano fosse tutto esaurito. Un cameriere biascica che qualcuno preferisce mangiar fuori. Il pesce, comunque, è ottimo, ma per sicurezza si fanno portare un’altra bottiglia d’acqua perché il tappo non sembra sigillato. Anche la seconda bottiglia ha lo stesso problema, allora bevono il vino d’importazione.

Dopo una pausa per la digestione si dirigono alla spiaggia privata. La giornata è soleggiata, le nubi sono poche e rompono la monotonia del cielo. La sabbia è bianca, finissima, morbida al tatto. Riconoscono alcune persone che hanno visto a pranzo, persone che sono lì per rilassarsi.

Si coprono di crema solare, quindi si lasciano andare. Ogni tanto passa qualche inserviente che senza disturbare raccoglie gli ordini. Chiedono da bere un paio di volte, guardano il mare, ma per fare il bagno aspettano domani. Il sole non è ancora sceso che qualcuno se ne va e dopo un po’ spariscono anche gli altri. Nel giro di mezz’ora la spiaggia è deserta.

La cena è molto simile al pranzo, ma con portate diverse. Non è male avere lo stesso tavolo; gli risparmiano la fatica di scegliere. Alla seconda portata una coppia poco lontana comincia a litigare, ma in un’altra lingua. Lui spera che qualcuno intervenga per farli smettere oppure li consigli di continuare in camera, poi pensa che potrebbe essere di fianco alla loro. Anche gli altri commensali sembrano infastiditi, ma nessuno fa niente, nemmeno i camerieri. La coppia smette di vociare e continua a mangiare in silenzio.

Tornando verso la stanza incrociano un tizio che li saluta e chiede per quanto tempo intendono fermarsi. Lui risponde di malavoglia. A lei sembra carino ricambiare con la stessa domanda. L’estraneo è lì da una settimana e dovrebbe restare un mese, ma se ne andrà tra due giorni. Lui chiede perché. L’altro risponde che è il primo volo disponibile. Lei vorrebbe fare altre domande, ma lui dice che sono un po’ stanchi.

La notte passa senza fastidi, finché si sveglia per una zanzara. Setaccia la stanza e la sveglia. Con quello che hanno pagato, inizia a dire, poi torna a letto, ma poco dopo la sente di nuovo. Lei sbuffa, non ci possono essere zanzare con l’aria condizionata. Lui dice di non trattarlo da stupido, la zanzara c’è, l’ha sentita durante il sonno e da sveglio. Ma non l’ha vista. Altrimenti l’avrebbe uccisa. Dopo un po’ qualcuno bussa con forza alla parete, allora si alzano per fare colazione, ma è troppo presto.

Quando scendono in spiaggia si accorgono che è meno frequentata del giorno prima, ma poco importa. Entrano in acqua, lei propone di fare snorkeling, ma per lui è meglio aspettare, se fanno tutto subito rischiano di stancarsi. Centellinano le bracciate nel mare basso, calmo e limpido che hanno già visto in foto, solo che in foto era più trasparente.

Una volta usciti l’aria si è rinfrescata. Stanno tutto il giorno al sole, ma nel pomeriggio lei entra per prendere qualcosa da leggere. Mentre cerca in valigia nota la zanzara sopra la testiera del letto. La schiaccia con i sandali, pulisce la macchia, poi esce.

Lui non c’è più, forse è andato in bagno. Dopo qualche minuto lo cerca. Gira la spiaggia, torna dentro, chiede se l’hanno visto, alla fine lo trova sdraiato dov’era. Comincia a leggere, ma si annoia. Controlla se è possibile connettersi alla rete, ma sono troppo lontani. Dovrebbe rientrare, ma le sembra stupido, allora ferma un inserviente e domanda se hanno i giornali. Quello chiede in quale lingua. Lei risponde e l’altro scuote la testa. Allora chiede cos’hanno. Il ragazzo snocciola un elenco e lei lo lascia andare.

Realizza di essersi addormentata quando sente una goccia sulla coscia. Controlla il cielo: le nuvole sono lontane, il mare è distante, lui sta dormendo. Eppure la goccia c’è, ma tra poco sarà asciutta; se lo raccontasse non le crederebbe nessuno. Uno scherzo, certo, cos’altro potrebbe essere.

A cena c’è qualche tavolo vuoto in più e qualche cameriere di troppo, ma il cibo è sempre buono. Lei chiede se ci sono altri ristoranti in zona. Lui commenta che non lo sa, a quello serve la guida. Lei si trattiene dal rispondere, prova a collegarsi di nuovo, ma non c’è rete. La signora del tavolo accanto dice che manca da quella mattina e nessuno sa il perché. Lui sbotta che non ha intenzione di perdere tempo su internet, lo usa per lavoro e nel tempo libero, l’ha usato per venire qua, ora vuole rilassarsi. Potrebbero almeno capire cosa sta succedendo, fa lei, ma per lui non sta succedendo nulla, sono in vacanza e basta.

Dopo il dessert pensa che con tutte queste disdette avranno un’altra camera libera. La ottiene, sembra uguale alla prima, ma il tappeto è intonso. Traslocano, poi lei propone di uscire, lui chiede perché, lei non sa rispondere, poi ammette che ha voglia di fare due passi. Lui scuote le spalle.

Si aggira da sola per i corridoi senza sapere dove andare, le porte sono chiuse, poi si ferma al bar. Le luci volteggiano sulla pista, ma nessuno muove un passo. Ogni tanto una mano porta il bicchiere alla bocca. Lei sceglie un tavolino; due signori vestiti da giovani la raggiungono.

Che senso ha una vacanza senza divertimento, dicono. Lei cerca una scusa qualsiasi per andarsene. Uno di loro chiede se quell’uomo è suo marito e lei risponde di sì, qualcosa del genere. L’altro trattiene una risata e il primo le scrive il numero della loro camera. Se avete bisogno di qualcosa, dice. Lei ringrazia, ma sono a posto, allora quello fa presente che manca l’ingrediente principale, così, nel caso si annoiassero, sanno dove trovarli.

Tornata in camera racconta tutto, ma lui non capisce dove vuole andare a parare, infine lo chiede e lei non sa rispondere. Si sdraiano e aspettano di addormentarsi, ma restano svegli.

Il giorno dopo anche il personale è diminuito. Tutta quella servitù in piedi mi dava noia, commenta lui. Lei vorrebbe dire la sua, invece propone di cambiare spiaggia. Chiede se vuole fare snorkeling. Sì, ma preferisce farlo da un’altra parte. E se viene a piovere? Lei guarda il cielo e riconosce che è nuvolo, ma non al punto da temere un acquazzone, anche se nella guida c’è scritto, lo ricorda bene, che il tempo può cambiare senza preavviso.

Alla fine fa snorkeling al largo della solita spiaggia. Avvista un paio di pesci, ma non sa come chiamarli. Si chiede quali pesci conosce, li elenca, ma si ferma subito. Chissà se c’è un istruttore anche per questo. Sbatacchia le pinne per un po’, poi capisce di non essere allenata e torna sulla terraferma. Quando lui la vede smette di parlare e torna a sdraiarsi.

Restano così, poi lei chiede chi era. Una che lavora al resort. Fanno lavorare anche le ragazzine, domanda lei, ma non è una domanda. Lui scuote le spalle; per quel che ne sa potrebbe essere maggiorenne. Una cosa è certa: con questo sole la crema non serve.

Dopo essere rientrati in camera escono subito, lui di fretta, lei dietro. Alla reception non c’è nessuno; lui suona il campanello più volte. Dopo un po’ arriva un tale, ma non è quello degli altri giorni e non conosce la lingua. Quando riescono a farsi capire quello dice che provvederà o almeno sperano. Con quel che pagano è assurdo che non abbiano cambiato la carta igienica.

Viene l’ora di cena e lei chiede di scambiarsi i posti; non vuole dare le spalle alla sala. In ogni caso non c’è molto da vedere: i pochi che rimangono si guardano intorno alla ricerca di quelli che mancano e ogni tanto incrociano gli occhi. Lui alza e abbassa la forchetta, anche se è usanza mangiare col cucchiaio.

Tornati in camera trovano la carta igienica, ma l’aria condizionata non funziona. Lui è pronto per tornare all’attacco, ma secondo lei basta lasciare la finestra aperta. E le zanzare? Lei indica la zanzariera. Lui si avvicina per verificare che non ci siano buchi. Alla fine si sdraiano perché sono stanchi.

La mattina dopo si alzano più tardi del solito e si preparano a rilento. Lui chiede com’è lo snorkeling, lei risponde che preferirebbe un’altra spiaggia. La guida ne indica una, ma non ricorda quale.

Usciti dalla stanza fanno tutta la strada che li separa dalla colazione senza incontrare nessuno e una volta arrivati non c’è nemmeno la colazione. Anche in cucina non c’è niente e alla reception hanno tolto il campanello. Lui urla qualcosa, ma si sente solo il riverbero, allora corre fuori mentre lei cerca di calmarlo, in fondo non ha fame. Io invece sì, grida.

Fuori è tutto come al solito: il porticato, le piscine, il campo da gioco, la spiaggia, solo più vuoti. Gli ombrelloni ondeggiano per il vento e qualche sdraio è rovesciata. Lui si getta là in mezzo, la sabbia che si solleva e viene spazzata via. Poi lei vede una nuvola nera che si avvicina.

Allora lo capisce, quel che sta per accadere.

Città in trasformazione

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sacuXXV Seminario internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana

CITTÀ IN TRASFORMAZIONE
Risanamento e riuso. Periferie e aree dismesse. Spazi pubblici e mobilità urbana

Camerino 29 luglio – 2 agosto 2015
Palazzo Ducale – piazza Cavour

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Temi di progetto e di conversazione
Le dinamiche sociali, politiche ed economiche in atto richiedono un cambiamento a volte radicale degli assetti consolidati delle città. Nuovi modi insediativi e mutate dimensioni d’uso degli spazi urbani, non più corrispondenti alla forma fisica e alle capacità prestazionali originarie della città, impongono una riflessione critica sullo stato di fatto e un atteggiamento aperto a programmi di rinnovamento.
Progetto, innovazione e modelli di governance inclusivi delle aspettative delle multiformi comunità insediate, insieme al risparmio delle risorse naturali, sono il terreno di coltura della nuova architettura sociale, volta alla riqualificazione delle periferie e delle aree dismesse, alla ridefinizione degli spazi pubblici e della mobilità urbana, al risanamento e riuso degli edifici abbandonati e dei comparti edilizi fatiscenti.

Programma
Le giornate di studio comprenderanno sessioni con brevi relazioni programmate, comunicazioni e conversazioni interdisciplinari alternate a laboratori all’interno dei quali tutti gli iscritti potranno presentare i loro lavori e confrontarsi sui diversi aspetti dei temi progettuali proposti. Sarà allestita la mostra delle opere presentate dai partecipanti al premio con relativo catalogo.
Nella giornata conclusiva saranno assegnati gli attestati di partecipazione e i premi SACU 2015.
Il seminario comprenderà la Festa camerte dell’Architettura con eventi d’arte, allestimenti e incontri conviviali. Una monografia del seminario sarà pubblicata su ARCHITETTURAeCITTÀ, Di Baio Editore.

Per informazioni:

Segreteria
Seminario di Architettura e Cultura Urbana
c/o Punto Informativo UNICAM, Palazzo ducale – 62032 CAMERINO
numero verde 800 054000 – tel. 0737 402000
fax 0737 402055
puntoinformativo@unicam.it
www.unicam.it/culturaurbana

Direttore
Giovanni Marucci
giovanni.marucci@unicam.it

cinéDIMANCHE #21 ROBERTO ROSSELLINI Fantasia sottomarina [1940]

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ROBERTO ROSSELLINI

   (…) Fantasia sottomarina, dalla maggior parte delle fonti filmografiche indicato come realizzato nel 1936-37, fu distribuito dalla INCOM soltanto nel 1940; tanto da far pensare che, a parte il Prélude (di cui si sono perse le tracce), gli altri due documentari di Rossellini siano stati realizzati alla fine degli Anni Trenta, fra il 1938 e il 1941, cioè nel periodo compreso tra la fine della lavorazione di Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini (di cui, come vedremo, Rossellini fu aiutoregista e cosceneggiatore) e l’inizio di La nave bianca, il primo lungometraggio firmato da Rossellini. Marcella De Marchis ricorda: «Roberto intraprese un certo lavoro abbastanza regolare, anche come documentarista, grazie a un contratto con la INCOM. Cominciò con una favola marina molto bella, un documentario sui pescetti, Fantasia sottomarina». A questo riguardo occorre osservare che la INCOM fu fondata da Sandro Pallavicini soltanto nel 1938: ciò avvalorerebbe l’ipotesi che Fantasia sottomarina sia stata realizzata dopo quella data (se i ricordi della De Marchis sono esatti).
In ogni caso, esso fu un film girato in assoluta economia, quasi cineamatorialmente, con la collaborazione dei familiari (come spesso accadrà per gli altri film di Rossellini). È ancora Marcella De Marchis a ricordare: «L’avevamo girato in casa, a Ladispoli, montando una specie di acquario, con acqua di mare che filtravo con le lenzuola del mio corredo per farla più limpida. I pesci li prendevamo ogni giorno a Civitavecchia, e parecchi protagonisti morivano per strada: avevamo bisogno di molte controfigure. Quando morivano in scena, finivano a pancia all’aria, e allora dovevamo legare i pescetti con dei fili sottilissimi, e manovrarli con delle cannucce, da dietro i pezzi di roccia (…) Ci divertimmo un’estate intera con questo documentario».
L’operatore era Rodolfo Lombardi, il quale confermò, in una conversazione con Stefano Roncoroni, il carattere artigianale della produzione: «Il documentario è stato girato improvvisando, Roberto Rossellini, Rodolfo Lombardi, il terrazzo della casa Rossellini a Ladispoli, la luce del sole, il mare ed i suoi abitanti».
Già allora, insomma, si andava formando quello stile rosselliniano, quel suo modo di girare e di programmare la lavorazione, lasciando grande spazio all’improvvisazione durante le riprese, che sarà il suo proprio nelle opere della maturità. E già allora si andava manifestando quella «sensibilità minima» (sono parole di Rossellini) per le cose quotidiane, trascurabili, consuete, persino banali, che – una volta cinematografate – si animano sullo schermo di una vita propria, caricandosi di significati ulteriori. Così fu per i piccoli pesci di Fantasia sottomarina, per le loro piccole storie, che si inserivano in una struttura narrativa esile ma importante, che contrastava con la tradizione del documentarismo di quegli anni (ed anche in seguito). Non era, a vero dire, un’invenzione del solo Rossellini, perché la politica di Pallavicini alla INCOM fu proprio quella di svecchiare il documentario e renderlo più agile e spettacolare, facendo a meno del commento parlato fuori campo e puntando maggiormente sul racconto; ma certamente Rossellini fu il regista che meglio si mosse in questa direzione. Basti leggere quanto scrisse la critica, quando il film uscì sugli schermi agli inizi del 1940: «Non è quindi sulla voce del commentatore che va reggendosi nel suo svolgimento il breve film, quanto su una vicenda degli oggetti, degli animali, dei paesaggi stessi, che ha un suo logico inizio e una sua conclusione. Esempio tipico quella Fantasia sottomarina di Rossellini in cui le fredde vasche di un acquario si animano di una drammaticità umana con i suoi personaggi e con la sua vicenda».

Gianni Rondolino
Roberto Rossellini
UTET [1989]

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Incontinental jazz: Aldo Romano

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Note

di

Claudio Loi

Aldo Romano me lo ricordo a fianco di Antonello Salis e Gerard Pansanel in un album che si chiamava Calypso del 1983. Nel 1990 nel suo omaggio a Coleman dal bellissimo titolo To Be Ornette To Be con Paolo Fresu alla tromba che poi richiamerà anche per l’album Canzoni del 1993 e per Prosodie del 1995. E ancora nel 2000 nel disco Mèlos di Paolo Fresu con una sua composizione. Poi nel progetto Palatino, sempre con Fresu, Michel Benita e Glenn Ferris: un successo di lunga durata che ancora oggi mantiene la sua costante vivacità timbrica e il gusto per un suono transcontinentale. Sono storie isolane che Aldo Romano richiama più volte nella sua autobiografia uscita di recente in Francia per les Éditions des Équateurs dal titolo emblematico di “Ne joue pas forte, joue loin” . Certo i miei ricordi sono vicende locali, isolane e isolate che sopravvivono nella mia mente solo grazie a quella grave e incurabile patologia che si chiama musica. Patologia che lo stesso Romano denuncia in lungo e in largo nel suo libro di ricordi.

Un volume che mette a nudo la difficile personalità di questo jazzista sempre in preda a una costante crisi di nervi. Una vita piena di dubbi: sulla sua formazione artistica, sul rapporto con i suoi genitori, sulle sue reali capacità artistiche e umane, sulle donne e i luoghi, sull’eterno conflitto con un corpo che talvolta non risponde alle sollecitazioni dell’anima. Per fortuna. E per fortuna c’è il jazz: “Thèrapeutique sans pareille, la musique me sauve”. Per quanto tempo? Se lo chiede Romano e ce lo chiediamo anche noi. Ma la risposta non è importante quanto la domanda. Quanto la curiosità di vivere e di continuare a creare. Aldo Romano incarna alla perfezione l’eterno conflitto tra l’essere e il divenire, tra i desideri e la realtà effettuale. E i rimedi sono sempre gli stessi: un luogo dove ritrovarsi, un incontro che fulmina, una batteria da maltrattare con amore, un amore da curare come una melodia. Questo è Aldo Romano e la sua musica. Un uomo che non sopporta la mediocrità: come il jazz. Che diventa una vera dannazione nel momento in cui si vive “condamné à inventer”.

Così si capiscono anche lo spessore delle sue pene, i ripetuti sbandamenti psichici e la voglia di superare l’angoscia rivolgendosi a Gurdjieff che lo invita a uscire dal proprio essere per confrontarsi con l’altro da sé, con gli altri, con il mondo. Con i tanti musicisti che hanno arricchito la sua vita: un elenco tanto lungo quanto prestigioso che diventa un carnet di piccole terapie quotidiane: rubrica di vita e di illusioni. Incontri che cambiano le cose. Come quello con Paolo Fresu (ancora lui scusate ma è un conflitto di interessi che non riesco a districare) che diventerà un partner di lunga durata e con il quale lo legano tante cose: la comune origine italiana rurale e mediterranea, l’amore per la Francia, lo stesso sentire estetico, la cura del suono, il piacere per la melodia. Un rapporto che troverà sui binari del Palatino la sua migliore espressione e che il pubblico ama e gradisce a lungo (non solo in Francia).

E che dire del tormentato rapporto con le donne? Che appare come la necessità di vivere per la musica in modo esclusivo e che rimanda al costante conflitto irrisolto con i propri fantasmi: A Drum Is A Woman! Ecco la risposta. Non c’è spazio per la poligamia in Aldo Romano anche se non è mai facile scegliere. Sarà la materia viva a farcelo capire, il significante: l’orecchio che non sente, il cuore che non batte a tempo, la testa che viaggia in proprio. Romano combatte contro i propri fantasmi e continua a vincere: la sua musica è viva e piace, il pubblico apprezza, arrivano premi e successi discografici importanti, contratti seri, lunghi viaggi per il mondo. Tutto questo basta? Ai più sì ma non a Romano che continua la sua personale battaglia contro il tempo e i tempi. Una bella storia questa del batterista franco-italiano, che questo libro ci svela e che ci aiuta a capire un universo di suoni e tormenti. Per fortuna alla fine “la musique console de tout”.

Les nouveaux réalistes: Calogero Virzì

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L’amore secondo Fichte

di

Calogero Virzì

 

Johann Gottlieb Fichte Dressed as a Soldier (1813)
Johann Gottlieb Fichte Dressed as a Soldier (1813)

 

Lì, sospeso tra il paesino e il vulcano, stava il Chianu Nìuru, il piano nero. Formatosi nei secoli, tra un rigurgito magmatico e l’altro, il Chianu era una distesa aspra e nera. Non c’era niente, e forse per questo ci si faceva di tutto. Per gli abitanti del paesino rappresentava la vera balia, la matrigna che allevava da generazioni la gente del luogo. Di giorno, nel tempo spensierato della prima gioventù, tante amicizie e tante guerre si erano consumate; di notte, quando gli istinti si svegliano e i vizi illuminano il sentiero, il Chianu era il teatro discreto di amori brevi e lunghi amplessi.
In un pomeriggio di Ottobre, nuvoloso ma sereno, Salvo stava lì, sempre nella sua culla di roccia, sempre al suo posto. Eppure tra le mani non reggeva riviste allegre o giornali sportivi, come di consueto, bensì un tomo più pesante da leggere che da portare appresso. Il Chianu, nel suo silenzio pomeridiano, era l’ideale per studiare in pace all’aria aperta. Ben presto, con un po’ di ritardo, sopraggiunse l’amico Mario, anche lui con lo stesso volume nello zaino. Era l’ultimo anno di liceo e bisognava terminare degnamente.
«Spiegami questo Fichte che non ci ho capito niente».
Era una costante ormai, e i due, studiando insieme, riuscivano a compensare per quanto possibile le lacune altrui. Salvo era un esperto umanista, abile a muoversi nelle materie letterarie e nei corsi della storia, anche se il suo cavallo di battaglia era la filosofia, croce senza delizia della maggior parte degli alunni. Gli riusciva bene di barcamenarsi tra pensieri, tesi e interpretazioni, annullando momentaneamente le proprie visioni per sostituirle con quelle del luminare di turno. Provava inoltre uno strano piacere a spiegarle agli amici, come se in quel momento potesse sentirsi un vero intellettuale. Viceversa, Mario lo sosteneva nelle materie scientifiche. Matematica e fisica gli calzavano a pennello, perché trovava più interessante sapere che una formula è quella ed immutabile, senza il rischio che qualunque filosofo desse la sua personale interpretazione.
Quello, tuttavia, era il pomeriggio di Salvo, perché il giorno dopo qualcuno sarebbe stato ghigliottinato in filosofia, ed entrambi avevano discrete possibilità di passare per il patibolo.
«Cosa non hai capito di Fichte?».
«Spiegami ‘sta storia dell’Io, del non-Io…». Mario era già pronto con carta e penna in mano.
Salvo si schiarì la voce, raccolse le idee e cominciò: «Dunque, allora, Fichte è un idealista come Hegel, no? Te le ricordi tesi, antitesi, sintesi, giusto? Ecco, qui è la stessa roba, ma cambiano i termini. Allora, praticamente Aristotele diceva che A=A, giusto? Bene, Fichte non si accontentava di ciò. Lo scopo finale è la sintesi, che per Fichte è l’Io assoluto, cioè la conoscenza, l’intuizione intellettuale, il soggetto che prende coscienza di sé, IO PENSO… Ci sei?»
«…Coscienza di sé…Ok!».
«Ora, come si arriva a ciò? Seguimi! Questo Io assoluto si divide in categorie. La prima è l’Io, cioè il soggetto, la tesi, chiamalo come ti pare. Bene, l’Io da solo non combina una minchia, perché solo con l’Io non possiamo arrivare alla sintesi, d’accordo? Allora Fichte c’infila una seconda categoria, cioè il non-Io, l’antitesi, che è tutto ciò che non è Io, ovviamente. Ci sei? Dunque, a ‘sto punto Io e non-Io si guardano e si salutano, ma quello che devi dire tu è che sussiste una dialettica tra soggetto e oggetto, che fa sì che entrambi si limitano e si determinano, cioè si definiscono. L’uno ha bisogno dell’altro per definirsi, ok?».
«Va bene, continua».
«Poi devi dire che quando l’Io limita il non-Io, cioè l‘oggetto, questa si chiama conoscenza pratica; viceversa si chiama conoscenza teorica, o teoretica, va bene? A ‘sto punto finisci dicendo che la conoscenza teoretica corrisponde alla sintesi, cioè l’Io prende coscienza di sé! Ma questo avviene per gradi, mica in un attimo: prima c’è la sensazione, poi l’intuizione, poi il giudizio e infine l’idea. L’idea rappresenta proprio L’IO PENSO dell’Io, l’esperienza della conoscenza. Insomma, è come se il non-Io servisse a riempire il pensiero dell’Io…». Ci fu una pausa.
«Stop?» chiese l’allievo.
«Stop! Finito» rassicurò il maestro.
«Io non ci ho capito comunque una minchia, ma mi fido…» disse Mario ridendo. «Sigaretta?».
«Cannetta?».
«Cannetta!».
Immersi nella pace incontaminata, i due abbandonarono per un po’ gli argomenti scolastici. «Ma come fa a piacerti la filosofia? Cioè, può essere anche interessante, ma non c’è modo di applicarla alla realtà, non ha senso. La fisica invece può anche essere noiosa, però, cazzo!, serve».
«E che ci posso fare? A me piace».
«Ti piace perché sei un segaiolo».
«Può darsi, ma stamattina a scuola mi son fatto aiutare…» disse Salvo sogghignando.
«Ah sì, e con chi? Sentiamo».
«Maria Grazia, quella della prima C».
«Dici sul serio? E dove?».
«Al terzo piano della scuola, quello chiuso per ristrutturazione. Siamo andati al cesso… E lì, beh, mi ha aiutato a pisciare». A vedere Salvo si sarebbe detto che godeva di più a raccontare certe cose che a farle.
«E poi?».
«E poi basta. A un certo punto ho provato a infilarle una mano nei jeans, ma lei me l’ha subito allontanata. Mi ha detto “Io certe cose non le faccio nei cessi”. Hai capito che tipo?».
«Certo, però le seghe nei cessi sono consentite. Che roba, ‘ste donne!».
«Mario, io ho un problema».
«Cioè?».
«Io devo scopare. E che cazzo, sono già maggiorenne, ho la patente, vado a votare e non scopo? Che me ne faccio della patente se non scopo?».
«Non dirlo a me» sospirò Mario, che comprendeva fin troppo bene le aspirazioni dell’amico. «Al limite, se sganci cinquanta euro…».
«No no amico, niente puttane. Sarebbe umiliante. Ce la devo fare gratis! Se poi non ci riesco, diciamo entro il diploma, allora ne possiamo parlare».
«Entro il diploma?».
«Entro il diploma… sì, ok, facciamo entro la fine dell’Estate… no, aspetta, facciamo entro il primo giorno ufficiale da universitario e la chiudiamo qui, ok?».
«Va bene, va bene, è tuo il pisello. Senti un po’, stasera che fai?».
«Io passo, amico. Devo finire di studiare le ultime cose per domani».
«Ok, come vuoi. A domani». Mario se ne andò, e Salvo, dopo qualche minuto di noia, ritornò a casa. Non si sentiva in colpa per aver mentito all’amico. Non è che questi devono sapere sempre tutto, che cavolo!
Qualche giorno prima accadde che Giorgio, l’imbecille dell’ultimo banco, gli confidò che Pietro, un suo amico, gli aveva detto che un certo Filippo gli aveva rivelato che Bianca, la figlia della farmacista, era più che generosa su certe questioni.
«Bianca, ma scherzi? Quella non spiccica una parola, e la mamma è pure catechista». Salvo era perplesso.
«Lascia fare, lascia fare… Quella fa tanto la santarellina, ma è più affamata di te. Zitta zitta ne ha viste passare, di minchie. E garantisce pure riservatezza. L’hai detto tu, che non spiccica una parola!».
«Mah, non lo so se è il caso. Ha pure sedici anni».
«E che ti frega? Guarda che quella è navigata. Si dice che fa certi numeri, e c’è pure la sorpresa…».
«Sorpresa? Che sorpresa?».
«Questo non lo so, Pietro non me l’ha detto. Comunque è facile, ascolta me: la porti da qualche parte, un bicchiere, due parole dolci ed è fatta. Senza impegno!».
Salvo era indeciso, ma in fin dei conti che gli importava? Valeva la pena tentare.
Allora l’adescò su Facebook: chattarono un po’, disquisirono molto sulla grande fede in Dio che ovviamente entrambi condividevano, e lui diede sfoggio della sua cultura classica snocciolando qualche aforisma a casaccio. Alla fine sparse generosamente diversi “mi piace” sulle foto di lei, e dopo due giorni la ragazza acconsentì al grande appuntamento.
Giunto alla sera fatidica fece risplendere la macchina, si lavò come mai in vita sua, si cosparse di profumo fino a farsi bruciare le ascelle, pantaloni delle grandi occasioni, camicia, cera fissante sui capelli (comprese le basette) e via di casa. Era la serata più importante della sua vita. Nel cofano della sua auto, una Fiat Tipo bianca, vecchia di venticinque anni, affidabile quanto un postino dislessico, aveva sistemato un set di asciugamano e coperte per tutelare la tappezzeria dagli umori della passione. Il cruscotto era stato riempito con una batteria di pacchi di preservativi, comprati ovviamente nel distributore della farmacia della madre della ragazza. Non era più un’auto, ma una corazzata del sesso.
Quando la venne a prendere lei era così coperta che le mancava solo il burqa, ma ormai l’istinto virile era scattato e nulla l’avrebbe abbattuto. C’era solo un dettaglio: non sapeva dove portarla. Per fortuna lei non diceva una parola, allora lui decise di trascinarla da qualche parte nel paese vicino. Non voleva farsi vedere in giro per evitare chiacchiere, ma d’altro canto non aveva ancora una confidenza tale da giungere con la Tipo a Catania.
Finirono in un anonimo pub a dieci chilometri da casa. Lei sembrava impermeabile a qualsiasi cosa, tanto che Salvo iniziò a pensare che il silenzio orale della ragazza derivasse, più che dalla timidezza, da quello cerebrale. Ancora una volta non si diede per vinto: cominciò a parlare, di tutto e di niente, da Dio alla politica passando per le barzellette sconce. Lei rideva spesso e qualche volta annuiva, nient’altro. Presero un paio di drink, ma dopo un po’ cominciò a dare segni di cedimento: il suo repertorio dialettico si stava esaurendo.
«Insomma, la dobbiamo passare tutta qui la serata?» sbuffò seccata la ragazza, e quindi trangugiò in un sorso unico quello che restava nel bicchiere.
Salvo si trovò spiazzato e incerto sul da farsi, ma alla fine si ripeté che non aveva niente da perdere e propose: «Torniamo in macchina, magari c’è più caldo… e possiamo parlare meglio… sì, insomma, senza ‘sta musica di sottofondo che dà fastidio».
«Ok, andiamo» annuì la ragazza.
Una volta acceso il motore, a Salvo cominciarono a tremare le mani. Parcheggiò dietro al cimitero, un posto così sperduto che non prendeva neanche il cellulare. Spense la macchina.
«Sei…sei carina, lo sai?».
«Sì sì, lo so. E’ una serata che me lo dici» disse nuovamente annoiata, e intanto, con le mani, provava a slacciare la cintura di Salvo, ma non quella di sicurezza.
«Che palle, tutta ‘sta fatica per un pompino» pensò, ma poi la lasciò fare, pensando che il meglio doveva ancora venire.

In quei momenti di gradevole silenzio e di aspirazioni ben poco spirituali, a Salvo venne naturale ripassare mentalmente Fichte. «Dunque, c’è la sintesi, che sarebbe la scopata. Come si arriva alla sintesi? C’è l’Io, che in questo caso sarebbe il mio cazzo; ma questo da solo non ha significato, è inutile. Serve dunque il non-Io, che sarebbe Bianca, o meglio la fica di Bianca. Comunque, l’Io e il non-Io si confrontano in una dialettica che limita e definisce entrambi. Non c’è scopata senza confronto di queste due parti, è chiaro! Ed è chiaro che adesso devo cercare il non-Io!».
Immaginandosi Fichte che lo incoraggiava dal sedile posteriore, con molta lentezza, la mano di Salvo si allungò verso la lunghissima gonna di Bianca. Ecco, stava per toccarla…
«Fermati, che stai facendo?» protestò alterata la ragazza.
«Come che faccio? Voglio, come dire, partecipare anche io».
«Prima mi dici che sei credente e poi fai queste cose? Bugiardo! Io mi devo conservare».
«Conservare? Per chi?».
«Per il mio futuro marito, scemo! Che gli dirò dopo il matrimonio? “Perdonami caro, ma un giorno sono scesa dall’autobus e solo dopo mi sono accorta di aver lasciato l’imene sul sedile?”. Ma tu guarda…».
Non disse una parola. A quel punto Bianca, addolcendo la sua espressione  ammiccò e disse: «Però possiamo sempre trovare una soluzione alternativa».
Rassegnato, disse solo: «Lasciamo perdere».
Si ricomposero e partirono. Entrambi delusi, per motivi diversi, non si parlarono per tutta la strada. Si dissero ciao sotto casa sua, e quella fu l’ultima volta che si videro. Non sempre le sorprese sono gradite.
Distesosi a letto, stanco e arrabbiato, Salvo prese il tomo di filosofia e sentenziò: «Che verginello quel Fichte! Io e non-Io… E se si mette di mezzo il culo come la mettiamo, eh?».
La mattina seguente fu proprio lui ad essere interrogato in filosofia.  Avrebbe voluto dire al professore che le teorie delle grandi menti sono straordinarie, fin quando un imbecille qualunque non avesse tentato di applicarle nel mondo reale, ma l’istinto di conservazione lo trattenne: quella lezione, imparata solo qualche ora prima, non era scritta nel capitolo su Fichte.

Book pride a Milano

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Bookpride  a Milano Frigoriferi Milanesi, via Piranesi 10

venerdì 27 marzo h.14-22, sabato 28 marzo h.10-22, domenica 29 marzo h.10-22

Il Bookpride è una fiera dell’editoria indipendente promossa dall’ODEI ( osservatorio degli editori indipendenti) che vuole promuovere una filiera dell’editoria e del libro di qualità al di fuori del conformismo del clima culturale dominante.

Accanto agli stand degli espositori è previsto un fitto programma di dibattiti, presentazioni di libri e iniziative culturali che coinvolgeranno anche qualche redattore di Nazione Indiana.

Per consultare il programma dettagliato dei tre giorni vedi: www.bookpride.it

Miti Moderni/11: violini

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Enrico Benetta
Enrico Benetta
Enrico Benetta

di Francesca Fiorletta

La violinista ha un vestito azzurro, con le balze, sale sul palcoscenico, il teatro è pieno ma nessuno batte le mani, è prima mattina e nessuno batte le mani, si aspetta soltanto, in silenzio, si sbadiglia e si aspetta, l’inizio del concerto. Anche gli altri musicisti restano immobili, nessuno parla, nessuno incomincia a suonare, è prima mattina, il teatro è pieno, e il vestito, con le balze, troppo azzurro. 

les infréquentables: Louis-Ferdinand Céline

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Qui l’intervista originale

Durante la trasmissione”Lectures pour tous”, diretta da Pierre Dumayet, Louis-Ferdinand Céline evoca le polemiche suscitate dalle sue opere, episodi della sua infanzia, le sue idee sulla violenza e sulla letteratura. L’intervista è del 17 luglio 1957. Si tratta della prima apparizione televisiva di Céline. Come viene raccontato nel libro di Sophie de Closets, Quand la télévision aimait les écrivains: Lectures pour tous, l’intervista suscitò le reazioni indignate dei telespettatori e della stampa per quell’ospite colpevole di essersi presentato al grande pubblico in un modo così spregiudicato, “sans honte”.

 

Transcription

di

Francesco Forlani

(Musique)
Pierre Dumayet

Avete appena letto il titolo di questo libro, D’un château, l’autre (Da un castello all’altro, traduzione di Giuseppe Guglielmi) il titolo, il nome, chiedo scusa, dell’autore, Louis-Ferdinand Céline. Céline, prima di entrare nel merito di questo libro, vorrei farle una domanda riguardo ai suoi libri precedenti, su una questione contenuta in questo stesso libro. Pare che lei fosse sorpreso e che lo sia tutt’ora, dalla valanga di sventure che sono state la conseguenza dei suoi libri, particolarmente del Voyage. Lei dice che è a Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte, traduzione di Ernesto Ferrero) che deve la maggior parte dei suoi impicci – impiccio in questo caso è una parola fin troppo debole. Che cosa vuole dire esattamente quando dice che non se l’aspettava? Ecco …

Louis-Ferdinand Céline

Significa che mi sono lanciato nella scrittura di libri senza volerne ottenere una qualsivoglia notorietà, pensavo più semplicemente di trarne un onesto beneficio, per pagarmi un appartamentino di cui all’epoca avevo assai bisogno,e poi le cose sono andate in tale modo che la vita di medico, di semplice dottore, è diventata impossibile e mi ha complicato sempre più la vita, a tal punto che ho incontrato difficoltà su difficoltà fino a quando mi sono permesso di occuparmi di politica ed è stato, ovviamente, il segnale del darsela a gambe, la sensazione di essere braccato che ancora mi perseguita. Questo è quello che volevo dire.

Pierre Dumayet

Sì, ma quello che mi interessa ed è il motivo per cui le faccio questa domanda, è questo. Mentre scriveva Voyage au bout de la nuit– per esempio c’è una frase in D’un château, l’autre che ce lo fa credere- quando ha scritto Voyage au bout de la nuit, lei ha potuto pensare di scrivere questo libro, mi viene da dire quasi impunemente, senza pensare alle conseguenze?

Louis-Ferdinand Céline

Ah, ah, assolutamente, nessuna conseguenza, ho pensato sì che ci sarebbe stato un po’ di interesse, lo stesso interesse che si mette nella lettura di un articolo, un articoletto sul giornale. E che, dopo aver venduto abbastanza copie di questo libricino, Le Voyage au bout de la nuit, beh, sarei tornato tranquillamente alla medicina, con un appartamento per cui non avrei avuto bisogno di pagare l’affitto; perché in quei momenti avevamo l’assillo dell’affitto, ora non più perché non lo abbiamo da pagare. Ma insomma! Sono cresciuto con l’assillo dell’affitto, l’ho ereditato dalla mia infanzia, ho sempre visto persone assillate dal pagamento dell’affitto; l’idea era di avere un assillo in meno. E così ho scritto Voyage au bout de la nuit per la mia tranquillità e non certamente per quello che è successo, no? Al contrario, dunque e a mia grande sorpresa, e questa sorpresa si figuri dura ancora, è la stessa,  sono sempre sorpreso dalle sue ripercussioni.

Pierre Dumayet

Lei non crede alla sua violenza, non riesce a concepirla, non se la immagina?

Louis-Ferdinand Céline

Io non mi vedo affatto violento, nemmeno minimamente; non sono mai stato violento. Ho sempre curato con molta dolcezza, oserei dire, quanti mi hanno avvicinato, ho salvato un sacco di gente, animali. In guerra, ho vissuto molti ambienti violentissimi, perdio. Dico che ho vissuto nella violenza, ma io personalmente non la voglio assolutamente. I libri molto deplorevoli che ho potuto scrivere sono stati fatti proprio contro la violenza. Sentivo venire una guerra e ho denunciato le ragioni della guerra e le conseguenze. La storia mi ha dato ragione, ma non gli uomini. C’è una grande differenza tra le opinioni della gente e poi i fatti. E allora denunciare con violenza… basta dire semplicemente che si sta per cadere in un precipizio, è violento? Se dice: venga, venga avanti, prego, lei è su un bel prato, cammini pure davanti a lei, non si preoccupi del resto. Ah no, no, ho detto io. Veda, visto che lei la mette su questo piano, io mi sono occupato molto di esplorazioni polari e ho conosciuto esploratori della grande epoca che ancora esploravano le regioni polari, in particolare la Groenlandia con mute di cani, cani da tiro. E ciò che conta, vero, in una muta è la guida. La guida è di solito una cagna che è particolarmente fine e che sa dire, a 25 o 30 metri, se c’è un crepaccio. Ora un crepaccio che è sotto la neve non si vede. Allora diremo che è violenta perché avverte tutta la slitta che altrimenti  si va a cacciare in un crepaccio, cadrà per 60, 70 metri in una buca, e sarà finita, la morte, no? Bene io ho forse la finezza di una cagna da slitta, niente di più.

Pierre Dumayet

Però non potrà negarlo, insomma penso che non negherà il fatto che ci sia violenza nel suo stile? La violenza, almeno in lei, è una questione di scrittura?

Louis-Ferdinand Céline

È come la cagna, lei abbaia, un abbaiare particolare, e il padrone, ne ho conosciuti, in particolare Michaelson che era governatore della Groenlandia, e spesso mi spiegava questa storia. Aveva una cagna e altri cani sarebbero finiti direttamente nel crepaccio e subito dopo la slitta, ma aveva una cagna che abbaiava molto prima, diceva: attenzione, a 20 metri sotto la neve, c’è un buco, e solo lei lo sapeva. Era una bestia di grande finezza, era un’ aristocratica, vero, e aveva la finezza che gli altri cani non avevano.

Pierre Dumayet

Lei era raffinata

Louis-Ferdinand Céline

Era raffinata, gli altri no. Io sono raffinato, ammettiamo che io sia raffinato, ma tutto qui, poi mi affliggono perché sono raffinato,  mi si uccide perché sono raffinato! Se in un allevamento si uccidono le bestie raffinate, allora vuol dire che è un allevamento molto speciale; è un po’ quello che succede.

Pierre Dumayet

Molto spesso nel suo libro, ricorda al lettore che è nato a Passage Choiseul – è la parola raffinatezza che mi fa pensare a questo. Perché  sente il bisogno di dirlo e ripeterlo? Pensa che sia qualcosa d’ importante ancora oggi per lei, per la comprensione della sua storia?

Louis-Ferdinand Céline

Sì, era quello che mi diceva Descat. È strano, quest’uomo che ha vissuto a Passage Choiseul. Devo ammettere che è una cosa che ti segna ma non come una prigione, nel senso che non avevo nessun posto dove giocare di quelli dove vanno i ragazzini. Avevamo 360 lampade a gas che funzionavano  giorno e notte, i cagnolini che venivano a fare i loro bisogni, e all’epoca avevamo delle canzoni; altra cosa curiosa, posso dire che ho assistito alla fine delle canzoni. All’inizio prima della guerra, nel 1914 c’era a Passage Choiseul  una ragazza di strada che cantava appena entrava al Passage e durante tutto l’attraversamento; dopo la guerra nessuno ha cantato più al Passage, un segno dei tempi. Era tutto quello che avevamo come passatempo,  le canzoni dei ragazzi di bottega o delle ragazzine. Sono tornato da allora al Passage, ci ritornavo spesso, e non conoscevo più le persone, non c’erano più, era venuta altra gente.

Pierre Dumayet

Ma il Passage Choiseul mi sembra al momento  per lei un ricordo  che quanto meno le fa tenerezza, non una provocazione…senza violenza

Louis-Ferdinand Céline

Vi ho comunque conosciuto un bel po’ di persone che sono scomparse o che non ci vivono più al Passage Choiseul, questione d’igiene, e poi non ci sono più le lampade a gas, ora che sono tutte elettriche, però posso dire che sono cresciuto in una cappa di gas, se così si può dire, in un modo come un’altro ti segna una cosa così. Ho visto molti animali da laboratorio che vivono nelle camere stagne, gli effetti si sentono, mica semplice…

Pierre Dumayet

Qual è il rapporto tra il Passage Choiseul e la raffinatezza, questa raffinatezza viene da un’esigenza legata al Passage Choiseul?

Louis-Ferdinand Céline

Ah no, la raffinatezza direi che viene dal mestiere di mia madre e mio padre. Mio padre, purtroppo, anche se laureato in estetica, scriveva bene,  avrebbe fatto la gioia dei letterati, era agente assicuratore, mio nonno era professore di retorica e mia madre era merlettaia, riparatrice di merletti all’antica, io so ancora ripulire un merletto, conosco il mondo dei merletti, cose che sono scomparse. So che il Passage Choiseul, con la sola eccezione della scuola comunale, mi sembrava portare belle clienti, vedevamo della gente  che era ben al di sopra della nostra condizione, delle clienti. Tutto questo ha dovuto lasciare un segno, probabilmente, le vedevo con ammirazione. Mia madre del resto mi faceva la morale, mi faceva sempre notare che la cliente era per lei un oggetto sacro, che aveva delle responsabilità che io non avrei mai sospettato, e che era grazie a loro che noi  vivevamo e che non potevo nemmeno immaginare i sacrifici e la virtù della gente ricca, venerava molto la gente ricca, ben al di sopra della nostra condizione e di conseguenza bisognava ringraziarli perché ci davano da vivere, molto umilmente.

(…)

4 N

Pierre Dumayet

Vorrei farle un’ultima domanda, lasciarle un’ultima parola. La moda in questo momento è sulla parola della fine, lei ha detto: le mie ultime parole, se le avessi ,sarebbero?

Louis-Ferdinand Céline

Vedo in questa marea di invettive, vedo per lo più gente che beve, mangia, dorme, insomma in quelle funzioni umane che sono tutte piuttosto volgari e direi che sono pesanti. Il loro spirito è pesante. Così mi pare per lo più … Non ha mai smesso di essere pesante. Ho notato, ho letto tanti versi, e più particolarmente del secolo XVII, quello cosiddetto galante .. . ne avrò trovati tre quattro buoni … su migliaia.

C’è ben poca leggerezza nell’uomo. È pesante, no! Ora poi è straordinario in pesantezza. A partire dalle auto, l’alcol, l’ambizione, la politica lo rendono pesante, ancora più pesante. Tutto quello che fa è estremamente pesante Vedremo forse un giorno la rivolta dello spirito contro il peso. Ma non è per domani. Al momento è pesante. Ecco allora che se dovessi morire, direi: erano pesanti. Oh, “erano cattivi perché erano pesanti”, non crede? Invidiosi di una certa leggerezza. Sono invidiosi come una donna che indossa un busto di tela verso una che non ne ha…con i merletti…come colui che ha un cavallo da tiro e non un purosangue. Invidiosi di essere pesanti. Tutto qui. Infermi. Pesano, sono infermi. La pesantezza li rende infermi. Quindi non ci si può fidare di loro, sono pronti a tutto. Oh sì, pronti a tutto. Pronti a uccidere. Per risvegliare la pesantezza bevono, e quando bevono, diventano come magli. È spaventoso, magli senza controllo. Aumentano il loro peso, invece di rendersi leggeri. Ah, non sono dalla parte di Ariele. Sono sempre più Caliban. Sempre di più …

 

Nota di effeffe

A proposito di raffinatezza, dell’idea di raffinatezza che in Céline si oppone ovviamente alla “maniera” del linguaggio, ho trovato in rete un riferimento a Cioran che vale la pena riportare qui. E ringrazio Sergio Garufi per avermi dettato al telefono il passaggio tradotto in italiano.

« Les gens qui ont de la classe ne sont pas particulièrement inventifs en fait de langage. Y montrent des aptitudes et de l’originalité les gens loquaces, presque vulgaires, ou du moins qui poussent la vivacité jusqu’à la forfanterie, ou à la dégueulasserie quelque peu délirante. Le génie verbal est souvent l’apanage de ceux qui font peuple.
L’éducation nuit à la fraîcheur à la vigueur du langage.
Céline ne sort pas d’un salon. À peu près tous ceux doués d’un génie verbal que j’ai connus manquaient de manières : ils étaient des natures, ils vivaient à même le langage. »

Cioran, Cahiers, p913

Le persone di classe non sono particolarmente  inventive in fatto di linguaggio. In questo mostrano attitudini e originalità le persone loquaci, che rasentano la volgarità, o che per lo meno spingono la vivacità fino alla millanteria, o alla spiacevolezza leggermente delirante. Il genio verbale è spesso appannaggio di quelli che appartengono al popolo.

L’educazione nuoce alla freaschezza, al vigore del linguaggio. Céline non viene fuori da un salotto. Quasi tutte le persone dotate di genio verbale che ho conosciuto non andavano per il sottile: erano nature, vivevano come parlavano.

Quaderni 1957-1972, traduzione di Tea Turolla, Adelphi

 

 

Il viaggio fermo

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Non facevo in tempo a odiare nessuno di quelli che passavano lì davanti, non ce n’era proprio il tempo, è come dal finestrino del tram, mi dicevo, che non si fa in tempo a odiare quelli che vedi passando. Con la differenza che in quel caso è il tram che si muove e la gente sembra ferma, qui invece è la gente che si muove e passa e tu sei fermo dietro la vetrina.

(Luigi Malerba, Il serpente)

Vulnicura, diario mistico-regressivo di sciami e di cocci

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di Viola Di Grado

Come ci canterò fuori
da questo mondo di dolore?
(…)
C’è uno sciame di suono
la nostra clessidra
e possiamo sentirla
e possiamo venirne colpiti
ci libererà dal dolore
ci renderà perfetti
questo posto di soluzioni
questo posto di soluzioni
questa sede di soluzioni.
 
(Family)

 

Björk_-_Vulnicura_(Official_Album_Cover)Sulla cover di Vulnicura Björk è un soffione, un sinistro fiore dei desideri in lattice nero con un’infruttescenza che sta per cedere e una ferita al centro del petto. La ferita al petto sembra molto letterale (l’album è dichiaratamente un diario della rottura traumatica della relazione decennale con Mattew Barney) eppure nella mitologia visiva di Björk è una metafora stratificata che passa da una serie di dissezioni e trasmigrazioni del corpo, restituito animisticamente al paesaggio naturale o scagliato contro rudi paesaggi tecnologici. Abbiamo già visto il petto di Björk spaccarsi al suono di archi melodrammatici e spinosi beats (Jóga): il suo corpo compare in scena fisso e chiuso in un parka bianco, anche gli occhi serrati, poi sparisce, per ricomparire alla fine e lasciare uscire dal petto un abisso di paesaggi rocciosi. Adesso, in Stonemilker, la domanda sull’apertura e chiusura del corpo è posta nella dimensione duale di coppia e amaramente riformulata: “chi ha il petto aperto / e chi è coagulato?”

In quest’equazione, Björk non è solo quella con il petto aperto, ma è lo stesso petto aperto: “Sono una ferita/ il mio corpo pulsante/un essere sofferente”. La delusione amorosa è presentata come un trafugamento (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”) che poi diventa svuotamento mistico-orrorifico (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto, intessuto”). Ironico che quest’album sul trafugamento e fuoriuscita drammatica del sé, preannunciato per marzo, sia uscito a gennaio proprio a causa di un furto e conseguente “internet leak” (“internet-fuoriuscita”).

La mitologia del corpo-realtà creata da Björk è una parabola complessa che da sempre sintomatizza e reinventa il ruolo controverso che noi in quanto corpi abbiamo nella società dell’informazione e della simultaneità.

Abbiamo visto il suo corpo integrarsi alla struttura meccanica di due speculari androidi in amore (All is full of Love), l’abbiamo visto partorire mostri anfibiali (Where is the line) ed emettere dai capezzoli i fili sericei di un bozzolo intero che la chiude e la solleva e infine la fa sparire (Cocoon): Björk è l’illuminata interprete di un’era in cui la morte fisica è diventata obsoleta, un retaggio inaccettabile, un’era in cui la nostra rete neurale si rispecchia nella rete informatica e i nostri corpi sono costantemente immessi in un flusso di informazioni a-sensoriali.

Björk è riuscita a ricomporre questo nostro corpo in costante disintegrazione e immetterlo pezzo per pezzo in monumenti musicali e visivi coerenti e sempre nuovi. Il corpo umano, precipitato e permeato dalla realtà digitale, si smaglia in una rete di informazioni e si dissolve, si ricompone, all’infinito. In questo paesaggio frammentato di interiora umane e grattacieli in frantumi, personaggi di videogioco anni ’90 e illimitati corpi-paesaggio (Hyperballad), spiriti fluttuanti e bambole elettrizzate (Possibly maybe) possono mescolarsi e sintetizzarsi a vicenda, in una specie di mandala post-postmoderno di cocci organici e inorganici, un mandala che è il suo viso ingrandito che emette vernice dagli occhi e forme uterine dalla bocca (Hidden Place).

Perché, restando sulla metafora buddhista, ogni pixel sgranato contiene i recessi analogici dello spirito (sempre Hyperballad) e ogni corpo è alieno alla propria identità. Perché il corpo, nel suo continuo trasformarsi, è l’unica cosa che esiste. E adesso, dopo aver esplorato (ed espiato) in tutti i modi il sé e l’universo (per i cinesi erano la stessa cosa) come un’instancabile sonda spaziale, Björk torna a se stessa (“Sono un razzo scintillante raggiante/che ritorna a casa/mentre entra nell’atmosfera/brucia strato per strato”); a una se stessa obsoleta – nel senso in cui noi stessi, quando nel dolore regrediamo, ci sintetizziamo in una formula primitiva e terribile.

Questa formula, Vulnicura, è un puzzle-carosello di elementi beta, orrori non trasformati che fluttuano e sbattono l’uno contro l’altro. E’ l’incubo di un bambino che si ritrova improvvisamente bambino e quindi senza la protezione della propria crescita (“il mio scudo è andato, la mia protezione sottratta”). Vulnicura è innanzitutto un diario. Semplice, amaro, uno spazio intimo e iper-vissuto, vintage di archi armoniosi e sporadici sciami di beats. Uno spazio iniziale, interrogativo, di una trasformatrice del futuro che non si è mai concessa prima d’ora di riposarsi nel passato: perché il gioco, se è vero che costruisce il mondo è vero anche che lo replica senza alcuna ambizione di sorprendere. Vulnicura è un melodramma semplice e spietato di fratture, in cui il corpo-musica rinuncia a tutte le sue alchimie e diventa tappeto fermo, costantemente compenetrato (“Dopo che il nostro amore è finito/ i tuoi spiriti mi hanno invasa.”).

Vulnicura non vuole entrare in contatto. Come un neonato, il suo pianto prescinde la fame, è un pianto di possibili disintegrazioni, ma soprattutto è un pianto che esiste perché ci sono i polmoni. Björk è sempre stata una grande sperimentatrice, relegando ciò che era troppo crudo o letterale a parentesi riposte e mai riprese, luoghi solo intuiti. Ma ora che “lo scudo è andato”, “lo spirito è rotto” e “l’anima è a pezzi” (Black lake) l’interno sconfina dal petto fratturato e circola altrove, inonda (“Il mio cuore è un lago enorme (…)/affogo nel dolore”): il sistema fluido di quel corpo pericolante, che si concede all’inorganico senza terrore, è inceppato. Ciò che risulta è un paesaggio coagulato, umano e non umano, che commuove per la sua sincerità.  bjork_-_all_is_full_of_love_-_front

In tutto ciò la parabola björkiana dell’amore che è dappertutto ed è qualsiasi cosa (All is full of love), proiettato nel paesaggio naturale e innestato nei mattoni post-umani di robot sentimentali e splendidi – un amore che si sottrae al proprio corpo per ampliarsi e inglobare realtà sempre più grandi – sembra cadere e approdare nel suo contrario: l’opposto amaro dell’amore come apertura al tutto è la perdita dell’amore e la caduta nel tutto (“la mia anima spezzettata, il mio spirito rotto nel tessuto di tutto”). E’, infine, la coagulazione. Se il corpo-cavia è stato messo da parte, rivirtualizzato, il corpo-ferita, iper-personificato, infine può curare se stesso: il centro di quel corpo non è più un paesaggio urbano dislocato e pressante, una forma di inconscio geografico immesso nella carne, ma ritorna il centro simbolico e classico del corpo-anima: il cuore. Il suo cuore è “un lago enorme/ nero di veleno/ sono cieca mentre affondo in quest’oceano”. Quello di Barney/interlocutore, invece, è “cavo”.

L’amore che entrava e usciva, che crollava dalla bocca in forme uterine, si dissolve. “Il nostro amore era un utero”, canta Björk. E Vulnicura è proprio un album isterico, nella sua accezione letterale: un utero vuoto, recitato insistentemente per essere di nuovo riempito. Il “posto di soluzioni” evocato in Family, la canzone più musicalmente tormentata di Vulnicura, invasata da uno sciame di beats che percuote e interroga un canto accorato e discontinuo come una nenia sciamanica- è come sempre per Björk un posto di creazione musicale. La musica come percorso automatico del pensiero, come “non azione” direbbero i taoisti, in quanto da sempre definito da Björk come luogo a-logico, istintuale, vissuto fuori dalle feroci frazioni della mente razionale. Come ponte, anche, per “cantare se stessa fuori dal dolore”: come spinta fluida e muscolare dal dolore a qualcos’altro. A cos’altro, esattamente? Il “posto” diventa “sede” nel verso successivo: un luogo temporaneo di acting out, un setting auto-analitico di trasmigrazione a una sé stabilizzata. Qual è la cura di questo vulnus inerme e insistito, sovresposto? La clessidra sembra alludere a una pacificazione nel tempo o nella morte. Se nella precedente cosmologia björkiana era stata sorpassata e diminuita, resa anacronistica, adesso la morte diventa un plurale rigenerativo e consolante di rinnovata protezione, localizzato in un qui imprecisato che sembra essere proprio lo squarcio nel petto: la terra primordiale, non umana, invasa di sé, e l’apertura del fiore nero, il giglio nero di Pagan Poetry che traccia mappe di desiderio, che è anche il fiore finale della copertina, con le sue infiorescenze che, pur promettendo desideri realizzati, stanno per essere recise. Björk canta: “non dimenticherò/ questo “nonricevere”.

Così, in un album che segue intimisticamente una rottura e la sua ricomposizione, per la prima volta non come esperimento culturale ma come osservazione inerme e riluttante, si viene travolti da una grande tenerezza e si viene risucchiati da questo grande lago nero, il “cuore cavo”. Sarà anche per motivi di sincronicità junghiana – “Cuore cavo” è il titolo del mio ultimo romanzo-  che da björkologa di vecchia data mi sono sentita chiamata in causa. Sarà che le voglio proprio bene. Comunque, per ritornare al taoismo, il senso del cuore cavo non è il passato del suo svuotamento ma il suo futuro vezzo e talento di riempirsi: “Quando noi, i guardiani / ci ritiriamo al sicuro qui, salvi dalla morte.”

Il difetto di avere ragione

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enel1Come è andata a finire con l’Area ExEnel

di Gianni Biondillo e Marco Belpoliti

Nel gennaio del 2012 su questo blog era apparso questo articolo. Altri in contemporanea ne uscirono su vari blog e quotidiani, a firma di Marco Belpoliti, Luca Molinari, Marco Biraghi, etc.

Sollevavano un problema: la costruzione nell’area di fronte al Cimitero Monumentale di Milano di due edifici fuori scala, di un albergo inutile e di un parcheggio sotterraneo di 250 posti camuffato da piazza in una zona di rispetto architettonico, con un progetto che lasciava molto a desiderare dal punto di vista estetico e urbanistico. Ne era nato un dibattito (vedi ad esempio qui) che aveva coinvolto giornali, architetti, intellettuali, politici. La questione si era trasferita, dopo varie vicissitudini e discussioni, nelle aule del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, che aveva bocciato il ricorso del gruppo di cittadini che si erano organizzati nella sigla Area Ex Enel con un suo sito.

Ora sull’intera materia si è espresso il Consiglio di Stato (Sentenza Ex-Enel.1), dando ragione ai cittadini che hanno sollevato il tema della legittimità della scelte della giunta Moratti, prima, e Pisapia, poi. Tutto questo è succintamente spiegato nella lettera che segue indirizzata a “il Corriere della Sera” che, unico giornale milanese, ha dato alcuni giorni fa con un ampio articolo notizia della sentenza, intervistando l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano e vice-sindaco, Ada Lucia De Cesaris, sostenitrice della scelta urbanistica e giuridica bocciata dal Consiglio di Stato. Ora che Milano è sotto i riflettori dell’intero paese per l’apertura imminente dell’Expo a maggio, vale la pena di tornare a riflettere su questo caso (60 milioni di euro investiti da privati che ora non potranno proseguire i lavori iniziati) che ripropone le questioni della gestione politica delle nostre città, della partecipazione dei cittadini e della bellezza architettonica.

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Su queste pagine pochi giorni fa è apparso un lungo articolo dedicato al cantiere dell’area Ex Enel. Il Consiglio di Stato ha dichiarato l’intera operazione illegittima bloccando i lavori, dopo il ricorso intentato da alcuni cittadini. Quei cittadini siamo noi. Vorremmo qui spiegare le ragioni del ricorso e di come si sia arrivati a questo punto.

L’area di fronte al Cimitero Monumentale, di ex proprietà Enel, e dunque pubblica, molti anni fa fu svenduta a una società privata. Dopo lunghi anni di abbandono, e di occupazione da parte del centro sociale Bulk, durante l’amministrazione di Letizia Moratti alcuni imprenditori decisero di costruire degli immobili residenziali.

Per fare questo il Consiglio Comunale di allora approvò una delibera che modificava le cubature edificabili, triplicandole. In un colpo solo quel terreno, comprato per 10, valeva 300. 

Per trasformarla in area residenziale edificabile, e per aumentare le cubature consentite per legge e concedere le concessioni, l’amministrazione comunale si avvalse dello strumento del “programma integrato di intervento”, uno strumento che, nel diritto italiano, è consentito solo ed esclusivamente in casi di evidente interesse pubblico e strategico per la città. 

Succeduta alla Moratti, nell’assolato agosto del 2011 la giunta Pisapia riportò in consiglio comunale la delibera e la approvò: senza nessun comunicato stampa, e senza che la notizia venisse riferita da alcun giornale.

Il progetto approvato prevedeva, in tre isolati situati di fronte al Cimitero Monumentale – il luogo più visitato dai turisti dopo il Duomo – tre palazzoni alti fino a 10 piani fuori terra, in un quartiere di edifici di 4 piani al massimo: residenze ad alta densità volumetrica e bassa qualità estetica.

Alla notizia di questo scempio, un gruppo di abitanti del quartiere e alcuni intellettuali, scrittori, architetti, hanno provato a intervenire. Abbiamo chiesto di incontrare la proprietà e il Comune, cercando il dialogo, sostenendo che andava bene il profitto economico dei privati, ma che l’operazione avrebbe potuto essere un po’ meno spregiudicata, contenere qualche spazio pubblico, e concedere qualcosa alla qualità architettonica. Non chiedevamo di scomodare grandi architetti, semplicemente di evitare il ricorso in pieno centro cittadino a un’edilizia così sfacciata e imbarazzante. In sostanza chiedevamo un’idea per la città che andasse oltre alla mera speculazione edilizia. 

Il Comune di Milano non ci ha voluto dare ascolto. Lo stesso atteggiamento hanno mantenuto i proprietari del terreno. Entrambi ci hanno liquidato dicendo di intentare pure una causa, che tanto l’avrebbero vinta loro. 

Soltanto l’impresa costruttrice di una parte degli edifici si è mostrata disponibile, modificando le facciate di loro pertinenza in corso d’opera e ridisegnando un piccolo parco. Da parte loro si trattava di un impegno che andava oltre il loro immediato interesse e quindi da considerare assolutamente apprezzabile. Furono i nostri unici interlocutori, non si trovò perciò un accordo sull’intero piano. È che il vero soggetto in grado di imporre un interesse pubblico all’area, vale a dire il Comune, non si prese carico con sufficiente lungimiranza del suo naturale ruolo di mediatore tra le parti.

Rimanendo convinti che l’operazione fosse sbagliata sotto il profilo architettonico, politico, urbanistico e legislativo, e non riuscendo a ottenere altri risultati se non quello – comunque importante – di far riprogettare gli spazi aperti, fummo costretti a non ritirare il ricorso. 

Oggi il Tribunale di Roma ha dichiarato l’intera operazione illegittima, in quanto priva del presupposto di un interesse strategico e pubblico. Ci ha dato ragione. Una pessima notizia, a ben vedere. Non soltanto perché ora il progetto è diventato un problema, ma soprattutto perché non eravamo e non dovevamo essere noi i paladini dell’interesse della città.

Non debbono essere i privati cittadini a vigilare sulla legittimità delle operazioni immobiliari, sulla qualità architettonica e sul rispetto delle norme urbanistiche. È un ruolo che spetta alle istituzioni.

Avere ragione non ci interessa: ci interessa, così come sin dall’inizio, che si costruisca bene, in modo sensato, intelligente, corretto, restituendo alla città vivibilità e bellezza. Ci interessava allora, e ci interessa ancora di più adesso che c’è un “buco”, una ferita, nel cuore della città.

Diamo a questa zona importante di Milano una nuova occasione, una soluzione degna della nostra città, anche alla luce dei numerosi fallimenti urbanistici di questo ultimo decennio. Ripartiamo da una logica diversa, con un orizzonte progettuale di più ampio respiro. L’orizzonte legittimamente alto e ambizioso di disegnare e pensare la città per i cittadini.

Si tratta di un compito arduo, che spetta in primo luogo al Comune di Milano. Speriamo che questa volta ci provi.

Gianni Biondillo
Marco Biraghi
Paola Lenarduzzi
Roberto Marone
Luca Molinari
Alberto Saibene

(pubblicato precedentemente su Il Corriere della Sera – Milano, il 22 marzo 2015. Questo post è da oggi on line anche su DoppioZero. Le vignette sono un regalo di Guido Scarabottolo)