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LIBERA OCCUPAZIONE POETICA ° [i materiali]

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cartolina-fronte LIBERA OCCUPAZIONE POETICA è l’incontro collettivo che si terrà sabato 21 marzo 2015 a Torino, nella sede dell’Unione Culturale Antonicelli (Via Cesare Battisti, 4/b) a partire dalle 17.30. Presentiamo qui alcuni materiali che hanno contribuito alla preparazione di questo incontro. Quest’ultimo si è articolato intorno a quattro eventi principali: installazione + riflessione + manifesti + lettere. Eventi che corrispondono ad altrettanti modi di fare poesia possibilmente al di fuori, o al limite, dello specifico poetico.

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA,

che vuol dire, se prendiamo i due ultimi termini, mestiere poetico, inerente alla poesia, ed è il lato derisorio della formula. In Italia, più che in qualunque altro paese d’Europa, l’attività poetica non può essere considerata degna non solo di un interesse mercantile (non produce profitto), ma neppure di un sostegno istituzionale (denaro pubblico per la poesia!!!!).

L’eccezione salvaje del libro messicano

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di Alessandro Raveggi

libreria villanueva

Interrogato sul mondo del libro e dei luoghi frequentati dagli autori e dagli appassionati di libri a Città del Messico, non posso che menzionare a premessa quanto segue. Prima di tutto: Città del Messico è ben più letteraria di una pagina di Bolaño sulla sua Città del Messico letteraria – mi  riferisco ovviamente a Los detectives salvajes, uno dei pilastri della letteratura del XXI secolo, da me letto e acquistato agli inizi degli anni Zero a Granada e solo dopo 7 anni rivissuto magicamente e visceralmente nella carne e nelle ossa dei miei anni al Distrito Federal. E questo non significa che il suo universo sia costellato da un fiorire esoso di librerie indipendenti resistenti.

Bisogna anzi riconoscere che delle librerie menzionate da Bolaño solo una alla fine sopravvive alla storia e alla finzione: la Libreria del Sotano (una catena libraria, tra l’altro). La Libreria Mexicana sostituita da una rosticceria, la Libreria Pacifico non c’è più  o forse non è mai esistita, così come la Libreria Baudelaire. Resiste la gloriosa Calle Donceles, con le sue librerie dell’usato alcune risalenti agli anni 50.

Tuttavia, non si può dire che il mondo del libro messicano sia in crisi, affatto: per scrivere di o frequentare il mondo degli scrittori messicani bisogna spesso però avere palati adeguati e stomaci foderati. Bisogna saper camminare e conversare ebbri. Aggrapparsi agli autobus scalcagnati e respirare il loro sudore metallico. Mangiare tacos nocivi in strada, bere allappante pulque, bere birre artigianali o commerciali e sciape in grande copia. Frequentare l’università pubblica (tanto è gratuita), le feste nelle case mezze eleganti e mezze diroccate del centro storico o di Coyoacán, le piazzette del quartiere Roma con le copie scure di un David o le copie di uno pseudo Rodin, animate dai mercati dell’agricoltura biologica e del riciclo e del uso consapevole di qualsiasi cosa si possa usare. Aggirarsi nelle domeniche pomeriggio nel turistico centro storico a far la fila davanti all’ennesimo festival del libro, file chilometriche come fossero ad un concerto pop ed invece stiamo per entrare ad un incontro con Paco Ignacio Taibo II.

La letteratura nel Distrito Federal è fatta d’eccezioni salvajes, anche nei casi apparentemente canonici. E d’altronde della topografia letteraria dei Detectives ci sono rimasti evidenti due grossi pilastri: il Cafè Bucareli e il Cafè Quito (nella realtà: il Cafè Habana), due cantinas.

Vediamo così un po’ di districarci in veri e propri casi unici, eccezionalità che hanno a che fare anche con l’Italia: librerie di editori-Stato, cafebrerias, biblioteche universitarie foderate di murales, indipendenze italiche, festival del libro ovunque, e soprattutto barretti e balere.

 culturaeconomica

Il Grande Padre.
Le librerie del Fondo de Cultura Economica.

Oggi catena libraria per tutta l’America Latina e persino a New York, inoltre casa editrice e libreria istituzionale, di “regime” si direbbe qui da noi, il Fondo de Cultura Economica (di seguito FCE) ha per anni – oramai cento? – consentito a che gli illetterati di tutto il Messico post-rivoluzionario potessero cibarsi di cultura a bassissimo prezzo e buona qualità di stampa, da Balzac a José Rueveltas, da Maupassant a Vargas Llosa e ovviamente gli immancabili colossi Rulfo, Fuentes e Paz. La casa editrice è forte ora soprattutto sulla filosofia e la critica – editore di Zizek, per intenderci – sebbene pubblichi ancora i classici, e snobbi sovente la narrativa contemporanea (fermo restando che ha una delle collane di poesia contemporanea più belle del Messico, peccato che pubblichi poeti laureati over 60 o macabramente defunti da poco). Le librerie del FCE sono pressoché asettiche, bianche rosse e grigie in genere, ma ben fornite, distribuite tra parchi verdeggianti e avenidas da sud a nord della Città. È sempre un piacere incontrarle – forse di più se sei uno scrittore straniero residente, proveniente da un paese dove la cultura ha smesso di fare sistema, di essere cosa democratica obbligatoria da diversi anni. E soprattutto è un piacere per i professori della Universidad Nacional Autonoma de México, che, come io ho fatto per alcuni anni, usufruiscono di un sconto cospicuo sugli acquisti. Da menzionare specialmente la Libreria Rosario Castellanos, nel quartiere Condesa, col suo programma ricco di presentazioni con 50-60 persone in media, e il suo spazio ampio che ricorda più la hall di un museo o aeroporto che una libreria vera e propria. Di autori, a bazzicarle, forse però non se ne trovano molti, nei pomeriggio piovosi dell’estate in Città: librerie di grandi acquisti ma fuggenti, vuoi anche perché non molte (che io ricordi) hanno bar o caffetteria acclusi dove echarse un mezcal.

Simili ma di tono inferiore le catene Gandhi (da ricordare però per intelligentissime campagne pro-lettura tramite banner giganteschi per tutta la città), El Sotano, Porrúa (e sicuramente dimentico qualcuna in più!).

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Mangia (bene) leggi (bene) sogna (meglio). 

Le cafebrerias di El Pendulo.

Simili o forse anche più fornite del Fondo de Cultura Economica, ecco quindi le librerie targate El Pendulo, o meglio le loro cafebrerias, librerie caffè che per programmazione, dettaglio e fornitura di libri farebbero impallidire qualsiasi tentativo nostrano di mischiare il pane e il companatico culturale. Immaginatevi una catena di librerie-caffè, con un teatro-auditorium dove ogni giorno suonano cantautori folk, o si presentano compagnie indipendenti, mentre tu te ne stai pranzo e cena ben serviti a mangiare prelibatezze messicane a la carte, huevos, enchiladas, hamburger con avocado, chiles rellenos, o un Manhattan a fine pomeriggio. Nessun possibile paragone. Anche qui, però, il mondo dei letterati, forse per snobismo forse per folla, non è molto visibile. Rimane solo lo straniero incantato che finalmente può leggersi un buon libro mangiando un buon pasto e bevendo un buon alcolico, tutto assieme, senza compromessi, fregature e specchietti per le allodole.

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Independencia Italiana.
Il caso della Libreria Morgana.

Città del Messico è una metropoli assolutamente à la page, la prima in linea retta ad acciuffare le mode newyorkesi e canadesi ed a trasformarle con il classico sincretismo messicano che rende spensierato l’arido concettualismo del design d’interni di bistrot e cafè e sushi bar: una città dove un ottico fa vernissage d’arte, un corniciaio ospita una galleria temporanea, un parrucchiere vende vestiti usati anni ’70, un fruttivendolo vende t-shirt di Banksy. Una città solcata da tensioni e rivolte, da continue manifestazioni e picchetti, da ventenni agguerriti e neo-zapatisti, da estudiantes enojados e femministe spunzonate di piercing dal collo tatuato e le braccia poderose. Ciononostante, non si trovano librerie indipendenti nella città, pensate cioè in quanto tali. Forse perché i luoghi di culto del libro sono esplosi ovunque e non necessitano di piccoli ricettacoli o santuari. Fioccano, quello sì, librerie dell’usato, ed anche ben condotte: ne prendi una a caso, entri e chiedi, come mi è successo, un’edizione in spagnolo di Carlo Coccioli, e ti dicono “Certo, Cossióli!” – così lo pronunciano – “abbiamo diversi libri suoi. Ricordo ancora quando scriveva nel El Excelsior in prima pagina, un eccentrico!” (Vai a fare la stessa domanda ad un qualsiasi libraio italiano e ti dirà “Coccioli chi?”).

Se dovessi pensare ad una libreria indipendente come io la intendo – la versione aggiornata della vecchia idea di libreria polverosa con il libraio ben assiso al suo centro, il genere di libreria dove il librario è quell’esperto jongleur di saperi con il quale approfondire sulle ultime uscite delle case editrici medio-piccole e magari fare un po’ di gossip cultural-letterario – non ne troverei di evidenti. O se dovessi pensarci bene, una l’ho frequentata, sebbene un po’ di traverso o ad uso e consumo accademico (ora capirete perché): l’unica libreria indipendente che in effetti conosca è quella curata da Clara Ferri, traduttrice e docente di traduzione alla Università pubblica, la Libreria Morgana di libri italiani, nella Calle Colima del quartiere Roma. La mia frequentazione è stata scarsa vuoi perché la full immersion latinoamericana mi imponeva l’acquisto di libri in spagnolo, dei Sada, dei Rulfo, degli Ibargüengoitia, vuoi perché spesso grosse casse di libri mi arrivavano dall’Italia, ad omaggio o in acquisto.

Il catalogo della Morgana è ben fornito, particolarmente legato all’aria di sinistra radicale (vedi ad esempio alla voce Wu Ming e il gruppo di scrittori attorno a Carmilla, in primis ovviamente Valerio Evangelisti) e sorprende l’attenzione per il contemporaneo – utile specie per i miei corsi di letteratura e seminari in città. Un punto di riferimento per docenti e italiani intellettuali residenti a Città del Messico – come i bravi giornalisti d’inchiesta Fabrizio Lorusso e Federico Mastrogiovanni – anche per un lampante impegno politico che li caratterizza e che li aggruppa con determinazione e brio.

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Passare alla Storia (e alle Lettere). 
Le biblioteche della UNAM.

Se volete invece incrociare Jorge Volpi, Fabio Morabito o uno stuolo di poeti, pensatori e filosofi messicani viventi il consiglio è quello di far un salto alla Biblioteca Central della Universidad Nacional Autonoma de México adiacente la Facoltà di Filosofia e Lettere. Oltre a vivere a pieno la gioventù messicana agguerrita, ridanciana, sensuale e attentissima sui libri di Ricoeur e Derrida, Negri e Bachtin, respirerete, affacciandovi dai finestroni, un po’ lo spirito del Bolaño di Amuleto, in un luogo che per estensione e valore è una vera e propria torre eburnea del pensiero latinoamericano che si scorgerebbe idealmente dalle terre europee d’oltreoceano. Un pomeriggio in Biblioteca e vi sentirete osservati come stranieri, accolti come amici e pensatori, inghippati in mille ragionamenti e suggestioni e attratti – se ancora ci sono – dalle bancherelle di libri usati che precedono l’entrata in Biblioteca e in facoltà.

Poi potete anche sdraiarvi sull’erba a leggere o semplicemente ad annusare l’aria tersa di certe giornate trasparenti non rare nella pur sempre inquinata Città del Messico, la grande spianata delle cosiddette islas farà al caso vostro – il consiglio è di affrontarle con una buona protezione solare, a dare un tocco di inadeguatezza particolare alle vostre pose d’intellettuale bianchiccio. Lì potreste tra l’altro incontrare anche il buon Eugenio Santangelo, magrissimo, col suo sguardo serio sempre pronto a farsi mutare dalla spinta di un sorriso sornione, uno dei fondatori della fu rivista underground bolognese Tabard e ora uno dei più ferrati esperti e ricercatori accademici su Bolaño in Messico e non solo. Poi vi volterete, farete dei passi indietro, e noterete che dietro Eugenio si staglia l’enorme e futuristico mural di Juan O’Gorman che ricopre le pareti della Biblioteca Central.

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 Fiumane ai festival nelle piazze storiche.
Il successo scomposto dei festival del libro

Fiumane di persone in tuta sportiva con berretti e cappucci da baseball, di anziani con le vene varicose, di giovani rasati ai lati delle tempie, di bambini obesi, attendono in fila per le strade del Centro Historico al mattino di una domenica qualsiasi: sotto ombrelli, sotto k-way, per la pioggia o per il sole, sventaglianti ventagli per il caldo arso e manducanti panini portati da casa: stanno aspettando di entrare dove? In un acquario? In un museo gratuito? In un’attrazione pirotecnica di massa? In una conferenza stampa di Jared Leto? No, in un festival del libro nuovo o usato! In uno di quei tendoni librari che si montano ogni mese nel Zocalo, la sterminata piazza centrale della capitale centrale, a pochi passi dalle rovine del Templo Mayor, oppure dentro al Palacio de Minerias. Oppure ancora, ritornando alla UNAM, nel giardino del campus, aperto anche la domenica per fare jogging, passeggiare, far pratica da principianti con l’auto, o andare al teatro, al ristorante, al centro d’arte contemporaneo MUAC (altre eccezionalità messicane, di cui ora non parlerò). L’osservatore straniero verrebbe a rompere l’idillio con le classiche domande di spocchia del tipo: “Sì, ma quanto leggono i messicani? Quanto sanno? Quanto studiano? Che tipo di educazione? Servono a qualcosa questi festival? Che tipo di scrittori vengono presentati?”.

Io guardo queste fiumane bizzarre venute ad adocchiare i libri, a volte di edizioni pessime, usato di bassa lega, altre volte di autori contemporanei e degne della più internazionale Fiera del Libro di Guadalajara, e me ne beo, lasciandomi alle spalle tutta la presunzione dottrinale e quantificante, e l’accademismo educato italiano e europeo. Queste file sono un bel vedere per uno che i libri li scrive e l’insegna: un segno di rispetto intellettuale involontario, che manca spesso in Italia, per chi magari non esce la domenica e sta sulle sudate carte e sente di essere sempre più marginato da una società dove tutti vogliono fare gli scrittori e gli artisti, mentre i governi negli anni tagliano fondi alla cultura, non esistono un sistema di borse di studio per artisti, e nessuno alla fine legge o va alle mostre d’arte contemporanea. Un’eccezionalità inversa, poco selvaggia, delle mie terre – con qualche recente miglioria visibile.

alemessico

A donde van los escritores?
Le cantinas.

Paola Tinoco è la rappresentante messicana della casa editrice Anagrama (che è quella di Bolaño, di Sada, di Mario Bellatin, di Bernhard, di Auster, di Tabucchi, ma anche di Calasso e Ammanniti). Ho conosciuto Paola tramite un amico poeta e gran bevitore che collaborava con la rivista Letras Libres. L’ho conosciuta al bar, non in libreria, o ad una presentazione di libri. Interrogata ultimamente da me sui luoghi letterari della città, ha sbottato con una sberla verbale: “Alessandro, pare che tu non abbia vissuto nella Colonia Roma, cazzo!” E si riferiva alle cantinas, ai barracci frequentatissimi da scrittori e intellettuali messicani. José “Pacho” Paredes, bassista storico del gruppo rock Maldita Vecindad, direttore del Museo El Chopo ed ex direttore della bellissima esperienza di festival internazionale di poesia Poesia en Voz Alta, anche lui cita le cantinas: “Gli scrittori e letterati messicani vanno nelle cantinas”, mi dice, “Fadanelli si vede spesso al ristorante Xel-ha nella Roma, molti vanno al Cafè Habana, quello dei poeti infrarrealistas, di Bolano, per intenderci”. Le poche volte che ho incrociato scrittori messicani li ho effettivamente incrociati “in borghese”, cioè svaccati a giochicchiare con le bottiglie e i tappi di bottiglia in una tavolata ridanciana. La Luiselli, Yuri Herrera, quando passano dal D.F., sicuro li trovereste in questi posti in compagnia di un Tryno Maldonado, di un Juan Villoro, di un Alberto Chimal.

E come sono queste cantinas? Degne se non peggiori di quelle spagnole, simili per certi versi, come quella che ho più frequentato, il Salón Covadonga (anche perché a 100 m da casa mia), a polverose balere incrostate di vecchia storia iberica, di nicotina, di suppellettili pigolanti in legno, o a volte tipo circoli ricreativi culturali ARCI toscani anni 70 con maxischermi per le partite. Gli scrittori le trovano autentiche, sbottonate, senza pretese, economiche (ma non sempre, vedi il menu del suddetto Covadonga che ti spella il portafoglio con cattiveria), vicine a quello spirito di desmadre e relajo che troviamo in Bolaño e che è tipico delle classi medio basse locali anche quelle che più si avvicinano alla bohème. Gli scrittori le preferiscono di gran lunga ad una rinfighettata libreria cool del francofono quartiere Polanco, o alle precedenti librerie del Fondo e del Pendulo, con i loro interni ben studiati.

“L’artefazione lasciamola nei libri”, paiono pensare e volere.

E qui si chiude, incompleta, brindando al martedì o al giovedì sera sotto indocili neon e amabili carcajadas (le risate fragorose dei messicani), la mappa esplosa della salvaje distribuzione dei luoghi e dei libri e delle loro passioni nella mia Città del Messico.

Consigliatissima per i palati e i globi oculari rinsecchiti di noi europei.

Swank oder Spass – Inediti

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Immagine5di Daniele Ventre

Incipit

Ma il compostaggio e il suo composto
era dopotutto il principio
della carreggiata alla fine
del mio principio e al principio
della mia fine e della fine
di tutto la coincidenza
degli opposti rimane
dietro la linea gialla
e perde il treno
-e ne era contento

* * *

ἐκλαλέοντ’ἀλαλοῦντες ἀπεκλαλέουσ’ἀποροῦντες

* * *

Metà-poesia à deux

La poesia del linguaggio enfatizza
il ruolo del lettore nel tirare
fuori dalla parola il significato
si sviluppa per certi versi in risposta
a ciò che un poeta considera l’uso
acritico dell’espressività lirica
del sentimento fra i precendenti
movimenti poetici negli anni Cinquanta
e Sessanta certi poeti seguirono
uno nell’uso della lingua degli idiom
piuttosto che l’uso del tono elevato
o del linguaggio scopertamente
poetico preferito dalla nuova critica
o quel che era certuni enfatizzarono
il discorso della montagna nera
(beati i poveri di vocabolario
perché vedranno il dio al neon
di Simon & Garfunkel sulle pareti
delle metropolitane e nei suoni
del silenzio e il pubblico colto
còlto dalla banalità della citazione
sarà còlto da un raptus di risa
o di nausea per l’autore incolto)
e le sineddochi e le metonimie
e i giochi di lingua e qui
si scivola nel pornografico

La prosa del non verbale minimizza
la marginalità dell’ascoltatore nel non capire
il significato dei gesti per sordomuti
e involve per certe righe come domanda
su ciò che un prosivendolo considera l’abuso
acrilico dell’inespressività antipoetica
del risentimento fra le antecedenti
stasi prosastiche degli anni Dieci
e Venti del nuovo secolo certi prosivendoli
seguirono l’abuso della neolingua
degli idiot-savants piuttosto che un minimo
sindacale che sapesse di qualcosa
o del non verbale copertamente
verbalizzato evitato dalla vecchia
acriticità o quello che altri minimizzarono
il silenzio della montagna incantata
[…and John Domini shot Frank Sinatra
and Túrelio shot Mother Teresa
and Mark Seliger shot Christopher Walken
and Loomis Dean shot John Wayne
and Jim Hendin shot Marvin Gaye
and Ron Edmonds shot Ronald Reagan
and Carl Van Vechten shot Orson Welles
and Marion S. Trikosko shot Malcolm X
and Andy Warhol shot Andy Warhol…
]
e il grado zero della scrittura
e la cintura di castità e qui
si infibula nel corno d’Africa

* * *

κικκαβαῦ κικκαβαῦ
κικκάκικκα κικκαβαῦ

κλαῖε τε καγχαλόωσ’ἀπέκαιέ τε θύματ’ἀρῶσα

* * *

Immagine6

Non vi taccio la verità -cette n’est pas une imitation

no nonò nononò nonononò
no nonò nonno no nonnò
nonnò nonnò nonno no nonò
no vi no io vi nonnò no nonnò
no vi no io vi no nonno nonnò no
nonò nonò nonò nonò nonò
nonò nonò nonò non vi
non vita no nonò nonò non vita no
non vita ciò no non vita ciò
non vi taccio no non vi taccio
nonò non vita ciò nonnò
no non vi taccio no là ve’
no non vita ciò no non là
no non là non là ve’ nonnò
nonoò nonò nonò non vita
no vita ciò novità ciò non vita
novità non vita ciò nonnò no
ciò nonnò no ci ho nonnò no vita
novità non è non è novità no vita no
no vita nonnò no nonnò non vita
non vita ciò non vi taccio no vi taccio
no vita non ci ho ci ha non vita ci ha
non vi taccia non vita taccia no taccia
nota ci ha nonnò non taccia no
nonnò vi io vi no io vi no io non vita
non vita ci ho non vi taccio novità
no non là ve’ no non vita là
no nonò non vita novità non vi ta ci ho
non vi taccio non vita là ve’
novità non vita ciò non vi ta ciò là ve’
non vi ta ciò la ve’ rito non rito
no rito no nonnò non vita novità no
non vita non vile t’ha non vita ciò
non vile no non vi no non vi ni l’è
non vi ni l’è no non vile è no non vita
non vita è vile non vita ciò è vile no
non vita è vino no non vita vini l’è
vita no non vita vino l’è non vita
ciò non vi taccio là ve’ no rito
no rito no nonnò non vi no non vi l’è
non vile no non vino l’è no non vinile
non vinile no non vini l’è no non di’
no non no di’ nonnò no non di’ di’
no non no di’ novità no nonnò non vi
no non vinile no nonnò non no di’
di’ di’ scorie di’ scorie disco rie
no non vini l’è no no vinile disco
disco no non vini no non vi taccio no
non vi taccio no non vita ciò no non vita
no non vi taccio là ve’ ve’ no non rito
no non vi taccio là ve’ ritagli no
ritagli no non vita no non vi taccio no
non di scorie no non disco rotto no
no nonnò non disco rotto no non vi
no non vita no novità no non vita ciò
no non taccia no non vi è no non vi è
no non v’è taccia no non v’è taccia
no non vi taccio no non vitaccio non vi
taccio là ve’ non vi taccio là ve’ ve’ di’
ve’ di’ ve’ di’ vedi no vedi vedi no vedi
vedi vedi no non vita no non vita vedi
no non no di’ ve’ di’ di’ là ve’ di’ là ve’ di’
no non v’è di’ no nonnò non v’è di’ di’
non vedi no nonnò vedo no v’è non do
non vedi no nonnò non vita no non v’è
non v’è vita no nonnò non v’è no vita
non v’è novità non vita ciò non vita ciò l’è
non vi taccio la ve’ rito no, non vi taccio
vedi vedi vedi non v’è taccia non vi taccio
non vedi vedi non vedi no no non vedi non
vi taccio non vi taccio là non vi taccio
non vedi no non v’è taccia non v’è di’
non vedi no non vi taccio la verità

* * *
πολλὰ πάραντα κάταντά τ’ἄναντά τε δόχμιά τ’ἦλθον

lungo fu il viaggio, di su, di giù, per vie oblique e traverse

* * *

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That was silly, man!

-50. sarà forse un pentacolo rovesciato nella terra di flatlandia.

-49. sarà silenzio

-48. sarà un caos senza ordine -una folla opaca.

-47. sarà pura frammentazione -residuo fissile.

-46. sarà uno sciocco comportamento emergente.

-45. Il est un produit un produit du chômage -cherchez l’homme par les ages.

-44. Non sequitur.

-43. È Mumbay, Napoli, Lhasa.

-42. Perduto il pre-referente -e la preferenza –i’d prefer not toi’d refer not to.

-41. Principium individuationis – e pluribus plura.

-40. È urbano -come solo l’inurbano.

-39. È androgino.

-38. Era atteggiamento.

-37. Velo di Maya non sollevato.

-36. Non divide né condivide in assenza di lavoro.

-35. Toti-impotente.

-34. Impoetico.

-33. È inutilmente complesso -ma semplice si finge

-32. ricorda la perdita dell’oralità primaria con rimpianto ma senza tristezza -in ogni caso resta indifferente alle cartoline postali

-31. Su questo solo siamo d’accordo.

-30. Era una scoordinata indefinitezza sulla rete rotta del mutismo e dell’antropocene

-29. Vario ed eventuale -avventizio- comunque fittizio -abusuale

-28. È un’irruzione nell’inarticolato -con reuma articolare.

-27. Ha silenzi che coalescono appena alzi gli occhi e rimangono comunque anche se li riabbassi.

-26. Eppur si muove si parafrasa si riformula si rovescia, si calzina, io ti floro

-25. metaforizza e metà no.

-24. Nulla peraltro diverte -troppi convertono o convergono -avremo divergenze.

-23. Non pensa a divergere -converge.

-22. Svilisce il singolare -ma il collettivo non se ne giova.

-21. È più grande del Peloponneso e più piccolo di tutti noi.

-20. C’è un sentimento in questa classe? Is there a feeling in this class?

-19. Catene da perdere mondo da guadagnare e il tutto in leasing.

-18. Non è nemmeno il paradiso riguadagnato.

-17. Né considera l’odio come la prostesi oncologica del nostro contrattempo.

-16. Riconosce che la vita è deprivata ma non trova sufficiente motivazione per disapprovare o per approvare.

-15. È contrario al natio borgo a cui peraltro resta selvaggio e indifferente

-14. Anche volesse essere presidente, non conterebbe.

-13. la classe dirigente ha un culo di bronzo, avendo la faccia come il culo -calciarla è controproducente e comunque rotola come masso di Sisifo.

-12. Ricordava parole -per lo più ne ha ricavato insulti -o sberleffi -per lo più da ignoranti -o mediocri.

-11. Non parla più.

-10. Sarebbe etica del discorso -avesse un peso.

-9. È para-atattico.

-8. No -decisamente non è carino.

-7. Che cosa è storicamente necessario? Che cosa è storicamente? Che cosa è necessario?.

-6. Sottrae.

-5. Toglie -non legge.

-4. In principio era Vac (RgVeda).

-3. Tutto ciò che è reale non è razionale, ma potrebbe diventarlo quando meno te l’aspetti -sciocco.

-2. Un’immagine è un’immagine è un’immagine è un’immagine

-1. Non sostituisce una mona di monaca.

0. Positivo il fatto che lo zero sia un numero.

* * *

ἔκλαιον τ’ὤρυξαν ἀγάλμασι μορμώλυξαν

* * *

qualis rictus! qualis mictus!
qualis victus valedictus
vale salve domine

quale factum! male tactum
quale pactum! tepefactum
anonymo nomine

* * *

Non-explicit

è la stanza e la galleria
d’arte moderna che avvicina
per intenzione l’officina
e la scrittura del contempo,
non nella forma di una pura
apposizione attributiva
affiancando l’arte musiva
alla musica campionaria
però provando e riprovando
e dimostrando e rimostrando
(dimostrazione e rimostranza)
che infine quest’arte elusiva
e la musica del frattempo,
e la litura di ricerca
e la palla di guttaperca
nelle conversissime forme
sono fatte d’unica stoffa
d’una sola uguale domanda
e d’un solo unico pensiero
e però non si fa mistero
che ogni altra stoffa la si manda
al macero: e sarebbe chiaro
un carattere installativo,
gelato non performativo
un po’ preformistico forse

e gli impegni a termine medio
di liture e di palinsesti?
Ne vogliamo soddisfazione
prese e da prendersi in visione
È nel ventaglio di risposte
a domande poco previste
(o non sarebbero domande)
ad argomentari incompleti
(Goedel per certo ha i suoi divieti)
circa la lettera che vuoi
tu ma di cui non sento attesa
se quest’epica di ricerca
nell’epoca di guttaperca
per gramatica poco pratica
rimane elettricità statica

βρεκεκεκὲξ κεκὲξ κεκέξ

ἔκλαλε κωκύουσα ἁπεῖπέ τε αἰνὰ λέγουσα

κτε.*

_________________________

* Prima di tutto proscrissero la rima e l’allitterazione.
Io fui contento, perché scocciavano: difficili da trovare.
Poi proscrissero gli accenti di posizione.
Io stetti zitto, perché mi suonavano martellanti.
Poi proscrissero le sillabe di numero fisso.
Io ne fui sollevato, perché mi erano fastidiose da contare.
Poi proscrissero anche le cellule ritmiche.
Io non dissi niente: non ero un percussionista.
Poi proscrissero anche le parole,
perché nulla da dire era rimasto.

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Napoleone e la meglio gioventù

1

-1

di

Francesco Forlani

Adio, adio, Cjasarsa, i vai via pal mont
Mari e pari, ju lassi, vai cun Napoleon.
Adio, vecju paîs, e cunpagns zovinuts,
Napoleon al clama la miei zoventût

Il soldàt di Napoleòn- Pier Paolo Pasolini

 

Il protagonista dell’ultimo romanzo di Vittorio Giacopini non lascia Casarsa, evidentemente, ma Grenoble, e non da semplice soldato ma come geografo di gran talento, sospeso tra “la tavola” e il “globo”, innamorato del disordine naturale dei rilievi. Sarà il talento a condurlo dritto al Generale che lo vuole con sé per  la Campagna d’Italia. Prima viene la mappa, indi l’azione.

Molti sono gli interrogativi che questa Éducation Sentimentale e, aggiungiamo noi, politique dispiega con l’avanzata dell’esercito e degli ideali rivoluzionari che il Generale incarna, prima di sottometterli alla propria persona e dunque sconfessarli con il potere. Serge Victor il nome che richiama l’anarchico Victor Serge  – del resto Giacopini ha scritto forse uno tra i più bei libri su Malatesta qualche anno fa, Non ho bisogno di stare tranquillo – è un anarchico. Lo è nella maniera di affratellarsi, entrare in empatia con il vivere fino in fondo le proprie rêveries nonostante la presenza costante di una macchina, la rinomata papera meccanica” che gli è stata data in dotazione per esplorare nelle città nemiche il grado d’insurrezione, misurare la temperatura del complotto, insomma spiare le piazze facendosi passare per un saltimbanco.  Serge è davvero l’interprete di una bella gioventù prodotta dall’âge des lumières votata a un sapere costruito grazie alla grande lezione di universalità dellEncyclopédie,  che diventa nel non più giovane antieroe la vera arma di sopravvivenza allo scacco della storia.

In un paesaggio letterario che sembra da anni dominato da una critica cartografica divisa tra letteratura della lingua, dove in genere succede poco che non sia nel testo, e quella di una fiction dove la marchetta al lettore impone una narratività dei fatti avant tout e con una lingua neutralizzata e asettica, la prova di Vittorio Giacopini è una boccata d’ossigeno; la sua prosa è un’esplosione polifonica e perfino audace a partire dalla ricreazione di una lingua in grado di farci sentire dell’epoca tutta la sua vitalità. Sarebbe riduttivo definire “La mappa” un romanzo storico soprattutto per la maniera in cui il lettore si lascia portare grazie a un passo di scrittura e a un ritmo incalzante in paesaggi mentali che è difficile confinare in una storia o addirittura in un solo continente. In questo Vittorio Giacopini si comporta, da autore, come il suo protagonista quasi raccogliendo l’eredità di Jacques Élisée Reclus, grande pioniere nella disciplina che amava dire di sé: Geografo, ma anarchico.

La  mappa è un omaggio alla geografia politica,  a una geografia provvisoria e allo stesso tempo perenne. Cambiano solo le linee di demarcazione, le frontiere, che si spingono oltre attraverso conquiste o che indietreggiano con le sconfitte, mentre quello che è al di qua o al di là non muta. Serge Victor mi ha fatto pensare ad un tipo incontrato a Parigi che, poco prima del crollo del muro di Berlino, aveva investito tutti i suoi soldi della liquidazione in un mega acquisto di mappamondi; globi nuovi di fabbrica che sarebbero diventati nel giro di pochi giorni cartastraccia. C’è un’illusione commovente e tragica dietro ad ogni geografia ma nessuno meglio di un geografo o di un romanziere, la potrà mai sapere.

da La mappa (pp 90-93)

di Vittorio Giacopini

Così era iniziata quella fantasia di notti interminabili, un pellegrinaggio dei sensi e della mente capace di scancellare ogni altra cosa annullando la pazienza dei giorni avviliti e avvilenti dell’assedio. Niente pendole a battere le ore (adesso soltanto loro, in esclusiva); niente – orbe – meridiane né clessidre. Il tempo c’era e già non c’era più: era sconfitto. Vivevano di dilatati istanti, attimi eterni. Tutta questione di ritmo, se vogliamo. Li guidava l’intelligenza muta di un istinto e una sapienza del corpo, mai provata. La perduta memoria della pelle, ritrovata; una specie di alchimia, senza alambicchi. Inoperosa, poltriva la papera ai piedi del letto; inutili, vestiti e biancheria giacevano abbandonati sull’unico seggiolino o sul pavimento. Un uomo e una donna nudi, quanto basta, e i loro sospiri, sussurri, sbuffi, gemiti, orgasmi. Mappe questa volta soltanto tattili, da ciechi. Percorsi e sentieri e strade di altra natura da perlustrare, curiosi, con altri gesti. Carezze, leccate, succhiate, spinte, sfioramenti, baci e slinguate a seguire curve sinuose o spigoli sulla pelle sino a scoprire punti delicati e reattivi, nei segreti, macchie e voglie e lentiggini, efelidi. Misteri della carne, senza mistero; tutta una geografia del desiderio. L’albore diurno che si annunciava col contrappunto del primo canto, discreto, degli uccelli, poi con lo stentato pallore dell’inverno, poteva sorprenderli a scopare o a parlare, mai nel sonno.

Due opposte reticenze e una complicità ancora da inventare, da costruire. In missione segreta, Serge Victor avrebbe voluto raccontarle ogni cosa di sé, aprirle il cuore; glielo impediva il ricordo, severo, di Saliceti (rigido geco nemico di ogni maga, di ogni sirena) e una visione, vaga, del suo dovere. Dal canto suo, lei non era da meno, l’indecifrabile. Tutta un «non chiedermi questo», un «non chiedermi quello», «sta’ tranquillo». Tutta: «Un giorno te lo dico; forse un giorno». Forse un giorno. Donde venisse, per dire, restava avvolto da un alone, sfuggente, di mistero, e quanto al nome le andava bene Zoraide, concedeva, e non era importante averne un altro (ma un altro doveva pure averlo, pensava Serge, e lei faceva: «Sì, un giorno te lo dico, forse un giorno»).

Sui suoi compagni di viaggio, la Maga si mostrava decisamente invece più ciarliera. Stavano insieme da un paio di mesi, a dire tanto; s’erano conosciuti in Svizzera, a una fiera. Mangiafuoco, il capo della banda, il truce Agorante, le si era presentato come Emir – serbo giramondo, ex mercenario, ora aspirante comico, teatrante. Quanto al biondino, Guenter, era l’amichetto di quello («Che c’è di male?»), il suo compagno. Tedesco di Baviera, pareva tanto un caro ragazzo, un agnellino, ma in verità era un temibilissimo lanciatore di pugnali e coltelli, un assassino. Chi avesse ucciso, e per quale cagione, restava incerto. «Mi ha raccontato che lo stanno cercando e se lo trovano gliela faranno pagare con la pelle, ma tanto non lo trova- no, lui è furbo. Poi hai visto come recita? È un portento.» Di sé ammetteva di essere orfana di madre, dalla nascita, e di avere un padre scombinato, te- sta per aria (nota che a Serge poteva anche suonare confortante).

«S’è ritirato a vivere in una specie di rocca-monastero, giù in Liguria. Sta sempre al santuario, scruta le stelle o Dio solo sa cosa. Un giorno ti ci porto, te lo presento.»

«Mi farebbe piacere. Dopo la guerra, però, dopo l’assedio.»

«Tu non starci a pensare, finisce presto.»


«Lo credo anch’io, ma è tutto fermo, adesso, tutto ristagna.»

«Meglio per noi, non trovi, francesino?»

«Meglio d’accordo, sì, ma poi per quanto?»

«Che domanda cretina; non ci pensare. Le cose durano quello che devo- no durare; quando finiscono, dovevano finire; se finiscono.»

vittò

Poi lo inchiodava alle sue curiosità, vizio di donna. Senza potersi pronunciare sui caratteri veri della sua missione – e a parte che di giacobini, qui, neppure l’ombra, nonostante l’affaire ancora irrisolto dei volantini –, Serge non chiedeva di meglio che accontentarla. Per la prima volta gli capitava di raccontarla a qualcuno, la sua vita, piuttosto che subirla, confusamente, o ancor peggio starcisi a tormentare su, senza costrutto. Gli anni di Grenoble e il caro ricordo del nonno, la montagna e il disegno, la matematica, le angherie di un padre codino, della matrigna, le lezioni gesuite, la passione per le carte, la geografia, e infine l’avventura guerresca – ancora in atto –, l’incontro col Generale, con Saliceti. Tutto d’un tratto scopriva di averne di cose, da contare, e mica cose da niente, irrilevanti. Nuda sul letto, capelli sciolti e certo più incline all’ascolto che alle confessioni, Zoraide se lo stava a sentire, tutta presa. «Parla ancora; mi piace da matti il suono della tua voce, quello che dici.» Lui altro non domandava, e con stupore si scopriva insolitamente ciarliero. L’amore è anche questo, pensava, un Grande Orecchio. Più che di Napoleone e delle battaglie, la Maga sembrava ansiosa di sapere proprio tutto del suo mestiere di ingegnere-geografo e di cartografo.

«Insomma disegni paesaggi? Che diavolo fai? T’ho sempre visto soltanto con la paperella scema, sai com’è.»

«No che non disegno paesaggi, non è questo. Lavoro sull’astrazione, sulle essenze. Della natura m’interessa semmai lo schema segreto, semmai il fantasma. La Geografia» e citava a memoria chissà qualche manuale o sussidiario, «la geografia, vedi, non attende a disegnare o dipingere la propria forma d’alcuna parte o luogo del mondo, se non quanto importa a mostrar la figura de’ suoi contorni. Per esempio in una palla o tavola di Geografia universale, o particolare, mettendo l’Italia, il Geografo la farà nei contorni di forma quasi d’una calza, o d’una gamba, con la sua coscia.»

«Bella, mi piace: una forma di gamba, con la sua coscia; una calza di seta, uno stivale…»

«Dai, non scherzare.»

«Attento: questo lo dico io, bel francesino.»

«Non sto scherzando.»


«Stavolta lo vedo da me. Ma in generale…»

«Lavoro sull’astrazione, sulle essenze.» Per non farsi trascinare via giù dalla corrente, si nascondeva dietro una regola e un metodo, una posa. Trasporti erotici e struggimenti di cuore, palpitazioni, mai confessate ombre di gelosia: doveva darsi un tono, darsi un contegno. Ma erano momenti senza pari, senza confronto, e la luce del giorno – coi suoi impegni – era solo una pausa tra due oblii. Gelide, grige, spente, stremate dall’assedio, tramortite, le strade mantovane erano sempre lì, indifferenti, scenario ormai ristretto, troppo angusto. Piazze che una volta avevano visto scambi fiorenti e giorni di mercato, carnevalate, processioni votive e parate di gala, sfilate in armi, ora intristivano semideserte e mogie nell’inverno. I vapori dai laghi, le brume del mattino, certe volte la nebbia, come una cappa, davano almeno un tono più uniforme e aggraziato a quella scena che poi i raggi del sole smascheravano in tutta la sua squallida mestizia. Intabarrato come un cospiratore illuso da operetta, Serge Victor vagava a lungo nelle vuote mattine di un Nevoso senza neve. La paperotta, ormai, oziava in camera inerte ai piedi del letto sfatto dove Zoraide continuava a dormire e a sognare – beata lei –, e anche gli zingari avevano rinunciato a esibirsi. Soltanto i ratti – topi di fogna e sorci di campagna e pantegane – si ostinavano a uscire allo scoperto ma ogni giorno era peggio, anche per loro. Pochi rifiuti e avanzi, rari scarti.

Il romanzo di Vittorio Giacopini “La mappa” (edizioni Il Saggiatore) verrà presentato – sabato 14 marzo alle 20 – all’Officina3 nell’auditorium del Parco della musica di Roma (Viale Pietro de Coubertin). Illustra l’opera, dialogando con l’autore, il critico letterario Filippo La Porta.

L’esercito di cenere

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di Matteo Moca

“Era un brutto giorno per morire”.

Così si apre L’esercito di cenere, il romanzo di José Pablo Feinmann pubblicato da SUR con la nuova traduzione di Francesca Lazzarato. E questo è uno di quei casi in cui l’incipit, se riletto a fine del romanzo, illumina tutto il testo e, retrospettivamente, lo ha già realizzato. La storia di Feinmann è una storia di morte, una morte che assume ogni volta una sembianza diversa ma che si presenta vivida in ogni istante della vita dei protagonisti. Diversi tra loro moriranno, ma non è solo questo, si tratta di un presentimento di morte che si respira, un senso di sofferenza che si dilata tra tutti gli interstizi delle pagine, come un veleno che si vaporizza e si espande, divenendo inarrestabile (le parole del tenente Quesada sono un triste manifesto: “L’ho ucciso perché era un vecchio arrogante e vile” oppure “L’ho ucciso perché mi annoiavo” o, ancora, “Il mio destino aveva bisogno di una morte”).

Nel 1828, duecento soldati guidati dal misterioso colonnello Andrade, cavalcano in mezzo al deserto, sconvolti dal caldo insopportabile, dalla marcia forzata e dalle tempeste. L’ordine di partire è arrivato dalla Buenos Aires messa in subbuglio dalla morte del governatore Dorrego; le nuove forze (salite al potere, ricordiamolo, attraverso un’uccisione) credono che per governare lo stato sia necessario sconfiggere la barbarie, impersonata dal metafisico nemico Angel Medina, demonio più temibile di tutto il deserto, che da servitore dello stato si è trasformato in brigante, ladro di bestiame e saccheggiatore di villaggi. Eppure il nemico è molto altro, tant’è che non appare mai se non in una notte senza luna: è il simbolo di un male informe che necessita di essere allontanato per sempre. La marcia capeggiata dal colonnello Andrade (e guidata da un personaggio meravigliosamente creato da Feinmann, il cercatore Baigorria, bussola umana nel deserto, sconfitto anch’esso dall’incertezza del nemico e dall’impossibilità di seguire le sue tracce) diventa un corteo funebre, un Esodo senza una direzione ma, laddove nel testo biblico si fuggiva dalle violenze del Faraone egizio in cerca della terra promessa, qua si muove da un luogo relativamente sicuro (il forte nel deserto) verso la morte, guidati da un Mosè al contrario che non risparmia neanche i suoi uomini.

E la morte e la violenza esplodono nel passaggio da una fattoria recentemente devastata dalle truppe del nemico: “L’odore della devastazione copre ogni cosa. Il nemico lascia solo putredine al suo passaggio. […] Appesi agli alberi, impiccati, apparvero i primi corpi. C’erano più cadaveri che alberi, anche perché gli alberi non erano molti. […] Era così perché in quel deserto niente cresceva con facilità. A parte i morti che pendevano dagli alberi come una fioritura mostruosa, pestilenziale”. In questa devastazione fa la sua apparizione una bambina costretta dagli uomini di Medina ad assistere al massacro della sua famiglia e lasciata viva perché questa paura possa continuare a vivere; muta per lo spavento, il colonnello Andrade deciderà di prenderla con sé facendone la sua confidente afasica ma appassionata, a cui apre il cuore con candore quasi infantile. Ribattezzata Armida, come la maga musulmana bellissima e migliore fra tutte, diviene emblema dell’intelligenza, testimoniando la speranza che la devastazione e la barbarie non riusciranno ad eliminare tutto, che un fondo di civiltà rimarrà sempre. Tuttavia nel fatidico incontro con le truppe di Medina anche lei perirà, dando il colpo di grazia al colonnello Andrade già uscito di senno a causa della marcia infinita. In questo scontro rarefatto e trascendente, a sfidarsi non sono solo due eserciti ma l’inumano e la civiltà o meglio i barbari e chi i barbari li vuole far fuori. Il vero cortocircuito epistemologico (che sta poi alla base anche del sentimento contro la guerra in generale, che traspira dalle pagine del romanzo) è che qui l’inciviltà e la violenza vengono combattute con le loro stesse armi, cioè con la guerra. Questa tautologia colpisce più di chiunque altro il colonnello Andrade che, partito per la sua missione, è il primo ad avvertire la vanità di questa dialettica, rimanendone irreversibilmente colpito.

Qui sta anche il significato dell’operazione quasi microstorica di Feinmann: parlando di questo inseguimento e di questa lotta marginale a tutto quello che succede nella capitale argentina, illumina il grande dramma sudamericano, consegnandogli nuova luce e nuova interpretazione (non è secondario il fatto che Feinmann sia editorialista politico per il quotidiano di Buenos Aries Pagina/12).

Lavorando un po’ per comparazione sono almeno tre i testi che vengono in mente come antecedenti o semplici spunti per questo romanzo: due di questi (Il deserto dei tartari di Dino Buzzati e Moby Dick di Herman Melville) sono esplicitamente nominati dallo stesso Feinmann nella felice nota dell’autore in coda al romanzo, l’altro, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, invece è frutto di un accostamento personale). Per quanto riguarda il romanzo di Buzzati, l’accostamento appare immediato anche se, come sottolinea Feinmann, con una differenza fondamentale. Laddove i soldati del sottotenente Giovanni Drogo sono gettati nel buco nero del nulla da un’attesa e una staticità che non culmina mai nell’avvenimento che aspettano, qua la truppa di Andrade agisce, insegue questo nemico da sterminare che però non appare mai. Più pregnante invece il confronto con il capolavoro di Melville, potendo ricreare in tutto e per tutto la quadrangolazione che vive nel romanzo dell’imprendibile balena: il colonnello Andrade è chiaramente paragonabile al capitano Achab, guida della folle impresa di cattura, entrambi rosi dalla “idea incurabile” della sconfitta del nemico; il tenente Quesada è un novello Ismaele, narratore di questa lotta; il deserto metafisico privo di qualsiasi riferimento è il titanico mare che solca la nave Pequod; e il male assoluto, quello che si cerca in ogni modo di combattere (umanizzato nella figura di Angel Medina) è la demonica balena bianca, colei che, nel disegno di Melville, si vede sempre trionfante.

E poi c’è l’ambientazione in sé, sospesa tra il western e le atmosfere da romanzo d’avventura, permeata però da un senso di trascendenza che rende inafferrabile la geografia del luogo o quantomeno impedisce di disegnare confini netti alle dune del deserto, alle mura dei fortini e ai vicoli di Buenos Aires. Questo viaggio/vagabondaggio è il nucleo anche dell’opera di McCarthy, dove i cacciatori di scalpi guidati dal capitano Glanton si muovono allo stremo delle forze tra paesaggi torridi e desolati al confine tra Stati Uniti e Messico: “Cavalcarono e cavalcarono, e a est il sole accese pallide strisce di luce, poi una colata più marcata di un colore come di sangue che mandò verso l’alto raggi improvvisi allargandosi sulla pianura, e là dove la terra defluiva nel cielo, ai margini del creato, il sole spuntò dal nulla come la testa di un grande fallo rosso fino a uscire completamente dal bordo invisibile per accovacciarsi alle loro spalle, pulsante e ostile”.

Sembra di rivedere i paesaggi di Feinmann, la truppa del colonnello, sembra di vedere, anche qua, la trasposizione violenta del male dentro la natura e il sempre vano inseguimento della civiltà da parte dell’uomo.

Al parco

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di Elisabetta Scantamburlo

al parco

Avevo una cotta per Gabriele, il ragazzo dai capelli rossi della classe vicina alla mia. Anche Valentina, mia compagna di classe, aveva una cotta per lui. Nessuna di noi due lo ammetteva, ma entrambe lo sapevamo. Quel pomeriggio di inizio maggio le nostre due classi avevano organizzato un incontro di pallavolo al parco. Ecco l’occasione per parlargli, per ridere insieme, per piacergli. L’occasione per capire chi di noi due avrebbe avuto la meglio alla resa dei conti. Avevo messo la maglietta più carina, il pantaloncino corto, ma non troppo, avevo fatto la coda di cavallo che mi stava tanto bene, diceva la mamma, e che non portai più. Ero pronta a volare al parco, già la porta di casa alle mie spalle. Se esci ti porti tuo fratello. La voce di mamma. Non feci in tempo a dire ‘a’. Alla mia espressione sconsolatamente ribelle, mia madre rispose con il suo solito sguardo deciso e risoluto, un verdetto senza possibilità di appello. Affrettavo il passo verso il parco, la coda che sbatteva a destra e sinistra, trascinando per la mano il mio fratellino.
Il parco era più verde del solito, l’estate sembrava appena esplosa, in anticipo. I rami alti e imbottiti di foglie erano un muro soffice che separava all’improvviso la città di macchine e palazzi da una tavolozza fatta di verdi di tutte le tonalità, che diventava di volta in volta per i suoi piccoli visitatori una savana per la caccia, una foresta selvaggia che nascondeva tesori da svelare, una palude da cui i pirati erano fuggiti abbandonando una barca. Bambini giocavano a rincorrersi, mentre le mamme sedute parlottavano accavallando le gambe sulle panchine verdi. Altri bambini salivano e scendevano dal trenino, coppiette contavano i fili d’erba, adulti solitari correvano per i viali, il solito vecchio del chioschetto vendeva gelati e bibite fresche. Tutto era sempre lo stesso, una girandola di colori, un ciclo di vita che proseguiva identico a se stesso e che dava sicurezza. Vicino al chiosco stavano i miei compagni. Tra tutti, eccola la testa di lui, spiccava come se illuminata dall’alto, di un rosso bellissimo. Lei invece, Valentina, non c’è ancora. Non potevo perdere l’occasione e mi avvicinai con la timida speranza di potergli parlare. Mio fratello mi tirava il braccio, voleva salire sulle giostre. I giochi per bambini si trovavano dall’altro lato del chiosco, non così vicini, ma facilmente visibili. Gli dissi di sì, che poteva andare, e di stare attento. Poi mi giro. E poi lui che mi chiede se è mio fratello. E noi che iniziamo a parlare e forse io che arrossisco un po’ all’inizio. E io che più per l’imbarazzo che per la responsabilità mi giro alla terza parola, verso il fratello che corre verso le giostre. Poi alla decima. E mio fratello è sull’altalena. Poi non mi giro più per non so quante parole. La girandola di verdi, profumi di fiori e pollini, di brezze leggere, è entrata nella mia testa. Volano farfalle e sbattono foglie di tutti i colori, le voci intorno diventano un sottofondo lontano. Lontano.

All’improvviso mi ricordai che anche mio fratello era diventato lontano. Mi girai sicura di vederlo dove l’avevo visto l’ultima volta, sulle scale dello scivolo o sull’altalena a farsi spingere da quella bambina dai capelli lunghi, per rivoltarmi subito verso il volto che mi incantava. E, poi mi rigirai di scatto, perché no, mio fratello non era né sullo scivolo né sull’altalena. Mi voltai di nuovo immediatamente, cercando la sua piccola sagoma sugli altri giochi. Nemmeno. La mia testa come una piccola trottola che andava su e giù, all’improvviso si fermò immobile. Le altalene, le corde, gli scivoli diventavano sempre più grandi. Non mi ero accorta che stavo correndo verso di loro. Così, all’improvviso, senza dire niente mi ero lanciata lì. Non era possibile. Mio fratello non era lì, su nessuno dei giochi, né nello spiazzo che li conteneva, né girandomi tutto attorno sull’erba che circondava l’area e che si espandeva per tutto il parco. C’erano ancora dei bambini, non più la bambina dai capelli lunghi. Chiesi a tutti, nessuno sembrava avere notato la sua presenza e quindi nemmeno la sua assenza. Il parco divenne in un attimo un deserto arido e sconfinato che non sapeva darmi appigli, suggerimenti sul dove guardare, dove correre, dove cercare, dove urlare. Perché l’avrei trovato, sì ne ero certa, non poteva che essere che così, ma avevo tanta voglia di urlare il suo nome. Di urlare e basta. Il ragazzo dai capelli rossi, gli amici, non esistevano più. Ero in un deserto verde in cui esistevo solo io e la mancanza di mio fratello. La mamma. Cosa avrebbe detto la mamma. Cosa avrei detto alla mamma. No, l’avrei trovato. Stava sicuramente giocando e voleva farmi uno scherzo. Che mi stava spaventando a morte. Perché lo chiamavo. Lo chiamavo ancora e ancora, ma non c’era risposta. Le voci dei bambini che incredibilmente continuavano a giocare come se il mondo fosse rimasto lo stesso, diventavano un amalgama indistinto di suoni, lontano. Una parola. Una parola usciva distinta e sembrava essere la sua voce. Mi giravo verso la direzione da cui proveniva e sulle macchinine che giravano in tondo tante piccole teste vorticavano ridendo, tutte differenti e tutte uguali, perché nessuna di loro era la testa di mio fratello. Iniziai a correre. Il prato verde dove il sole giocava con l’ombra sfumò presto in un bosco buio, dove alberi antichi insinuavano le loro grosse radici nella terra come mani che nascondono nel fango. Il laghetto che celavano era uno specchio scuro che tratteneva il fiato. Il riflesso sulla superficie densa era più reale del reale. Avrei voluto tuffarmi per cercare lì dentro. Ripresi fiato e corsi ancora su per i gradini di roccia. Un odore di cantina, di vecchio, mi avvolse, come se fossi entrata, eroina coraggiosa, in un antro mai esplorato, per salvare il mio fratellino dalla strega cattiva.

Ma non era una favola. E nemmeno un brutto sogno. Avevo perso mio fratello. Ma come si può perdere una persona? Si perdono le chiavi, gli occhiali, ma una persona, che respira, parla, vive? Era assurdo. Sempre di più nella mia mente si concretizzava la sensazione dura e amara: avevo perso la vita di mio fratello. La mia testa, i miei occhi velocissimi, frugavano tra i rami e nei sentieri che si aprivano, incrociavano, sparivano nel verde sempre più scuro. Tra i sassi delle rocce, le conchiglie imprigionate sembravano palpebre chiuse. Di mio fratello. E invece no. Più in alto l’ombra di un profilo. Eccolo. Nemmeno. Era il busto di un qualche personaggio storico che ignorava il mio sguardo con antica alterigia. Acqua, sembrava dirmi. Correvo, e i miei occhi più veloci di me, davanti a me, e le mani che cercavano di acchiappare l’aria, non so se nella speranza di correre più veloce o di stringere quello che cercavo.

Mi riavvicinai al prato dove prima si trovavano i miei amici. Erano spariti. Quanto tempo era passato? Anche le mamme non c’erano più. Solo qualche vecchio con un cane a passeggio. Il silenzio aveva preso il posto di quel coro lontano di vocine sottili, ma faceva molto più baccano nelle mie orecchie. Una sottile brezza muoveva le foglie degli alberi. Mi infastidiva, mi impediva di sentire la sua voce, se per caso mi stava chiamando. Il chiosco aveva chiuso, ma fuori era rimasto il cartello con la lista dei panini. Mi parve di leggere il suo nome in quell’elenco. Mi guardai attorno, immobile. Ogni minimo rumore, ogni piccolo movimento mi urtava dolorosamente, perché non era suo. Mentre io sprofondavo in un verde che diventava sempre più cupo, mi resi conto per davvero che non stava giocando. Mio fratello era sparito. Nella mia mente tutti i perché, i dove, i come prendevano forma senza diventare parole. Tutte le paure si concretizzarono in un mal di pancia acuto, che da allora mi stringe lo stomaco ogni volta che entro in un parco.

Miti Moderni/9: strade

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Luigi Ghirri, Bologna - Tangenziale
Luigi Ghirri, Bologna - Tangenziale
Luigi Ghirri, Bologna – Tangenziale

di Francesca Fiorletta

andare per le strade, a sbattere. i viali illuminati nella notte, stretti e lunghi, le rotaie accese, larghe,  i lampioni blu, come stormi di primavera. le conifere ai lati delimitano un percorso che non conosci, ancora. segnano un perimetro di ingordigia, il metabolismo è lento, la digestione prima di andare a dormire, l’ingestione di amminoacidi complessi va tenuta sotto controllo, medico. 

les nouveaux réalistes: Agnese Azzarelli

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Figure della stasi

di

Agnese Azzarelli

 

 

I

L’interno dell’appartamento nel quale venni ricevuto mi parve, ad una prima occhiata, spazio funzionale, emancipato dalle antiche costrizioni: tavolo ribaltabile, scaffalature ed elementi componibili. Spazio ritmato d’una sua logica combinatoria, ove i colori pastello si alternavano al bianco fumo e alle stampe d’autore.

Le Cirque di Seurat… obiettività intellettualistica e purezza formale… Scivolò, d’un tratto, lo sguardo, seguendo la rutilante corsa del cavallo e si abbandonò, stanco, all’atmosfera rarefatta di Une baignade à Asnières. Avrei avuto a che fare con uomo raffinato, non semplice fruitore, né proprietario d’ambiente, ma suo attivo informatore.

“Prego, si accomodi dove meglio crede”.

Il lessico ambiguo dello psicanalista andò ad intaccare il sapiente calcolo che trapelava dalla disposizione degli elementi della sua sala d’attesa. Assunsi, tuttavia, con la volontà di non destabilizzare l’uditorio, gli elementi propri di un setting psicoanalitico, compreso il mio posizionamento su di una scomodissima chaise longue.

Un crittogramma alquanto complesso mi si parava innanzi. Al suo centro l’opera omnia di Sigmund Freud. Alla sua sinistra, incassata nella libreria, una riproduzione fedele di Las Meninas di Velázquez, segno che il sistema di segni era edificato su più livelli e invero prevedeva anche un meta-discorso su se stesso. Alla destra del padre, una minuscola scacchiera color avorio… forse…ma sì – pensai – la chiave d’accesso all’intero sistema.

Mi concentrai sulla scacchiera. Il lessico ambiguo dell’analista mi aveva, nondimeno, concesso d’esser io stesso a dare inizio ai giochi. Quale pedina muovere per prima? Avrei scomodato la sorella! Le relazioni familiari avrebbero rassicurato l’uditorio, invitandolo a procedere indisturbato sul suo proprio terreno.

Ed è così che io e il mio medico curante prendemmo a parlare della mia situazione familiare, situazione tipica, per quanto estranea al problema che mi affliggeva. Madre apprensiva, padre pressoché assente, etc., etc… fino al termine della nostra prima seduta.

Si voltò per aprire la porta dello studio e così congedarmi.

Mi ritrovai, in men di un batter di ciglia, in via Taldeitali, curvo, furtivo, tornai presto ai pensieri che affollavano quelle mie giornate.

Sarebbe stato alquanto arduo persuadere il medico prescelto a considerare emblematica del mio caso la relazione tra Achille e la tartaruga. Zenone e il suo maestro…l’origine dei mali del mondo… e non tanto Eva, come certa misoginia tenta da secoli di dimostrare. Ingenerato e incorruttibile, omogeneo, atemporale, indivisibile e continuo, da ultimo senza fine… che possa andarsene al diavolo l’essere parmenideo! Ciò che più mi tormentava era l’impossibilità di confutarne l’immobilità, ché, una volta ammessa questa eventualità, ogni pensiero ne risultava minato, vacante nell’immensità dischiusasi tra la testuggine e il pelide.

I giorni passavano e anch’io mi feci vincere da una certa disponibilità del medico curante, dichiarando di amare infinitamente la Signorina Y, donna irraggiungibile e che in me altro non creava se non una situazione di stallo, di imbarazzo. Situazione che regolarmente si ripresentava ogniqualvolta l’analista provasse ad entrare nel merito di ciò che poteva esserne stata l’origine, la causa.

Fu così che il medico medico, con la convinzione di esser lui stesso l’artefice di cotanta concezione, venne indotto a pensare che obiettivo non sarebbe stato tanto il raggiungimento dell’irraggiungibile Signorina Y, quanto la creazione di un primo movimento del suo assistito, paralizzato e compreso in una situazione d’inamovibilità.

Gli suggerii uno scambio di posti, convincendolo del fatto che, in tale modo, altro non sarebbe sancita se non la responsabilità dell’assistito nei confronti di se stesso, artefice in ultima istanza della sua guarigione. Le mie parole piacquero al medico curante che, in un primo tempo, intravide in questo capovolgimento di termini, un segno positivo, niente altro che l’inizio di un movimento da parte mia.

Ma ciò a cui l’analista sembrò non badare fu che la destrutturazione del setting terapeutico indusse nelle parti coinvolte un inevitabile capovolgimento di ruoli. Il medico prese a parlare ed io, costretto fino ad ora in una scomoda chaise longue, presi ad annotare le sue osservazioni comodamente seduto su di un’ampia poltrona in pelle.

Ci rivedemmo il tal giorno alla tal ora, secondo l’abituale scansione dei nostri incontri. Esordì l’imputato, domandandomi di poter riavere il suo adorato block notes, strumento indispensabile per il suo quotidiano lavoro. Acconsentii alla richiesta ed ecco ciò che il medico annotò sulle pagine sgualcite del taccuino comune:

spirale

 

Una spirale aurea che non poté non impressionarmi. Gli chiesi spiegazioni.

“Ebbene – fece questi – immagini di essere la X”.

La posizione del medico curante si chiarì in seguito. Data la necessità d’avviare un movimento in X, sarebbe ricorso ad un’operazione. Avrebbe operato su di una relazione precedente al nostro incontro, relazione passata a cui lui imputava le mie inibizioni. In tale modo, io sarei, secondo quanto prefigurato dal disegno riportato sul block notes, riuscito a raggiungere la Signorina Y.

La spirale disegnata dall’analista mi aveva persuaso. Invero, un disegno spiraliforme richiedeva un ripetuto riavvolgimento su se stesso e un progressivo movimento retrocedente. Non ero sicuro d’esser pronto a ripercorrere la catena causale che mi precedeva, temevo d’essere il prodotto di tale catena; ma, d’altronde, questa pareva, al momento, l’unica possibilità di procedere innanzi.

Strana cosa: avrei dovuto camminare pian piano in una direzione per poter poi trovarmi, d’un colpo, dalla parte opposta. Mi trovavo ad essere nient’altro che il doppio di me stesso.

E così, mentre rimuginavo su questa mia nuova condizione, incontrai, senza averlo preventivato, la Signorina Y, ché questa esiste davvero. Carnagione chiara, chioma raccolta d’un biondo discreto ed occhi vispi, sinceri, forme sinuose, gesticolare vivace e risposta sempre pronta, tagliente. La invitai a prendere quello che sarebbe stato il nostro primo caffè, ma questa non ne volle affatto sapere e avanzò, immersa in chissà quali pensieri, nella direzione opposta, dichiarando d’esser intenta a compiere chissà quali misteriose commissioni.

Da quel giorno precipitai in una tal confusione, ché forse ella si era accompagnata nientemeno che al mio alter ego. Geloso di questi, avrei punto riferito il tutto al mio compagno di disavventure, il caro e fidato analista, residente in via Taldeitali, numero civico 32. Ma la cosa bizzarra fu che quegli che credevo essere un amico, altro non fece se non interessarsi alle avventure e prodezze del mio alter ego.

 

II

 

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Volantini e manifesti invasero la città recando un invito. “Questa sera al varieté quattro uomini senza volto non ci saranno”.

La platea si assiepò ai lati del palcoscenico su cui sedeva un uomo in bombetta i cui arti parevano esser retti dai fili d’un burattinaio invisibile. Un secondo uomo si scaraventò al limitare della ribalta, tenendo con la mano destra la propria bombetta. Una voce dall’alto: “Hai mai pensato di non essere uno?” Ed ecco che l’uomo tornò a nascondersi dietro le quinte, ma il cappello non ne volle sapere di accompagnarlo. Un terzo uomo sedeva in proscenio tenendo tra le mani le fila della propria bombetta. Un quarto uomo, semplicemente, mancava all’appello.

Avrebbero spaccato il cappello in quattro! Dovevano necessariamente poter disporre di un principio a partire dal quale i loro attori avrebbero potuto muoversi e pervenire, secondo un logico sviluppo, ad una conclusione.

Il drammaturgo ebbe per un attimo l’impressione che la loro scelta di chiamare l’amico filosofo potesse concludersi in un nulla di fatto. Sarebbe ricorso a Godot! Afferrò il bavero di un attore, “Si mette in scena Godot!” gli disse e questi non fece in tempo a raccapezzarsi che venne scaraventato alla ribalta. L’attore non trovò nulla di meglio che esordire con un “…Godot dice che…”. Cercava evidentemente di riportare alla memoria il significato e le linee essenziali del testo, ma immediatamente si rese conto della gaffe a cui si era reso soggetto e non trovò nulla di meglio che concludere in un passaggio dalla terza persona in una prima persona singolare “Salve sono io Godot”.

Si sarebbe messo in scena l’Edipo! Tutto sarebbe andato per il meglio se non che l’attore protagonista dimenticò la parte assegnatagli, invitando un secondo attore a mutare i propri costumi in quelli di Edipo, nella speranza di suggerire negli spettatori uno scambio di ruoli e poter quindi condurre a termine la rappresentazione. A non comprendere lo scambio fu l’attore protagonista. La scena si concluse in un confronto tra Edipo e il suo doppio.

Data la complessità del pervenire ad un principio, avrebbero preso le mosse dalla conclusione. La conclusione avrebbe indossato i costumi di un principio e quell’esausta serata, rintanata in un varieté a cui si poteva riconoscere il possesso di una discreta mole di testi tragici, non riuscì ad offrire nulla di meglio che una fine epigonale, che avrebbe mantenuto una sua continuità con la gaffe dell’Edipo, evitando così una netta rottura con un primo tempo dallo sfortunato insuccesso.

 

 III

 

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Ad incrociarsi, dando o meno origine ad un punto, erano sempre e solo traiettorie. Ella amava scrutare con i propri occhi le linee disegnate dal percorso dei passanti e abbandonarle laddove fuoriuscivano dal proprio campo d’osservazione; ricercava una scienza capace di predire le inclinazioni e forme che queste traiettorie avrebbero assunto, la loro origine e destinazione.

Arzigogolate, volubili o tenacemente regolari queste traiettorie appartenevano ai volti più imprevedibili che avevano attraversato quella piazza, inconsapevoli a riguardo del mistero che l’attanagliava, o semplicemente assorti in altri pensieri, come quegli uomini in bombetta e giacca scura, che ella a stento distingueva l’uno dall’altro. C’era chi con un biglietto di sola andata era partito, salendo sulla piccola locomotiva a vapore; c’era chi aveva calcato il proscenio del quadro, c’era chi ancora s’era soffermato dinnanzi alle bellezze di Arianna.

Nascosta dietro il simulacro della fanciulla dormiente, alle solite ore diciannove di una tiepida sera di settembre, giacché dove ella viveva il sole sempre tramontava su di una tiepida sera di settembre del 1964, ella ebbe modo di osservare uno stormo di rondini che aveva affollato quello spazio solitamente desolato. Un intrecciarsi di linee e volute, ellissi e ricadute verso il basso riempirono quella sera il cielo di punti, di quelli che erano soliti disegnare solo gli innamorati, i quali si incontravano per poi riprendere ognuno il proprio viaggio, nonostante le loro traiettorie avessero subito un mutamento indelebile. Pochi erano gli uomini e le donne che ancora osavano innamorarsi in quella pubblica piazza ed ella aveva imparato a riconoscerli, distinguendoli tra la folla. Tutti uguali e al contempo così diversi, malinconici ed esuberanti, assorti nelle più falotiche architetture e chimere. Quella sera le rondini, terminata la loro danza, si unirono in un unico fascio e ripresero il loro volo innalzandosi al di sopra della torre. Forse anche gli innamorati avrebbero condiviso un uguale destino, ricongiungendosi al limitare di quella zona d’ombra oltre la quale la propria vista si affievoliva e le traiettorie scomparivano immancabilmente.

Un giorno ella sentì dire da due uomini in giacca scura e bombetta che un loro pari si era soffermato a lungo dinnanzi alla visione dell’Orizzonte, per poi attraversare la piazza, di corsa, nascondendosi allo sguardo di Arianna. Prova ne era una traccia lasciata sul suo cammino. Da allora quei due bizzarri individui, immobili dinnanzi alla cornice d’un quadro, discutevano su come fosse stato possibile per l’uomo attraversare la piazza, senza lasciarsi irretire dalla visione dell’Orizzonte. Ella immaginava che questo misterioso individuo fosse riuscito a racchiudere la visione che aveva avuto in una campana di vetro, di quelle che scuoti perché scenda la neve, di quelle che vedi vendere nelle maggiori piazze d’Italia come souvenir a turisti di ogni colore e paese.

Arianna dormiente, dacché ricordava, se ne era sempre stata lì, immobile anch’ella, in attesa. Invece lei da quella piazza sarebbe voluta fuggire. Costretta nel perimetro di una cornice, la piccola donna nascosta tra le pieghe di un quadro, avrebbe presto intrapreso il suo viaggio. Voleva verificare se realmente le linee che ella aveva visto passare condividessero un destino comune. Voleva essere una di quelle linee. Voleva anche solo sottrarsi a quel quadro che impudicamente si offriva agli occhi dello spettatore e così decise di trovare quell’uomo che da lì era passato, lasciando una traccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La caduta

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diogom

di Gianni Biondillo

Diogo Mainardi, La caduta, Einaudi, 2013, 155 pagine, traduzione di Tiziano Scarpa

Mai come in questi anni, proprio quando barbuti professoroni dichiarano la definitiva morte del padre, c’è un florilegio di romanzi che trattano il tema della paternità. Sta quasi diventando una moda. Poi fortunatamente ci sono libri di una bellezza rara, che ti rimettono in pace con le letture, come La caduta, storia vera di Tito, un bambino che per colpa di uno sprezzante e tragico errore medico nasce afflitto da una paralisi cerebrale. A raccontarla è Diogo Mainardi, il padre.

Di fronte alla disabilità del figlio Mainardi, colto da terrore panico, riorganizza la sua esistenza, diventando, negli anni, una sorta di sacerdote del culto filiale. Tito è un Dio generoso e bizzarro, puro e disarmante. Tutto, la vita quotidiana, il lavoro, gli affetti domestici, ma persino la Storia dell’intera umanità, ruota attorno alla storia di Tito. Il padre, grazie alla diversità del figlio, al suo continuo metterlo alla prova, ricostruisce la propria visione del mondo e delle sue priorità. Legge i gesti, i sorrisi, le continue cadute di Tito come un aruspice che interpreta l’oracolo volto a svelargli i misteri oltre-umani.

La caduta non è un romanzo, non è autofiction, nega la prosa memorialistica. È scritto per punti, per illuminazioni, per aforismi. Cita artisti e filosofi, mostra opere d’arte e foto private, collega tragedie a commedie, i fatti personali a quelli collettivi. La verità e la vita sono così potenti che ogni espediente è lecito. La scrittura di Mainardi – leopardianamente – assomiglia a quella di una fiaba morale. Libro colto, scritto con una lingua semplice, diretta, senza sconti, furberie o patetismi; in certi momenti al limite del comico. Eppure di una profondità etica e di una qualità letteraria unica.

Vedere le cose del mondo attraverso il precario equilibrio di Tito è comprendere come l’umanità stessa sia altrettanto precaria, sempre ad un passo dalla caduta. Sempre pronta, però, a rialzarsi. Come Tito, Dio vivente dell’eccentricità delle cose.

(pubblicato precedentemente su Cooperazione, n°13  del 25 marzo 2014)

ditemi dov’è morta la giacca

0

di Giacomo Sartori

avevo anch’io una giacca

nera con il collo cinese

sento ancora l’odore di treno

sul burro del velluto

le notti diafane di neve

dove sarà andata adesso

io non butto mai niente

La cognizione dello spazio

1

di Mariangela Guatteri

Non è sufficiente dire: “io non sono il corpo”. Bisogna anche realizzarlo. Non è così semplice. Bisogna non essere in preda al delirio.

L’universo è diviso in tre sistemi planetari, quello superiore, quello intermedio, quello inferiore. La Terra fa parte del sistema intermedio. Anche gli altri pianeti dell’universo sono popolati da innumerevoli esseri viventi; sulla Terra non esiste alcun luogo privo di esseri viventi. In profondità nel terreno ci sono i vermi, nell’acqua ci sono gli animali acquatici, nel cielo ci sono gli uccelli.

Tutti sono intrappolati.

Si potrebbe usare la propria energia in modo da ottenere un corpo che permetta di entrare nel pianeta.

Al momento della morte bisogna staccare gli occhi dalla contemplazione degli oggetti, e impegnare le orecchie ad ascoltare la vibrazione.
Se la mente è turbolenta, va fissata e il respiro condotto alla sommità del capo. Si può raggiungere la perfezione.
A questo stadio si decide dove andare. Esistono innumerevoli pianeti.
Si hanno informazioni dell’esistenza di questi luoghi attraverso la letteratura.
Se per esempio si vuole andare in America, ci si può fare qualche idea di questo paese leggendo i relativi opuscoli.
Se si conoscono tutte le descrizioni che i testi contengono, ci si può trasferire secondo il proprio desiderio su qualsiasi pianeta.
Il viaggio con mezzi meccanici non è il metodo riconosciuto.

 

*

 

I piedi sono provati dai sassi, dalle ardesie sonore e dalle spugne spinose.
I punti d’acqua segnano la traccia delle piste. Si circola di pozzo in pozzo.

La distanza tra due fonti d’acqua va da zero a seicento chilometri.

Un recinto di frecce attorno ad un arciere concretizza la capacità del suo arco.

Una campana d’alluminio di 25 Kg posta su una base di un porto nella Tierra del Fuego appare e scompare ogni 12 ore a causa della marea.

Una proprietà pubblica viene definita come “area pubblica di transito”. Questa definizione si riferisce al deserto. L’area esterna è il deserto e il movimento all’interno è un’azione di peregrinazione che culmina con l’appropriazione di un luogo.

trenta porte formate da pali di metallo con una canna da pesca tesa tra i due, posti tra mura e recinto. Un confine continuo all’interno.

Una proprietà privata viene definita come “zona delimitata”, circondata da partizioni alte non meno di 4,5 metri o delimitata da un fossato profondo 4,5 metri e largo 2.

I suoni della foresta, della pioggia, delle attività degli uomini, i versi degli animali.

La Terra resta lontana. La parola “luogo” non è ancora stata definita. Una serie di regole definisce luoghi e regni.
Un ampio trattato sulla parola “luogo”.

 

*

L’Art d’exposer. Carlo Scarpa museografo

0

di Enrico Camporesi

 

Alla Biennale di Venezia del 2003, Gabriel Orozco presenta la scultura Shade Between Rings of Air. Si tratta di una replica 1:1 della pensilina preparata nel 1951 da Carlo Scarpa per il padiglione centrale dei giardini, nel cortile interno aperto nel tentativo di sopperire alla ventilazione insufficiente delle sale. Secondo Alberto Viani, che nel 1951 si astenne dall’esporre le sue sculture in tale spazio, la forza plastica e « l’esito poetico » della pensilina erano giustamente paragonabili a un’opera scultorea, e quindi inutilizzabili come spazio di esposizione. Orozco non fece che additare tale presenza, iscrivendo, per mezzo della copia, un elemento architetturale nello spazio di esposizione adiacente, in una sorta di divertito gioco di specchi (nel quale il modello mantiene le stesse proporzioni della copia, la quale è a sua volta concepita come “il modello” dell’originale).

In un gesto teorico che replica idealmente la pratica artistica di Orozco, lo storico dell’architettura Philippe Duboÿ ha approntato per i tipi di JRP Ringier – La Maison Rouge un’antologia intitolata Carlo Scarpa. L’Art d’exposer. Nel volume l’autore raccoglie i minuti interventi scritti di Scarpa, e più precisamente quelli dedicati al suo lavoro di museografo, accompagnandoli e mettendoli in dialogo con commenti, riflessioni, critiche e apprezzamenti di altra provenienza. La traiettoria è chiara: Duboÿ invita a leggere l’opera di Scarpa, ovvero, come richiama puntualmente il titolo, un’arte di esporre. Tale arte, che presume dunque di mettere in valore una produzione artistica, viene a sua volta esposta come tale – così come la pensilina della Biennale veniva investita di un altro valore tramite lo spostamento nella sala del padiglione centrale. Le realizzazioni commentate da Duboÿ coinvolgono due musei, una decina di mostre, e un incontro con Marcel Duchamp. L’andamento è cronologico e parte da un testo programmatico: “Adesioni al movimento razionalista”, pubblicato su Il lavoro fascista nel 1931. L’articolo in omaggio a Piacentini, firmato da Scarpa assieme ad Aldo Folin, Guido Pelizzari, Renato Renosto e Angelo Scattolin, racchiude una preziosa dichiarazione d’intenti nelle ultime righe, che si potrebbe applicare come esergo all’opera di Scarpa (così poco prolifico nei testi): «sappiamo benissimo che, se il pubblico interroga, bisogna rispondere con delle opere, non coi manifesti». L’indicazione di metodo è chiara: è alle realizzazioni concrete di Scarpa che bisogna guardare per cogliere la sintesi del suo pensiero, che non trova numerose occorrenze nei suoi interventi scritti. Basta volgersi alle produzioni capitali di Scarpa per comprendere la traiettoria teorica dell’architetto. Si pensi per esempio alla risistemazione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, compiute fra il 1941 e il 1947 sotto la supervisione di Vittorio Moschini. Il primo gesto, radicale, è quello di abbassare il ciclo delle storie di Sant’Orsola del Carpaccio, che erano state sistemate a quasi due metri dal suolo dopo la prima guerra mondiale, in un goffo tentativo di ricostruzione ideale della “vecchia scuola”. Scarpa sceglie di posizionare i dipinti più in basso, in modo tale da renderli leggibili allo spettatore (una preoccupazione che sarà una costante del suo lavoro). Non solo: si sbarazza pure delle cornici, di provenienze eterogenee, e degli stalli che circondano le opere.

In quegli anni, estremamente produttivi, Scarpa non si cimenta solo con le collezioni storiche, ma partecipa alla realizzazione della prima Biennale del dopoguerra (1948). Il segretario generale Rodolfo Pallucchini (membro della commissione con Lionello Venturi, Nino Barbantini, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, e gli artisti Pio Semeghini, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio Morandi e Marino Marini) affida a Scarpa la disposizione di alcuni spazi centrali fra i quali la retrospettiva di Martini e quella di Carrà/De Chirico/Morandi, la sala di Paul Klee e la collezione Peggy Guggenheim nel padiglione greco. Nel salone centrale Scarpa si adopera per ottenere, scrive Duboÿ, «una vera e propria prospettiva teatrale metafisica animata dalle sculture di Arturo Martini», adattando alcuni principî scenografici desunti dalla sala “Moda e Sport” allestita da Josef Hoffmann (una delle influenze dichiarate di Scarpa) al Werkbund di Vienna del 1930. Per Klee invece Scarpa adotta una soluzione diversa, allestendo uno studiolo con i dipinti su una serie di pannelli, secondo un dinamico rapporto di sovrapposizioni. In particolare della sala si ricorda la “striscia” di opere che si dispiegano, seguendo un sapiente gioco di allineamenti, come in un nastro, la cui altezza è determinata dalla misura di L’uomo grigio e la costa (1938). Scarpa riprenderà poi l’idea, radicalizzandola, in un altro sodalizio con il curatore Pallucchini – il pannello obliquo concepito per la celeberrima mostra di Giovanni Bellini al palazzo ducale di Venezia.

Il progetto museografico di Scarpa è orientato secondo una precisa preoccupazione teorica: strappare l’opera d’arte alla pedante ricostruzione storica, e immetterla con decisione in un dialogo proficuo con il passato, senza la necessità di ricrearne le sembianze posticce. Si tratta di un’operazione comprensibile non solo iscrivendo le trovate di Scarpa nell’ambito dell’architettura razionalista ma in quell’alveo, ben più ampio, che coinvolge la storia dell’arte italiana del dopoguerra e – perché no? – anche i fondamenti teorici del restauro di Cesare Brandi. Tale è il percorso adottato nella prefazione al volume di Patricia Falguières, che avvicina Scarpa ad alcuni professionisti contemporanei (come Franco Albini, autore del supporto telescopico per la Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, presso il Palazzo Bianco di Genova) e a pensatori chiave nella teoria e nella storia dell’arte italiana coeva. In questo senso, un’affermazione giovanile di Giulio Carlo Argan

Gipsoteca canoviana di Possagno (progetto Carlo Scarpa, 1955-57)
Gipsoteca canoviana di Possagno (progetto Carlo Scarpa, 1955-57)

(1938), che ricordava come l’allestimento di un museo non fosse solo una questione di “atmosfera” ma anche «il risultato e la condizione di un progetto critico», pare l’accompagnamento ideale del lavoro di Scarpa. Lo stesso Argan continuava, ancor più esplicitamente, affermando che è possibile «paragonare la disposizione di un quadro in un museo all’edizione di un’opera poetica».

In questo senso insomma, la museografia pare fare tesoro di un precetto della filologia letteraria: l’originale è (per definizione) perduto. Il museo non è uno spazio per mimare un passato inattingibile (nessuna concessione alle Period Room) bensì il luogo ideale per iscrivere l’opera nel contemporaneo e renderne così leggibili i valori formali ed estetici. È proprio su questo punto che Falguières richiama l’attenzione del lettore nelle ultime righe della sua prefazione. Il formalismo di Scarpa prende le distanze tanto dalle soluzioni museali adottate all’incirca allo stesso periodo da Alfred Barr al MoMA, quanto dalle formulazioni moderniste di Clement Greenberg, che sfoceranno implicitamente nel White Cube, lo spazio immacolato della galleria, sprovvisto di qualunque distrazione percettiva per uno spettatore ridotto a puro occhio. Non vi è prospettiva più distante dal fare di Scarpa, che si rivendicava spesso prossimo di un certo “bizantinismo” in virtù dei suoi natali veneziani. Ora, è certo curioso ricordare che Scarpa realizzerà nella seconda metà degli anni cinquanta, proprio una sorta di White Cube che suscitò non poche controversie: la gipsoteca di Possagno. I candidi gessi di Canova vi sono presentati contro un fondo dello stesso colore – che si tratti di una parodia del cubo bianco modernista? Ma qui è la luce, e la collocazione spaziale delle opere, a fare la differenza. La scenografia di Scarpa deriva da un via forse “impura”, come sostiene Falguières – l’arredamento d’interni, ma si origina ugualmente da un sapiente studio delle opere da mettere in scena. E forse un’altra via “impura” ci consegna, di sbieco, il ritratto migliore di Scarpa: la cucina. Philippe Duboÿ ricorda che, parafrasando Brillat-Savarin («cuoco si diventa, ma rosticcere si nasce»), Carlo Scarpa soleva affermare: «museografo si diventa, ma architetto si nasce». Un altro parallelo ci pare a questo punto irresistibile. Nelle parole di Aldo Buzzi, lo scultore Arturo Martini (prossimo di Scarpa) definiva la cucina come fatto d’istinto: alcuni devono assaggiare la zuppa per sapere se è salata, ma a Martini bastava uno sguardo per capirlo. «C’è l’Artusi, e poi c’è l’inafferrabile», continuava Martini. Carlo Scarpa, il museografo bizantino amante del dettaglio, ha di fatto cercato di valorizzare proprio quell’inafferrabile che sta al di fuori dai volumi di teoria o di storia dell’arte – tale è “l’arte dell’esporre”.

Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa. L’Art d’exposer, JRP Ringier – La Maison rouge, 2014, pp. 240.

 

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA – 21 marzo a Torino

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cartolina-fronte

L’Unione Culturale Franco Antonicelli organizza le prime iniziative culturali
del progetto Liberazioni del nuovo Polo del 900

LIBERA OCCUPAZIONE POETICA
La giornata mondiale della poesia all’Unione Culturale
Sabato 21 marzo 2015
Via Cesare Battisti, 4/b – Torino
(ingresso libero e gratuito)

⇓⇓⇓

Da Versi Nuovi (2004). Terza parte

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Biagio Cepollaro,Ken-2008

di  Biagio Cepollaro

Da Nel tempo e dietro  (2001)

ma come sorriso che risale
a galla vieni da noi
dal fondo dell’onda più alta
non come pensiero

che ciò che oggi desideriamo
è uscire un poco dall’ignoranza

e per questo chiniamo la testa
e per questo chiniamo la testa

 

I (il tempo, dopo)

*

servirà a qualcuno tanto dispendio
di parole?
farà luce dove prima era solo
buio?
a cosa altrimenti e perché tanto chiacchiericcio
stampato o mandato
in onda?

niente: bisognerà non ambire
a tanto
ai tanti: lo vedi da te come è affollata
la mente
e quanto in realtà vale appunto
niente
o forse è proprio questa la truffa:
valutare… valutare ancora cosa c’è
nella mente: ancora distrazione

e allora
cosa potremmo dire alla fine
diremmo sbagliando
che si perse molto tempo

non dovremmo dire nulla: ma detto
riconquistare silenzio
come se appunto non avessimo
detto nulla
o non fossimo stati noi
a dire
ma un si dice che era
nelle cose (come secolo
di storiche utopie che possono fallire
nel sangue o in ore
di televisione o semplicemente perché
il bene viene prima
di ogni sua materiale
condizione: e noi non fummo pronti
come specie
e se terra
nacque da stella nostra bellezza
non fu pari alla ferocia: la scimmia
che ci turba non c’incalza
ci precede)

così puoi vedere la vittoria
del capitale su scala globale come scacco
dell’intera specie come difetto
greve dell’evoluzione:
forse per questo
sempre più si biologizza il male e nasce
imbarazzo nuovo nell’apparente
neutro di scienza a fronte di incerta
morale

e allora se c’è del marcio
nella scienza marcio nella morale
dove trovare il bene? È che sin dall’inizio
compimmo errore di dare
peso e consistenza
al chiasso della mente e quella volta
che le cose sembrarono risponderci
ne ricavammo universale
presunzione
fino a dire legge
di natura
una fisica locale
ed era ancora angoscia
di morire o di sentirsi
astronauta a cui si stacca
il filo
che lo tiene
alla nave
né sopra
né sotto
né davanti né dietro
solo freddo
e aria

che manca
diremo : ringraziamo ancora
per come è andata
per i nostri morti
che furono troppo
solleciti
e per i vivi che non sappiamo
ancora salvare
dalla distrazione

**

e dovremmo noi ricordarci ora
e domani
che non fummo magnanimi
col tempo
che non solo perdemmo
-non pensandoci- le albe
viste dall’aereo
sul pacifico (e lo notava
contrito via e-mail Taro Okamoto
tornando a casa)
ma anche perdemmo -indurendo troppo
spesso la faccia-
l’occasione per sentirci agli altri
uguali

è vero ci premeva ansia
di non farcela ogni mattina
allo specchio
aggiustandoci i capelli ancora
arruffati dal sonno
dovevamo presto darci contegno
ripeterci come mantra
all’incontrario
di esser abbastanza forti
per non soccombere
e portare a casa parte
che sembrava giusta
(a torto o a ragione)
di tutto il becchime
e dovremmo ricordarci ora
e domani
di chi più vecchio ci accolse
e ci dette ascolto
mentre noi già pensavamo
di essere strumenti troppo
docili
e per troppo tempo dialogammo
solo con noi stessi credendo
ragioni
due o tre ossessioni

(quelli che per strada
parlano da soli
per protesi e auricolari
fanno ad alta voce
ciò che comunque faremmo
per impulso della mente)
mente satura ed esplosiva
stanza che scoppia
e che nessun trasloco
potrà prosciugare
che resta palude e pantano
che resta fetida
nella mente
l’aria
diremo. A noi ci parve
di scegliere e decidere
ma fu lo stato
della nostra mente
e le sue macchie
a vedere o a non vedere

noi dicemmo esiste solo purezza
della mente
che ancora così chiamiamo mistero
di queste galassie che procedono lente
a fare spazio
inventando cosa
nel niente
inventando insieme cosa e niente

***

e ogni giorno
nuovo è come terrazzo
della festa il giorno
dopo. forse da questo
lasciare andare ciò
che comunque è andato
senza rincorrere voci
che non ci sono più
senza tristezza per piatti
di carta accartocciati
e per le cicche
con la stessa nube
che illumina gli occhi
anche noi partecipammo a sociale
rimozione
del dolore e della tenerezza
a noi che in antico fu affidata
memoria
fummo i primi per due righe
di giornale
a dimenticare

che non si trattava di affermare
questa o quella verità
ma di essere nel giorno
diversi
e invece al semaforo
suonammo più volte
il clacson
appena verde

e in casa fummo gelosi
degli spazi facemmo notte
e giorno ronda
intorno a nostro accampamento
a difendere tempi
e oggetti
che altrimenti avremmo dimenticato

(come solo ci riuscì in quei mezzi
abbandoni quasi umani
che nominammo ignari
vacanze)

e fummo sordi ai più vicini
e fummo ciechi all’evidenza

e mille facce ci passarono davanti
che non vedemmo

mille voci ci cercarono
che non ascoltammo

e ora tutte quelle facce e tutte quelle voci
fanno ressa davanti ai cancelli
della mente
e ora che siamo usciti
di casa lasciandola al disordine
esitanti facciamo il nostro bagno
di folla nella folla dei visi
e delle voci

la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi

e francesco via e-mail mi dice
che azione crea spazio
e penso alla danza che lo ricama
e penso a dimenticare i nomi
ai fogli bianchi sempre nuovi
e ai visi e alle voci fuori dalla stanza

e all’aria e al tempo che rimane
che il tempo che resta
non aggiunge più nulla

che questo tempo ci farà
muovere sul posto

che abbiamo fatto cose
nell’ignoranza
e ora queste cose
ci fanno sorridere

o vergognare ché queste
cose non sono più cose

ma movimenti alla cieca
e colorati accecamenti

 

****

diremo che abbiam visto
e non abbiamo visto niente che in tutta
la storia ne scorgemmo
solo quattro con certezza
di supernove e allora brillò
per due anni il Granchio e venti
giorni quella che oggi diciamo
nebulosa e Lupo e l’onda
più vicina che ancora spazza
forse iniziò nell’anno che dissi
a piero una prima poesia e veniva
da stella trenta volte più grande
del sole mentre fissavamo il fondo
del bicchiere finita la birra

disimparammo a leggere e leggemmo
solo parole

disimparammo a scrivere
e scrivemmo solo parole

disimparammo a guardare
e vietammo l’imprevisto

disimparammo ad ascoltare
e facemmo del mondo un nulla

ricordate lodi
ci fecero esultare
e come allora chiudemmo occhio
su chi lodava
(in cuor nostro
a nostra volta lo lodammo
sedendoci comodi
e terrorizzati sul divano
con nostri fantasmi)

è così banale il meccanismo
della gloria

come quello di far danaro

proprio ieri pino diceva
che chi pur avendo necessario
non si sente ricco
non gli resta
che sbattimento all’infinito
dell’accumulo
e suggeriva sorta
di pietà per questi avidi
a cui le cose
non bastano mai
come in film di woody allen
quando attore conclude
battuta in arguzia:
poverini quelli, additava, fanno sesso
ché non sanno fare arte

eppure sia pure in breve
raggio da giovani il mondo per noi
era più largo
potevamo per ore stare su scoglio
e lasciare alle mattine loro luce

(giulia chiama meraviglia
questa improvvisa slabbratura
del tessuto del mondo
che lo rivela)
e forse non era altro il segreto
di questa scena che lo starcene
in silenzio nella parte
che non conta
un pò di polvere
mista a ghiaccio
in coda
di cometa

(come ieri andando a trovare
ragazza che suona violoncello
neanche ha cominciato
che d’un tratto musica non era più
importante e l’arte in quel momento
era lenire dolore
a destino squadernato)

e questo fu forse riprendere
a guardare

e questo fu forse riaccogliere
imprevisto su altra corda
riprovando l’aria

la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi

e folata più forte
di vento scompiglia
in questo momento duna
nel deserto
ma quella
che si alza vorticosa
e quella che resta appena
smossa
è sempre la stessa
sabbia

(non sapremo mai dire
che è abbastanza)

(….)

Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004

[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri. Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]

 

Sguardi dal Novecento

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di Giacomo Verri
sguardi dal novecento(Nicola Vacca, Sguardi dal Novecento, Galaad, pp. 133, euro 13)

Gli sguardi di Nicola Vacca fanno nascere nella mia mente l’immagine di due occhi, isolati da tutto il resto, che accusano o che subiscono un’accusa, che inchiodano o che vengono inchiodati a una colpa. Sono Sguardi dal Novecento, come recita il titolo dell’ultimo volume del poeta e critico letterario di Gioia del Colle. Sono occhi di uomini in rivolta, come quelli di Albert Camus, sono finestre su pensieri complessi in cerca di continuità e di coerenza con se stessi. Sono sguardi di donne e di uomini illustri, da Alda Merini a Ennio Flaiano, da Sciascia a Calvino, da Borges a Barthes, e di altri che illustri lo sono stati di meno, a tutto nostro svantaggio (com’è il caso dell’autore di In margine a un testo implicito, Nicolás Gómez Dávila, o di Edgardo Marani). Di là dalle loro peculiarità, con finezza indagate da Vacca, ciò che li rende fratelli nella sorte è il loro ruolo di testimoni scomodi del secolo breve, di decrittatori dei totalitarismi, di scrittori, per dirla con Silone, non proprietà dello Stato ma della società.

Quelli di Vacca sono perciò sguardi di chi non ha nascosto i guasti della democrazia, né di chi dietro alle gabbie ideologiche si è trincerato, provocando quel “ritardo sullo sviluppo e sui bisogni dell’uomo contemporaneo” che oggi ancora ci fiacca. Sono piuttosto occhi fieri, quelli che ci vengono incontro, di creature che, pur braccate dalle accuse del pensiero dominante, hanno scelto “la solitudine riservata ai disturbatori e ai pensatori scomodi”. Donne dei margini, come Alda Merini, “grande visionaria”, educatrice del cuore che entrava “con l’amore per la scrittura dalla porta chiusa a chiave della follia, per spalancare finestre di celesti mutamenti sul divenire di un pensare totale”; e uomini appartati, traditori delle altrui aspettative per non diventarlo di se medesimi, ricercatori di questioni morali che fanno della poesia un mestiere quotidiano.

Kraus, Cioran, Luzi sono pensatori inattuali, bestie dell’intelletto che scagliano lontane le maschere dei dogmi, all’inseguimento, come Pessoa, di quel “vasto libro dell’inquietudine, che cerca nelle elucubrazioni dell’abisso interiore i principi dell’immortalità dell’anima” per salvarsi dal quel “disastro troppo recente” che è la modernità. Questi sguardi dal Novecento tracciano una mappa del disastro, seguendo i passi di chi ha aperto la via a salvifiche considerazioni inattuali, a quell’“altrove che bisogna frequentare per riscoprire il fascino della differenza”, fascino che è sentimento profilattico rispetto a ciò che la dittatura del benessere desidera che diventiamo: una folla innumerevole di uomini eguali (per ripetere quanto Alexis de Toqueville scriveva a proposito della democrazia in America quasi due secoli or sono), intenti a procurarci piaceri piccoli e sguaiati con i quali soddisfare il desiderio. Gli autori di Vacca, ed egli con loro, ci avvertono del pericolo di una esistenza vuota di stupore in cui vegetiamo senza vivere, in cui tocchiamo gli altri senza amarli, respirando in noi stessi e per noi stessi, ignorando che sulle nostre teste grava un potere immenso e assoluto e particolareggiato e viscido che cerca di fissarci senza revoca nelle irresponsabilità delle maschere che indossiamo.

L’invito è quindi a svelare e a svelarci, a mostrare lo sguardo di ciò che è umano, consapevoli, come scrisse Wislawa Szymborska, che “solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento”.

Paura di volare

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Si-alza-il-ventoIl proprio dovere: disciplina del lavoro in Miyazaki e Eastwood

di

Paolo Mossetti

I protagonisti di due film usciti negli ultimi anni, premiati entrambi da grande successo di pubblico e – seppur in diverso modo – di critica, ci offrono chiavi di lettura molto peculiari sul rapporto tra disciplina interiore, morale individuale e cultura del lavoro.

[Attenzione: contiene spoiler]

Si alza il vento, diretto da Hiyao Miyazaki nel 2013, è la biografia romanzata del Jiro Horikoshi, l’ingegnere che negli anni Trenta disegna il caccia Mitsubishi “Zero”, punta di diamante dell’aviazione nipponica durante il secondo conflitto mondiale. È il percorso formativo di un ragazzo di campagna che diventa genio senza mai perdere la sua pudica umanità. Jiro sogna di diventare pilota, ma la miopia glielo impedisce. Apparendogli in sonno, il conte inventore Giovanni Battista Caproni (un italiano che è esistito davvero, tra la fine dell’Ottocento e prima metà del Novecento) lo persuade a costruire aerei piuttosto che guidarli. E lui così fa: studia, si impegna, si laurea, viene ammesso in un importante studio di ingegneria. Conquista la fiducia dei suoi capi. Trova, per caso, l’amore.

Miyazaki sceglie di raccontarci la vita del protagonista soffermandosi sulle minuzie: gli strumenti di lavoro, le cicche di sigaretta spente durante lunghe nottate di lavoro, gli scorci di pianura del Giappone centrale intravisti dai vagoni popolari su cui spesso viaggia Jiro, il rumore della matita quando si posa sulle tavole. È difficile ricordare qualche dialogo degno di nota: le persone interagiscono, parlano tra loro, ma sempre con una certa riluttanza. In una scena memorabile, quando la città di Kanto viene devastata da un terremoto, Miyazaki fa muovere le masse investite dalla catastrofe in un silenzio surreale.

Anche il contesto storico non sembra sovrastare più di tanto la trama. Jiro si trova a vivere un momento cruciale per il suo Paese – è consapevole di produrre macchine che un giorno potrebbero diventare di morte – ma il suo antimilitarismo è solo lievemente accennato, la sua estraneità all’ambiente si percepisce da ciò che non dice più che dalle parole che pronuncia.

È facile riconoscere in American Sniper, il campione di incassi questo inverno, diretto da Clint Eastwoodil motivo di tante controversie politiche: il film si basa sull’autobiografia del cecchino più letale della guerra in Iraq, con almeno 160 cadaveri sulla coscienza. Il contesto in cui cresce Chris Kyle, il protagonista, è quello piatto della provincia americana: lui va a caccia col padre, che divide l’umanità tra “pecore”, “lupi” e “cani da guardia”. Un giorno assiste in tv agli attentati dell’11 settembre, sogna di vendicarsi, viene tradito dalla sua ragazza durante un rodeo e decide di arruolarsi. In Si alza il vento i toni sono più lievi, distanti dalla brutalità dell’epoca in cui si svolge la trama. La vita di Jiro sembra seguire un percorso estremamente elegante, quasi fastidioso nella sua perfezione professionale: si intravede quasi la figura dell’ “eroe” distaccato, virtuoso e nobile di cui parlava il gesuita ‪Baltasar Gracián‪ tre secoli fa. Non c’è stakanovismo nella sua ricerca ma una dedizione costante, senza lampi di follia o paranoia. Horikoshi è soltanto “Jiro”, il ragazzino timido che diventa uomo, mentre Kyle è il grilletto che spara dall’inizio alla fine, che si arruola volontario in una guerra d’invasione non dichiarata e illegittima.

È facile, da “sinistra”, schierarsi contro il grande pubblico americano, plaudente e patriottico, e odiare Kyle. Richiede invece uno sforzo molto più raffinato trovare immorale il protagonista di Miyazaki. Eppure il film, e soprattutto il suo soggetto, ha avuto non pochi detrattori: in molti nei circoli pacifisti e radical giapponesi si sono chiesti perché un autore di stampo notoriamente umanista come Miyazaki abbia scelto di raccontare, con evidente affetto, un complice della macchina di guerra, un costruttore di aerei. Può la “nobiltà” di Jiro, paragonata alla rozzezza bovina di Kyle e alla ferocia che guidava il suo ingaggio, rendercelo più simpatico, nonostante i suoi aeroplani sono stati costruiti, come sappiamo dalle testimonianze storiche, da migliaia di prigionieri di guerra cinesi e coreani?

Il lavoro è diventato nella nostra epoca l’unica religione tollerata dalla classe media impoverita, venute a mancare le ideologie novecentesche e visti con sospetto i predicatori di qualunque sagrestia, tranne quella che esalta il valore della competizione e dell’etica “da ufficio”. Quando Ulrich Beck 25 anni fa parlava di “soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche”, sembrava riferirsi con un quarto di secolo d’anticipo agli venti-trentenni lasciati soli con le loro ansie di fronte alle ingiustizie del mondo, alle quali non sembra esserci alcuna soluzione che la carità dei Vip, la solidarietà “online”, il ricorso a formule inspirational – come direbbero in America – che si possono riassumere tutte con un “fa il tuo dovere, sii buono, e verrà il tuo turno”.

Eppure è difficile non restare affascinati – specie se si è abituati a ondeggiare tra la disperazione della marginalità e il conformismo dello stare al “centro” – da chi riesce a farsi rispettare dal “sistema” pur non sentendosi interamente parte di esso. Kyle è un lupo solitario, un tormentato, ed Eastwood sembra indugiare ambiguamente tra comprensione e sguardo inorridito, ma il film è piaciuto alle platee destrorse anche perché racconta la storia di un vincitore, almeno in campo lavorativo: il suo dovere Kyle lo faceva bene, i nemici dell’America, gli attentatori alla vita dei suoi commilitoni lui ne ammazzava a dozzine, e conta poco, in fondo, che la sua esistenza sia finita con un colpo sparato da un militare squinternato come lui, in un banale poligono di tiro. Anche Jiro è un vincente: dopo cinque anni di praticantato  riceve dai suoi superiori l’affidamento del progetto più importante, quello di disegnare il caccia che avrà il compito di supportare le truppe di terra durante una probabile invasione dell’Asia continentale. È difficile, pur disprezzando la logica della competizione e dell’obbedienza, rimanere indifferenti alle lusinghe professionali, ai complimenti del capo, alla soddisfazione per un primato. E dunque la domanda è se si può conciliare il “proprio dovere” – inteso come docilità nei confronti delle regole imposte da un’organizzazione – con una diversità radicale, con il “non accetto” di camusiana memoria.

Un secolo fa, l’anarchico Nestor Makhno a tal proposito aveva idee ben precise: nestor_makhno_hope_by_marmontx-d36gwpz

“Non posso restare indifferente allo stato di noncuranza e di negligenza che esiste attualmente nei nostri circoli. Un tale di stato di cose impedisce la formazione di quel collettivo al cospetto del quale tutti coloro che si sono aggrappati all’anarchismo senza capirlo in fondo […] sarebbero rappresentati sotto una luce diversa e verrebbero respinti per andare ad occupare un posto più adatto a loro. Ecco perché parlo di una organizzazione anarchica fondata sul principio della disciplina fraterna. [….] La responsabilità e la disciplina organizzativa non devono spaventare i rivoluzionari. Sono esse le compagne di strada della pratica dell’anarchismo sociale.”

In qualche modo Makhno sembra parlare anche ai ribelli di oggi, squisitamente anarchici e non, per dirci: far quadrare i conti non vuol dire tradire i propri compagni, ma separare i guastatori dai persuasi; rispettare una responsabilità di gruppo non può che favorire la causa di quel gruppo.

Se Jiro risulta ai più sensibili una figura digeribile e meritevole di identificazione rispetto a Kyle, non è solo perché egli proviene da un background più colto e aristocratico rispetto alla formazione anabolizzata del secondo. Né, tantomeno, per le opportune scelte narrative di Miyazaki, che hanno preferito le vicende sentimentali rispetto alla crudeltà della guerra. Il motivo è che se Kyle, in nome di un malinteso senso di cameratismo e dell’onore, si mette a disposizione del gruppo come un automa privo di qualunque compassione, Jiro non sembra aver perso lo sguardo umanista sul mondo – che è quello del suo autore.

A metà film Jiro ritrova una ragazzina (Nahoko), dai tratti quasi angelici, che aveva incontrato di sfuggita diversi anni prima. Lei è il simbolo di una possibile salvezza in un limbo di ignavi su cui incombe il peggio, ma lui, come il Marcello de “La Dolce Vita”, perso nei suoi pensieri non la riconosce subito. A differenza di Marcello, però, che col tempo si era lasciato corrompere dal suo stesso cinismo scegliendo di sguazzare in mezzo allo sterco dei padroni, Jiro ha mantenuto una splendida pulizia interiore. Nei suoi tratti c’è il rigore progressista di un Enrico Fermi o di un Ettore Majorana; la sua vita è fatta di scompartimenti stagni ma il modo in cui riesce a bilanciare l’amore per la nuova compagna con la carriera non ha il sapore né del cinismo né dell’alienazione che si vedono nel mercenario di American Sniper.

Jiro e Nahoko si corteggiano, si fidanzano senza clamore, si sposano in segreto. Il sesso arriva solo molto dopo. Lei, intanto, è già malata. Lui le dedica corpo e spirito senza perdere di vista gli obiettivi del lavoro, poiché il tempo stringe e c’è da completare un velivolo cruciale per l’esercito. La loro storia può sembrarci improbabile ma è dignitosa, brevissima e commovente. Jiro è consapevole che anche i sogni più spensierati non possono prescindere da una fortissima disciplina interiore: ciò che ahimè manca a molti “persuasi” tra noi, che troppo spesso confondono nichilismo con spontaneità, passioni tristi con ozio sacrosanto.

Solo pochi film sanno essere davvero trascendenti, e lavorare sulla nostra coscienza e la nostra immaginazione come una sinfonia, una preghiera o un immenso panorama. La maggior parte di essi ci racconta di protagonisti con un obiettivo in testa, che viene poi raggiunto dopo difficoltà comiche oppure drammatiche. Quello che a detta di molti sarà l’ultimo cortometraggio di Miyazaki, il cui titolo si ispira ad una poesia di Paul Valèry – «Si alza il vento, dobbiamo vivere!» -, ripetuta spesso dal protagonista, non parla di una missione ma di una ricerca, di un bisogno. Come sapevano fare i film di Kubrick o, con mezzi più ingenui, una certa cinematografia italiana dei primi anni Novanta, per esempio Amelio, Faenza o Martone, e qualche solitario autore di oggi. Il suo è un lungo, lento, melanconico, dolce addio, permeato dal sentimento della morte, che ci fa rivalutare l’aristocrazia del distacco rispetto alla compulsione dell’obbedienza. E come una commovente pagina gramsciana, ci invita a credere alle capacità dell’Uomo, e al fatto che non siamo solo carne ma intelligenza.

Cenni sul paese più infelice del mondo

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di Mauro Baldrati

Baldrati_Jimi hendrix-copertina2 CONTRASTO(pubblichiamo l’incipit del romanzo di Mauro Baldrati “Il mio nome è Jimi Hendrix”, Edizioni Arianna)

 

In principio era palude.

Banchi di sabbie mobili e canali di acqua salmastra formavano un enorme acquitrino malarico che tutti evitavano come una pestilenza. Era il “Luogo di morte della carne e dello spirto” di cui vagheggiava Amedeo Loriani, il satrapo della Romagna dotta ottocentesca, nel tremolante (e purtroppo studiato a memoria nelle scuole) Cantico di campagna.

Eppure, in tempi antichi, un manipolo di fuggiaschi vi trovò un accogliente rifugio: trecento barbari venuti da est, braccati dalle legioni romane, si avventurarono nel “fango maledetto dagli dei”, dove i carri sprofondavano, e di loro si perse ogni traccia e memoria. Per la verità nel papiro conservato nell’ufficio del sindaco non vi sono riferimenti precisi, ma lui, il glorioso maestro Follicelli, l’instancabile ricercatore del nostro oscuro passato, giura che quei fatti si svolsero proprio qua, su questa terra emersa, dove ora i concittadini giocano a carte e a Mah-jong.

Il primo insediamento umano stabile risale al 1600. Un gruppo di prigionieri arabi fuggiti dalla Sicilia si addentrò nell’intrico di canali, e a nulla valsero i tentativi di stanarli. Alla fine il vescovo di Ferrara, in cambio di una professione di fede cristiana, concesse loro il diritto di abitarvi, purché si arruolassero nella legione di manovali che lo stato papalino stava reclutando. Un editto di Clemente VIII, infatti, ordinava l’avvio di quell’immane lavoro di bonifica già tentato dai duchi d’Este, dai Calcagnini e di cui si parla persino nelle antiche carte bizantine. Erano ladri, carcerati, prostitute, prigionieri di guerra, attirati dall’illusione di un impossibile riscatto sociale. Molti morirono, alcuni fuggirono nella vecchia vita dopo avere derubato i compagni, quasi tutti si ammalarono di malaria.

Nel 1740 i discendenti dei lavoranti e, pare, di popolazioni giunte dall’Albania, gettarono le fondamenta di un centro abitato sulle terre bonificate. Poiché sul muro di un magazzino costruito dai primi ergastolani era dipinta una falce di luna gialla, al paese venne dato il nome di Mezzaluna.

Mezzaluna, il paese più infelice del mondo.

La definizione è del mio amico Dennis. Avevamo appena letto “Storia e preistoria di Mezzaluna”, il libretto-culto pubblicato a cura del Comune dal nostro glorioso sindaco. Dennis era entusiasta. Quell’andirivieni caotico di pirati, barbari e malfattori lo metteva di buonumore. Ha steso davanti a sé le braccia coi pugni chiusi, per mettere in evidenza le vene: “Qui scorre cattivo sangue” ha detto, parafrasando il suo amato Rimbaud. “Siamo un miscuglio di razze inferiori. Stirpi tarate. I degni abitanti del paese più infelice del mondo.” E ridacchiava soddisfatto.

Mezzaluna è un paese a due piani. Di tre piani c’è qualche casa che sembra costruita per errore, di quattro solo il palazzaccio del comune. Le case sono tutte uguali, intonaci graffiati di colore grigio, verde muffa, azzurro smorto. Nessun abbellimento, nessun fronzolo. Sono raggruppate fitte in quartieri residenziali come tante conchiglie sulla schiena di una balena addormentata.

Anche gli alberi sono tutti bassi: frutteti, canneti, pochi pini o abeti spelacchiati nei cortili delle case. Quando un albero comincia a crescere e a distendere con fierezza i suoi rami viene immediatamente tagliato e sostituito con uno giovane. Gli abitanti di Mezzaluna – i mezzalunatici – amano il pulito, non sopportano tutte quelle foglie da spazzare in autunno. Gli unici alberi a cui è concessa l’età adulta sono le pioppe, torri solitarie nelle vaste spianate di grano e barbabietole che si perdono all’orizzonte. I grandi pioppi sono tollerati perché costituiscono i punti di sosta degli uccelli migratori. Esausti dopo avere sorvolato oceani e montagne, vengono abbattuti da decine di cacciatori, praticamente l’intera popolazione adulta maschile di Mezzaluna, nascosti dentro capannucce costruite con giunchi o teli mimetici militari (chiamano questi sterminii caccia a capannino).

In una di queste case-conchiglia a due piani, una villetta nel paese nuovo, cioè uno dei quartieri nati una decina d’anni fa sulla rive-gauche del fiume Lepre, ci sarei io.

 

Miti Moderni/8: fine di un amore noir

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tumblr_mkhd493FR91qghl49o1_r1_500di Francesca Fiorletta

Non si dovrebbe tenere un diario, quando si soffre, si rischia di ricordarlo sempre, quanto fa bene, quel dolore. Si rischia la confessione, e lo sparo.

Senti come pulsa, la lingua gonfia, l’amianto sterile non ha sapore, dopo il caffè, resta ancora lì accucciato nel giardino dei ricordi di mammà, anche un secolo va bene.

Hai sempre la bocca bagnata, perdi l’udito, senti fischiare, continuamente, starai piangendo, ti confiderai con un amico, scattano opachi i secondi impressi sopra al contatore in miniatura dell’autovelox, la luce gialla si fa di vetro inconsistente, senza accorgervene vi allontanate ogni giorno dalla meta prefissata, non avete mai saputo dove andare, a sbattere.

Art. 22 : I comunisti dandy e dio

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Teologia-della-liberazioneI comunisti dandy non amano le maiuscole, in generale, eppure, quando si scrive dio un’esitazione di certo prodotta dall’infanzia ammanta il tratto, le dita. In totale armonia con quanto prescritto dal proprio decalogo laico,  i comunisti dandy hanno scoperto che, comunque sia, va sempre a finire che sia vana la prece e questo a prescindere dalla condotta del richiedente. Il comunista dandy, fin dalla tenera infanzia, vive con estrema serietà la contraddizione pratica cui si presta il catechismo appreso in classe. A pochi minuti dalla fine della partita del cuore, con risultato a reti inviolate delle due formazioni, il bcd avvolto nella sciarpa della propria squadra, generalmente con Stella rossa e quasi sicuramente  con il titolo Dinamo o Spartak nel nome, osserva non senza trepidazione la lunga corsa del proprio attaccante preferito interrotta da un piede cattivo avversario in piena area; fallo punito dall’arbitro con un calcio di rigore. Nel momento in cui il proprio uomo sta per calciare la palla il bcd pensa forte, quasi a farselo scappare dalle labbra : dio ti prego, faccelo segnare ! Nell’istante successivo realizza che probabilmente nella curva opposta alla propria un altro bcd ha appena profferito la stessa invocazione con una leggera variazione sull’ ultima parola : dio ti prego, faccelo parare !
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La questione delle preferenze di dio, ovvero di assecondare la preghiera del bcd uno rispetto al bcd due, comporta la quasi automatica messa in discussione dell’onnipotenza dello stesso dovendo quest’ultimo, qualsiasi decisione esso prenda, portare beneficio all’uno arrecando danno all’altro. Ora, ammettendo che i due bcd non abbiano veramente nulla da rimproverarsi e ancor più da farsi rimproverare, quale che sia la decisione dell’altissimo, si comprenderà bene quanto la delusione dell’uno o dell’altro possa concorrere al futuro ateismo di uno dei due. Ecco cosa pensa il bcd facendo seguire a tale pensiero  la certezza che dio non esiste. Il che accade nel momento in cui il proprio giocatore, spiazzando il portiere, la mette dentro. Lo fa per solidarietà con il bcd due che gli sta di fronte e infatti, lasciando lo stadio, nella gioia di una curva delle due, quasi sussurra spingendo il tornello : adieu !

Dove mente il fiume

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di Daniele Bellomi

[un estratto da dove mente il fiume, Daniele Bellomi, Prufrock spa 2015]

di maree, anatomia

ancora in corsa dal poco al niente, nel cordone
donato alla discarica, messo da una parte il plastico
dell’acqua vista quando ancora sborda fuori, nonostante
la fatica nel respiro: andarsene negli anni a nominare
spazi vuoti, posti di blocco, detenzioni. il doppio
rimane l’uno che sbanda, viene via assieme alla sacca
del figlio che separa la sezione di guida e il passeggero,
in fase d’urto: dal contagio rimediato nel macello
si conservano le anatomie dei fiumi deviati fra le tempie,
attesi quando il male retrocede, per non capire più.

dove mente il fiume

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
il taglio ostina il mare del morire, oltre l’arrivo che sarà
sul dorso della mano, ancora in corsa, ricomposto
in poco spazio, non più immune e che si schianti
ovunque sia una fibra liberata e non rimessa apposta.
nel filtro che scola, dal niente, vìola e rimaneggia
la faringe spalancata nella doccia, il minuto andato
in sangue, riportato al suo vedere, a non resistere
per sempre. potrà farne cura, o insistere per come
si trascina dall’impatto: indurre un parto,
con ordine, magari mettersi a gridare.