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A San Pietroburgo con Dostoevskij – Antonina Nocera

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Pietroburgo a sfoglie

 

C’è un filo sottile tra il desiderio, l’ossessione, il sogno. Accade che questo filo spesso si assottigli fino a rendere labili le distanze tra queste tre dimensioni psichiche, come accade al protagonista del racconto di W. Jensen, Gradiva, cui Freud dedicò un saggio di approfondimento sul delirio e i sogni. Un giovane archeologo, Norbert Hanold, che scorge in un museo un bassorilievo raffigurante un’immagine di donna, da lui ribattezzata Gradiva, “colei che incede”, rimane a tal punto impressionato e sconvolto da continuare a ricercare in modo ossessivo questa figura nella realtà. Si reca da Roma a Pompei alla ricerca di Gradiva, finché, alla fine di un cammino tra sogno e realtà, ritrova le sue fattezze in Zoe, un’antica compagna di giochi infantili. Stesse le movenze, l’incedere, i particolari. L’attrazione che ne scaturisce lo porta a vivificare questa immagine, a costringerlo a intraprendere un viaggio, per ritrovare la sensazione di qualcosa che aveva vissuto, duemila anni prima, sicuro di avere fatto la prima colazione con una donna pompeiana, dalla caviglia sottile, dalla veste bianca e svolazzante che aveva acceso il suo desiderio. Trovo che questa storia sia, di là dalla interpretazione freudiana che la relega nell’ambito del rimosso, del sintomo sotto forma di figura nel sogno, una perfetta metafora di quell’innamoramento necessario che sostanzia ogni tipo di ricerca letteraria. Cercare Gradiva, per me, è stato cercare Pietroburgo nelle pagine dei romanzi, nelle parole degli scrittori russi che ne avevano delineato una precisa fisionomia, avevano acceso la mia immaginazione, risvegliando, come probabilmente fu per Hanold, un sentimento occulto, che lei, la città petrina, rinfocolava con la sua potenza iconica. Camminare per le strade pietroburghesi è un’esperienza che chiama a raccolta una stratificazione di memorie culturali, letterarie, che sono inseparabili, tanto sono “inscritte” nel panorama urbano. Tra tutti, ho eletto lo scrittore F. M. Dostoevskij a mentore ideale di questo cammino, nel crinale tra sogno, realtà e desiderio. Credo che tra tutti abbia creato una sintesi perfetta che prende spunto da Gogol’, Anciferov, Puškin, Turgenev, e crea la magia sincretica. La febbrile e convulsa Pietroburgo, la tremula parete che separa la Prospettiva Nevskij dal sogno, i personaggi che si muovono come fantasmi o sognatori, il perverso intrigo di vicoli dell’anima e della mente.

Quando ho conosciuto Piter, come i russi pietroburghesi amano definire la loro città, ho provato la netta sensazione di avere compreso non l’intera anima russa – forse nessuno la capirà mai integralmente – ma quella fetta di “russitudine” che aveva forgiato la mia personale anima russa, quella che ho costruito sui romanzi, sulle letture, sulle fantasticherie che formano la mitologia personale di un luogo.

Si ha la netta sensazione che nulla di quello che si vede è definitivo. “La città più premeditata del mondo” è una definizione dostoevskiana che esprime perfettamente il senso di Pietroburgo. Tutto sembra perfettamente comme il faut all’apparenza, un’architettura all’europea che ti restituisce qualcosa di familiare, ma non integralmente. Un familiare che si avvicina maggiormente al senso di Unheimlich, perché lo riconosci, ma al contempo ne senti l’estraneità. Un luogo, insomma, che nella sua bellezza esteriore ti invita ad andare oltre, ad affrettare il passo per imboccare la strada che porta “oltre”, tra i vicoli, di là dalla facciata, dalla bella prospettiva che si staglia come una quinta teatrale, pronta ad aprirsi, a svelare connessioni con mondi inaspettati, poco rassicuranti.

Pietroburgo, città eccentrica, estranea alla cultura del proprio paese, a eccezione di alcuni quartieri periferici in cui il “pittoresco” resistette per un certo tempo, il concetto fondamentale fu udivlenie i vostorg (stupore ed esaltazione/entusiasmo), fondato su una base sottilmente razionale e utilitaristica. Per questo gli spazi erano ampi, le vie e le prospettive di grande portata, le distanze dilatate. La prima volta che si imbocca la Prospettiva Nevskij si percepisce il senso di questa grandiosità che colpisce gli occhi e l’immaginazione. Ma chiunque abbia letto Gogol’ – anche Dostoevskij sa bene che usciamo tutti dal Cappotto – sa che questo apparato è come il cielo di carta di Mattia Pascal, pronto a sfarinarsi sotto le dita, come un sogno, una fantasia, in un viaggio mentale.

Non si può conoscere l’essenza pietroburghese senza avere letto Il cavaliere di bronzo di Puškin.

T’amo creatura di Pietro, scrisse il poeta che cantò le origini di Pietroburgo in uno dei poemi più importanti della storia letteraria russa. Un’opera fondativa, della lingua, dell’immaginario, della struttura urbana. L’opera va letta come parte di una storia più ampia, che si riverbera nei meandri della memoria, della storia e nell’anima di Pietroburgo come la chiamò Anciferov (Duša Peterburga). Un’anima doppia, che partecipa del cielo e della terra, del sublime e del laido. Puškin ha detto tutto di questa origine, chiamando in causa il Prometeo al fine di dare linfa vitale a questa nuova costruzione: La città di Pietro.

La storia di Pietroburgo si fonda sulla capacità di trasformazione della natura a opera dell’uomo. Natura e spazio fisico vengono piegati alle esigenze della monumentale Pietroburgo nascente; la prima operazione consiste nella cancellazione dello spazio precedente, il terreno brullo e inospitale viene dissodato, bonificato, reso “piano” e plasmabile. Sembra che tutto abbia preso avvio da una fantasia, da una “visione” del giovane zarevič Pietro mentre trascorre il suo tempo in occupazioni adolescenziali in un recinto dedito ai giochi; da una fan- tasia fanciullesca prende corpo quella “visione” della futura città, in cui tutto sarebbe stato recintato come un grande hortus conclusus modellato a propria immagine e somiglianza.

La costruzione del mito della città di Pietroburgo e la costruzione della città in senso stretto procedono a passi paralleli: il mito poggia sulle palafitte erette sui terreni paludosi, e sui versi di poeti che ne decantano l’aspetto tragico, torbido, pericolante. Le denominazioni della nascente città ne tradiscono tutte le velleità: “Palmira del Nord”, “Nuova Roma”, o di contro “opera dell’‘Anticristo’”, o del “costruttore taumaturgo”. La poesia encomiastica ne rivela il suo carattere miracolo- so: Sumarokov, Lomonosov e Deržavin, entrambi pro- motori della retorica di Pietroburgo come “novella Roma” con tutti gli orpelli del mito di fondazione. Di pari passo alla mitologia fastosa, una vena cupa e corrosiva stempera l’ottimismo progressista; leggende popolari prefigurano un’imminente rovina, i “fantasmi del passato”, forse le anime degli innumerevoli martiri morti durante la costruzione della città, e sepolti per sempre al di sotto delle sue fondamenta, incombono sul destino della città. È impossibile leggere i russi che hanno scritto di Pietroburgo senza percepire questi fantasmi, nei volti, nelle movenze, dei passeggiatori della Prospettiva Nevskij, nelle strade buie e tortuose che portano al cuore del- la città, nei personaggi che animano il racconto della città. Pietroburgo è un testo, come venne definito dalla critica semiotica, da Uspenskij e Toporov. Un testo che interseca fili di narrazioni stratificate, di segni e simboli che rimandano a una mitologia complessa e antitetica. Al mito della finestra sul mondo si abbina l’antimito escatologico della sua distruzione. Il fatto che Pietroburgo potesse per i suoi dati semantici fondamentali essere inserito in questa doppia situazione ha consentito di considerarlo nello stesso tempo sia un paradiso, l’utopia della città ideale del futuro, materializzazione della Ragione, sia la sinistra mascherata dell’anticristo.

Tutto parte da un elemento primordiale, l’acqua: nel 1824 il quartiere Kolomna fu sconvolto da un’alluvione. Come Puškin ricorda nell’introduzione al Cavaliere di bronzo: “L’incidente descritto in questa storia è basato sulla verità. I dettagli dell’alluvione sono presi in prestito dalle riviste dell’epoca”. L’acqua della Neva invade minacciosa la città, portando morte e distruzione. Un elemento che ricompare in Dostoevskij tra le pagine del romanzo Il sosia. In un memorabile brano che pare attingere a Puškin per la drammaticità incalzante e a Gogol’ per quell’aura fantomatica, fumosa in cui la realtà sfuma nella visione e viceversa, Dostoevskij dipinge nel suo secondo romanzo una città minacciosa, che annuncia l’imminente sdoppiamento dell’impiegato Goljadkin, con le acque che gonfiano dalle rive della Fontanka, il lungofiume che costeggia la parte sud della città e taglia il centro pietroburghese, formando una curiosa perpen- dicolare con la piazza Sennaja. Sembra che tutti i personaggi dostoevskiani seguano delle traiettorie che alla fine si incrociano in strani crocevia. Goljadkin e Rodion Raskol’nikov sono tra gli eroi principali dello sdoppiamento dostoevskiano, lo stesso nome Raskol’nikov ne porta una traccia, raskol’ è lo scisma. Entrambi vivranno il dramma della scissione identitaria, Raskol’nikov perché pervaso dall’idea di diventare Napoleone e sovvertire l’ordine morale, Goljadkin rappresenta – ben prima di Freud – lo sdoppiamento della personalità, la schizofrenica propulsione verso un altro che è tanto vivido da diventare “persona”, maschera vivente della propria ossessione. Anche il quartiere Kolomna, che oggi non è certo desolato e solitario come lo descrive Gogol’, conserva quel pizzico di malinconia acquosa che lo distin- gue dagli altri quartieri pietroburghesi.

Ma torniamo alle acque, ripercorriamo Fontanka. Nel punto in cui il personaggio dostoevskiano si ferma, pres- so il ponte Izmajlovskij. Oggi questa è per me una delle passeggiate più affascinanti, specie durante le notti bian- che, un percorso da fare a piedi, col battello, fino al museo di Anna Achmatova. Nulla potrebbe turbare questo paesaggio, se non il ricordo terribile che si stagliava di fronte a Goljadkin, a mezzanotte, quando “tutte le torri e i campanili di Pietroburgo battono le ore in punto”:

il vento ululava per le vie deserte sollevando le acque nere della Fontanka fino all’altezza degli anelli di ormeggio e scuotendo impetuosamente gli sparuti lampioni del lungofiume, i quali, a loro volta, facevano eco ai suoi ululati con acuti, penetranti cigolii, dal che risultava quel continuo, stridulo e pigolante concerto così noto a ogni abitante di Pietroburgo. Pioveva e nevicava nello stesso tempo. Trascinati dal vento, veri ruscelli d’acqua piovana, volavano quasi orizzontalmente, come da una pompa di pompieri, pungendo e flagellando il viso dell’infelice signor Goljadkin, come migliaia di spilli e spilloni. Nel silenzio della notte, interrotto soltanto da lontani rumori di carrozze, dall’ululare del vento e dal cigolio dei fanali, si sentiva il malinconico stillicidio dell’acqua che gocciolava su tutti i tetti, i terrazzini, le grondaie, e i cornicioni sul sel- ciato di pietra sul marciapiede.

Ancora non esisteva Raskol’nikov, Delitto e Castigo sarebbe nato successivamente. Curiosamente, entrambi i personaggi cercano una sorta di luogo in cui si incrociano energie sinistre eppure vitali. Questo luogo è Fontanka, il lungofiume che appare nei taccuini preparatori del romanzo. Le acque torbide delle origini pietroburghesi esercitavano ancora il loro influsso magnetico. Ma Raskol’nikov, che allora si chiamava Vas’a, prese un’altra strada. Non esiste infatti una sola Pietroburgo, ma una Pietroburgo a “sfoglie” che contiene in ogni strato una narrazione esterna, una rappresentazione di se stessa, un commento che cresce e si riverbera nelle mille città della memoria, collettiva e personale. Sono qui per costruire la mia Pietroburgo.


Antonina Nocera vive a Palermo, è insegnante di letteratura italiana e latino. Saggista nell’ambito della critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo. “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij.(FrancoAngeli, 2010 Finalista al Premio Carver 2022), Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” (Divergenze, 2020 Finalista al premio Carver 2021 e Premio Etnabook 2021) “A San Pietroburgo con DostoevskijLa città di carta e di sogni.”(Perrone 2024) e altri contributi critici in volumi collettanei.  Gestisce il blog letterario Bibliovorax ed è direttrice editoriale della rivista Augeo- quaderno di scienze umane (Divergenze).

 

Quando passa l’angelo

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di Simonetta Gallucci

C’era solo una cosa più puntuale delle lancette di un orologio fermo sulle otto quando sono le otto: la telefonata di sua madre. Guido, quella sera, sudava freddo: doveva darle una notizia. Così, dopo i convenevoli: – … stavoltascendoaccompagnato – disse, tutto d’un fiato.

–  Chi ti accompagna, uno di qua?

–  Non hai capito. Scendo con la mia ragazza.

Silenzio. Poi una raffica di domande: – Ti sei fatto la zita? E mo’ me lo dici? La conosco?

–  Come fai a conoscerla?

–  Che ne so, magari è una trasferita, come a te.

–  No… cioè sì, ma dall’America.

–  Ma c’ha i gusti nostri? Mo’ che faccio da mangiare a questa?

–  Ah, a proposito: è vegetariana.

– Pure. Altre stravaganze?

Guido si innervosì: – Dì un’altra parola e non scendo proprio.

Chiuse la telefonata con la sensazione che quel Natale sarebbe stato faticoso, e ne ebbe la conferma quando Katherine lo spedì a comprare tacchino e pancetta. Proprio lei, che lo rimpinzava di tofu e seitan, costringendolo a frequentare un’improbabile squadra di calcetto solo per potersi gustare l’hamburger dopo la partita.

– Voglio preparare l’hot brown per la tua famiglia – gli disse.

– L’hot che? – chiese Guido.

– L’hot brown… vedrai, li conquisterò.

Partirono il mattino seguente, con una teglia trasudante olio che, nelle dieci ore di viaggio, appestò l’aria e impregnò di grasso il sedile posteriore dell’Audi.

– Figghj mej! – urlò la madre di Guido quando arrivarono, facendosi trovare con le braccia spalancate, come mai aveva fatto negli anni precedenti. Lui si lasciò avvolgere da un abbraccio che sapeva di fritto, di casa. Poi la madre lo scansò per salutare Katherine: – Signorina, che piacere – le disse – mi devi scusare che sto tutta spittirrata, ma stavo alla cucina. Prego, accomodatevi – e si fece da parte per farli passare.

– Ma’ – disse Guido passando un braccio intorno alla vita della sua ragazza – Katherine ha preparato un piatto delle parti sue. – Lei, che reggeva la teglia, sfoderò un sorriso che avrebbe ammaliato chiunque. Non la madre di Guido: – Grazie tante, non ci serve niente – rispose, e girò le spalle.

Guido prese la teglia dalle mani di Katherine e seguì la madre in cucina: – E dai. – Lei scoperchiò il tegame con circospezione, inchiodò il figlio con lo sguardo e gli disse: – Io è da stamattina che preparo e mo’ viene questa, bella bella, e ci porta la zuppa di pane e pomodoro. Senti che puzza, pare il mangiare dei cani. Ci farà stomacare!

– Senti, tu dopo lo metti a tavola e, se non lo vuoi nemmeno assaggiare, dici che stai sazia.

Uelcame!

Quando Katherine si affacciò in sala da pranzo fu accolta così da Franco, lo zio vacantino, che la prese sottobraccio e la condusse davanti a una signora in carrozzella, dicendo tra sé: – Come ha fatto quel babbascione di mio nipote a prendersi sto pezzo di femmina – e poi, urlando: – Ma’, hai visto chi è arrivata? La zita di Guido.

L’anziana fece cenno alla ragazza di avvicinarsi. Tese la mano a prenderle il mento e le girò il viso da una parte e dall’altra: – Una bella giovine – sentenziò, poi si frugò con una mano nella casacca e tirò fuori un portamonete. Lo aprì con circospezione, ne estrasse cinque euro sgualciti e li allungò alla ragazza: – Tieni – disse – comprati ‘na cosa buona.

Guido sopraggiunse in quel momento: – Fai ufficialmente parte della famiglia, ora – disse a Katherine, e le depositò un bacio sulla nuca. – E a nonna tua non glielo dai un bacio? – chiese intanto l’anziana. Quando il nipote si avvicinò, lo prese per il colletto della camicia e lo attirò a sé: – Ma ti fa mangiare, questa?

– A tavola! – La madre di Guido assegnò i posti: il figlio alla sua destra e il marito alla sinistra; a seguire da una parte Katherine e dall’altra zio Franco e, al capotavola opposto, la nonna. – Tonì – urlò poi in direzione dello studiolo – ma possibile mai che pure stasera devi vedere la partita?

Dopo qualche passo strascicato, il marito arrivò: – Era un torneo di biliardo.

La cena, in qualche modo, passò. L’hot brown giaceva quasi intatto: solo Guido e zio Franco si erano serviti; il padre ci aveva provato, ma era stato redarguito da un: – Quello ti fa acidità – della madre. Guido pensò che tutto sommato non era andata poi così male, fino a quando non sentì i rintocchi della cattedrale, che annunciavano la mezzanotte imminente, e la nonna esclamare: – Bisogna far nascere a Gesù Bambino!

– Guido, vai… – disse la madre, ma zio Franco la interruppe: – Aspé, quanti anni tiene Catarina?

– Venticinque – rispose lei.

– Ah, allora sei tu la piccola – fece il padre. La ragazza rivolse uno sguardo interrogativo a Guido che, paonazzo, si rivolse alla madre: – Ènecessario?

– Ché, ti vergogni?

Si rassegnò. Prese le mani di Katherine e provò a spiegarle: – Sai, noi abbiamo una tradizione. A mezzanotte andiamo in processione…

– Usciamo? – chiese lei.

– No, no, la facciamo qui.

– Qui dove?

Guido non sapeva più dove mettere la faccia: – In casa – disse. – Il più piccolo si mette in testa al corteo, e porta il bambinello alla grotticina… toccherebbe a te, ma se non ti va…

La risata diamantina di Katherine riempì la stanza: – I’m ready! – e si alzò. La madre intanto era andata in camera da letto e, dal primo cassetto del comò, aveva tirato fuori una riproduzione 1:1 di Gesù che, nel presepe allestito sul ripiano del mobile TV, avrebbe fatto la figura di Gulliver in mezzo ai lillipuziani. Lo depose tra le braccia della ragazza, dicendole: – Parti dall’ingresso, fai il giro intorno al tavolo e vai alla grotta, poi dai un bacio al bambinello e ti scansi. Noi ti veniamo appresso.

Katherine mosse il primo passo, ma fu interrotta dalla nonna: – E la canzone? – Così, presero tutti a intonare “Tu scendi dalle stelle” mentre si disponevano: Katherine in testa, seguita da zio Franco che non smetteva di farsi il segno della croce, cogli occhi fissi sul sedere della ragazza; dietro di lui Guido, poi il padre; infine, la nonna sulla sedia a rotelle, spinta dalla madre. Le campane suonarono a festa.

Tornarono ciascuno al proprio posto. La madre non fece in tempo a sedersi che si sentì ammonire: – Ma’, e il caffè? – Guido si girò verso la sua ragazza per chiederle se lo volesse anche lei, e la trovò con gli occhi sgranati. “Che ho fatto?”, si chiese. Katherine accavallò le gambe e incrociò le mani su un ginocchio. – Scrociale! – disse la nonna – che sennò passa l’angelo e dice “Amen”.

– Non ho capito.

– Se passa l’angelo, rimani per sempre così – spiegò zio Franco, imitando la posa di Katherine. Lei non credeva alle superstizioni ma, per cortesia, sciolse l’intreccio.

E, quella sera, l’angelo passò: su Guido, che ruttava sopraffatto dalla digestione, e su Katherine, che lo fissava come se fosse un rozzo sconosciuto; sulla madre, che entrava e usciva dal soggiorno per sparecchiare e sul padre che, con la testa reclinata all’indietro, russava; su zio Franco e sul suo sguardo spiritato, mentre allungava una gamba sotto il tavolo sperando di raggiungere il piede di Katherine, e sulla nonna che già sferruzzava un maglione per la fidanzata del nipote.

L’angelo passò, li guardò dall’alto, ma “amen” non lo disse; andava di fretta, il principale gli aveva chiesto di fare una comparsata a un presepe vivente, travestito da stella cometa. E si sa, certe volte non basta una vita di buone azioni per andare in paradiso, ma una parola detta al momento sbagliato può farci uscire dalla grazia di Dio.

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler

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È questo il quarto intervento che dedico a ciò che si è scatenato in Medio-Oriente dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Questi interventi sono la testimonianza di uno studio su diverse fonti, di dialoghi con amiche o amici e di riflessioni che hanno evoluto nel tempo. Ognuno di essi si è focalizzato su un tema. Il primo ha difeso l’idea che senza contesto e narrazione non vi può essere alcuna comprensione dell’accaduto; nel secondo, ho avanzato un quadro interpretativo di quello che, oggi, la storica Anna Foa definisce il “suicidio di Israele”; nel terzo, ho inserito l’attitudine del governo Netanyahu in un’atmosfera politica e ideologica che riguarda non solo Israele, ma anche l’Occidente capitalista nordamericano e europeo. Quest’ultimo intervento è dedicato a due voci critiche non solo della politica israeliana, ma anche della diaspora ebraica.

di Andrea Inglese

Da dove parlo

 

Chiunque parli della questione palestinese deve cominciare per dire innanzitutto chi è, come questa questione lo riguarda…

Ariella Aïsha Azoulay

Nonostante fosse difficile farlo, ho pensato fin dalle prime settimane dopo il 7 ottobre, vedendo quanto era successo e quel che si stava preparando, che fosse indispensabile parlare, scrivere, insomma rompere il silenzio. Parlare e scrivere per capire di più, assieme a quelli che vivono qui, in Italia, in Europa, lontano da Gaza e Israele, quello che stava accadendo laggiù tra palestinesi e israeliani. La gravità sia dell’attacco terroristico palestinese contro i civili israeliani sia della rappresaglia distruttrice contro la striscia di Gaza dell’esercito israeliano, non lasciavano adito a dubbi: questa volta il mondo non avrebbe potuto rimanere indifferente, come era invece accaduto nel corso degli ultimi anni, quando la sorte dei palestinesi non sembrava interessare più nessuno. In un modo o nell’altro, l’occidente tutto come anche il cosiddetto sud globale, oltreché i principali attori in gioco in questa guerra, sarebbero stati coinvolti. Così è accaduto. E il silenzio è stato eloquente e significativo quanto la propaganda più faziosa, e lo è stato anche se le sue motivazioni potevano o possono essere le più diverse: blocco emotivo, prudenza o semplice vigliaccheria. La guerra tra Hamas e Israele è stata scatenata da un’azione terroristica delle più crudeli (uccisione di civili, bambini inclusi) e ha prodotto una rappresaglia militare da parte israeliana, che non solo si è dispiegata attraverso modalità altrettanto terroristiche (bombardamenti indiscriminati su case e edifici pubblici come scuole, università, ospedali, ecc.), ma ha acquisito la violenza sistematica e terrificante del “genocidio”. Questo almeno agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica mondiale, ma anche di istituzioni internazionali e ONG indipendenti. Tornerò in seguito su questo termine. E dirò, perché è un termine che personalmente non amo utilizzare. Ma poco importano le mie ragioni o i dubbi sulla piena pertinenza dell’uso: esso si è imposto contro ogni tentativo di censura mediatica anche in una parte dell’opinione pubblica occidentale, e questo in reazione all’entità inedita della distruzione scatenata contro la striscia di Gaza, che nei fatti rende inabitabile quel territorio così densamente popolato. Possiamo utilizzare vecchie o nuove categorie, parlare di pulizia etnica o di urbicidio, quel che risulta chiaro è l’intenzione del governo israeliano di rendere Gaza un territorio dove non sia più possibile abitare, trasformando i Palestinesi in una massa di profughi sulla loro stessa terra.

Ho già esplicitato, sempre su Nazione Indiana, la ragioni del mio coinvolgimento personale, in quanto cittadino italiano ed europeo[1] in quello che è accaduto e accade laggiù, anche se non sono né palestinese né israeliano, né ebreo né arabo. Nonostante ci siano altre guerre sanguinosissime nel mondo, come la guerra civile in Sudan o quella che viene definita la seconda guerra civile nella Repubblica Centrafricana (in corso dal 2012), la guerra tra israeliani e palestinesi mi riguarda storicamente. Vorrei però aggiungere oggi che mi riguarda anche culturalmente. Nella mia formazione intellettuale e morale, la diaspora ebraica, europea e statunitense soprattutto, ha avuto un ruolo enorme. Il mio modo di vedere il mondo, di concepire la storia e la letteratura, l’emancipazione individuale e collettiva, è debitrice di tutta una serie di voci che vengono da quel mondo: da Proust a Kafka, da Primo Levi a Arendt, da Marx a Adorno, da Günther Anders al regista ebreo-russo Alexeï Guerman. E’ questa una ragione in più, che mi rende attento, oggi, alle reazioni degli ebrei europei o nordamericani. Ed è proprio di alcune voci della diaspora che voglio parlare, in particolar modo di quella di Anna Foa, storica italiana, e di Judith Butler, filosofa statunitense.

Prima di considerare il loro punto di vista, vorrei aggiungere un’ultima cosa. Gli errori che l’Occidente ha fatto, l’errore che gli Stati Uniti, ma poi l’Europa, e i governi di Francia e Italia in particolare hanno fatto, rifiutandosi di lottare con tutti i mezzi diplomatici disponibili per imporre un cessate il fuoco a Israele, lo pagheremo tutti. Lo pagano ora in modo straziante i palestinesi, ma lo pagheranno comunque anche gli israeliani, poi i cittadini statunitensi ed europei, così come tutte le nostre istituzioni nazionali e internazionali. Facts have consequences, come dicono gli anglosassoni, anche se le conseguenze non si “vedono” subito.

Sto rileggendo un libro di Jean-Pierre Filiu, storico francese del Medio-Oriente contemporaneo (Gli Arabi, il loro destino e il nostro, La Découverte, 2015). Il mondo intero sta ancora pagando per una somma precisa di decisioni e azioni realizzate in seno all’amministrazione statunitense, al momento del lancio nell’autunno del 2001 della “guerra globale contro il terrore” da parte di George W. Bush e, in particolar modo, per l’invasione dell’Iraq del 2003, fuori dal mandato dell’Onu. Da allora in poi, sia ogni tipo di terrorismo islamico sia la repressione autoritaria di ogni forma di contestazione politica, hanno avuto il vento in poppa nei paesi arabi come in alcuni paesi dell’Africa subsahariana. Caso esemplare l’Algeria che, tra il 1991 e il 2001, conosce il “decennio nero”, ossia una guerra civile tra islamisti e il governo autoritario del Fronte di Liberazione Nazionale. Con l’arrivo al potere di Bouteflika nel 1999, presidente che ha governato fino al 2019, nel paese viene imposta la politica della “concordia civile”. Ciò significa l’amnistia rapida di 5000 insorti (legati al Gruppo Armato Islamico), mentre in carcere rimangono gli oppositori che non hanno mai praticato la lotta armata. Dopo la guerra al terrore di Bush, buona parte dell’Occidente (francesi in testa) difenderanno l’opzione: meglio la “stabilità” dei regimi autoritari che la rischiosa democrazia; nel frattempo però regimi e forme d’islamismo armato non faranno che consolidarsi a vicenda, a scapito di ogni autentico progresso democratico. Le recentissime vicende siriane non fanno che confermare questa tendenza.

 

“Il suicidio di Israele” di Anna Foa

Il libro è uscito per Garzanti nell’ottobre del 2024. Per certi versi dialoga con il libro di un altro storico, Enzo Traverso, uscito per lo stesso editore alcuni mesi prima. Mi riferisco a Gaza davanti alla storia. Foa guarda, però, la vicenda della guerra e delle stragi di civili dal punto di vista dei tempi lunghi della storia della diaspora ebraica e soprattutto della nascita di Israele. Il suo è il punto di vista di una storica, ma è anche una voce della diaspora che vuole innanzitutto distinguersi dalla voce del governo israeliano e dalla maggioranza di israeliani che lo sostiene. È questo un punto per me fondamentale, perché per mesi sono rimasto allibito da un doppio movimento evidente in una parte importante della comunità ebraica francese: l’adesione quasi completa al punto di vista del governo Netanyahu, da un lato, e la sintonia ideologica con le posizioni del Rassemblement National (estrema destra francese), dall’altro. (Di un movimento simile, in Italia, parlano Bruno Montesano e David Calef in un articolo apparso su “il Manifesto” del 29 novembre dal titolo Ebraismo oltre la linea nera).Ora questa attitudine si è fatta sentire in modo particolare nel trattamento dell’informazione su ogni tipo di canale pubblico o privato. In altri termini, l’orientamento della diaspora, assieme ad altri fattori, ha senz’altro contribuito in Europa – più ancora, per altro, che negli Stati Uniti – a “blindare” la narrazione filoisraeliana. Il risultato di questi sforzi congiunti per legittimare l’annientamento delle vite dei civili palestinesi o per oscurarlo almeno parzialmente, ha avuto come conseguenza l’uso sempre più aperto e sistematico del termine “genocidio” di una parte dell’opinione pubblica, quali che siano le considerazioni avanzate sull’opportunità di un tale uso. È una delle tante lezioni sulla democrazia, che gli opinionisti occidentali amano elargire agli altri, senza mai apprenderle loro stessi per davvero. La polizia del pensiero funziona per “loro”, nelle sedi dei giornali o delle radiotelevisioni, ma non per la gente che non è pagata per dire o meno quello che pensa.

Per quel che mi riguarda, è un termine che preferisco non utilizzare. In questione non è tanto la pertinenza o meno di questo “termine” sul piano strettamente giuridico, per molti versi plausibile, e in ogni caso legittimo in una campagna politica di denuncia dell’azione militare israeliana e di richiesta di un cessate il fuoco. Preferisco non usarlo per gli effetti, inconsapevoli o meno, che la sua formulazione può indurre in me, cittadino italiano, appartenente a quel popolo che ha avuto un ruolo nello sterminio degli ebrei in Europa. Non trovo del tutto convincente l’articolo scritto da Liliana Segre per il ”Corriere della Sera” su questo tema (il 29 novembre 2024). Considero che, ad esempio, definire il governo Netanyahu “pessimo”, riveli oggi una forma d’indulgenza non condivisibile. Un governo da più parti (e non solo dai palestinesi) accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, che sta promuovendo l’annessione quasi integrale della Cisgiordania, è criminale; così d’altra parte, durante i mesi delle contestazioni di piazza, l’avevano definito gli oppositori israeliani prima del 7 ottobre, anche se per ragioni di politica interna. Nonostante questo, c’è un punto importante che accolgo della riflessione di Segre. Lo cito: ”In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare agli altri quello che è stato fatto loro”. Io a questo ci credo, e credo che valga soprattutto per alcuni europei. E la voluttà nell’uso di tale parola, anche se è riferita alla condotta degli israeliani di oggi, risiede nel pensiero implicito che può suggerire ad alcuni di noi: “adesso, cari ebrei, siamo pari, possiamo liquidare questo vecchio fardello”. Ho sentito parlare di “genocidio” da scrittrici e scrittori arabi, ad esempio, ma in loro non era percepibile questa “libidine” né questo sollievo nel “pareggiare” i conti.

Il titolo di Foa è senza ambiguità: dal punto di vista di chi, come gli ebrei della diaspora, è amico di Israele, quello che sta accadendo è un suicidio collettivo, un suicidio sia politico che morale e culturale. L’indossare il ruolo di carnefici non è incompatibile con una condotta suicidaria. Il capitolo importante che l’autrice dedica al sionismo, alle sue varie facce e soprattutto alla sua evoluzione, prima e dopo la nascita dello stato di Israele, diventa una tappa indispensabile per comprendere i motivi e le cause degli sviluppi attuali. Diversi storici israeliani così come ebrei statunitensi hanno studiato, decostruito e criticato il mito nazionalista del sionismo. Era importante che, in questo contesto, si aggiungesse anche una voce autorevole della diaspora italiana. Anche perché Foa stessa sottolinea come “La diaspora europea [taccia] clamorosamente, tranne voci davvero isolate” (p. 10). E aggiunge: “In questi tre anni, i tre mondi ebraici del dopo 1948 sono diventati essenzialmente due: quello israeliano e quello americano. La diaspora europea perde progettualità e importanza. Oggi l’ebraismo europeo è privo di ogni progetto culturale e politico, di ogni autonomia rispetto a Israele” (p. 57).

 

Prospettive post-sionistiche

La ricostruzione storica dell’autrice mi sembra indispensabile per considerare in modo adeguato non solo le componenti divergenti del sionismo, ma anche il carattere ambiguo della nascita di Israele. Mi sembra anacronistico ridurre quella vicenda a un’ispirazione e a un progetto puramente coloniale, progetto che si è invece imposto progressivamente attraverso tappe e svolte specifiche, anche in rapporto all’azione dei paesi arabi circostanti o degli stessi dirigenti palestinesi. Non si tratta, qui, solamente di discettare su diversi quadri interpretativi di storici di professione, ma di comprendere la dimensione tragica di quell’evento storico, che ha costituito una prospettiva di salvezza per un popolo perseguitato fino allo rischio di sterminio totale, producendo, nello stesso tempo, una catastrofe per un altro popolo, quello palestinese. Fornire una lettura riduttiva di quell’evento, mi sembra non possa che ritardare ulteriormente il riconoscimento delle rispettive memorie traumatiche e identità storico-culturali. Oltre il conteggio delle responsabilità storiche, oltre la denuncia e la cessazione dei crimini, oltre la persecuzione dei criminali, si dovrà, per inverosimile che possa oggi apparire, giungere al riconoscimento reciproco di due popoli e del loro diritto di vivere in piena autonomia e pace.

In un’ottica non più storica, ma progettuale, il discorso di Foa mi sembra fondamentale. Scrive:

“Non è ormai giunto il momento di guardare e costruire una società civile e democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? E come può uno Stato ebraico, necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei sugli altri cittadini, garantirla? È questa una contraddizione di fondo tra Stato ebraico e Stato democratico, che si perpetua dall’inizio e che è ora necessario sciogliere se si vuole uscire da questa situazione di guerra, ma anche dallo stallo che ha preceduto la guerra.” (p. 75)

Richiamare questa contraddizione, dopo averla studiata in quanto storica, non è un punto secondario. Chi, in una prospettiva filopalestinese, nega questa contraddizione, schiacciando tutta la storia israeliana su di un progetto unicamente coloniale, non fa che rafforzare quell’identità che il sionismo religioso e l’estrema destra israeliana hanno contribuito, per primi, a consolidare in un’unica dimensione. Il futuro di uno Stato israeliano non-coloniale e davvero democratico dipenderà anche dalla capacità degli israeliani di trovare dentro di sé e dentro la loro storia una leva per trasformare la propria mentalità e i propri comportamenti. In altre parole, “per il post-sionismo è necessario voltare pagina, passando da ‘uno Stato ebraico e democratico’ come Israele è ufficialmente definito dal 1992, a ‘uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini’, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale e religiosa” (p. 77). Qui è Foa che cita Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci, 2017.

 

“Rendere impossibile una parola ebrea contro la violenza di Stato” di Judith Butler

Affinché simili prospettive possano rendersi praticabili almeno in futuro, è indispensabile che non solo la distruzione di Gaza e l’annessione della Cisgiordania siano denunciati, ma anche gli stessi presupposti ideologici che giustificano questa politica agli occhi del governo di estrema destra e di una maggioranza della popolazione israeliana. Per fare questo, però, bisogna difendersi dalle accuse di antisemitismo che la propaganda di Netanyahu promuove, amplificata da associazioni ebraiche e da opinionisti politici in Occidente e in Europa. Anche qui i “poliziotti del pensiero”, quali che siano le loro più o meno ciniche motivazioni, non hanno impedito che, ad un certo punto, la manipolazione della memoria della Shoah sia diventato tema di molteplici critiche. Questa manipolazione è per altro in atto da anni, ma nel corso di questa guerra essa è stata definitivamente smascherata. Anche Foa evoca questo tema, ma è Judith Butler che lo affronta con più severità. L’articolo di Butler è stato raccolto in un volume francese dal titolo Contre l’antisemitisme et ses instrumentalisation edito per La fabrique nel settembre 2024.

Butler evoca una serie di episodi che hanno riguardato università e istituzioni culturali, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia. In tutti questi casi si è considerato che iniziative o conferenze a sostegno della Palestina fossero da impedire, in quanto di per sé minacciavano la sicurezza di studenti ebrei o più in generale della comunità ebraica. Ma Butler ricorda come questa censura non sia stata esercitata in casi di appelli all’odio nei confronti degli ebrei, dove sarebbe stata comprensibile, bensì in occasione di denunce del genocidio a Gaza e di richieste di “cessate il fuoco”. E scrive:

“Questa manipolazione è profondamente nefasta, perché reclamare il cessate il fuoco esprime precisamente il desiderio che si arresti di fare del male ad altri. Oggi, sono le palestinesi e i palestinesi che hanno bisogno di essere protetti. E la comunità internazionale ha fallito nel fornire loro questa sicurezza. Hanno bisogno di essere al riparo dal pericolo, dal pericolo fisico reale – di essere ammazzati, feriti gravemente o di vedere la propria famiglia massacrata.” (p. 13)

Butler mostra come, alla fine, l’estensione indebita dell’accusa di “antisemitismo” finisca per riguardare “il fatto stesso di chiedere giustizia in Palestina”. A questa considerazione ne va aggiunta un’altra di Anna Foa, che scrive: “E gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire. Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza?” (p. 87). Foa non nega che ci sia anche un “divampare” dell’antisemitismo, ma una tale preoccupazione, pur legittima, non può oscurare le ragioni di un tale fenomeno. E, d’altra parte – aggiungo con Butler –, non possono porsi sullo stesso piano di gravità e urgenza il massacro in atto delle vite palestinesi, vite isolate dal mondo, e azioni vandaliche su oggetti e minacce razziste, indirizzate a comunità che vivono in uno stato di diritto.

 

Narrazione contro cifre (e immagini)

L’ultimo tema, che Butler affronta nell’articolo citato, riguarda la “potenza del racconto” e fa riferimento all’inestimabile, insostituibile, potenza conoscitiva dei “racconti” rispetto al dato astratto fornito dalle cifre dei morti e dei feriti. L’autrice ne parla, qui, in due succinte pagine, ma si tratta di una questione capitale, che riguarda non solo l’attualità e i conflitti politici, ma il ruolo che, dal punto di vista antropologico, le narrazioni svolgono nelle nostre vite. Non pensate per favore a tutta quella letteratura insipida sulle virtù che la forma narrativa può fornire a qualsiasi tipo di evento o esperienza, come se si trattasse di una tecnica specifica, in cui specializzarsi per ottenere una sorta di “marketing esistenziale”. La comprensione delle nostre azioni è da sempre connessa ai quadri di riferimento storico-sociali e alle forme di narrazione che si accompagnano a essi. Quello che è importante capire dell’osservazione di Butler è che l’impatto che le cifre hanno su di noi è limitato: che differenza fare tra mille o diecimila bambini morti? In quale modo, se non vago, estremamente parziale, possiamo cogliere una differenza tra mille e diecimila morti? La sola idea della morte violenta di mia figlia quattordicenne, non ancora del tutto uscita dal mondo dell’infanzia, mi sembra inconcepibile e straziante. Come posso familiarizzarmi con dieci, cento, mille, diecimila volte quello stesso già inimmaginabile dolore? No, le cifre non ci aiutano ad avvicinarci alla realtà di massacri di tali entità, come quello subìto da più di un anno dalla popolazione palestinese. Ma questo vale già per il massacro del kibbutz di Kfar Aza, dove i miliziani di Hamas hanno ucciso più di 200 civili andando casa per casa. Posso misurare certamente la diversa gravità del fatto, se pongo a confronto l’uccisione di 1200 persone o quella di più di 40.000, ma la distruzione di ogni vita innocente è da considerare una perdita assoluta, incommensurabile, non perché sia sacra per un Dio o per la ragione universale, ma perché è sacra per una parte dell’umanità: un genitore, un amante, degli amici, una comunità, un popolo. E siccome ognuno di noi ha qualche vita intorno a sé che considera intimamente, visceralmente, sacra, ciò significa che ognuno di noi sa come e perché una vita è sacra.

Ma ritorniamo all’entità del “terrorismo di stato” israeliano e alla possibilità di tradurlo in qualche forma di comunicazione. Butler si riferisce a Gaza Writes Back, una raccolta di racconti di scrittrici e scrittori palestinesi dedicata all’operazione Piombo Fuso (2008-2009) dell’esercito israeliano. Commentando le parole del curatore Rafat Alareer, l’autrice scrive:

“Queste storie, queste poesie non sono appunto delle cifre: emergono da individui che lavorano in seminari di scrittura collaborativa e che traducono i testi in inglese per assicurarsi che “il mondo” sappia cosa è successo e per dare un senso vivo e dettagliato a quel che significa continuare a vivere dopo la perdita di una vita, in uno spirito di perseveranza e di resistenza collettiva.” (p. 23)

Che cosa cambia, allora, tra l’evocazione della perdita di una vita umana in cifre e quella attraverso un racconto? In realtà, non si tratta neppure di “dettagli” in quanto tali, anche se il dettaglio è sempre importante in una narrazione. Il racconto ci parla più delle cifre, perché ci permette di vedere la morte di un essere umano dalla prospettiva della vita di un altro essere umano o, al limite, dalla sua stessa prospettiva, prima che giunga l’annientamento. Non c’è argomento più persuasivo contro la pena di morte, che la narrazione, reale o fittizia, della vita di un individuo che si è meritato una tale condanna. È una delle cose che insegna la lettura, ad esempio, di un romanzo come A sangue freddo di Truman Capote.

Ho insistito sulla “debolezza” delle cifre per trasmettere l’orrore del massacro, ma un discorso analogo dovrebbe essere fatto per le foto e più generalmente le immagini. Quante foto o quante sequenze di bambini estratti a pezzi dalle macerie, dopo un bombardamento, devono convincermi che quel bombardamento è ingiusto, sbagliato, criminale? Le foto sono importanti, come è importante la loro circolazione. Ma le foto, che siano disponibili o meno, non producono di per sé indignazione. O meglio, non è la moltiplicazione di foto di massacri che possono commuovere qualcuno che non si è commosso alla documentazione di un primo massacro. È necessario vedere i corpi scheletrici degli internati dei Lager, così come le cataste dei cadaveri prodotti dallo sterminio nazista. Ma quante di queste immagini dobbiamo vedere, per convincerci dell’entità e dell’orrore della Shoa? Quelle immagini sono importanti, ma non sarebbero sufficienti, ad esempio, senza la lettura di Se questo è un uomo.

Ho trovato interessante e acuto l’articolo Davanti allo sterminio degli altri di Massimo Palma, apparso su “Antinomie” (20/11/2024). L’intervento di Palma ruota interamente intorno a questo paradosso: tante sono le circostanze e le ragioni che rendono “inefficaci” dal punto di vista “politico” le immagini dei massacri, come quello in corso a Gaza. Vi sono voci che si levano anche contro l’opportunità che tali immagini “circolino”. Palma le considera attentamente, ma lui stesso devo poi giungere a questa constatazione: “La realtà della guerra sempre online, mai disconnessa – questa è il fatto nuovo che ci sta offrendo un anno di ripresa in diretta della guerra, ora per giunta guerra diffusa”.

Come non mi piace ripetere a ogni piè sospinto che Israele sta compiendo un “genocidio” così non voglio riempirmi la mente di immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi. Il risultato non sarebbe una maggiore comprensione o coscienza della gravità dell’accaduto, ma un semplice odio e schifo negli esseri umani in quanto tali – me incluso alla fine -, che sarebbe difficile poi togliersi di dosso. Non ho capito né accolto tutto l’orrore della distruzione di Gaza – chi è in grado di farlo? Non basterà una generazione di palestinesi e israeliani ad assimilare tutto quello scempio di vite fatto e subito. Ma condanno l’uso del terrore dei miliziani di Hamas come quello dello Stato israeliano, senza produrre un’equivalenza tra torti palestinesi (che vivono su un territorio controllato e occupato) e torti israeliani (che controllano e occupano terre altrui), né un’equivalenza riguardo all’entità del male procurato; disprezzo i dirigenti politici occidentali cinici e vigliacchi che esibiscono ancora una volta i “due pesi e due misure”, disprezzo l’opportunismo di tanti opinionisti che svolgono con entusiasmo il ruolo di “poliziotti del pensiero”, perché avrei voluto che gli uni e gli altri si impegnassero per limitare la distruzione delle vite palestinesi.

 

Coda

Molto di più di tante immagini o di tante cifre sull’invasione Russia dell’Ucraina, mi ha toccato Intercepted, un documentario realizzato quest’anno dalla regista ucraina Oksana Karpovych. Nel film, ascoltiamo brani di conversazione di soldati russi, attivi sul fronte ucraino, con la propria famiglia (moglie, genitori, ecc.). Queste conversazioni realmente accadute sono state intercettate dall’esercito ucraino e poi montate dalla regista, sullo sfondo di immagini di paesaggi urbani o naturali, che hanno ricevuto l’impronta della guerra. Non si vede, insomma, una sola azione violenta. La violenza è tutta nei racconti che i soldati russi fanno della loro vita al fronte, delle condizioni miserabili in cui vivono, e delle cose atroci che alcuni di loro hanno fatto (come torture o uccisioni di civili ucraini).

*

[1] Scrivevo in La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra: “Sono un italiano, nato in un paese che ha prodotto il fascismo e ospitato i nazi-fascisti. Ho letto Primo Levi, un italiano ebreo, che dai nazi-fascisti è stato spedito nei campi di sterminio. Vivo attualmente in un paese dove è esistito il regime di Vichy, che ha collaborato alla deportazione nei Lager di decine di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Più in generale, sono la storia lunga dell’antisemitismo europeo, oltre a quella breve e devastante della Shoa, e infine la storia del colonialismo europeo (inglese, in particolare) a determinare la nascita dello Stato di Israele nella Palestina mandataria”.

 

Funghi neri

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Foto di Markus Spiske da Pixabay

di Delfina Fortis

Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera. Un odore di marcio mi tagliava il fiato. Sentivo il respiro della muffa. Mi sembrava di entrare nei Piombi di Venezia invece era il patrimonio immobiliare che mio padre e mia madre mi avevano lasciato. Un’abitazione situata al fondo di una strada stretta, priva di uscita e di parcheggio, inerpicata su una collina scura e inospitale. E in quel momento, su quel mammellone di terra, le stanze disabitate e gonfie come una vescica, sembravano fissarmi come fossi un ratto in una fogna.

Era stata la casa estiva dei miei genitori anziani, ma la detestavo. Dalle finestre non si vedeva la Côte, ma si sentivano i rumori delle navi. I cani abbaiavano di notte, i chirotteri volteggiavano sui lampioni, le zanzare si infilavano nelle camere mentre le spiagge si estendevano lontane. Ricordavo i soprammobili, le tende di pizzo, i cuscini sbiaditi, le sedie di legno scuro, le sculture africane, i quadri e le litografie ingiallite.

Mi sono seduta sul letto umido e mi sono messa a piangere. Piangevo per me stessa, per la mia vita, per quello che avevo trovato. Sentivo che l’acqua penetrava dappertutto. Scorreva rumorosa come una cataratta attraverso gli interstizi dei soffitti, nelle intercapedini dei muri, negli intonaci delle pareti. Quando fuoriusciva dalle fessure e dalle crepe dei muri lasciava una scia verde, unta come un’alga viscosa. Sentivo gli occhi di qualcuno che mi osservava dalle tenebre.

Nel bagno, tra le maioliche, ho scorto dei funghi neri. Li ho recisi e sul palmo della mano sembravano molluschi strappati da una conchiglia. Ho deciso di cucinarli. Li ho esaminati mentre sfrigolavano nell’olio bollente sulla superficie della padella. Assaggiati, sapevano di fiori appassiti. Mi sono svegliata disorientata, ancora vestita, sudavo e non capivo perché. Nelle orecchie risuonava il rumore delle gocce che cadevano, nelle narici un odore acre e disgustoso. Mi bruciava la gola.

Sono rimasta sveglia fino all’alba. Ho avuto paura che la muffa mi penetrasse nei polmoni e potesse germogliare come la macchia verde nel corridoio o la grande chiazza gialla che si allargava e gravava minacciosa sopra il mio letto. «E se un giorno il soffitto si aprisse?». Così aveva vaticinato il mio vicino di casa di nome Marcel quando gli ho mostrato, per la prima volta, che cosa avevo trovato la notte precedente.

Erano accorsi altri inquilini incuriositi dalle voci, dal rumore battente dell’acqua. Sono entrati tutti insieme come in una processione silenziosa nel giorno dei defunti. Sulle scale vi erano altri inquilini, figure sconosciute che apparivano e scomparivano come fantasmi. Anziani, malati, curiosi. Alcuni commentavano sottovoce per non farsi capire, altri mi raccontavano di liti con i vicini, di denunce, di sfratti. Mi sentivo parte di un mondo malato, di un sistema che mi masticava e mi sputava per terra.

Due donne anziane erano entrate nella mia camera da letto. Avevano il fazzoletto in testa e un rosario in mano. Avevano aperto gli armadi, i cassetti e annusavano l’aria. Non mi aspettavo un simile corteggio di persone sconosciute. Mi sembrava il ricevimento di una cerimonia funebre. Avrei voluto offrire qualcosa, una bevanda, un caffè, mentre tutti guardavano spaventati verso l’alto. Ho deciso di suonare alla porta del vecchio proprietario del piano di sopra in cerca di una spiegazione, di una soluzione, di una via di salvezza. Un uomo anziano con gli occhi luciferini e l’apparecchio acustico mi aveva urlato di andare via, aveva detto che ero una sconosciuta e una povera pazza. Prima che mi chiudesse l’uscio di fronte al naso avevo notato come la sua casa fosse sbiadita come una vecchia Polaroid.

L’indomani, tutti mi guardavano con commiserazione. Alcuni mi stringevano la mano in maniera forte e decisa, altri mi parlavano troppo veloce, ma fingevo di capire e annuivo con un movimento nervoso del capo. Di sera, ho contattato les sapeurs pompiers in cerca d’aiuto. Gentili e pazienti avevano ascoltato il mio francese da Principe De Curtis e mi avevano spiegato che non sarebbero mai intervenuti e mai avrebbero inviato una squadra sul posto. Uscita in strada, attesi il buio e decisi di dormire in macchina in un parcheggio vuoto lungo il mare. Vi era un’aria di tempesta e nessuno mi avrebbe notata.

Nei giorni successivi, ogni pomeriggio, cominciai a frequentare la grande BibliothèquePierre Menard. Cinque piani, riscaldata, silenziosa, luminosa, accogliente. Sulla mia tessera scaduta vi era scritto La bibliothèque est un monde clos, ouvert sur le monde. Circondata da libri, da parole, da storie, ma incapace di concentrarmi, pensavo al mio appartamento, al mio passato, al mio futuro. Mi sentivo persa, sola, inutile. Seduta al tavolo, presi in mano una matita. Forse scrivere mi avrebbe aiutato a capire cosa stesse succedendo. Ma le parole non uscivano.

Qualche volta mi addormentavo e mi svegliava la sirena della chiusura. Adoravo quella biblioteca pubblica con i bagni spaziosi e profumati come quelli di un albergo di lusso dove avrei potuto lavarmi senza essere notata dalla donna delle pulizie che un giorno mi aveva cacciato come una indesiderabile barbona. Avevo deciso di abitare lì per mesi interi in attesa di un idraulico locale che ogni giorno fissava un appuntamento e ogni giorno non si presentava. Richiamavo, la linea era staccata. Facevo un bilancio dei danni subiti, contando con le dita. Un giorno verranno i periti e mi chiederanno le ricevute degli oggetti danneggiati, ma io non le ho mai possedute e i miei genitori defunti non torneranno per aiutarmi.

Ogni sera, andavo a mangiare vicino al porto in un bistrot con l’insegna spenta, lontano dal traffico e dalle grandi barche. Trovavo il mio tavolo apparecchiato e il cuoco pieno di tatuaggi di mostri marini mi teneva sempre qualcosa da parte e non sapevo perché. Benché facesse freddo – il riscaldamento era sempre rotto – ero la benvenuta finché non ho trovato la serranda abbassata con il cartello A vendre.

Oggi, terminato il temporale, sono ritornata a piedi verso la casa. Ho immaginato di camminare scalza come una santa medievale. Sull’asfalto scorrevano rivoli d’acqua e la terra della collina sembrava ridotta a fango. Mi sono guardata intorno, il cielo era cupo e i luoghi non mi apparivano più familiari. Tra gli arbusti si scorgeva il profilo nascosto del mare. Ma era trascorso troppo tempo. Ormai, la mia casa come la ricordavo non c’era più. Non potevo più vantare alcun diritto. Durante la mia assenza, qualcuno l’aveva occupata e rimessa a nuovo. Le finestre erano aperte e le luci erano accese. Ho lanciato le chiavi in un cespuglio di sterpi perché nel caos della mia mente, su quella collina scura, la mia casa allagata e quel mostro pieno di muffa verde e funghi neri non erano mai esistiti.

Da “Ogni cosa fuori posto”

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Per Industria & Letteratura, collana di narrativa “L’invisibile” diretta da Martino Baldi, è oggi in libreria Ogni cosa fuori posto, un romanzo di Andrea Accardi

di Andrea Accardi 

Dal capitolo 3. Dentro il condominio

[…]

C’è adesso come un vuoto nella planimetria, un buco da cui passa l’aria fredda, e su quel niente di un interno al quinto piano converge e poi s’increspa tutta la pianta del condominio. Il corpo della ragazza (il salto, il volo) resta per aria come una parte che manca (nondimeno è lì in salotto, ricomposta, e l’appartamento intero la costeggia). La vita ordinaria è come sospesa, alcuni divagano per pena o imbarazzo, altri provano a dire puntualmente, a capire. “La causa, le ragioni…”, “Ma non c’è mai un perché soltanto”, “Qualcosa di simile al destino, le nascite, le morti…”, “La vita a un certo punto si stringe al collo”, “Nessuno ha potuto farci nulla”, “Chissà cos’ha visto, dov’è precipitata”, “Ma adesso si abbasserà il valore delle case”, “La catena invisibile del dolore”, “Se n’è andata liberamente, con il sorriso”, “Ma che cazzo ne sai”.

Stefano gira per l’appartamento mentre tutti stanno in salotto, e intravede la stanza di Roberta dalla porta semichiusa, semiaperta, le pareti dipinte di rosso (“Sembra il set di un film porno”), dentro ci trova Marta e le ragazze, guardano le foto appese e piangono. Stefano ricorda che sono stati anche amici quando uscivano tutti insieme al primo anno, c’è anche lui in una foto scattata qui in balcone, e i palazzi intorno un poco sfocati che sembrano guardarli come passanti stupiti. E gli piaceva pure, Roberta, ma non glielo ha detto mai tranne quella volta che lei ha finto che non si era capito ma si era capito eccome. C’è poi una foto di Roberta a quattro anni nuda sulla battigia che sorride con un sorriso smorfioso a qualcuno che la fotografa, è forse questo il passato degli altri, un sorriso di cui nessuno conosce il motivo. Oggi Stefano si sente come uno arrivato alla fine di una festa, anche se festa non è forse il termine più adatto. Sente di avere sprecato la giornata, e invece Roberta cos’ha voluto sprecare e perché.

Proseguendo per il corridoio, adesso ascolta i rumori del condominio, il respiro del palazzo, suoni di sciacquoni, di sedie spostate, colpi di tosse, perfino le molle di un letto (“qui sotto si muore e invece sopra… due cose opposte che incombono”), pensa che prima o dopo tutte le risate avranno torto, saranno smentite. Sogna il futuro come una cosa enorme, piena di buio, di perdita (“e forse ci si ammazza per questo, per giocare d’anticipo”), arriva alla fine del corridoio, di lato una stanza più piccola, una scrivania e un mappamondo, libri aperti forse per l’insonnia del padre che da oggi sarà peggio, come si sceglie una casa, come si sceglie il posto in cui impazzire?

“Ehi sei qui, andiamo, mi ha scritto quel coglione di mio padre, a Davide l’ho già detto”.  Stefano e Claudio sono sul pianerottolo ad aspettare l’ascensore, immersi in quell’odore consueto di cose umide rattrappite di nascosto che hanno tutti i pianerottoli davanti agli ascensori, e al sollievo di un odore conosciuto si aggiunge di colpo l’inquietudine di un problema irrisolto, di un odore che nasconde piuttosto un divieto. “Si vede con una colombiana, mia madre gli ha trovato dei vocali ridicoli con questa che parla e sembra l’imitazione di una prostituta, lui dice che fa l’estetista va beh”, “Ah cazzo mi dispiace”, “Che figura di merda che ci fa, che figura”. Dentro l’ascensore si pensa poi a cosa potrà esserci nella cavità del condominio, nel ventre della balena, monete come dentro una fontana, sigarette e sigari, forbici piatti lische guanti, mappamondi e dentiere, vasi da notte pettini lampadine, un mazzo di chiavi, qualcosa come un groviglio di peli e polvere e fili, e poi code di animali, pupille risvegliate dalla luce, dai rumori di superficie, oppure feti rifiutati e portati a compimento in un’acqua di sentina, in un fondo di gusci liquami detersivi, uomini del sottosuolo metà nani metà uccelli che spingono carrelli su rotaie, raccolgono i minerali di cui è fatto il condominio, spronati da diavoli felici simili a scimmie in costume che conoscono il buio di cui è fatto il macchinario, ma anche, degli uomini che vivono di sopra, il destino.

Stefano e Claudio raggiungono il cortile dietro il palazzo, che sembra una discarica di biciclette. Su un muretto che costeggia il cortile c’è una scritta fatta a mano con la vernice, ma la scritta è un poco storta, trema, dice posteggio e non ci crede neanche lei. “Ci vediamo a scuola e poi in piscina ma comunque ci scriviamo”. Poi fra loro passa come un orlo di significato, un bagliore che si spegne di colpo: che non c’è merito nella riuscita e non c’è colpa nella disfatta. E in quel momento entrambi sentono un verso già sentito mille volte, e anche quella mattina all’alba, quando la cosa era già avvenuta, si sarà comunque udito, come in tutte le albe che ricordiamo della vita, il verso singhiozzante e vicinissimo, quasi davvero dicesse qualcosa di umano agli umani, della tortora.

SINOSSI

Un medico arriva in una cittadina per prendere servizio, ma di notte si perde e la esplora suo malgrado. La mattina dopo si diffonde la notizia del suicidio di una ragazza, e intorno a questo trauma finiscono per articolarsi le storie dei protagonisti e le loro ricerche insoddisfatte. Un personaggio misterioso arrivato da fuori attira l’attenzione di tre giovani amici e compagni di scuola. Nel frattempo lo stesso medico è sulle tracce di un cane infetto, un professore non riesce a instaurare un dialogo con i suoi allievi, un ragazzo all’estero cerca e non trova dove abitare. Questi fili finiranno per unirsi, mentre in gioco sembrano esserci, per tutti, alcuni fantasmi della mente che deformano la realtà.

Abbagli tra le rovine del mondo caduto

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di Alice Pisu

quella che segue è l’introduzione di Alice Pisu al racconto di Dario Voltolini “Acqua chiusa”, edito recentemente da Oligo Editore, nella nuova collana “Ronzinante”, diretta da Marino Magliani; i disegni contenuti nel volume, particolarità comune alla nascente collana, sono dell’autore del testo;
per gentile concessione della casa editrice mantovana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando il fuggiasco de L’invenzione di Morel entra nel salone rotondo di un museo che pare disabitato come il resto dell’isola in cui è appena approdato, nota con disgusto che i suoi piedi calpestano un pavimento-acquario in cui galleggiano pesci putrefatti. Quella sensazione di abbandono è pura apparenza, generata da uno spazio e un tempo allucinati, strutturati come pura forma. Schernirsi del vero equivale per Adolfo Bioy Casares a generare uno straniamento rinnovato, reso nel muoversi entro una concezione alterata di realtà e apparenza: un elogio dell’irrealtà utile a indagare, tra proiezioni e invenzioni, uno smarrimento più profondo, esistenziale, destinato a permanere irrisolto.

Da una sospensione affine, connessa al presagio dell’inesorabile, si origina Acqua chiusa. Una storia di gorghi e detriti, di desertificazione, retta su materiali di scarto, simbolo della coesistenza della morte nella vita, dell’impossibilità di un vigore autentico in ciò che ormai è logorato dal tempo, dalla storia, dall’ineluttabile.

L’irrequietezza ammanta l’inerzia apparente del quartiere di Torino al centro del racconto, sostentato in passato dalla fervente attività della grande fabbrica Michelin di cui ormai non resta che un cratere. Attesta la deriva di una contaminazione che ha corroso ogni cosa, deformato i connotati delle abitazioni, le palazzine dall’estetica beffarda, il flusso tossico e purificatore delle sue acque. Le rovine industriali, le stratificazioni urbane, le finte piazze, i tetti a cresta di drago, i campanili al posto delle ciminiere si legano a un tempo irraggiungibile. L’assenza di precisi riferimenti temporali e spaziali e l’anonimato di personaggi che finiscono per annientarsi nel loro ruolo celano il passo favolistico del racconto: sfilano sulla pagina figure che lambiscono quotidianamente la catastrofe, accomunate da una coscienza anteriore alla loro esistenza. Lo sguardo del narratore rende tangibile la privazione, incapace di immaginare una forma di grazia in un passato proletario verso cui stride ogni nostalgia.

In costante equilibrio tra la perlustrazione e il racconto interiore, Voltolini indaga il corpo, scandaglia la dimensione fisica di un luogo prosciugato, in bilico tra realtà e mito, per coglierne lo spirito e comporre una personale geografia dell’immaginario. Le macerie di edifici divenuti assurdi nella loro tenace insistenza attestano un annichilimento nel calco del non tempo. Aleggiano interrogativi sottili sul cadere e lasciarsi cadere, sull’insensatezza del vivere scorta nell’evocare quel che accade a coppie segnate da ristrettezze, a figli miracolosamente scampati alla morte, a nuove generazioni inconsapevoli e sarcastiche. Si staglia sul resto la figura di un viandante perennemente di spalle, all’ombra dell’esistenza, immagine che rimanda a un’erranza manganelliana senza rimedio.

Intrigato dalla vita nascosta nella materia morta, da ciò che è ormai privo di senso, Voltolini genera visioni nel gioco di accumuli utile a sostanziare una dimensione estranea al noto. La tensione alla vertigine esorta chi legge a concepire una cifra di inconoscibilità e al contempo di familiarità in luoghi infestati dalla solitudine: analogie con l’ignoto che ogni individuo sperimenta se osserva il proprio vuoto. La levità sui drammi con scorci teneri e crudeli, caratteristica della prosa di Voltolini, trova nella forma breve la misura per sondare un dolore mai esplicitato nei suoi toni vividi, con una prosa retta sul dialogo tra gli oggetti, gli spazi fisici e quelli interiori. L’elogio del frammento, la cura estrema per la parola esatta, il sapiente tratteggio lirico, le insistenze descrittive sulla metamorfosi, l’inganno delle insorgenze della memoria, la costruzione dell’immaginario tra rifiuti e carcasse, concorrono a definire una desolazione senza rimedio, segnata dal fluire sfuggente dell’acqua e del tempo che annulla l’idea del futuro.

Emergono due distinte dimensioni nel racconto: il tempo verticale della costruzione e del crollo e quello orizzontale del fluire della natura che si riappropria degli spazi, ripulisce e annulla il preesistente. L’incedere per contrappunti – l’immobilità di un’atmosfera post-industriale e lo scorrere inesorabile dell’acqua – si inserisce idealmente nella concezione della natura liquida del linguaggio associata all’inafferrabilità dell’elemento naturale studiata da Anne Carson. Voltolini gioca con i vuoti, i pieni, i dislivelli, studia la cifra imperscrutabile di spazi perennemente esposti attraverso un allestimento urbano che solo in parte coincide col tangibile, per soffermarsi sugli esiti delle quotidiane disgrazie operaie, radicate e ineludibili, che concorrono a definire il tempo svuotato da ogni prospettiva del mondo caduto. Ogni elemento è definito nello squilibrio perenne, in una spirale di disgregazione e creazione che attesta una falsificazione perpetua, un’inutile resistenza all’abbattimento.

L’autore narra una decadenza anzitutto interiore, la trasfigurazione di un contesto in dismissione ormai falso, inservibile, che rimanda alle fantasie di Sebald su catastrofi future tra le rovine della civiltà estinta. Lontano da nostalgie per un passato guasto, con Acqua chiusa Voltolini concepisce nel disegno di fallimento la naturale conseguenza dell’inafferrabilità del reale, dell’abbaglio del visibile. Indugia sulle sovrapposizioni di storie per scorgere grovigli senza via d’uscita nel posare fugacemente lo sguardo sugli esiti individuali dei suoi soggetti.

Il racconto è un invito a rintracciare una personale geometria del tempo nel bilico tra memoria e perdita, a fare propria la curiosità immaginativa del narratore sulla vita anteriore per riconoscere nella fragilità di un ambiente in dissoluzione una configurazione interiore nell’enigma tra salvezza e oblio, e riflettere sull’incapacità moderna di relazionarsi al paesaggio e di lasciarsi interrompere da esso.

Mostri sacri e complicanze storiche

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di Antonio Sparzani
I miei mostri sacri della letteratura italiana sono Calvino e Gadda, rigidamente in ordine alfabetico. L’altra sera mi sono saltati addosso insieme. Cominciavo a leggere la quinta delle Lezioni americane di Italo Calvino: sappiamo che egli accuratamente scrisse le Lezioni prima di andare negli USA per portargli un po’ di cultura; ma incontrò, ancor prima di partire, la nera signora e tutto finì. Questa quinta lezione, titolo La Molteplicità, comincia con una lunga citazione di Carlo Emilio Gadda, di cui vi riporto solo la parte che mi interessa. Lo scritto di Calvino comincia appunto così:

“Cominciamo con una citazione:
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan¸ nella sua saggezza interrompeva codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. [ . . . ] Sosteneva, tra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia, d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello [ . . . ].”
(Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti 1988, pp. 101-2, dove viene citato Carlo E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti 1973, pp. 2-3).

Chi abbia letto il Pasticciaccio ricorderà che si trattava del “dott. Francesco Ingravallo comandato alla mobile”, da tutti detto “don Ciccio”, quello appunto che indagherà sul pasticciaccio per tutto il libro.
I passi gaddiani ricordati e trascritti da Calvino sono ben più lunghi, e sempre anche divertenti e gustosi, ma mi sono forzato a mantenere qui quello che più mi interessa. Che probabilmente già si capisce dalla mia scelta all’interno delle lunghe citazioni e che del resto Calvino poco dopo riprende così:

“Ho voluto cominciare con questa citazione, perché mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo. [ . . . ] Ho scelto Gadda [ . . . ] soprattutto perché la sua filosofia si presta molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato” (Lezioni, p. 103).

La lettura di tutto questo mi ha fatto scattare varie scintille nella testa. Quando s’invecchia si ricordano facilmente certe cose lontane nel tempo e si perde la memoria di quel che si è fatto l’altro ieri. Così è accaduto che ho ripensato alla mia lontana lettura di Guerra e Pace, romanzo che mi aveva ai tempi molto colpito non solo e non tanto per le vicende del principe Andrej, della fascinosa Nataša e di Pierre Bezuchov (che già nominavo qui ) e qui ) quanto per le varie ed estese considerazioni che Lev N. Tolstoj accuratamente esprime sulla guerra e sull’andamento del mondo. Sono molte e riguardano vari aspetti degli avvenimenti storici e qui ovviamente mi limito a passarvene qualcosa che è vicina al filo che stiamo seguendo. Prendendo le mosse dalle osservazioni che Tolstoj espone sulla matematica, leggiamo il seguito:

“I movimenti dell’umanità, essendo l’espressione di un numero infinito di volontà umane, si compiono in modo continuo.
Impadronirsi delle leggi di questo movimento è lo scopo degli storici. Ma per afferrare le leggi del movimento continuo costituito dalla somma di tutte le volontà umane la mente dell’uomo utilizza unità arbitrarie e discontinue. Il primo passo di ogni ricerca storica consiste nel prendere una serie arbitraria di avvenimenti continui e nell’esaminarli separatamente dagli altri; [ . . . ] Il secondo passo consiste nell’esaminare l’azione di un uomo, re o condottiero, come una somma di volontà umane, mentre la somma delle volontà umane non si esprime mai nell’attività di un solo personaggio storico.”

Da tutto questo a me pare di poter trarre una – quasi evidente – conclusione: nessun avvenimento storico può essere ascrivibile ad una sola causa, ma a una moltitudine di altre, talora meno talora più importanti, almeno al nostro, fallibile, giudizio. Il quadro che ci fa intravedere Tolstoj è quello di una rete fitta e irregolare, nella quale ogni nodo è legato a chissà quanti altri. Del resto, cercando altre fonti meno “romanzesche” ma più autenticamente storiche sull’argomento, mi sono imbattuto in una bella e intrigante monografia, che s’intitola Du sens de l’histoire, dello studioso Frédéric Press (L’Harmattan, Paris, 2014); ecco quanto si legge a pag. 92:

“Dans le même ordre d’idées, la causalité semble suivre sa logique propre. Les évènements sont liés par une chaine dont la permanence même tient lieu de vérité. Mais plus on remonte dans le temps et plus incertaine est la cause. Elle est toujours plus diffuse et l’historien en est réduit à rechercher les meilleures proximités. Par la force des choses, ou de leur logique interne, il n’est plus face à une mais à un ensemble de causes ».

Ora basta citazioni di supporto a un’affermazione non così peregrina: qualsiasi avvenimento, dai più minuscoli ai più clamorosi ha tante cause. Dal che si desume altrettanto ovviamente che, salvo nei casi più minuti e banali, quando qualcuno prende la decisione di fare una cosa, e la fa, solo vagamente e comunque con scarsa sicurezza può prevederne i risultati. Certo quando il 18 giugno del 1914 Gavrilo Prinzip uccise a Sarajevo, nella loro carrozza, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Absburgo, e la sua consorte Sofia, duchessa di Hohenberg, non prevedeva, né probabilmente intendeva dare inizio alla prima guerra mondiale, e viceversa non possiamo sostenere che la prima guerra mondiale sia stata provocata (soltanto) dal gesto di Prinzip.
Arrivato a questo punto ho cominciato a pensare agli attuali governanti del mondo, ammesso che sappiamo esattamente chi siano (non certo soltanto la schiera dei Biden, Putin, Ji, Netanyahu, Starmer, Scholz, Macron ecc.), che mediamente detesto, ma in qualche modo anche compiango: chissà se e quanto sono consapevoli che le loro scelte, che pure sono costretti a fare, quasi giorno per giorno, avranno un effetto non necessariamente coincidente con quello che essi sperano e auspicano, cioè quello che si erano ripromessi di provocare facendo quelle scelte.
Dalla cosiddetta globalizzazione in poi, questo problema è diventato sempre più grave: i fattori, gli stati, in gioco sono sempre di più, ci sono i rapporti commerciali da tener d’occhio, non solo i rapporti di forza, ci sono ogni momento imprevisti, fatti non prevedibili e non previsti, che vengono a mutare la scena e quindi a mutare le strategie immaginate. Certo, tutti i decisori avranno appositi comitati, gruppi di aiuto di informatori affidabili, ma il problema globale è ormai troppo complesso e la previsione del futuro diventa sempre più fallibile quanto più questo futuro è lontano: per il domani posso forse ancora dire qualcosa, per dopodomani un po’ meno, tra un mese è già un disastro.
Aggiungo, ciliegina sulla torta, che le cose davvero importanti per le sorti del mondo, noi gente comune con ogni probabilità non le sappiamo; staranno forse, forse, scritte sui libri di storia di qualche secolo a venire.

LA SPORCIZIA DELLA TERRA

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di Giacomo Sartori e Elena Tognoli

Quella che segue è l’introduzione al numero doppio (113-114), dedicato alla terra, e bilingue (italiano-francese), del bimensile Zeus! Rivista Mutante, edito dalla Cooperativa sociale Il Cardo di Edolo (maggiori informazioni sotto il testo)

Ci hanno insegnato che la pulizia è molto importante, e che le cose pulite sono inodori e ordinate, ben illuminate, ben geometriche, preferibilmente chiare. Prive di batteri e di altri ospiti invisibili potenzialmente molto pericolosi. Lavabili e asciugabili. Quindi non c’è molto da stupirsi se la terra, che è tutto il contrario, ci sembra sporca e brutta, e anche poco igienica, infestata da vermi e altri bacherozzi com’è. Puzzicchia di funghi, come le verdure lasciate troppo tempo in frigorifero, o la biancheria asciugata male, odorino che non associamo alle cose sane e buone. E per di più ci fa pensare ai cimiteri, una ragione di più per starci lontani. Non solo è brutta e sozza e infestata, ma se la fa pure con i morti.

Le piante sono belle, fanno foglie di fogge diversissime, e fiori che spesso hanno incredibili colori e ottimi profumi, per questo le mettiamo nei nostri appartamenti, e andiamo a ammirarle nei giardini e nei boschi. Certo sotto c’è la terra, fin qui ci arrivano tutti, ma ci va bene che resti nascosta: la consideriamo in fondo un male necessario. I poeti parlano spesso dei fiori e delle piante, e anche i pittori li rappresentano in tutte le salse. Nessun poeta ha mai scritto invece una poesia sulla terra o sui lombrichi. La terra non la vediamo, e non sappiamo dire se sta bene o sta male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quelli che la studiano e certi saputelli ci fanno notare che è fondamentale, perché fa crescere le piante che mangiamo, e le piante che si pappano gli animali che noi mangiamo. Ci fornisce insomma quello che chiamiamo il nostro cibo, anche se al supermercato le verdure arrivano pulite e lucide, senza alcuna traccia terrosa, e spesso anche impacchettate nel cellophane. Fa crescere le carote e le patate e i rapanelli. Ma anche il grano, e quindi il pane e la pasta, e a ben vedere anche le barrette di cioccolato e le merendine confezionate e la maionese in tubetto, anche se qui più il legame appare meno immediato.

Quelli che la studiano ci spiegano che è proprio perché è così ricca di vermi e bacherozzi e bacilli che può fare il suo lavoro, e anzi più ne è piena più è sana e rigogliosa. Accettiamo pure questa spiegazione, anche se sapere le cose con il cervello non è come saperle con la pelle e la pancia, prima di cambiare le sensazioni di pelle e di pancia ce ne vuole. Ma insomma cominciamo a essere meno ostili. Dentro di noi ci diciamo che la terra va sopportata come si sopportano le cose non belle ma che sono utili.

Una volta che abbiamo imparato che la terra è importante, anche se dentro di noi continua a disgustarci, guardiamo con condiscendenza chi ancora non lo sa, e ridiamo se fa lo schizzinoso. Consideriamo dei sempliciotti quelli che dicono che non gli piace, e esprimono quello che in fondo seguitiamo a pensare anche noi. O anche ridiamo di loro. Ridiamo perché vorremmo poterci permettere la loro libertà di pensiero e di parola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel quadro della nostra residenza artistica a CA’MON[i], con i redattori di Zeus! e gli utenti della cooperativa sociale Il Cardo abbiamo provato a guardarla e a toccarla e a odorarla. E a disegnarla, che è un modo di avvicinarla e di raccontarla, ognuno a suo modo, visto che siamo tutti molto diversi, e di cominciare a conoscersi. Abbiamo provato a fare come fanno i bambini, i pochi che nei tempi presenti non hanno prevenzioni nei suoi confronti: loro non hanno paura di sporcarsi, anzi si divertono. Prendono nelle loro manine i lombrichi quasi fossero preziosi diamanti, spalancando gli occhi e lanciando gridolini. Abbiamo cercato di fare anche noi così, ben sapendo che noi non eravamo bambini, e che le nostre parole sono schegge di cose già dette ma anche di verità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[i] Progetto Terra Alta (Centro CA’MON, Monno, 2023-2024), finanziato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura

 

Zeus! Rivista Mutante (caporedattore Riccardo Federici, direttore Marco Milzani, grafica Sara Rendina) è una rivista bimestrale edita dalla Cooperativa sociale Il Cardo, di Edolo (Valcamonica). I redattori, che elaborano i testi e le immagini, sono gli utenti della cooperativa. La copertina è in genere l’opera di un artista invitato (in questo caso Elena Tognoli). Essa si può seguire anche su Instagram e YouTube. Nazione Indiana ha ospitato estratti di alcuni numeri precedenti qui qui e qui.
Le tre immagini corrispondono a altrettante pagine del numero doppio in questione.

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario

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di Anna Toscano

L’importanza di non capire tutto per Grace Paley (1922-2007) sta nell’importanza di osservare molto, osservare, ascoltare, guardare la vita degli altri, assistervi, parteciparvi, lottare. Grace Paley, della quale ricorre oggi il giorno della nascita, era una donna fuori luogo, una scrittrice fuori luogo, una che non amava stare dove la mettessero.

Le sue origini hanno molto segnato questo suo essere fuori luogo: nasce a New York nel 1922 da genitori ebrei che solo una manciata di anni prima erano fuggiti dall’Ucraina, genitori che erano già stati in esilio politico in diversi paesi ma che decidono di andare a New York con l’intera famiglia, figli, nonni, zii, nipoti, e dopo pochi anni appunto dare alla luce una figlia: Grace.

Molte lingue madri

Grace cresce in una famiglia che parla più lingue madri in casa – il russo, l’yiddish – e lei è l’unica a nascere con l’inglese come madre lingua. Ognuno poi in famiglia parla la lingua che vuole e impara e contamina le altre a modo suo: suo padre, per esempio, medico, apprende l’inglese leggendo Dickens.

C’è una questione linguistica nella sua crescita, una religiosa, una sociale e una di genere. Tutte l’accompagnano nel fare del fuori luogo il suo luogo.

Gli emarginati del Bronx

I genitori sono impegnati in lotte sociali e civili nel loro quartiere, il Bronx, in quei decenni coacervo di moltitudini di persone che vi cercavano salvezza e fortuna. È nelle scuole che Grace, già attiva in diverse associazioni giovanili, scopre che ci sono comunità intere di emarginati, molto più emarginati di lei, le comunità afroamericane, le comunità italiane, la segregazione razziale, le comunità più povere e più ghettizzate. Lei sta con loro, le care altre e i cari altri, sin da giovanissima tanto che a soli dodici anni viene sospesa dalla scuola per la pubblicazione di una lettera di forte ispirazione socialista.

La militanza inizia presto

Presto inizia la sua militanza, sempre dalla parte dei diritti umani e della giustizia sociale: contro la guerra, contro le armi, contro il nucleare. Pacifista e femminista, la sua militanza la porterà ad essere arrestata per aver srotolato una manifesto di fronte alla Casa Bianca con scritto “Niente armi nucleari” e da lì ad avere per trent’anni un fascicolo col suo nome presso l’FBI.

La sua attività politica per nulla si disgiunge dalla vita privata, giovane madre vive in un palazzo gremito di gente, in una strada gremita di palazzi gremiti di gente, in un quartiere gremito di palazzi gremiti di gente: persone dalle più diverse provenienze, lingue, credo, abitudini, realtà. Lei sta al parco coi suoi bambini, alla finestra, nei piccoli negozi al dettaglio sulla via, in biblioteca e osserva le persone, vive con e tra le persone. E accumula, accumula storie, visioni, immagini. Ama la poesia e nonostante non concluda percorsi scolastici standard decide di studiare poesia con W. H. Auden.

Persone e poesia: i primi libri

Da Wikipedia

Forse possiamo dire che le persone e la poesia sono la sua prima ossessione, e di qui la parola che unisce le persone alla poesia e viceversa. Le troppe storie la affollano e dunque le scrive: esce, a quasi quaranta anni, con una prima raccolta di racconti, nel ’59, tradotta poi in italiano nel 1986 col titolo Piccoli contrattempi del vivere. Racconta storie apparentemente senza capo né coda – questo il giudizio dei poco illuminati critici di quegli anni – storie assemblate da storie di altri dove non vi è una fine, non vi è un dialogo letterario, ma vi è la vita.

Passa alquanto inosservata come raccolta, ma nel ’74 ne esce un’altra, Enormi cambiamenti all’ultimo momento, uscita in Italia nel 1982, a cui ne segue una terza, Più tardi nel pomeriggio, in Italia nel 1987 – gli ultimi due, anche forse inutile dirlo, grazie all’attenzione di Fernanda Pivano e al grande lavoro della Tartaruga Edizioni.

Le ragioni di un esordio tardivo

Perché pubblica verso i quaranta anni? Perché doveva osservare e battagliare per il mondo, lo stesso motivo per cui anche le tre raccolte di racconti escono a molta distanza le une dalle altre. Ma il tempo della sua scrittura e della sua pubblicazione – tempo troppo dilatato per lo sguardo miope di alcuni critici ed editori – è il tempo di una donna e di una scrittrice che ha deciso di fare del suo esser fuori luogo il suo luogo: non una persona in attesa che altri, gli uomini, decretassero cosa dovesse fare per esistere o per avere prestigio, ma una persona che sta eticamente e moralmente in sé stessa.

Questo in Grace Paley vuol dire distribuire volantini lungo la strada, in scarpe da ginnastica e gonna a scacchi, a manifestare, a lottare, come al parco ad ascoltare le voci della altre; cose che ha fatto fino a una età avanzata.

Mettere il mondo nella letteratura

Questo è stato il suo tempo al di fuori del tempo prefissato dagli altri, un tempo in cui ha messo nella letteratura il mondo, ha fatto sì che la letteratura copiasse il mondo con una voce potente e unica: la voce che sta nell’energia dinamica del pensiero umano. Una voce compartecipe, empatica, una voce che ascolta prima di dire e che nei racconti si riversa: i dialoghi della panchina o del tavolo accanto che si riversano nel racconto, così come i personaggi e le personagge, la vita.

Osservare e raccontare le donne

Le donne sono le sue personagge privilegiate, donne da osservare e racconta, spesso senza una trama precisa, come la vita che non ha una trama precisa, spesso con un finale aperto perché tutti hanno diritto a un finale aperto: “Non potevo fare a meno del fatto che non ero andata in guerra e non avevo fatto cose maschili. Avevo vissuto una vita da donna ed è di questo che ho scritto”.

Nel 1989 il governatore Cuomo inventa una onorificenza per lei e la nomina la prima scrittrice ufficiale dello Stato di New York. Nemmeno questa bellissima nomina, giunta quando finalmente i critici si risvegliano da un ottuso sonno e capiscono l’opera postmoderna, come viene definita, di Paley, lei, Paley, accetta di stare nel luogo dove la mettono. Così rimane lungo le strade a fare volantinaggio e a lottare, a viaggiare per i diritti sociali. Pure nel mondo letterario sta dove vuole anche in questo momento: mentre tutti si aspettano da lei il grande romanzo lei torna al grande amore, la sua passione: la poesia.

Una costellazione di volti

E dalla fine degli anni Novanta fino al 2001 pubblica una serie di libri di poesia in cui la sua indole e la sua pratica combattiva civile si riversa nel privato in versi fino a costituire, poesia dopo poesia, una costellazione poetica di volti – amiche, amici, amanti, figli, nipoti, genitori, sorelle – che racchiudono un universo. Un universo di volti vivi e di volti morti, una mappa delle battaglie che passano dal privato al pubblico, e viceversa, anche attraverso la stanchezza dei visi, le giacche che pendono male dalle spalle, la curvatura del dorso, la mano che non torna, il numero che non risponde.

Forse, a pensarci bene, non racchiudono l’universo di Grace Paley questi libri di poesia, ma lo aprono a un universo, l’universo di tutte e tutti noi. L’empatia che è la cifra della sua lingua in prosa qui, in poesia, diviene compassione. Paley ritorna a sé stessa, ritorna a una cura ossessiva per la parola quanto per le persone di cui scrive, ricama versi in una parola comune, spesso bassa ma mai sciatta.

Torte e poesie

Grace Paley non cerca una misura e nemmeno che nessuno le dica quale sia il suo posto, o la misura che deve osservare, lotta e osserva, sta tra le altre e gli altri, incurante se non della giustizia: “In fatto che fossi una femminista ha fatto arrabbiare diversi uomini. E il fatto che mi piacessero gli uomini ha fatto arrabbiare diverse donne. Che vuoi farci, sei quello che sei”.

Oggi, a 102 anni dalla sua nascita e a 17 dalla sua scomparsa, Grace Paley ha la fortuna di essere tra le rare donne ancora a essere pubblicate, anche se mi trovo sempre a raccontare e leggere la sua opera in eventi che comprendono quattro scrittori e una scrittrice: e la scrittrice che scelgo è spesso sconosciuta. L’ultima volta, mentre aspettavo di iniziare a raccontarla – in una bellissima biblioteca affollatissima a Bassano del Grappa – una donna arriva di corsa affannata e sedendosi accanto alla sua amica le dice: “Non so chi sia questa scrittrice ma dato che è l’unica donna della rassegna, anche se sono molto stanca mi sono impegnata a venire a sentire”. Facciamole diventare non le uniche donne delle rassegne, tiriamo fuori le “figurine” difficili da trovare, parliamone, leggiamole. Perché queste donne che hanno lottato per vivere smisurate e “fuori luogo”, hanno i loro luoghi nelle nostre librerie, biblioteche, nelle nostre letture, nelle rassegne. Grazie a chi lo fa. E a chi fa torte e poesie.

***

Volevo scrivere una poesia
invece ho fatto una torta     ci ho messo
più o meno lo stesso tempo
ovvio la torta era una stesura
definitiva      una poesia avrebbe richiesto
un pochino di più       giorni e settimane e
parecchia carta straccia

la torta aveva già un suo
pubblico vociante e capriolante tra
camioncini e un’autobotte dei pompieri sul
pavimento della cucina

questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli
albicocche secche     molti amici
diranno     e perché diavolo
ne hai fatta una sola

questo con le poesie non capita

per via di irriferibili
tristezze ho deciso
stamattina di accontentarmi dei

miei voraci avventori   non voglio
aspettare una settimana    un anno    una
generazione perché si presenti
il cliente giusto

Senza misura. Leggi gli altri ritratti di questa rubrica

Dente da latte

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Foto di succo da Pixabay

di Valeria Zangaro

A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso: una chiostra che pulsava continuamente di dolore. A tutto questo si sommavano le raccomandazioni di lui, che ogni volta le diceva cose come “lavati meglio i denti”, “vai dal dentista”, in un modo come se il mal di denti fosse un impiccio. Le raccomandazioni diventavano perciò rimproveri per i capricci di lei, per i rifiuti di lei a curarsi: non mangiare dolci, non bere cose troppo calde o troppo fredde, cose tiepide, tutto doveva essere tiepido.

Poi era arrivata quella mattina là, in cui aveva sputato il dentifricio, tutto arrossato, e insieme al dentifricio pure il dente. Allora lei lo aveva preso, sporco di sangue, lo aveva guardato, lo aveva lavato sotto l’acqua corrente. Il dente non era neanche marcio. Era un dente, per la conoscenza che ne aveva lei, normale, se non fosse stato che gli mancava la radice, e che dentro era vuoto, o per meglio dire svuotato, smangiucchiato, corroso dall’interno. Una parvenza di dente, eppure tanto ingombrante. Solo in quel momento se ne rendeva conto, come se quella sua assenza ne avesse reso più evidente la presenza, per effetto della quale tutti gli altri denti soffrivano, si stringevano, si facevano piccoli.

Infilò l’indice in bocca alla ricerca del vuoto lasciato dal dente. Ci arrivò malamente. Ci arrivò bene, invece, con la punta della lingua. Aprì più che riuscì la bocca affinché dallo specchio potesse osservare la lingua raggiungere il buco tutto insanguinato e che si richiuse quasi subito però. La gengiva in un attimo era liscia, immacolata, priva di qualsiasi indizio in grado di confermare che lì un tempo c’era stato un dente. «Mi è caduto un dente» disse, e lo disse senza inciampi fonetici in virtù di una lingua che appariva ora più agile, più libera di muoversi. Lo disse, ma più tra sé e sé, perché lui nemmeno c’era, era già uscito per andare al lavoro e come al solito non aveva buttato la spazzatura. L’aveva dimenticato. Questa cosa di dimenticare succedeva tutte le volte che a lui non andava di fare una cosa. Dimenticava di fare il caffè, di apparecchiare, dimenticava tutto ciò che a lei piaceva e a lui no. E le cose che piacevano a lui, come la pizza o il mare, diventavano pure quelle che piacevano a lei, per contatto, per vicinanza.

Alla caduta del secondo dente fu inevitabile: accettò il consiglio di lui e prese appuntamento dal dentista. Il dentista la controllò ma non notò niente. Disse che quei vuoti esistevano da sempre. Impossibile, disse lei, non vedeva che c’era tutto quello spazio, che le mancavano i denti? Non lo metteva in dubbio, disse lui, ma dalle radiografie non risultavano radici. La sua chiostra, pur se particolare nella conformazione, era così e basta.

«E se mi cadono altri denti?» domandò.

«Questo dipende da lei.»

Non era sicura di aver capito cosa intendesse il dentista, ma fece finta di sì e se ne andò. Una volta a casa a lui non disse niente di quanto successo, disse invece ciò che lui voleva sentirsi dire: che andava tutto bene, cosicché il problema, l’impiccio, potesse considerarsi risolto. E che il problema fosse risolto se ne convinse pure lei: il dolore era scomparso improvvisamente e altrettanto improvvisamente i denti rimasti si erano fatti più larghi e sembravano stare più comodi.

Quando cadde il terzo dente erano a cena con i genitori di lui e a cena lui disse: «Abbiamo deciso che a Capodanno venite da noi.» Non lo avevano deciso, per la verità, ne avevano parlato, sì, ma lei aveva espresso, o almeno così credeva, il desiderio di passarlo in montagna il Capodanno, il desiderio, almeno una volta tanto, di fare qualcosa che piaceva a lei. E invece aveva deciso lui per entrambi e lo aveva fatto in quel momento lì, perché a lui non piaceva la montagna. Avrebbe voluto dirglielo: hai deciso senza di me, ma il dolore si risvegliò improvviso, uno sfrigolio sotto le gengive, proprio mentre diede un morso al trancio della pizza. Masticò l’impasto finché la lingua non riconobbe una durezza e una forma già sentite. Lui intanto le sorrideva e lei ricambiava, annuiva senza sapere perché. Doveva sputare il dente e lo doveva fare subito. Lo fece alla domanda di lui: «Cosa prepariamo per Capodanno?»; a quella domanda lei si alzò, mugugnò qualcosa di simile a un «arrivo subito» e corse in bagno. Prona davanti al cesso sputò impasto e dente. Scaricò, si sciacquò le mani e tornò.

Quest’abitudine di perdere i denti un po’ la spaventava e un po’, doveva ammetterlo, la incuriosiva perché a ogni caduta la lingua sembrava più libera di muoversi, di essere sé stessa. Perciò il quarto dente lo aspettò. Così pure il quinto. Il sesto invece lo cercò. Lo pescò dal fondo della bocca, raggiunse il più indeciso, mosse avanti e indietro, come faceva da piccola, finché quello non si staccò. Con dolore. Un dolore acido e dolce, pruriginoso. Col dentifricio che le imbrattava la bocca, si era guardata allo specchio: ora aveva un sorriso contornato da una barba di pasta e sangue, un sorriso sul punto di diventare vuoto. Avrebbe voluto dirglielo a lui questa cosa della sua bocca che stava cambiando. E lì nel bagno si chiese quali altre parti del corpo avrebbero preso a cambiare, cosa di lei non ci sarebbe stato più, e se di lei non ci sarebbe stato più niente in che modo poteva considerarsi ancora lei.

Forse lo avrebbe fatto, forse glielo avrebbe detto del cambiamento, se non fosse stato per quel suo modo irruento di bussare alla porta del bagno e soprattutto per quella domanda, non quella in cui aveva detto: «Mia madre vuole sapere se deve portare qualcosa per il Cenone di domani», ma per la seconda, fatta dopo che lei non aveva risposto: «Allora?». Ad «allora» il dolore dalla lingua raggiunse gli occhi, che fu costretta a chiudere. «Ci sei?» insistette lui. Certo che c’era, non c’era altro posto dove poteva essere, dove doveva essere. Non certamente dove voleva, e cioè in montagna, tra la neve che attutisce ogni cosa, attutisce la parole, pure il dolore. Fece un respiro profondo alla ricerca dell’ultima oasi di calma. «Sì» disse solo, e tanto bastò a rinvigorire il dolore. «Sì cosa? Deve port…» con le parole di lui che presero a sbiadire diventava più nitido il punto d’origine, la fonte del dolore. Lo cercò con la pinzetta. Aprì la bocca: arrivò dietro al canino e tirò con più forza di quella necessaria: in un niente il centro del dolore sparì. Ricomparve un attimo dopo, però, da un’altra parte, alla domanda di lui: «Ha detto mia madre: va bene se portano la sogliola?». La sogliola che lei odiava, perché pulirla era una faticaccia, bisognava tirarle via la pelle cocciuta, con l’indice che ravanava nella bocca del pesce, nelle branchie.

In basso a sinistra: tirò. Per sicurezza tirò pure quello a fianco e quello a fianco ancora, tirò quelli di sopra speculari, tirò finché non ci fu più niente da tirare e la sua lingua si prese tutto lo spazio che le era mancato. Controllò la chiostra: liscissima. Prese le forbicine, consumate come lo erano le parole tra lui e lei, consumate da tutte le volte in cui lei aveva detto a lui di non usarle, le forbicine, perché quelle forbicine appartenevano a lei e a lei soltanto. Usò la punta, ancora affilata, per lacerare la gengiva lungo la linea che un tempo ospitava i denti, ritti, sull’attenti, sempre pronti a dire sì a ogni comando, mai ribelli. Denti che in fondo non le appartenevano più, che non erano più lei. Lacerò la carne proprio per questo: per vedere cosa c’era sotto. Per vedere se anche dentro era corrosa, smangiucchiata, come lo erano i denti che non erano più denti suoi. Lacerò e non c’era dolore. Lei era già oltre. Il palato duro pendeva ora molle come una seconda lingua ma senza vita. Infilò il dito in bocca e tirò come faceva con la pelle della sogliola. Tirò via la pelle del viso, del collo; lungo le spalle, all’altezza delle clavicole, si aiutò con le forbicine. Tagliò lungo le braccia, sotto le ascelle, tutto fino ai piedi, finché non ci fu più niente della sua vecchia pelle. Asciugò il sangue rappreso su tutto il corpo e si guardò. Le mani, le braccia, la pancia, le gambe, c’era una pelle più chiara a rivestirle, una pelle che dava forma nuova al suo corpo. Pure la bocca, dapprima leggermente pronunciata verso il basso e in un perenne broncio, cambiò, ed espressioni nuove si sostituirono a espressioni vecchie. Con la lingua, che ora era diversa, sentì i denti nuovi farsi largo lungo la gengiva. Denti frastagliati e ribelli, più duri di quelli vecchi, pieni. Passò la lingua lungo questa chiostra di denti nuovi, come ad accarezzarli, ad accarezzare la ricrescita, e sorrise.

IPNOCRAZIA. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà

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Edizioni Tlon presenta l’8 dicembre in anteprima mondiale a PLPL  IPNOCRAZIA. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà di Janwei Xun in uscita il 15 gennaio.
Ipnocrazia è una mappa per orientarsi nel territorio confuso e affascinante della contemporaneità, per scoprire nuovi modi per disertarlo, abitarlo e sabotarlo. Nel suo libro d’esordio, Jianwei Xun mostra i meccanismi che regolano la nostra epoca di «narrazioni ipnotiche», svelando come il potere non agisca mediante l’oppressione ma attraverso le storie che consumiamo, condividiamo e a cui crediamo.
Prendendo come casi di studio le figure di Donald Trump ed Elon Musk, Xun dimostra come questi non siano semplicemente imprenditori o politici di successo, ma veri e propri “architetti della realtà“, capaci di costruire interi universi percettivi alternativi. La loro influenza non deriva dal controllo diretto delle istituzioni, ma dalla capacità di manipolare la coscienza collettiva attraverso tecniche ipnotiche di massa.
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Nota del traduttore

Con Ipnocrazia ho avuto la sensazione immediata di trovarmi di fronte a qualcosa di raro: un testo che non si limita a fotografare il presente ma che riesce a mostrarne il funzionamento interno. L’Ipnocrazia di cui parla Jianwei Xun, che seppur giovanissimo è considerato da alcuni l’erede di Jean Baudrillard e da altri quello di Byung-Chul Han, non è semplicemente l’ennesima teoria sulla società digitale o sulla postverità. È, piuttosto, una mappa inedita di come il potere operi oggi attraverso la manipolazione della percezione della realtà.

Il concetto di Ipnocrazia coglie qualcosa che altre analisi hanno solo sfiorato: il fatto che non stiamo semplicemente vivendo in un’epoca di manipolazione dell’informazione o di sorveglianza digitale. Stiamo assistendo a una trasformazione ben più profonda, in cui la realtà è diventata interamente gassosa. Non è più questione di separare il vero dal falso; la distinzione stessa ha perso significato, in un sistema che prospera proprio sulla coesistenza di realtà tra loro incompatibili.

L’autore costruisce la sua analisi attraverso una serie diconcetti originali che illuminano aspetti diversi di questa condizione: l’edging algoritmico, la sovranità percettiva, la resistenza oscura, per citarne alcuni. Non sono semplici metafore ma strumenti per comprendere e navigare un paesaggio in cui le vecchie mappe non funzionano più.

Ciò che rende questo libro particolare – e che porta le riflessioni di Xun oltre quelle di Baudrillard, di Han o di altri maestri dell’apocalisse – è il suo rifiuto di cadere nella facile e diffusa tentazione del tecnopessimismo, o nella trappola della nostalgia per un’età dell’oro della verità oggettiva. Il testo appare particolarmente rilevante per il contesto italiano, dove gli effetti dell’Ipnocrazia s’intrecciano con dinamiche politiche e sociali peculiari. La frammentazione della realtà che Xun descrive nel libro trova da noi un terreno particolarmente fertile, in una cultura da sempre abituata a barcamenarsi tra verità multiple e narrative caotiche; non a caso, uno dei pochissimi esempi virtuosi citati da Xun è italiano: si tratta di Luther Blissett.

Pubblicare questo libro oggi in Italia significa offrire uno strumentò di comprensione cruciale non per “svelare la verità” – sarebbe una “promessa ipnocratica”, per dirla con il filosofo cinese – ma per sviluppare quella che l’autore chiama literacy della realtà: la capacità di riconoscere e navigare tra reality system diversi, mantenendo un nucleo-guida di autonomia percettiva. Il libro che avete tra le mani non offre soluzioni semplici o consolatorie. Nella prima parte analizza l’homo social, per poi offrire nella seconda parte qualcosa di ancor più prezioso: una mappa per orientarsi nel territorio confuso e affascinante della contemporaneità, e nuovi modi per disertarlo, sabotarlo e abitarlo.

Buona lettura.

Andrea Colamedici

Il regno dei riflessi

La realtà si è dissolta in infinita riproduzione. Non esiste più alcuna idea centrale, nessun punto fisso da cui osservare il mondo. Ogni immagine si riflette in un’altra, ogni narrazione si moltiplica e si frammenta fino a perdersi nel rumore. Non c’è più vero o falso, ma solo l’infinita proliferazione di possibilità. Il reale non può essere posseduto, verificato o conquistato. Lo si può soltanto guardare svanire.

E il potere ha abbandonato i suoi vecchi strumenti. Non comanda più attraverso le leggi. È diventato imponderabile, impercettibile, come un’ombra ossessiva. Abita i simboli, si nasconde nei flussi, scorre attraverso i dispositivi che plasmano la nostra immaginazione. Non reprime; seduce. Non persuade; modula. Non comanda; ripete. Viviamo in uno stato di ipnosi permanente, dove il ritmo ha sostituito il significato e il flusso ha cancellato ogni possibilità di evasione.

L’Ipnocrazia ha sviluppato un linguaggio sofisticato di induzione ipnotica che opera simultaneamente su multiple dimensioni della coscienza. La ripetizione ossessiva è il suo elemento più evidente. Ma, più in profondità, è all’opera una complessa architettura di suggestione che modella la nostra percezione della realtà.

Il ritmo è fondamentale: alternanza studiata tra shock e torpore, tra eccitazione e spossatezza, tra paura e rassicurazione. Come un ipnotizzatore che modula la voce, il sistema ipnocratico alterna crisi e calma apparente, emergenze e distrazioni,minacce e conforti. Questa pulsazione continua mantiene la coscienza in uno stato di perpetua instabilità controllata.

La frammentazione dell’attenzione non è un effetto collaterale ma una tecnica precisa. L’overload informativo serve a esaurire le risorse cognitive fino al punto in cui la suggestione può penetrare più facilmente. Il multitasking perpetuo è una forma di induzione ipnotica che impedisce il consolidamento del pensiero critico. La costruzione di realtà alternative in serie avviene attraverso la tecnica della stratificazione progressiva. Ogni suggestione viene introdotta gradualmente, circondata da elementi familiari che la rendono accettabile. Come l’ipnotizzatore che guida il soggetto passo dopo passo in una realtà immaginaria, il sistema costruisce universi paralleli un dettaglio alla volta.

La confusione temporale è cruciale: passato, presente e futuro vengono costantemente rimescolati. La nostalgia di uno ieri mai esistito si fonde con l’ansia per un domani sempre imminente ma mai attuato. Il presente stesso diventa evanescente, impossibile da afferrare. In questo tempo gassoso, la suggestione trova l’aria in cui farsi disperdere. Quando emerge una qualche resistenza, il sistema non la combatte: la ingloba in una meta-narrativa. Ogni critica viene trasformata in conferma, ogni opposizione in validazione. È la tecnica suprema dell’ipnosi: usare la resistenza stessa per approfondire la trance. Gli ipnotizzatori contemporanei sono maestri nel trasformare lo scetticismo in una forma più profonda di suggestione. La pillola rossa diventa così solo un’altra forma di sonnifero, la verità nascosta un altro livello di trance.

Nell’era dell’Ipnocrazia, il potere si manifesta principalmente come un’architettura del desiderio. Le piattaforme digitali – Facebook, TikTok, Instagram – non sono semplicemente luoghi di connessione. Sono spazi di cattura. Questi sistemi non mediano la realtà; la riscrivono. Ogni immagine pubblicata non riflette il mondo: lo crea. Ogni algoritmo non registra comportamenti: li anticipa, li dirige.

I social network non sono piattaforme di comunicazione; sono camere di induzione ipnotica di massa perfettamente progettate. Ogni loro elemento è calibrato per produrre e mantenere stati di controllo attraverso contenuti virali. La viralità non è un fenomeno spontaneo ma una forma di contagio ipnotico; e i meme non sono battute ma vettori di suggestione che propagano stati alterati di coscienza attraverso il tessuto sociale digitale. Ogni trend è, infine, un’onda di trance collettiva che si autoalimenta senza solidificarsi mai.

L’Ipnocrazia, infatti, non costruisce un vero e proprio arsenale definitivo. Non crea ideologie. Satura. Il suo metodo non è censurare ma sovraccaricare. Il dissenso non viene represso: viene integrato, neutralizzato, assorbito. Ogni critica diventa parte del flusso, una narrazione tra tante. Ogni opposizione rafforza il sistema, trasformandosi in un’ulteriore conferma della sua totalità.

Il confine tra realtà e illusione si è ormai infranto. L’Ipnocrazia non costruisce semplicemente menzogne: ridefinisce ciò che può essere percepito.

Ogni gesto, ogni pensiero, ogni immagine che produciamo alimenta il sistema. Non siamo vittime: siamo complici. Ogni frammento di noi – ogni foto, ogni commento, ogni reazione – diventa un nodo nella rete. L’Ipnocrazia non ci governa: ci trasforma in parte di se stessa.

Eppure qualcosa rimane.

Non una verità, non un’ideologia. Ma una soglia. Un punto di consapevolezza che resiste al flusso. Non si tratta di svegliarsi, perché il sonno non può essere interrotto. E nessuno può garantire che non si stia semplicemente sognando di svegliarsi. Si tratta, piuttosto, di navigare imparando i ritmi della trance, mantenendo un nucleo pulsante e riottoso di lucidità nel cuore dell’alterazione.

Il reale, infatti, non è più un’esperienza. È una costruzione fragile e costantemente riscritta. Ogni clic, ogni scroll, ogni gesto quotidiano non è un atto innocente: è, come detto, un’adesione silenziosa. Eppure è proprio in questa adesione che risiede la possibilità di comprensione.

Non si combatte l’Ipnocrazia: la si osserva. E nell’osservazione prolungata si apre la possibilità di un nuovo linguaggio. Una nuova mappa. Non per sfuggire al regime ipnotico, ma per navigarlo senza perdersi. Per tracciare questa mappa, però, per comprendere veramente il territorio che dobbiamo navigare, non basta osservare il presente. Dobbiamo seguire le tracce che hanno portato fino a qui, non per cercare facili paralleli storici, ma per comprendere le rotture, le mutazioni, i salti che hanno generato la nostra condizione. La genealogia dell’Ipnocrazia, infatti, non è una storia lineare di progresso o decadenza, ma una complessa rete di trasformazioni che illuminano il presente proprio mostrandone la radicale novità.

 

SULL’AUTORE : Jianwei Xun è un filosofo e teorico dei media che lavora all’intersezione tra teoria critica, studi digitali e filosofia della mente. Il suo lavoro si concentra sull’impatto delle tecnologie digitali sulla coscienza collettiva e sulla formazione della soggettività contemporanea. Ipnocrazia è il suo primo libro tradotto in italiano.

Torri d’avorio e d’acciaio di Maya Wind

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di Giuseppe Acconcia

In Occidente le università israeliane vengono dipinte come bastioni liberali del pluralismo e della democrazia, ma in realtà hanno un ruolo chiave nel regime di oppressione del popolo palestinese.
Rendendo accessibili a livello internazionale molti documenti ufficiali israeliani, Maya Wind mostra infatti come i corsi di laurea, le infrastrutture dei campus e i laboratori di ricerca siano attivamente coinvolti in ciò che è sempre più diffusamente riconosciuto come un regime di apartheid. Descrive il modo in cui i dipartimenti di scienze giuridiche elaborano interpretazioni innovative per mettere Israele al riparo dalle condanne o dalle indagini internazionali per «crimini di guerra» o «genocidio». Rivela come le ricerche archeologiche fabbricano prove a sostegno delle rivendicazioni territoriali israeliane cancellando la storia araba e musulmana e avvalorando l’uso degli scavi al fine di espandere gli insediamenti ed espropriare le terre palestinesi. Documenta le collaborazioni con le forze armate e i produttori di armi nazionali e internazionali. Racconta come gli atenei stessi, fin dalla loro fondazione, fungano da avamposti di insediamento nelle terre palestinesi confiscate. E denuncia la violazione delle libertà accademiche fondamentali di docenti e studenti con approccio critico, oltre alla violenta repressione dei movimenti studenteschi.
Un libro che sta facendo discutere gli atenei di tutto il mondo, perché indica la fondatezza della proposta di boicottaggio dei rapporti di ricerca con le università israeliane al centro delle mobilitazioni contro la guerra a Gaza.

Marinella Perroni: «la teologia è queer»

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 «Non si tratta di “rendere queer” la Bibbia, ma del fatto che essa è già in se stessa, originariamente e sufficientemente, queer» scrive Gianluca Montaldi nell’introduzione all’edizione italiana di un commentario, la Bibbia Queer, curato da Mona West e Robert E. Shore-Goss. A chi ritiene questo accostamento stridente, oppure volutamente blasfemo, il commentario risponde convocando un numero vastissimo di studiosi ed esegeti che interrogano il senso molteplice delle Scritture, ovvero quell’irriducibilità che fa della Bibbia un testo mai integralmente decifrabile o appropriabile, se non in chiave fondamentalista.  Fondamentalismo che irrigidisce la teologia, arruolando l’esegesi in una serie di battaglie (come quella recentissima contro la “gestazione per altri”) che proprio la Bibbia potrebbe invece aiutare a decostruisce con un’altra prospettiva, sovra-naturale (o addirittura contro-naturale).

Α fronte delle molte critiche, l’accostamento tra Sacre Scritture e queerness non ha invece sorpreso Marinella Perroni, una delle figure più singolari della teologia italiana. Nata nel 1947, docente di Nuovo Testamento presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e promotrice inesausta di una teologia militante (lontanissima però dal “muscolarismo woytiliano”), Perroni ha negli anni intessuto un fitto dialogo con Michela Murgia, che l’ha più volte citata come «capostipite della sua genealogia intellettuale». Proprio a lei dedica ora un libro, Colloqui non più possibili, dove la conversazione riprende a partire da un congedo forzato, da una separazione inevitabilmente dolorosa che permette però a Perroni di restituire la forza del pensiero teologico di Murgia, che non si muove di-contro ma proprio all’interno dell’orizzonte esegetico: «la Bibbia, la gabbia più strutturata e duratura di tutte, poteva essere smontata e rimontata in modo liberatorio» (Ricordatemi come vi pare).

Anche per Murgia, infatti, queerness e teologia hanno in comune la loro irriducibilità. In God save the queer, un catechismo femminista pubblicato nel 2022, la scrittrice si domandava, a proposito della carica sovversiva del “queer”, ma anche dell’assoluta alterità (della dissomiglianza) del Dio cristiano: come normalizzare chi rifiuta il concetto stesso di norma?  «Simili domande» scrive Murgia «sono piste di ricerca sociologica, ma sono anche domande teologiche, perché – estratte dal contesto – sono applicabili al Dio cristiano nella sua accezione di essere “Totalmente Altro” rispetto a noi».  Un’interrogazione queer che evita allora «di rapportarsi a Dio con definizioni – padre/madre o maschio/femmina, ma estensibili anche a bianco/nero, giovane/vecchio e altre dicotomie escludenti – che per le persone si stanno rivelando insufficienti o superate. La queerness come pratica della soglia è adatta a ragionare di un Dio trino che nella Persona di Cristo ha detto ai suoi: “Io sono la porta”.».

Emerge qui la radicalità di un pensiero che, forzando l’apparente sbarramento tra la militanza e l’interrogazione biblica,  delegittima non solo l’arruolamento oppressivo del culto cristiano (che per secoli ha trovato nel misticismo una straordinaria contro-narrazione), ma anche l’inconciliabilità tra fede e femminismo, spesso dichiarata per un (fin troppo) facile rigetto della religione tout court. Perroni invece ci pungola attraverso il pensiero di Murgia, tocca le questioni non stemperandole ma muovendosi nello stesso gesto radicale, in una forma di comune scottatura, come quando – a un certo punto del libro – si rivolge così a Murgia, riprendendo proprio la questione della “soglia”: «la tua radicalizzazione del discorso sulla soglia arrivava a individuarla non come luogo di passaggio verso nuove possibili fasi della vita o verso occasioni ancora inedite, ma come contesto interiore in cui abitare la soglia addirittura delle identità molteplici e accettare perciò come condizione permanente la continua rigenerazione non soltanto delle relazioni, ma perfino di sé. In un gioco, nel caso della famiglia queer, di reciproca libertà e di cura e di responsabilità di ciascuno e di tutti».

Una rigenerazione che diviene dunque mandato etico, e che mi ha spinto a provare a mia volta a entrare in questo dialogo “impossibile”, e a raggiungere Marinella Perroni al telefono per parlane insieme.

 

 

Giorgiomaria Cornelio: Partiamo dal titolo. “Colloqui non più possibili” sembra in qualche modo contraddirsi, dato che il libro stesso è un continuo dialogo, non solo tra te e Michela Murgia, ma anche con tante altre voci che convochi. È un libro che, nonostante parli di morte e congedo, trabocca di vita. Quindi, mi chiedo: davvero i colloqui non sono più possibili? O c’è ancora una promessa, uno spazio inatteso di dialogo con il dibattito contemporaneo?

 Marinella Perroni: Sai, il titolo in fondo smentisce se stesso. È come quelle persone che parlano del silenzio senza mai farne esperienza, o di cose come il sesso, come direbbe Woody Allen, proprio perché non lo fanno. Certo, il libro parla della fine di una persona, della perdita, ma è anche un libro che esplora i legami, che rivive le parole e i pensieri di Michela. Il “non” del titolo riguarda l’impossibilità di continuare a parlare con lei in un tempo che non esiste più. Ma questo non significa che il dialogo non continui.

 

G.M: Quindi, questi colloqui agitano ancora una memoria carica di futuro…

M.P: C’è però una tristezza che non può essere elusa, una sofferenza che viene fuori ogni volta che qualcuno, come te adesso, mi fa parlare di Michela. È una fatica che sento intensamente, soprattutto ora che l’età avanza e le perdite si accumulano. Non puoi fare a meno di portarle dentro, anche se cerchi di mettere da parte il dolore. Eppure, i colloqui non sono solo un modo per ricordare, ma un tentativo di tenere viva una relazione che non è finita, che continua ad evolversi nel tempo. Penso che questo libro sia un germe per tanti altri discorsi. In ogni pagina assenza e presenza sono due realtà che fanno una danza macabra o una meravigliosa danza primaverile.

 

G.M: E in queste pagine mi sembra che tu tocchi anche temi molto complessi legati alla fede, all’interpretazione delle Scritture. Parli di una teologia pubblica e di una teologia queer, che non si limita a una concettualizzazione distante, ma che è coinvolta interamente nella crisi: che sceglie di abitarla.

Scrivi, per esempio: «forse proprio per questo per secoli la Chiesa cattolico-romana ha espulso la Bibbia dal suo orizzonte teologico e quelle protestanti hanno cercato di tenerla a bada nelle gabbie del fondamentalismo letterario. È un insieme di libri complesso e contraddittorio, difficile. Soprattutto, però, è un libro sovversivo perché ti impone di andare alla ricerca del segreto della vita che la fede certamente illumina ma a corrente alternata, e mai senza farti nascere delle domande».

 In un’epoca come la nostra, può davvero esistere una teologia che non sia anche una teologia della crisi?

M.P: : Sì, purtroppo può esistere, perché esiste sempre una teologia “di palazzo”, quella che sta dentro le istituzioni, che segue il potere, che ha il compito di legittimare lo status quo. Ma quella non è la teologia che mi interessa. La vera teologia, quella che ha come base un Gesù che rifiuta il potere del palazzo – sia politico che religioso – è una teologia che nasce dalla crisi, che non ha paura di abitare il dolore, la perdita, la solitudine. La teologia che mi interessa è quella che esce dal palazzo, quella che guarda il mondo dal di fuori e lo interroga.

 

G.M. Quindi parliamo di una teologia che non è mai distante dal dibattito, e che non si rifugia nelle certezze. Proprio per questo nel libro hai affrontato (dialogando con il pensiero di Murgia) temi come la GPA (gestazione per altri), senza dare risposte nette, ma coltivando un’idea di complessità in netta distanza, per esempio, con il pensiero che ha portato a formulare recentemente il “reato universale” (arrogandosi il diritto dell’universalità).

 Quello che mi colpisce è che, mentre in alcuni ambienti si cerca di costruire certezze morali, questo libro sembra rifiutare quella logica, aprendo spazi a una riflessione più profonda, anche se più incerta.

 M.P: Quella del “reato universale” sarebbe una cosa spaventosa se non fosse ridicola, nel senso che a un certo punto quando tu ti rendi conto che non c’è nessun fondamento giuridico a una pretesa giuridica, allora capisci che questa pretesa non serve a dirimere i problemi della realtà, ma soltanto a orientarla ideologicamente. Quello che stiamo vivendo è un momento in cui alcune persone tentano di imporre verità universali. E lo fanno spesso appellandosi a principi religiosi, come se il cattolicesimo fosse una specie di monolite che offre risposte definitive. Ma questa non è la mia esperienza, e neppure quella di Michela. La legge, la religione, le istituzioni, in fondo, sono costruzioni umane. Quando leggi che i magistrati dovrebbero entrare in politica o che la Chiesa detiene la verità su questioni come la GPA, capisci che non c’è più una distinzione netta tra diritto e potere. È ridicolo, ed è per questo che ci dobbiamo interrogare. La legge è uno strumento per gestire il mondo, non per dettare verità assolute.  Io non ce l’ho con le istituzioni in sé, ma con l’idea che si possano usare per imporre una visione unilaterale e moralista.

 

G.M. : Quello che mi sembra emergere, soprattutto nel tuo approccio, è la necessità di mantenere una distanza critica, di rimanere fedeli soltanto a una ricerca senza destinazione certa.

 M.P.: Ogni volta che qualcuno si trova all’interno di un sistema, deve essere consapevole che la vera libertà di pensiero può venire solo da una visione che non è mai completamente dentro a quel sistema. È una questione di scelte personali, di storia, di esperienza. Chi guarda con occhi critici ha sempre una risorsa in più. E questo vale non solo per la teologia, ma per ogni campo di pensiero.

 

G.M.: La Bibbia è spesso vista soltanto come un testo conservatore,  da strumentalizzare, come avviene nel fondamentalismo. Eppure, leggendo il commentario queer recentemente pubblicato, oppure il tuo libro o ancora God Save The Queer di Murgia, le Scritture sembrerebbero tramutarsi  in una sorta di iniziazione alla pluralità. Può la Bibbia, anche per chi non studia teologia, essere un testo di rilettura queer del mondo? Un testo che ci aiuti a esplorare nuove possibilità di vita?

 M.P.: Questa è una domanda complicata, perché la Bibbia è tanto, anzi, è davvero troppo. È un testo vasto, che esonda, che non può essere ridotto a una singola cifra. Pensa appunto all’uso che ne fanno i Trumpiani, o i fondamentalisti israeliani, che la trasformano in una bandiera ideologica. Per questo poco tempo fa ho scritto a un amico: “La Bibbia è stata la rovina della storia.” E lui ha risposto che, purtroppo, è vero. Ma io, come Michela, sento anche che la Bibbia possiede il potenziale per essere la liberazione della storia. È tutto nel modo in cui la maneggiamo. È vero che le istituzioni religiose la usano in modo fondamentalista, seguendo una tendenza che sciaguratamente vediamo dominare oggi in tutti gli ambiti, dalla politica alla società.

 

G.M.: Quindi, tu intendi la Bibbia come una sorta di “vettore” di liberazione, e insieme di oppressione. Dipende da come orientiamo la lettura, o meglio: dalla nostra capacità di non cedere a un unico orientamento, conservando il “molteplice senso delle Scritture”…

 M.P: Esattamente. Il problema, come dicevo, è che oggi viviamo in un’epoca di fondamentalismo a tutti i livelli. Per esempio, alcuni cattolici dicono che se una cosa la fa il Papa, allora è una grande cosa, e non si può discuterne. Non esiste possibilità di  dialogo. Ma il fondamentalismo non è solo un fenomeno religioso: è un’attitudine psicologica, una modalità di guardare al mondo che si nutre di paura, di discredito dell’essere umano, e di miti come quello dell’Eroe. Questo tipo di antropologia ha prodotto i fascismi, e li produce ancora oggi. Fondamentalismo significa voler ridurre la realtà a un’unica verità, senza spazio per il dibattito, senza spazio per la pluralità. E la Bibbia, se letta in maniera superficiale, può diventare un veicolo per quel tipo di pensiero. Ma se la leggiamo con occhi queer, è capace di mostrarci qualcosa di molto più vasto e profondo.

 

G.M.: Abitando la tua riflessione, potremmo allora dire che se è vero da una parte che la Bibbia “esonda” e può essere un testo di iniziazione all’identità molteplice e mai “conclusa”, dall’altra però è anche quel testo che ci costringe a fare i conti con il riemergere dei fascismi, a capire che non possiamo cancellare il passato, non possiamo fare a meno di studiarlo. Insomma: per evitare i fascismi è bene prendere in analisi i miti fondativi che nascono proprio da una distorsione delle Scritture, capire che la Bibbia è molto più grande di ogni idealizzazione strumentale che ne fanno le destre, che ne fanno i fondamentalisti.

M.P.: La Bibbia è un testo enorme. I fondamentalisti ne estraggono una lettura che limita e riduce la sua ricchezza, ma noi dobbiamo imparare a prendere la Bibbia nel suo insieme, a non cadere nella trappola di una lettura ideologica. Per esempio, l’Antico Testamento è incredibilmente ricco e “diffrattivo”. Non è un testo da ridurre a una moralità rigida. È piuttosto un racconto che contiene una molteplicità di storie, voci, conflitti, ed è lì che si nasconde una potenzialità che i fondamentalisti non vogliono vedere.

 

G.M.: Molti, parlando della Bibbia, sembrano però preferire il Nuovo Testamento, mentre l’Antico Testamento è spesso giudicato come oscuro, interamente patriarcale. Tu, invece, da studiosa militante del Nuovo Testamento, sembri avere una particolare affezione per l’aspetto anticotestamentario…

M.P.: Sì, la mia affezione per il Vecchio Testamento è profonda. Trovo che il Vecchio Testamento rappresenti perfettamente l’assunzione della molteplicità, il riconoscimento che la realtà è complessa. Dopo di che, io sono neotestamentarista, sono cristiana, ma il Nuovo Testamento, pur essendo fondamentale per il cristianesimo, tende ad avvicinarsi a un’idea di unicità, di verità assoluta. L’Antico Testamento è invece l’espressione di una lunga storia di lotte, di conflitti, di differenze, che sono proprio ciò che caratterizza l’esperienza umana. Certo, ci sono nell’Antico Testamento anche aspetti difficili da comprendere, violenze terribili: non è che nella Bibbia si raccontino solo storie edificanti!

 

G.M.: Però noi dobbiamo fare i conti, lo dicevamo prima, anche con questi aspetti terribili, leggerne e rileggerne il mito, senza costringerci in una specie di “catechismo igienico” e moralista.  Anche perché può esserci del fondamentalismo anche in questo. Tu scrivi il contrario: «il compito di quella che chiamiamo teologia pubblica è entrare nel confronto tra i saperi»… senza strettoie, senza facili idealizzazioni.

M.P.: La Bibbia può insegnarci a vivere con la contraddizione, con l’incertezza, senza idealizzare il passato o pensare che la soluzione sia tornare a un’età “dorata” che non esiste. È un atto di liberazione, anche se non facile. Il punto è che dobbiamo essere disposti a fare i conti con la realtà nella sua interezza, senza nascondere la nostra paura. Se impariamo a leggere la Bibbia con questi occhi, vedremo che è molto più grande di come ce la raccontano i fondamentalisti. È il testo della molteplicità, e della vita che non si accontenta di risposte facili.

 

 

“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno

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[Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Francesca Lazzarato al volume di María Moreno, L’atroce storia di Santos Godino. El Petiso Orejudo, Edicola Edizioni 2024, tradotto dalla stessa Lazzarato.
Buenos Aires, 1912: il figlio di poverissimi immigrati italiani Cayetano Santos Godino viene arrestato con l’accusa di undici crimini. All’epoca ha sedici anni e diventerà oggetto di studi e congetture pseudo-scientifiche fino alla sua morte, avvenuta in una gelida prigione alla fine del mondo. La sua storia – raccontata da María Moreno in un testo che fonde cronaca, saggio e romanzo – non è solo quella di uno dei criminali più misteriosi e celebri, ma anche quella di una società che rifiuta con violenza ogni manifestazione di alterità, mostrificando e punendo chi vive ai margini. Moreno è una giornalista, scrittrice e critica culturale.
Alla prefazione di Lazzarato aggiungiamo la pagina iniziale del libro.]

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di Francesca Lazzarato

È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista. Cominciò a scrivere per mestiere negli anni bui del Proceso de Reorganización Nacional, quando la censura ebbe il paradossale effetto di trasformare certe pagine culturali o di costume di quotidiani e riviste in un laboratorio dov’era possibile insinuare sotterraneamente idee proibite o sperimentare nuove strategie narrative. Moreno poté così permettersi di lasciar affiorare nei suoi articoli elementi di erotismo, dissidenza e controcultura, che l’ambiguità di uno stile barocco ed ellittico era sufficiente a mascherare, consentendole di affrontare temi che, allora come oggi, l’hanno resa un punto di riferimento per il pensiero della differenza.

La sua è un’opera vasta e complessa da situare tra il giornalismo, fonte di testi poi rielaborati e raccolti in una dozzina di volumi, e una narrativa caratterizzata dalla fusione di generi diversi, dal saggio alla cronaca al romanzo, fino alla cosiddetta “scrittura dell’io” concentrata soprattutto nello straordinario Black out (2017), quattrocento pagine in cui Moreno parla, con mirabile audacia formale, della sua storia, di un corpo sofferente o desiderante e dell’alcolismo di cui si è spogliata come di un abito logoro, ma anche della fitta costellazione sociale e intellettuale di un’Argentina non così remota, eppure viva solo nella memoria.

Anche se continua a tenersi lontana dal mercato e dalle gerarchie del canone, la sua figura si è lentamente spostata dal margine al centro di un contesto editoriale ormai propizio a quella che si usa chiamare cronaca, genere di frontiera attorno al quale si addensano numerosi equivoci e sulla cui natura si continua a dibattere, ma che per Moreno rimanda innanzitutto alla tradizione latinoamericana del secolo XIX, impersonata da José Martí, Amado Nervo o Ruben Darío. E se riconosce in Rodolfo Walsh l’autentico cronista investigatore, colui che scova, redige e diffonde le notizie in un circuito parallelo a quello dei media e del potere politico, l’autrice argentina assegna pari importanza al Manuel Puig della maturità, che in Sangue di amor corrisposto accoglie la voce altrui e registra i toni dell’oralità popolare.

Moreno, insomma, non pratica un giornalismo travestito da letteratura, che si propone come testimonianza e si attiene rigidamente ai fatti, secondo i dettami dei cronisti nordamericani; la “sua” cronaca richiede l’esercizio dell’immaginazione e procede verso l’indispensabile creazione di uno stile memore dell’avanguardia attiva in Argentina fra gli anni Sessanta e Settanta (quella di Germán García, di Libertella e Lamborghini, di Fogwill e Perlongher, solo per fare qualche nome). Una scrittura che rivendica la disobbedienza, l’accostamento di materiali eterogenei, l’uso del kitsch come sberleffo alla normatività del “buon gusto”, la passione neobarocca, l’intervento dell’ironia là dove si addensano le ombre della tragedia, e infine la presenza costante di voci subalterne e poco ascoltate. Perché Moreno è ben consapevole del fatto che, come sosteneva il messicano Carlos Monsiváis, il cronista latinoamericano non può rinunciare a una polifonia in cui trovino posto gli emarginati e gli esclusi, proprio come accade nell’ammaliante cronaca-saggio-romanzo da lei dedicato nel 1994 a un reietto leggendario, El Petiso Orejudo, alias Cayetano Santos Godino.

El Petiso, El Oreja, El Orejón: comunque lo si voglia chiamare, questo figlio di poverissimi immigrati calabresi è forse il criminale più misterioso e celebre della storia argentina, e neppure un altro famoso assassino adolescente, Carlos Robledo Puch – serial killer dal volto angelico che terrorizzò Buenos Aires nei primi anni Settanta – lo ha scalzato dal suo spaventoso piedistallo.

El Petiso è diventato figura del folclore, modo di dire, icona, spauracchio, simbolo, e il suo mito fa così saldamente parte dell’immaginario nazionale da aver lasciato innumerevoli tracce: per esempio nelle strade e nei musei di Ushuaia, dove statue e murales lo ricordano, nelle vignette di alcuni comics, sugli schermi (El niño de barro, un film a lui ispirato, è del 2007), nei negozi che ad Halloween vendono la sua maschera, nelle pagine di libri-reportage e di trattati criminologici, o in quelle di romanzi e racconti (il suo fantasma appare, per esempio, in Pablito inchiodò un chiodino, novella di Mariana Enríquez).

Maria Moreno ha costruito intorno a lui un testo magnificamente ibrido, in cui convivono il lunfardo dei bassifondi e il cocoliche (lo spagnolo storpiato dai tanos, gli immigrati italiani, che la traduzione ha scelto di restituire tramite un’allusione all’origine calabrese dei Godino), il linguaggio stilizzato dei medici, l’enfasi e la retorica della stampa e la prosa burocratica di giudici e poliziotti. E, come sempre, la scrittura dell’autrice sfugge a ogni classificazione, si spinge ben oltre le frontiere della cronaca, si fa beffe della tassonomia critica, disintegra i generi e ne mette in discussione la legittimità.

Fedele all’abitudine di riscrivere, rinnovare, riutilizzare, nel 2021 Moreno ha ampliato El Petiso Orejudo, aggiungendovi un poema corale da lei definito «un’operetta trash»: brevi note in prosa e versi in cui si coglie un’eco di tanghi o di strofette da café chantant, che precedono ogni capitolo e si rifanno al tumulto di una Buenos Aires immensa e tenebrosa, un moderno «bosco di mattoni» che, pochi anni dopo la condanna di Santos Godino, Roberto Arlt comincerà a descrivere nelle sue Aguafuertes, cronache attente a ogni minuzia della vita quotidiana. Accanto all’ironico e dolorosamente sarcastico narratore onnisciente della prima versione, che non manca di cedere a più di una tentazione metaletteraria e inserisce nel racconto documenti d’archivio, perizie mediche, articoli, interviste, allusioni a personaggi dell’epoca, Moreno ne ha collocato un secondo, un «poeta macabro dalla squisita e tropicale immaginazione» che dà spazio a travestiti, truffatori, ladruncoli, freaks, malati di mente, bambini sfiniti dal lavoro in fabbrica, sartine tisiche, bimbette arse vive dalla furia del Petiso e galeotti in marcia nel glaciale paesaggio patagonico.

Evocate con rapida efficacia, le loro voci contribuiscono a definire l’immagine di una città-batterio “infettata” dal popolo degli immigrati, forza-lavoro indispensabile ma intrinsecamente minacciosa, la cui pericolosa diversità è riassunta e dilatata dalla figura estrema del Petiso: nuovi arrivati visti come portatori di delinquenza e degenerazione, “primitivi” ma non per questo incolpevoli, proprio come i popoli originari che secondo Domingo Faustino Sarmiento, uno dei padri fondatori della patria argentina, per il semplice fatto di esistere mettevano la nazione davanti a una scelta cruciale tra civiltà e barbarie. La folla di comparse chiamate alla ribalta dall’irriverente “poeta macabro” porta con sé eloquenti fotogrammi della società argentina all’inizio del Novecento, e allo stesso tempo svolge la funzione di coro greco nella tragedia dell’Orejudo, “mostro” impenetrabile giudicato e condannato sulla base del positivismo lombrosiano, che in Argentina, come in tutta l’America Latina, ebbe enorme fortuna e si trasformò in un’efficientissima arma biopolitica.

Resta da chiedersi se quella che María Moreno ci sottopone nel suo esemplare e provocatorio testo-collage, squisitamente frammentario e capace di fondere grottesco e sfumature liriche, sia solo un orrorifico true crime trasformato in letteratura, una storia lontana nel tempo e nello spazio, tutta e solo argentina. Ed è quasi ovvio rispondere che in essa si riflette anche l’inquieta oscurità del nostro presente, e che, dopo oltre un secolo, l’atroce storia di Santos Godino continua a interpellarci con immutata intensità.

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IL RAPIMENTO
Brr! Che freddo! Notte fonda nella Città Bacillo (come un nuovo focolaio dell’anomalia dominante). Nel ventre nervoso della Cristalería Rigoleau la giornata operaia non si fermava. Macchine bizzarre diffondevano un rumore monotono di striduli ingranaggi, che si espandeva contro il soffitto di lamiera insieme alle grida infuriate del caposquadra e ai soffocati colpi di tosse che sono il respiro del lavoro. Bambini curvi su pozzi fumanti soffiavano bottiglie, altri, seduti davanti a lunghi tavoli, limavano bordi di barattoli (avevano occhiaie come succhiotti e grembiuli grigi come le nubi prima della tempesta). A un tratto uno si addormentò. Il caposquadra si avvicinò in punta di piedi e lo colpì con forza sulla testa. Al di là delle enormi finestre: la mole grigia della Fosforera Argentina, con i suoi bambini al lavoro davanti a grandi calderoni di magnesio. Faville nell’aria, identiche a quelle che sprizzano dalle rotaie del tram. Vampate di veleno dritte nei fragili polmoni. Alcuni tossivano e si pulivano il moccio sulla manica dell’uniforme grigia. Si sarebbe detto un miserabile giardino dei supplizi.

Coro Il palato del popolo
Quando la porca vita inizia appena,
Il sole spunta e pesto ed ammaccato
Il ratto torna quatto alla sua tana

Mentre nella Taverna dei Misteri
Tra il taccuino ed un’arma abbandonata
Last Reason beve gli ultimi bicchieri

Lui va in giro a cercar soddisfazione
Se ci riesce il cuor gli esplode in petto
Mentre fugge fremendo d’emozione
E l’aria sa di sangue d’angioletto!

(firmato «un poeta macabro dalla raffinata e tropicale immaginazione»)

Quasi come un’egloga ( beh più o meno, insomma a voler essere precisi si poteva far di meglio, ma tant’è)

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di Giorgio Mascitelli

L’allegro crepitio delle motoseghe di noi allegri boscaioli della Val Barzotta ( international googlemaps: near the Nowhere Valley) risuona allegramente pei tratturi, pei bronchi, tra gli alberi centenari, le cui cime nessun vento scote mai, nell’allegro casotto del cacciatore, per le pendici delle convalli; talvolta esso si fa allegra marcetta, poi diventa un sussurrio soffocato che persuade al sonno, poi s’impenna in urlo come di benna incazzata. Noi si è tutta brava e allegra gente di bosco e dove ci dicono di tagliare, noi si taglia; noi si porta sempre una simpatica ( e allegra) camicia a quadrettoni, che ci si slaccia allorché nella radura comincia a penetrare la luce del sole, dopo che qualche tronco è rovinato al suolo, e il clima si fa un po’ più caliente. Infatti l’allegra musica, come nei vecchi lp allorchè la puntina finiva la traccia e si alzava, si stempera in fruscio e poi si sospende del tutto e allora noi si grida allegramente “Attenti che per l’aria si muove, ma poi va giù” e segue il frastuono della tombola.
C’è da dire che immettere un raggio di sole, dove prima c’era la penombra, mette sempre un po’ d’allegria, sicché noi boscaioli della Val Barzotta si è tutti gente allegra. Quando al mezzogiorno  si fa un po’ di ricreazione per desinare, ci si distende allegramente lì all’ombra e si consuma la colazione del cestino, la gamella con il minestrone, talvolta un sorso di vino dalla fiaschetta, e una fetta di pane con la formaggella. Poi, finito di mangiare, c’è un attimo di silenzio in cui si possono ascoltare i suoni della natura e/o quelli della digestione, in cui non si parla in quanto non c’è nulla da aggiungere al fatto che si sta bene all’aria aperta e sana, satolli e ristorati dalla pausa, logico dunque che noi si sia gente allegra. Io poi in particolare non solo sono il caposquadra qui e l’unico con il contratto a tempo indeterminato, sicché non me andrò mai, ma da quando sto con Rosamaria tutte le cose hanno più senso, non credevo più che avrei mai incontrato la persona giusta come Rosamaria perché ormai il capo si brizzolava e dalla testina del rasoio elettrico al mattino si soffiavano via solo peli grigi. Da quando c’è Rosamaria lavoro con più entusiasmo, i cibi hanno più sapore come neanche dopo aver smesso di fumare e se sono stanco, mi ristoro con il pensiero che a casa m’attende Rosamaria ( talvolta il cigolio dell’albero che sta per cascare sembra che mormori ‘Rosamaria, Rosamaria’ e l’eco dalle zone disboscate ripeta e amplifichi l’amato nome). Felicità tardiva d’un uomo che, credo, l’ha molto meritata.
Zanini no. Zanini lui gli scade il contratto perché è a tempo determinato e quindi, come vuole la natura delle cose, lui adesso finisce il lavoro oggi ed è concessa un po’ di malinconia quando una cosa finisce, sebbene contrasti con l’allegria intrinseca della nostra attività, ma Zanini la mette giù veramente dura con il farsi tutte queste menate su dove andrà, dove guadagnerà il da mangiare e quelle cose non allegre così. Io cerco di mostrargli la bellezza del creato, del vivere nell’istante, del respirare quest’aria pura che magari gli toccherà pure a lui di scendere giù in città ( ma no! La gente se ne va anche dalla città. E allora si può sapere dove vanno?). Così gli dico di non preoccuparsi che al limite potrà andare in Val Cazzotta, ma lui replica che l’hanno disboscata l’anno scorso, allora gli faccio presente la Val Comellina, ma pare che quest’anno con i fondi europei green dell’agenda duemila e qualcosa l’abbiano messa in sicurezza spianando tutti quei noiosi alberi, gli ricordo la Val Chiria, e qui mi fa irritare perché secondo lui essendo un parco naturale non c’è da lavorare, come se anche in un parco non ci fosse bisogno di tirare giù alberi, sicuramente ci sarà qualcosa nella Val Lozza, ma lui non crede. Starei per dirgli che dovrà ingegnarsi, magari lasciare la motosega per il più vile decespugliatore, ma so che offesa sia questa per un uomo del nostro mestiere e mi taccio. Quel che più mi urta di questo pessimismo della volontà, ancorché scusabile per la poca amabilità del frangente, è che presuppone che non ci siano infinite valli da disboscare, che le valli finiscano insomma a un certo punto, ed è proprio questa la caratteristica dei non meritevoli, di attribuire al mondo i caratteri della loro limitatezza.
Zanini sospira e poi mi fa “Ma chi fu colui che ti diede questa pingue allegria presente?” e io “Non è stato un uomo, ma un sistema: la meritocrazia” e lui sospira di nuovo e sta in silenzio come se ora vedesse con chiarezza il nodo che lo ritiene di qua dal nodo meritocratico che gli è stato esposto. Vorrei dirgli di ascoltare gli uccellini che ciangottano allegramente, ma si odono solo in lontananza perché c’è da dire che abbiamo fatto una bella spianata lì dove siamo e a vedere i risultati del proprio lavoro mi mette allegria. Vedo che le ombre s’allungano e che viene la sera, la nostra giornata è terminata, mi spiace che vadi così mogio  che Zanini era un buon diavolo. E se non avesse mormorato, o quanto meno se io non l’avessi inteso, “Quando le valli da disboscare saranno finite, anche tu potrai capire sulla tua pelle questa mia sera finale”, lo avrei invitato a fermarsi a cena da noi, che per stasera Rosamaria prepara la polenta con il capriolo e al limite avrebbe potuto dormire da noi, così che domani avrebbe potuto viaggiare riposato.

(questo racconto è apparso sul numero 23 di Sud. Rivista europea)

Convegno “Effetto Ernaux”

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Il prossimo 9 dicembre, presso l’Università per Stranieri di Siena, si terrà un convegno dedicato all’opera di Annie Ernaux e alle sue influenze letterarie.

Qui il programma.

Il convegno potrà essere seguito anche on line sul canale di ateneo.

Essere attento, essere redento. Su un’idea di Simone Weil

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di Neil Novello

Dalle pagine di Attenzione e preghiera di Simone Weil (Meltemi, 2024, trad. Marco Dotti), un volumetto in cui sono raccolti tre brevi saggi e un’esegesi al Pater, il lettore eredita l’immagine di un pensiero aperto. E anche qualcosa di più. Una tensione meditante che procede per scavi e sconfinamenti, accanitamente applicata a uno spazio intellettuale inesplorato, e per sua stessa natura uno spazio forse inesplorabile.

Essais sur la notion de lecture, scritto nella primavera del 1941 e pubblicato postumo su Les Études philosophiques all’inizio del 1946, interpreta la «nozione» di «lettura» da un luogo speculativo in apparenza depistante, idealmente avulso da un razionale perimetro culturale. Quando Simone Weil parla di «lettura», il libro quale referente oggettivo di una tale esperienza figura quasi come un pretesto. Anzitutto perché la «nozione» di cui si riferisce non interroga soltanto l’esperienza di un uomo dinanzi a un libro, un lettore che legge. Ciò perché l’idea di «lettura» pensata da Simone Weil, figurando come un «mistero», esprime una concezione originaria non meramente oggettuale ma indeterminata, qualcosa che va proiettata oltre l’esperienza del leggere un libro e addirittura oltre il referente, nello spazio di senso della metafisica. Né il pensiero di Simone Weil riguarda l’immaginario del lettore, semmai la sua speculazione si interroga sulla causa originaria, sul luogo di fondazione della formazione immaginaria.

Leggiamo una lettera in cui si annuncia un lutto. Dall’esperienza di lettura si forma un immaginario doloroso. Dalla lettera emana cioè e si concretizza la “realtà” del nostro patimento: «Tutto avviene come se il dolore risiedesse nella lettera e dalla lettera saltasse sul volto di chi legge». La lettura dunque libera una potenza annientante. Fino ad allora essa rimaneva confinata al di là del lettore, chiusa in una dormiente latenza. Ma tale potenza si manifesta, fa la sua irruzione proprio nell’atto di lettura. E ciò perché furiosamente migra in direzione del lettore provenendo da un fuori occulto e radicale. Perché il «dolore», quando giunge, sembra venga da un altro mondo, con la sua carica di enigma e perdizione. Venendo, il dolore diviene umano: a portarlo è la scrittura.

La lettera, il libro, la scrittura in Simone Weil esprimono anche un’altra idea. Identificano una metafora attraverso cui si riferisce della realtà, della forma della realtà quando essa accade, nel momento in cui si fa epifania per “letteratura”. Così, da una «combinazione di segni», la scrittura si rigenera in altro, metamorfosa in un inatteso risveglio ontologico qualcosa di misterioso che permea la pagina scritta e «afferra la mia anima». Perché, confessa Simone Weil, accade l’imponderabile, qualcosa di «irresistibile penetra il significato che ferisce». La «lettura» riguarda dunque l’esperienza mediata di un libro-mondo, il vissuto spirituale di un luogo da cui emana un fatale «tessuto di significati». Esso espone al contempo uno spazio di dolore ed uno, più generale, di «valore». È dinanzi a tale «valore» che il pensiero di Simone Weil, senza mai esplicitarne la cognizione, allude a un risvolto etico. Anzi sembra assumere una vera e propria valenza etica. Leggere il mondo attraverso la scrittura, poiché la lettura rivela una heideggeriana disponibilità all’accoglienza, testimonia l’esistenza di una tensione fàtica tra il lettore, l’uomo che legge il libro-mondo, e la stessa scrittura che viene all’uomo. È quel che ritorna o può fare ritorno alla domanda originaria. In altre parole, è l’intrinseca e muta interrogazione di chi compie un atto di lettura, qualcosa che si esaurisce in una compiutezza radicale, per porsi dunque entro un consapevole e paziente orizzonte di attesa.

Con il titolo Réflexions sur le bon usage des études scolaires de l’amour de Dieu del 1942, già ricompreso nel postumo L’attesa di Dio, Simone Weil ripropone il medesimo problema discusso nell’Essais del 1941. Leggere un libro (esperire la scrittura), leggere la realtà del mondo (i segni) richiama sempre una disponibilità. Essa annuncia la presenza, potente e latente, di un’etica in atto, un’assoluta disponibilità etica all’attesa. Leggere il disegno del mondo, cogliere il suo tratto esemplare, accogliere dunque la sua emanazione, equivale al compito svolto dall’«attenzione» nell’esperienza della «preghiera». Per Simone Weil, l’«attenzione» è una facoltà umana, certamente una dote, anche qualcosa di esercitabile. E il suo prediletto luogo di apprendistato, in linea con la tradizione pedagogica, riguarda gli «esercizi scolastici», il momento educativo in cui l’individuo si forma svolgendo un compito, un tema. Anche qui riconosciamo l’esperienza di lettura del problema e la ricerca della soluzione, l’esperienza cioè di uno svolgimento didattico che per Simone Weil è equiparabile a un dispiegamento spirituale. Esso testimonia il cammino stesso dell’intelligenza e dell’anima nella realtà del mondo. Se dunque qui matura un «progresso spirituale», si realizza anche una metamorfosi interiore. Essa matura in uno spazio intellettuale, l’ideale spazio di pensiero esistente tra l’estremo del quesito originario e l’estremo della sua risoluzione finale. La cognizione di «fede» in Simone Weil cammina lungo una tale traiettoria. In essa si certifica la presenza, l’azione pulsionale del «desiderio». Ed è proprio il desiderio ad assumere una funzione cruciale, perché esso ammette e impone all’uomo di stare in un campo di «attenzione». In altre parole, il desiderio guida l’anima alla preliminare condizione per la «preghiera». Qui risiede il fondamento spirituale dell’applicazione, appunto l’esercizio scolastico, la prova didattica come chiave dello sviluppo spirituale:

   Dobbiamo quindi studiare senza alcun desiderio di ottenere buoni voti, di riuscire negli esami, di ottenere qualsiasi risultato accademico, senza alcun riguardo per i gusti o le attitudini naturali, applicandoci ugualmente a tutti gli esercizi, pensando che tutti servono a formare quell’attenzione che è la sostanza della preghiera.      

   Per pregare Dio bisogna leggerlo attraverso il desiderio. E leggere Dio, desiderarlo tramite l’attenzione della preghiera, «costringe Dio a scendere». Come il mondo, la realtà viene al lettore, si epifanizza, così Dio viene al pregante attento. La lettura e la preghiera, il pensiero leggente e il pensiero pregante, sono dunque atti di una medesima attesa dell’alterità. Un’attesa, anzi una domanda che si pone in attesa e che dell’attendere fa la ragione stessa del vivere in preghiera. Ciò perché leggendo e pregando lo spirituale è e insieme diviene, si dichiara cioè capace di compiere una sosta temporale estrema. Qui si consuma un’esperienza ontologica, la caduta in un tempo indeterminabile in cui l’essere è «pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che lo penetrerà». La libera disponibilità è dunque una precondizione, perché chi attende attende la stessa attesa, una specie di kairòs, la venuta cioè dell’atteso. La preghiera domanda l’attenzione e l’attenzione è una domanda rivolta anzitutto a sé stessi: è una ricerca di “accanto”.

La preghiera di Simone Weil è il Pater. La pensatrice lo traduce dalla lingua greca già nell’autunno 1941, quando è ospite del filosofo-contadino Gustave Thibon. Ricompreso anch’esso nel postumo L’attesa di Dio, À propos du Pater conduce a compimento il discorso teologico entrando direttamente nello spirito della preghiera. Simone Weil libera quindi la sentina filosofica verso l’unico possibile oggetto di desiderio. Il suo Pater è un commento, un’acuta esegesi del testo, e dunque della cognizione stessa di «preghiera». E anche una continua, imperterrita domanda a Dio, una domanda che una volta pregata esaurisce il proprio compito ponendosi appunto in attesa dell’atteso.

Attenzione e preghiera, se si eccettuano i versi di Love di George Herbert, per Simone Weil la «più bella poesia del mondo» ed essa stessa preghiera in versi, si chiude con l’Autobiographie spirituelle. È una lettera del 1942, rifluita anch’essa nell’Attesa di Dio, che la pensatrice invia al domenicano Joseph-Marie Perrin, il suo padre spirituale. La prima parola della lettera è «Padre». Scrivendo appunto a padre Perrin, Simone Weil ritorna al grande tema dell’«attesa» del Padre celeste, anzitutto per fissare la maturità dell’autoconsapevolezza spirituale. Sia l’attenzione pregante sia la preghiera espongono la pensatrice dinanzi a un limite estremo, radicale. Esse non esibiscono una domanda a Dio, al grande atteso, perché l’atto di preghiera non implica mai la volontà di «cercare» Dio. L’essenza del Padre sta in una formula: Dio solamente viene. Simone Weil confessa allora a padre Perrin che all’uomo, quale sua silente facoltà, è richiesto il risveglio dell’«attenzione». Qui potrebbe avere inizio ciò che definiamo l’umano. Scrive Simone Weil: «quando si desidera pane non si ricevono pietre». Desiderare è dunque un atto di preghiera proprio dell’umano. Un atto che si esprima attraverso il Pater o attraverso la stessa Love di Herbert dà come esito spirituale una sorta di miracolo ontologico.

A padre Perrin, Simone Weil confessa che per mezzo della «preghiera» poetica Love «Cristo stesso è sceso e mi ha presa». Dalla preghiera in versi sortisce dunque l’effetto del desiderio. Essa viene come esito di uno stato, di una condizione umana, e così «costringe Dio a scendere», come si legge nelle Réflexions. Ma la preghiera del Pater, da Simone Weil recitata con «attenzione assoluta», con umanità radicale, gli aspri e faticosi giorni della vendemmia presso la vigna di Gustave Thibon, contrassegna anche il limite della sua fede desiderante, il limite estremo e insuperato della sua religiosità. Dinanzi a padre Perrin, la pensatrice confessa l’esistenza di un’essenza innominabile, un confine insuperabile, la rappresentazione stessa di un mito resistente. È la qualità per così dire relativa dell’umano, una relatività che inibisce la pienezza di un atto spirituale veramente liberato verso il cielo, quell’attenzione pregante, disponibile a un’attesa che può essere anche infinita.

Il Dimidiato

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Foto di Nika Akin da Pixabay

di Astronauta Tagliaferri

[Pubblichiamo un estratto, le prime 5 pagine, dal racconto Il Dimidiato]

È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie; sovrappensiero rimuginavo sulla casa vista oggi a Firenze e sul messaggio in cui, annodato al trionfo e alla circospezione, un caro amico mi annunciava l’ingresso nel club dei novelli babbi.

Avrei voluto rispondergli che l’arrivo di un figlio è bello e stancante allo stesso tempo, di navigare leggero, di dimenticare i propri bisogni. Con lievi forzature, la nascita di un figlio potrebbe definirsi un’esperienza mistica se non fosse, come spesso accade, per il regresso nel paludoso nucleo familiare di partenza dal quale, con fatica, uno si è emancipato. Avrei voluto rispondergli con queste frasi fatte, con questi luoghi comuni in cui galleggiano tocchettini di vero.

Gli ho risposto semplicemente con un: “Grandissimo! Sono davvero felice per voi!” Non mi ricordavo il nome della sua donna, peraltro credo di non averla mai vista. E poi poteva anche domandarmi come sto io, come sta mia figlia Matilde, come sta Clara. Gli avrei riassunto gli ultimi mesi, la verità,compatibilmente con la confusione che mi porto dentro.

Ho cominciato a fumare oppio, lo faccio di nascosto per ovvi motivi e anche perché nascondermi, proprio come per un adolescente, m’è piacevole tanto quanto fumare. Va da sé che stasera ho già fumato, nella casina in legno in fondo al giardino, una sorta di mausoleo tra le acacie in cui, dopo ore di scavo per creare una trincea lunga ottanta metri e profonda trenta centimetri col fine di interrare la forassite, adesso posso accendere due luci: una dentro, una tartarughina bianca accanto al cui interruttore c’è una presa Schuko, e una fuori, un faretto con il vetro rettangolare che illumina fino al boschetto di salici e alla recinzione che delimita la fine del mio terreno e l’inizio di quello della curia.

Dopo tre tiri si amplifica tutto: sento i lombrichi strusciare nelle loro gallerie buie e umide sotto i miei piedi e il frullare dei fagiani quando ruotano su sé stessi per uscire dai loro giacigli nelle sterpaglie rugginose e volare sui rami dove trascorreranno la notte. Beato sulla sdraio di tela, stasera ho chiuso gli occhi e ho sentito la calotta cranica sbriciolarsi delicatamente, la spalla e tutto il corpo distendersi e la corazza riporsi tirando via ansie e preoccupazioni. Ho spento le luci del mausoleo e sulla siepe di lauro brillavano macchioline azzurrine di luce lunare, tante piccole lune su ogni foglia come tanti occhi. Riesco a osservarmi dall’esterno, proiettare i fatti, dividerli in blocchi.

Tra luglio e agosto, a Firenze, abbiamo seguito un percorso di dodici incontri con una tiflologa e una psicoterapeuta. In separata sede abbiamo incontrato la tiflologa al fine di personalizzare i libri di testo per Matilde: arriveranno direttamente dalla biblioteca dei ciechi Regina Margherita, a fine mese, ingranditi, con le figure diradate, le scritte in carattere Tahoma 26 e più nette. In contemporanea è partito un ciclo di incontri di gruppo con altri genitori di figli ciechi o ipovedenti. Ci si riunisce ogni sabato, senza figli, con la mediazione di una psicoterapeuta.

Clara non c’è mai perché il sabato le è difficile assentarsi dal lavoro. Forse sono pazzo o è il mio solito modo di evadere, ma durante i discorsi mi incanto a guardare la mamma di Nicolas, un bambino di dieci anni con la maculopatia, perché la trovo curiosa, esercita su di me un richiamo, ha le unghie curate e smaltate color amaranto e i braccialetti di oro bianco che tintinnano mentre gesticola, e me la immagino distesa, un nido di peli tra le gambe, qualche smagliatura biancastra sui fianchi, i capezzoli larghi e scuri. Nella pausa caffè di sabato scorso le ho anche consigliato L’incubo di Hill House. Lei si chiama Eleonora come la protagonista del libro. Siamo diventati amici, facciamo insieme il tratto di strada dal padiglione di Careggi al parcheggio.

Il lunedì e il venerdì porto Matilde dalla neuropsicomotricista, le serve per migliorare la coordinazione occhio/mano, la motricità fine e per lavorare sulle emozioni. Nell’attesa, leggo sulla panchina di legno sotto i tigli. Tra poco inizierà a piovere e sarà freddo e leggerò nella sala d’attesa; negli ultimi tempi la sala d’attesa si è definita come una dimensione esistenziale cartellonata e assertiva alla quale tento invano di ribellarmi: vietato fumare, tenere la voce bassa, non mangiare, attendere seduti il proprio turno.

Di notte, prima di fumare, cammino in paese con il cane, lo lascio slegato e sono contento di urlare il richiamo “ITALOOOO, VIENI, ‘NDIAMOO”, più forte possibile, fino a sentire stringersi la gola proprio come ha fatto il caldo di questo agosto in cui abbiamo incontrato la dirigente scolastica quattro volte, all’ultima c’erano anche le maestre e l’insegnate di sostegno assegnata alla classe: hanno fatto su di noi un’ottima impressione. Abbiamo esposto alle insegnanti le nostre perplessità riguardo all’utilizzo del banco ergonomico per ipovedenti e insistito affinché sia promossa l’autonomia di Matilde e non l’assistenzialismo.

La loro prospettiva ci è piaciuta, sostanzialmente in linea con la nostra. Abbiamo perlustrato la scuola con l’istruttrice di orientamento e mobilità in cerca di possibili ostacoli: ne abbiamo trovati di silenti e manifesti, e rimossi. Sulla scalinata di marmo bianco all’ingresso della scuola abbiamo applicato delle strisce scure che permetteranno a Matilde di individuare la profondità di ogni scalino. Salire e scendere, inciampare, alzarsi e ripartire. Un saliscendi convulsionario come quello per il riconoscimento della 104: visite dal medico legale slittate di mesi rimbalzando sui divisori in plexigas dei patronati, mentre certi fogli si smaterializzavano dalla mia cartellina gialla con il bottone di velcro aperto e chiuso almeno un milione di volte sulle mie cosce.

Poi l’Inps con il numero di protocollo smarrito, inciampare, il verbale spedito su un aeroplano di carta trascinato dalla corrente dentro una nuvola o in un triangolo di nuvole, cadere e precipitare con il rischio concreto di non essere in tempo per la richiesta del sostegno scolastico. Alla fine, il verbale è arrivato in tempo, al limite, ed è stato come riprendere il volo, rialzarsi.

Adesso, fino al 2025, anno in cui dovremo tornare in visita per il rinnovo dell’invalidità, come se ce ne fosse bisogno per una malattia neurodegenerativa quale è il glaucoma congenito, per di più bilaterale, questa barca scortecciata se ne starà ferma in un porto di fortuna, le boe ad attutire i colpi del pontile, e il suo marinaio si sente i polsi doloranti e la camicia strappata.

Se si fosse degnato di chiedermelo, avrei detto al mio amico che Matilde ha imparato ad andare in bici senza rotelle, ogni tanto cade, si scontra con un paletto, si rialza, gioisce e gioiamo per le sue conquiste. Prosegue le sue lezioni a cavallo e salta 50 cm al galoppo. Io la porto in giro e le dico che è la migliore, in macchina le chiedo: chi è la migliore? Lei risponde: io babbo, io, ’n tu lo sai? Vuole andare alle olimpiadi, ma ancora non sa con quale disciplina. Forse l’equitazione, ma a lei piace saltare e non fare il dressage, che trova noioso. Tuttavia, l’equitazione paralimpica per ipovedenti prevede solo il paradressage.

Spesso la spio mentre sta in camera a fare ginnastica davanti allo specchio, oppure tenta la verticale di nascosto. Non vogliamo che la faccia in quanto stare a testa in giù alza la pressione degli occhi, e la sua pressione deve stare bassa, l’umore acqueo immesso deve essere pari a quello fuoriuscito: il drenaggio attraverso il trabecolato deve essere bilanciato, in equilibrio, stabile. Un aumento di pressione indurirebbe l’occhio che andrebbe ad appoggiarsi sul nervo ottico, atrofizzandolo, escavando maggiormente la papilla. Una volta atrofizzato, quel nervo non si risveglia e le connessioni con il cervello finiscono.

Prego, sciancato sulla mia sdraio, confidando nello sviluppo della scienza e nello studio sulle cellule staminali.

Le finestre di Enrico Palandri

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di Alberto della Rovere

Edita da Bompiani, la collezione di (sette) saggi, di Enrico Palandri, prosegue nel solco delle ultime, felici, prove dell’autore, il quale, dalla pubblicazione di Flow (Editore Barbera, 2011), si offre al lettore con una posa di assoluta apertura, “libera per”, nel rispetto dell’altro da sé, il fruitore della parola, caso invero raro nella recente, dogmatica, produzione saggistica letteraria italiana. Invece, l’opera di Palandri, con la di lui sinestesia di generi, stili e linguaggi, per il respiro, ampio, che ne connota lo scrivere, sia esso: prosa o saggio, risulta accostabile ai lavori di W.G. Sebald, Jan Brokken, Cees Nooteboom, Olga Tokarczuk, Milan Kundera, Daša Drndić, Ian McEwan, nel flusso della più fruttuosa tradizione letteraria europea, degli ultimi decenni.

La raccolta, il cui titolo evoca l’atto d’apertura delle finestre dello studio dell’autore, muove, flowing, dal chiuso all’aperto, comune traccia sottesa, verso la ricerca della bellezza, condivisa, con l’altro, interlocutore con-senziente, nell’atto poietico della intepretazione: “La bellezza è (…) terribile, infinita, arriva sparigliando le carte e ribaltando i tavoli, apre una porta e si affaccia su abissi e spazi sterminati. Lì c’è l’altro, e noi, e le ossessioni sono solo uno degli strumenti che hanno gli dèi per costringerci a recitare la nostra parte”: una bellezza che, sovente, si rivela, tema quasi heideggeriano, nel solco dei Sentieri interrotti, nella distrazione, nell’indeterminato, nel mistero, come testimonia Keats, citato nella prima delle sette finestre.

La tensione è quella che muove, memore dei tempi settentasettini e della posa di Gianni Celati – di Palandri, prima che docente, amico – secondo traiettorie apparentemente disordinate, intrecciando argomenti trasversali, consci che risulta vano porsi obiettivi, abbandonando ogni tappa, e materia, per muoversi alla prossima, successiva meta. Noi lettori ci poniamo, così, nuove domande, connettendo temi ed elementi anche (apparentemente) distanti, interrogando la natura dei propri abiti consolidati, così come il nostro stare-nel-mondo. Lontani da ogni manifesto ed ermeneutica dogmatica delle parole, come ci viene suggerito nella seconda “finestra”, Interpretazioni diverse, laddove la lettura di un testo d’altre epoche, secondo il sentire dei moderni tempi, si dimostra fallimentare, poiché, scrive Palandri: “Mentre il testo infatti rimane radicalmente altro (come ogni persona), il contesto è poroso, mescola le ragioni degli uni e degli altri alla nostra percezione, è inevitabilmente un ponte tra quel che siamo noi oggi e quello che abbiamo invece di fronte”. Nella letteratura, nello studio, come nel quotidiano.

Ecco, quindi, sfilare, lungo le pagine, lontane da ogni angusto materialismo dialettico e pregiudizio teleologico, gli dèi omerici, Blake, Freud, Montale, Joyce (nella lettura donata da Virginia Woolf), Svevo, Florenskij, Jung, Hillman, il prediletto Leopardi, cui Palandri ha dedicato il saggio Verso l’infinito, Platone, Lucrezio, Kafka, Deleuze e Guattari, Catullo, scienze cognitive e psicanalisi, antropologia, teatro e cinema, secondo una (a)temporalità, di scrittura e di intepretazione, sempre mobile: la narrazione, il racconto possono palesarsi soltanto quando scompare la percezione di un tempo fisico, definito – l’esempio citato da Palandri è quello dell’inizio della Recherche, di Proust, il quale, all’alba del Novecento, con Joyce e Svevo, trasforma “profondamente il modo in cui percepiamo l’identità”, come si legge all’inizio della sesta “finestra”, La bellezza dell’estraneità.

L’intenzione diventa esplicita nell’ultima, felicissima, finestra, In cerca della sorgente, ove Palandri ci invita a seguire, lungo la pagina scritta, come nel quotidiano, i passi del  giornalista Henry Stanley, verso le sorgenti del Nilo, in cerca del dottor Livingstone, “non per spiegare, ma per continuare a cercare”.

Una tensione continua che non può esimerci da rischi, dubbi, dolori, ferite, ma che diventa imprescindibile, nell’atto della scrittura, come nelle relazioni, intessendo narrazione e vita, poiché “la ricerca si nutre di ciò che le resiste. La solitudine in questo modo si costruisce per i falliti tentativi di comunicazione”: questa la suggestione che abita l’opera di Palandri, nell’accorato invito a non rinchiuderci nelle nostre abituali, labili rassicurazioni, di pensiero, relazione e azione, nell’appartenenza, nei codici e nelle categorie, per muover-si, invece, nel mistero, nell’incertezza, all’incontro con l’alterità e gli affetti (“Perchè amare, per noi come per Dante, è l’essenza del vivere”), intessuti di racconti, pronti a produrne di nuovi, sempre, nella fiduciosa “possibilità di abitare un tempo che viene.

Adriano Ercolani: «Don Giovanni, eroe tragico della rivolta antidivina»

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Pubblichiamo alcuni estratti dal saggio di Adriano Ercolani Don Giovanni, eroe tragico della rivolta antidivina, pubblicato nel volume Le prigioniere divine. Il teatro d’opera come dramma delle differenze a cura di Andrea Panzavolta (Il Poligrafo).

Il volume raccoglie contributi di: Nicola Berardinelli, Stefania Navacchia, Daniele Capuano, Umberto Curi, Filippo La Porta, Filippo Pantieri, Nicola Morgese, Ilario Belloni, oltre ovviamente ai citati Ercolani e Panzavolta.

Nel saggio di Ercolani si fa riferimento a due interventi reperibili su YouTube:

-l’intervento di Umberto Curi durante il Festivalfilosofia del 2013  intitolato Don Giovanni, dal nome proprio al nome comune

https://www.youtube.com/watch?v=d086eKXd3ms

– l’intervento di Giovanni Bietti sul Don Giovanni durante la rassegna Preludi all’Opera per l’Università di Catania

https://www.youtube.com/watch?v=L_A4WlyUJ7g

 

PREMESSA

Pavel Florenskij, nel suo cruciale saggio Le porte regali, ci ha donato una celebre sentenza, che nel suo splendore apodittico è forse una prova più convincente dell’esistenza di Dio rispetto all’argomento ontologico nel Proslogion di S,Anselmo:

«Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è».

Chiaramente, nell’asserzione rivelativa del sommo pensatore russo emergono secoli di Filocalia, di tradizione meditativa dei Padri del Deserto, di Neoplatonismo congiunto ai misteri della fede ortodossa, in una vertiginosa sintesi culturale, tra le più abissali del Novecento.

Ben più modestamente, nel mio entusiasmo adolescenziale ho sempre considerato due opere come dimostrazione definitiva e inoppugnabile dell’esistenza di una Perfezione Divina in esse manifestatasi: La Divina Commedia e il Don Giovanni di Mozart.

Se nel poema dantesco, non solo l’oggetto e il/la fine stessi dell’opera, ma la sua complessa impalcatura teologica da maestosa cattedrale medievale, potevano più immediatamente presupporre l’unione mistica con una dimensione divina, il capolavoro mozartiano appare al contrario (nonostante l’ironica benevolenza moraleggiante dell’happy ending) una celebrazione estetica e filosofica del più fascinoso demone carnale e luciferino della storia del mito e della letteratura.

Dunque, ancor di più risplenderebbe in essa il nitore della bellezza e del genio per comunque testimoniare, pur per contrasto, la Presenza gloriosa e travolgente di un afflato divino.

E come il poema divino, anche se da una prospettiva rovesciata (stavolta non nel senso florenskijano), l’opera mozartiana coniuga Eternità e Tempo, Aion e Chronos (avendo come protagonista un irrefrenabile inseguitore del Kairos), il rapporto col Sacro e la schiavitù dei sensi, la filosofia perenne e la dialettica sociale.

 

(…)

 

I MILLE VOLTI DELL’EROE DEMONIACO

L’eroe dai mille volti è un celebre saggio del 1949 di Joseph Campbell, tra i più brillanti e originali allievi di Carl Gustav Jung, che ispirò la codificazione del cosiddetto “Viaggio dell’Eroe”, divenuto a sua volta lo schema principale per la costruzione delle sceneggiature hollywoodiane (…) il viaggio eroico del protagonista in un’impresa avventurosa, chiara allegoria del percorso di iniziazione, della Grande Opera, dell’illuminazione, dell’incontro col proprio Sé o col divino, a seconda delle diverse tradizioni o interpretazioni.

Don Giovanni compie, nella maniera più affascinante e rocambolesca, questo viaggio al contrario: è un eroe demoniaco e daimonico, il cui itinerarium lo conduce agli antipodi del Poeta Divino, ma che proprio per questo ha un fascino irresistibile e ispira un’umanissima empatia, proprio come i più celebri dannati infernali danteschi (pensiamo alla commozione per Paolo e Francesca o al rispetto ispirato dal carisma di Farinata degli Uberti): del resto, Kierkegaard insiste proprio sullo spiegare come lo stadio estetico sia lo stato esistenziale iniziale di tutti gli esseri umani.

Sempre Dante, nel XVI del Purgatorio, fa spiegare a Marco Lombardo con accenti poetici memorabili la condizione umana: “«Esce di mano a Lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, // l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volentier torna  a quel che la trastulla. // Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore.» . Don Giovanni, supremo ingannatore e per questo ingannato, nel suo apparente dominare la materia, cade nella trappola del velo di Maya, per questo, nel suo alone demoniaco e superumano, appare una maschera profondamente umana. Egli forza i limiti della condizione umana, come un Ulisse perso nei sensi, con la massima fierezza, fino alle estreme conseguenze.

E come Ulisse, vedremo, si presenta come un Nessuno, senza nome.

Probabilmente, proprio per questo possiede, per sua natura di dramatis persona e per la perenne attualità propria dei classici, mille cangianti volti.

 

(…)

 

Don Giovanni è stato, ovviamente, per i suoi caratteri di carisma dannato e ribelle, icona praticamente obbligatoria del Romanticismo, eppure anche qui non mancano le sorprese: nel 1812 la fantasia vulcanica e bizzarra di E.T. Hoffmann si ispira al Don Giovanni mozartiano (“opera delle opere”) con un racconto strabiliante, Don Juan. Un evento fantastico che è accaduto ad un entusiasta viaggiatore, in cui una confessione in camerino del personaggio di Don Anna rivela come il suo vero grande amore sia stato proprio Don Giovanni: furono i vincoli tragici a impedire il compimento del loro autentico amore, ed ella morirà prima di adempiere alla promessa a Don Ottavio, in un capovolgimento faustiano della figura del seduttore, non spietato violentatore ma innamorato vittima di un Fato crudele; non possiamo non citare il poema omonimo (iniziato nel 1818 e mai compiuto) di Lord Byron, che vede il protagonista come una sorta di improbabile Candide, goffo e ingenuo e facilmente sedotto dalle donne, ancora in una inversione provocatoria dei ruoli; maggiore attenzione merita una delle Piccole Tragedie (che ispirerà l’opera omonima di Dargomyžskij del 1872), Il convitato di pietra (1830) di Puskin, autore straordinario che nella stessa raccolta dedica un’altra pièce a Mozart e Salieri (inaugurando la leggenda nera dell’avvelenamento per invidia che arriverà fino al film Amadeus di Miloš Forman); ci limitiamo a segnalare, per limiti di spazio, le versioni simboliste e decadenti di Theodore de Banville, di Flaubert, di Huysmans e Remy de Gourmont, per dedicarci a un ritratto memorabile del più grande poeta loro contemporaneo.

Charles Baudelaire, sommo cantore della ricerca vana dell’unità mistica nei sensi (il sonetto Correspondance, lungi da essere lo scolatico “manifesto del Simbolismo”, nelle prime due quartine potrebbe essere scritto da uno yogin o da un sufi), nei suoi Les Fleurs du Mal (1857) immortala con la magnifica potenza del suo dono poetico la fierezza maestosa dell’eroe dannato:

 

Quando Don Giovanni verso l’onda sotterranea

discese, ed ebbe dato il suo obolo a Caronte,

uno straccione cupo con l’occhio fiero d’Antistene,

s’impossessò dei remi con gesto di vendetta.

 

Mostrando i seni penduli e le vesti aperte,

donne si torcevano sotto il nero firmamento,

e come un vasto gregge di vittime offerte

dietro di lui muggivano con lungo lamento.

 

Sganarello, ridendo gli chiedeva la paga,

e intanto Don Luigi, con dito tremante,

mostrava a tutti i morti che sulle sponde vagavano

il figlio audace che schernì il suo capo bianco.

 

In lutto, tutta brividi, la casta e magra Elvira,

presso lo sposo perfido, che fu suo amante un tempo,

sembrava reclamare un ultimo sorriso

acceso dalla dolcezza del primo giuramento.

 

Ritto nell’armatura un uomo alto di pietra

Stava al timone e fendeva l’onda nera:

ma il calmo eroe, sulla sua spada raccolto,

fissava la scia e non degnava altro vedere.

 

Sembra di leggere di Farinata che “s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto.”. Come scrive Giovanni Casoli in Novecento letterario italiano e Europeo, Baudelaire è un cristiano diviso, “dimezzato e révolté”: dall’unità metafisica alla base del simbolismo medievale che (fin dall’etimo del termine symbolon) trovava il proprio senso nel rapporto creaturale e verticale con Dio, il Simbolismo, moderno e decadente, cerca l’unità nell’esperienza dei sensi, in un “misticismo estetico” che trova solo un senso di unità materiale e orizzontale. Una riflessione che indurrebbe a un accostamento, che in questa sede ci limitiamo ad enunciare, con la visione leopardiana (pensiamo solo al possibile confronto tra la comune rivolta antidivina presente ne Le Litanie di Satana di Baudelaire e l’Inno ad Ad Arimane di Leopardi).

Don Giovanni di questa rivolta è appunto il più grande eroe.

 

Albert Camus, ne Il mito di Sisifo, lo interpreta, appunto, come eroe della rivolta esistenzialista, sembrando credere alla risposta di Don Giovanni quando Leporello gli rinfaccia le continue infedeltà (“È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele”), vedendolo come simbolo de “l’intelligenza che conosce le proprie frontiere. Sino ai confini della morte fisica, Don Giovanni ignora la tristezza. Dal momento in cui egli sa, il suo riso prorompe e fa tutto perdonare (…) per lui nulla è più vanità, all’infuori della speranza in un’altra vita. ed egli ne dà la prova, poiché se la gioca contro il cielo stesso”.

 

Passando al cinema (ricordando en passant che il primo film sonoro della storia è Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland del 1926), ne L’occhio del diavolo (1960), Ingmar Bergman ci mostra un Don Giovanni sconfitto e malinconico, in chiave poetica e ironica: si tratta del film probabilmente più “leggero” del serio regista svedese, da egli stesso definito un “rondò capriccioso”, opera speculare, e antidoto complementare,  al contemporaneo, agghiacciante e cupissimo, La fontana della vergine. Partendo da un proverbio popolare irlandese («La verginità di una giovane è come un orzaiolo nell’occhio del diavolo»), Bergman immagina Belzebù infastidito, appunto, alla vista a causa della purezza di una fanciulla rimandare sulla terra Don Giovanni per sedurla, offrendo in cambio uno sconto di trecento anni sulla pena infernale. Accompagnato dal il suo fido servo (lo scudiero Pablo, che avrà più successo di lui), Don Giovanni finirà per innamorarsi dell’innocenza della ragazza, sancendo la vittoria delle potenze celesti (pur con un’ironica coda finale a smentirne maliziosamente la morale).

 

Il Don Giovanni di Carmelo Bene, lungometraggio del 1970, ispirato da un’inquietante novella di Barbey d’Aurevilly, è, invece, crudele, sadiano, un corruttore pienamente consapevole dell’innocenza e della fede. Con uno schema simile, non a caso, a quello del suo spettacolo S.A.D.E (che tanto entusiasmò l’intellighenzia francese degli anni ‘70, anche per la parodia dell’hegeliana dialettica servo/padrone, con Bene intento nei panni di Leporello), l’anziano seduttore trova ormai eccitazione solo nel paradosso: nello spettacolo teatrale questo è rappresentato dall’irruzione della polizia durante l’orgia, nel film solo dalla malsana conquista di una ragazzina bruttina e baciapile, figlia di una delle sue amanti. Con la cifra stilistica tipica di Bene, il film, costruito su un montaggio frenetico e quasi intollerabile, prova generale di Salomè, è un colto intarsio di citazioni; si apre, ad esempio, con il celebre sonetto di Shakespeare “No, non ti vanterai, tempo, ch’io muti”, e fin dall’inizio, una stupenda Lydia Mancinelli incarna, sulle note dell’aria del catalogo, tutti i dodici archetipi femminili elencati da Leporello, come poi durante il film rappresenterà celebri nudi della storia dell’arte, quale ad esempio la Venere di Velasquez. A un certo punto, con una geniale sovrapposizione archetipica, alla vicenda viene sovrapposto un dialogo tra la Fata Turchina e Pinocchio (maschera che era già un cavallo di battaglia di Bene), particolarmente significativo se si conosce l’interpretazione capovolta del mito collodiano da parte del regista.

Nel finale, Don Giovanni, davanti all’ennesimo fallimento, frantuma uno specchio, mentre risuona il monito di Jorge Luis Borges: “gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”.

 

Non possiamo non citare la celebre trasposizione filmica di Joseph Losey del 1979: film che si apre con una rinomata citazione gramsciana (“ il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”), prosegue con immagini dal simbolismo ermetico (per uno scherzo del destino realizzate da un illustratore di cognome Salieri!), ritmate dalle onde sempiterne della risacca, prima della suggestione alchemica della vetreria di Murano; un Don Giovanni cupo, crudele, quello interpretato da Ruggero Raimondi, antitetico a quello atletico e vitale di Cesare Siepi nelle versioni dirette da Furtwängler nel ‘54 e (quella che mi è personalmente più cara) da Krips nel ‘59; una versione in cui l’armonia delle diafane architetture palladiane (il film è girato a Vicenza) crea un perturbante contrasto col nero funereo dei costumi, in una riproposizione a scacchiera sia del pavimento della Loggia che della lotta allegorica tra Bene e Male.

In questa chiave iniziatica, obbligatorio è ricordare il saggio di Marius Schneider Il vero Don Giovanni, pubblicato su Conoscenza Religiosa del 1974, che interpreta in chiave solstiziale il mito come solare, nelle sue versioni arcaiche. Così ne evoca il senso, in Le Meraviglie della Natura, Elémire Zolla: “Il carnevale è il mese inaudito: il tredicesimo: suo eroe è un travestito sfrontato, un Lucifero, un Don Giovanni, un figlio del Sole”.

Concludiamo questa rapida rassegna con Cristian Jacq, che nella sua monumentale quadrilogia dedicata alla ricostruzione quasi quotidiana della vita di Mozart, Il romanzo di Mozart (2006), offre, nel volume Il Fratello del Fuoco, un’accurata interpretazione massonica dell’opera (come del resto fa di tutto il percorso artistico del compositore): Don Giovanni è il Compagno, Leporello il Primo Sorvegliante, Donna Anna, Don Ottavio e Donna Elvira rappresentano le tre colonne del tempio (Saggezza, Forza e Bellezza), Masetto e Zerlina la piccola unione, prima tappa della Grande Opera, mentre il Commendatore, chiaramente, è il Maestro d’Opera, ritualmente assassinato all’inizio dell’iniziazione (perdonate il bisticcio).

(…)

 

DON GIOVANNI DI MOZART, UNICUM INAUDITO

A questo punto arriviamo a uno sguardo più ravvicinato al vero oggetto della nostra trattazione, il capolavoro (non l’unico, ma forse il più universale) della produzione mozartiana.

(…)

L’Ouverture, anch’essa leggendariamente composta la notte prima del debutto, è un riassunto vertiginoso e memorabile di tutta l’opera: inizia con le note tremende e ieratiche dell’avvento finale della Statua del Commendatore, per poi liberarsi nel brio divinamente giocoso tipico della gioia compositiva mozartiana, nel rocambolesco mescolarsi di spunti travolgenti, melodie memorabili, cambi di ritmo, di atmosfera, di umore, per poi sfumare con serena, quasi fiabesca, compostezza.

Nei sei minuti scarsi dell’Ouverture del Don Giovanni non c’è solo già tutta l’opera ma c’è tutta l’esperienza umana, l’itinerarium e la catabasi, la violenza e la pietà, l’innocenza e il peccato, la dannazione e la redenzione, la rivolta luciferina e l’implacabile giustizia divina, un prodigio musicale supremo, degnamente posto all’inizio di una delle più alte creazioni della storia della composizione.

Soprattutto, c’è evidente la cifra stilistica, inedita e irriducibilmente peculiare, dell’opera: la mescolanza inaudita di generi, stili, ritmi che poi diventa specchio artistico perfetto del travolgimento di tutte le convenzioni sociali incarnato dal protagonista, che nella sua furia dionisiaca (ci ritorneremo) decostruisce e svela la vanità illusoria di tutte le sovrastrutture morali.

Iniziamo, proprio, da questo punto: Mozart segna nel suo catalogo personale il giorno della prima il Don Giovanni come “opera buffa”.

Una storia che inizia con un tentato stupro, l’omicidio di un vecchio nobile intervenuto a difendere l’onore della figlia e finisce con il protagonista trascinato all’inferno, da vivo, per sempre…”opera buffa”!

La spiegazione è squisitamente tecnica: l’opera buffa è fondata sull’azione, la velocità, sui concertati, sui brani d’assieme, sui dialoghi. Esattamente le caratteristiche necessarie per raccontare la vicenda di un protagonista continuamente in movimento, sfuggente, inafferrabile, preda di continui innamoramenti, seduzioni, colpi di scena, travestimenti, inversioni di ruolo, apparizioni e repentine sparizioni.

 

(…)

 

Come sottolinea Bietti, Mozart e Da Ponte sono esattamente al centro della tradizione, e da quel punto centrale uniscono e mescolano elementi dell’opera buffa e dell’opera seria: in questo, l’opera è unica perché il personaggio è unico.

Se i personaggi virtuosi (Donna Anna, Donna Ottavio e Donna Elvira) utilizzano il registro dell’opera seria (arie in cui il personaggio riflette a voce alta sulla propria condizione), Leporello (la versione dapontiana di Sganarello) è pienamente all’interno dei codici dell’opera buffa, Masetto e Zerlina portano nella loro litigiosa allegria la musica popolare, il Commendatore incarna ieratico il registro sacro, Don Giovanni attraversa e mescola tutti i generi.

Le sue tre arie sono velocissime e travolgenti, due delle quali cantate nei panni di Leporello, qualcosa di inaudito per il protagonista di un’opera.

La rivoluzione musicale di Mozart non è solo il significante estetico perfetto per la natura luciferina del protagonista, ma coglie con inquietante dono profetico lo Zeitgeist (meno di due anni dopo accadrà lo spartiacque storico della Rivoluzione Francese).

 

Ma, soprattutto, da supremo burlador, come è stato notato da diversi critici, Don Giovanni “si impossessa del materiale musicale” (Bietti) degli altri personaggi, e gli “fa il verso” e così facendo ruba loro l’identità.

In perenne movimento, immerso nell’attimo, non nel presente meditativo ma nel continuo rapimento della Maya, dello stimolo sensuale, si esprime per battute folgoranti, ordini imperiosi, irosi capricci, fregole incontenibili: le sue arie sono velocissime e travolgenti, consuma il tempo, divora gli amori, brucia le esperienze, sconvolge legami e calpesta ciò che è sacro, sacrificando il tutto sull’altare della propria inappagabile sete di piacere.

Al contrario, la sua Nemesi, il Commendatore, si esprime per frasi lunghissime, lentissime, solenni e definitive, come l’eterna pace dei giusti a cui appartiene.

Eppure, nella sua inafferrabile evanescenza Don Giovanni è il centro dell’opera, tutti i personaggi esistono in sua funzione, animati, per seduzione o per contrasto, dalla sua energia ferina e primordiale; per questo, come sottolinea non solo Bietti, il “lieto fine” non è poi tanto lieto, se non per i semplici Masetto e Zerlina: Don Ottavio dovrà ancora aspettare un anno di cordoglio per coronare il suo sogno d’amore con l’affranta Donna Anna, Donna Elvira si ritirerà in convento, Leporello va all’osteria “a trovar padron miglior”.

Senza Don Giovanni tutto torna piatto, banale, malinconico, privo di vita.

Altro paradosso, inevitabile da notare per qualsiasi spettatore accorto: Don Giovanni, il gran seduttore che nell’aria del catalogo può vantare 2.065 conquiste, nelle oltre tre ore dell’azione drammaturgica…va sempre in bianco.

 

(…)

 

Probabilmente, la castità forzata a cui il Nostro è costretto non dal demonio che gli par si diverta ad opporsi ai suoi “piacevoli progressi”, ma è la legge divina del karma, del contrappasso che sta incombendo con i passi ultraterreni e spaventosi del Commendatore in spiritu.

 

Come nota Bietti, tantissimo si potrebbe dire sulla genialità che ha ispirato praticamente ogni frase, ogni battuta, ogni nota (almeno nella sua disposizione) dell’opera: ben noto è come la coloratura cromatica a passi discendenti, tipica del registro drammatico, della morte del Commendatore ispirerà il celeberrimo Chiaro di Luna di Beethoven (sono state trovate delle trascrizioni di pugno del genio tedesco proprio delle battute simili alle terzine discendenti più famose della storia della musica); più volte è stato sottolineato come lo stile sillabico buffo alla Paisiello venga ripreso nel personaggio di Leporello; l’aria “Madamina, il catalogo è questo” è costruita al contrario, prima veloce, poi lenta, a minuetto (il servo si identifica col padrone, usando lo stile nobile, non a caso apre l’opera dicendo “Voglio fare il gentiluomo”); nel duetto con Zerlina (quel “Là ci darem la mano”, spesso preso a canto di “innocente amore”, che in realtà è duetto di un seduttore ingannatore e una fedigrafa sospettosa), Don Giovanni “ruba” il ritmo alla controparte femminile per portare a termine la seduzione (all’inizio cantano la stessa melodia, ma lui sul tempo forte, lei in levare), passando dallo stile nobile a quello popolare (come dirà a Leporello per giustificare lo scambio di costumi, “Han poco credito con gente di tal rango gli abiti signorili”), nel manoscritto, addirittura Mozart storce le gambe delle note a simulare l’abbraccio incombente fra i due; chiaramente il tutto ha un evidente significato anche sociale: nella scena della festa (scandalosamente aperta “a tutti quanti”, abbattendo le barriere sociali, pur per perseguire i suoi scopi seduttori) si indugia quasi inutilmente sulla ripetizione di “Viva la libertà”, forse non a caso, visto che in prima fila c’era un Imperatore; una ulteriore raffinatezza compositiva da sempre elogiata è proprio nel proseguio di quella scena, in cui tre orchestre suonano tre danze diverse (un minuetto, una contradanza, una danza popolare tedesca): non si tratta solo di uno stupefacente virtuosismo compositivo, ma della sovrapposizione eversiva delle tre classi sociali (nobile, borghese e plebea) a cui le tre danze corrispondono.

 

L’unico che che attraversa tutti gli stili (e tutte le classi) è Don Giovanni, unicum irriducibile, suo essere “camaleonte musicale” (Bietti): mentre tutti gli altri personaggi rimangono ancorati al loro stile, lui lo cambia continuamente, per sedurli, parodiarli, attraversarli: lo stile ecclesiastico del Commendatore, lo stile buffo di Leporello, lo stile tragico di Don Anna, quello patetico di Donna Elvira, quello serio di Don Ottavio, quello popolare di Masetto e Zerlina.

Dice Bietti: “continuamente Mozart articola il percorso drammaturgico attraverso queste gradazioni”, a lente ondate, è se la mescolanza dei generi è tipica dell’Opera, questa “capacità di articolare il crescere e diminuire della tensione drammatica” nessuno l’aveva mai sperimentata prima.

La poetica della gradazione si rivela cristallina ai primi confronti filologici: nella versione originale praghese, la furia vendicativa tragica di “Or sai chi l’onore”seguiva immediatamente quel momento (appena un minuto e mezzo scarso!) di pura, perfetta, divina follia dionisiaca che è“Fin ch’han dal vino”, ma, come sappiamo, per la versione viennese Mozart inserirà una nuova scena, donando allo scialbo Don Ottavio una delle arie più belle di tutti i tempi: “Dalla sua pace”, il meraviglioso canto dell’innamorato più puro, un’oasi lirica tra il registro drammatico dell’aria precedente e quello buffo (nel senso del trickster divino) di quella successiva.

A questo punto, una breve carrellata di riflessioni sui personaggi.

Leporello, da par suo, è una maschera comica perenne, che da Plauto e Aristofane, attraverso la Commedia dell’Arte, conduce, nella sempiterna efficacia delle gag classiche, ai volti della comicità contemporanea: si lamenta come Peppino De Filippo, è scaramantico come Totò, fa la supercazzola come Ugo Tognazzi in Amici Miei, mangia di nascosto come Paolo Villaggio nei panni di Fracchia. Nel ruolo di travestimento, inversione e autoparodia con Don Giovanni viene messa in scena, usando un antico dispositivo dell’arte comica, una carnevalesca esposizione della dialettica servo/padrone: Leporello inizia l’opera lamentandosi, dichiarando ad alta voce invidia sociale, ma per tutto il tempo drammatico non fa che esprimere un misto di ammirazione virile e vile condanna morale delle imprese del padrone; un conflitto che esplode e si ricompone all’inizio del secondo atto, in uno degli scambi più vivaci e comici della drammaturgia mozartiana; anche i recitativi fra i due sono speculari, per contenuto e posizione negli atti, procedono per stilemi variati che ritmano il progressivo sfaldarsi della lealtà reciproca davanti all’ineluttabilità del Fato (“Va là che sei il grand’uom” vs “Va là che sei un buffone!”); se Don Giovanni nell’unica occasione in cui rischia il successo amoroso è nei panni del servo (la stupenda serenata “Deh vieni alla finestra”) è significativo che il monito letale del Commendatore (“Di rider finirai pria dell’aurora”) geli con il suo brivido lugubre i due proprio mentre il padrone dice apertamente che avrebbe, senza esitazioni, sedotto con l’inganno la moglie di Leporello: il tradimento dell’amico fedele è l’ultimo paletto etico che una volta abbattuto spalanca le porte della dannazione.

Donna Anna, fiera, nobile, purissima nella sua bellezza e nel suo unico scopo di vendicare il padre assassinato: il meraviglioso “monologo” con cui descrive il tentativo di stupro subito e la sua coraggiosa resistenza è uno dei più picchi di un’opera in cui, sostanzialmente, non c’è un momento di pausa, di calo, di abbassamento di tensione.

Accanto a lei, Don Ottavio, uomo della delega, del dubbio, dell’incertezza, contrapposto al puro istinto, all’astuzia da Odisseo nell’oceano dei sensi di Don Giovanni: esordisce con il goffo “Tutto il mio sangue verserò se bisogna”, prosegue con la gaffe edipica “Lascia, o cara/ la rimembranza amara:/ hai sposo e padre in me” (rivolgendosi a una donna a cui trenta secondi prima hanno ucciso il padre che la stava difendendo da un tentato stupro), per tutta l’opera viene redarguito per le sue romantiche inopportunità da Don Anna che lo richiama al comandamento della vendetta, dubita ingenuamente anche davanti all’evidenza della colpevolezza di Don Giovanni, fino allo smacco finale di dover lasciare un anno ancora allo sfogo del cor di Donna Anna. Eppure, pur nella sua insopportabile inadeguatezza al ruolo, nel suo candore risplende un puro amore: “Tra cento affetti e cento/ vammi ondeggiando il cor” è uno dei momenti più alti e commoventi della storia della musica, una vertigine abissale di due teneri amanti, innocenti e tremanti al cospetto del Male assoluto.

Donna Elvira, figura dalla femminilità complessa e contraddittoria, amante tradita e furiosamente vendicativa, eppure irresistibilmente ancora innamorata, pronta immediatamente a cedere, ancora, a cadere nuovamente nell’illusione, donna ferocemente passionale eppure destinata al convento, fino all’ultimo tenta di redimere il crudele ingannatore che la sbeffeggia: significativo che perfino Leporello, fin dall’inizio complice della burla, dall’esposizione del catalogo fino alla beffa spietata del travestimento, davanti alla derisione finale si commuova e si sdegni (“Quasi da pianger mi fa costei”, unendosi al di lei grido “Cor perfido”).

Zerlina, stadio estetico che la semplicità popolare induce a diventare etico, astuta e maliziosa sposina, pronta a tradire subito il novello sposo col seduttore facoltoso, ma altrettanto abile a riconquistarlo facendolo fesso, giocando magistralmente le carte della sensualità femminile per giostrare il rozzo e amabile Masetto, scarpe grosso, cervello fino, amore bello perché litigarello, e tutti i proverbi della saggezza popolare di cui la coppia è leggiadra e consapevole incarnazione (fin dall’entrata in scena, che riecheggia il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo De’ Medici).

Il Commendatore, figura nobile e ieratica, Giusto per antonomasia, per cui Mozart (nota Bietti con una boutade) compone una serie dodecafonica ante litteram, una scala cromatica di dodici note nel verso: “Non si pasce di cibo mortale/ chi si pasce di cibo celeste”, monito sublime della Trascendenza che si confronta col Grande Negatore dello Spirito; difficilmente si riscontra nella storia della musica una scena in grado di commuovere profondamente, fino ai brividi, a ogni singolo ascolto come l’incontro finale tra la Statua e il dissoluto punito. Tutto ciò, avendo poco prima mostrato Don Giovanni al vertice del suo splendore materiale , nel trionfo edonistico, nella massima fierezza della sua rivendicazione filosofica (“Viva le femmine, viva il buon vino/ sostegno e gloria d’umanità”): tutti conoscono l’autocitazione, al culmine degli omaggi ai compositori contemporanei, dell’aria “Non più andrai, farfallone amoroso” de Le Nozze di Figaro, nel momento in cui Leporello si fa perdonare vellicando la vanità del padrone (“Sì eccellente è il cuoco mio, che lo volle anch’ei provar!”), in un vortice di calembour fra il “piatto saporito” e Teresa Saporiti (Donna Anna nella prima rappresentazione) e il cognome Cucak (“cuoco”, in boemo) del secondo maestro di cembalo nell’orchestra della prima praghese.

Quello che non tutti, a un primo ascolto, notano è come in quel momento quell’aria evocata non rappresenti un rimprovero giocoso, ma una tragica premonizione di quello che accadrà dopo pochi minuti (del resto, Kierkegaard vedeva proprio l’aria “Non so più cosa son, cosa faccio” di Cherubino, il farfallone dedicatario del monito, come perfetta rappresentazione dello stadio estetico): ulteriore raffinatezza, ricorda Bietti, l’ennesima specularità col finale del primo atto: mentre in quel caso tre orchestre suonano tre brani diversi contemporaneamente, qui una ne suona tre di seguito.

 

CONCLUSIONI

Il Don Giovanni è un “dramma giocoso”, e, se leggiamo etimologicamente i termini, dal punto di vista sapienziale non c’è più bella definizione della vita stessa.

Nella sapienza vedica del Brahmasūtra esiste il concetto di Līlā, la creazione stessa è un gioco divino: «Egli non ha motivo di essere./ Allo stesso modo il mondo è semplicemente un suo gioco.»

La Bhagavad Gita, supremo testo di conoscenza spirituale, insegna che dobbiamo essere attori e testimoni del gioco dell’esistenza, arrendendo i frutti delle nostre azioni.

Shakespeare farà eco secoli dopo: “Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena.”.

In uno dei più oscuri e illuminanti aforismi della storia della filosofia occidentale, il sapiente Eraclito sancì che “Il Tempo (Aion) è un fanciullo che gioca”.

Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra, facendo eco al maestro di Efeso,  proclamerà: “Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì. Sì al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire sì”.

Tutto questo ci riporta al grande archetipo, che agisce come un daimon occulto nella maschera eternamente cangiante di Don Giovanni: sotto al cappello a piume svolazzanti, sotto il volto celato del gran seduttore, appare il sorriso beffardo e lo sguardo cavo della maschera tragica di Dioniso.

Non sono certo io il primo ad aver colto questa profonda connessione, segnalo a riguardo i contributi Un viaggio da Mozart a Dionisio. Oltre il Don Giovanni. Essere per divenire  e Dioniso immortale. Il Don Giovanni tra iniziazione e mito e di Domenico Alessandro De Rossi.

In particolare, nell’ultimo contributo citato, l’autore, dopo aver affrontato con profonda consapevolezza simbolica la figura del Nostro come riproposizione dell’archetipo dionisiaco, offre un’ardita quanto convincente interpretazione in chiave massonica, che capovolge in maniera sorprendente, e per questo illuminante, la prospettiva più immediatamente decifrabile dell’opera.

Dopo aver proposto una complessa esegesi numerologica dei messaggi occulti disseminati da Mozart e Da Ponte nel libretto, De Rossi, con un brillante guizzo ermeneutico, arriva a fornire una interpretazione di rara profondità esoterica del celebre beffardo gobbledygook di Leporello “Conciossiacosaquandofosseché il quadro non è tondo”, sintesi solo apparentemente giocosa dell’emblema cardine della Massoneria, ovvero l’unione di squadra e compasso.

De Rossi, da questa premessa, lascia scaturire un’interpretazione vertiginosa: l’opera è una meravigliosa allegoria di un’iniziazione dionisaca, in cui l’adepto è Leporello, testimone del superamento, in un complesso rito di morte e resurrezione durato quasi tre ore, della contrapposizione tra il dover-essere del Commendatore (pietrificato nel suo rifiuto di Dioniso, immagine del “sonno di Kundalini) e la libera volontà di Don Giovanni (sprofondato nelle fiamme della sua ricerca del piacere): “In finale, l’apparente contraddizione tra dimensione terrena di Don Giovanni e dimensione superumana del Commendatore, perde qui ogni valenza di sostenibilità. Ambedue le figure simboliche nel dramma giocoso, nella commedia e nella tragedia rappresentano insieme e nello stesso tempo l’unità della vita con le sue opposte alternanze. Tra dovere e libertà, tra conservazione e rivoluzione, tra ordine e disordine, tra regola ed eccezione, tra intuizione e razionalità, tra permanenza ed effimero, tra apparenza ed essenza, tra intelligenza ed ebbrezza, tra morte e vita, tra thanatos ed eros: tra Apollo e Dioniso.”.

In questo senso, il Don Giovanni rappresenterebbe il vero capolavoro iniziatico di Mozart, rispetto al più celebrato, in quel senso, Die Zauberflöte, il quale è in realtà la più esplicità esposizione essoterica della simbologia massonica in ambito artistico.

(…)

 

Parlando di Dioniso, è altamente significativo che lo stesso Nietzsche, il filosofo che ha riportato la deità greca al centro della riflessione occidentale, dedichi, in Aurora, al Nostro questa riflessione: “Il don Giovanni della conoscenza: non è stato ancora scoperto da nessun filosofo e da nessun poeta. Gli manca l’amore per le cose che conosce, ma nella caccia e negli intrighi della conoscenza- su su fino alle stelle più alte e lontane della conoscenza- è ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finchè non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza è assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all’assenzio e all’acquavite. Così, alla fine, s’incapriccia dell’inferno- è l’ultima conoscenza, quella che lo seduce.”.

 

Altrettanto illuminante è pensare che per celebrare Dioniso in musica, sotto il travestimento continuo di Don Giovanni, si sia dovuto incarnare il dio opposto e complementare, Apollo, nella perfezione armoniosa del genio di Mozart.

Se non cogliete immediatamente l’accostamento al dio dell’ebbrezza, leggete queste parole di Davide Susanetti (tratte dal saggio L’altrove della tragedia greca) e pensatele riferite a Don Giovanni:

“Appare Dioniso. All’improvviso, come colui che sempre giunge da altrove, che irrompe da molto lontano. Inatteso e ignoto come se fosse sempre la prima volta. Estraneo e alieno, eppure così intrinsecamente intimo e proprio, come sempre è intima e propria la vita, anche quando non lo si sa o non lo si vede (…) Dioniso è qualcosa che forse non si vorrebbe, che si desidererebbe ignorare. Ma non è possibile, come non è possibile negare la radice che sta al fondo dell’esistenza e della natura. E la lezione per chi rilutta non può che darsi nella forma di uno choc violento (…) E insieme all’identità si frangono anche tutte le credenze, le opinioni e le scelte che da tale identità scaturiscono come necessario e inevitabile corollario. Nel compiersi della sventura assoluta o del più grande pericolo, vi è una crepa che non cessa di aprirsi e di approfondirsi fino a ingoiare ogni cosa (…) Vita assoluta in cui tutti gli opposti si congiungono e si sciolgono”.

 

Ecco perché amiamo il Don Giovanni, colui che diventa Oltreuomo in quanto “umano, troppo umano”, colui che inseguendo l’immediato non è mai nel presente, colui che per eccesso di amore spezza il cuore di chiunque, colui che fieramente va all’inferno perché a testa alta dichiara “A torto di viltate tacciato mai sarò”, colui che davanti all’incarnazione dell’Etica che gelida gli impone il ravvedimento oppone il suo “Ho fermo il cuore in petto”, colui che calpesta ogni rispetto ma ha alto il senso dell’onore, colui che inganna e violenta ma è colmo di coraggio, colui che è nella sua incessante ricerca del piacere è un bambino che ha smarrito l’innocenza e, quindi, come Pinocchio, strepita per affermare la propria unica, irredimibile, ardente individualità, egli è la manifestazione, trionfale e per questo fallimentare, seducente e per questo punita, per sempre fascinosa e per sempre dannata, di ciò che affratella tutta l’umanità come il vero Peccato Originale: l’ego.

Per questo, per affrancarci dalla sua trappola seducente, dobbiamo sublimarlo nella trasfigurazione apollinea dell’istinto dionisiaco, un miracolo che solo Wolfgang Amadeus Mozart, prediletto degli Dèi, poteva compiere.

 

BIBLIOGRAFIA

 

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L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, Tirso de Molina, Bur, Milano, 1956

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Sonetti, William Shakespeare, a cura di Lucia Folena, Einaudi, Torino, 2021

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Il fratello del fuoco in Il Romanzo di Mozart, Cristan Jacq, Cairo publishing, Milano, 2006

Una rilettura del “Don Giovanni” di Mozart in Preludi all’opera, Giovanni Bietti: video repereribile sul canale Youtube dell’Università di Catania

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Dioniso immortale. Il Don Giovanni tra iniziazione e mito, Domenico Alessandro Rossi, Tipheret, Acireale, 2020

L’altrove della tragedia greca, Davide Susanetti, Carocci, Roma, 2023

 

 

 

Wirz

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di Maria La Tela

Quando fu il nostro turno ci alzammo da terra. Eravamo rimasti seduti a guardare le ragazze che ballavano con le magliette arrotolate sotto l’elastico del reggiseno per scoprire l’ombelico. Wirz le aveva costrette a fare pegno perché avevano perso contro di noi in una gara a chi riconosceva prima le canzoni dagli attacchi: dovevano ballare dieci minuti con la pancia scoperta e poi sopportarci mentre pogavamo intorno a loro. Wirz fece partire Blitzkrieg Bop, le pareti del seminterrato iniziarono a tremare, la musica ci venne addosso facendoci vibrare dentro; cominciammo a spingere con le braccia piegate e i gomiti attaccati alle costole. All’inizio ci pareva troppo buttarci sulle ragazze, allora inchiodavamo la suola di gomma al pavimento un attimo prima di toccarle; Wirz cominciò a dare di matto, se ci vedeva fermi ci urlava contro e le ragazze, per sfotterci, presero a colpirci spingendo più forte di noi. In quei momenti era un attimo farsi male, nessuno controllava più niente, contava solo fare più delle ragazze, più dei compagni, più di Wirz che con i capelli incollati sulle tempie per il sudore, aveva staccato la catenella che portava a un passante dei jeans, se l’era avvolta intorno a un pugno e colpiva a caso nella mischia ogni volta che arrivava il Let’s go! A terra ci finimmo in quattro, io andai sotto, ero vinto dalle spinte e asfissiato dai corpi degli altri. Nessuno si accorgerà che perdo i sensi, pensai chiudendo gli occhi; immaginai di guardare dal cortile la porta azzurra del seminterrato, di avvicinarmi alla maniglia e di leggere lì accanto la vu doppia di Wirz scritta con il pennarello nero indelebile; immaginai, infine, di morire.

Arrivasti che mi ero ripreso da poco. Hai bevuto? Mi domandasti all’orecchio. Sono caduto e basta. Andiamo. Ti tirai via per un braccio. Wirz ci fissava appoggiato a uno dei lampioni del cortile, era stato lui a farti chiamare; lo salutasti alzando il mento e ci avviammo verso il motorino. Ti stavo seduto dietro con le mani in tasca, mi nauseava la puzza di tabacco che arrivava dal tuo giubbotto e non sopportavo la posizione di traverso che assumevi guidando. Faccio l’uomo libero! Dicesti a nostro padre una volta che ti chiese che facessi tutto il giorno fuori casa; cinque dita ti prendesti.

Un tempo eravamo uguali in tutto e ci era diventato familiare il modo stupito, divertito anche, in cui le persone fissano i gemelli, ormai era un assunto senza domande né risposte. Quando in seguito prese forma in noi una coscienza più complessa delle cose del mondo e del nostro aspetto, quegli stessi sguardi cominciarono a stringerci lo stomaco, ne odiavamo l’insistenza, fummo ossessionati dal mettere in atto una reciproca diversità che ci distinguesse. Fu allora che Wirz, come un liquido, aveva cominciato a riempire quella distanza acerba; si era fatto fiume e noi sponde. Iniziasti a raccontare dei tuoi sogni, parlavi di continuo di sconosciuti, di case vuote, ma non era quello a preoccupare nostra madre che tenendoti il mento perché la guardassi, ti ripeteva che molti ragazzi facevano incubi; quello che la impensieriva, confidò in uno sfogo a nostro padre, erano i tuoi racconti di animali deformi che ti agitavano al punto di non farti pronunciare bene le parole, mentre la paura ti impastava la faccia. Lui la stava a sentire senza slancio, una volta a tavola disse di punto in bianco di non aver mai fatto sogni come i tuoi e senza neppure chiedermelo, aggiunse con sicurezza che neanche io li facevo. Avrei voluto dargli torto, ma diceva il vero, in te c’era qualcosa che non andava.

Quella fu l’estate in cui il cibo ti divenne nemico. Davanti a un piatto ti scorrevano nello sguardo contrattazioni che finivano quasi sempre per farti scegliere solo il pezzo di una parte di pietanza, già piccola di per sé. Trascorrevi i pomeriggi fuori casa, avevi conosciuto Wirz qualche tempo prima, ti ci aveva portato un amico che doveva prendere del fumo. Era stato semplice parlare con lui, mi confidasti; pensai che se c’era una cosa che Wirz con tutta probabilità conosceva meglio di quello che vendeva, erano le persone fragili. È uno che si mette lì e ti ascolta, dicesti una notte che venni a sedermi sul tuo letto perché ti era venuta la tachicardia dopo aver fumato.

Che vi dite? Domandai provando una rabbia feroce.

Gli parlo dei sogni.

Si è accorto che non mangi? Ti ha detto qualcosa?

Tra noi, non è Wirz che mi chiede, sono io che voglio raccontare.

Chissà se avevi scelto apposta per impressionarmi le parole tra noi. Le differenze che avevamo costruito mi furono più evidenti e non si trattava ormai del peso dei nostri corpi, né del taglio di capelli, della musica o del nostro modo di vestire; era cambiato il volume emotivo che ero stato per te fino ad allora. Non so dire se fu perché in quel momento ti sembrai vulnerabile come lo eri tu, ma trovasti il coraggio di dirmi che c’era stato un bacio tra te e Wirz; dovette essere per via dell’oscurità che le tue dita mi sembrarono tremolanti come i contorni di tutte le cose sotto la pioggia. Mi resi conto che ti eri esposto con l’incoscienza dei puri, ti amai di più, ma non seppi trovare parole importanti da dirti, desiderai solo che tornassimo per un po’ a quelle voci bambine che ci chiedevano di continuo se l’altro provasse dolore quando uno dei due si faceva male; sembrava un tempo insopportabile, invece avremmo potuto riderne. C’erano adesso, oggi, i sogni spaventosi e la roba di Wirz; dei primi non capivo molto, li consideravo una conseguenza del tuo carattere introverso, ma della roba volevo farmi un’idea più chiara da vicino. Non fu difficile entrare due settimane dopo alla festa nel seminterrato, un terzo della mia classe ci andava. Wirz, in piedi dietro la console in fondo allo stanzone, spostò una delle cuffie da un orecchio quando il mio amico andò a parlargli; ci fissammo, guardai la bocca che aveva toccato la tua. Si rimise la cuffia e abbassò la testa, come se decidesse, poi alzò un braccio e mi fece segno di entrare. La seconda e unica volta che incrociammo gli occhi dopo quella, fu quando mi ripresi in cortile dopo essere svenuto, ma Wirz non aveva bisogno di essere fisicamente vicino agli altri per esercitare il suo potere, mi indusse in qualche modo a credere che mi osservasse di nascosto e questo mi portò a guardare lui tutto il tempo; ero sicuro che lo sapesse. A te non erano mai piaciute feste come quelle, ma anche se non vi prendevi parte, non potevo sapere cosa fosse capace di farsene Wirz, il resto del tempo, di quella tua sprovveduta malinconia che offrivi inconsapevole a chiunque; ogni volta che mi attraversava quel pensiero, sentivo scurirsi dentro qualunque riflesso di lucidità. Passarono dei mesi, trascorrevi molto tempo in compagnia di Wirz; una notte non rincasasti, intorno alle quattro  del mattino venni a cercarti con nostro padre, lo obbligai a restare in macchina quando arrivammo nei pressi dello scantinato che, da vigliacco, avevo lasciato come ultimo posto in cui guardare. Mi avvicinai alla porta azzurra, bussai e mi parve di sentire quasi subito l’avvicinarsi di alcuni passi dall’interno.

Wirz! Lui è lì? Chiesi asciutto. I passi si allontanarono per tornare di nuovo poco dopo. Mi apristi tu, indossavi solo i tuoi pantaloni troppo larghi, ti avrei picchiato perché non riuscivi neanche a muovere la bocca mentre te ne stavi con le dita strette alla maniglia della porta e gli occhi maledetti dello schifo che ti eri preso. Ti strinsi entrambe le guance con una sola mano.

Ce la fai a rivestirti? Se entro, non lo so che succede, devi uscire tu. Mi guardavi. E ancora, mi guardavi senza rispondere. Credetti d’impazzire, ti diedi un buffetto sulla guancia con la punta delle dita strette; sentii vivido l’osso sotto il tuo zigomo. Nostro padre è qui fuori, gli dico che hai bevuto. Esci da lì!

Tornasti dentro, accostai la porta per mettere qualcosa tra voi e me. In macchina nessuno disse niente, una volta a casa nostro padre si rimise a letto, non era in grado di guardarti, di guardare la tua magrezza, la rinuncia nei tuoi gesti, non sopportava la vista del suo sangue guasto; forse ero io, più di lui, a non sopportare tutto quello. Trovammo nostra madre in cucina che mangiava noci, gli occhi sfiniti dal pianto, uno dei tanti a cui nel tempo aveva fatto in modo non assistessimo; schiacciava i gusci mentre tutto intorno era silenzio. Ti avvicinasti a lei. Ti piacciono? Biascicasti con la schiena curva, appoggiando con naturalezza un fianco al tavolo come se la tua vita fosse fatta di blocchi, di segmenti autosufficienti che ti permettevano di mantenere intatto un candore privato di qualunque precedente disagio. Sì. Rispose lei semplicemente, alzando lo sguardo. Se avesse detto ancora una parola non avrebbe più controllato il tremito del mento. Le desti un bacio sulla testa e andasti a dormire strusciando i pantaloni sotto le scarpe. Nostra madre seppe allora, prima di  tutti, che presto non saresti stato più con noi; non volle tornare a letto, il suo era un ultimo tentativo di fermare il tempo. Mi sedetti di fronte a lei, avevamo bisogno di restare così, in silenzio, a pensarti. Ogni volta che oggi accarezzo qualcuno, sento ancora quel tuo piccolo osso sotto le dita.

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Immagine: Karolina Grabowska.