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Peggio per tutti. Di Charlie Hebdo, della République e dell’apocalisse.

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di Jamila Mascat

Sulla Settimana enigmistica c’era un gioco, che forse esiste ancora: “Aguzzate la vista”. Si trattava di scovare i 20 particolari che distinguevano due vignette molto simili e densamente popolate, disposte una accanto all’altra.

Io, che non ho un talento per la visione e sono sempre stata miope, ci mettevo un sacco di tempo, poi spesso mi spazientivo al quinto particolare. Ma chissà perché non demordevo e ogni settimana sceglievo di provarci di nuovo. Del resto, si sa, ci vuole pazienza con i dettagli.

Di Charlie Hebdo

Ora non è facile soffermarsi sui dettagli mentre l’orrore e la commozione per le vittime dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, e poi ancora l’orrore delle ultime ore per gli altri morti e gli altri ostaggi, ci stringono in un raccoglimento corale senza se e senza ma.

Siamo tutti sotto choc; siamo tutti inorriditi per l’attentato più letale che Parigi abbia mai subito dalla fine della seconda Guerra Mondiale – le decine di persone uccise il 17 ottobre 1961 durante una tristemente famosa manifestazione pro-Algeria – all’epoca ancora francese – morirono, come ricorda Libé, non per mano dei jihadisti ma sotto i colpi della polizia; dicesi repressione quindi, non attentato). Siamo tutti ragionevolmente con la plume contro i kalashnikov. E nel giro di qualche ora siamo diventati tutti Charlie (perfino il Nasdaq).

Confesso che je ne suis pas Charlie (senza hashtag, e fuori da twitter, dove pare che la formula sia stata recuperata con intenti ben diversi da quelli di questo post), non lo sono oggi più di quanto non lo fossi una settimana fa e sarebbe perfino ipocrita fare finta del contrario. Avevo un debole per Charb, a cui devo uno dei migliori funerali a cui ho  assistito (si trattava in realtà della commemorazione della morte di Daniel Bensaïd, filosofo, docente universitario, fondatore della Ligue Communiste Révolutionnaire e, tra le altre cose, co-autore insieme a Charb di Marx, mode d’emploi). Mentre nella sala della Mutualité Edwy Plenel, Alain Badiou e molti altri ricordavano Daniel e i suoi trascorsi, Charb lo disegnava in diretta riuscendo perfino a strappare qualche risata contagiosa, che per un’occasione del genere è un risultato niente male. Ma a parte questa affezione personale, je n’ai jamais été Charlie da quando in modo più o meno intermittente vivo a Parigi, dal 2001. Erano gli anni di Philippe Val alla guida del giornale (1992-2009), gli anni del dopo-11 settembre, gli anni bui che conosciamo e che in Francia sono stati ulteriormente rabbuiati dai Lumi del laicité di stato.

Le vignette, le più sconce e le più blasfeme, non mi hanno mai offeso; ridere è un’altra storia e io fatico un po’ a farlo con cazzi e culi, e putes e pédés, per indole, più che per inclinazione al politically correct. Per intenderci: questo finto-Maometto qui, sul set di un film hard costretto a scoparsi una testa di maiale “per mancanza di troie di 9 anni” non mi piace un granché, ma non perché è Maometto, fosse anche il Maresciallo Rocca o Lino Banfi sarebbe lo stesso.

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Allora preferisco Maometto affranto, con le mani nell’immancabile turbante, che deplora la qualità dei suoi proseliti – C’est dur d’être aimé par des cons (e ancora più tosta, forse, è essere odiato dai coglioni, così coglioni che un giorno vengono a trovarti a sorpresa e finiscono per farti secco).

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Non ho avuto nessun sussulto per le illustrazioni di Charia Hebdo, per le vignette danesi ripubblicate da Charlie, né di fronte alle consuete caricature dei miei correligionari, ritratti di solito in versione barbus (gli uomini) o niqab (le donne, generalmente maldestre, impossibilitate a farsi la ceretta come si deve, incapaci di trovare il punto G, e più spesso incinte per meglio procacciarsi i sussidi destinati alle famiglie numerose).

Ma CH non è e non è stato negli anni solo un giornale di vignette di buono e cattivo gusto. È stato anche un giornale di editoriali (come questo di Val, che nel 2002 rimproverava Chomsky di essere un traditore della patria, alias “l’un de ces Américains qui détestent le plus l’Amérique) e di prese di posizione (come questa, sempre Val, all’epoca della guerra in Libano nel 2006 :”Se guardiamo una carta geografica, muovendoci verso Est, [vediamo] che oltre le frontiere dell’Europa, cioè oltre la Grecia, il mondo democratico cessa di esistere. Resta solo un coriandolo in Medio Oriente, lo Stato di Israele, e poi nulla fino ad arrivare in Giappone. Tra Tel-Aviv e Tokyo regnano solo poteri dispotici, che riescono mantenersi in piedi alimentando, presso popolazioni analfabete all’80 per cento, un odio feroce nei confronti dell’Occidente, perché composto di democrazie”); parole che non condivido oggi, più di quanto non riuscissi a condividerle ieri.

Non ero Charlie nemmeno nel 2006 quando il giornale pubblicava il Manifeste des douze contro il totalitarismo islamico, firmato dal direttore (Val), insieme a Bernard Henry Levy, Ayan Hirsi Ali e Caroline Fourest tra gli altri – per chi non li conoscesse googlare per credere. 

Né ero Charlie quando, a luglio del 2008, Val, sempre lui, decideva di licenziare Siné, un collaboratore storico della testata, per colpa di una chronique pubblicata due settimane prima, che commentava così le nozze di Jean Sarkozy, figlio di Nicholas, con Jessica Sarah Fanny Sebaoun,  ereditiera della famiglia Darty

“Jean Sarkozy, digne fils de son paternel et déjà conseiller général de l’UMP, est sorti presque sous les applaudissements de son procès en correctionnelle pour délit de fuite en scooter. Le Parquet a même demandé sa relaxe ! Il faut dire que le plaignant est arabe ! Ce n’est pas tout : il vient de déclarer vouloir se convertir au judaïsme avant d’épouser sa fiancée, juive, et héritière des fondateurs de Darty. Il fera du chemin dans la vie, ce petit !”

Il vignettista, accusato di antisemitismo, era stato immediatamente espulso dalla redazione. L’iter giudiziario avrebbe scagionato Siné e condannato Charlie a risarcirlo cospicuamente, ma intanto un gesto del genere, da parte di un giornale che si è sempre vantato di cantarle a tutti e non risparmiarle a nessuno, avrebbe suscitato più di qualche reazione sgomenta in redazione e fuori. Alcuni già allora rimpoveravano a Val, di lì a poco destinato a essere nominato dall’allora presidente Sarkozy alla guida di France Inter, di aver punito l’antisarkozismo di Siné piuttosto che il suo presunto antisemitismo. E nel momento in cui CH progressivamente scompare dalla rassegna stampa dell’emittente radiofonica France Inter, lo stesso Charb se la prende con il suo predecessore accusato di obbedire supinamente ai precetti dell’Eliseo: “Da quando la rassegna stampa [….] è in mano a sarkozisti impomatati, Charlie Hebdo non è più stato citato. Boycottaggio quasi totale.[…] Si vede che non serve essere iscritti all’albo dei giornalisti per fare la rassegna a France Inter, basta avere la carta dell’UMP».

Nato sulle ceneri di Hara Kiri, censurato dal ministero degli interni nel 1970 per una copertina poco ossequiosa pubblicata in occasione della morte di De Gaulle, e cresciuto all’indomani del maggio francese con spirito anarco-rivoluzionario, persecutore irriverente dei potenti e del potere, CH è stato un settimanale di culto per una generazione, e forse più di una, di gauchistes impenitenti che preferiscono ricordarlo per come era agli inizi.

Lhebdo che ho conosciuto io, invece, è stato un giornale più controverso e più chiacchierato. Al punto che nel 2013 Charb, ormai da quattro anni alla guida del settimanale, mentre le polemiche montavano e le vendite precipitavano, era stato costretto a ribadire dalle colonne di Le Monde che Non,Charlie Hebdo n’est pas raciste !

E in effetti non credo neanch’io che CH sia un giornale razzista. Credo solo che in diverse circostanze abbia abdicato alla tanto celebrata inclinazione dei bei tempi andati, l’inclinazione ad assumere una voce fuori dal coro. Strano a dirsi, mi rendo conto, a proposito di un giornale la cui redazione è stata orribilmente decimata tre giorni fa, per aver osato rappresentare l’irrapresentabile e sfottere l’insfottibile. Ma la Francia non è l’Arabia Saudita e questo dettaglio dovrebbe consentire di prendere le misure.

 


Della République

La questione del coro e delle voci è un altro dettaglio non trascurabile.

Il quotidiano online Mediapart (il cui direttore, Edwy Plenel, ha pubblicato pochi mesi fa un inatteso plaidoyer Pour le musulmans) riporta sul blog Indisciplines un’intervista a Michel Houellebecq, originariamente apparsa sulla Paris Review, e rara nel suo genere per il tono insolente (e apprezzabile) delle domande rivolte all’autore in occasione dell’uscita del suo libro Soumission, di cui si parla ovunque in questi giorni. Il titolo scelto da Sylvain Bourmeau – Un suicide littéraire français – fa volutamente eco al tanto dibattuto Suicide français di Eric Zemmour, il bestseller-scandalo del giornalista francese licenziato meno di un mese fa da I-Télé per le dichiarazioni espressamente razziste rilasciate al Corriere della sera e poi a distanza di qualche tempo rimbalzate in Francia per suscitare un putiferio (tra queste l’auspicio di una prossima cacciata dei musulmani francesi dal territorio nazionale). 

Se nel suo saggio Zemmour addita il pensiero debole e il decostruzionismo, rei di aver eroso “le fondamenta di tutte le strutture tradizionali: famiglia, nazione, lavoro, stato, scuola” fino a rendere “l’universo mentale dei nostri contemporanei ….un campo di rovine” e cedere il paese in pasto all’insolenza delle minoranze, il romanzo di Houellebecq immagina la Francia del futuro che inverosimilmente capitola nella mani dell’islam politico, tanto da ritrovarsi a fronteggiare nel 2022 un deuxième tour presidenziale Le Pen vs Ben Abbes (nome, quest’ultimo, inventato di un immaginario leader carismatico del partito della Fraternité Musulmane). Dopo la vittoria schiacciante del partito religioso, la nazione cambia volto: le donne smettono i pantaloni e cominciano a coprirsi, lasciano il lavoro e si rintanano in casa, le scuole e le università vengono islamizzate e progressivamente tutti sono costretti ad arrendersi e sottomettersi.

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E così Bourmeau incalza Houellebecq:

-Pourquoi tu as fait ça?

-Je n’aime pas le mot mais j’ai l’impression que c’est mon métier.

E più avanti:

– Peut-être oui. Oui il y a un côté peur. J’utilise le fait de faire peur.

-Donc tu utilises le fait de faire peur à propos du fait que l’islam devienne majoritaire dans le pays ?

-En fait, on ne sait pas bien de quoi on a peur, si c’est des identitaires ou des musulmans. Tout reste dans l’ombre.

-Tu t’es posé la question des effets d’un roman qui contient une hypothèse comme celle- là ?

-Aucun. Aucun effet.

-Tu ne crois pas que cela va contribuer à renforcer les portraits de la France que j’évoquais et pour lesquels l’islam pèse comme une épée de Damoclès, comme la chose la plus effrayante ?

-De toute façon, c’est déjà à peu près la seule chose abordée par les médias, ça ne peut pas être plus. C’est impossible d’en parler plus qu’aujourd’hui, donc cela n’aura aucun effet.

-Ce constat ne te donne pas envie d’écrire autre chose ? De ne pas t’inscrire dans ce conformisme ?

-Non ça fait partie de mon travail de parler de ce dont les gens parlent, objectivement. Je suis inscrit dans mon temps.

Houellebecq dichiara di volersi esimere dal dovere di scegliere di cosa parlare e come farlo. Pare nascondersi dietro un dito e dire: parlo di ciò di cui si parla. Come se il mestiere di scrivere si riducesse al compito miserabile di ricopiare dal mondo tel quel, contentandosi di straparlare di quel di cui già si parla.

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A poche ore dal primo attentato, ad esempio, la leader del Front National, Marine Le Pen, ventilava l’ipotesi di un referendum sulla pena di morte. Suo padre Jean-Marie suggeriva con un tweet una soluzione assai più composta: Keep calme and vote Le Pen (e sullo sfondo una bella foto di sua figlia che sfoggia un gran sorriso).

Nel frattempo il Parti Socialiste ha tentato con successo di resuscitare dal torpore autunnale sotto l’egida del repubblicanesimo. La République per bocca del presidente Hollande e del premier Valls ha chiesto a tutti di raccogliersi in silenzio e rendere omaggio alle vittime innocenti di questi morti atroci.“Dans ces moments-là, le débat doit être un peu au-dessus et pas dans les petites polémiques”, ha ribadito il primo ministro, sapientemente abile in queste ore a dosare le parole e redarguire ogni eccesso, ineccepibile ago della bilancia nazionale.

Anche il filosofo Bernard Henry-Levy dalle pagine di Le Monde ha cavalcato l’onda repubblicana rilanciando  la posta un gradino più su: “C’est le moment churchillien de la Ve République”, ha scritto, “è l’ora del dovere implacabile della verità di fronte a una prova che s’annuncia lunga e terribile. E’ l’ora di tagliare corto con il discorso lenitivo che ci propinano da tanto tempo gli utili idioti [fautori] di un islamismo che si risolverebbe nella sociologia della miseria”.

E Sarkozy gli fa eco: “La nostra democrazia è sotto attacco, e dobbiamo difenderla senza esitazioni. … La Francia è stata colpita al cuore, la Repubblica deve riunirsi; chiamo tutti i francesi a […] un fronte unico contro il terrorismo, la barbarie e gli assassini”.  

A tutti noi è richiesto di associarsi (e ai musulmani di dissociarsi e espiare, prima di associarsi) per prendere parte a questa santa alleanza politica che formalmente mantiene a debita distanza solo il FN per evitare di conferire una patente di rispettabilità a un partito pericoloso e a cui in questa fase i consensi non mancano di certo.

Chiunque tenti di opporsi all’ “impératif d’unité nationale” invocato da Sarkozy, obiettando che il guaio della Repubblica è che predica male e razzola peggio, non disdegnando di impugnare all’occorrenza liberté-égalité-fraternité come un’arma letale di discriminazione e d’oppressione, di guerra e di conquista, viene accusato di islamogauchismo, di giustificare l’ingiustificabile o anche solo di non saper tacere in un momento così tragico e ostinarsi cercare il pelo nell’uovo.

Con che coraggio ci si può sottrarre al Je suis Charlie, intonato dal coro polifonico repubblicano che si vuole erede e depositario delle ultime volontà di Charb, Wolinski, Cabu, Tignous e degli altri, e in cui ahimè sono confluiti il dolore, la paura, lo sdegno e la sacrosanta determinazione a resistere di milioni di francesi?

Le Monde per la copertina del dopo-attentato ha scelto un titolo rivelatore: Le 11-septembre français, un titolo confermato dalle parole di Valls che poco dopo ha prontamente evocato l’impresa di una nuova “guerra contro il terrorismo”,  une guerre pour nos valeursUn altro dettaglio non insignificante. Infatti, se davvero si tratta di un nuovo 11 settembre, allora ripensiamo al precedente e meditiamo: per una crociata lanciata ormai 14 anni fa, e combattuta con tanto dispiego di mezzi ed energie, bisogna ammettere che si è trattato di un fiasco colossale. Il terrorismo, a quanto pare, non è mai stato meglio.

Domenica prossima a Parigi sfileranno anche Merkel, Renzi, Rajoy, Cameron e altri leader politici europei.  Vedremo l’Europa di destra e sinistra prendersi per mano “Pour la liberté de la presse, pour la république, pour la liberté de conscience et d’opinion, pour lutter contre l’obscurantisme, pour ne pas capituler face au terrorisme…”. United we stand si diceva all’indomani di 9/11. Con le conseguenze che tutti conosciamo e abbiamo ancora modo di toccare con mano. 

Dell’apocalisse

A helicopter with members of the French intervention gendarme forces hover above the scene of a hostage taking at an industrial zone in Dammartin-en-Goele, northeast of Paris

C’è un breve saggio di Derrida intitolato Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (1983) che fa il verso a uno scritto di Kant di duecento anni prima  pubblicato sulla Berliner Monatsschrift – D’un tono da signori assunto di recente in filosofia  (1796).

In questo saggio Derrida punta il dito contro le retoriche dell’apocalisse per gli stratagemmi che adottano; per le “astuzie criptiche” che mobilitano, per la fine imminente che annunciano e a cui poi non tengono fede, per quell’annichilamento distruttivo che promettono e non mantengono al solo scopo di garantirsi una sopravvivenza più duratura.

Al pari di un’accorta strategia di comunicazione, infatti, i toni apocalittici sottintendono più di quel che narrano esplicitamente, e agitano lo spauracchio della fine proprio allo scopo di poter preservare le cose come stanno. Nulla insomma finisce davvero con l’Apocalisse e molto si perpetua immutato, a discapito delle apparenze.

E allora, Derrida si domanda cui prodest: Quale beneficioQuale premio di seduzione o di intimidazione? Quale vantaggio sociale o politico? Vogliono fare paura? Vogliono far piacere? A chi e come?” Vogliono terrorizzareFar cantare? Attirare in nuove promesse di godimento? È contraddittorio?”

Nelle ultime ore ovunque ci hanno raccontato l’apocalisse. L’attentato, e poi la fuga dei colpevoli, e lo spettacolo terrificante delle squadre speciali che li inseguono. I volti e le storie degli assassini, microcrimnali, macrocriminali, convertiti, bramosi di uccidere e pronti a morire per Isis o per Al Qaeda non importa. Lo Yemen un condimento onnipresnte, l’Afghanistan pure, mentre le vittime innocenti si moltiplicavano tra un attentato e un braccaggio. La fine della rincorsa, l’uccisione dei fratelli Kouachi e del loro complice Amedy Coulibaly, le loro (incredibili ma vere?) interviste in diretta con i giornalisti di BFM Tv  in cui rispondono alle domande come fosse un gioco a quiz, dichiarano i moventi e i mandanti. Il mistero di Hayat Boumedienne. E ancora il récit allarmato della procura, gli istigatori di odio che scorrazzano sui social network, i plausi al coraggio degli attentatori morti per una buona causa che arrivano dai soliti sciroccati criminali. I sondaggi d’opinione, le risposte a scelta multipla. Le prevedibili ripercussioni quotidiane – meno eclatanti, ma certo non meno preoccupanti –  dalle scuole alle moschee passando per le banlieue dove non sono mancate fin da subito le intimidazioni, gli insulti contro l’islam e l’islam contro tutti.

Quando pareva che le cose andassero già molto male, sono andate peggio (cosa c’è di peggio di una prise d’otage qualsiasi? Una prise d’otage orchestrata da un musulmano in un épicerie kosher, tanto per gradire). E quando è così, è peggio per tutti.

Il problema di atti indifendibili come gli attentati dei giorni scorsi è che oltre a lasciarci in bocca il gusto amaro dell’apocalisse, non ci lasciano via di scampo. Non ci permettono di rigettare la logica binaria, ma poi al fondo monopolistica, del ritornello “chi non salta terrorista è”. Ci tolgono le parole di bocca. Ci condannano, nel migliore dei casi, a ingoiare più sicurezza, più vigipirate e più panopticon per sentirci protetti o, nel peggiore dei casi, a fare il tifo per le teste di cuoio affinché catturino i criminali (e non importa che le forze dell’ordine tre mesi fa abbiano ucciso per sbaglio con una granata un giovane manifestante ecologista a Sivens, e che il ministero dell’Interno dopo l’omicidio di Remi Fraisse abbia vietato qualsiasi manifestazione di protesta e promosso arresti e condanne a gogo per punire chi osasse infrangere le regole; quella ormai è acqua passata, riscattata dalle prodezze dei blitz di ieri). Ci spingono a schierarci con quelli che non possono essere i nostri alleati (il governo Valls e l’opposizione Sarkozy). Ci costringono a blaterare in ritirata che il razzismo, che l’islamofobia, che la discriminazione nei quartiers populaires, che la guerra in Mali e la Françafrique, che l’imperialismo, che lo sfruttamento, che la povertà e la disoccupazione, che Gaza, che quel che resta del colonialismo, che non solo i musulmani, ma anche gli altri, che un salafita non è un terrorista, che Obama e Guantanamo…e così via in dissolvenza. E chiunque replicherà, con ragione, che non ci sono scuse che tengano.

Le scuse in effetti non servono, servono antidoti a una strategia della tensione – tu-mi-uccidi-a-casa-mia/io-ti-uccido-a casa-tua – inscenata tra terroristi jihadisti e politica del terrore globale, che evidentemente giova alle parti in causa più che a chiunque altro in questa storia. Servono strumenti per sottrarsi alla morsa infernale del “con noi o contro di noi”, che puntualmente si ripropone. Per questo la libertà d’espressione deve consentire la libertà di sottrarsi all’amalgama dell’union sacrée per soffermarsi sui dettagli – che alla fine non sono un dettaglio e fanno la differenza – senza che nemmeno questo costituisca un atto blasfemo né criminale.

Miti Moderni/ 5: viaggiare a casa

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7149175137_f8232eb897_bdi: Francesca Fiorletta

Le parole del supermercato: vai a prendere le acciughe, le olive in salsa piccante, la salamoia che è scoscesa, dentro ai sacchetti di plastica ermetica sembra quasi un punto di fuga, un capannone sul molo, l’altopiano vicino al parco naturale che ricorda i confini della tua nuova casa di famiglia.

Democrazia?

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di Daniele Ventre

Un recente saggio dell’Economist (1) indaga l’evoluzione e la diffusione dei sistemi politici democratici nel mondo, durante il XX secolo e il primo quindicennio del XXI. Lo scenario che viene delineato è estremamente interessante, e inquietante per le sue conseguenze. Ciò che lascia non poco a desiderare è la diagnosi del male profondo e la debolezza delle soluzioni proposte.

Nello scenario delineato dal saggio in questione le democrazie nel secolo scorso hanno vissuto il tempo del loro trionfo. Fra le due guerre, con l’implosione degli Stati liberali in Europa, i Paesi a ordinamento democratico erano ridotti a una ristretta minoranza, rispetto ai regimi autoritari di tipo populista: isole assediate che ben presto furono travolte dalla barbarie che avrebbe condotto al secondo conflitto mondiale. L’esito di quest’ultimo, tuttavia, segnò una netta inversione di tendenza e la divisione del mondo in due blocchi. La fine della guerra fredda segnerebbe una nuova fase della diffusione della democrazia, con il collasso dei regimi del socialismo reale. Dagli anni ’90 del secolo scorso, però, le cose si sono rivelate un po’ più complesse. Di fronte allo stress economico della crisi finanziaria, le sperequazioni sociali e le situazioni criminogene si accrescono. Lo Stato che non vuole spendere in scuole e ospedali è costretto a spendere in costi aggiuntivi dell’apparato di controllo e repressione. Strutture come l’UE, nate per arginare i populismi, ne stanno di fatto favorendo l’avvento. Chiedersi che cosa sia andato storto, what was wrong with democracy, può essere un primo passo per affrontare il problema. Tuttavia, è anche un passo sbagliato.

In primo luogo, si potrebbe incidentalmente notare che l’espansione della democrazia durante il XX secolo è in gran parte rimasta confinata all’emisfero nord, salvo poche eccezioni che ampiamente confermano la regola. Il resto del mondo, in particolare le aree dove si addensano risorse strategiche, dal medio-oriente al sud America, passando per l’Africa, ha semmai conosciuto un permanente incendio di guerre civili e colpi di stato, dominato dal quadro desolante dell’instaurazione di dittature sanguinarie e dall’abbattimento di effimeri e squilibrati regimi rappresentativi, vittime dei giochi egemonici delle potenze occidentali e della maggior gloria delle multinazionali, in un processo neocoloniale dalle dinamiche tanto note quanto facilmente rimosse dalla (cattiva) coscienza politica dell’Occidente: un processo di cui la globalizzazione è lo stadio evolutivo terminale.

Questa osservazione incidentale, che all’ottimismo delle democrazie e dei liberali ironici spesso sfugge, implica un dato fondamentale: la democrazia occidentale sembra essere drammaticamente associata a un lato oscuro, rappresentato dai regoli, dai tirannelli e dalle democrature che allignano nelle aree periferiche della sua egemonia. La persistenza di questi regimi sembra essere spesso funzionale a mantenere aperti i canali di approvvigionamento delle risorse su cui le economie delle democrazie avanzate si fondano: nello stesso tempo, rendono le democrazie ricattabili e vulnerabili.

L’altro problema è l’equivoco, estremamente pericoloso, che associa democrazia e capitalismo. Ripeterò cose più che ovvie, ma il capitalismo non implica necessariamente la cosiddetta società aperta. L’individualismo metodologico delle classi dirigenti capitalistiche si trova molto più a suo agio all’interno di oligarchie, quando non è incline ad accettare francamente la tirannide come ultimo baluardo contro il pericolo che la ridistribuzione della ricchezza e della libertà individuale mettano in crisi sistemi di privilegi consolidati: ciò accade in special modo là dove sussistono per fenomeni di lunga durata tradizioni politiche di substrato tendenzialmente ademocratiche, ma i Paesi di più antica tradizione democratica non ne sono certo immuni.

Un terzo fattore di incertezza si annida nel principio di tolleranza per cui le democrazie si configurano come società connotate dal caratteristico politeismo dei valori di popperiana, dahrendorfiana e chomskiana memoria. A questo principio di tolleranza nessuno vuole abdicare, ed è sacrosanto che sia così. Ma paradossalmente, è attraverso le sue maglie larghe, o meglio, attraverso la sua trasformazione in criterio dell’indifferenza assiologica, che i fanatismi, in realtà più spesso endemici che provenienti dall’esterno, possono prendere il sopravvento e determinare il suicidio della democrazia.

Nessuna meraviglia dunque, se populismi e fanatismi guadagnano sempre più terreno. A ben vedere, essi sono il portato quasi necessario delle tre condizioni al contorno che definiscono l’essenza stessa della democrazia occidentale. Questa nasce da una situazione di eccezionale benessere permessa da un eccezionale sviluppo tecnologico consentito da un eccezionale accumulo di risorse, a partire da un capitalismo essenzialmente sibi permissus in regioni che hanno per una serie di accidenti culturali una tradizione eccezionalmente lunga dello Stato di diritto, le cui strutture sembrano peraltro inadatte a sostenere il peso delle trasformazioni che l’ultima fase della mondializzazione dell’economia ha portato con sé. Nel processo storico che si sta attuando, il capitalismo, ormai finanziario e non più industriale, teme la democrazia nella sua essenza più autentica, l’alternanza e il licenziamento per via istituzionale dei governanti incapaci: l’implosione recente dei titoli greci alla minaccia di elezioni anticipate, e del prevalere di una formula politica “sgradita”, ne è un esempio palmare -quasi parrebbe che si preferisca l’avvento di Alba Dorata all’appena civile presidenza di uno Tsipras. Lo Stato di diritto è quindi guardato con sospetto, laddove i diritti minacciano di mettere in discussione il profitto di élites economiche tanto lontane quanto non controllabili. Il fatto è che alla radice tutti i diritti, anche quelli legati al lavoro, e il connesso welfare, si sono rivelati a conti fatti il portato indiretto della competizione con un altro totalitarismo, quello sovietico, che andava combattuto con le armi dell’appeasement sociale. Ora che questo confronto fra sistemi è finito, l’appeasement sociale, accettato comunque di malavoglia, non è più necessario. Nel frattempo gli estremismi alimentati contro il vecchio nemico, scaricati dal loro sponsor, cercano una nuova collocazione. Dittature e autoritarismi che vengono buoni per schiacciare popolazioni irrequiete e non propense a svendere le loro risorse strategiche, fanatismi foraggiati allo scopo di suscitare conflitti e vendere armi, non tollerano alcun dissenso o presa in giro e non mordono più il freno ora che l'”impero” sembra più debole che mai. La satira va bene per le nostre grigie politiche interne, gestite da piccoli intermediari locali facili da bersagliare. Ma guai a toccare il dittatore coreano, che può scatenare un cyber-attacco contro la Sony, guai a prendere in giro gli integralisti islamici, che hanno fatto irruzione nella redazione di un giornale satirico parigino, e hanno eliminato dodici persone fra vignettisti ospiti inservienti e poliziotti.

In sostanza, al di là dei proclami dei politici e dei media che fanno loro eco, l’ultimo, estremo, intollerabile fatto di sangue non può essere considerato un semplice atto di terrorismo. Esso contiene, al di là della sua immediata e brutale violenza come evento di cronaca, al di là delle circostanze concrete che hanno mosso gli attentatori, un messaggio profondo: per quanto formalmente tutelati possano essere i diritti degli individui all’interno degli Stati, il circuito economico su cui si basa l’egemonia delle disgregate élites della globalizzazione, e dei loro sgherri diretti o indiretti, coscienti o inconsapevoli che siano, non tollera alcuna forma di dissenso. Il dissenso di singole nazioni “indisciplinate” è punito con la coartazione della loro libertà gestionale e delle loro economie tramite speculazioni opportunamente pilotate; il dissenso dei singoli, come che si manifesti, è punito semplicemente con la morte, per terrorismo o per mafia, non importa. Il totalitarismo che l’Occidente ha permesso per cause di forza maggiore o ha generosamente largito ai suoi staterelli clienti si ritorce contro le popolazioni occidentali in modi imprevedibili, tanto grotteschi (nel caso della Sony) quanto feroci (nel caso dei vignettisti parigini, o dello sgozzamento di Theo van Gogh, reo di aver denunciato in un film la condizione della donna sotto l’islam radicale). Nel contesto anarcoide e disseminato della sopraffazione variamente amministrata e somministrata a livello globale, nessuno è più sicuro. Ma il problema ulteriore è che l’azzeramento fattuale della democrazia che si profila -presto si giunge a “sconsigliare” o evitare satira e dissenso per sicurezza o voto utile o political correctness, dato che già si parla di eccesso del diritto di critica-, può contare su potenti fattori propulsivi interni, attivi da lunghissimo tempo.

La rivoluzione neo-con che ha determinato, fra l’altro, la crisi attuale, non era all’epoca (fra thatcherismo e reaganismo) solo una questione di soldi e di attacco al lavoro in pro della transizione all’egemonia del capitale finanziario. Essa portava con sé anche un sistema di valori ben preciso, non molto diverso, specie nelle sue posizioni reazionarie di frangia estrema, dal fanatismo degli assassini di Parigi -un fanatismo spesso, ma non sempre, in doppiopetto, quello dei dominionisti wasp e dei fondamentalisti cristiani in genere, ma pur sempre un fondamentalismo potenzialmente pericoloso, che ha fra l’altro fornito il format del regime talebano in Afghanistan, dove col contributo degli USA si è costruito in laboratorio un aberrante esempio di dominionismo islamico in funzione antisovietica. I valori neo-con e neoliberisti hanno attecchito un po’ ovunque e costituiscono oggi l’avanguardia culturale della risposta deteriore ed errata che l’occidente offre contro gli estremismi esterni. Lo stesso monoteismo, che rimane incompatibile con la democrazia reale nei Paesi islamici, si rivela incompatibile con la democrazia anche in Occidente -non bisognerebbe mai dimenticare come nella stessa Europa i principi delle costituzioni democratiche e lo stesso concetto di libertà di pensiero si siano affermati in lotta aperta contro le chiese cristiane di qualsiasi confessione fossero. Assistiamo oggi alla globalizzazione di un dio che è strumento di regno, un processo che attecchisce a tutti i livelli, snaturando il valore stesso del sacro e trasformandolo in una mostruosa pantomima. Ciò che più rattrista è in ogni caso la naturale preferenza dei diversi cleri a farsi fautori dell’autoritarismo, pur di conservare i propri privilegi e di evitare che una sola anima possa presumere di scampare alla “salvezza” preconfezionata e vidimata dalle loro burocrazie del trascendente.

Si teme giustamente che ora le masse occidentali spaventate cadano nella grande trappola di populismi razzistici altrettanto antidemocratici. Purtroppo, però, la trappola è già scattata. La linea operativa di nutrire la democrazia dove essa è in fasce e rafforzarla dove essa è matura, la ricetta di fine-tuning fra consulenti tecnici extrapartitici e class action o flash mob virtuali e non da parte dei cittadini, che fra le altre fonti esperte il sullodato saggio pubblicato dall’Economist suggerisce, appare un pio desiderio già superato dagli eventi, anzi nato morto. In definitiva, la pressione economica della finanza transnazionale ha già inficiato i diritti dei cittadini, e nuove condizioni politiche di contorno per democrazie reali, che non siano soltanto lo squallido accomodamento di mediazioni locali fra poteri economici e che non siano esposte all’autocensura per timore della rappresaglia e del ricatto di totalitarismi e fanatismi ormai anch’essi globalizzati, sono ancora di là da venire. Alla globalizzazione dell’economia e dell’esercizio della forza, in un permanente stato d’eccezione, non ha risposto alcuna globalizzazione della sovranità. Manca ancora un’idea di democrazia che si definisca in positivo, come società dell’integrazione, e non più in negativo, come lotta al nemico totalitario, che guarda caso è sempre esterno; nel frattempo, dodici cadaveri si aggiungono alla lista dei caduti di una guerra strisciante e imprevedibile, e di un regime globale che non riesce più a spiegare la propria ragione storica, rimuove la propria radice socio-economica e geopolitica e pertanto non sa darsi più né senso né compito, nel sistema mondo che presume e pretende comunque di dominare.
_______________

(1) http://www.economist.com/news/essays/21596796-democracy-was-most-successful-political-idea-20th-century-why-has-it-run-trouble-and-what-can-be-do

Ulteriori link:

https://collettivoalma.wordpress.com/2015/01/08/io-non-mi-dissocio-da-niente/

http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2015/01/07/non-in-mio-nome

http://www.eschaton.it/blog/?p=8586

Avrei fatto la fine di Turing

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di Franco Buffoni

Avrei fatto la fine di Alan Turing
O quella di Giovanni Sanfratello
In mano ai medici cattolici
Coi loro coma insulinici
E qualche elettroshock.
Perché era un piccolo borghese
Il mio padre amoroso
Non si sarebbe sporcato le mani.
Controllando l’impeto iniziale
Vòlto allo strangolamento
Del figlio degenerato,
Ai funzionari appositi
Avrebbe delegato
La difesa del suo onore.

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Alan Turing (1912-1954) matematico, logico e crittografo inglese, è uno dei padri dell’informatica. Decisivo fu il suo contributo nel decrittare i codici segreti nazisti. Morì suicida dopo essere stato sottoposto a castrazione chimica in quanto omosessuale.
Giovanni Sanfratello (1944) compagno di Aldo Braibanti (1922-2014), fu rapito dai famigliari nel 1964, internato in una clinica privata per malattie nervose a Modena, quindi in manicomio a Verona. “Curato” con elettroshock e coma insulinici – mentre Braibanti veniva condannato a nove anni di carcere per “plagio”, poi ridotti a due – Sanfratello venne ridotto allo stato vegetale.

Un omaggio a degli autentici rompicoglioni miscredenti

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di Andrea Inglese

.

Non sono mai stato un lettore assiduo di Charlie Hebdo. D’altra parte, come scriveva Beckett, poiché “sono nato tetro come si nasce sifilitici”, non sono un gran consumatore di stampa umoristica. Ho fatto i miei maggiori sforzi seguendo con una certa regolarità Cuore durante il suo periodo fasto e del Vernacoliere mi basta adocchiare i titoli al chiosco dei giornali. Di Charlie Hebdo ho però apprezzato sommamente il numero dedicato alla morte di Papa Wojtyla, un numero con delle vignette che, in Italia, neppure se le Brigate Rosse fossero andate al potere, i giornali più audaci si sarebbero permessi di rendere pubbliche.

Sette sestine a due voci – Daniele Ventre [D.] & Cetta Petrollo [C.]

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di Daniele Ventre & Maria Concetta Petrollo


a Carla Pinto/Pintorettina

I

D. Ci sono istanti che si manca d’aria
tanto si ha sete per bramosa voglia
che non si cede al dono dell’attesa
e ci si rode di rabbiosa fame
e l’ansia chiude nel respiro corto
ogni consueta amenità di sogno
C. E si nasce e si muore. Intreccia il sogno
che un equilibrio cerca in mente d’aria
passo in affanno corre via più corto
d’accumulare disarmata voglia
e pattuita bramosia di fame
e così resa più dolente attesa
D. E la vita si rode nell’attesa
e delusa si perde in vano sogno
come per furia di esecrata fame
che manco di possesso è fame d’aria
e non si riempie inappagata voglia
che d’ogni vita ha reso il tempo corto
C. Il tempo più si stende e più è corto
e galoppa e galoppa nell ‘attesa
brucia e bruciando ingravida la voglia
strada smarrisce giù chiusa nel sogno
e arde il tempo avidità dell’aria
che sazietà di sé non compie fame
D. Così il mondo non sazia questa fame
poiché eterno possesso sembra corto
e solido oro tramutato in aria
e un istante di sosta eterna attesa
e saldo abbraccio di realtà fa sogno
sete infinita d’inesausta voglia
C. Avidità che mangia la sua voglia
e non si ferma ma sferza la sua fame
insegue il pieno dell’ardente sogno
battendo il cuore nel suo fiato corto
e stringe le parole nell’attesa
che la vela battente scuota l’aria
D. Così nell’aria si perde la voglia
per vana attesa di contratta fame
e il fiato corto ci fa nero il sogno

II

D. In questo giorno non mi prendo cura
di me del mondo e del mio tempo stanco
e d’altre cose non mi do più pena
e per angosce mi abbandono pigro
a quel poco che resta del mio sonno
mentre intorno il cammino scorre lento
C. Torpore che ti culla in sonno lento
ti abbraccia come me nelle tua cura
vagando per peccato mente in sonno
ed in malitia io ti trascino stanco
che nel mio corpo non sarai più pigro
che intorpidita avvolgo in me la pena
D. E certo che ogni giorno si dà pena
della sua pena mentre il tempo lento
e ruota lento ancora il mondo pigro
lasciato andare a vuoto alla sua cura
e sono stanco di sentirmi stanco
così che m’è tesoro il primo sonno
C. Sibilla crea rancore nel suo sonno
che a Marradi si ferma la sua pena
pusillanime fugge chi è già stanco
nel sacro bosco via Lamone lento
lei ricordando marca la sua cura
e di follia di sé si nutre pigro
D. Intanto in mia follia ricado pigro
di notte veglio e il giorno ho offerto al sonno
e gli anni li consumo in furia e cura
se per virtù di comminata pena
ruggine e sbarre serro al segno lento
che marca in vetro il cerchio al tempo stanco
C. Ma la discesa lenta abbraccia stanco
chi passione nasconde mentre è pigro
che follia di natura è ritmo lento
e divagando s’offre corpo in sonno
accidia ama con la chioma in pena
accidia porge la sua furia in cura.
D. Così per troppa cura al peso stanco
d’antica pena m’abbandono pigro
nel vuoto sonno a cui mi rendo lento

III

D. Grinta che vibra all’apice di furia
in breve incendio estingue ogni sua fiamma
per fiore che in un lampo cede al freddo
se non a volte per compressa forza
quando si vince nell’impulso fiero
e la sua rabbia si contorce al freno
C. Passione che ti scuote non ha freno
in rossa pelle che ti avvampa in furia
e vai cercando chi cavalca fiero
per sfidarlo alla lotta con la fiamma
dei tuoi passi sospinti nella forza
che mente non risparmia e scalda il freddo.
D. Gelo che vampa ha tramutato in freddo
per guizzi di follia trattiene il freno
senso d’istinto che reprime a forza
fuoco che ispiri o verità di furia
se vibri nel respiro antica fiamma
ma la comprima al vento un tempo fiero
C. Da donna che conosce il corpo fiero
iraconda riscaldo membra al freddo
bruciando chi ripara la sua fiamma
e per ira sostengo e poi raffreno
che la mente è potere della furia
che cambia il mondo e abbatte la sua forza.
D. Così nella ragione della forza
ti serra alla memoria il tempo fiero
che giusto sdegno muta in vana furia
finché l’età non lo comprime al freddo
del calcolo opportuno e lascia al freno
i segni incerti dell’antica fiamma
C. Nel movimento rapido di fiamma
si accendono le linee della forza
dignità della donna tiene il freno
di passione che brucia il corpo fiero
in odio che divampa in ira freddo
e distrugge e rovina forma in furia.
D. Così follia sprigiona in furia e fiamma
sogni che la ragione a freddo forza
per serrami e catene in fiero freno

IV

D. L’abbraccio dell’assenza prende corpo
in un respiro di sognata carne
che per gli occhi si schiude strada e varco
e nel suo tenue soffio infiamma in febbre
forma d’intenti e verità di senso
e si fa per furore esca di sangue
C. Chiasso che batte nelle vene è sangue
che se comprendi stringi nel mio corpo
così ch’io trovi di tua pelle senso
e la pelle governi ogni tua carne
crescendo nell’attesa bianca febbre
di passo in passo verso carne varco.
D. Da prigioni di furia non c’è varco
se non per urto o per follia di sangue
che desiderio muta in cieca febbre
e tremore e timore si fa corpo
e verbo dell’osceno si fa carne
e stringe amplessi in fatuità di senso
C. Non importa che senso trovi senso
per l’insensato scorrere nel varco
se scoperta di me trovi per carne
che verbo si trasforma nel suo sangue
di sangue godo e godi corpo a corpo
soffio di fiamma urgendo nella febbre.
D. In questo vuoto io stringo la mia febbre
compresso in un abbraccio senza senso
un sogno vano che non torna corpo
ma per notte d’assenza si fa varco
per fuoco d’ira o turbinio di sangue
per esca di visioni senza carne
C. Distruggo senza tregua la tua carne
nell’attesa che cresca la tua febbre
per incise ferite sangue e sangue
sulle punte del sesso senso e senso
e lentezza di te varco e poi varco
in lussuria che scuote corpo a corpo.
D. Così per sogni un corpo senza carne
penetra in varco di remota febbre
e al mondo senza senso si fa sangue

V

D. Ora sollevi la remota fronte
e sulle cose scivola il tuo sguardo
che troppo all’orizzonte è volato alto
per accostarsi alla nascosta cima
che credi di vederti nello specchio
prima di inabissarti e andare a fondo
C. Credi d’essere Dio giù nel profondo
che puoi ammazzare uomo alta la fronte
fino al martirio a te ti fai tuo specchio
Lucifero dal cielo offre il suo sguardo
in alto in alto porti squadra in cima
né ti basta morire se non alto
D. Quello delle ali sarà andato in alto
prima di inabissarsi in mare al fondo
e così tu da solitaria cima
rifletti nella fonte la tua fronte
e ti perdi lo sguardo nello sguardo
per morire annegato in questo specchio
C. Non hai veri compagni nello specchio
li perdi nel cammino alto e poi alto
con pacate parole nello sguardo
che taglia umanità in un affondo
sciabola di superbia verso fronte
e distruggi la rete cima a cima
D. Non pensi mai che la presunta cima
è solo un’illusione nel tuo specchio
e il dubbio non corruga la tua fronte
che troppo oltre le nubi levi in alto
pronto in un attimo a toccare il fondo
e nessun’ombra scende sul tuo sguardo
C.Lucifero si maschera lo sguardo
col kalashnikov brucia cima a cima
arde parola per superbia in fondo
e prepotente rispecchia il suo specchio
che burkha meritiamo al suo verbo alto
non difesa se non spada di fronte
D. E gli altri a fronte china e con lo sguardo
che respinto dall’alto non sa cima
se non lo specchio che ci tira al fondo

VI

D. E in fin dei conti uno si sente pieno
che già non c’entra più acino in pancia
tanto ingollare e lucro ha fatto gonfio
il corpo debordante nel suo peso
che a divorare non importa il gusto
purché groppo s’ingolfi in gorda gola
C. D’anoressia si vomita per gola
che dito metti quando sei già pieno
di disgusto di te disgusto e gusto
che di parole usate senza pancia
fai macedonia zuccherosa a peso
che il verbo scarnificato è rigonfio.
D. E purché resti il portafoglio gonfio
e purché sempre sazia sia la gola
nessun’altra ragione ha senso e peso
purché ci resti il serbatoio pieno
e a dismisura si ingolfi la pancia
che non conosce a sé criterio o gusto
C. Anzi che al vegano volge il gusto
che spende e cerca alternativo gonfio
di legnami e legumi a piena pancia
delicatezze nuove per la gola
ricercate stranezze in frigo pieno
che si cresca di gola e non di pieno.
D. E forse si sarà di troppo peso
e forse non avremo troppo gusto
ma certo ognuno si sentirà pieno
con lo stomaco stretto e il cuore gonfio
anche se tutto ci si strozzi in gola
e non più rimarrà che adipe e pancia
C. E riempendo riempiendo a piena pancia
decresce libertà senza alcun peso
è tirannia di sé che in gola sgola
e disgusti per scarti cede al gusto
che essere vuoto si trasformi in gonfio
e deglutire a forza in corpo pieno
D. Di senso pieno in debordata pancia
ci lascia il viso gonfio il sovrappeso
che ormai solo il disgusto ci fa gola

VII

D. Non lo so quale paglia abbia io nell’occhio
che mi sogguardi che mi guardi male
quasi avessi commesso eccidio o furto
o di nascosto oppure in piena vista
così che poi mi meriti il tuo odio
oncia di bene che mi venga in sorte
C. Malocchio che da te mi venne in sorte
rilancio contro te occhio per occhio
in novilunio tengo passo in odio
che maligna ti sia veste per male
mi nasconde nel buio alla tua vista
la luna nuova che di te fa furto.
D. Per danno che tu mediti di furto
per tua malizia o per avversa sorte
non sfuggiresti infine all’altrui vista
così che il trave infitto nel tuo occhio
non ti semini poi frutto di male
per amore che in te si spenga in odio
C. E numero la luna che sia odio
e di notte derubi tutto il furto
che si chiuda sepolcro sul tuo male
che facesti di me per mala sorte
il malocchio ti chiuda occhio per occhio
contro all’invidia rubo a te la vista.
D. Non so che te ne dia l’avversa vista
se incendio d’ira fa di cenere odio
e si muta in malia nel perfido occhio
che nega ogni soccorso e svela in furto
ogni buon gioco che ti dia per sorte
la tua voracità di mettimale
C.Male per male butto a te del male
maleficio ti sia nascosta vista
in novilunio che ti scema in sorte
occhio che perdi per scintille d’odio
che ti rilancio contro al tuo di furto
che malvagio ti sia occhio per occhio
D. Così nell’occhio che ti guarda male
si cova il furto che all’aperta vista
cela il suo odio in velenosa sorte

“Forse Esther” di Katja Petrowskaja

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forse esther cover

 

di Ornella Tajani

«[…] E io pensai che fosse stato il charleston a far tornare in mente a Rosa Trockij e la sua mucca: in punta di piedi lei s’addentrava ballando nella storia universale». È in punta di piedi e con una splendida grazia narrativa che Katja Petrowskaja entra nella storia del Novecento e compone un mosaico di vicende storiche e frammenti autobiografici, un tappeto della memoria intessuto di documenti d’archivio, ricordi personali e alcune fotografie in bianco e nero, che sin dalle pagine iniziali richiama il Sebald di Austerlitz.

Forse Esther (Adelphi, trad. di Ada Vigliani) è il primo romanzo dell’autrice e giornalista, nata a Kiev nel 1970 e trapiantata a Berlino. Il tedesco, imparato alle soglie dei trent’anni «a suo rischio e pericolo», è la lingua che Petrowskaja adotta per la scrittura, la «lingua del nemico» che rappresenta al contempo una via di fuga, un amore inesauribile e un modo solo apparentemente illogico per riallacciarsi alle proprie radici, quasi come una «bacchetta del rabdomante». La genealogia tentacolare della famiglia sovietica in cui l’autrice cresce è un crocevia delle culture russa, ucraina, tedesca ed ebraica: è per questo che l’indagine intrapresa alla ricerca dei suoi avi non può che essere anche una ricostruzione storica composita, un viaggio attraverso Germania, Russia, Polonia e Austria, fino a quei luoghi bui dell’anima che gulag e lager sono per ogni europeo.
L’indagine e l’attenzione alla lingua come strumento d’analisi sono condensati già nel dubbio onomastico del titolo: Esther è forse il nome di una bisnonna mai conosciuta dall’autrice; suo padre tuttavia non ne è certo perché l’ha sempre chiamata semplicemente«babuška». Accanto a Esther, però, Petrowskaja traccia i ritratti di vari membri di una famiglia in cui «c’era di tutto. Un contadino, parecchi insegnanti, un agente provocatore, un fisico e un poeta. Un rivoluzionario e un eroe di guerra, ma in particolare c’erano leggende». Gli insegnanti sono perlopiù logopedisti e forse è proprio da loro che l’autrice ha ereditato un legame viscerale con la lingua («per gli ebrei la parola è tutto»). D’altronde per gli scrittori le cui radici si snodano attraverso diversi paesi è naturale che la narrazione di sé si accompagni a una intensa riflessione linguistica, come se alcune tracce del vissuto si nascondessero fra le parole usate, in modi di dire dimenticati e recuperati che vanno a costituire un Erlebnis polifonico; si pensi, ad esempio, al complesso rapporto con il russo che Emmanuel Carrère dimostra di avere in Un roman russe, altro romanzo che è un viaggio verso le proprie origini, nel quale la difficoltà di ricordare la lingua imparata da bambino è un’eco della confusione in cui è avvolto il passato.
È questo legame che porta Petrowskaja a farle notare come, nei pressi della chiesa di San Cirillo a Kiev, non lontano da dove ebbe luogo il massacro di Babij Jar, una targa reciti «Anche qui nel 1941 furono fucilati degli uomini»: le tombe non autorizzate si riconoscono da una congiunzione. O che le fa sottolineare come, in quello stesso anno, i manifesti che richiamavano all’adunanza si rivolgessero a «tutti» gli ebrei in russo, e a «tutti senza eccezione alcuna» in tedesco, quasi che nella traduzione si fosse perso un grano di enfasi omicida.
Così ogni movimento, ogni «andò» diventa epico. La babuška Rosa, Esther, poi il nonno che fu fatto prigioniero e tornò dai gulag dopo quarant’anni, e il misterioso prozio Judas Stern, processato nel ‘32 in seguito al tentato omicidio di un diplomatico tedesco: questi lontani parenti, magnifici personaggi, danzano nella mente dell’autrice «al ritmo della storia universale», mentre lei prova a tenere i fili di ogni vita al fine di visualizzare un centro, capire qual è il suo posto all’interno della narrazione. Per tessere la sua tela Petrowskaja si avvale degli strumenti più vari: Google, miti greci, fiabe tradizionali, contatti Facebook, letture assortite, tra cui Thomas Bernhard; tutto diventa «materiale storico» che per lei somiglia a «velluto, raso, crêpe de Chine». Ma allora dov’è il centro? Che sia quel ficus al quale sostiene di dovere la vita, un ficus che appare d’improvviso verso la fine del libro, abbandonato in mezzo a un marciapiede vuoto, sulle note di Šostakovič, e che, salvando la vita al padre, si trasforma per lei in una specie di angelo custode? Può darsi, ma in questo romanzo – il titolo era esplicito – la memoria è un fantasma intermittente: il padre non ricorda nessun ficus, così la pianta diventa per l’autrice un «oggetto letterario», o piuttosto un correlativo oggettivo della Storia.
Il viaggio che Petrowskaja compie travalica i confini temporali e geografici, lo dimostra un lapsus nelle ultime pagine: mentre l’autrice è diretta a Mauthausen, una passeggera del treno la saluta dicendole «Gute Weltreise!», Buon giro del mondo, invece di «Gute Weiterreise», Buon proseguimento. Di nuovo la lingua offre un indizio; «Così […] ha messo a nudo la mia megalomania», commenta l’autrice. Ma più probabilmente ciò che spinge alla ricerca ha origine non tanto dalla megalomania, quanto da un irriducibile istinto alla sopravvivenza: «Facciamo tutto nel tentativo di allontanare la morte a colpi di interpretazione, come se non si trattasse di scomparire, ma solo di accogliere e giungere alla meta». La meta non può che essere fantasmatica: nell’ultimo frammento una donna anziana e sconosciuta, avvolta dal candore, sparisce a un semaforo di Kiev, subito dopo aver sorriso all’autrice, lasciando un’epifania di luce a sigillare con mistero questo racconto bello e profondamente europeo.

Katja Petrowskaja
Forse Esther
(tit. or. Vielleicht Esther. Geschichten)
Traduzione di Ada Vigliani
Adelphi, 2014

Contre tous les intégrismes – Una risata vi seppellirà!

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Rire_de_tout

12:19 – EN DIRECT – Une attaque vient d’avoir lieu dans les locaux de l’hebdomadaire satirique Charlie Hebdo dans le 11ème arrondissement de Paris

L’anello d’oro

1

di Elisabetta Scantamburlo

anello d'oro

L’anello è d’oro. Ha la circonferenza piccola e termina con una testa quadrata e piatta non incisa. Si infila al mio dito indice sinistro. Me lo hanno dato per il mio settimo compleanno. Mi hanno detto che è antico, che da tempi lontani è stato portato dalle donne della nostra famiglia. Al mio dito è tutto d’oro, prezioso e i graffi del tempo lo rendono ancora più importante. Ogni graffio, ogni segno, è come la firma di una di quelle donne. Ora ne sono io la custode. Ora è proprietà della mia manina di sette anni.

Lo tolgo la notte, per dormire, lo appoggio al comodino di fianco al letto, vicino a me e lo guardo prima di spegnere la luce, mi assicuro che sia lì. Lo tolgo in bagno, quando mi lavo le mani, per non farlo scivolar via dalle mie dita tutte insaponate.
Sono in bagno. L’anello si sfila dal mio dito e mi attende sul bianco lucido del lavandino. Mentre io lavo le mani lui, in silenzio, lento, davanti ai miei occhi e alle mie mani che si bloccano, scivola giù, fa un giro di danza nell’acqua insaponata e giù rapidissimo viene inghiottito dal buco nero. Un attimo. In un attimo è scomparso. Per un attimo il cuore cessa di battere. Poi mi tuffo. Mi getto occhi e mani in quel gorgo scuro. E mentre mi lancio, mi infilo nell’abisso, il suo nero esce, e quasi come non potesse contenere lui e me allo stesso tempo straripa fuori denso e si spande, si fa liquido, copre il lavandino bianco, lo specchio, cola giù fino alle piastrelle splendenti del pavimento e poi sale sulle pareti immacolate e tutto, tutto, fa nero. E io ora sono entrata del tutto, ma non cado, sono nel cuore di quel buio opaco e sordo, senza misura e senza suono. Le mie mani si aprono, tastano, cercano appigli invano. Lo spazio attorno si muove però, inspiegabile ma netta, la sensazione di spostamento. Dopo tanto annaspare in questo vuoto -quanto tempo sarà passato? E se la mamma venisse e mi chiamasse?- lontano appare un luccichio. Deve essere lui. Il mio dito si avvicina lentamente, sempre più, lo tocca finalmente. Ma non solo quello. C’è un altro dito, un dito di donna. Nel buio la sua sagoma prende lentamente forma davanti ai miei occhi. Assomiglia alla mamma ed è vestita come me…. No, assomiglia a me. Non parliamo ma capisco che anche lei cerca qualcosa che ha perduto. Mi chiedo da quanto tempo sia alla ricerca. Apre la sua mano e mi offre il suo anello. Ma, mi dice, devo sapere una cosa importante. Quello che mi sta offrendo al posto del mio anello di sette anni è l’anello che perderò a ventuno. A me non interessa. Questo anello, che porta in sé il segno delle piccole dita di tante donne della mia famiglia è la cosa più importante ora, non posso venire meno all’impegno che mi è stato dato. Qualsiasi cosa pur di riparare al mio danno, alla mia mancanza. Accetto e prendo l’anello che mi porge, lo stringo tra le mie mani piccole con una forza adulta. Torno a nuotare nel vuoto buio con nuovo vigore, avanti avanti, verso un buco di luce lontano che si allarga sempre più. Rientro nella luce e mi lascio alle spalle il buio.

Il lavandino e bianco e lucido. L’acqua scorre, prendo il sapone e mi lavo le mani. L’anello è appoggiato sul bordo. È l’anello del mio fidanzamento. In silenzio, lento, davanti ai miei occhi e alle mie mani che si bloccano, scivola giù, fa un giro di danza nell’acqua insaponata e giù rapidissimo viene inghiottito dal buco nero. Alzo lo sguardo allo specchio, vedo il mio volto di giovane donna a bocca aperta. Un’espressione smarrita e nuova, eppure mi ricorda qualcuno, vagamente. Una persona familiare, incontrata molto tempo fa in un luogo lontano.

Dalle memorie di un insonne/2

0

di Giorgio Mascitelli

Prima di coricarmi depongo sempre sul comodino un bicchiere d’acqua e una pastiglia di valeriana non perché intenda servirmene, ma per scongiurare proprio questa eventualità. So che l’agitazione che turba i miei sonni è del tutto irrazionale e dunque dovrebbe essere placata con tale placebo, che svolgendo la funzione del richiamo nell’uccellagione dovrebbe attirarla nelle reti del sonno. Come uccellatore temo, però, di essere alquanto addormentato e non mi accorgo, se non quando è troppo tardi, che l’agitazione, quella categorica fondamentale che m’impedisce di prendere sonno perché dipendente dalla paura di non prendere sonno, ne libera di altre succedanee, ottative, circostanziali, le quali svolazzano impenitenti quando la prima è già saldamente impigliata.

Per esempio, nei mesi invernali sovente mi capita, visto che sono certo di addormentarmi, di temere di risvegliarmi per via del freddo alla testa nel corso della notte quando il riscaldamento si spegne e di non  riprendere più sonno.  Non è stato di consolazione nemmeno riuscire a mettere le mani su una papalina appartenente a una piccola partita destinata ai mercati del Circolo Polare Artico, di cui tuttavia alcuni esemplari sono stati messi in vendita qui durante la Settimana del Vintage in uno store monomarca di media moda. Metto la papalina sul cuscino così vicina che posso afferrarla senza aprire gli occhi, ma questo non basta a tranquillizzarmi perché è evidente che per infilarmela dovrò compiere un gesto cosciente né posso indossarla al momento di andare a letto perché il mio appartamento è ancora riscaldato e per il caldo al capo non riuscirei a chiudere occhio. No, questi sono sotterfugi che non cambiano lo stato delle cose: devo ammettere che ciò che mi agita non c’entra con il freddo e non è risolubile se non con la riflessione. In realtà ciò che mi turba è che nel risveglio notturno si è soli esattamente come si è soli davanti alla morte. Questa ammissione attenua un poco la mia agitazione, anche se si può affermare a questo punto che ho speso inutilmente i miei denari per procurarmi la papalina. Infondo poi l’inverno a un certo punto finisce.

Un altro problema che si pone con frequenza non stagionale è quello relativo alla tecnica di addormentamento.  Non è decoroso che nel terzo millennio, seppure ai suoi albori, si ricorra ancora al conteggio delle pecore. Tra l’altro nel mio caso è perfino controproducente: di greggi ne ho visti ben pochi nella mia esistenza urbana e dovrei tenere sveglia la mente nello sforzo di focalizzarne uno sulla base di qualche ricordo televisivo o di vacanze bucoliche ormai lontane in Irlanda o in Sardegna. A un immaginario pastorale che oggi non ha più corso non posso certo delegare un’operazione, per quanto abituale, così importante e delicata per la qualità del mio riposo notturno; mi concentro allora su pensieri rilassanti ma meno anacronistici. Così mi capita di pensare che non sono certo solo davanti al sonno, come davanti alla morte, e che nello stesso momento in cui chiudo gli occhi e comincio a contare, volevo dire pensare, c’è tutto un mondo che è instancabilmente connesso e che continua a muoversi, a corrispondere, a fervere, a notificare  e a urgere, cosicché è veramente arduo sostenere che io sia da solo davanti al sonno, il quale pure è necessario per riprendere le forze e non perdere terreno perché chi si ferma è bannato.

Questo pensiero, se si prolunga, rivela un suo risvolto caffeinico che osta alla presa di sonno, come mi sono accorto dal momento che talvolta io steso mi sono sorpreso a cercare di captare i rumori di questo mondo connesso.  A questo proposito  un antidoto sicuro consiste nella meditazione che mi porta alla antipodale constatazione che a dispetto della connessione del mondo io sono abbastanza sconnesso: questa osservazione non dipende da una  misurazione di tipo tecnico, un ritardo tecnologico colmabile con un po’ di sforzi e di soldi, ma da una lacuna ontologica insondabile, che pertanto d’ora in poi sarà chiamata abisso. Abisso o meno, resta il fatto che io non corrispondo, non sono linkato, non linko, non stringo amicizie e sono destinatario solo di  spam sia esso letterale o metaforico. Pertanto non ho alcun motivo per sentirmi disturbato da questo movimento globale di connessione che emargina me e le mie sedi.

Questo metodo di rilassamento, devo confessare, funziona alquanto raramente, ma, essendo l’unico di cui dispongo, vi ricorro invariabilmente.

In un’occasione mi recò beneficio la prospettiva di ricevere la sera successiva un’ospite graditissima. Questa giovane signora che aveva cortesemente dato riscontro positivo alle mie pressanti e appassionate richieste, mi andavo ripetendo, non sarebbe stato soltanto un raggio di sole scivolato dentro la lugubre torre della mia esistenza oscura: altri vantaggi mi si paravano davanti. Si sa infatti che è connaturato agli amanti di cedere a un sonno,  infantile nella sua immediatezza e profondità, abbandonati l’uno sull’altro dopo aver dato porta alla bufera dei sensi e degli affetti. Dunque l’amore mi avrebbe portato al sonno e, anche se non fosse stato così, la veglia successiva non sarebbe stata rubricabile sotto il volgare titolo dell’insonnia, ma sarebbe stata causata dall’intensa emozione dei sentimenti che risorgevano nel mio cuore inaridito. Ero in ogni caso in una botte di ferro e la notte precedente all’incontro questo mi giovò a tal punto che neanche mi rammento come mi addormentai.

Quanto alla notte successiva, mi trovai, dopo l’amplesso,  sveglio di fianco a una donna addormentata: dovevo solo cercare di non disturbare il suo riposo. Nel corso della notte a un certo punto mi fu chiesto di smettere di rigirarmi pesantemente nel letto e se stavo bene. Imbarazzato risposi che qualsiasi animale, salvo il gallo e la femmina d’uomo, è triste dopo il coito. Mi fu precisato che qui non si trattava di tristezza ma del ballo di San Vito. Ma il punto che si rivelò decisivo fu al mattino quando la caldaia ripartì suonando la sveglia ( io dispongo di una caldaia autonoma di gran marca, di cui posso impostare l’accensione quando e come voglio e che ho dotato anche di una sveglia che irradia nel mio piccolo appartamento “Nessundorma” cantata da Luciano Pavarotti). Mi fu chiaro durante la colazione che, dopo tali esperienze frustranti nel corso della notte e al risveglio, questa giovane e gentile donna si dibatteva nel dilemma se diradare progressivamente le nostre frequentazioni, procurando in ogni caso di non fermarsi più a dormire, o di troncarle con il taglio netto che dà il macellaio alla testa del coniglio.

In realtà sovente la fitta sassaiola dell’ingiuria diurna mi restituisce alla sera e alla sua promessa di riposo universale,  salvo che per i metronotte, le guardie mediche, i turnisti e il personale delle discoteche, con il desiderio di dormire, cioè di cancellare le incrostazioni deposte dalla veglia sulle mie aspettative.  Le voci del giorno, però, rifiutano di congedarsi dalle mie orecchie e così il mio desiderio resta lettera morta ed è obiettivamente imbarazzante non essere capace di realizzare una cosa che si desidera.

Ma quando il sonno arriva, in virtù delle procedure summenzionate e di altre ancora, c’è sempre un attimo in cui mi trovo solo di fronte all’abisso. Allora mi sembra che tutti i miei sforzi per liberarmi dalle incrostazioni del giorno portino come una strada lastricata d’oro di fronte all’ abisso della mia sconnessione. E nello stesso tempo, allora, vorrei sognare e sono desto e destarmi, mentre già sogno. O forse mi faccio troppi patemi inutilmente arzigogolati, allorché più prosaicamente dovrei pensare a quei fattori che già i buoni vecchi medici condotti, quelli che ormai non ci sono più, elencavano come cause dell’insonnia: l’alimentazione troppo pesante, il poco movimento, la trasformazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato in uno rinnovabile ogni ventiquattro mesi.

(2,continua)

 

 

Un silenzio sociale

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di Andrea Inglese

Come tutti i disoccupati, gli spossati affettivi, e gli accidiosi per natura, ero tremendamente indaffarato, dovendo costantemente assicurarmi che non stavo facendo le cose più importanti, più tipiche, più auspicabili di un maschio adulto quarantenne: lavorare, guadagnare soldi, tessere proficue relazioni, contribuire alla manutenzione della casa e all’aggiornamento degli elettrodomestici, coricarmi con una donna, per espletare regolarmente le gioie della sessualità adulta. Per essere ben certo, che non stavo svolgendo tutte queste naturali mansioni, me ne dovevo assumere mille altre, certamente risibili e grottesche, ma sufficienti a garantire il mio non-impiego e la mia autarchia affettiva. Mi ero tra l’altro rimesso a fotografare gli asfalti, e questo mi portava via una gran quantità di tempo. Comunque ero riuscito a infilare nella mia fitta agenda un appuntamento importante, e ci ero andato con grinta, senza per altro avere chiara nozione di quali fossero lo scopo della mia visita e il ruolo del mio interlocutore, o semplicemente me n’ero dimenticato cammin facendo.

Il “mio” Perturbamento di Thomas Bernhard. Un racconto

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Perturbamento, Thomas Bernhard, 1967
Perturbamento, Thomas Bernhard, 1967
Perturbamento, Thomas Bernhard, 1967

di: Luca Barbirati

Sono rientrato a Firenze due giorni fa. Ho aperto la porta di casa e la prima cosa che ho trovato, oltre all’odore di umido, è stata la caldaia con la spia rossa. Fuori uso. Nessun tecnico fino ai primi di gennaio, mi ha risposto la centralinista del servizio clienti. Tutto regolare. Non mi aspettavo niente di diverso. Indosso il secondo maglione, la sciarpa e un berretto di lana con paraorecchie, e mi riparo come posso in cucina, dove l’umidità dei miei due pranzi caldi al giorno mitiga i quindici gradi che il termostato segna nel corridoio. Ricordo che pativo un freddo simile alcuni anni fa, quando presi in mano il mio primo libro di Bernhard, mi pare fosse Perturbamento.

cinéDIMANCHE #10 A. G. DOMENEGHINI La rosa di Bagdad [1949]

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di Francesca Matteoni

In larosadibagdadassenza di videocassette, dvd, youtube e streaming, quando ero piccola dovevo affidarmi al capriccio dei canali televisivi per vedere un film o i cartoni animati. Oggi la mia collezione di dvd è ampia, ma qualcosa non diverrà mai acquistabile o scaricabile: la sorpresa, l’imprevisto di certi pomeriggi infantili in cui il piccolo schermo del televisore poteva davvero riversare una magia nel mio sguardo. Uno dei film che mi capitò di vedere era La rosa di Bagdad, primo lungometraggio animato italiano a colori, di Anton Gino Domeneghini, ma non sapevo il titolo né l’autore – mi colpivano invece i nasi a pomodoro dei tre saggi, che ricordano nel sembiante i sette nani di Biancaneve; la buffa e coraggiosa gazza Calinà; il mantello incantato del mago, capace di donare il volo a chiunque ne afferrasse anche solo un lembo per mescolarsi al cielo come una nuvola scura di presagi. Certo, oggi potrei aggiungere una riflessione etica sul destino del giovane protagonista, il musico Amin, trasformato in “moretto” da un sortilegio e sulla connotazione negativa data alla pelle nera, che indica uno stato di subordinazione e infelicità per cui il ragazzo è fatto irriconoscibile. Ma alla consapevolezza necessaria con cui si guarda l’opera e ne si fa anche un documento storico, resta sempre vicino quello stupore infantile di un altro mondo sullo schermo di casa, composto di colori strani, quasi acquerellati e tremolanti come il corpo di un fantasma – fragile e dunque prezioso.

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

 

Luca – poesia come espressione ieratica, narratio apparente, paradossale quindi più prossima al Vero.

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di Carlo Carlucci

Micheline Catti pittrice e compagna di Luca ha fornito a Andrè Velter, prefatore dell’edizione Gallimard di tre testi fondamentali del poeta, una inedita, illuminante confessione del marito il quale affermò  che se si infrange la forma in cui è prigioniera la parola nuove relazioni si manifestano: la sonorità si esalta, emergono segreti addormentati, l’ascoltatore è introdotto in un mondo di vibrazioni che presuppone una partecipazione fisica, simultanea all’adesione mentale. Al liberarsi di questo soffio, ogni parola diventa un segnale.
La chiave, la breve mappa che Luca ha dato per interpretare o meglio per essere guidati nel suo cammino verso l’assoluto absconditus evoca insospettati parallelismi con lo Sri Aurobindo che parlando del potere evocativo della poesia  ha scritto di quell’ispirazione nella scelta e nell’accostamento inconsueto delle parole che ha il potere di aprire la mente a un senso più profondo: così il sunt lacrimae rerum (letteralm. “ci sono lacrime sugli eventi”) di Virgilio, che pure tradotto de verbo ad verbum potrebbe suonare goffo o rozzo, e lo stesso potrebbe dirsi di un verso di Shakespeare come and in this harsh world draw thy breath in pain (“e in questo aspro mondo trascini il tuo destino con dolore”) oppure il Leopardi che protesta “l’acerbo indegno/mistero delle cose” -una costellazione di riferimenti che sfociano fin nell’Indegno mistero delle cose di un Tommaso Boni Menato- o che conclude Alla sua donna con la franta traiectio latineggiante “questo d’ignoto amante inno ricevi”, intraducibile in lingue strutturalmente più rigide nel loro ordine sintattico (l’inglese e le lingue germaniche in genere, per esempio). Così, afferma Gherasim Luca, ogni parola può divenire un segnale. Di che cosa?

La fine del mondo

Il suo corpo leggero
È la fine del mondo?
è un errore
è una delizia che scivola
fra le mie labbra
vicino al ghiaccio
ma l’altro pensava:
non è che una colomba che respira
comunque sia
là dove mi trovo
accade qualcosa
in una posizione delimitata dalla tempesta
Vicino al ghiaccio è un errore
Là dove mi trovo non è che una colomba
ma l’altro pensava:
succede qualcosa
in una posizione delimitata
e scivola fra le mie labbra
è la fine del mondo?
è una delizia comunque sia
il su corpo leggero respira nella tempesta
In una posizione delimitata
vicino al ghiaccio che respira
il suo corpo leggero che scivola fra le mia labbra
è la fine del mondo?
ma l’altro pensava: è una delizia
accade qualcosa comunque sia
nella tempesta non è che una colomba
là dove mi trovo è un errore
E’ la fine del mondo che respira
il suo corpo leggero? ma l’altro pensava:
là dove mi trovo vicino al ghiaccio
è una delizia in una posizione delimitata
comunque sia è un errore
accade qualcosa nella tempesta
non è che una colomba
che scivola fra le mie labbra
Non è che una colomba
in una posizione delimitata
là dove mi trovo per la tempesta
ma l’altro pensava:
chi respira vicino al ghiaccio
è la fine del mondo?
comunque sia è una delizia
accade qualcosa
è un errore
che scivola fra le mie labbra
il suo corpo leggero

Le grida vane*

Nessuno a cui poter dire
che non abbiamo niente da dire
e che il niente che ci diciamo
continuamente
ce lo diciamo
come se non ci dicessimo niente
come se nessuno ci dicesse
nemmeno noi stessi
che non abbiamo niente da dire
nessuno
a cui poterlo dire
nemmeno a noi stessi

Nessuno a cui poter dire
che non abbiamo niente da fare
che non facciamo nient’altro
continuamente
che è un modo di dire
che non facciamo niente
un modo di non far niente
che non facciamo
se non quel che diciamo
cioè niente

(* Les cris vain è derivato, jeu de mots, da Les écrivains, “gli scrittori” appunto)

Questa ontofonia, concrezione ontica e materica del suono, che la poesia di Luca rappresenta, è ben più dell’ossessione reiterata del nulla verbale. Il suo nulla non è solo il néant sartriano: meglio si apparenta con il nulla solido del Leopardi dello Zibaldone, a patto di elevare all’ennesima potenza il portato logico della teoria delle illusioni del poeta di Recanati, col risultato di vanificare e chenotizzare la stessa radice segnica delle illusioni, il linguaggio. Così Luca raggiunge il non-dire, l’azzeramento della parola. Il poeta che scomparve nella Senna, indotto al suicidi dall’intimazione di scegliere la nazionalità francese in cambio di un tetto in periferia, una volta garantito questo tetto alla sua compagna Micheline, abbandonandosi allo scorrere eterno del tutto, abbracciava così la sua personale fin du monde. Si librava come les oiseaux di Rimbaud: “Quanto sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esservi che la fine del mondo andando avanti”.

Verso il non-mentale.

Verme di terra sotto un tacco alto
il pensiero gira
intorno a se stesso
con una frenesia statica
paragonabile al verme di terra
sotto un tacco alto
paragonabile a sua volta al pensiero
che proprio girando intorno a se stesso
ritorna su se stesso
con una frenesia statica
paragonabile

[…]

Ma piuttosto alla frenesia statica
dell’ombra di un dubbio
che gira ancora nella sua testa
e che gira male
come tutto ciò che gira
intorno al bene e al male
con un mal di testa paragonabile
alla frenesia statica di un pensiero
paragonabile all’incomparabile

Riportiamo qui unicamente la prima e l’ultima lassa di questo caleidoscopio trasmutante. Il non mentale è la premessa della psicologia della conoscenza ( indù) e la descrizione ( con metafora) del pensiero (mentale) che finalmente, in un’ ultima contorsione giunge stremato all’incomparabile. In tale dimensione, sciolti tutti gli ormeggi, galleggiava, bateau ivre, Ghérasim, segnando con la dissoluzione della sua esistenza fisica,  l’inizio di un altro viaggio,quello veritiero e definitivo, della poesia di Luca

Il primo mondo

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di Sergio Nelli

A casa

E mi sono anche prostituita. L’eroina restava in circolo a sostenermi intera e a quanto pare funzionavo bene. Nelle loro macchine facevo tutto ciò di cui avevano voglia, pensavo di doverlo fare al meglio e mi riusciva. Questo propiziava anche un qualche piacere per me. Entravo nelle automobili e nelle case con una determinazione che non avevo mai posseduto nell’intimità mia normale. Provavo come una vocazione a dare piacere e loro erano sorpresi di questo e di quello, contenti perfino del mio cappello di lana. Erano come bolle gli incontri, e dentro le bolle non sentivo male. Daouda era il mio fornitore. In Africa aveva una moglie che si chiama Idrissa e una figlia di nome Pape. A volte facevamo tutto insieme, mangiavamo, e dormivamo nello stesso letto. Ero una delle sue donne. Un momento il panino era pieno, il momento dopo vuoto; cinque minuti bene, cinque male. Ma non mi sono mai innamorata. Da Dauda incontrai Marta che diventò mia amica, qualcosa di più di una persona che si frequenta per un interesse o un bisogno. Ci piaceva mangiare, parlavamo, guardavamo la televisione in un appartamento che divideva con altre quattro persone.

Il vicino

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di Mariasole Ariot

Godere senza utilità, in pura perdita, gratuitamente,
senza rinviare a nient’altro, sempre in passivo – ecco l’umano.
Emmanuel Lévinas

Il Vicino

 

Una semifinale del 2012, due uomini, Napoli, due terrazzi. L’uno, a petto nudo, immerso nell’acqua di un gommoncino gonfiabile guarda la semifinale, l’altro, in canotta, un cappello in testa, sfoglia spartiti, ascolta un suono disteso sull’amaca. La telecamera passa dall’uno all’altro : dall’inno d’Italia cantato alla tv al metronomo dell’altro, dal pesce arrostito al gol di Balotelli, dalla pulizia lenta di una tromba, pezzo a pezzo, al bicchiere galleggiante di un cocktail casalingo. Si sposta per inquadrare un particolare, si inclina tra i tetti delle case, guarda dal basso. La partita è finita, il gommone è pieno d’acqua, il primo uomo si distende bagnato dal sole. Rimontato lo strumento, il vicino comincia a suonare. La melodia disturba.

***

E’ necessario entrare nel vicino, nelle strettoie delle case, tra uomo e uomo, partire dai bassifondi e poi comprendere ciò che accade nell’altrove. Guardare alle moltitudini che teniamo incastrate all’interno dell’occhio.

Nel Il Vicino, scritto e diretto da Andrea Canova (e vincitore come miglior cortometraggio a Festambiente Mondi Possibili ) c’è la folla e c’è l’individuo, l’uomo che si prepara con cura nell’estate bruciante di Napoli, e una società intera all’interno dello stesso volto, nello stesso sguardo. Basta una tromba, il fumo dei pesci alla griglia, basta un rumore troppo forte che oltrepassa il vociare di un’Italia- Germania e sei morto.
E così noi siamo l’uomo sdraiato sulla piscina gonfiabile che mangia e si china sulla semifinale e siamo l’uomo del terrazzo accanto che pulisce calmo i pezzi di strumento, siamo immersi nella vasca e siamo seduti a pochi tetti di distanza, con la pelle sudata e i denti innaffiati di limone, siamo lì e siamo altrove. Gli indisturbati e i disturbanti. Siamo una moltitudine nello stesso corpo. Ed è sempre in quel grado zero, in quell’umano troppo umano, che accade l’indicibile : un grido silenziato, un solo rumore finale. Non c’è sangue, non c’è esibizione dell’osceno, e non per timore di dire ma per la capacità di ri-raccontare il vissuto.

Dove oggi anche l’oscenità si scenifica, e il godimento è puro e non rinvia a nient’altro, l’arte può al contrario muoversi per sottrazione e in quella sottrazione ricollocare l’alterità nella sua vera forma.
Da un troppo pieno di carneficina ad un recupero dell’immaginario e del simbolico, che non butta in faccia – e in scena – un eccesso di reale, ma riesce a dirne proprio attraverso il silenzio.

Vediamo tutto eppure non vediamo niente. Vediamo uno scorcio, una bocca che suona, i denti grandi e bianchi sciacquati col limone, vediamo i pesci, una bandiera nera quasi di pirata, vediamo uno scorcio diventare veliero, il fumo che da casa passa a casa, vediamo i due vicini nelle loro nudità quotidiane, in un’intimità eccedente, che vuole sottrarsi dalla vergogna, vediamo due terrazzi, sentiamo qualcosa cadere prima che cada : sono le cadute in cui la telecamera forza tra tetto e tetto ed è già scesa e guarda dall’alto : non un calarsi ma la fine annunciata dell’essere già precipitati.

E allora l’urlo – già anticipato dall’immagine, non ha più bisogno di mostarsi nella sua brutalità, può fermarsi un istante prima, o forse un istante dopo : un rumore secco, il volto sdraiato dell’uomo-strumento.

Scriveva Michaux: “Le orecchie dell’uomo sono mal protette. Pare che i vicini non siano stati previsti.”

Il vicino è allora questa alterità sformata – questo non-essere-noi pur essendoci così prossimo da starci quasi incollato alla pelle. E’ l’essere noi nell’altro (come i tricolori appesi alle finestre) che ci disgusta quando in lui ci riconosciamo, perché specularmente ci fa da riflesso e il riflesso ci acceca, si fa insopportabile alla vista, alle orecchie.

Una tromba che per errore confondo con un sassofono, e scrivendo sassofono la penna scivola in sasso/fondo. Ne Il Vicino c’è in effetti qualcosa che va a fondo. Una pietra lanciata nel basso che riecheggia. Uno sguardo, quello di Canova, che non si pone a giudice ma si limita a raccontare l’alterità, dove il vicino è sempre vicino. Dove Napoli è Milano, è Trento, è Roma, è un luogo periferico, un territorio sognato, è una città di mare, di montagna, si colloca al centro dell’immaginario. Il vicino è l’altro con cui non si è disposti a fare i conti, un tu che va eliminato.

Non avere più nemmeno la forza della vergogna, di un rossore che ne avverte la presenza per aprirsi al dialogo. Basta uno sparo. Basta un laccio, una mitragliata, un dito in un occhio, una parola come fionda, un brusio di fondo. Basta : non dirsi niente.

Qui  – per la prima volta sul web, in anteprima per Nazione Indiana –  il cortometraggio completo

Di messaggi vuoti e strette intese

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di Daniele Ventre

Sul messaggio di un Capo di Stato quasi dimissionario molto ci sarà da discutere. Nel frattempo è il caso di puntualizzare i termini propri dei problemi che la retorica consolatoria di palazzo, frutto della frequentazione pluridecennale di due chiese, una laica e una religiosa, con opportuno equilibrismo comunicativo sfiora in superficie e occulta nella sostanza.

Ci si appella spesso al patrimonio comune che le istituzioni dovrebbero costituire, ai valori originari della democrazia, alla creazione di una società di pari opportunità, di meriti riconosciuti, di integrazione dell’altro.

Ma le istituzioni diventano vuote, se sono svuotate ab origine. A svuotarle ab origine permangono comunque fattori interni ed esterni così strutturali, che ogni discorso in senso miglioristico o riformistico, quando non veli progetti sinistri di contrazione dello Stato di diritto, di serrata dell’oligarchia sotto forma di riconoscimento autoreferenziale travestito da merito, o di cancellazione di quel che resta dello statuto dei lavoratori e dei servizi offerti al cittadino, suona ridicolo o ipocrita o quantomeno ingenuo, appena si libra dalle labbra nel vuoto dell’aria.

Anzitutto, dobbiamo guardare apertamente in faccia all’evidenza che l’economia del Paese è un circuito in cui le imprese del nord sono in modo diretto o indiretto il prodotto del riciclaggio delle mafie del sud. Queste mafie sono anche multinazionali del crimine. Agiscono per proprio tornaconto, allignando in un brulichio verminoso di corruzione e collusione con una politica che è di fatto inetta e incompetente, in presenza di una classe dirigente, anzi digerente, neo-feudale, e proliferano in un contesto di marginalità sociali, urbane, economiche e logistiche tenuto in piedi ad arte, sulla base dell’assioma leggendario per cui le mafie costituirebbero la necessaria scoria digestiva di un’economia prospera e in crescita.

In secondo luogo, dobbiamo contemplare spassionatamente la verità palmare che la costruzione europea è un fallimento integrale: essa costituisce ormai il Commonwealth continentale della Germania, in opposizione al grande Commonwealth globalizzato dell’Inghilterra, che a guardarla sul planisfero non sembra, ma sottobanco il suo Impero non solo l’ha conservato, ma lo ha espanso. La Germania usa l’euro come strumento di conquista economica e di imperialismo egemonico, per scaricare in modo complesso e non sempre immediatamente trasparente le proprie passività sull’Europa latina (la chiamo così per evidente analogia) e sull’Europa orientale -le stesse direttrici di espansione che la Germania seguiva durante la seconda guerra mondiale.

La stessa Europa mediterranea e latina, che avrebbe potuto forse costruire un’alternativa federativa in opposizione al compatto egemonismo economico neolotaringio, è dilaniata da vecchi sciovinismi e diffidenze. Della Grecia e di come sia stata pressocché terzomondizzata e trasformata in uno Stato zombie dalla finanza transnazionale si è già detto abbondantemente. La ex-seconda locomotiva europea, la Francia, è diventata intanto un punctus minoris resistentiae più complesso e problematico della stessa Italia, fra revanchismi, aspettative tradite e tensioni sociali post-coloniali, che covano sotto la cenere ormai fredda del socialismo spento di Hollande, e aizzati da una crisi montante.

L’euro e la politica che c’è dietro -la truffaldina pseudo-scienza economica del rigore- rappresentano le catene che impediscono all’Europa centro-mediterranea di riprendersi, insieme alle pastoie interne dovute alla collusione e alla corruzione. Il peggio è che Eurolandia, come l’Ade, ha facile ingresso, ma impossibile uscita, sorvegliata com’è dalle erinni e dai cerberi della speculazione finanziaria. Il massimo che possiamo aspettarci, finché regge, è la contrattazione del governatore della BCE: ma contrattare sulle briciole non è più sufficiente.

Dunque, abbiamo un Paese sclerotizzato all’interno e suddito a interessi esterni. I diritti e la costituzione sono deprivati di senso. Regnano u zu’ Ciccu e la Bundesbank allargata. La classe politica è ridotta a intermediaria fra questi poteri: le campagne elettorali, strutturate come campagne di marketing, al meglio hanno saputo produrre l’aborto di dissenso dal basso dei pentastellati e la pantomima del confuso e deludente attivismo riformistico di un Renzi, e in ogni caso si limitano a captare le paure e le velleità delle masse, aizzando desideri populistici o solleticando umanitarismi vuoti e fatui risentimenti sociali. I populismi razzistici o di campanile sono funzionali a costruire la possibilità sociale e valoriale di avere a disposizione schiere di lavoratori di serie b, resi tali dalla legge ancora per poco non scritta della discriminazione: migranti, meridionali, materiale umano da ridurre a combustibile di basso rendimento per economie inquinate e inquinanti: slurries operai -e humus per ogni tirannide futura che voglia presentarsi come provvidenziale salvatrice. Gli umanitarismi assolvono la cattiva coscienza dei socialisti avariati e dei rivoluzionari scaduti; i risentimenti sociali tornano utili per declassare i lavoratori vecchio stampo, con diritti residuali bollati come privilegi, quando i veri privilegi oligarchici sono saldamente nelle mani di una nobilitas impropria. Nel mondo piccolo dei rapporti interpersonali si è nel frattempo coltivato con singolare sistematicità un grumo di immondizia, fatto di deprivazione culturale, ineducazione, rampantismo, snobismo, volgarità, servilismo, aggressività, competitività per una briciola di pane.

Buon anno, repubblica.

Gli invisibili

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Chi troppo, chi niente

intervista a Emanuele Ferragina

autore di La maggioranza invisibile

 a cura di Paolo Bosso

 In Italia ci sono 25 milioni di persone che nutrono l’economia italiana senza essere riconosciute. Sono immigrati, pensionati poveri, disoccupati, precari e neet (Not in Education, Employment or Training). Cinque categorie sociali ora bersagliate ora coccolate dalla propaganda politica. Cinque classi che insieme formano un’unica “maggioranza invisibile”, termine coniato da Emanuele Ferragina nel suo ultimo libro, La maggioranza invisibile (Rizzoli). Ferragina nasce a Catanzaro nel 1983, studia scienze politiche a Torino e si forma in giro per l’Europa tra Bordeaux, Parigi e un dottorato all’Università di Oxford dov’è attualmente lecturer nel dipartimento di Politiche Sociali. È un politologo, editorialista del Fatto quotidiano e membro della Fonderia Oxford, laboratorio politico formato da accademici italiani accomunati, si legge sul sito, «da un forte legame con l’Italia e dalla voglia di continuare a crescere (e magari tornare) in un paese più giusto, libero ed eguale».

La maggioranza invisibile è il suo secondo libro, con un lungo sottotitolo ad uso e consumo immediato: chi sono gli italiani per i quali la politica non fa nulla, e come potrebbero cambiare davvero l’Italia. In realtà è un testo a quattro mani realizzato insieme al collega connazionale Alessandro Arrigoni, anche lui ricercatore di Oxford.

Ferragina e Arrigoni utilizzano lo strumento concettuale della maggioranza invisibile per racchiudere unitariamente cinque classi sociali in conflitto. In questo scenario politico la distinzione tra destra e sinistra, secondo i giovani politologi, è prettamente nominale: la prima sarebbe noliberista, la seconda garantista, salvo poi annullarsi in una specie di socialismo blairesco da “Terza via”, figlio della Tatcher, che persegue indistintamente austerity e taglio del costo del lavoro. Una politica economica che in Italia va avanti da almeno trent’anni, con un’accelerata dopo Tangentopoli, che ha portato alla creazione di una maggioranza invisibile che secondo i calcoli di Ferragina e Arrigoni è fatta da 25 milioni di italiani, la metà del corpo elettorale. Il guaio è che non si tratta di operai uniti nella lotta ma immigrati, pensionati, precari, disoccupati e depressi che il più delle volte se le danno di santa ragione tra loro. Una grossa fetta della popolazione italiana che non può contare su assunzione e assistenza sociale e nello stesso tempo conta moltissimo per l’economia a basso costo.

La maggioranza invisibile, che riprende in un senso politicamente invertito la “maggioranza silenziosa” conservatrice che Nixon incitava a votare a favore della guerra in Vietnam, è praticamente il nuovo proletariato, con la differenza che siamo di fronte a frammenti sconclusionati di difficile se non impossibile rappresentanza. Nelle elezioni politiche del 2013 il MoVimento 5 Stelle è riuscito a raccogliere le istanze di questa classe liquida, salvo poi disperderla in una propaganda isterica.

La maggioranza invisibile è un libro di analisi elettorale italiana con elementi di storia del fordismo. Ti spiega come la polarità berlusconiana-antiberlusconiana ha rispecchiato una polarità culturale più che politica, nascondendo una natura economica unitaria che piuttosto che essere senza ideologie è semmai guidata dall’unica ideologia sopravvissuta alla crisi energetica del ’73 e alla caduta del Muro dell’89, quella neoliberista e monetarista, ossessionata dalle privatizzazioni e dal taglio del costo del lavoro. Ti racconta l’importanza del welfare state, della redistribuzione, del lavoro ben pagato e del potere di negoziazione contrattuale. Al centro un mostro informe che se soltanto si riuscisse a compattare e a essere solidale prima di tutto con se stesso determinerebbe grossi cambiamenti. Maggioranza invisibile, si legge alla fine del libro, è «profitto che finisce sempre nelle tasche di qualun altro», «ricerca vana di un asilo, è scelta fra la carriera e l’avere un bambino», «è studio non riconosciuto, è lavoro in un call center a 370 euro al mese, è figli a carico sostenuti a stento».

3067642-9788817076845Emanuele, per chi hai scritto questo libro?

«L’ambizione è quella di parlare direttamente alla maggioranza invisibile. Un’ambizione difficile da realizzare, perciò questo libro è scritto in realtà per tutti quelli che cominciano a rendersi conto che in questo paese c’è un segmento importante della popolazione che non viene rappresentato dalle strutture politiche e che stenta a riconoscersi come classe svantaggiata».

La sua maggioranza invisibile più che la “maggioranza silenziosa” di Nixon mi ricorda la categoria degli “inesistenti” del filosofo francese Alain Badiou, un termine che raggruppa manifestanti e rivoltosi di tutto il mondo. Gli inesistenti sono persone «assenti dal senso e dalle decisioni sull’avvenire del mondo» (A. Badiou, Il risveglio della storia). Sono inesistenti finché qualcosa, per esempio in Tunisia all’inizio del 2011 l’aumento repentino del prezzo del pane, non li faccia esistere improvvisamente. Come la maggioranza invisibile, gli inesistenti di Badiou sono una categoria eterogenea: i popoli della Primavera Araba, i riot di Londra, Occupy Hong Kong e Wall Street, gli indignados spagnoli, perfino i cittadini messicani di Iguala scesi in strada per chiedere giustizia sugli studenti uccisi dal sindaco. Quando gli inesistenti “vengono all’esistenza” però, osserva Badiou, non determinano una rivoluzione, basta vedere dov’è finita la Primavera Araba. Piuttosto accadono due cose che possono presagire una rivoluzione: un’intensificazione dell’energia soggettiva, ovvero la gente si sente indispensabile, e una localizzazione, le persone si radunano spontaneamente, per esempio in una piazza (Tahrir in Egitto e Taksim in Turchia) che diventa il simbolo della rivolta.

La tua maggioranza invisibile si riferisce all’Italia, mentre gli inesistenti di Badiou si basano su una politica di emancipazione universale. Però l’elemento in comune c’è: un gruppo eterogeneo di persone che non è contato dalla società, pur contando parecchio per l’economia, e che quando si fa sentire fa accedere qualcosa di importante. Che affinità c’è secondo te tra gli inesistenti e gli invisibili?

«Inannzitutto si parla di una consapevolezza che non è soltanto individuale ma collettiva. Il mio libro si chiude con un’immagine: le ideologie servono ancora. Stiamo parlando dell’unione di un’esperienza individuale con una collettiva. Il punto è che soltanto il risveglio da questa cecità diffusa, la cecità di Saramago, quella di ciechi che non vogliono vedere, può portare a una nuova forma di proposta politica o quantomeno a una nuova movimentazione sociale. Inesistenti e invisibili sono simili sotto questo punto di vista. Probabilmente, la differenza si gioca nel momento in cui le figure soggettive si ancorano a processi specifici che li determinano come tali. Per l’Italia, rispetto agli inesistenti del mondo, si tratta di un welfare state che non protegge e di un sistema economico che non funziona. Il passaggio difficile del libro è come si possa arrivare ad un’attivazione di queste persone. Ciò può accadere, come dice Badiou, con un’”attivazione soggettiva”, sentirsi indispensabili, oppure con un meccanismo collettivo di risveglio delle coscienze. Ricapitolando, per rendere visibili gli invisibili o gli inesistenti c’è bisogno, da un lato, di un meccanismo collettivo che genera un nuovo movimento politico, dall’altro un’attivazione soggettiva, un risveglio delle coscienze. Possono delle coscienze svegliarsi individualmente?, ho i miei dubbi. Penso che le coscienze si svegliano soltanto all’interno di un movimento collettivo. La discrasia tra pensiero filosofico e scientifico-politico è interessante, ma questo libro non fa questo confronto, si sofferma soltanto sui meccanismi di produzione sociale ed economica».

Ho trovato sorprendente la tua inclusione delle badanti immigrate nel welfare invisibile. Ma il welfare italiano non era prettamente familiare?

«L’inefficacia dello Stato si scarica sulle nonne e le mogli, questo è il welfare invisibile. Oggi, con la donna che lavora di più e le risorse che scarseggiano, si è inceppato il meccanismo con il quale le famiglie sopperiscono alle deficienze del mercato. Così è arrivato un altro welfare invisibile, quello delle persone che a basso costo assumono questo tipo di funzioni. In termini economici: poiché non ci sono servizi che ti permettono di esternalizzare, le famiglie italiane internalizzano prendendo una persona migrante che si occupa di servizi di cura. La maggioranza invisibile è composta da cinque categorie: disoccupati, precari, neet, migranti e pensionati poveri. Quello che è interessante notare osservando il funzionamento del welfare invisibile è il legame che si viene a creare tra queste cinque classi eterogenee. Di solito precari, disoccupati e neet vengono messi insieme dal mercato del lavoro, gli ultimi due no. In realtà, guardando a una badante immigrata salta agli occhi la sua uniformità rispetto alle altre quattro categorie, basti pensare ai diritti sociali non adeguati e alle retribuzioni irrisorie senza alcuna protezione sociale. Ecco dei pezzi di maggioranza invisibile che entrano in contatto tra loro, una badante che fa il lavoro che prima era di giurisdizione esclusivamente familiare».

La tua soluzione alla crisi di rappresentanza sindacale in Italia è una “continentale dei sindacati”. Come si fa a rendere più uniti i sindacati italiani, magari portando le loro istanze in tutta l’Europa?

«In primo luogo devi avere un vero mercato del lavoro europeo, che ancora non esiste. In secondo luogo dei benefit sociali europei: dobbiamo creare un’intelaiatura minima di protezione sociale, solo a quel punto si potrebbe avere uno sviluppo “europeo” dei sindacati italiani. Dobbiamo interpretare e utilizzare il sindacato in maniera molto diversa da come facciamo attualmente. I sindacati in Europa proteggono, o meglio proteggevano i contratti di lavoro di persone molto diverse, e questa è la ragione principale per cui non hanno mai avuto uno sviluppo continentale, concentrati come sono sui meccanismi economici di ciascun paese. Se invece pensi a un sindacato più universalista, che difende servizi pubblici e principi universali di ciascun cittadino piuttosto che un gruppo secondario che si occupa di difendere i contratti, allora è molto più facile pensare a rappresentanze sindacali europee. I sindacati stanno iniziando a rendersi conto che rimanendo chiusi nei loro paesi hanno favorito meccanismi che hanno svantaggiato i più poveri, la maggioranza invisibile. È solo partendo dalla rappresentazione europea di questa maggioranza che si può spezzare questo gioco. È difficile prevedere se l’Europa in futuro farà riforme sociali redistributive prima che si sfasci tutto, sicuramente sarà sulla base di questa redistribuzione che potrebbe innestarsi una rappresentazione sociale o sindacale diversa. Certo sono processi lunghi, ma sicuramente rappresentano l’unica strada del sindacato per avere un futuro: giocare su ammortizzatori sociali universali da applicare quantonemo su scala europea, altrimenti il sindacato così com’è muore».

Lentamente, sotto gettoni telefonici e rullini fotografici.

«E nell’incapacità di comprendere qual è il nuovo ruolo storico che deve assumere».

Nel libro affermi che una delle chiavi per una riforma del lavoro che guarda al lavoratore è nel superamento del “dogma lavorista”, la necessità di difendere la piena occupazione. Ma non è un intervento che favorirebbe proprio l’economia neoliberalista?

«Attenzione, dire che bisogna superare il dogma lavorista, che è finito il mondo del “lavoro per la vita”, non è nel senso in cui lo ha sostenuto Monti, non significa che da domani la gente non lavorerà più, ma significa che vedrà sempre meno lavoro formale, quello dalle nove alle cinque con una protezione sociale standard. Le cose non stanno più così da un pezzo. Quello che cerco di spiegare ogni volta che sostengo di superare questo dogma è che il problema oggi non è proteggere il lavoro con il suo contratto quanto proteggere il lavoratore, la persona. In realtà sia il neoliberismo latente di Renzi che il lavorismo della Camusso sono simili, accomunati dall’idea che soltanto attraverso il lavoro formale si può produrre ricchezza. Se non si riesce a scardinare il dogma lavorista e a far entrare idee come la produttività sociale, il riconoscimento dell’economia informale, il welfare invisibile, non riusciremo mai a lottare per la protezione sociale degli individui.  Fortunatamente questo discorso è meglio recepito dai giovani che non conosceranno mai il mondo del lavoro formale, mentre gli altri faticano e arrancano di fronte a questa nuova visione».

Nel libro affermi che nelle elezioni del 2013 il MoVimento 5 Stelle è riuscito a richiamare a sé la maggioranza invisibile, sembrava a un certo punto che la potesse rappresentare, ma le cose non sono andate così, non avendo una visione politica e una programmazione lunga, non essendo passato come dici tu dalla “protesta” alla “proposta”. Una delle bandiere di M5S è il reddito di cittadinanza. Nel libro spieghi però come sia insostenibile, essendo una redistribuzione che richiede enormi profitti statali, affermi che sia più sensato e sostenibile il reddito the-silent-majorityminimo garantito. Perché M5S anziché parlare di reddito minimo sbandiera una cosa insostenibile?

«È una questione semantica. “Reddito di cittadinanza” è un termine più semplice di “reddito minimo garantito”. Secondo me Grillo ha cominciato a utilizzare il primo perché è più semplice, più facile da recepire, portando però un danno gravissimo al dibattito. Così oggi quando si parla di reddito minimo garantito la gente dice “costa troppo, non si può fare”, quando questo vale per il reddito di cittadinanza che è usato soltanto in due paesi nel mondo, Alaska e Iran, come ridistribuzione estrema dei profitti del petrolio. Nella sostanza il reddito di cittadinanza non esiste, mentre il reddito minimo garantito si applica in molti paesi come social assistance level, un livello di reddito sotto il quale nessuno può scendere, un intervento che non costa tanto e che si potrebbe fare. Il contributo positivo del MoVimento 5 Stelle è stato quello di inserire il termine nel lessico comune, al prezzo però di una perversione del dibattito».

Tenendo conto dei riferimenti che fai a Gramsci, deduco che il termine “classe” ha per te ancora un senso,  aggiornandolo però agli ultimi quarant’anni di neoliberismo. Che cos’è una classe oggi?

«Va cambiato il contenuto del concetto, chi sono gli svantaggiati. Una volta “classe” era la comune appartenenza al mondo operaio, mentre l’idea contenuta nella maggioranza invisibile è quella di una classe di emarginati che non sono marginali nella produzione sociale. La lontananza dal mondo del lavoro formale e la capacità di fornire alcuni servizi per far crescere la produttività sociale sono i due strumenti che ci permettono di definire questa classe di invisibili. Quello che gramscianamente facciamo in questo libro è lavorare sul primo dei tre momenti che portano all’egemonia di un’idea, ovvero la costruzione di un interesse economico-corporativo. La maggioranza invisibile come classe è tenuta insieme dal comune interesse per la redistribuzione e l’universalizzazione dei diritti sociali, questo dovrebbe costituire il primo punto per passare dall’essere una classe in sé a una per sé, cosciente. Stiamo parlando di un’operazione narrativa, paragonabile a quella fatta nel XIX secolo quando non esisteva la classe operaia, che fu un’invenzione straordinaria, una costruzione sociologica ardita da parte di Marx e altri. Oggi siamo in un momento di destrutturazione profonda di quel mondo fordista in cui era facile definire l’idea di classe attraverso il sistema industriale. Dobbiamo ripartire dalle basi sociali che definiscono chi è lo svantaggiato che avrebbe interesse a cambiare il sistema».

E per quanto riguarda la borghesia?

«Per me è molto difficile parlare di borghesia. Quello che vedo è una classe media che si impoverisce e si avvicina alla maggioranza invisibile. C’è un potenziale incontro tra la prima e la seconda che determinerebbe un momento di riscossa per la maggioranza invisibile, perché è difficile che questa, da sola, così disarticolata e poco scolarizzata, poco partecipe al dibattito pubblico, possa risollevarsi da sola».

I pensionati potrebbero essere la chiave di questa riscossa.

«Il problema è che in Italia i pensionati al minimo sono persone poco scolarizzate, efficacemente canalizzate dal sindacato che però protegge non i loro interessi ma quelli dei garantiti. La sfida è riuscire a convincere che la crisi non è un problema soltanto dei giovani, generazionale, ma molto più profondo e complesso, nel quale alcune delle nostre vecchie categorie vanno fatte saltare se vogliamo rappresentare veramente una base sociale di cambiamento».

La maggioranza invisibile è ben presente nel Meridione italiano. Perché qui non c’è stata una Primavera Araba?

«A causa della ricchezza delle famiglie. Il tasso di risparmio costituisce uno dei più grandi “cuscinetti” di salvaguardia sociale. Uno dei motivi per cui la maggioranza invisibile non si esprime in Italia è a causa della presenza di un risparmio familiare molto diffuso, anche se in via di erosione. È un risparmio diseguale, concentrato, ma finquando qualcuno ti paga l’affitto permettendoti di assolvere al tuo sostentamento non puoi incazzarti come nella Primavera Araba. Non tifiamo per la rivolta ma c’è una fascia di esclusi che potrebbero azionare quel tipo di dinamica. Penso ai giovani laureati, a tutto un mondo di persone nel quale il genitore gli compra la casa ma sono incazzati perché non possono lavorare, avere un progetto di vita. In un contesto economico sempre più in crisi, meno solido, questo tipo di persone potrebbero ribellarsi. Però se ci sarà una rivolta senza alcuna progettualità politica si sa come andrà a finire. La cosa certa è che è giusto interrogarsi su queste dinamiche, per lo meno avremmo una riflessione su cui appoggiarci nel momento in cui accade una rivolta, se accadrà».

Riassumerei le parole chiave di questo libro in: europeismo politico, welfare riformato e uguaglianza universale senza rancori e rivendicazioni di classe. C’era una volta una politica di emancipazione che racchiudeva almeno due di questi termini, prima di fallire clamorosamente, il comunismo. Perché non utilizzi mai questa parola nel tuo libro? Neanche comunitarismo.

«Comunitarismo no. Questo e altri come “mutualismo” sono principi che non ci ispirano. Marx ci ha insegnato che quando cambiano i sistemi di produzione cambia anche l’organizzazione e la rappresentazione della società. Il comunismo si instaurava in una dialettica di produzione industriale di massa, era l’ultimo approdo della società capitalista. In realtà il mondo non è andato in quella direzione, così la categoria di comunismo non descrive più una potenziale idea di futuro rispetto a quello che sta succedendo. Forse la collettivizzazione sarà qualcosa di diverso, non sarà quella dei mezzi di produzione, delle risorse e dei beni comuni. Tutto quel bagaglio che ti portavi col comunismo, a sua volta legato al fordismo, oggi non serve, anzi diventa un ostacolo, perché ci impedisce di parlare una lingua che ci consenta di avvicinarci alla maggioranza invisibile che non è più convinta di quella ideologia, grazie anche al lavoro che ha fatto l’individualismo neoliberale nel distruggere certe dinamiche. Ti dico anche un’altra cosa, che ho imparato dai ragazzi di Podemos: non fa presa sulle persone parlare di grandi principi e vecchi ideali. Tanto meglio mantenere solidi principi che sono quelli dell’uguaglianza, dell’internazionalismo, della redistribuzione, della cittadinanza sociale, e buttare a mare la falce e il martello. Sono parole vuote, morte, non mobilitano la maggioranza invisibile che non ha più un attaccamento formale col mondo del lavoro, ma a guardar bene stiamo parlando degli stessi principi. Da un lato non bisogna avere paura di chiamare le cose con il loro nome, come il concetto di classe e il conflitto sociale che sono termini che vanno riutilizzati, ci servono, dall’altro ripartire sul concetto di comunismo non ci aiuta nel tipo di strada che vogliamo intraprendere da un punto di vista narrativo. La nostra è una scelta sia di forma che di contenuto. Non è “la useremmo se potessimo”, piuttosto è arrivato il momento di essere meno dogmatici e discutere dei concetti. Le idee sono lì, sono morte alcune parole e strutture che le rappresentavano, ma i principi che andrebbero difesi non sono cambiati».

Uno dei passi da fare per liberare il dibattito dalla cappa neoliberista, che rende difficile qualunque opposizione, potrebbe essere quello di regolamentare fortemente il mercato finanziario, ridurre drasticamente i suoi poteri. Stiamo parlando di una rivoluzione. Secondo te attualmente una proposta politica di regolamentazione della finanza può andare da qualche parte?

«Ormai sono decenni che ne parliamo. Indubbiamente è un terreno di scontro fondamentale. Vi ricordate ATTAC (Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie per l’Aiuto dei Cittadini)?, spariti. E la Tobin tax? Anche se non sono misure sufficienti, costituiscono un dibattito che deve ripartire. Il successo del libro di Piketty (Il capitale nel XXI secolo) si può spiegare su questa necessità, anche se non parla di transazioni finanziare ma di redistribuzione della ricchezza. Durante il fordismo potevi creare servizi sociali tassando il reddito, oggi la maggior parte della produttività e la produzione della ricchezza va in un’altra direzione, un luogo  che devi tassare. Piketty fa un bell’esempio: alla fine dell’800 nessuno poteva pensare che ci potesse essere una income tax, eppure si fece. La verità è che possiamo cantarcela quanto vogliamo, a me piace tanto discutere di redistribuzione all’interno del welfare, ma se non requilibriamo veramente le cose, in Italia per esempio abbiamo problemi di tassazione delle rendite improduttive, se al livello globale non riusciamo a riprendere le redini è finita, il che significa per la politica riprendere le redini dell’economia e della finanza. Ma è una questione di scelta. La politica ha abdicato. Sembra che l’economia sia una forza esterna alla poltica e basta, quest’ultima invece ha fatto delle scelte, a volte implementamdo riforme più dure di quelle rischieste dai mercati. Ritornano i leitmotiv di questa intervista insieme alla necessità di un sindacato europeo. Sono centocinquantanni che ne parliamo. Non è un caso che Marx si scapicollasse sull’Internazionale socialista. Il capitalismo finanziario ha estremizzato i meccanismi di produzione della ricchezza che gli studiosi della materia avevano già ampiamente compreso. O noi riusciamo a discutere di questo o c’è l’atomizzazione, il dominio delle multinazionali, la distruzione degli stati nazionali. La società è anche una vocazione alla sopravvivenza, mi auguro che si riesca quindi a lottare per una nuova direzione, anche se attualmente il quadro politico sembra dire altro. La cosa certa è che le cose cambiano nella società, “si cambiano cambiando” come direbbe qualcuno. A parte gli scherzi, è fondamentale che dei pezzi di ricchezza vengano spostati dalla finanza a quella produttività sociale invisibile di cui parlo nel libro».

Letture per la fine dell’anno

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di Francesca Matteoni

Il paesaggio si è raggelato e qua, sulle colline, gli alberi si sono finalmente bruniti del tutto – è caduta perfino un po’ di neve, poi lavata via dalle piogge. Quindi benvenuto inverno che spingi i gatti dentro le case e lontano dalle loro mappe campestri, che fai proliferare le tazze di tè e cioccolate calde e sognare stufe antiche, ciocchi di legno nel caminetto, mondi polari di silenzio e occhi selvatici. Benvenuti libri di favole crudeli, Natali stregati, leggende del nord.

Per quest’anno che volge alla fine ne ho tre, letti e ancora sul comodino, pubblicati dalla casa editrice Iperborea specializzata in testi letterari scandinavi, baltici e nederlandesi.

Si comincia con le Fiabe lapponi, primo volume di una serie di fiabe scandinave a cura di Bruno Berni.