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Grazie Julio Monteiro Martins grande guerriero xavante

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Julio Monteiros Martins‎

di Mia Lecomte, Rosanna Morace, Pina Piccolo

Julio Monteiro Martins era un poeta, un sognatore, uno scrittore. Costruiva utopie possibili e le alimentava con il suo meraviglioso entusiasmo. Questo grande piccolo guerriero delle lettere ci ha lasciato pochi giorni fa. Tre amiche Pina Piccolo, Mia Lecomte, Rosanna Morace lo ricordano oggi su Nazione Indiana.

IL CAPPELLO

Julio Monteiros Martins‎
Julio Monteiros Martins‎

Oggetto: Primi giri con gomme da pioggia
Da: “Julio Monteiro Martins”
A: “Mia Lecomte”
Data: Sabato, 29 novembre 2014, 11:26 AM
Ciao Mia,
ti mando questa bella traduzione del racconto “The Other Barack”, fatta da Gioia, che può servirti in Francia o negli USA per quelli che non leggono in italiano, o la potranno utilizzare a lezione con gli allievi stranieri.
Chiamami, quando puoi, sono ancora a fare la chemio, prima, ieri, all’ospedale, e ora a casa, con una tecnologia tipo un “biberon portatile tecnologico” che devo portare dappertutto fino a domani alle ore 21,00, quando andrò a Pisa a ritirarlo e ripulire gli aghi e i tubi interni del port.
Gli effetti collaterali per ora sono sopportabili, dei singhiozzi, lunghe sequenze, e un po’ di bruciore allo stomaco, poi la medicina specifica li mette a posto. Ma sono stato ben avvertito che la parte pesante inizia domenica e lunedì. Mi sono già procurato anche una cuffia di lana nera. Ma se trovi un bel cappellino a Parigi, me lo prendi tu? Così sarei un elegante e raffinato testa d’uovo.
Quando vuoi chiamarmi, oggi sarò solo a casa dopo l’una.
Un bacio
Julio

Oggetto: Primi giri con gomme da pioggia
Da: “Mia Lecomte”
To: “Julio Monteiro Martins”
Data: Sabato, 29 novebre 2014 11:33 AM
Ci sentiamo dopo. Ti prenderò una francesissima parrucca Luigi XIV, con boccoli fino alle spalle (e un bastone con il pomo d’oro, e lunghe calze di seta…). Sarai uno schianto! M.

Oggetto: Primi giri con gomme da pioggia
Da: “Julio Monteiro Martins”
Data: Sabato, 29 novembre 2014, 11:44
A: “Mia Lecomte”
Un guerriero della tribù degli xavante, con la sua immensa borduna in pugno, non può travestirsi da cicisbeo settecentesco, vero? Ma che xavante sarebbe?
Un cappellino da intellettuale francese della Nouvelle Vague? Così sarei uno xavante moooolto acculturato… Guerriero per altri metodi e strategie.
Baci
Julio
* il cappello te l’ho portato in ospedale: nero e intellettual-francese al punto giusto. Ora fa la sua figura sulla bella testa capellona di Lorenzo (M.L.)

 

IL GUERRIERIO XAVANTE

Gli xavantes sono una popolazione di guerrieri originaria del Mato Grosso, in Brasile, e furono l’ultimo popolo ad essere stato ridotto in schiavitù dall’esercito brasiliano, nel XVIII sec.; da allora, vivono per lo più lontani da ogni contatto con la globalizzazione, mantenendo la propria lingua e i propri riti, le proprie tradizioni e i propri modelli di organizzazione sociale e religiosa.

Ciò che rende Julio Monteiro Martins un grande guerriero xavante non è solo l’origine brasiliana, ma l’orgoglio fiero, la ferrea volontà di non piegarsi a compromessi, di lottare in prima persona e a suo rischio per ciò che intimamente avvertiva come sopruso o ingiustizia, sia a livello personale che sociale/politico, salvo poi la strabiliante capacità di risorgere dalle proprie ceneri e di prepararsi ad una nuova sfida.

Tengo a precisare che, nonostante potrebbe sembrarlo, questa non è retorica dettata dal dolore del momento: basti leggere l’ultimo scambio di mail che Julio e Mia hanno avuto − e che Mia ci ha gentilmente regalato −, in cui è davvero condensata tutta la tempra dell’uomo, il coraggio, l’ironia e la leggerezza con i quali è riuscito a sfaldare un momento così drammatico, pur nella lucida consapevolezza della gravità della situazione, mai minimizzata.

Un ultimo atto che è il degno compimento di un’intera vita da guerriero: dall’attivismo politico e letterario durante la dittatura brasiliana, quando non era ancora ventenne; alla capacità di mettersi in gioco, in quegli stessi anni, aprendo una casa editrice attenta alla pubblicazione di opere prime,1 fino alla co-fondazione del partito verde brasiliano e all’attività di avvocato per i Diritti umani per la difesa dei meninos de rua, nel processo seguìto alla «Strage della Candelaria».2 Poi, l’arrivo in Italia nel 1995, quando si era oramai reso conto che la caduta della dittatura non aveva comportato un reale rinnovamento del Brasile, ma addirittura il crollo di quegli ideali che avevano animato il dissenso.

E, anche nella nuova patria, il medesimo impegno politico, la medesima attenzione agli autori emergenti e alla promozione della letteratura mondiale, la lungimirante rivendicazione della forza della letteratura della migrazione: tutti aspetti confluiti nella creazione della rivista online «Sagarana», fondata, diretta e curata da Julio a partire dal 2000.

D’altronde, anche la ricca produzione in prosa e in poesia, italiana e brasiliana,3 di Julio Monteiro Martins è specchio di quanto si è fin qui detto, e testimonia con incisività quanto la scrittura sia sempre stata, per lui, strumento attivo di conoscenza, partecipazione, denuncia, fino a farsi vero e proprio ethos (in questo senso, lui precisava che scrivere «non è un ‘fare’, è un ‘essere’»): il confronto diretto con il presente e le sue reali condizioni storiche, politiche e sociali passa così dalla denuncia delle aberrazioni umane durante la dittatura brasiliana, alle riflessioni sul berlusconismo e sul «pensiero unico dominante» della globalizzazione nelle opere italiane, pur nella costante tematizzazione dei tre grandi motivi con cui tutta la letteratura, in maniera esplicita o implicita, si confronta da sempre, ovvero la morte, il vuoto e l’amore.4 Vi è, dunque, una netta continuità tra la produzione artistica nella madrepatria e quella nella terra di adozione, nonostante la nuova lingua e l’esperienza migratoria abbiano comportato l’approfondimento di certi temi e l’affievolirsi di altri. Tra tutti, emerge certamente quello dello strappo-rinascita.

Julio parlava, infatti, della sua emigrazione come di un «suicidio amministrato»: un sintagma molto particolare il cui significato è chiarito nel frammento 58 della «Seconda parte» di Cronache di gloria e disperazione (inedito):

Perché tante persone emigrarono, da sole o con le loro famiglie, verso terre lontane e sconosciute? La prima risposta è che non c’erano più le condizioni perché rimanessero dove abitavano. Ma molti altri erano rimasti, vivendo la miseria, il pericolo, aspettando la morte certa o impazzendo per le speranze eternamente rimandate. Quindi, da dove viene il coraggio di quelli che se ne vanno? Il coraggio viene da un’intuizione: emigrare è anticipare la morte in una forma benigna. Cosa ci aspetta dopo la fine? Il cielo? L’inferno? Quindi, che venga subito, ed in questa vita.

Come nella morte vera, l’emigrante lascia tutto dietro di sé: i paesaggi, gli amici, i propri morti, il proprio passato e la propria unica identità. Egli abbandona il proprio corpo materiale, nella forma della sua storia personale, ed emigra sprovveduto, inerme, solo, etereo e spoglio come uno spirito, verso l’ignoto assoluto. L’emigrante ha ingannato la morte come un torero inganna il toro. Egli si è visto condannato e, prima dell’esecuzione lenta e brutale della sentenza, si è costruito la propria morte, ha assunto volontariamente il controllo della propria fine e così ha guadagnato la possibilità di una nuova vita.

L’emigrante è colui che sceglie il proprio oltre. Egli fugge dall’oltretomba verso l’oltremare, l’oltre frontiera, l’oltre foresta, l’oltre deserto. L’emigrante, così come un morto, ha perduto ormai tutta la paura, perché qualunque cosa succeda a partire da quella rottura cruciale è pur sempre qualcosa, può essere anche il peggior qualcosa, ma è qualcosa, ed egli sarà libero per molto tempo dal fantasma del nulla, che rendeva la sua vita ogni giorno meno sopportabile.

Emigrazione come morte prima imposta, poi voluta. Emigrazione come rinascita scelta, volontaria, compiuta da colui che ha perso la paura del vuoto e cerca un nuovo oltre. L’emigrante è quindi colui che ha ingannato la morte e ha avuto il coraggio di anticiparla «in forma benigna».
L’emigrazione come l’atto di un guerriero che rifiuta di vedersi morire senza combattere.

E siamo certi che anche in questa seconda emigrazione Julio abbia saputo e saprà fuggire «dall’oltretomba verso l’oltremare, l’oltre frontiera, l’oltre foresta, l’oltre deserto», avendo «perduto ormai tutta la paura, perché qualunque cosa succeda a partire da quella rottura cruciale è pur sempre qualcosa, può essere anche il peggior qualcosa, ma è qualcosa, ed egli sarà libero dal fantasma del nulla, che rendeva la sua vita ogni giorno meno sopportabile».

Rosanna Morace

 

La rivista Sagarana

La rivista Sagarana, trimestrale di letteratura mondiale online, ideata e diretta da Julio Monteiro Martins, e in esistenza ininterrotta dall’ottobre 2000, una tra le più longeve in Italia, è stata uno dei progetti più apprezzati e di maggiore impatto nei suoi 20 anni di intensa attività letteraria in Italia. Nel corso degli anni la rivista si è costruita un seguito di migliaia di lettori assidui sparsi nei 5 continenti, che ogni tre mesi aspettavano di leggere gli assaggi di saggistica, narrativa, poesia scelti da Julio e proposti da una rete internazionale di collaboratori. Nel loro insieme tali assaggi costituivano una specie di antidoto al pensiero unico che Julio tanto disdegnava e considerava il male più subdolo dei nostri giorni.

L’impegno a contrastare l’uniformazione ideologica e letteraria ai modelli imposti dal mercato veniva affrontato in modo esplicito negli editoriali del Direttore, che erano una sorta di “terza pagina” rivolta a chi si occupava di letteratura e politica. Oltre agli editoriali, di suo Julio contribuiva spesso con brevi racconti, di cui ho sempre apprezzato uno stralunato senso del grottesco, tutto suo, feroce e tenero nel contempo. Sia nei pezzi che sceglieva che in quelli che scriveva, Julio non si limitava ad essere un cultore di una certa estetica letteraria ma tentava anche di costruire una “epistemologia” della letteratura alla scoperta di certe verità sull’animo umano che solo i diversi generi letterari contengono e possono rivelare. E su questo ci siamo spesso scontrati, nel senso che mi rimproverava una visione eccessivamente utilitaristica della letteratura in chiave militante, e mi incoraggiava a un maggior rigore nel cercare il quid rivoluzionario insito nella scrittura stessa.

Per onorare la sua memoria vorrei proporre un brano tratto dal «Prologo» del romanzo L’ultima pelle (scritto in portoghese e tradotto dall’autore), proposto nella rivista alla pagina «Il Direttore», che ci dà un assaggio di questa sua ricerca:

[…] Così come nei rettili e negli uccelli, certi colpi inaspettati, certe ferite, certe angosce, possono anticipare la muta a un momento imprevisto. Il nostro canto tace, le nostre piume cadono, e noi tremiamo dal freddo sul ramo più remoto della voliera. Ma allora il ciclo si completa, inaspettatamente come è cominciato. Il personaggio è già un altro, integrato al mondo che lo circonda e dal mondo ogni volta più celebrato. Noi torniamo a cantare ancora meglio, a strisciare più veloci tra i cespugli e le pietre. Sono i cicli della nostra provvisoria pienezza. Noi ci sentiamo interi nuovamente. Ci sentiamo come sempre fummo, poiché le trasformazioni spariscono tra i due anelli estremi della catena, che si uniscono nella memoria. Non ricordiamo niente che non sia il momento abbagliante, il personaggio completo, e nella meraviglia di una pace attiva nemmeno percepiamo che il nostro canto adesso è differente, che la nostra pelle è un’altra.

[…] Quello che è rimasto sul cammino, piume, pelle, identità, non sono spoglie o reminiscenze, sono parti perdute della materia che ci costituisce, sono fossili della nostra essenza, sono ego sottratti, che in un giorno qualsiasi del futuro ci lasceranno con un’unica piuma, con un’ultima pelle, con un ultimo e monocorde canto, con il personaggio definitivo. Abbiamo bisogno di cominciare ad amarlo molto presto, molto prima del primo cambio di pelle.

Pina Piccolo

 

1 La casa editrice «Anima», fondata e diretta da Julio Cesar Monteiro Martins, ha pubblicato il maggior numero di opere prime di autori brasiliani tra il 1983 e i 1987, nonché numerose traduzioni di testi inediti in portoghese.

 2 La strage della Chacina da Candelária, avvenuta a Rio de Janeiro il 23 luglio 1993, fu compiuta da una squadra di poliziotti in borghese, che uccise nel sonno a colpi di mitra i bambini orfani che dormivano in strada.

 3 Mi limito qui a citare i volumi. In portoghese: Torpalium, São Paulo, Ática, 1977 (racconti); Sabe quem dançou?, Rio de Janeiro, Codecri, 1978 (racconti); Artérias e becos, São Paulo, Summus, 1978 (romanzo); Bárbara, Rio de Janeiro, Codecri, 1979 (romanzo); A oeste de nada, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1981 (racconti); As forças desarmadas, Rio de Janeiro, Anima, 1983 (racconti); O livro das diretas, Rio de Janeiro, Anima, 1984 (saggi politici); Muamba, Rio de Janeiro, Anima, 1985 (racconti); O espaço imaginário, Rio de Janeiro, Anima, 1987 (racconti).

In italiano: Il percorso dell’idea, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1998 (poesie), Racconti italiani, Nardò, Besa, 2000 (racconti); La passione del vuoto, Nardò, Besa, 2003 (racconti); madrelingua, Nardò, Besa, 2005 (romanzo); L’amore scritto, Nardò, Besa, 2007(racconti); La grazia di casa mia, Milano, Rediviva, 2013. Di prossima pubblicazione per Besa è La macchina sognante.

 4 Su ciascuno di questi temi sono incentrate le tre raccolte di racconti pubblicate in Italia: Racconti italiani (sulla morte), La passione del vuoto, L’amore scritto.

L’angelo necessario (Mario Dondero)

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di Danilo De Marco

Dondero e Capa bis copyDevo a Francesco Altan l’incontro con Mario Dondero, nei primi anni ’80. Quando Francesco seppe delle mia partenza per Parigi mi disse con tono perentorio, quasi sciamanico: “Devi

“Es senza” di Franco Araniti

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di Antonella Falco

cover Es Senza

La poesia racconto (o poesia in prosa) di Cesare Pavese e la scrittura senza segni di interpunzione di José Saramago: sono questi gli estremi stilistici entro cui inquadrare, almeno formalmente, l’ultima opera di Franco Araniti, Es Senza, tappa conclusiva, e dunque approdo, di un viaggio iniziato nel 2007 con Di quel viavai d’amore e proseguito nel 2012 con Meticcia. Un viaggio letterario che definire poetico sarebbe riduttivo visto il grande fermento sperimentale che caratterizza la trilogia e che raggiunge il suo acme proprio nei componimenti – prose liriche «senza la condizione dell’interpunzione» – di Es Senza.

La sperimentazione compiuta da Araniti non si ferma soltanto agli aspetti stilistici ma investe anche l’apparato linguistico mediante l’uso di un lessico meticcio, ossia pervaso di termini dialettali ma anche più propriamente gergali: mi riferisco all’impiego di quella lingua, l’ammascante, usato dai calderai di Dipignano (Cs) e a lungo affidata alla sola trasmissione orale prima di essere recuperata e studiata dal glottologo John Trumper. L’ammascante costituisce una vera e propria lingua nella lingua in quanto codice comunicativo appartenente ad una ben determinata categoria professionale, quella dei lavorato del rame, a sua volta calata in un contesto dialettale che è quello comune a qualsiasi paese della provincia cosentina. Una lingua ricca di fascino e sfumature, nonché estremamente musicale tanto da essere finita in un disco, Ammasca, del Collettivo Dedalus, che si è aggiudicato il secondo posto nella sezione dialettale al Premio Tenco 2014. I testi del disco sono di Franco Araniti che da anni compone versi in ammascante contribuendo in tal modo alla conservazione e alla divulgazione di questo antico patrimonio linguistico.
Termini come “tawana” = “sveglia mattutina, alba”, “mineca” = “moglie”, “jancusa” = “neve”, “spaccusa” = “montagna”, “tasejo” = “contadino”, “fadusu” = “mantello”, “justrusa”= “luna” si affiancano così all’italiano creando una miscela linguistica, una sinestetica girandola di suoni che si fanno immagini e colori e che a loro volta danno vita a un vortice emozionale che dal territorio avito si diparte a raggiera per raggiungere gli uomini e le donne di ogni parte del mondo in un ideale abbraccio di sim-patia e di com-passione.

Alla sperimentazione linguistico-lessicale, che resta uno dei suoi tratti distintivi, Araniti unisce infatti una inesausta passione civile. Es Senza è da questo punto di vista la summa delle idealità del poeta, la voce data a chi non ha voce, il canto di denuncia dei deboli e degli oppressi, lo sguardo non distolto ma al contrario ben spalancato sulle vittime di soprusi vicini e lontani: dai disoccupati, ai migranti, alle vittime delle guerre spesso dimenticate e taciute. L’approdo alla poesia civile è per Araniti quasi un dato genetico, il naturale punto di arrivo di un percorso che affonda le radici nella sua storia familiare, nella vicenda del padre Melo, arrestato nel 1932 a soli tredici anni, perché si era ribellato alle prepotenze dei fascisti:

«Mi hanno torturato per una notte intera Steso seminudo nella nuda terra della cella trattenuto con forza per i quattro arti da due che non mi sembravano carabinieri hanno iniziato lasciando che degli scarafaggi tormentassero il mio ombelico È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo
Allora uno con il ginocchio mi premeva sui cannarini Quasi mi soffocava È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo recuperando il fiato strozzato
Volevano che accusassi mio padre
Prendendomi per i capelli mi sollevavano infilandomi la testa nel bugliolo pieno di pisciazza Umiliavano la mia mente e toglievano l’aria al mio respiro Vedevo la morte venire e andare È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo grondando pisciazza nella quale confondevo le lacrime e la paura
Schiaffi sul viso gomitate ai fianchi e calci negli stinchi mi davano È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo col dolore sparso nel corpo»

(Volevano il nome di mio padre pp. 99-100).

Il padre di Araniti è trattenuto in carcere per un mese ma i suoi aguzzini non ottengono lo scopo desiderato: «A tutti i costi volevano il nome di mio padre Ma io mi chiamo carmelo» (p. 100). È anche per questa ragione che Carmelo Araniti il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, si unisce alle formazioni partigiane combattendo contro il nazifascismo fino all’8 marzo del 1945, «Per liberare le menti dalla soffocante oppressione dei buglioli» (p. 100). L’esempio paterno si trasfonde nel figlio per pura proprietà transitiva. È un’osmosi di valori, ideali, passioni, principi etici che accompagnano il giovane Araniti negli anni della formazione e ne strutturano la personalità umana e intellettuale.

Un senso panico attraversa la poesia dell’autore reggino abbracciando uomini animali e ambienti naturali; nei versi di Araniti è tutto il creato – mondo animato e mondo inanimato – ad essere oggetto (ma forse sarebbe più appropriato dire “soggetto”) di uno sguardo solidale e partecipe: uno sguardo generoso e profondamente umano. È una poesia che nasce anche dalla terra, la sua terra di Calabria appassionatamente e dolentemente amata: quella terra che è emblema del Sud, di tutti i Sud del mondo. Luoghi vilipesi dagli uomini e derisi dal destino, ma anche fucine – le ultime rimaste – da cui può levarsi un canto di liberazione, una palingenesi, un nuovo radicale umanesimo.

«Disincantato ma non rinsavito», come quel Didimo Chierico che fu l’ultima incarnazione autobiografica degli eroici furori foscoliani, Araniti percorre ancora col suo canto, idealmente e realmente, le strade degli ultimi, armato della sola Parola:

«Scavo dentro tronchi senza libro e senz’anni parole decantate su fondali sventrati e modellati da tempeste e carezze da mare e popoli passati che impastando culture e colori e razze fecondando ovuli e incrociando incroci hanno tessuto la tela che mai inchiostro potrà ripercorrere intera da quando la vita divenne vita e tanti dolori sillabando sillabari tra fonemi e buchi neri se spreco non lo so voglio inverso tentarvi tra i vostri rioni susu ai grattacieli ove menzognera appare la luna che invece dalle case basse è poesia ché che i solai vicine alle ceramite fan’uno con la terra giù»

(De composizione, p. 66).

In Es Senza accanto all’impegno civile trova spazio anche l’amore a volte declinato come caldo eros, a volte come tenera devozione coniugale non corrisposta e anzi offesa e avvilita (Il rametto di mimosa), a volte come tormentata matura passione che non sa se cedere al sentimento nei confronti di una donna molto più giovane (Legge in sogno).

Il volumetto è impreziosito dalla bella copertina che riproduce un olio su tela dell’artista calabrese Maria Naccarato dall’evocativo titolo Notturnessenza. Vale la pena infine sottolineare il merito di quella editoria indipendente – Es Senza è pubblicato da Città del Sole – che non teme di dare alle stampe opere inconsuete e sperimentali promuovendo, malgrado le difficoltà del mercato, un attento lavoro di scouting letterario ormai troppo spesso trascurato dai grandi gruppi editoriali.

Dalle memorie di un insonne

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di Giorgio Mascitelli

Mia nonna diceva che girarsi e rigirarsi nel letto insonni dopo essersi svegliati nel corso della notte era segno di coscienza che rimorde: a me, fin dall’età in cui potevo ascoltarla dal vivo,  è sempre sembrata una solenne sciocchezza. A parte il fatto che non ho assolutamente nessun rimorso particolare, ma questo fatto che la voce della coscienza non rispetti i ritmi circadiani e come una sonnambula o peggio ancora come una vampira si svegli di notte non mi ha mai convinto. Così ci sarebbe un tizio che durante il giorno circola allegramente a commettere nefandezze e che durante la notte capta una voce che gli comunica notizie spiacevoli su di lui, come una sorta di telefonata intercontinentale fatta da qualcuno che ha sbagliato il calcolo del fuso orario o ha atteso un’ora serale per poter usufruire delle apposite tariffe scontate. Invece c’è tutta un’imponente tradizione che attesta che a destarsi di notte sono le forze del male e non quelle del bene, non a caso chiamate le prime da alcuni scrittori di valore anche forze delle tenebre: per esempio Gandalf avvertiva sempre i suoi giovani amici che certe creature malvagie si trovano in giro solo la notte, dette per l’appunto creature della notte. Dunque, cara nonna, delle due l’una o la voce della coscienza appartiene a pieno titolo alle forze del male, e ciò significa che avere la coscienza è un male, ma se il male nasce dalla coscienza, non c’è più nessuna banalità in esso ed è una via che è meglio non prendere neanche per scherzo, oppure no.

Non mi convince neanche l’altra spiegazione, quella che fa capo alla vecchia canzone siciliana, per cui a voltarsi nel letto sospirando è l’innamorato. L’amore mi ha superato ormai, come tutti gli altri sentimenti: non sono più capace neanche di un vero e proprio odio intenso. E’ restato soltanto il guscio vuoto delle emozioni, dalla piccola indignazione all’improvvisa e transitoria euforia per l’andamento delle cose, all’ansia, soprattutto. Felice l’uomo che ha conservato intatta la capacità di sentimento, forse ancora più felice di chi ha potuto conoscere le cause dei fatti.

Così dopo aver svuotato la vescica, torno a girarmi nel letto cercando con ricordi piacevoli o lunghi elenchi di cose astruse di rilassarmi e di contrastare la sfrenata carola delle preoccupazioni sia futili sia assolute che mi fanno sobbalzare. Talvolta bevo un bicchier d’acqua. Mingere e bere sono elementi fondamentali per ricondurre l’atmosfera rarefatta dell’insonnia alle normali circostanze della vita. Certo se la coscienza fosse una specie di metronotte,  allora la mia nonna avrebbe avuto ragione, ma in realtà una simile illazione non avrebbe senso perché i metronotte collaborano con la polizia diurna e sono parte di un unico sistema di forze dell’ordine a difesa della proprietà,  non intervengono a controllare i guasti del giorno, ma a prevenire quelli della notte: l’unica spiegazione sarebbe allora che la coscienza alla notte desidera fare altro che controllare i guasti del giorno, allora ci sarebbe se non un rimorso almeno un rimpianto. Ma il mio non è rimorso di coscienza: se avessi qualcosa da rimordermi non abiterei certo in questo buco caldo d’inverno e freddo d’estate, ovvero volevo dire il contrario, con un vicinato che è polvere d’uomo. No, la mia è ansia: la stessa antica ansia che trovi nei pezzi d’arte suntuaria delle tombe scite e negli annunci sulle nuove frontiere prossime a essere battute delle riviste americane di divulgazione scientifica.

Ci fu una generazione, quella di mia nonna per esempio, che per l’ansia prendeva le pillole contro l’ansia e per l’angoscia prendeva le pillole contro l’angoscia. Io no, nulla di tutto questo e non per maggiore consapevolezza: è che mi sembra del tutto normale angosciarsi e ansiarsi quando il mondo va allo sfacelo, ben diverso lo era invece quando nella società vigeva l’ottimismo del boom. Oggi è più possibile coabitare con l’ansia e con l’angoscia senza sentirsi degli andicappati, mentre allora con tutto il fervore di una crescita eccitante perché incontrollabile era effettivamente qualcosa di mostruoso. Oggi, insomma, risparmio e non mi rovino lo stomaco, pur vivendo in una condizione di continua ansia, che però la situazione generale dispensa dal ricorso alla chimica. Sono i piccoli vantaggi delle epoche di crisi.

Anche questo è per me motivo di grande consolazione, che quando mi angoscio per come oggettivamente le cose fanno schifo nella mia epoca, mi ripeto che mi sarei angosciato lo stesso, anche se non fossi vissuto in un’età volgare. Poi, secondo me, non è un caso che le pillole fossero state messe in commercio negli stessi anni in cui si consumava la crisi dell’esistenzialismo. Secondo me, è stata una congiura dell’industria farmaceutica contro l’esistenzialismo perché hanno capito che se la gente avesse letto con attenzione qualche opera tra le più semplici di Sartre o avesse osservato con attenzione gli omini di Giacometti, si sarebbe resa conto che l’uomo è fragile per sua natura e avrebbe considerato perfettamente spontaneo angosciarsi e pertanto non avrebbe sentito il bisogno di comprarsi le suddette pillole. E ne ho le prove perché un conoscente mi ha fatto visionare in via del tutto riservata una lettera di un allora alto papavero di Big Pharma all’allora ambasciatore statunitense in Francia in cui vengono menzionati i nomi di Sartre e Giacometti.

Quando mi riaddormento è sempre troppo breve l’intervallo che intercorre fino all’ora in cui la sveglia suona per poter recuperare il sonno perduto. La delega agli automatismi della doccia e del caffè dura fino all’uscio perché poi devo riprendere a osservare. C’è sempre meno gente, ma le strade dissestate e il traffico caotico a dispetto della sua decrescente quantità mi tengono all’erta. I graffitari scrivono  ovunque e si prendono gioco della nettezza urbana.

Gli astrattisti non li sopporto, al contrario ho grande considerazione dei figurativi. Uno in particolare, il più ardito, ha dipinto sui marciapiedi degli enormi dragoni e serpentoni marini e altri mostri con la bocca aperta sicché si ha sempre l’impressione di camminare tra le fauci del drago, eppure questi draghi non serrano mai le mascelle per divorarti e sono immobili. L’evidenza che si tratti di un pericolo del tutto fittizio e soltanto disegnato, seppur con accuratezza, non appare alla ragione del cuore, che ogni mattina si emoziona come se avessi veramente rischiato di essere divorato o annichilito dalle fiamme. Allora per un paio di minuti, fino alle scale della metropolitana, assumo lo stato d’animo del sopravvissuto, di colui cioè che ha già provato emotivamente la propria finitudine. Si tratta con ogni evidenza di una proiezione, forse favorita da un rimasuglio di impressionabilità infantile, delle angosce che la mia esperienza personale e sociale mi ha causato, con l’aggravante che, come tutti i figli del moderno razionalismo, non riesco ad attribuire a tale immagine mostruosa una funzione apotropaica né dispongo di alcun rito liberatorio che mi permetta di contenere le mie paure. D’altronde sarebbe poco dignitoso per chi come me crede se non nei lumi, almeno ancora in qualche luce e nella parola dell’uomo sull’uomo, abbandonarmi alle prescrizioni farneticanti di qualche improvvisato santone, dedicatosi allo sciamanesimo dopo il fallimento di  un’altra attività commerciale, come se ne trovano in abbondanza in questi tempi di crisi. Il rigore del pensiero critico, che per essere tale è anche autocritico, mi illumina a sufficienza su me stesso per sapere delle mie debolezze, di come trattare questo rifiuto emotivo dell’evidenza fattuale e della consapevolezza che, purtroppo, la vita autentica non si dà nella falsa. E si sa anche che il drago è un animale astutissimo che, quando finge di dormire, è in realtà perfettamente vigile o in grado di simulare di essere fatto di pietra, o di cemento, allorché  in realtà nelle sue vene scorre vero fuoco.

(1,continua)

Azulejos e altre poesie #3. Golgona Anghel

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golgona

 

Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.
Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Serena Cacchioli

Golgona Anghel, rumena di nascita e portoghese d’adozione, è una delle nuove voci della poesia portoghese contemporanea. Dopo aver scritto una biografia e curato la recente edizione dei diari del poeta Al Berto, la Anghel si è imposta all’attenzione della critica con la raccolta Vim porque me pagavam (Sono venuta perché mi pagavano), edizioni Mariposa Azual, Lisbona, 2011. Nei suoi componimenti quello che affascina è la sintassi strana di chi non scrive nella propria lingua madre, di chi professa un’anarchia del linguaggio legata a un certo cinismo suscitato dal discorso poetico. La sua poesia, come un fiore di plastica indifeso nella brutale vetrina di un macellaio, illumina di luce fioca la quotidianità mediocre, racconta le bassezze e i punti sublimi nascosti negli angoli delle giornate. La lingua è impregnata di una “portoghesità” difficile da rendere in italiano: nelle parole scorrono i baretti e le viuzze di Lisbona, le case umide, le linee di un paese che sembra oscillare tra la morte e la rinascita.
Le poesie qui proposte sono tratte da Como uma flor de plástico na montra de um talho (Come un fiore di plastica nella vetrina di una macelleria), raccolta poetica con cui Anghel ha vinto – ex aequo con Gastão Cruz – il Prémio del Pen Clube Português per le opere pubblicate nel 2013.

***

Ora che non importa più nulla,
consoliamo le domeniche pomeriggio
con le bifanas dei chioschi montati prima della partita,
qualche pettegolezzo fresco, discussioni su Sartre,
il post-strutturalismo e quella battuta
per cui qualsiasi marxista tamarro
sembra furbo accanto a un anarchico.
L’unico interesse che ancora abbiamo davvero in comune
è dividerci l’affitto
e una bottiglia di rosso.
A volte, riceviamo ancora degli inviti,
e guarda, non è facile, con il bambino e tutto.
Ma finiamo per restare a casa.

Il disinteresse mi si accumula attorno
come gli strati secolari
sul tronco di una sequoia.
Divento immune alle lagne.
Mi lavo i panni da solo.
La mia lingua sta prendendo uno spessore legnoso.
Al posto del grido,
un graffio.
Mani in tasca,
acqua in bocca.
Evito vetrine e specchi.
Ho paura che la verità
mi possa sfigurare il volto.

 

Agora que nada mais importa,
consolamos as tardes de Domingo
com as bifanas nas tasquinhas montadas antes do jogo,
alguns boatos frescos, discussões sobre Sartre,
o pós-estruturalismo e essa piada
que qualquer marxista parolo
parece experto ao pé de um anarquista.
O único interesse que ainda temos realmente em comum
é dividir o aluguer
e uma garrafa de tinto.
Às vezes, ainda recebemos algum convite,
e olha, não é fácil, com o miúdo e tal.
Mas acabamos por ficar em casa.

O desinteresse acumula-se à minha volta
como as camadas seculares
no tronco de um sequóia.
Fico imune a queixinhas.
Lavo sozinho a minha roupa.
A minha língua está a ganhar uma espessura lenhosa.
No lugar do grito,
uma greta.
Mãos nos bolsos,
bico calado.

***

Passo a capriole per questa serata
come un dubbio alla ricerca del suo angolo retto.

Organizzo miliardi di pezzi di puzzle,
ricostruendo mondi perduti
con l’immagine girata verso il basso.
Trasformo le soluzioni in enigmi.
Sposto ere,
riaccendo vulcani,
fondo attorno a un paio di seni,
scuole d’architettura,
storie di sopravvivenza,
bocche secche,
dentature posticce.

Dall’armadio, mi arriva
come un geroglifico sonoro di un dolore remoto,
il sibilo intermittente
di un ratto.
Nulla ci unisce, penso,
se non questa finta finestra
nella camera a gas.
Passo una mano sulla fronte bagnata,
cambio, di fretta,
le lenzuola all’illusione
e resto, di nuovo, all’erta.
Sarebbe tanto più facile aspettare l’eternità
se, almeno, ci fosse qualche birretta in frigorifero.

 

Vou passando às cambalhotas por este fim de tarde
como uma dúvida à procura do seu ângulo recto.

Organizo milhares de peças de puzzle,
reconstruindo mundos perdidos
com a imagem virada para baixo.
Transformo as soluções em enigmas.
Desloco eras,
reavivo vulcões,
erijo à volta de um par de mamas,
escolas de arquitectura,
histórias de sobrevivência,
bocas secas,
dentaduras postiças.

Do armário, chega-me
como um hieróglifo sonoro de uma dor remota,
o assobio intermitente
de um rato.
Nada nos une, penso,
a não ser esta janela falsa
na câmara de gás.
Passo a mão pela frente molhada,
mudo, à pressa,
os lençóis à ilusão
e fico, outra vez, à espreita.
Seria tanto mais fácil esperar pela eternidade
se, ao menos, houvesse alguma mini no frigorífico.

***

All’inizio, pensai che fosse un ritaglio
di una rivista antica.
Poi vidi che avevi terra sotto alle unghie
e che non usavi il reggiseno.
Raccontavi come tuo nonno
scorticava i conigli
in un angolino della cucina.
Un campo di papaveri
ti vestiva la schiena.
Poi restavi in silenzio.
Sorridevi.
Restavi molto tempo a guardarmi,
senza dire nulla.
Portavi una mano alla fronte,
come se così riuscissi a vedermi meglio.
Mi mostravi poi le gambe fustigate dalle ortiche,
le dita dei piedi macchiate dall’uva.
Sembrava che avessimo vissuto insieme
e che quella cicatrice che avevi sulla coscia sinistra
fosse il contorno della mia malinconia.
Alla fine, anche tu partirai.
Mi basterà un semplice fischio dell’arbitro,
il suono delle campane della Chiesa del quartiere,
il rumore di un’auto che parte,
per lasciar dunque che si rovesci
sul pavimento della cucina
l’unica certezza che mi mantiene
in posizione verticale
il cucchiaio nella zuppa.

 

Ao princípio, pensei que fosse um recorte
duma revista antiga.
Depois reparei que tinhas terra debaixo das unhas
e que não usavas sutiã.
Contavas como o teu avô
esfolava os coelhos
num cantinho da cozinha.
Um campo de papoilas
vestia-te as costas.
Ficavas depois em silêncio.
Sorrias.
Ficavas muito tempo a olhar-me,
sem dizer nada.
Levavas uma mão à testa,
como se assim me conseguisses ver melhor.
Mostravas-me depois as pernas açoitadas por urtigas,
os dedos dos pés manchados pelas uvas.
Parecia que tínhamos vivido juntos
e que essa cicatriz que tinhas na coxa esquerda
era o contorno da minha melancolia.
No fim, tu também partirás.
Bastar-me-á um simples apito do árbitro,
o som dos sinos da Igreja do bairro,
o barulho de um carro a arrancar,
para deixar então entornar no chão da cozinha
a única certeza que me segura
em posição vertical
a colher na sopa.

Fiaba d’amore

2

a moresco

di Gianni Biondillo

(per la vigilia di Natale direi occorra segnalare una fiaba, no? ;-) G.B.)

Antonio Moresco, Fiaba d’amore, Mondadori, 2014, 155 pag.

Antonio Moresco con Fiaba d’amore ci racconta una storia che si svolge nel non-tempo della favole. “C’era una volta”, scrive in apertura, “una volta” che potrebbe essere ieri, domani, o mai. Eppure come è simile al nostro mondo, al nostro tempo, la vita disperata del protagonista, un vecchio pazzo, residuo di una società indifferente, che vive coperto di stracci e cartoni nel cuore di una metropoli.

A quest’uomo che non ha più nulla, né beni materiali né speranze, con un corpo acciaccato e un’anima sfibrata, accade, “come nelle favole”, il più incomprensibile dei miracoli: il suo sguardo incrocia il volto di una ragazza bellissima che, quasi lo avesse cercato fra tutti i rifiuti del mondo, lo porterà con sé, a casa sua. I due vivranno di un amore fatto di gesti e di corpi, prima ancora che di parole, sempre inadeguate di fronte ai miracoli.

Ogni scrittore, se è davvero uno scrittore, non scrive mai “opere minori”. In attesa della pubblicazione del monumentale Gli increati, conclusione di un’opera-mondo iniziata decenni addietro, Moresco, con questa sua fiaba che parla di vita, di morte, di tradimento e redenzione, si comporta come un pittore che, in attesa di portare a termine l’affresco della cattedrale, continua a vergare bozzetti, disegni, acquarelli. Non per puro intrattenimento personale, ma come desiderio di fissare immagini, sperimentare forme. E non è un caso che spesso in queste opere, quasi più svincolate dal programma monumentale, si svela una libertà immaginifica che commuove.

È una fiaba crudele e dolce assieme, rivolta ad un pubblico che non ha età, scritta con una lingua che non nasconde nulla, esplicita fino all’ossessione nelle descrizioni tattili, eppure spesso pudica nei sentimenti; scrittura pura come quella di un bambino che non ha problemi ad immaginare una luminosa città dei vivi attraversata da morti inconsapevoli, e una buia città dei morti, così tanto simile alla sua gemella, dove però, quando tutto è perduto, si può tornare a vivere per davvero.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 8, del 18 febbraio 2014)

Il Bush nero allenta il cappio

11

di Piergiorgio Odifreddi

.[riprendo dal blog di Piergiorgio Odifreddi questa valutazione del recente “riavvicinamento” tra Cuba e USA, in linea con due miei precedenti post qui su NI, questo e questo. a.s.]

 

Fa ribrezzo sentir pronunciare magnanimamente, da parte di un presidente statunitense, la frase: “Siamo tutti americani”. Se non altro, perché è almeno dal 1823 che l’espressione “americano” viene intesa dalla Casa Bianca nel senso di “statunitense”, appunto. Da quando, cioè, il presidente James Monroe enunciò la sua famosa dottrina, compendiata nel motto: “l’America agli americani”, che con un macabro gioco di parole intendeva por fine alle ingerenze dei paesi europei nel continente, e riservare monopolisticamente queste ingerenze agli Stati Uniti.

Da allora, questi ultimi sono intervenuti in maniera sistematica in quasi tutti i paesi del Centro e Sud America: sia direttamente, con invasioni dei marines, sia indirettamente, con colpi di stato organizzati dalla Cia, o guerre di guerriglia sostenute dal governo e finanziate dal Congresso. Ad esempio, citando alla rinfusa, in Messico, Guatemala, Honduras, Nicaragua, El Salvador, Panama, Puerto Rico, Repubblica Dominicana, Haiti, Granada, Ecuador, Brasile, Bolivia, Cile, Uruguay e Argentina.

E naturalmente Cuba, che venne conquistata nel 1898 nella guerra con la Spagna. Nel 1903 la costituzione del paese stabilì il diritto degli Stati Uniti di intervenirvi a suo piacere. Nel 1906 l’isola fu occupata per due anni, e le truppe statunitensi intervennero in seguito nel 1912 e nel 1917. La dittatura di Batista trasformò il paese nel “bordello dell’America”, e durò dal 1933 al 1959. Alla liberazione dell’isola da parte di Castro, gli Stati Uniti reagirono con un isterismo paranoico che portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, scampata solo grazie alla ragionevolezza di Kruschev (che in seguito pagò caro il suo coraggio).

Nel 1962 il Golia del continente impose al David dei Caraibi un embargo commerciale che dura tuttora, venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino. L’annuncio di ieri, che verranno reinstaurate relazioni diplomatiche, rimedia solo parzialmente e timidamente alla vergogna dell’imperialismo statunitense nel continente americano. E non è che un lieve allentamento del cappio, ancora ben stretto attorno al collo dei cubani.

In particolare, rimane saldamente nelle mani degli Stati Uniti il territorio di Guantanamo, sede dell’imbarazzante lager, nonostante le premesse elettorali del primo Obama nel 2008. Ma gli Stati Uniti benevolmente cancellano Cuba dalla lista dei “paesi terroristi”: un’interpretazione autentica, si può ben dire, da parte del primo della lista di quei paesi nel continente americano, e forse nel mondo intero.

Essendo il dentro un fuori infinito #4

11

di Mariasole Ariot

 

Il carico di rottura di una ragnatela è confrontabile a quello dell’acciaio. Differisce solo per densità.
Nella caduta l’animale sputa il filo che lo porta al punto del desiderio,
poi risale alla partenza, avanza di un passo,
cade nuovamente e ricomincia. Ha le zampe a pettine, unisce i fili come fossero mani : crea una rete,
costruisce una casa. E’ una trappola.

ragnatela

Emma ha un tappeto di chiodi dietro la schiena. Si dimena, tiene la mano destra a fasciare il polso sinistro, il polso stringe un libro, sul dorso c’è una croce, muove le labbra a forma di singhiozzo e non esce che una bava a protezione : tace come tutto tace qui dentro. L’aria è di muffa, ma ora i soffitti si sono alzati, le luci bianche per innaffiare le teste e i pochi pensieri che restano: i residui sono senza porta, le docce sono fredde.

Hanno sequestrato ogni laccio, ogni strumento allungato, e noi accomodiamo, diamo i nostri legami, le nostre impronte, le dimensioni allungate. Quando Emma dorme l’intera aula, l’aula diventa un lamento : i suoi mugulare sono segni, cordoncini da portare al collo, ci legano i piedi, le mani, la testa al cuscino per non sentire. Emma chiama una madre e la madre non parla.

L’ho sentita agitarsi a voce tre volte : per un no : per annuire : per infliggere un ricordo. Crocefigge il suo crocefisso trenta volte, e poi di nuovo fino a che non dispera. Dall’alto di questa torretta s’intravede un ristoro : un alto pianeta sospeso nel vuoto in cui tutti sono serviti a festa, mangiano e non sono traghettatori, li guardiamo come cani alla ringhiera : dammi il tuo pasto, dice un dire in sottofondo.

Ma quelli stridono, alzano le spalle con misericordia. Restano a guardare il circo che si muove in uno strano balletto, ci allunghiamo, piroettiamo sugli eventi invisibili. Perché qui  non accade nulla se non il contrario dell’avanzare. Siamo erranti ma senza sorpresa.

Poi le asciugano le vesti, la cambiano forzando il braccio, dicono ad Emma : staccati, sciocchina, ma lei è incollata alla lingua del corpo, non si attorciglia, resta fissa, immobile come un preludio che non prevede esecuzione. Nel resto del giorno non si muove nulla. Pochi struscii di piedi, un ronzio di termosifoni, un tonfo di caduta, un’anestesia.
Qui dentro non è come allora : il silenzio ha preso possesso del primo piano e del secondo come unica forma di comunicazione possibile. L’indice scorre davanti alla bocca, ne fessura le orizzontali tranciandole in quattro parti, dice che non è dato parlare pena una nuova mescolanza, poi annuncia : attento, nessun allarme, attento.

I gangli sono chiusi in una sola massa.
Ho nascosto il sacco ovigero nel buco del materasso : figlieranno i ragni lupo, il filare li contiene, Emma precipita in caduta libera da un desiderio all’altro, sputa dove lo sputo è ancora invisibile, mi restituisce una tana.

Ariamnes.cylindrogaster.female.with.eggsac.-.tanikawa (1)

Dopo il nidificare delle uova è tutta polvere. La candeggina non lava i segni delle putrefazioni : il cibo morto, le catenelle, le sedie rotte, i posaceneri anneriti degli anni dei figli dei figli dei figli, la candeggina che lava e sfrega e ancora cerca e lava e sfrega e cerca, le saponette ruvide, le spugne usurate, e stride, e lava, e frega e non leva e non ci lava e non ci quieta e non ci addobba e non ci toglie e non ci smuove non si accoda non ci abbaglia.

Ci ritroviamo a tarda notte appaiate a due a due. Un segno indica una porta e non lo seguo, svengo come un animale dopo il digiuno, la testa si trasforma in carne da macello. Emma lamenta per me : è giovane, prende il mio posto. Le lascio una bocca per urlare il mio urlo, si prende tutto il tempo, il sipario, tutta la notte che fila e non ci tesse.

***

Il tappeto  di spine è ancora a terra. Emma si muove ed è notte, d’improvviso cade e si trafigge. Resta il bianco. Nessun sangue ma  liquido che le esce dagli occhi e dice basta – se basta è il colore del niente, della fine delle attese o del continuo.Le raccolgono la testa, la puliscono dalle rime di stagione : le scrostano il passato, lei non si addenta. Resta il bianco, l’insufficienza in forma di vuoto. Mi alzo, raccolgo i fili, proteggo le sue uova.

Cosa sono le affezioni, madre? Cosa significa affettare, costruire affetti per ripararsi la schiena?

Sono rientrata da poco dalla zona fredda. Lì il fumo impregna le vesti, mi circonda. So che non fumerò più, che non avrò più parte in questa parte. Hanno trovato Emma distesa sulla coperta,  tutto era bianco :  non ho mai visto tanto silenzio in una bambina.
Ti aspetto con cura, mi riassetto per dare forma all’oscuro. Per questo
ora mi spargo sulle cose vive :  per amore delle nascite, per non fare dello straniero una brodaglia che ci beviamo a sera.
Scrivimi senza timore. So che i tuoi campi sono sterminati.
Rispondimi anche se non hai nulla da dirmi.

****

Da quanto vige la tua legge, Emma? Da quanto i morticini restano bianchi? Dove sono i figli che avevo conservato?
La traccia dei condannati mi fa da addio. Rispondimi : hai tutto il nulla da dirmi.

Scenari – Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni

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Redazione-scenariAlla voce “Chi Siamo” della nuova rivista settimanale on-line edita da Mimesis Edizioni, si legge:

La rivista Scenari è […] lo strumento attraverso il quale i nostri autori possono dar vita a una puntuale riflessione sull’attualità a partire dai percorsi di studio e pensiero di ciascuno. Attraverso il commento settimanale dei fatti più significativi nell’ambito della politica, della cultura, dell’arte e dell’economia, Scenari vuole costituirsi come un potente laboratorio di idee e dibattito, fornendo ai lettori la possibilità di commentare gli articoli attraverso blog appositamente dedicati. Ogni mese, inoltre, gli articoli verranno raccolti in formato cartaceo e potranno essere acquistati direttamente in libreria o in formato digitale.

Segnalo questa nuova avventura editoriale con un estratto tratto da un brano di Davide Tarizzo, insegnante di Filosofia Morale all’Università di Salerno e,  tra le altre cose, curatore  dell’edizione italiana di saggi di Hannah Arendt, Gilles Deleuze, Stanley Cavell, Jean-Luc Nancy, Alain Badiou, ed altri. Qui un  breve estratto di un ultimo suo intervento:

Una sfida politica per la sinistra

di Davide Tarizzo

La tesi dell’ultimo libro di Chantal Mouffe (Agonistics, in corso di pubblicazione presso Mimesis) è che la democrazia debba prevedere il conflitto agonistico tra forze politiche opposte. Solo questo conflitto agonistico permette di oltrepassare la fase del puro antagonismo e della guerra sociale. Il presupposto del passaggio dall’antagonismo all’agonismo è la condivisione di una certa cornice comune, una cornice di tipo valoriale e istituzionale, entro la quale tutti gli attori politici accettano di muoversi. Di qui l’idea di un “consenso conflittuale” che starebbe alla base della vita democratica.

È necessario che ci sia consenso sulle istituzioni che sono costitutive della democrazia liberale e sui valori etico-politici che dovrebbero improntare l’associazione politica. Ma ci sarà sempre disaccordo sul significato di quei valori e sul modo in cui andrebbero attuati. Il consenso, perciò, sarà sempre un consenso conflittuale.

Dunque, sostiene Mouffe, affinché la democrazia sia davvero tale, occorrono principi comuni e condivisi ma interpretazioni conflittuali del loro significato e della loro effettiva portata. Classicamente, queste interpretazioni conflittuali hanno dato vita alla contrapposizione tra Destra e Sinistra. Ma qui si nasconde il problema: esiste ancora un’interpretazione di Sinistra dei valori e delle istituzioni delle odierne democrazie liberali? È ancora possibile una politica di Sinistra in Europa? È possibile altrove? Mouffe ritiene che si possa rispondere di sì a tutti e tre gli interrogativi.

Continua qui

Le belle stagioni

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di Franz Krauspenhaar

 

da: WINTER  (INVERNO)

2

Sai, sono di una città di fiume,
mio nonno mi amava tanto
ma non mi vide mai, solo
io nel tempo vedo morti
che stanno accanto a me,
le mani che quasi  toccano le mie.
Io sono di una città di fiume
dell’Europa centro-orientale,
dove si parlava il tedesco.
Da lì mio padre carezzava
Puch, il suo cane. Io non
parlavo, io non parlavo

Cent’anni dalla linea d’ombra

1

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di Giuseppe Schillaci

Un secolo fa Joseph Conrad scriveva una delle sue opere più importanti, e lo faceva in soli due mesi, tra il 1914 e il 1915, proprio all’inizio della prima guerra mondiale. Questa coincidenza è una chiave fondamentale per capire il testo di Conrad, come nota Simone Barillari, curatore e traduttore della nuova edizione de La linea d’ombra, appena pubblicata da Feltrinelli. In quei mesi d’inizio Novecento, il conflitto incombe in Europa e rappresenta un trauma collettivo, il passaggio a una nuova epoca, catastrofe e catarsi; è la guerra che spinge Conrad a prendere parola.

Un primo indizio sulla motivazione che anima l’autore è già presente nella dedica: «a Borys e a tutti gli altri che come lui hanno varcato nella prima giovinezza la linea d’ombra della loro generazione». Borys è il nome del figlio di Conrad, diciassettenne nel 1914, che volle arruolarsi volontario nell’esercito inglese  e prestò servizio nelle trincee francesi. La linea d’ombra sembra essere dunque la trincea, la linea che separa irrimediabilmente la vita dalla morte, la giovinezza dall’età adulta.

Insieme al titolo e al tema, scrive Barillari, la guerra dettò allo scrittore anche la trame e il tono. Un altro indizio  è presente, infatti, nel suo sottotitolo: «  a confession ».  La confessione è quella di Conrad, ovvero di un uomo quasi sessantenne che racconta come abbia avuto il suo primo incarico di comandante, a soli vent’anni, su una nave alla deriva nel golfo di Siam.

La confessione è voce senza volto che si rivolge a un generico you, presente all’inizio del testo e mai specificato; continua Barillari: «è indubbio che quel tu o voi (you) sono tutti gli indistinti destinatari della storia, coloro che stanno idealmente ascoltando il narratore non meno di coloro che stanno realmente leggendo la narrazione, ma è  possibile pensare che  […] nella misura in cui, per ammissione dello stesso Conrad, questa è la sua  esatta autobiografia, il primo e più profondo destinatario della lunga confessione sia proprio Borys, il figlio dell’autore, e insieme a lui tutti i ragazzi che combatterono (e morirono) nella prima guerra mondiale. […]. Se è così La linea d’ombra è quel racconto perpetuo, quel disperato testamento in cui ogni padre dice di sé a suo figlio e ogni generazione alla generazione che la segue, in cui chi ha vissuto vorrebbe avvisare della vita chi vivrà, chi è stato giovane dire a chi lo è ora che cos’è la giovinezza».

Ecco cosa scrive Joseph Conrad per chiarire la scelta del titolo: «avevo avuto in mente questa storia per anni. In principio la pensavo con il titolo di First Command (Primo comando). Quando riuscii, durante il secondo anno di guerra, a concentrarmi abbastanza da poter riprendere a lavorare, mi dedicai a questo lavoro. Ma come conseguenza del mio mutato atteggiamento mentale nei confronti della storia, essa diventò La linea d’ombra».

L’opera è stata tradotta dai più grandi scrittori del Novecento e in italiano, più recentemente, da Gianni Celati per Mondadori e da Flavia Marenco per Einaudi. Insieme alla nuova traduzione di Barillari, l’edizione  Feltrinelli presenta un ricco apparato di note, da cui emergono le costanti citazioni alle opere di W. Shakespeare e alla Ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge, un brano inedito in Italia, ovvero una scena tagliata da Conrad ma ben leggibile sul manoscritto, e una mappa del Sud Est asiatico.

La linea d’ombra, a distanza di un secolo, rimane nell’immaginario collettivo, a separare la giovinezza dall’età adulta. La sua potenza narrativa è amplificata dal cambio di ritmo, dal contrasto tra la prima parte del racconto e la seconda, tra il passaggio repentino (della linea) e la condizione di stallo (oltre la linea). Dopo l’entusiamo per il nuovo incarico, infatti, il capitano Conrad si ritrova sulla sua nave, in mezzo a un mare immobile, con l’equipaggio ammalato, senza un soffio di vento.

Passano i giorni e la situazione non cambia: si resta nello stesso mare desolante e sconfinato; lo stesso mare in cui naviga chiunque varchi la linea e assuma, in prima persona, la responsabilità. Perché andare oltre  significa non potere tornare, mai più, significa penetrare uno spazio ignoto, vivere un’iniziazione che si conclude, soltanto, con la morte.

 

 

Perchè nessuno stronca i libri brutti?

45

di Giovanni Turi

Negli ultimi tre mesi, ogni volta che ho letto una recensione letteraria online o sulla stampa mi sono appuntato se il giudizio espresso fosse positivo, negativo o neutrale; questi gli esiti: 64 pollice recto, 11 pollice verso, 39 non classificabili. Eppure, considerando i libri che leggiamo, le proporzioni sarebbero a dir poco invertite, o sbaglio? Insomma, senza farla lunga, le recensioni sono sempre o fin troppo generose o piuttosto vaghe. Perché?

Certo c’è la tendenza a ritenere, sulla scorta delle classifiche di vendita, che i lettori non sappiano comunque distinguere le pietre preziose dalla paccottiglia e dunque non ci si sforza più di tanto di entrare nel merito dei testi, ma è solo uno dei tanti problemi.

Com’è noto, per quanto riguarda la carta stampata, coloro che dovrebbero essere i critici autorevoli quasi sempre collaborano con qualche editore: se si esprimono favorevolmente su un testo la cortesia gli verrà restituita (con un bel pezzo su un’opera che hanno scritto o curato o che comunque afferisce alla loro stessa scuderia), se lo sminuiscono dovranno aspettarsi un colpo basso; oltretutto devono dar conto di quel che scrivono alla testata su cui lo fanno – e i giornali appartengono quasi tutti in maniera più o meno diretta ai grandi gruppi editoriali. Altro discorso andrebbe fatto per coloro che vengono reclutati dai quotidiani magari perché autori di successo, condizione che non implica avere le necessarie competenze per giudicare opere altrui e dunque si limitano a esporne la trama, corredandola con due o tre considerazioni aperte a ogni interpretazione.

Insomma, sulla presunta critica ufficiale non si può fare affidamento e sui blogger, allora? Ancor meno. Tralasciamo coloro i cui “articoli” sarebbero imbarazzanti anche su un giornalino scolastico e concentriamoci sui recensori più o meno in grado di stabilire il valore di un’opera (al di là di quelli che possono essere i propri gusti) e di argomentare a riguardo con proposizioni di senso compiuto. Ebbene, anche costoro difficilmente stroncano un libro pur se pessimo o mediocre, tendono ad accentuarne gli aspetti originali e interessanti piuttosto che le debolezze, al massimo si astengono dallo scriverne. Tutto ciò per diverse ragioni:

  1. In molti casi, anche loro hanno un qualche rapporto con un editore (o ambiscono ad averlo).
  2. Se hanno richiesto alla casa editrice un’opera (o meglio ancora gli è stata spedita per iniziativa dell’ufficio stampa) e poi la denigrano, quando lo stesso marchio pubblicherà un volume di loro interesse gli toccherà comprarlo e, si sa, in tempo di crisi…
  3. Qualsiasi blogger ha tra i suoi obbiettivi primari quello di raggiungere un numero di lettori sempre più ampio e la maggior parte delle visite ai siti internet arriva tramite i social network: a condividere una stroncatura sarà presumibilmente soltanto lui (anche i sodali e coloro che ne apprezzano il giudizio al più si limiteranno a un like); una recensione positiva verrà invece per lo meno linkata anche sui profili social della casa editrice, che contano migliaia di followers, e – se in vita e al passo coi tempi – anche dall’autore del volume in oggetto e di conseguenza dai suoi fans.
  4. Tutti gli scrittori hanno le proprie conventicole, pronte a screditare-bannare-spammare chiunque osi mettere in discussione il valore assoluto della produzione del loro protetto e la realtà virtuale permette tempi e modi di reazione punitivi e immediati.

Detto questo, (a) sono condizionamenti che ovviamente subisco anch’io; (b) non voglio suggerire che sia inutile consultare le recensioni, occorre però farlo in maniera accorta e leggendo anche tra le righe; (c) il rinnovamento della vita culturale può venire solo da lettori sempre più curiosi ed esigenti (ai docenti appassionati, precari o meno, il compito di formarli).

 

(questo pezzo è stato postato da Turi sul suo blog “Vita da editor”, e con il suo consenso lo riprendiamo; certo di queste cose, e di tanti altri aspetti affini/correlati, se ne è parlato molto su NI, ma mi sembra pur sempre una sintesi lucida, equilibrata, onesta, e anche “scientifica”, della fisiologia della “critica” giornalistica e on line; GS)

Wasted

1

di Gianluca Veltri

“Qualcosa era andato storto […], ma per quanto ci pensassi

e ci ripensassi, non riuscivo a trovare l’errore, l’abisso che

se mi guardavo alle spalle si apriva dietro di me, […]

privo di mostri sebbene non di oscurità, di silenzio e di vuoto”.

Roberto Bolaño, “I detective selvaggi”

Correva il lungo decennio dell’oblio. Dieci anni che David Crosby confesserà di aver sprecato. Wasted. L’ex guru della generazione hippie si trascinava come uno spettro. Gonfio di eroina, in cerca di un pusher nel Tenderloin, o di un poliziotto con cui attaccare briga sulla Market. Entrava e usciva di carcere. La musica meravigliosa che aveva regalato al Flower Power tornava a ronzargli ogni tanto confusamente nella testa, come un tarlo o un rimpianto, o un sogno andato a male. Come un’ipotesi ch’era stata vera un tempo e ormai non riusciva più a farsi realtà. Le armonie si trasformavano in polvere prima di uscire dalla sua mente. Qualche amico cercava di tirarlo fuori dal suo cono d’abisso: Neil Young gli dedicava una canzone, Jackson Browne andava a casa sua a Mill Valley, al di là del Golden Gate, per tentare di scuoterlo e convincerlo a disintossicarsi. Senza fortuna.

Nel 1988 esce un disco a firma CSN&Y: non è memorabile, a partire dal titolo, fuori tempo massimo: “American Dream”. Passerebbe inosservato, se verso la fine non fosse attraversato da una lama di luce accecante: un pezzo finalmente, di nuovo, a firma David Crosby. Si intitola Compass. È lui. La chitarra riprende a tintinnare armonie colme di sospensione, la voce è vissuta e dolente. È lì che Crosby parla dei suoi anni gettati via. Sembra un fantasma che sia tornato da un luogo inaccessibile agli altri.

Com’era finito in quel buco nero il principe del raga-rock?

Nel 1965, 24enne, Crosby era nel quintetto-base storico dei Byrds, in quel dream team che avrebbe sfornato lucentezze in serie, dalle rivisitazioni elettriche dylaniane alle visioni spaziali a occhi spalancati. In questo manipolo di pionieri, Crosby era quello più all’avanguardia: le sue composizioni sono quelle più scorbutiche e pensose; oniriche, introverse, acide. “Why”, “Mind Garden”, “Triad” (non pubblicata se non qualche anno dopo) , “Everybody’s Been Burned”. Sebbene il suo spazio aumenti dopo la fuoruscita dell’altro sublime songwriter della band Gene Clark, Crosby sente sacrificata la propria visibilità a causa dell’ego di Roger McGuinn. Lascia i Byrds. Comincia qui la sua personale geografia dell’irrequietezza. Comincia un triennio che lo consacrerà, neanche trentenne, come il leader non di una semplice band, bensì di un intero movimento generazionale. L’incontro con Stephen Stills e Graham Nash, velato di leggenda, consacra il trio come portabandiera di un’epoca nuova. We Can Change The World. Issati nulle navi di legno, le wooden ships, i nostri, paladini a Woodstock con l’aggiunta di Neil Young, agitano la bandiera del sol dell’avvenire.

Dov’era svanita, un decennio più tardi, tutta questa luce? Che dispersione pazzesca doveva essersi verificata per permettere tanto sciupìo? Che fine aveva fatto l’energia di quell’enorme comunità che doveva cambiare il mondo? Woodstock e i bassifondi di San Francisco erano distanti anni luce. Eppure li separavano soltanto una manciata di anni. Anni in cui Crosby, coi suoi baffoni e le giacche sfrangiate, aveva composto capolavori come “Guennevere”, “Deja Vu”, “Almost Cut My Hair”, “Long Time Gone”. Anni in cui aveva sperimentato la vetta e poi il dolore più attonito, perdendo in un incidente stradale la sua compagna Christine: l’onda lunga di questa perdita avrebbe proiettato la sua ombra negli anni successivi. Crosby aveva poi pubblicato uno dei dischi-chiave della generazione dei figli dei fiori, il paradiso dei freak: “If I Could Only Remember My Name”. Una koiné californiana – Jerry Garcia, Grace Slick, Jorma Kaukonen, Phil Lesh, Joni Mitchell, Stills, Nash, Young – a suggellare l’epitaffio. Si appone la ceralacca sul ’68, o forse una pietra tombale, sebbene dorata. Con canzoni celestiali come “Laughing”, “Music Is Love”, “Song With No Words”. È l’atto conclusivo, il punto più alto celebrato su disco di qualcosa che è finito per sempre (proprio mentre sta finendo). Dopo quel disco, è come se si sganciasse dal cielo un pezzo di montagna, precipitando in migliaia di schegge.

Crosby continua con Nash. Ma ascoltare il loro (ottimo) album che ha i loro nomi per titolo, uscito appena un anno dopo “If I Could…”, provoca uno shock straniante. La diga è crollata: loro, sentinelle del futuro, sono come usciti da una sbornia. Lui, David, è il Tiresia che capta gli anni che verranno. Quelli di Crosby & Nash sono dischi belli e desolanti, di reduci, ripiegati si se stessi, canzoni tristi cantate da ex-qualcosa. L’ultimo lampo, una specie di sequel ben simulato, è il disco della barca, nel 1977. In quei solchi ci sono tre meraviglie di Crosby destinate a rimanere le ultime per un bel po’: “In My Dreams”, “Shadow Captain”, “Anything It All”. Qui si chiude uno spesso sipario. Il capitano dell’oscurità prende il timone. David Crosby è un tossico, vive esclusivamente di droga. Non c’è più spazio per i sogni, quelli degli anni ’60 si sono deformati in vaghe ombre spettrali.

A metà degli anni ’80 il mondo si è ormai scordato di Crosby. Qualche giornalista più sensibile (si) chiede dove si sia cacciato. È la figura di un passato prossimo divenuto già remoto, un eroe guastato. Il frutto sbagliato di un’epoca giusta; il frutto giusto di un’epoca sbagliata. Quel che si sa di lui è solo che si è perso, che si è perduto. Il carcere è la sua seconda casa. Non canta più. La sua chitarra non suona più, è coperta da uno strato appiccicoso e opaco di brutte giornate e notti angosciose. Le corde diventano ruggine. Quelle meravigliose accordature aperte traboccanti di suoni e mondi non risuonano più.

Poi arriva “Compass”. I have wasted ten years in a blind-fold. Il processo è stato lentissimo, pieno di tentativi falliti, lusinghe e trabocchetti, rinunce e ricadute. Ma David infine si è aggrappato a una barchetta di legno, non è una nave, ma insomma. Lo aiuta a vivere l’amore per la sua famiglia, la moglie, la figlia. Recupera con vigoroso candore il tempo perduto. Torna a fare dischi: a diciotto anni dall’esordio-epitaffio “If I Could Only Remember My Name”, una vita fa, licenzia un disco il cui titolo è la risposta a quell’altro titolo: “O Yes I Can” (prima di Obama). Dopo solo quattro anni esce un altro disco ancora, “Thousand Roads”. David ha fame di vita come può succede solo a un sopravvissuto. Gli accadono varie cose, come a compensare lo spreco perpetrato. È richiesto come artefice maschile in alcuni casi di inseminazione artificiale, tanto da essere ribattezzato “inseminator”; scopre di essere padre di un giovane musicista di nome James Raymond, avuto da una relazione negli anni ’60; recita nel film “Hook” di Spielberg; entra per due volte nella Rock and Roll Hall of Fame, una volta con i Byrds, l’altra qualche anno dopo con Stills e Nash; si sottopone a un trapianto di fegato rischioso e complesso, poi infine risolutivo. Suona e incide nuovi album con il figlio ritrovato, nel nuovo trio CPR (il terzo, la P, è Jeff Pevar, giovane chitarrista crosbiano). È in tour coi vecchi sodali del pleistocene hippy. Ed eccolo a New York accanto ai contestatori globali del nuovo millennio, a Occupy.

Nel 2014 esce, a venti anni dal precedente, il quarto album a suo nome, “Croz”. Insomma David Crosby è più che mai intenzionato a riprendersi indietro un poco del tempo che ha sprecato. Come un naufrago che ha ritrovato la costa. Può succedere che te lo trovi su un palco, da solo, nella versione più sincera e priva di mediazioni possibile: voce & chitarra. Te lo puoi permettere, se hai qualcosa di importante da raccontare.

Stanze di confine

2

di Emilio Rentocchini

2

A gh’è del gran sgumèdi in gir per l’èra
mèsa sfaltèda e mèsa a prê, la lus
ch’la tàca a tavanèr tra tèra e gèra
la s’ingróggna ogni tant e la s’ardùs
davanti a n’èla scura ch’la la sèra
e a fa sintìr al cèr d’èsers intrùs
in óna guèra a ósta. N’èter dè,
straniér da l’univèrs, as dèsda acsè.

 

Ci sono delle gran sgommate in giro per l’aia
metà asfaltata e metà a prato, la luce
che inizia a vagolare tra terra e ghiaia
s’irrigidisce ogni tanto e si riduce
davanti a un’ala scura che la serra
e fa sentire al chiarore d’essersi intruso
in una guerra alla cieca. Un nuovo dì,
estraneo all’universo, sorge così.

Sul Vulcano: intervista al regista Gianfranco Pannone.

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Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano
Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano
Vesuvio, immagine del documentario Sul Vulcano

Igiaba Scego

Sul vulcano, l’ultimo film documentario di Gianfranco Pannone, [presentato nella selezione ufficiale, Fuori concorso, alla 67ma edizione del Festival del Film di Locarno] oltre a continuare il tour nelle sale cinematografiche di tutta Italia, arriva anche in Home Video distribuito da Cinecittà Luce.

Un film documentario che è un po’ un’eruzione di immagini, colori, parole, visi, citazioni. Il Vesuvio ci appare qui in tutto il suo fulgore di morte e possibilità.

Un viaggio attraverso lava e ricordi che il regista ha compiuto anche partendo dalla sua esperienza personale del vulcano.

Descrivendo le vite di Maria, Matteo e Yole, Gianfranco Pannone descrive uno dei territori più magici e più martoriati d’Italia.

Nazione Indiana: Come ti è venuta l’idea del film?

Gianfranco Pannone: Sono nato a Napoli, ma non ci ho mai vissuto realmente. E questo invece di allontanarmi mi ha avvicinato a lei, al punto che anche con i miei film torno periodicamente nella “mia” città. Per me Napoli è il mondo, anche perché da quelle parti non si mette la polvere sotto il tappeto e la vita viene esaltata in tutte le sue forme. E’ una metropoli, insomma, dove le miserie e le nobiltà sono sotto gli occhi di tutti, così come accade in altre città del Mediterraneo, a Istanbul o a Il Cairo… I miei ricordi dell’infanzia sono ancora vivi: il dialetto, gli odori, quel senso di vita e di morte che si intersecano a ogni istante, in ogni angolo della città, tutte cose che provavo da bambino come da adolescente, quando ero a trovare i miei parenti o le mie ragazze, guarda caso sempre tutte partenopee. Napoli mi incantava e al tempo stesso mi metteva paura e certamente sui miei timori pesava anche la presenza del Vesuvio, che vedevo dal centro della città, a Largo Donna Regina, affacciato alla terrazza dei compari che abitavano sopra casa dei miei nonni paterni. Fantasticavo sul vulcano anche perché erano ancora vivi i ricordi magici e terribili di chi visse in prima persona l’eruzione del Vesuvio nel 1944. Mi raccontava l’altra nonna, quella materna, sfollata con la famiglia non lontano dal cratere, che per via della “pioggia” di cenere seguita all’eruzione (e dopo i cento e più bombardamenti degli angloamericani su Napoli), lei fosse convinta che si era arrivati ormai alla fine del mondo.

N.I.: Ti ha sempre affascinato il vulcano?

G.P.: Sì, i vulcani in genere mi affascinano molto. Ho ancora ben chiaro il ricordo di una notte passata in cima al cratere di Stromboli, che ribolliva a bassa intensità. Fantastico! Senti l’energia che ti entra dentro, però ti percepisci anche molto piccolo, sai che da solo non ce la puoi fare… Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana in particolare c’è una grande fede religiosa, specie negli strati più bassi della popolazione. La fede in Dio e nei santi è una necessità dovuta anche ai capricci periodici del Vesuvio e di fatto finisce col rendere più profonda la gente di quei luoghi, che noi siamo abituati a considerare, invece, superficiale per via dei suoi eccessi teatrali, in realtà, a mio giudizio, solo la facciata di un “male di vivere” ben più profondo. Ecco, il vulcano, restituisce una grande vitalità, non solo perché con le sue “invasioni” periodiche rende la terra più fertile, ma perché ci costringe a fare i conti con ciò che è oltre noi. Un tempo ai piedi del Vesuvio si onorava Dioniso/Bacco, ieri come oggi si pregano le numerose Madonne del posto, San Gennaro e tanti altri santi… Sapevi che Napoli, dopo San Gennaro, conta ben 99 vicepatroni?

Gianfranco Pannone durante la lavorazione del documentario.
Gianfranco Pannone durante la lavorazione del documentario.

N.I.: Come hai proceduto nel lavoro?

G.P.: Mi sono prima documentato sui miti, le leggende e le evocazioni letterarie intorno al Vesuvio, arrivando alla conclusione che sul “formidabil monte”, come lo canta Leopardi ne La ginestra, si potrebbe fare anche una serie di 20 puntate. Allora ho deciso che dovevo diventare un piccolo viaggiatore e ho cominciato a fare il flaneur sopra e sotto il vulcano, ficcando il naso un po’ dovunque, da solo o in compagnia del mio direttore della fotografia e soprattutto amico e complice, Tarek Ben Abdallah, alla ricerca di punti di vista diversi, meno scontati sul Vesuvio. E ho scoperto che i vesuviani conservano una verità delle cose, una genuinità più forte che la gente di Napoli. Se oggi, per esempio, dovessi fare un casting per un film, le persone me le andrei a cercare tra Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Somma Vesuviana, Ottaviano… dove ancora sopravvivono facce vere scavate dal tempo e dalla storia. Napoli, invece, si è imborghesita e anche molto involgarita nell’hinterland. Ha in buona parte perso quella poesia che aveva tanto incantato Pasolini e che, infine, mi ha spinto a fare questo film. Perché Napoli è il mondo, va solo vissuta e “letta” con amore e un pizzico di distanza, per non farsi fagocitare dalle sue affascinanti e pericolose sirene.

N.I.: Come hai trovato i tre testimoni della storia?

G.P.: I miei testimoni un po’ me li hanno presentati gli amici che mi hanno dato una mano durante la preparazione, ma soprattutto li ho incontrati per caso. Matteo, il pittore che dipinge con la pietra lavica, è diventato presto un compagno di strada e abbiamo così trovato il modo di confrontarci diversi mesi prima che cominciassero le riprese. Yole, la cantante “neomelodica” e Maria, che vive nell’azienda florovivaistica di famiglia, sono invece arrivate dopo, le ho incontrate, appunto, facendo il flaneur. In Maria, per esempio, mi sono imbattuto, per così dire, da rabdomante, cercando una villa vesuviana del ‘700 abbandonata, che è proprio di fronte alla casa di lei. Attraversavo le terre intorno alle Vesuvio come si cammina in una sorta di paradiso perduto, ma mai e poi mai sarei potuto arrivare a trovare una strada per il mio film, oserei dire, esistenziale, senza incontrare Maria e le tante altre figure “minori” che contornano il film, sempre in bilico tra razionalità e fatalismo. Un fatalismo generato non solo dalla storia, ma appunto, da un vulcano che da sempre prende e dà.

N.I.: Come mai hai unito documentario e letteratura?

G.P.: Sono rimasto molto affascinato se non addirittura soggiogato dalle tante suggestioni letterarie che “cantano” il Vesuvio, dagli scritti di Plinio il giovane alle parole infuocate di Malaparte… Amo molto mettere insieme cultura “alta” e cultura “bassa”, ecco perché lungo il film i testi di scrittori come De Sade, Marai, Matilde Serao…, affidati alle voci degli attori, si incrociano con le vite vissute di chi con il Vesuvio ci convive ogni giorno. E tra questi ho scelto anche il nume tutelare di Sul vulcano, Giordano Bruno, il monaco filosofo bruciato a Campo de fiori per eresia dall’Inquisizione. E’ lui, nato a Nola, proprio sotto il vulcano, a rappresentare un certo spirito del luogo, uno spirito vesuviano duro a morire, dove vita e morte si intrecciano costantemente e dove il vulcano attivo può essere anche un amico se visto da una certa prospettiva. “Guarda laggiù il Vesuvio, può esserti fratello”, dice in sogno il dirimpettaio Monte Cicala al giovane Giordano che guarda con timore verso il cratere spoglio di vegetazione; una testimonianza letteraria che nel film ho affidato alla voce calda di Toni Servillo. Insomma, il Vesuvio non è necessariamente un nemico, ma al contrario può essere dispensatore di energia positiva. Il problema è che oggi i partenopei hanno dimenticato questa grande sapienza, finendo persino con il costruire le proprie case sulle antiche strisce laviche!

Matteo Fraterno uno dei protagonisti del documentario Sul Vulcano.
Matteo Fraterno uno dei protagonisti del documentario Sul Vulcano.

N.I.: Il materiale d’archivio? Come ci ha lavorato?

G.P.: Volevo fonti d’archivio diverse da come lo conosciamo abitualmente. E le ho trovate scegliendo materiali di repertorio spesso non montati, in particolare alcuni girati dagli operatori dell’Istituto Luce tra il 1929 e il 1932, un periodo curiosamente lungo di bassa attività del Vesuvio poco conosciuto ai più, e quelli americani dei Combat film risalenti al 1944, quando il vulcano si risvegliò nel bel mezzo della guerra. Così, mettendoli in relazione con le riprese di oggi, concepite con il direttore della fotografia fuori da ogni forma di reportage e, dunque, molto attente alla composizione, con la mia montatrice, Erika Manoni, ho optato volutamente per il repertorio sporco, laddove era possibile, lasciando ben visibili gli statici e le ripetizioni di ripresa, dando così maggior risalto ai fiumi lavici di settanta-ottant’anni fa. Di solito si fa il contrario, ma questa volta ho pensato bene di insistere da un lato, con il girato di oggi, su una calma apparente, quasi una suspence, che accompagna la vita ai piedi del Vesuvio “inerte”; e dall’altra parte, sul fronte archivistico, di dare al contrario un sensazione di forte instabilità, quella che “dona” un vulcano visibilmente attivo, restituendo, insomma, al pubblico quella sensazione di non completo, di incerto che si avverte convivendo con una montagna viva.

N.I.: Cosa ti ha regalato questo film?

G.P.: Mi ha regalato la consapevolezza di essere nato in una grande città, in quel “paradiso abitato da diavoli” di cui scrisse qualcuno un bel po’ di tempo fa, inevitabilimente legato alla presenza del Vesuvio. Pensaci bene, nel cuore del Mediterraneo c’è una metropoli, per secoli importante capitale del Sud, che da più di duemila anni vive ai piedi di un vulcano, il quale periodicamente si riaccende anche in modo violento! Ecco perché a Napoli e nell’area vesuviana tutto è in bilico, tutto e relativo… Sai qual è la formula magica dei napoletani? “Se po’ fa!”. Si, si può fare tutto a Napoli, persino accettare il male della camorra. Ed è in ciò la tragedia. Ma – come dire? – il bene lo scopri solo attraverso il male… Un pensiero di matrice cattolica che fa storcere il naso a molti, ma nel quale io, pur da laico, comunque mi riconosco, forse perché, nato a Napoli, sono infine un pezzetto di lava che si è sovrapposta ad altra lava.

N.I: Il vulcano è quello che erutta o il cemento?

G.P.: Ho intitolato il mio film Sul vulcano perché a Napoli e dintorni si vive sopra un cratere geologico e, non dimentichiamolo, anche sociale. Dalle mie parti, negli ultimi decenni in particolare, ognuno ha fatto un po’ come gli pareva, non c’è stata una cultura in grado di preservare i “beni comuni”, la collettività. Intorno al Vesuvio imperversano le case abusive come le discariche e il degrado è un po’ ovunque. Perché tanta criminale trascuratezza? Io credo perché dentro di sé chi appartiene all’area vesuviana porta un male di vivere: prima o poi il Vesuvio si porterà via tutto e allora perché costruire una società migliore? Non bisogna dimenticare però che, per contrasto, esistono a Napoli una cultura giuridica e filosofica che non hanno eguali in Italia; questo proprio in contrapposizione a chi non crede in nulla e in nome di quel nulla crea solo distruzione intorno. E’ vero comunque che, grazie a una connivenza che ha visto agire insieme politica, malavita organizzata e comuni cittadini, ai piedi del Vesuvio ha fatto più danni l’uomo in meno di cent’anni che il vulcano stesso in venti secoli!

N.I.: C’è qualcosa del Vesuvio che ti ha affascinato?

G.P.: Mi affascina comunque la vitalità della sua gente. E’ come se quella ferita aperta sul mondo esterno, che di fatto finisce con l’essere un vulcano, sprigionasse costantemente energia vitale; un’energia inevitabilmente positiva e negativa, che porta con sé bene e male, insomma. Certo a Napoli e dintorni il libero arbitrio non può essere percepito come valore assoluto, si avvertono delle energie che non dipendono solo da noi e che si esplicitano nel credo religioso, al punto che una giovane cantante dichiaratamente lesbica come Yole, una delle mie testimoni, tutta immersa nel mondo di oggi, è una autentica devota della Madonna dell’Arco! Qualcosa che non accade nelle altre città… Lo aveva ben capito anche Rossellini nel suo magnifico Viaggio in Italia. La coppia di borghesi benestanti inglesi, protagonista del film, si ricongiunge finalmente sullo sfondo di una processione giunta al suo apice religioso, come se dalla devozione della gente del posto si propagasse un energia che investe finanche le persone estranee a quella cultura. Siamo non troppo lontani da una religione magica, sincretica… dove l’ambiguità accompagna le cose piccole e grandi della vita, qualcosa che ho cominciato a capire anni fa seguendo Roberto De Simone come assistente volontario al San Carlo e immergendomi nei suoi studi sulla cultura popolare campana. Il Vesuvio è maschio per la letteratura ed è femmina per i contadini, che infatti lo/la chiamano ‘a muntagna. Per me è l’uno e l’altra e non a caso la sua voce l’ho affidata a quel grande attore “androgino” che è Enzo Moscato. Ecco, sono completamente soggiogato dalla natura ambigua del Vesuvio, dove Dioniso come lo yn e lo yang rappresentano uno stesso approdo.

N.I.: E c’è qualcosa che ti ha spaventato?

G.P.:Mi spaventa la facilità con cui i vesuviani dimenticano il buon vivere comune. Mi spaventa certo loro individualismo malato, che a volte può condurli persino all’indifferenza, in un misto di terrore e cinismo che li tiene lontani dal senso di responsabilità che è una componente fondamentale del cittadino moderno. Non dimenticherò facilmente le immagini, riprese da una telecamera a circuito chiuso, di un’esecuzione camorrista avvenuta nel pieno centro storico di uno dei tanti paesoni dell’hinterland napoletano: l’uccisione a freddo di un uomo davanti ad adulti e bambini… Nessuno subito dopo l’agguato si è avvicinato al corpo della vittima, che poteva essere ancora viva, ognuno se ne stava per i fatti propri e questo è difficile da digerire!

Lo racconta, d’altro canto, molto bene Curzio Malaparte ne La pelle, che non a caso ho citato nel mio film: la gente a Napoli si sveglia solo quando accade una tragedia provocata dalla guerra o dal Vesuvio stesso. Allora ecco che scende come lava la collera della plebe; una collera terribile, belluina, che si riversa non solo sui più deboli, ma anche contro il potere, di solito lasciato libero di fare ciò che vuole in cambio di un pezzo di pane. Si racconta che l’ultimo episodio di cannibalismo in Europa fu alla fine dell’esperienza della Rivoluzione francese a Napoli, quando i popolani, per sfregio, si mangiarono alcuni giacobini fatti prigionieri, dopo averli uccisi e cotti sul fuoco. Qualcosa di terribile, che evoca immagini dantesche, come del resto è dantesca la grande “caldara” degli stessi Campi Flegrei, l’altra area vulcanica a rischio eruzione. Perché, non dimentichiamolo, sono gli esperti stessi che da tempo parlano di un possibile risveglio dei due vulcani di qui a un tempo relativamente breve.

N.I.: Hai pensato ad un pubblico per questo film?

G.P.: Ho pensato a un pubblico curioso, non necessariamente colto, magari composto da giovani che sanno ben poco delle magnifiche commistioni naturali e culturali che “vorticano” sotto il Vesuvio. Sono certo che questo pubblico esista, contrariamente alla vulgata che vuole tutti cinicamente indifferenti, oltre che ignari, di ciò che accade intorno a noi. E i riscontri positivi che ho verificato portando il mio film in giro per l’Italia, mi fanno pensare che un po’ di ragione ce l’abbia a essere ottimista, malgrado tutto.

Le foglie di Suez

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???????????????????????????????di Nicola Fanizza

 

 

«A pisciare contro vento prima o poi ci si bagna!». Lo sanno bene i marinai che stanno sulle barche e tutti quelli che vivono sulla costa. Gli abitanti di Mola sono da sempre attenti ai mutamenti del vento e, per estensione, anche al vento in politica. Qui hanno davvero fiuto, arrivano sempre prima degli altri. Appena si accorgono che il vento sta cambiando direzione, diventano, sul piano politico, amplificatori del vento! Tuttavia, per Domenico Sportelli, andare sulla Rotonda a fare la pipì contro vento – sfidando le onde –, era comunque un piacere! Da qui – forse – la sua tendenza a collocarsi sempre contro lo spirito del tempo. Domenico era un uomo franco, un uomo che diceva il vero, usava, infatti, la parresia: ossia il dire la verità, correndo un rischio. Certo, tutto ciò ha comportato per lui parecchi «raffreddori». Si trattava, comunque, degli effetti collaterali, che derivavano da una precisa scelta di vita. Quegli accidenti furono molto importanti nell’economia della sua vita; sono stati, infatti, il viatico che gli ha consentito il transito verso la bella vita, verso una vita sovrana.

Sono ormai pochi quelli che a Mola si ricordano di lui. Eppure questo fiero mazziniano – nato a Conversano il 28 marzo 1888 – per mio padre, che me ne ha raccontato la storia, è stato un autentico eroe: fu l’unico molese a sfidare il fascismo quando il fascismo stava al potere e ne pagò per questo le conseguenze, poiché fu inviato per un anno al Confino di polizia.

Domenico era un bambino dai piedi nervosi. Quando frequentava le elementari, durante le ore pomeridiane, si recava spesso sul porto o sul lungomare. La sua spiccata curiosità lo spingeva ad inserirsi nei capannelli dei vecchi marinai per ascoltare le loro storie. Fu colpito in modo particolare dai seguenti racconti: un pescatore asseriva di aver deviato con una parola magica la direzione di una tromba d’aria che stava per investire la sua barca; un marittimo evocava, a sua volta, la crudeltà di un sottufficiale della Regia Marina che, in occasione di un naufragio – ritenendo che la scialuppa di salvataggio fosse oltremodo carica e che potesse rovesciarsi –, aveva impedito agli altri naufraghi di salire a bordo, tagliando loro le mani con un’accetta; il marinaio più vecchio, infine, raccontava delle sue avventure nel Mar Rosso, diceva che era stato a tal punto colpito dalla bellezza delle foglie  di Suez, – Aglaonema modestum –, da spingerlo a portarle, insieme ai fioroni allo zucchero, dall’Egitto a Mola. Qui quelle foglie – almeno fino agli anni Sessanta – hanno abbellito le case dei molesi. Sono state per molto tempo oggetto di dono reciproco. Ricordo che quando le mie sorelle andavano in visita dai parenti o dalle amiche, bussavano con i piedi, poiché portavano, per l’appunto, le foglie di Suez! Nondimeno, oggi, quelle foglie a Mola non ci sono più. Ciò che rimane è solo il loro fantasma.

Domenico andava spesso anche sul lungomare per osservare le onde. Tentava di isolare nel frastuono delle onde che si infrangevano sulla scogliera le piccole percezioni di una singola onda  che gli stava a cuore. La vedeva avvicinarsi alla scogliera per poi tornare indietro, delusa, tutta bianca d’emozione. E, tuttavia, avvertiva che quell’onda non si arrendeva, poiché riprendeva coraggio e ritornava … Domenico era convinto che  le onde  avessero un’anima, che portassero un carico di mistero, e che avessero voglia di farsi ascoltare. Il guaio è che, benché prestasse la sua massima attenzione alla loro piccole percezioni – non riusciva mai coglierne il senso.

Il mistero delle onde e quei racconti fantastici o cruenti diventavano il fuoco da cui si originavano le sue fantasie. Domenico sognava di fare il marinaio, il pirata – e giammai l’ufficiale – e vedeva, comunque, la sua vita sul mare e nel mare nella speranza di scoprire il linguaggio delle onde.

Nondimeno, dopo aver conseguito la licenza elementare, il padre di Domenico, che svolgeva l’attività di intagliatore del legno, determinò in modo diverso il suo destino, poiché lo inserì nella sua bottega che era ubicata in via  Niccolò van Westerhout.

Quella strada aveva un’anima. Vi era ubicato il Teatro comunale ed era costellata da numerosi palazzi, che erano abitati dal patriziato cittadino. A partire dagli anni Trenta, ha abitato in quella via anche la mia famiglia e mia madre ricordava con nostalgia la sua vitalità. Quella strada era molo importante per lei che veniva da Rutigliano: «lì – diceva – si sentiva meno sola, poiché era un luogo di passaggio e, ancor, di più di incontri».

Quella strada si rivelò importante anche per Domenico. Qui, al n. 26, abitava Piero Delfino Pesce, che a partire dal 1911 aveva fondato il settimanale – e, insieme, la casa editrice – «Humanitas». La vicinanza favorì la loro amicizia. Domenico nei mesi estivi si levava molto presto e verso le cinque del mattino vedeva, a volte, rincasare Pesce, il quale aveva preso l’abitudine di regalare al suo amico intagliatore una copia del suo giornale che era stato appena stampato.

In quanto «Uomo di vasta cultura  e di facile eloquio – così scrive il prefetto di Bari in rapporto del 1929 – che ha avuto largo seguito in specie fra gli elementi giovanili e intellettuali»1, Pesce contribuisce in modo sensibile alla formazione culturale e politica di Domenico.

Quest’ultimo ogni settimana leggeva la gazzetta «Humanitas» e ne discuteva col suo amico direttore. Dopo un lento noviziato, Domenico pervenne a una solida formazione culturale. Rivolgeva la sua attenzione agli autori che cercavano la verità e guardava con diffidenza quelli che erano certi di averla trovata. Ma lo scrittore che maggiormente lo affascinava era Walt Whitman, il quale aveva cantato: «Io sono per coloro che non sono mai stati dominati, / per uomini e donne le cui tempre non sono mai state dominate, / per coloro che leggi, teorie, convenzioni non potranno mai dominare …».

L’avvento del fascismo al potere gli apparve, pertanto, come frutto di un furto, di una spoliazione. E tuttavia tale spoliazione era, anche, frutto della rinuncia dei cittadini italiani a usare la loro sovranità. «Avere una persona che pensa per noi, che ci governa, che si prende cura di noi – diceva spesso Domenico – fa sempre comodo. Poi, è sempre possibile dire che ci hanno ingannati!».

Dopo il 1925/26, con l’instaurazione della dittatura, Domenico, che intanto aveva preso moglie, continua a manifestare la sua ostilità al fascismo. Viene più volte ammonito, ma non si arrende. L’occasione gli viene data dal «Crack Alberotanza»2. La bancarotta fraudolenta, perpetuata nel 1930 dal banchiere Nicola Alberotanza ai danni di un cospicuo numero di risparmiatori molesi, spinge Domenico a ingaggiare la sua ultima battaglia contro il fascismo. Grazie alla complicità dei gerarchi del fascismo pugliese e al vile assenso dei dirigenti locali del Fascio, Edgardo Monetti – commissario prefettizio al Comune di Mola – era riuscito a utilizzare al meglio la sua carica politica e il tessuto dei suoi legami familiari a vantaggio del bancarottiere, arrecando così un grande nocumento agli interessi di numerose famiglie molesi. Preso atto di tale disegno, Domenico si mise in gioco in difesa dei risparmiatori truffati, stigmatizzando, pubblicamente, e in più occasioni la «mostruosa frode»: ovvero l’intreccio criminogeno fra il bancarottiere e i gerarchi del fascismo pugliese.

Lo scandalo Alberotanza si configura come uno spaccato emblematico dell’Italietta del Regime e dei suoi discutibilissimi costumi. Edgardo Monetti, con il suo familismo amorale, appare come il tipico funzionario dello Stato fascista, che riassumeva in sé i tanti difetti e le poche virtù della classe dirigente in camicia nera. D’altra parte, non va dimenticato che il cattolico Arnaldo Mussolini, fratello del duce – come emerge dalle fonti3 fiduciarie dell’Ovra – regalò, sulla scorta del suo modesto stipendio di direttore del «Il Popolo d’Italia», alla sua amante, la scrittrice salentina Maddalena Santoro, un appartamento di ventidue stanze a Firenze, un appartamento a Roma per le sue sorelle; un milione di lire in consolidato, seicentomila lire in contanti e persino una radio dal costo di novemilacinquento lire. Da dove arrivavano tutti quei soldi, ancora oggi, è un mistero!

Per di più Domenico nel giugno del 1930 si trovò, casualmente, a partecipare,  presso il salone del barbiere Lonuzzi, a una discussione sulla crisi che aveva investito l’Italia dopo il crollo della borsa del 1929. Alcuni galantuomini affermarono che l’economia italiana si sarebbe ripresa solo grazie a una guerra. Domemico aggiunse che in caso di guerra, che egli riteneva comunque imminente, lo «Stato avrebbe bloccato i depositi postali per vent’anni»4.

Di fatto ciò che Domenico aveva detto nel salone dei galantuomini diventò subito di dominio pubblico. I risparmiatori, già provati dalla crisi del ‘29 e ancor di più dal dissesto Alberotanza, si recarono in massa il giorno dopo presso l’ufficio postale per ritirare i loro risparmi.

Grazie ai delatori, Domenico fu denunciato alla Commissione Provinciale in quanto «elemento pericoloso all’Ordine Nazionale ed alla sicurezza dello Stato»5. Fu lo stesso Mussolini a determinare la pena. Con ordinanza della Commissione Provinciale in data 14 luglio, lo Sportelli venne assegnato al Confino di Polizia per la durata di un anno e destinato alla colonia di Lipari.

Giunto a Lipari, Domenico visse per un anno in un’atmosfera di meravigliosa inanità. Ebbe, infatti, l’occasione di vivere una seconda infanzia. Viveva un una specie di tempo senza tempo.  L’isola gli piaceva, poiché era investita continuamente dal vento. Ogni giorno con gli altri confinati si recava su un luogo d’elezione della scogliera, dove era possibile sfidare le onde pisciando contro vento. Inoltre, continuò  – con scarsi risultati – nel suo tentativo di individuare il linguaggio delle onde.

Verso la metà del luglio 1931, Domenico, scontata la sua pena, poté tornare a Mola, dove fu sottoposto a «opportuna vigilanza» fino al luglio 1943. Dal suo fascicolo personale – aggiornato ogni tre mesi – risulta che «è da escludersi che si sia politicamente ravveduto»6. E non è un caso che il 9 maggio del 1936, in occasione dei festeggiamenti per la conquista dell’Impero etiopico, i  militanti del GUF di Mola – Gruppi Universitari Fascisti – mettessero alla gogna il nostro Domenico. Gli studenti universitari misero sulle sue spalle una bandiera tricolore e lo costrinsero a sfilare con loro per le vie del Paese.

Il 26 luglio del 1943 Domenico come al solito si levò presto. Si recò in piazza XX Settembre per prendere il caffè al bar Vittoria e scorse sul volto di signor Nino – il proprietario del bar –  un insolito sorriso. Uscito dal bar, incontrò un medico, che lo salutò in modo caloroso. Gli occhi di quest’ultimo erano contornati da un sorriso disarmante. Si trattava, infatti, di un sorriso che di solito viene rivolto alle autorità in segno di rispetto e, insieme, al fine di ingraziarsele. Quei sorrisi gli apparvero incomprensibili fino a quando, entrato nella sua bottega, accese la radio e venne a sapere che il fascismo era caduto.

Di fatto, in quella occasione, i molesi erano stati presi alla sprovvista, non erano riusciti a fiutare il vento. Nondimeno, consapevoli del fatto che il vento aveva concluso il suo giro, amplificarono il nuovo vento: ossia diventarono tutti antifascisti!

Il giorno successivo alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946, Domenico declinò l’invito a impegnarsi nell’attività politica. Il dolore degli anni precedenti non si era ancora lenito e, comunque, voleva mantenere una debita distanza da quelli che lo avevano perseguitato. Quel giorno stesso si recò a passeggiare sulla rotonda. C’erano i ragazzi che come al solito giocavano, ma ciò che lo rese felice fu la vista di un bambino che sfidava le onde, pisciando contro vento!

 

 

 

NOTE

 

1) Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’InternoCasellario politico centrale, Piero Delfino Pesce, b.  3890.

 

2) Per un approccio esaustivo e puntuale al «Crack Alberotanza», vedi: la limpida sintesi dello storico Guido Lorusso, Aspetti e lotte politiche, amministrative e sociali a Mola di Bari tra Ottocento e Novecento, in AA.VV., Omaggio a Piero Delfino Pesce, (a cura del C.R.S.E.C. BA/15), Edizioni dal Sud, Bari 1989, pp. 88-89; la preziosa e toccante testimonianza del poeta e commediografo Tonino Abatangelo, C’era una volta, Wip edizioni, Bari 2011; e, infine, l’appassionata ricostruzione dallo storico e commediografo Michele Calabrese, Il dissesto Alberotanza, in Mola di Bari. Colori Suoni Memorie di Puglia, Laterza, Bari 1987.

 

3) Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’InternoDirezione generale Pubblica SicurezzaDivisione polizia politica, Fascicoli personali,  Maddalena Santoro, b. 1208.

4) Roma, Arch. Centrale dello StatoMinistero dell’InternoCasellario politico centrale, Giuseppe Domenico Sportelli , b. 4922, fasc. 067700.

5) ibidem.

6) ibidem.

 

Nove poesie

2

di Giorgio Ghiotti

La borghesia a perso
ho letto sul muro
di una sperduta stazione
cremasca. Futuro
che con occhio diverso
ci osservi, da lontano
viene l’amore, dalla mano
del ragazzo che ha mancato
un verbo, caduto in errore,
è la prova che abbiamo
tutti perso.

Azulejos e altre poesie #2. Ana Martins Marques

1

azulejo last

 

Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.
Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Nunzia De Palma

Ana Martins Marques nasce nel 1977 a Belo Horizonte. Laureata in lettere, ha pubblicato due raccolte di poesie, A vida submarina nel 2009 (Scriptum) e Da arte das armadilhas (Companhia das letras) nel 2011.
In un’intervista Ana Martins Marques si è descritta con un verso di Marina Cvetaeva: una bambina con indosso un vestito già vecchio, disillusa e allegra. Il verso può essere usato anche per descrivere le poesie dell’autrice brasiliana, che, riflettendo il suo atteggiamento doppio, materializzano la solarità infantile e il disincanto del vestito ora nelle parole ora negli oggetti, duplici anch’essi.
Sia nella prima che nella seconda raccolta il linguaggio assume caratteri dolorosi e salvifici al tempo stesso. Le parole sono ingannevoli, mistificatrici; l’autrice sostiene che, quando scriviamo, partiamo alla loro ricerca, ma siamo sempre noi a cadere nella loro trappola, da cacciatori diventiamo prede. Eppure, come il tavolo della poesia Mesa, le parole sono un suolo che sostiene chi non è ancora caduto, sono l’unica maniera per esprimere la nostra perplessità riguardo al mondo.
A fare da contrappunto ed eco alle parole ci sono gli oggetti che, nella loro muta irradiazione di felicità, appaiono in un primo momento leggeri, una fonte di calore quotidiano. Nella raccolta Da arte das armadilhas l’autrice fa parlare forchette, tavoli, coltelli, orologi, cartoline con una voce inedita, che rivela uno sguardo stupefatto eppure sempre lucido. Anche gli oggetti più innocui, infatti, se guardati attraverso le parole, assumono caratteri inquietanti e dolorosi.
Ana Martins Marques usa versi brevi e poesie concise come un sussurro, che, con la stessa duplicità dell’autrice, risuonano a volte come schiaffi improvvisi.

***

Ho solo parole.
La parola casa.
La parola finestra.
Felice colui che ha
lino, calce, legno.
Felice colui che ha
olio, acqua, catrame, lana.
Io ho solo nomi
verbi, preposizioni, pronomi.
Felice colui che ha
sale, seta, cemento, sangue.
Felice colui che ha una sedia;
io ho la parola sedia.
Felice colui che ha un tavolo;
io ho la parola tavolo.

 

Tenho só palavras.
A palavra casa.
A palavra janela.
Feliz daquele que tem
linho, cal, madeira.
Feliz daquele que tem
óleo, água, piche, lã.
Tenho apenas nomes
verbos, proposições, pronomes.
Feliz daquele que tem
sal, seda, cimento, sangue.
Feliz daquele que tem uma cadeira;
eu tenho a palavra cadeira.
Feliz daquele que tem uma mesa;
eu tenho a palavra mesa.

***

Dei vantaggi di scrivere poesie

Le poesie si possono scrivere in piedi
ma nessuno ha mai scritto
un romanzo in piedi
e questo stare sempre seduti
di certo finisce
per interferire nei romanzi
e non ci sarebbe da meravigliarsi
se ne avesse rovinato
un buon numero

 

Das vantagens de escrever poemas

Poemas podem ser escritos de pé
mas ninguém nunca escreveu
um romance de pé
e isso de estar sempre sentado
certamente acaba
por interferir nos romances
e não será de se estrenhar
se river arruinado
um bom número deles

***

Tavolo

Più importante di avere una memoria è avere un tavolo
più importante di aver già amato in passato è avere un tavolo robusto
un tavolo che è come un letto diurno
con cuore di albero, di foresta
è importante in amore non prendere fischi per fiaschi
ma più importante è avere un tavolo
perché un tavolo è come un suolo che sostiene
chi non è ancora caduto per sempre.

 

Mesa

Mais importante que ter uma memória é ter uma mesa
mais importante que já ter amado um dia é ter uma mesa sólida
uma mesa que é como uma cama diurna
com seu coração de árvore, de floresta
é importante em matéria de amor não meter os pés pelas mãos
mas mais importante é ter uma mesa
porque uma mesa é uma espécie de chão que apoia
os que ainda não caíram de vez.

***

Margine

Alla fine della pagina
come alla fine del mondo antico
c’è un precipizio.

Nonostante chi legga prosa in generale
rischi di più
perché arriva quasi al bordo dell’abisso
attenzione quando si arriva all’orlo di una poesia.

 

Margem

No final da página
como no final do mundo antigo
há um despenhadeiro.

Embora os que leem prosa em geral
se arrisquem mais
porque chegam quase à beira do abismo
cuidado ao chegar à borda do poema.

 

Lo scuru

1

di Orazio Labbate

 scuru_cover_HR (1)Piazza Dante.
Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.
Solo. Io sono da solo, dentro la piazza.
Palpare la morte di un cristiano non m’aggrada, preferisco gustarmela, succhiare fino al midollo il folclore della dipartita siciliana. Quando s’aprono le case, per mostrare il cadavere con la sua pelle screpolata, livida, come di pollo crudo, mi introduco nella camera ardente casalinga, ad odorare quel profumo di gesso friscu. Gli insetti si inerpicano sul ventaglio delle comari, sfilettano impudichi la trama di raso nero e poi si posano sulla bara: legno bello lucidu, di modo che scintilli la cassa dò muortu. Mi brillano gli occhi a ogni ricorrenza, mi brilla l’anima perché io non sono crepato. Le palpebre delle vecchie che si prefigurano la stessa sorte, l’ambiente, che mi porta a benedire il respiro lesto dei miei anni, le conversazioni sottovoce dei presenti:
“Come minchia è morto?!”
“Come se l’è preso u Signuri?”
“Stava in grazia di Dio?”
“Era un disonesto, sa pigghià ìntra u culu”.
“Era a merda, a merda della sua famigghia”.
Mi interesso agli appellativi, mi inorgoglisce discutere del poveretto, in silenzio, mentre la puzza dei fiori e il rancido sole scolorito sui mobili puntella la comicità dello scenario.
Aspetto il buio.

Miti Moderni/ 4: mondi possibili

8
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977
Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977

di: Francesca Fiorletta

Nei mondi possibili non esiste il passato, ciascuno si sveglia ogni mattina con gli occhi lividi e caldi, vuoti di sogni, le ciglia lucenti come una tabula rasa, e le giornate trascorrono tutte uguali, tutte diverse, all’insegna di un infaticabile e soporifero istinto di conservazione, lungo la linea gotica del presente progressivo.

Nei mondi possibili l’amore di giacenza si fa in mezzo alle stelle, col profumo di tiglio e le foglie d’arancio nelle orecchie.

Nei mondi possibili è essenziale l’alveare, il nido preparato coi cuscini per la fuga, la tisana della buonanotte servita fredda, col vino bianco, il bacio d’addio rubato tra i muschi e i licheni della seta.