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Così non va, Veronica

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di

Francesco Forlani

Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno

Giacomo Leopardi

Quando ho visto al telegiornale le immagini di lei, l’infanticida sospetta, caricata su un’auto della Polizia tra le urla dei nuovi turisti del “fait divers” che gridavano “vergogna vergogna”, la prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: cazzo dicono questi! smammare via, tutti, sciò sciò.
Quando ho letto delle dichiarazioni della madre grande della piccola madre, della fierezza di una distanza decennale dalla figlia, ho pensato: vergogna! Nell’uno e nell’altro caso si tratta di “scuorne”, ovvero “vergogna di cui ci si deve vergognare” come ho trovato scritto in rete alla definizione della parola napoletana. La Treccani ci dice: scòrno s. m. [der. di scornare]. – Senso di umiliazione e di vergogna, spesso accompagnato da beffa o dal ridicolo, provocato dal fatto di non essere riusciti in un intento, o dall’essere stati facilmente superati o sconfitti da altri: subire uno s.; con suo grave s. ha perso la causa che mi aveva intentato; è stato un grosso s. per lui vedersi anteposto il suo odiato avversario; addorno D’intagli sì, che non pur Policleto, Ma la natura lì avrebbe s. (Dante).

Negli stessi giorni in cui si protraeva la nuova serie della saga famiglia, ho potuto vedere uno dei film più belli, intensi, profondi, su un caso simile a quello che la stampa italiana inforcava tra le menti distratte dell’italica gente: Sorrow and Joy, film del danese Nils Malmros. La vicenda, autobiografica, racconta l’uccisione della piccola figlia di nove mesi da parte della madre affetta da psicosi, ma soprattutto la ricostruzione della storia d’amore tra i due con il difficile percorso di un ritorno alla normalità.

“Una persona con una psicosi non può essere colpevole, e non si tratta quindi di colpa. Volevo mostrare che l’amore conquista ogni cosa”, ha dichiarato il regista danese Nils Malmros.
Vaglielo a spiegare tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook, al giudice che ha dichiarato a proposito della nostra piccola madre: “non è ragionevole ritenere che di fronte alla tragica situazione di un figlio di 8 anni ucciso in un modo così brutale si rifiuti ostinatamente di raccontare la verità“.

sorrow-and-joy-jakob-cedergren-in-una-scena-con-helle-fagralid-290371-620x350E alla stampa?
In un’intervista allo stesso regista a un certo punto leggiamo: “Quando avvenne la disgrazia, la stampa fu molto discreta: i nostri nomi non vennero mai menzionati nelle notizie. Sapevo che quando la storia del film sarebbe venuta fuori avremmo avuto una reazione forte, ma i media hanno avuto pieno rispetto e così abbiamo deciso di raccontare la verità. No, non mi sono pentito di averlo girato.” (qui l’intervista completa)
Vaglielo a dire tu, lettore e commentatore di giornali, blog, facebook alla Stampa italica.

Nel film, a poche settimane dal tragico evento, assistiamo a una scena che definire marziana sarebbe davvero poco esaustivo.
I genitori degli alunni dell’infanticida vanno a trovare il padre per comunicargli la volontà di tutti i genitori e della scuola di riavere in classe la sfortunata e amata maestra. E sarà proprio questo episodio a dare il via a un percorso lento, di cura in clinica e ripresa della vita activa della donna che la riconquista dell’amore dei due renderà possibile.
Danimarca, eros e civiltà, il marcio non è da voi ma da noi.
Intanto leggo sulla stampa di qualche giorno fa:
“Veronica Panarello, lasciata sola dalla famiglia, riceve la solidarietà della altre detenute: “I vestiti e la biancheria per cambiarsi le vengono dati dalle altre detenute”
La prima cosa che mi è venuta su dalla pancia è stata di pensare: enfin! Almeno loro, ci sono.

La bestiaccia (da “Rogo”)

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di Giacomo Sartori

Anna non riesce a connettere, non sa più nemmeno dov’è, non sa più niente. Sa solo che un fuoco le brucia la carne. Un rogo la scardina, come succede ai tetti che ardono, quando le travi di legno crepitano e si sgretolano, franano su loro stesse. Le sue ossa si stanno staccando le une dalle altre, si dislocano. E lei non può fare niente per fermare quella catastrofe, non può difendersi. Può solo aspettare che la sua coscienza si spenga. Che finalmente la sofferenza cessi.

“Cari bambini dove siete e cosa vorreste da me”

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di Francesca Matteoni

 

Pubblico un breve estratto dal mio saggio Il famiglio della strega sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna, che tratta della relazione fra il famiglio, spirito demoniaco spesso in forma animale, e la strega inglese. Fra tutti i casi, ben noti grazie alla grande produzione letteraria dell’Inghilterra moderna intorno ai processi, questo è forse quello che più mi ha toccato, con la disperazione disarmante di una donna, socialmente accettabile solo come madre, cui una volta persi i figli, non resta che la colpa (f.m.).

 

La strega espiatoria

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di Helena Janeczek

“Senza pietà” anzi di “indole malvagia” è la donna sospettata di aver strangolato il figlio che, davanti al giudice, “tace perché è colpevole”. Questi stralci riportati da tutti i telegiornali e giornali con grande risonanza, sono tratti dall’Ordinanza di Custodia Cautelare che, secondo regole mai rispettate in Italia, non dovrebbe diventare di dominio pubblico. L’amplificazione mediatica ha invece sancito la trasformazione di un’indagine aperta in un processo inquisitorio.

«Se sono stato chiaro, vuol dire che mi sono spiegato male»: il gatto di Philippe Forest

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Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014
Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014
Philippe Forest, Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio Editore, 2014

di: Francesca Fiorletta

Il paradosso del gatto di Schrödinger è definito un “esperimento concettuale”, cioè un esperimento sostanzialmente impraticabile, in natura, ideato e messo a punto nel 1935 per suffragare alcune tesi specifiche della meccanica quantistica.
Brevemente, l’esperimento consisterebbe nel posizionare un gatto in una scatola, dotata di un sofisticato quanto triviale marchingegno, che sprigionerebbe via via delle sostanze più o meno letali per il gatto stesso. Ecco, Schrödinger è arrivato a “dimostrare”, col suo paradosso, che c’è un momento esatto durante la prova, c’è un punto esatto lungo la scatola, in cui il gatto sarebbe contemporaneamente sia morto che vivo, secondo i crismi più dettagliati della meccanica quantistica, ovviamente.
Questo esperimento paradossale, evidentemente, ha molto affascinato Philippe Forest, che da sempre fonda la sua scrittura pragmatica sulla rincorsa di spazio e tempo, sulla rimeditazione continua e imperitura di un unico spazio, di un unico tempo, sulla ricorsività immediata e immateriale di quella che, a ben guardare, può essere considerata l’antinomia ultima, che sta alla base di tutte le ossessioni del genere umano: la vita e la morte.

I fantasmi di Luca Ricci

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di Ornella Tajani

Domestici, familiari, quasi innocui. È il ritratto dei Fantasmi dell’aldiquà che popolano i racconti di Luca Ricci (Napoli, La scuola di Pitagora, 2014), fantasmi d’intérieur che si aggirano in paesaggi privi di una connotazione geografica precisa. L’io narrante e polimorfo mangia sandwich e dipinge staccionate, prende il sole sul prato e sogna piscine in stile David Hockney, prepara biscotti di Halloween e descrive pomeriggi dal sapore di provincia americana. Non ci sarebbe da stupirsi se, accanto al gatto dell’ultimo racconto Il piede nel letto, sbucasse d’improvviso anche l’enigmatico pavone che compare in Penne di Carver, o se la chiazza liquida che si forma nel letto dei due coniugi in Livelli d’acqua non fosse in realtà provocata da un guasto al frigorifero, come in Conservazione, ancora di Carver; nessuna sorpresa se, in una delle cucine di Ricci, si accendesse di colpo una radio «straordinaria» col design curato da Cheever.
Eppure, come si diceva, la latitudine di queste narrazioni è indefinita: sia perché l’attenzione è focalizzata sugli interni piuttosto che sugli esterni («Preferibilmente non si esce mai di casa nei miei racconti», concludeva Ricci in un intervento per la rubrica Usus Scribendi qui su Nazione Indiana), sia perché i fantasmi in generale non hanno indirizzo preciso e riescono a viaggiare nel tempo e nello spazio, in tre moderni minuti necessari a scongelare una pizza al microonde, così come in un battito di ciglia di colore più romantico. Dagli States del XX secolo alla Francia dell’Ottocento: il racconto d’apertura, La lunga attesa, che gioca su un elemento denso di riferimenti letterari come la somiglianza fisica, e crea un tempo coniugale cristallizzato dalla segregazione domestica dopo un funerale, ricorda il Villiers de l’Isle-Adam dei Contes cruels, in particolare quello di Véra, rivisitato però in chiave hitchcockiana; Uscita in giardino, col suo trompe-l’œil troppo attraente per essere completamente finto, solleva una nebbia di mistero in stile Vénus d’Ille di Mérimée. Il fantastico va per la sua strada, viaggiando su un binario parallelo, quasi ucronico, un po’ come gli amici immaginari dell’omonimo racconto, o come il gatto del già citato Il piede nel letto, che appartengono a dimensioni altre, a mondi che la realtà incrocia a tratti e spesso poi abbandona. Come scriveva Calvino su Repubblica, in una vecchia recensione che del fantastico era una piccola enciclopedia, a volte «il soprannaturale è solo in una connessione o sconnessione misteriosa che si delinea tra i fatti di tutti i giorni». Lo sa bene Ricci, per il quale il mistero può risolversi in una sorta di sospensione narrativa, oppure è utilizzato come un ironico grimaldello, che apre a interpretazioni dei fatti molto più concrete: è il caso di La prima bugia, oppure di Ikebana, che si chiude su un finale dal silenzio pinteriano.
Il testo che più di tutti resta impresso, però, è forse L’eclissi. Se il Nuotatore di Cheever compiva un viaggio a nuoto verso il disincanto (di recente Forlani ha proposto per il cinédimanche l’adattamento cinematografico con Burt Lancaster), il protagonista di Ricci esce dal racconto dalla stessa finestra attraverso cui era entrato: ne esce correndo, pensando che “aveva voluto provarci”, e smette di correre soltanto quando è ormai troppo lontano per tornare indietro, così come il nuotatore smette di prendere a pugni la porta della casa quando capisce che l’abitazione è vuota.
Solitudine, bugie, routine, incomunicabilità, tradimenti, senso di inadeguatezza: sono loro, fra gli altri, i fantasmi dell’aldiquà che l’autore convoca in questi racconti brevi, misurati, linguisticamente cristallini e sempre dotati di quella particolare carica elettrica che solo il fantastico, quotidiano e non, sa fornire.
Postfazione di Umberto Silva.

cinéDIMANCHE #09 JONAS MEKAS As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

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 di Mariasole Ariot

Faccio film di famiglia, quindi vivo. Vivo, quindi faccio film di famiglia
Jonas Mekas

Un diario è segnare (o sognare) tracce per poterci poi tornare, ricalpestare le impronte sulla neve, ri-scrivere una vita sulla vita, costruirne una seconda, darle forma per il dimenticabile che si prepara a lasciarci un istante successivo all’accadimento.

Fragments of paradise – dice : un accesso alle zone intoccabili, indicibili, che raccontano una storia senza storia, la restituiscono con un gatto che si scosta, un letto rifatto, due more che verrano mangiate, un caffé, una parata. I frammenti di vita si slegano dalla cronistoria per mescolarsi, restituendoci particelle di voci e di suoni e visioni e immersioni interstiziali.

The first idea was to keep them chronological, but then I gave up […] because I real don’t know where any peace of my life really belongs

Siamo nei margini, nell’esilio di chi ha lasciato la propria terra – la Lituania, nel villaggio di Semeniškiuose dove Mekas è nato, cresciuto e da cui è fuggito durante l’occupazione stalinista – per fare i conti con il sopravvissuto.
Non nostalgia del perduto ma nuova narrazione di un trascorso impossibile a perdersi, e che deve essere rievocato. I filmini familiari s’intrecciano al ciò che sta fuori – due bimbi che catturano gli animali dai fiori, la sabbia soffiata dalle mani, una fisarmonica a Soho :

About a man whose lip is always trembling from pain and sorrow experienced in the past which only he knows

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Jonas abbandona la sua terra con il fratello Adolfas nel 1944 : classificati come sovversivi per la partecipazione ad un giornale anti-regime, nel treno che li portava a Vienna, vengono intercettati : sono gli anni dell’Elmeshorn, a Displaced Person Camp.

Sono gli anni delle poesie, sono diari, sono lettere. I Had Nowhere to Go verrà pubblicato nel 1991.

[…]Nessuno ci sta guardando mentre leggiamo o scriviamo, nessuno urla o grida. I mostri di Bosch se ne sono andati., scrive al fratello da WiesBaden.

Il 1949 è l’America. Dal diario ai film-diary, dai film-diary ai diary-film.

Diari che contengono la metamorfosi, permettono la trasformazione dell’esserci senza che la metamorfosi crolli nella deformità : e Mekas, passato alla forma filmica del cinediario, diventa occhio che guarda ma che guardando non si sottrae dall’essere guardato : Mekas entra nella pellicola : con la voce, con gli intertitoli tra una scena e l’altra, entra con una mano, un movimento del braccio, un passaggio di strumento che lo riprende, rimescola le parti, le date si sovrappongono, accadono inversioni, spostamenti temporali : è riscrivere una vita. La propria di displaced person ritrovando in una memoria che da intima si fa collettiva, un posto che gli era stato sottratto. As I was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) è forse la composizione del lavoro di tutta una vita.

Non un attaccarsi al passato senza elaborazione del lutto, ma un’elaborazione del passato che lotta in direzione del vissuto.

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I centri del triangolo: migrazione e neocolonialismo in Sicilia

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di Stefano Portelli

Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendone della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine. Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abitanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “triangolo della morte”, anche se non ha mai ottenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scandali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inquinamento che sembra irreversibile: un bambino su venti nasce con una malformazione, e un adulto su tre muore di tumore. L’aria brucia al respirarla e all’orizzonte brillano scure le fiamme sulla punta delle ciminiere. L’Etna è a cinquanta chilometri, ma raramente si vede, avvolto nella spessa bruma bianca; a volte, al porto, gli operatori sono invitati a mettersi al riparo perché una nube gialla di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stranieri.

Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Una delle mie prime domande è stata: ma perché li chiamiamo così, se del centro questi luoghi non hanno nulla? L’unica cosa che si può affermare con certezza di essi, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre. La vicinanza all’Africa, che oggi significa immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere – proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per svelare oscuri piani di sviluppo industriale.

Stessa cosa avviene per i centri. Quello che vi succede dentro, in genere, non filtra all’esterno, e se filtra, lo fa in una forma che ha poco a che vedere con quello che vive chi ci abita. Innanzitutto, bisogna abituarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” qui – tutti maschi, e di diversi paesi – parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di inglese, arabo e italiano, mischiati con qualcosa dei vari dialetti siciliani. Una parola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle prime pensavo che fosse siciliano, e che l’avessero sentito da qualche operatore del posto. Ma la parola ha una storia più strana, come ho scoperto in seguito: i subsahariani l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigionia, e l’avevano portata qui, diffondendola nel campo, molti pensando addirittura che fosse arabo di Libia. Non era arabo: era una parola italiana antica, che da noi ha assunto tutt’altro significato, ma che è rimasta in Libia anche dopo l’espulsione degli italiani nel 1970. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evocano frammenti sommersi del colonialismo.

Questa sensazione è diventata ancora più forte quando mi sono accorto che nessun migrante chiama il luogo in cui è ospitato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, ovviamente, in Europa è una parola vietata: smuove troppe memorie e associazioni che vorremmo mantenere lontane (tranne che per i campi rom…). Con il tempo ho notato poi che i ragazzi chiamano campi anche molti dei luoghi in cui sono rimasti intrappolati in Libia, posti di violenza estrema, di cui molti ancora portano le tracce sulla pelle. Il parallelo in loro sorge spontaneo, tra i campi o le prigioni per rifugiati istituiti da Gheddafi per trattenere i migranti (in cambio dei finanziamenti italiani) e i nostri centri di primo soccorso, che amiamo rappresentarci come luoghi di salvezza dopo le violenze che hanno sofferto in Africa. È chiaro invece che la frontiera è molto meno definita di quanto vorremmo, e che in Europa questi ragazzi si ritrovano di nuovo in dei campi, governati da una variante più sottile, ma ugualmente strutturale, della stessa violenza che hanno sofferto nel resto del viaggio. E dal colonialismo passiamo al fascismo – visto che i primi campi di concentramento del XX secolo sono proprio quelli che i fascisti italiani istituirono in Libia per rinchiudervi gli sfollati della Cirenaica durante la rivolta di Omar Mukhtar.

Si potrebbe continuare. Perché tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno – emergenza, trafficanti, minori – nascondono una menzogna, mistificando una struttura perversa e discriminante che ha radici antiche e profonde: un occulto dispositivo di segregazione, che continuamente si sposta, si frammenta, si ridefinisce, per poter rimanere incomprensibile e inafferrabile. Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia; presto da qualche altra parte, in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di questo sistema cambia continuamente; capirne a fondo uno qualunque richiederebbe una vita intera. Perché, per esempio, se i ragazzi dovrebbero stare in questi centri di emergenza massimo tre giorni, quasi tutti ci passano moltissimo tempo, anche nove o dieci mesi? C’è chi dice che mancano i posti nelle comunità di accoglienza; altri dicono che è perché la legge non chiarisce chi deve pagare le rette o i trasporti verso i nuovi centri; altri ancora che sono le cooperative che preferiscono mantenerli più a lungo, per guadagnare di più sui fondi pubblici per l’accoglienza. Ogni tanto qualche centro chiude per infiltrazioni mafiose, o circola qualche voce (quando non vere e proprie operazioni di polizia) sui legami tra qualche cooperativa e qualche politico. In ogni caso, il comune di Augusta da un anno è commissariato per mafia, e questo naturalmente rende ogni passo molto più faticoso. C’è anche chi dice che tutti questi sono solo stereotipi, e che quarantacinquemila migranti in un anno sarebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quarantamila abitanti; o anche che, vista la situazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. La settimana scorsa, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro.

Un altro aspetto è che – a differenza di quanto succede in altri centri di primo soccorso, come a Pozzallo, dove a volte i migranti non possono uscire neanche nel cortile – i centri della provincia di Siracusa sono tutti più o meno aperti. I ragazzi sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, anche di “scappare”, se questa parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (cioè, la metà dei migranti che arrivano in Sicilia) non passano mai per i centri: appena sbarcano contattano un taxi o cominciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord. Anche questo cambierà presto, con i nuovi regolamenti dell’Ue; per ora però arrivano nei centri solo persone del Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, le due Guinee, Bangladesh (tutti attraverso la Libia), e poi gli egiziani. Circa uno su tre di loro finisce comunque per scappare, magari per raggiungere qualche familiare al nord; gli altri rimangono, anche se i cancelli sono aperti, e per mesi aspettano che arrivi il famoso transfer verso una comunità di accoglienza per minori non accompagnati, che si faccia carico della regolarizzazione dei loro documenti, e che permetta loro di iniziare ad andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speranza, o anche la voglia, di andar via un giorno da questi centri.

È chiaro che queste sono istituzioni totali: quello che non mi è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, di segregare, di allontanare? Non vogliono forse anche educarli all’attesa, all’esclusione, abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento? A questo si aggiunge anche un altro elemento, legato alla minore età, che spesso è solo dichiarata strategicamente per ottenere più facilmente il permesso di soggiorno. Spesso chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, finisce per infantilizzarli; anche perché così rispondono meglio allo stereotipo di vittime di cui l’Europa ha tanto bisogno. In breve: se molti avevano pensato di essere arrivati in qualche posto, quando sono stati sbarcati ad Augusta, questi centri gli insegnano che c’è ancora molto viaggio da fare.

Sicuramente il tempo in questi luoghi è uno strumento di esclusione: i tempi si dilatano all’infinito, la quotidianità è dominata dall’attesa, e la ripetizione e la mancanza di fiducia nel futuro generano malessere, anche vere e proprie malattie (una variante dell’institutional neurosis descritta da Russell Barton, mezzo secolo fa). Ma lo spazio è un fattore di cui si parla meno, e che va oltre il fatto che i centri siano ubicati in luoghi malsani. Per cominciare, nessuna di queste strutture è nata per essere quello che è: una era un vecchio albergo, un’altra clinica per anziani, una deposito di taxi, un’altra ancora una scuola abbandonata. L’amministrazione comunale e le cooperative sociali hanno adattato i luoghi per alloggiarvi i minori. I ragazzi stendono i panni sulle reti di recinzione; le camerate hanno ancora i disegni dei bambini attaccati alle pareti; la reception della clinica è occupata dalla polizia; una tettoia per i taxi diventa una moschea, e i ragazzi usano il lavandino del bar dell’albergo per lavarsi i piedi. Tutto trasmette un messaggio di provvisorietà, che però governa le loro vite per mesi e mesi.

Allo stesso tempo questa riconfigurazione dello spazio è anche una crepa attraverso cui penetra un processo inverso: quello dell’appropriazione. Anche se le varie ONG che lavorano qui, e a ragione, spingono perché i ragazzi non mettano radici, e che siano sempre pronti al trasferimento, quello che rende la loro vita meno miserabile sono proprio questi processi di continua presa di possesso e ridefinizione – individuale e collettiva – dei luoghi. Vivendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i migranti costruiscono degli usi dello spazio che i lavoratori del centro finiscono per accettare, anche se spesso malvolentieri. Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono apertamente sovversive, come i piedi nel lavandino, rappresentano comunque delle strategie di contestazione e affermazione della loro presenza qui. È una variante di quello che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio indeboliscono delle potenziali istituzioni totali, ponendo freni alla loro pretesa di controllo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita sociale.

Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Nella logica dell’emergenza, quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquanta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidare la sua gestione a una cooperativa sociale. Le pessime condizioni igieniche della struttura e le continue lamentele degli abitanti del paese hanno portato il caso all’attenzione dei giornali e delle televisioni; le foto dei ragazzi di quindici anni “abbandonati” in cortile tra la spazzatura e i vetri rotti, così come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui dormivano diciasette persone, erano ideali per accompagnare gli articoli di denuncia usciti addirittura sul National Geographic e sul Wall Street Journal. Quest’ultimo ha intitolato il suo articolo su Augusta In Italy Migrant Children Languish in Squalor , usando lo stesso verbo che qualche settimana dopo ha usato Al-Jazeera per le prigioni libiche (Libya Migrants Languish in Camps). La pressione pubblica è arrivata al punto che, con l’occasione di una visita di delegati dell’Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti i ragazzi in un altro centro – sempre dentro il “triangolo della morte”. Abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo, visto che la nuova struttura aveva condizioni igieniche molto migliori, e una cooperativa che si sarebbe incaricata dei ragazzi. Ad Augusta i ragazzi rimanevano soli tutta la notte; c’erano episodi di violenze tra loro decisamente inaccettabili, al punto che molti non riuscivano a dormire. Inoltre, c’era gente del paese che entrava nella scuola senza nessun tipo di controllo, implicando i ragazzi in traffici illeciti, o in chissà cosa.

Ma quando ho visitato il nuovo centro per la prima volta, ho capito che l’igiene era l’altra faccia del proposito evidente di ristabilire l’ordine. Oltre venti tra poliziotti e finanzieri, armati, stazionavano giorno e notte all’interno della struttura, con le macchine e i furgoni parcheggiati davanti all’ingresso, passeggiando liberamente per i corridoi; a volte entravano addirittura nelle stanze, manganello alla mano, quando c’erano risse tra i ragazzi. La pulizia del centro riposava la vista; ma il trattamento era molto rigido, e i ragazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idealizzare Augusta nei loro ricordi. Per quanto degradata e priva di controllo, la scuola era al centro del paese, e da lì era facile incontrare ragazzi italiani della loro età, giocare a calcio nel parchetto, addirittura conoscere qualche ragazza. Queste relazioni, per quanto poco adatte a una situazione di emergenza (e confuse con altre molto meno positive), avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Italia, non solo stipati all’interno di un campo: di prendere confidenza con il nuovo paese, di passeggiare per le strade – certo, anche di mendicare gli spicci per comprarsi una scheda del telefono, che il centro non forniva più; ma anche di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo centro sono invece quasi completamente isolati, in mezzo a un’urbanizzazione semideserta, lontano da tutto, accanto a un ospizio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo, contrariamente alle loro aspettative, non hanno schede per telefonare a casa. Quindici giorni dopo il trasferimento, un gran numero di ragazzi del Gambia ha scatenato una piccola rivolta, distruggendo i condizionatori d’aria e scrivendo sulle pareti. Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltare le loro richieste, né ad osservare le reazioni dei lavoratori del centro o delle forze dell’ordine. Almeno finché qualcuno non ha scoperto che anche la cooperativa che gestisce questo centro è implicata in traffici mafiosi.

Possiamo fare supposizioni, ma ci è assolutamente impossibile capire cosa significhino questi luoghi per queste persone. Nei centri entra solo chi è legato alle associazioni o alle cooperative, e nessuna finora ha espresso una volontà reale di comprendere meglio cosa percepiscono i migranti. Chi è dal lato dei subordinati deve sempre fare grandi sforzi per capire i dominatori; ma i dominatori considerano futile e quasi offensivo doversi sforzare per comprendere cosa pensino i subordinati (lo spiega bene David Graeber nella Malinowski Lecture del 2006). Un giorno, senza dubbio, qualcuno di questi ragazzi scriverà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una categoria burocratica, “minori migranti non accompagnati”, riveleranno la loro vera natura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fonderanno nuove città in nuove terre. Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triangolo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo passava tranquillo, anche se vuoto? O forse quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non essere trasformati in animali?

[questo articolo è uscito in spagnolo su Observatori d’Antropologia del Conflicte Urbà e in italiano su Napolimonitor.it]

Cioran, agonia di un reazionario

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di Mario Sammarone

Per i tipi della casa editrice Bietti è recentemente uscito il libro di Emil Cioran, L’agonia dell’occidente – lettere a Wolfgang Kraus (1971-1990), un carteggio intercorso tra lo scrittore rumeno e il critico ed editore austriaco Wolfgang Kraus, con l’aggiunta, in appendice, di altre due lettere scritte dalla compagna di Cioran, Simone Boué, ed estratti del diario di Kraus che vertono sulla figura stessa di Cioran – la scoperta e la conseguente trascrizione di questo carteggio si deve a George Gutu, avvenuta in maniera casuale durante lavori di ricerca presso l’Archivio Letterario della Biblioteca Nazionale di Vienna.

Celebrare Sade

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di Alberto Brodesco

Convegno SadeIn queste settimane, trascorso da pochi giorni il bicentenario della morte (3 dicembre 1814), sono in corso in diversi punti d’Europa degli eventi in celebrazione di Sade. Una prima importante iniziativa è la mostra “Sade. Attaquer le soleil” al Musée d’Orsay di Parigi, curata dalla grande studiosa sadiana Annie Le Brun. Una seconda mostra, “Sade, un athée en amour”, è organizzata alla Fondation Martin Bodmer di Ginevra per la cura di Jacques Berchtold e Michel Delon, la massima autorità in materia. La prima esposizione va in cerca di Sade trovandolo dappertutto (nei dipinti di Goya, Géricault, Ingres, Rodin, Picasso…); la seconda, più filologica, esibisce manoscritti originali, illustrazioni d’epoca e altri reperti storici quali il calco in gesso del cranio di Sade. Alla dimensione espositiva si sommano poi le iniziative accademiche: un convegno a Parigi (“Sade en jeu”, 25-27 settembre) e uno a Aix-en-Provence (“Les lieux de la fiction sadienne”, 23 ottobre). I risultati scientifici della recente ondata di studi sadiani sono talvolta sorprendenti, come quando, nel corso di una sessione dal titolo “Sade auteur comique?” del convegno parigino, la sala si è trovata a ridere alla lettura di alcuni passaggi particolarmente barocchi delle 120 giornate di Sodoma. Un terzo convegno ad Amsterdam (“Sade Today”, 2 dicembre) ha individuato in Sade un “teorico queer” ante litteram. Gli approcci francesi e quello olandese mostrano delle sostanziali differenze di impostazione: i primi, pur lasciando spazio a ipotesi non convenzionali, partono dall’analisi dei testi; l’altro apre le porte all’attualizzazione e alla libertà interpretativa.

Indicando due direzioni diverse, questi orientamenti scientifici sollecitano considerazioni più generali sulla questione del rapporto della contemporaneità con Sade. Dietro alla possibilità stessa di mostre e convegni, dietro all’odierna divulgazione sadiana o al Sade divulgato stanno infatti due fattori distinti e complementari. Il primo è il secolo e più di lavoro critico su Sade – diciamo da Maurice Heine in poi. Il secondo è una società profondamente cambiata rispetto ai tempi in cui stampare Sade portava a processo gli editori (va ricordato il coraggioso Jean-Jacques Pauvert, morto quest’anno). La convergenza di queste due spinte permette agli organizzatori del convegno di Amsterdam di tenere la loro sessione pomeridiana sul palco del teatro erotico “Casa Rosso” dell’omocromatico quartiere. La disinvoltura con cui si può oggi parlare di Sade si inserisce nel complessivo sdoganamento non solo della pornografia ma anche dell’immaginario BDSM come legittimo oggetto culturale, persino alla moda. Se Sade è stato per molto tempo un corpo estraneo, inammissibile, ora lo si può considerare finalmente uno scrittore, di cui gli specialisti sono autorizzati (e finanziati) a parlare.

Ma quale Sade esce da queste celebrazioni? Se nemmeno Sade, che segna un non plus ultra nella storia della cultura occidentale, si sottrae all’integrazione nella società dello spettacolo, che cosa ha la possibilità di rimanerne fuori? Era la stessa Annie Le Brun curatrice della mostra al Musée d’Orsay a parlare in passato di una “straordinaria resistenza di Sade allo spettacolare”. E invece oggi intorno a Sade si organizzano esposizioni, rassegne di film, un quiz online su The Guardian… Sade diventa addirittura il personaggio di un popolare videogame, Assassin’s Creed Unity. È banale dirlo, ma i quarant’anni che son trascorsi da Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove Pier Paolo Pasolini utilizzava l’inassimilabile Sade proprio a fini anti-spettacolari, hanno prodotto delle conseguenze che caricano di ulteriore forza le argomentazioni pasoliniane. In una società in cui la provocazione è il nuovo conformismo, la sparizione dell’osceno, trasformatosi nell’on-scene di cui parla Linda Williams, porta con sé la scomparsa di uno spazio etico, quello che induce a lasciare dei contenuti al di fuori della scena.
Nel periodo eroico del surrealismo Sade è stato essenzialmente un ispiratore di cattivi pensieri. Schierarsi dalla parte di Sade voleva dire non solo épater le bourgeois ma anche difendere l’indifendibile, sedersi dalla parte del torto. In un testo del 1929-30 dalla strana, paradossale attualità – una lettera mai arrivata ai destinatari intitolata “Il valore d’uso di D.-A.-F. de Sade” –, Georges Bataille tenta in modo complesso e disordinato di liberare Sade dalla trappola dei suoi ammiratori letterari per restituirlo al campo dell’azione rivoluzionaria. Sade è ancora oggi un “prossimo nostro” non per il piacere dello scandalo che sa provocare ma per quanto in esso rimane repellente, per ciò che costringe ad abbandonare la lettura o la visione. Il recupero della forza politica dell’osceno passa per l’apparizione dell’insopportabile e dell’inguardabile.

Se me li sono persi: “Ritornati dalla polvere”

3

Bradbury, copertina, fronte

di Eugenio Lucrezi

RAY BRADBURY, Ritornati dalla polvere, traduzione di Giuseppe Lippi, strade blu Mondadori, Milano 2002

È di questi giorni la notizia del ritrovamento di un nutrito corpus di epigrammi di Posidippo, poeta alessandrino che nel terzo secolo gareggiava per fama con Callimaco. Fino ad oggi di lui rimaneva, insieme ad una ventina di frammenti inclusi nell’Antologia Palatina, poco più che il nome, sbiadito dalla povere del tempo. Se di colpo Posidippo è diventato il poeta meglio conosciuto del suo tempo lo si deve alle cure, devote quanto quelle profuse dagli antichi imbalsamatori nel compiere l’operazione inversa, con cui oggi si scartocciano le mummie egizie; ed al fortunato ritrovamento, tra le fasce di una di queste, di un metro e mezzo di papiro recante i segni, fissati in eterno dalle resine, di centocinquanta epigrammi.

Ben altro destino toccava, nell’epoca dell’immenso impero britannico, alla gran copia di sacchi d’ossa e catrame pescati nelle tombe, che venivano usati senz’altro, per la loro eccellente infiammabilità, come combustibile per le caldaie dei treni. Così il Nefertiti-Tut-Express attraversava veloce la valle dei Re, mentre «i fumi neri che riempivano l’aria erano infestati dai cugini di Cleopatra che bruciavano». Ce lo dice Bradbury all’inizio di questo romanzo macabro e gentile, che portando le mummia nelle atmosfere country dell’Illinois ci sorprende almeno quanto a suo tempo ci spiazzarono i Clash di Rock in the Casbah, seppure all’incontrario.

Come le Cronache marziane, che nel 1950 segnarono il folgorante esordio di questo autore, From the dust returned risulta dall’accorpamento di più racconti; come «la grande armada di polvere sepolcrale» che ne affolla le pagine, proviene da un lontano passato, addirittura dal 1945, quando le prime pagine di questa che oggi è una sola, magnifica, narrazione videro la luce su una rivista pulp alla quale il venticinquenne Ray vendeva le sue visioni per mezzo centesimo a parola. Cinquantacinque anni sono tanti, come pochissimi sono i nove giorni impiegati per la prima, pressoché definitiva, stesura di Fahrenheit 451, il suo libro più famoso (non il più bello): ma ogni racconto ha la sua storia, e poi l’idea dei pompieri mandati in giro a bruciare i libri piuttosto che a spegnere gli incendi gli venne ai tempi di McCarthy, in piena caccia alle streghe, e non c’era un minuto da perdere.

Questo romanzo di undici lustri ci dà conto del raduno di una multiforme famiglia di fantasmi in una grande casa «che aveva preso forma come un sogno di Ramsete completato da Napoleone» su una solitaria collina del nuovo mondo; dell’orgiastica festa e delle bizzarre avventure cui danno vita i non morti, lì convenuti dai più remoti angoli del globo per testimoniare gli oscuri ricordi «su cui l’umanità ha costruito nuovi edifici di carne»; infine della precipitosa fuga cui gli spettri sono costretti dalla marea crescente dell’incredulità umana, dall’onda della noncuranza che tutto cancella.

In una di queste pagine memorabili, Bradbury elenca i suoi maestri, che sono Shakespeare e Poe, Dickens e Kipling. Non è un caso che questo scrittore sia stato uno degli autori preferiti di Sergio Solmi, amico della science-fiction e del Leopardi del Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch.

da Diario, 14 giugno 2002

Azulejos e altre poesie #1. Adília Lopes

2

pessoa
Tre giovedì in portoghese per tre poetesse contemporanee: Adília Lopes (Lisbona, 1960), Ana Martins Marques (Belo Horizonte, 1977) e Golgona Anghel (Alexandria, Romania, 1979). Una selezione di poesie – ancora inedite in italiano o già introvabili – presentate e tradotte da Serena Cacchioli e Nunzia De Palma.

Smartphoto di Nunzia De Palma.
[ot]

a cura di Serena Cacchioli

Ancora prima dell’opera di Adília Lopes, bisognerebbe studiare il lettore di Adília Lopes. Ne esistono varie tipologie. Lopes ha lettori appassionati di poesia, lettori che in genere non amano la poesia ma adorano la sua, lettori legati in maniera ombelicale alla propria infanzia e a quella degli altri, lettori poeti e lettori bambini. Ha anche lettori che sono famosi critici letterari: c’è chi la ama con alcune riserve e chi incondizionatamente. Certi critici la ignorano di proposito, altri la osannano. Lei continua sulla sua strada, apparentemente incurante, va in televisione, si affaccia sul pubblico con quel suo sguardo acceso, senza mai lasciare intendere quanto di lei sia personaggio e quanto invece è reale.
Il mondo immaginario di Lopes è spesso grottesco e primitivo, fatto di proverbi, detti popolari, di lessico legato all’infanzia e agli oggetti domestici. A volte, però, d’improvviso l’autrice lascia cadere tra le sue parole riferimenti letterari inaspettati e pieni di grazia. La sua forza espressiva sta esattamente in questo, nel saper mescolare con sapienza il colto con il popolare, il triviale con l’elegante, lasciando il lettore spiazzato e privo di riferimenti o punti cardinali su cui poter contare per costruire un’opinione sensata. Con Lopes il giudizio critico si sospende, i rimandi a una tradizione poetica portoghese o internazionale si fanno confusi e ingarbugliati, non resta che abbandonarsi al suono, alle immagini e al riso amaro della sua ironia.
Le poesie che propongo in italiano sono tratte dalla raccolta Obra (Opere) pubblicata dalle edizioni Mariposa Azual (Lisbona) nel 2000; per ogni poesia indicherò la data di composizione. In Italia finora è stato pubblicato un solo suo libro, Il poeta di Pondichéry, uscito nel 1988 per Empiria, a cura di Carlo Vittorio Cattaneo.

 

***

Elisabeth se ne è andata
(con alcune cose di Anne Sexton)

Io che sono già andata dalla colazione alla follia
io che mi sono già stufata di studiare il codice morse
e di bere il caffelatte
non posso stare senza Elisabeth
dottoressa, perché l’ha licenziata?
che male mi faceva Elisabeth?
a me piace che sia solo Elisabeth
a lavarmi i capelli
non sopporto che lei dottoressa mi tocchi la testa
io vengo qui dottoressa solo
per farmi lavare i capelli da Elisabeth
solo lei sa i colori gli odori la viscosità
che amo nello shampoo
solo lei sa come mi piace l’acqua quasi fredda
che mi scorre su tutto il capo
e non posso stare senza Elisabeth
non mi venga a dire che il tempo cura tutto
contavo su di lei per il resto della vita
Elisabeth era la principessa delle volpi
avrei bisogno delle sue mani nella mia testa
ah e se solo avessi un coltello per tagliarle la
gola dottoressa io non torno
al suo tunnel antisettico
sono già stata bella una volta ora sono io
non voglio essere chiassosa e sola
di nuovo nel tunnel che ha fatto a Elisabeth?
Elisabeth se ne è andata
ed è tutto quel che ha da dirmi dottoressa
con una frase così in testa
non voglio tornare alla mia vita

 

A Elisabeth foi-se embora
(com algumas coisas de Anne Sexton)

Eu que já fui do pequeno-almoço à loucura
eu que já adoeci a estudar morse
e a beber café com leite
não posso passar sem a Elisabeth
porque é que a despediu senhora doutora?
que mal me fazia a Elisabeth?
eu só gosto que seja a Elisabeth
a lavar-me a cabeça
não suporto que a senhora doutora me toque na cabeça
eu só venho cá senhora doutora
para a Elisabeth me lavar a cabeça
só ela sabe as cores os cheiros a viscosidade
de que eu gosto nos shampoos
só ela sabe como eu gosto da água quase fria
a escorrer-me pela cabeça abaixo
eu não posso passar sem a Elisabeth
não me venha dizer que o tempo cura tudo
contava com ela para o resto da vida
a Elisabeth era a princesa das raposas
precisava das mãos dela na minha cabeça
ah não haver facas que lhe cortem o
pescoço senhora doutora eu não volto
ao seu anti-séptico túnel
já fui bela uma vez agora sou eu
não quero ser barulhenta e sozinha
outra vez no túnel o que fez à Elisabeth?
a Elisabeth foi-se embora
é só o que tem para me dizer senhora doutora
com uma frase dessas na cabeça
eu não quero voltar à minha vida

[1988]

***

A proposito di stelle

Non so se mi sono interessata al ragazzo
perché lui si interessava di stelle
se mi sono interessata alle stelle perché mi interessava
il ragazzo oggi quando penso al ragazzo
penso alle stelle e quando penso alle stelle
penso al ragazzo siccome mi sembra
che mi occuperò di stelle
fino alla fine dei miei giorni mi sembra che
non smetterò d’interessarmi al ragazzo
fino alla fine dei miei giorni
non saprò mai se mi interessano le stelle
se mi interessa il ragazzo che si interessa
di stelle non mi ricordo più
se ho visto prima le stelle
se ho visto prima il ragazzo
se quando ho visto il ragazzo ho visto le stelle

 

A propósito de estrelas

Não sei se me interessei pelo rapaz
por ele se interessar por estrelas
se me interessei por estrelas por me interessar
pelo rapaz hoje quando penso no rapaz
penso em estrelas e quando penso em estrelas
penso no rapaz como me parece
que me vou ocupar com as estrelas
até ao fim dos meus dias parece-me que
não vou deixar de me interessar pelo rapaz
até ao fim dos meus dias
nunca saberei se me interesso por estrelas
se me interesso por um rapaz que se interessa
por estrelas já não me lembro
se vi primeiro as estrelas
se vi primeiro o rapaz
se quando vi o rapaz vi as estrelas

[1985]

***

L’insalata con la salsa rosa

1.
Conobbi Magda in spiaggia
in spiaggia è una metafora oscena
che come le altre metafore oscene
può essere usata sia come eufemismo
sia come insulto
conosco per esperienza personale
entrambi gli usi dell’espressione
in spiaggia

2.
A me piace farmi passare
per una ragazza ordinaria
Magda era proprio ordinaria
all’inizio era questo ciò che più
mi attraeva in lei poi fu questo
ciò che più di tutto mi disgustò in lei

3.
I miei rapporti con Magda
da deliziosi diventarono promiscui
mi successe
ciò che mi era successo
quando mangiai l’insalata con la salsa rosa
all’inizio
l’insalata era deliziosa per via della salsa
poi iniziai a capire
che era mille volte meglio
mangiare la verdura
senza la salsa piuttosto che con la salsa
la salsa m’impediva di mangiare la verdura
con gusto
mi faceva schifare la vita

4.
Vivevo con Magda
in una stanza con due letti
quando arrivavo nella stanza
Magda stava sdraiata nel mio letto
in una posizione da Maya desnuda
ma vestita
che era anche peggio
altre volte la trovavo
seduta sulla mia sedia
a sfogliare i miei libri
e a leccarsi le dita

5.
Magda era un’intrusa
dopo essere stata un essere envoûtant
sia come intrusa
sia come essere envoûtant
lei era per me
una fonte di turbamento

6.
Io non ero casta
non perché mi dessi
con Magda
(che anzi era una praticante professionista del saffismo)
a un piacere che alcuni dicono vizioso
(la toccai una volta soltanto
senza volere
e le chiesi automaticamente scusa)
ma perché con Magda
non provavo nessun piacere

7.
(Penso che il piacere sia casto
ciò che non è casto
è il simulacro del piacere
o la rinuncia al piacere
tanto il simulacro
come la rinuncia)

8.
Un giorno tornai nella stanza
e Magda era sparita
senza lasciare tracce
mi fece male non trovare
il porcilaio tipico della Magda
le mie sigarette fumate
il mio posacenere pieno di mozziconi
sporchi di rossetto
(che mi ricordavano dei
denti sputati dopo un litigio)
il Las Moradas
prima di Calculus I
sulla mia mensola
quando mi abituai
a mettere quei libri nell’ordine inverso

9.
Quel che mi fece male
fu che tutto era finito
com’era cominciato
come se nulla fosse successo
nel frattempo
ora quello che successe nel frattempo
ancora oggi mi disturba
e quindi dev’essere successo

 

A salada com molho cor-de-rosa

1.
Conheci a Magda na praia
na praia é uma metáfora obscena
que como as outras metáforas obscenas
pode ser usada quer como eufemismo
quer como insulto
conheço por experiência própria
os dois usos da expressão
na praia

2.
Eu gosto de me fazer passar
por uma rapariga ordinária
a Magda era mesmo ordinária
a princípio era isto o que mais
me atraía nela depois foi isto
o que sobretudo me desgostou nela

3.
As minhas relações com a Magda
de deliciosas passaram a promíscuas
aconteceu-me
o que me tinha acontecido
quando comi salada com molho cor-de-rosa
ao princípio
a salada era deliciosa por causa do molho
depois comecei a perceber
que era mil vezes melhor
estar a comer os vegetais
sem molho do que com molho
o molho impedia-me de comer os vegetais
com gosto
desgostava-me da vida

4.
Vivia com a Magda
num quarto de duas camas
quando eu chegava ao quarto
a Magda estava deitada na minha cama
numa posição de Maja desnuda
mas vestida
o que ainda era pior
outras vezes encontrava-a
sentada na minha cadeira
a folhear os meus livros
e a chupar os dedos

5.
A Magda era uma intrusa
depois de ter sido um ser envoûtant
quer como intrusa
quer como ser envoûtant
ela era para mim
uma fonte de perturbação

6.
Eu não era casta
não porque me entregasse
com a Magda
(que era aliás uma praticante profissional do safismo)
a um prazer que alguns dizem vicioso
(só lhe toquei uma vez
sem querer
e pedi-lhe automaticamente desculpa)
mas porque com a Magda
não tinha prazer nenhum

7.
(Acho que o prazer é casto
o que não é casto
é o simulacro do prazer
ou a renúncia ao prazer
tanto o simulacro
como a renúncia)

8.
Um dia voltei ao quarto
e a Magda tinha desaparecido
sem deixar marcas
custou-me não encontrar
o chiqueiro próprio da Magda
os meus cigarros fumados
o meu cinzeiro cheio de beatas
sujas de bâton
(que me faziam lembrar
dentes cuspidos após uma briga)
o Las Moradas
antes do Calculus I
na minha estante
quando eu me habituei
a pôr esses livros por ordem inversa

9.
O que me custou
foi tudo ter acabado
como tinha começado
como se nada se tivesse passado
durante
ora o que se passou durante
ainda hoje me incomoda
e portanto deve ter acontecido

[1985]

Considerazioni circa una poetica della relazione

4

Biagio Cepollaro, DueSerpenti-1-2008

di Vincenzo Frungillo

[L’intervento di Vincenzo Frungillo sviluppa la discussione nata intorno alla critica nell’ ambito della rassegna Tu se sia dire dillo 2014. B.C.]

La critica è fatta di singole sensibilità letterarie che riescono ad ampliare la visione dei lettori. La capacità percettiva, la sensibilità, non è faccenda secondaria. A questa, va da sé, deve essere affiancata una conoscenza approfondita della produzione poetica o letteraria tout court, bisogna essere in possesso degli “strumenti umani”, per dirla con il titolo di un libro di Sereni. Preferisco parlare di critici, quindi, piuttosto che di critica, termine fin troppo astratto. Bisogna puntare in ogni caso sulla centralità del testo, e sulla domande che da esso nascono. Discutiamo quindi di una critica che cerchi di essere un luogo dell’interrogazione radicale. Per questo motivo la relazionalità tra testo e autore è di per sé problematica. Mettersi in relazione significa mettersi in ascolto. Interpretare un testo significa tradurre la cadenza temporale dell’autore in spazio condiviso. Ogni segno contiene la matrice di un intenzione più ampia. L’interprete deve a sua volta operare uno spostamento delle proprie strategie mentali, deve esporsi. Accettare il rischio. Questa prospettiva è stata ben sintetizzata da Glissant nel suo Poetica della relazione: «”L’Essere è relazione”: ma la relazione è al riparo dall’idea dell’essere. La Relazione è conoscenza in movimento dell’esistente, che rischia l’essere del mondo». Se si accetta questo presupposto, l’io non può più dirsi costituito di per sé. Non esiste un mondo, un sistema di codici, già dato. Impossibile quindi un lirismo ingenuo, privo della domanda sullo stesso mondo che lo accoglie. Non parliamo di realismo, che a sua volta prescinde da un’interrogazione della relazione tra soggetto e mondo, interpreta la mimesis come auto giustificazione del dato e del vissuto. Si allude piuttosto ad una messa in discussione del rapporto tra poeta e mondo. Tale relazione è nei poeti più avveduti il centro stesso del fare poetico. Questa relazione risulta essere estremamente incerta. Come si relazionano l’io e il mondo? In questa interrogazione c’è il senso stesso del fare poesia, il senso stesso dell’ermeneutica del testo.

Una risposta programmatica al problema viene dalla poesia oggettiva, in quanto quest’ultima metaforizza una fase dell’evoluzione degli individui occidentale, di individui che vivono una periferia oramai priva di centro. Anche trovandoci nel campo privilegiato di autori pienamente consapevoli dei propri mezzi espressivi, tuttavia, il paradigma sembra esso stesso consolatorio. La scrittura poetica o prosa poetica, non risolve il problema dell’io, lo sposta semplicemente sul polo opposto della rappresentazione del mondo. L’io è messo tra parentesi, sospeso, e le cose vengono mostrate senza che su queste venga espresso un giudizio apparente. L’azzeramento del dato simbolico lega il lettore ai significanti ponendolo di fronte ad una strettoia. Su carta sono riportati codici privi di senso, ossia privi di connotazioni emotive proprie. Il risultato è la sintomatologia di una depressione: l’incapacità del Sé di distinguersi dal mondo. Qui il rischio è manifestato nella sua massima evidenza: la sfera naturale fagocita quella simbolica e parla per sua bocca. Il risultato, nella sostanza, non cambia. Questa produzione letteraria ripropone i toni di una questione affrontata da Italo Calvino e Perlini ai tempi delle neoavanguardie. Calvino parlava del “mare dell’oggettività” per indicare quella scrittura che annullava, azzerava, il discrimine del soggetto. Il problema della relazionalità resta. Il merito della depressione letteraria, del grado zero della percezione, sta nel mettere in evidenza il rischio. Aldilà della strettoia di senso, ciò che conta però è una poesia che metta su carta la dinamica, la meccanica che alimenta il senso. Solo così evidenziare la possibilità dell’annichilimento di senso. La relazione interpretativa aiuta la messa in potenza di un mondo, offre spazio. Più che assecondare l’alienazione del soggetto nella presa di parola degli oggetti, ossia del mondo privo di senso, del mondo ridotto a feticcio, estrema conseguenza della profezia marxista sulla merce e debordiana sullo spettacolo, bisogna invece recuperare la faglia. Bisogna puntare lo sguardo sulla forbice natura-cultura. (La problematica della relazione io-mondo, può essere tradotta in relazione profonda tra stadio naturale e stadio simbolico/culturale). In questo modo la poesia, la scrittura in versi, la scrittura metrica, è una modalità di comprensione delle dinamiche complesse, un’ermeneutica della forma. La letteratura ha perso di certo la sua centralità nella casistica delle esperienze, ma proprio per questo motivo può essere uno dei paradigmi tra i più radicali. La poesia deve porsi come strumento di interrogazione radicale.

Recuperare la faglia significa quindi riconoscere la relazione tra cultura e natura. Tale relazione è il problema. Dopo l’ipertrofia dei significanti bisogna recuperare lo spazio della domanda. La scrittura ha il compito di liberare il senso in relazioni impreviste. Nessun esistenzialismo, che poi è una forma debole di coscienza dei fatti, piuttosto un utilizzo consapevole degli strumenti poetici oltre la resa meramente letteraria del proprio lavoro. Scrive Glissant: «Abbiamo detto che la Relazione non istituisce soltanto il ritrasmesso, ma anche il relativo, e ancora il relato. La sua verità, progressivamente accostata, si dà in una narrazione. Poiché, se il mondo non è un libro, è pur vero che il silenzio del mondo ci condurrebbe a nostra volta alla sordità. La Relazione, che agita l’umanità, ha bisogno della parola per editarsi, per perpetuarsi. Ma, giacché il suo racconto non procede da un assoluto, essa si rivela come la totalità dei relativi messi in rapporto e detti. […] In queste condizioni, il pensiero poetico è all’erta: sotto il fantasma della denominazione ha cercato il mondo realmente vivibile. Si è proiettato verso. Quasi ricominciasse il tragitto del vecchio nomadismo a freccia. Anche i movimenti di questa poetica sono reperibili nello spazio come altrettante traiettorie, in cui l’oggetto stesso della portata poetica sarà quello di condurli a compimento per poi abolirli. […] Giunge allora il tempo in cui la Relazione non si profetizza più attraverso una serie di traiettorie, di itinerari che si succedono o si contrastano, ma, da se stessa e in se stessa, esplode come una trama inscritta nella totalità sufficiente del mondo.» Da questo punto di vista la scrittura ha una funzione liberatoria. Libera in una relazione imprevista, ma allo stesso tempo concede lo spazio del riconoscimento, offre dei margini. Il movimento è opposto a quello di una cultura che asseconda la propria espansione, credendo in una illimitata potenzialità dei mezzi. Qui la natura è il limite necessario. La natura è aldilà di qualsiasi codificazione prestabilita. Liberare la potenzialità stessa della traiettoria di senso. Nella produzione metrica c’è il relato, il debito che abbiamo con la nostra sfera naturale. Ricordiamo quanto scriveva Wittgenstein: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso esso vive. Ha in sé l’alito vitale? O l’uso è il suo respiro? […] ”C’è già tutto in …” Com’è che la freccia “indica? Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? –“No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato, può farlo”. –Questo è vero e falso. La freccia indica solo nell’applicazione che l’essere vivente ne fa. […] Vogliamo dire “quando comprendiamo non c’è nessuna immagine morta di nessun tipo, ma è come se ci dirigessimo verso qualcuno”. Ci dirigiamo verso la cosa intesa. […] Sì, intendere è come dirigersi verso qualcuno». Ora questa possibilità di comprensione è impossibile in una chiusura egotica, è altresì compromessa dalla matrice computazionale del desiderio collettivo. Più ci si crede unici, isolati solipsisticamente, più si assecondano i desideri indotti dalla naturalizzazione del simbolico, ossia dalla rimozione effettiva della natura: è possibile eseguire delle mappature linguistiche dei desideri collettivi proprio su queste basi. (Si pensi alla La carta e il territorio di Michel Houellebecq).

Liberare la scrittura significa, provare la Relazione. E’ un discorso etico, anche se derivato, privo di costrizioni morali. La poesia e la critica hanno il compito di rielaborare dei codici, di ritrasmetterli e vivificarli nella traduzione. Un testo che sappia essere una pagina mondo, è un testo che non si esaurisce nel suo portato di senso. Il senso è messo continuamente in potenza. Se il nostro è un salto di paradigma, oltre l’umano e ancora oltre il post umano, bisogna pensare una scrittura ecologica e non più egotica. Il discorso di Glissant non fa che riportare su piano planetario una dinamica interna del Sé. Il mondo, ridotto a territorio rizomatico, è un testo. Qui comprendiamo le nostre possibilità e i nostri limiti, giochiamo la partita della presenza a noi stessi e agli altri. Questo che un tempo sarebbe potuto suonare eccessivo, oggi è vero in quanto lo spazio ha mostrato i suoi limiti. Il critico ha il compito di riconoscere i segnali e soffermarsi sulla parte viva e vivificante del testo-mondo. Operare in opposizione al processo di sottrazione; più che decostruire, allargare la faglia.

(Le citazioni qui comprese sono tratte da Édouard Glissant, Poetica della relazione. Poetica III, Quodlibet, 2007; e da Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995)

Aggiornamento: Il caso Bilbolbul , ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana

2

BilBOlbul-2014-Manifesto

Carissimi lettrici e lettori di Nazione Indiana vi volevo aggiornare sugli esiti del dibattitto sull’articolo: Il caso Bilbolbul , ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana https://www.nazioneindiana.com/2014/11/14/il-caso-bilbolbul-ovvero-la-necessita-di-una-decolonizzazione/.

Sono stati molti i commenti, le prese di posizione, le conclusioni.

Vorrei segnalarvi qui le risposte (due) che ci hanno inviato gli organizzatori della rassegna Bilbolbul e di seguito troverete anche una mia gentile replica. Io spero che questo articolo e questo fecondo scambio di opinioni possa portare ad un incontro e ad uno scambio ancora più fecondo.

Ecco la prima lettera degli organizzatori:

Ci sembra giusto rispondere all’interrogativo posto da Igiaba Scego che ci ha chiamato in causa sulla scelta di utilizzare Bilbolbul come riferimento della nostra manifestazione. Non crediamo infatti che la questione sia relativa all’immagine di Sarah Mazzetti che come tutti gli artisti delle edizioni precedenti si è trovata a riattualizzare, facendolo brillantemente, un personaggio di inizio secolo, un’icona che è data in partenza da una nostra committenza.
È quindi sull’opportunità di questa committenza che ha più senso replicare. Ci dispiace che questa possa ferire la sensibilità e toccare l’esperienza individuale di qualcuno, ma davvero crediamo che i messaggi razzisti oggi passino per immagini di questo tipo? Se ancora ben esiste un immaginario coloniale, conscio e inconscio, nel nostro modo di vedere e di vivere dubitiamo proprio che si espliciti in un repertorio di questo tipo. Ben altri sono i pericoli, come ci sembra di leggere nelle stesse parole di Igiaba Scego. A partire dal fatto di giocare sempre di rimessa nei confronti di un immaginario che muovendo per dati assodati, per punti di riferimento incontrovertibili, è di per sé sempre a rischio del rifiuto dell’altro, e di rimettersi in discussione. I linguaggi artistici hanno sempre avuto, tra le altre, anche la funzione implicita di lavorare ai fianchi un immaginario di questo tipo, perché si costruiscono sull’ambiguità e complessità di senso, sul ribaltamento delle aspettative, sulle fratture del fantastico, sul gioco delle metafore. Esattamente quello che faceva, e per chi lo legge, continua a fare Bilbolbul di Attilio Mussino.
Per chi fosse interessato – perché Igiaba Scego già è al corrente del lavoro della nostra associazione – noi stessi abbiamo parlato sul numero 35 (http://hamelin.net/hamelin-35-il-migrante ) delle problematiche che affrontano ogni giorno i popoli migranti.

Ecco la seconda lettera degli organizzatori:

 

 

Cara Igiaba, cari tutti,

scusate anche voi la risposta lunga, ma come immaginerete i giorni del post festival sono ancora pienissimi di mail e decisioni da prendere.

 

Continuiamo a rispecchiarci nella risposta che vi abbiamo mandato, risposta che non vedevamo e continuiamo a non vedere inserita nella lunga e a tratti poco centrata trafila dei commenti. Non siamo contrari alla pubblicazione della risposta, ma alla sua pubblicazione in un commento che non pensiamo offra davvero spazio al dialogo.

 

Ci dispiace, ma non saremo al convegno: parte di noi è a Tokyo per la mostra di Iela Mari e altri a Montreuil per il Salone del libro. Però ci piacerebbe in futuro fare una chiacchierata per conoscerci meglio e confrontarci.

 

Intanto un saluto.

 

 

Ecco la mia risposta (con la speranza mia di un futuro incontro tutti insieme)

Carissimi organizzatori del festival Bilbolbul, sono Igiaba Scego e mi scuso per il ritardo con cui vi rispondo alla vostra mail.

Volevo innanzitutto ringraziarvi per la risposta. Trovo sempre apprezzabile ricevere risposte su quello che si scrive.

Però carissimi rimango ferma nella mia opinione, quella ribadita nell’articolo pubblicato su Nazione Indiana sull’iconografia di Bilbolbul. Non vi ho accusato di “razzismo”, non mi permetterei mai di lanciare un’accusa così infamante. Conosco il vostro lavoro e come ho detto nell’articolo vi considero in gambissima. Sono anche al corrente dello spazio che date ai temi interculturali nei giorni del festival. Insomma seguo il vostro lavoro da vicino e non ultimo amo molto i fumetti. 

Proprio per questo, per il vostro essere così in gamba, mi fa male “bilbolbul” e in particolare il manifesto di quest’anno. Io  (e non solo io) credo che l’immaginario giochi oggi un ruolo non secondario nella costruzione delle dinamiche discriminatorie. Ne hanno parlato con più sapienza di me persone come F.Fanon o E.Said, per non parlare dei vari Appadurai e Ngugi Wa Thiong’o. Sono temi trasversali che in altre parti del mondo sono stati discussi, analizzati e in parte superati. In Italia invece siamo purtroppo ancora lontani da una discussione che metta davvero in gioco. L’immagine stereotipata porta ai deliri xenofobi di Salvini o all’intolleranza di zone di confine, periferie sempre più abbandonate a se stesse. Anche chi non crede in quei deliri lì diventa inconsapevolmente portatore di stereotipo. C’è un filo rosso che lega tutto. In una situazione italiana delicata e sempre pronta a sfociare nello scontro violento dobbiamo cominciare anche (oltre ai tanti salvagenti sociali) occuparci di quale immaginario condiziona la nostra vita e il nostro sguardo.

è fondamentale lavorare anche sullo sguardo e soprattutto su quello che è offerto allo sguardo.

Non è un discorso intellettualoide il mio, ma so (provato sulla mia pelle nera) quanto gli stereotipi facciano soffrire e inferiorizzino i soggetti colpiti.

L’iconografia non è la sola colpevole. Infatti ci sono anche le parole dell’odio. Pensate solo alla parola clandestino, non significa niente, ma appiccica addosso a chi la subisce quasi lo stigma dell’untore. Per questo è stato creata la Carta di Roma (purtroppo poco applicata) il codice deontologico contro il razzismo che i giornalisti dovrebbero teoricamente applicare. 

Ecco credo che anche il fumetto e voi come organizzatori non vi potete tirare indietro in questa discussione.

Per questo carissimi vi invito ad un convegno performativo PRESENTE/ IMPERFETTO che si svolgerà a Roma il 27/28 Novembre presso casa della Memoria, Via Francesco di Sales. Il convegno è un primo step nella via che ci porterà ad una (spero vicina) decolonizzazione italiana.

Davvero sarebbe non solo gradita la vostra presenza, ma anche a questo punto necessaria.

Io ve l’ho scritto nell’articolo, ma ecco quello che cerco io (e non solo io) è un confronto su questi temi. Non una mera polemica da consumarsi nella realtà virtuale.

Ecco i dettagli del convegno: https://www.facebook.com/events/363753383784052/

spero di vedervi.

Se così non fosse mi piacerebbe che io come redazione di Nazione Indiana, altri redattori di Nazione Indiana, le organizzatrici del convegno Viviana Gravano, Giulia Grechi potessimo vederci da qualche parte, discutere e scambiarci opinioni. Dove? Non so, possiamo deciderlo insieme.

Io penso che da questa situazione possa nascere una feconda esperienza di collaborazione e ascolto reciproco.

Un caro saluto, Igiaba Scego.

 

L’idea di funzione #2

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di Antonio Sparzani

funzioni2

Ed eccoci – dopo quanto visto qui  – all’ultimo passo del cammino che porta a una definizione di funzione che finalmente ci soddisferà.

D. Quarto passo. Già nel XVIII, e poi più decisamente nel XIX secolo comincia ad affermarsi la tendenza a generalizzare la definizione di funzione, svincolandola dall’esigenza di una sua rappresentazione analitica, cioè dalla necessità – formale – di rappresentarla con una formula; la prima vera formulazione di questo tipo è dovuta a Eulero e suona così:

«Se alcune quantità dipendono da altre quantità in modo tale che se queste ultime vengono cambiate allora le prime anche cambiano, allora queste sono dette funzioni delle seconde. Questa denominazione è della più ampia natura e comprende ogni metodo per mezzo del quale una quantità può esser determinata da altre. Se perciò x denota una quantità variabile allora tutte le quantità che dipendono dalla x in un qualsiasi modo, o sono da questa determinate, sono dette funzioni di x.

Quest’idea non fu immediatamente condivisa dai matematici europei, ma dopo qualche decennio cominciò ad affermarsi definitivamente, nelle opere di Lagrange, Lacroix, Fourier e – infine – di Lobačevskij e Dirichlet.

Questi schematici accenni dovrebbero suggerire che l’idea che sta alla base del concetto di funzione è quella di dipendenza di una grandezza da un’altra, o da varie altre. Notate però che la parola ‘dipendenza’ può alludere a due situazioni differenti: la prima – connotativa – ad un modo causale formalmente esprimibile nel quale una grandezza y è determinata da un’altra grandezza x , esempio: la direzione di marcia di un’auto dipende strettamente dai movimenti dello sterzo; la seconda – denotativa – e dunque più astratta e casuale – esempio: se associate ad ogni intervallo di un minuto della notte dal 10 all’11 agosto 2014 il numero di stelle cadenti visibile a occhio nudo in un fissato quadrante del cielo boreale, è chiaro che ottenete una funzione perfettamente definita e determinata, ma è molto meno chiaro come si possa in qualche modo risalire dal valore della variabile indipendente (il generico intervallo di un minuto) a quello della funzione (il numero di stelle cadenti apparse in quel minuto), l’unico modo è quello di una accurata osservazione. È chiaro che in questo caso la funzione è data in modo squisitamente estensivo: si osserva – e si trascrive poi eventualmente in un grafico – il valore corrispondente ad ogni minuto; mentre nell’esempio dello sterzo c’è sicuramente modo di calcolare – e quindi anticipare – la direzione di marcia in termini dell’angolo di rotazione dello sterzo.

Allora la funzione c’è quando una cosa dipende da un’altra: al variare di questa varia quella, in un qualche modo che può essere il più vario possibile. Si tratta di metter tutto questo in una forma razionalmente corretta e comprensibile. Per farlo occorre che nella definizione sia contenuta da un lato la presenza di una quantità che può variare (e che sarà detta variabile indipendente) all’interno di un certo ben precisato ambito di possibilità – e che è detto dominio della funzione – e dall’altro la descrizione di un ambito, in generale diverso dal primo – detto codominio, o anche range, della funzione – in cui può variare la quantità (detta variabile dipendente) che dipende dalla prima; oltre a ciò occorre che sia esattamente precisata questa dipendenza. Come s’è detto questa “precisazione” può essere formale – analitica, cioè esprimibile con formule – o invece fornita dall’osservazione dei fatti. Nell’idea di funzione c’è dunque qualcosa di profondamente non simmetrico, c’è una grandezza che varia arbitrariamente all’interno di un certo ambito e ce n’è poi un’altra che varia al variare della prima. Questa non simmetria si evidenzia anche da questa caratteristica di ogni funzione, che viene detta la sua univocità: dato un valore della variabile indipendente, dunque appartenente al suo dominio, uno e un solo valore della variabile dipendente gli corrisponde. Per ogni valore dell’età di Alice è univocamente determinata la sua altezza: ad una determinata età Alice non può avere due altezze diverse. Ma se invece fissate un valore dell’altezza (dunque del codominio della funzione che stiamo considerando) esisteranno certamente molti valori dell’età di Alice cui quel valore corrisponde: Alice non continua a crescere per tutta la sua vita, né a decrescere.

Un modo standard usato dai matematici pignoli per scrivere tutto questo è questo:

funzione notazione

 

Dove D indica il dominio della funzione f , W indica il codominio, x il generico elemento di D e le freccette alludono in qualche modo alla asimmetria della situazione.

Nel formicaio degli incipit

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Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014
Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014
Le forme della brevità, Franco Angeli, Milano 2014

di: Milly Curcio

Se davvero ci sono, come sosteneva Henry James, cinque milioni di modi diversi per raccontare una storia, quanti modi diversi ci sono per cominciarla? Tanti, tantissimi, persino ora, in questo momento, ne stanno nascendo in gran numero e sicuramente tagliati su modalità differenti: da qui l’impossibilità di darne una classificazione esauriente. Lo chiarisce bene Pasquale Guaragnella che in L’incipit e la tradizione letteraria italiana, nel capitolo introduttivo dell’opera in quattro volumi (secondo una ripartizione cronologica da Dante a oggi), afferma che «l’incipit costituisce, dunque, un capitolo importante dell’ars rhetorica: si tratta di un difficile problema, non solo formale, nel quale ogni scrittore s’imbatte e che deve risolvere»; di fatti i quattro volumi in questione raccolgono i commenti agli incipit di testi di grandi autori senza per questo tentare di definire un canone o di delineare un profilo di storia letteraria.

In epoca contemporanea, nella commistione di generi e linguaggi, nella totale assenza di canoni e di regole, proporre una classificazione si rivelerebbe di per sé un’operazione arbitraria, sterile, comunque parziale. I manuali di scrittura, che talvolta hanno cercato di fornire alcuni esempi delle varie tipologie di incipit, si sono presto arresi di fronte alla difficoltà di fornirne una casistica attendibile ed esauriente. Senza contare che a volte l’arbitrarietà, come si vedrà, consiste nel far rientrare tout court un incipit in una sola tipologia, così come, nella narrativa cosiddetta postmoderna, talvolta si stenta a circoscrivere una narrazione in un genere specificamente connotato.

Non esiste separazione

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di Francesco Borrasso

20141120_153314Non riesco ad uscire da questo disordine. Un laccio mi tiene stretto al ricordo.
Da allora, le mie giornate sono inerzia, secondi che seguono secondi, il mio compito è riempire, senza consapevolezza.
C’era il dolore bambino che ha cercato con un’imposizione di mettermi una benda sugli occhi, era il dolore che si fermava in un angolo della stanza e mi osservava, con i suoi argomenti provava a convincermi che la cosa accaduta non la potevo accettare, non la potevo elaborare. Era un bambino capriccioso, con il grembiule blu, il colletto bianco, le scarpe da ginnastica, la gomma da masticare, i palloncini colorati che faceva esplodere con il fiato; non riesco a ricordare la sequenza esatta, se è arrivato prima il lutto e poi il panico, o viceversa.
La certezza è che ci sono entrambi, e mi tengono al caldo.
Il dolore bambino era formato da tutti i ricordi bianchi, tutte le scene, gli odori, tutti i sapori, i vizi, tutti i sorrisi, le giornate di sole, e la pioggia che non serviva; ho provato con una mano ad accarezzargli i capelli, è scappato via, rifugiato sempre con le spalle contro il muro, sempre immobile nel suo angolo, a puntare il dito contro un’accettazione che non riteneva giusta; mi ha svegliato di notte, nel mezzo del sonno, mi ha impedito di mangiare, sporcandomi il cibo; ha sabotato il mio lavoro, ha provato a soffocarmi, mi premeva le mani contro il petto, stringeva forte sulla gola, non respiravo; ha tentato di manomettere il mio equilibrio, faceva rotolare la terra sotto i miei piedi, mi obbligava a stare seduto.
Sono andato da una maestra che conosceva bene questi bambini dolore; questa maestra mi ha obbligato a non ascoltarlo, c’erano della gocce che facevo cadere sulla superficie argentata di un cucchiaino da caffè, a volte era quindici, a volte venti; erano delle gocce trasparenti, dolci, con un retrogusto amarognolo; bene, queste gocce mi aiutavano ad essere irrispettoso nei confronti del bambino, creavano una barriera; riuscivo a dormire di notte, riuscivo a mangiare senza conati di vomito; la maestra mi ha detto poi di ascoltare le pretese del bambino e vedere cosa c’era sotto il sintomo dei suoi capricci, delle lacrime, delle urla. Siamo stati seduti nella mia camera per giornate intere, lui con la faccia paonazza a forza di gridare, io con il sudore sulla pelle per tutta la resistenza; l’avevo convinto a venire al centro della stanza, a lasciare libero il suo angolo di protezione; adesso eravamo entrambi con le spalle scoperte, giocavamo per la prima volta ad armi pari. Mi sono reso conto che quel bambino dolore cercava di vomitarmi addosso la sua sofferenza, la sua disperazione; aveva gli stessi bisogni emotivi che avevo io, solo che non conoscendoli, li respingeva come sostanza estranea. Mi ha parlato di suo padre, morto in una una notte straniera, sotto i colpi di un male alla testa, di un sangue impazzito, di una vena spezzata.
L’ho riconosciuto; quel bambino era il passato, il ricordo di me; con il tempo è rimasto solo il dolore, il bambino è diventato una compagnia, un’accettazione.
Il dolore uomo è stato più feroce ma meno teatrale; più rapido, più servizievole. Ci siamo riconosciuti subito; nella certezza di avere dei limiti, nell’approvare le nostre debolezze, nell’affrontare una perdita facendoci aiutare dal corpo. Abbiamo imparato insieme che la mente ed il fisico sono un unico pezzo; che le emozioni cadono a valanga sugli organi, affogano i muscoli, e che il gioco di equilibrio tra corpo e mente è quello più difficoltoso da trovare.
Addomesticare il corpo è stato come vivere dentro una casa sconosciuta, ogni giorno, dietro ogni porta, si nascondeva in una stanza mai vista, un odore sconosciuto, una luce irreale.
Io e il mio dolore uomo abbiamo cercato patti di alleanza, schierati dalla stessa parte, per la stessa crociata; divisi da un punto di vista differente, da un limite che non ci teneva in accordo.
Oggi, ancora, il corpo sente  paure che la mente sa riconoscere ma non gestire.  A giorni il mio corpo è una macchina che funziona male, un difetto, un errore di trasmissione tra pensiero e azione.
Le gocce sono meno presenza, sporadicità, paracaduti aperti in momenti terrore.
Non ricordo se sono arrivati prima gli attacchi di panico o la morte di mio padre; non mi va di starci troppo a pensare; so che il ricordo è una macchina magica, è un luogo dove tutte le cose continuano ad accadere; ancora, ancora, io e mio padre siamo sempre sulla stessa spiaggia a battagliare con le onde, io e mia madre sempre allo stesso tavolo a soffrire la perdita, io e il mio primo bacio riaccadiamo tutte le volte che accendo il ricordo.
Dal ricordo non esiste una separazione, vive a prescindere da me, vive fuori da me.

 

*foto Mariasole Ariot

Ne vale la pena?

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Park Hotel Lugano 1904
Park Hotel Lugano 1904

di Gianni Biondillo

Spesso, troppo spesso, quando viene presentato un nuovo progetto su una rivista di settore non ci viene fatto vedere cosa c’era prima. Cosa fatta capo ha: ciò che c’era prima, in situ, non c’è più. Amen. Se è stato “sacrificato” è perché era, implicitamente, “sacrificabile”. Anzi, peggio, è come se prima non ci fosse stato nulla. Un vuoto che aspettava solo d’essere colmato dall’umano genio creativo. L’osservatore accetta la cosa come avesse fatto un patto implicito col progettista. Non chiedere, non dubitare. C’era bisogno del nuovo, criticalo per quello che è, ma non fare troppe domande su ciò che lo precedeva. Era tabula rasa o poco più. Sappiamo tutti che non è così, soprattutto in una realtà fortemente antropizzata quale quella delle città europee. Il mito del nuovo per il nuovo, mito che ci viene con la rivoluzione industriale e che ha avuto il suo massimo splendore nella società delle macchine, della velocità, delle “magnifiche sorti e progressive” incarnata nel Novecento, oggi, forse, andrebbe rivisto, rimodulato. Il territorio non è mai tabula rasa, non è mai un foglio bianco. Ogni progetto andrebbe valutato quasi redigendo una partita doppia: conoscere intimamente cosa stiamo perdendo, per poter valutare meglio cosa stiamo guadagnando. Altrimenti la gara è truccata.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Lo so, parlare di conservazione architettonica puzza sempre di tradizionalismo, di cultura reazionaria, passatista, antimoderna. Ma il “moderno”, di suo, è pure lui ormai cosa del passato. Siamo persino ben oltre la società postmoderna, forse alcuni punti fissi, alcuni tabù progressisti andrebbero se non abbandonati quanto meno rivisitati. Non sto dicendo che tutto ciò che ci viene dal passato è di suo, per statuto, “bello”. Ogni discorso che lancia l’allarme sulle brutture dell’architettura contemporanea scivola sempre in una china pericolosa e impraticabile. Ogni edificio è stato nuovo al suo nascere. Ogni novità è diventata storia comune, condivisa, negli anni. Però è vero che in certi casi le dimensioni contano. La quantità può fare la qualità, o la perdita di qualità, di un contesto. Il Novecento è stato un secolo invasivo, ha mutato in modo radicale, univoco, il paesaggio, l’ha, in molti aspetti, omologato.

Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987
Teatro Apollo e Kursaal Lugano 1987

Conservare quello che resta del passato – perché ormai spesso sono solo residui – è anche un modo per contrapporre forme alternative al pensiero unico dominante. Ci permette di dare la corretta dimensione del contemporaneo, confrontandolo con l’idea di urbano che ci viene dalla storia. Se ormai oltre il 90% di ciò che è costruito è irrimediabilmente moderno, perché continuare ad accanirsi con quel poco che resta di precedente a noi? Che paura ci fa? Non sto semplicemente parlando di conservare gli insigni monumenti identitari di un popolo. Sarebbe un luogo comune. La qualità di un monumento sta nella coerenza, nella stratigrafia, nel palinsesto dell’incasato, nella costruzione umile, nel dispositivo prospettico, nella soluzione formale del contesto. Il monumento in sé smette d’esistere se la cultura materiale della civiltà che lo ha ideato viene spazzata via.

Oggi. Foto Enrico Minasso
Oggi. Foto Enrico Minasso

Il progettista del XXI secolo deve rendersi conto che la gloria, che l’ansia edificatoria modernista dei suoi padri è cosa del passato. Oggi a lui tocca lavorare negli interstizi. Il suo deve essere uno sguardo olistico, capace di inserire il nuovo là dove occorre e saper rimettere in gioco l’antico là dove è possibile. Rendendolo, perciò, ancora contemporaneo, pronto a una vita futura.

Osservo queste fotografie che confrontano la Lugano contemporanea con quella di non molti decenni fa e mi chiedo: ne è sempre valsa la pena? Ogni scelta è stata dettata dalla necessità comune o solo dall’interesse privato? È questa l’idea di sé che la società ticinese vuole lasciare alle generazioni future? L’architettura che va a sostituire edifici carichi di un gusto magari inattuale ma di certo portatore di un’idea del decoro in fondo condivisibile (perché simbolicamente partecipato), questa nuova architettura non è che sia in sé brutta. O bella. È un’architettura che non osa. Tecnicamente ineccepibile – non è certo l’edificato caotico e trash di molta urbanistica spontanea mediterranea – racconta una visione della città sostanzialmente anonima, tecnocratica. Non è neppure uno stile internazionale. È un “global style”. Banche, uffici o civili abitazioni che potrebbero stare ovunque nel mondo, incapaci di farsi stimolare dal contesto, o di stimolarlo. Una architettura che assolto il compito di coprire la massima cubatura, ottenere la massima rendita di posizione, si disinteressa del bene comune della città. Fa il suo dovere senza passione. Sembra una minestra, magari cucinata con cura, con i soliti ingredienti freschi, ma senza alcuna nota peculiare, creativa, senza cipolla, o sale eliminando odori o sapori rilevanti che possano, non sia mai!, infastidire il consumatore. C’è da chiedersi allora: ne vale davvero la pena?

 

(testo redatto per Il nostro paese, n° 320, aprile-ottobre 2014, riferito alla mostraLa grande Bruttezza“, Casa Miler, Capolago, CH)

La stufa a parabola + una nota su Ponge

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radiateur lilor eclate  di Francis Ponge

traduzione collettiva*

Questo intero quartiere della città quasi deserto dove m’inoltravo non era che uno degli angoli monumentali della sua altissima muraglia minuziosamente lavorata, rosea al sole che tramonta.

Alla mia sinistra si apriva una via di case basse, secca e sordida ma inondata da una luce ammaliante, semi spenta. All’angolo, con l’albero un poco di traverso, si ergeva una sorta di giostra minuscola, non molto più alta di un piccolo pero, dove giravano diversi bambini uno dei quali indossava un maglioncino d’un puro color limone.

La regina della neve (seconda parte)

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nella versione quasi fedele di Viviana Scarinci

(la prima parte si può leggere qui.)

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Christian Birmingham

Principi, principesse e ragazze virili

Per farla breve Gerda, grazie all’aiuto del corvo e della sua fidanzata viene condotta a una verifica per lei emotivamente distruttiva: il ragazzo che ha sposato, come le ha riferito il corvo, la più intelligente delle principesse disponibili sul mercato delle fiabe, è Kay? A differenza di quel che si dice in giro, non è che ci sia tutta questa disponibilità di vere principesse e Gerda questo lo sapeva bene. Possibile che proprio Kay avesse trovato quel favoloso connubio di intelligenza e nobiltà in una donna, e che ciò lo avesse reso principe?

La scena che conduce Gerda a questa verifica è di una bellezza pari solo a quella raccontata nel mito di Eros e Psiche: condotta furtivamente nei pressi della stanza più segreta del castello che custodisce il talamo dei neosposi, Gerda deve attraversare uno  strano e popolato corridoio, prima di entrare nella camera da letto. Sono i sogni degli sposi a popolare quel corridoio limitrofo al sonno: cavalli purosangue, cacce, dame, cavalieri da cui Gerda fu circondata in un attimo. Oddio, pensò, i sogni di Kay potrebbero essere questi … Ma quando Gerda alzò la lampada, esattamente come fece Psiche per finalmente vedere  se il suo uomo fosse un mostro o l’amore, lei sapeva già in cuor suo che quelli non potevano essere i sogni di Kay. E infatti principe e principessa erano solamente principe e principessa: due giovani gentili e generosi che quando seppero, invece di cacciare a pedate quella strana ragazza  che si era introdotta nottetempo nei loro sogni, la rivestirono di tutto punto e le regalarono una carrozza per andare dove volesse, e ai suoi due fratelli di volo, corvo e cornacchia, ritennero giusto restituire pari libertà.

cinéDIMANCHE #08 FOROUGH FARROKHZAD “La casa è nera” [1963]

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Forough Farrokhzad [5 Gennaio 1935 — 13 Febbraio 1967] può essere considerata la più rilevante voce poetica femminile persiana del secolo scorso. Morì molto giovane in un incidente stradale. Nell’autunno del 1962 si recò a Tabriz per girare un documentario sulla vita all’interno del lebbrosario diBehkadeh Raji. Durante i dodici giorni delle riprese Hosein Mansouririuscì a entrare in completa sintonia con il luogo e con le persone: si affezionò molto aHossein Mansouri, un bimbo figlio di due lebbrosi, e lo adottò e lo porto con se a Teheran. Aveva 27 anni e non aveva mai girato un film. Ancora oggi commuove e sorprende la sua abilissima contrapposizione di immagini attraverso il montaggio di piccole sequenze, l’uso di luce, ombra, inquadrature, ritmo, suono e poesie recitate dall’autrice. Gli intensi lirici 20 minuti di La casa è nera precorsero e ispirarono la successiva New Wave del cinema iraniano, che ha prodotto alcuni dei più acclamati registi del XX secolo, come Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Majid Majidi e Bahram Beyzaie.
 


[ sottotitoli tradotti dall’inglese da Orsola Puecher]

 
Nadia Agustoni
 

Immagini e parole
 
“Non vedrò la primavera. Queste parole sono tutto ciò che rimane” e il muro. Un uomo lì davanti cammina, forse sa la pausa tra le parole, ma tra i giorni non c’è pausa. Il tempo lì è sempre uguale e nessun elenco lo cambia. Dove c’è solo l’elenco dei giorni l’uomo invoca Dio perché tutto è troppo vuoto. Mancano gli uomini il cui volto è intero e le loro voci che dovrebbero dire qualcosa senza preghiera e senza canto. Invece la sola risposta è nel proprio canto, in una festa che viene per dimenticarsi, dove si ride come dietro a una maschera. Il volto che non puoi riconoscere è il tuo, ma non sei più tu: solo l’inferno conosce l’infermo, ma se sei ancora un po’ uomo cosa conosci? Per alcuni di noi viene solo la polvere, ma non so se parla.
 
Dal mio silenzio urlo tutto il giorno”; Il volto della bambina e la sua bambola e le voci dei bambini che giocano: non c’è vento là ancora, la polvere non arriva fino alla bocca anche se istintivamente i bambini possono sapere che la malattia è la terra dei sepolti o il mezzo per apprendere un’altra lingua. Allora il gioco e la festa sono rivolta? E guardare quei volti è rivolta al male della malattia? Cos’è quella prigione dove qualcuno pare resistere?
 
Il maestro che insegna in un’aula spoglia resiste al mancare del mondo. I suoi occhi interrogano ognuno e sono vivi. La vita è di chi guarda e vede. La paura non è tutto. La paura è la grande malattia dove smettiamo di conoscere gli altri. Gli altri sono un confine, Forugh Farrokhzad lo attraversa. In una poesia scriveva: “mai stata separata dalla terra/ né mai amica delle galassie…”. Il mondo dovrebbe essere la nostra casa: “Sulle pareti della mia casa che è la mia vita…”. Immagini e parole: la casa è nera. Si resiste alla follia con i nomi. Pronunciando le cose belle col bambino che può credere in quelle cose: la luna il sole i fiori il gioco.
 
* I versi di Forugh Farrokhzad sono tratti dalla poesia Sulla terra; in E’ solo la voce che resta ; antologia a cura di Faezeh Mardani 2009

 
muro
festa
bambina
maestrp
bambino


 
 
 
 
specchio
classe
maglia
capelli
lacasaenera
 
Orsola Puecher
 

La piccola bellezza
 
Nei primi fotogrammi neri di La casa è nera una voce maschile fuori campo ci avverte che: Su questo schermo apparirà un’immagine della bruttezza, ed ecco una donna di spalle avvolta in stoffe damascate, bellissime, che osserva la sua immagine in uno specchio con un fiore inciso, di fianco una piccola teiera. Una doppia delicata distanza di sicurezza obbiettivo/specchio quella che Forough ci propone, senza mai guardare direttamente questa “bruttezza“. Solo qualche battito di ciglia sono il linguaggio dell’occhio sano, che contempla quello semichiuso dalla pelle rugosa del viso devastato.
In una classe di scuola una lunga carrellata mostra i diversi gradi della malattia. Ogni volto è unico. I bambini ringraziano il Creatore per ciò che non hanno o hanno perso: Oh Dio ti ringrazio per avermi creato, Ti ringrazio per avermi creato una madre premurosa, un padre gentile. Ti ringrazio per la creazione dell’acqua, degli alberi e delle piante da frutto. Ti ringrazio per avermi dato le mani con cui sono capace di lavorare. Ti ringrazio per avermi dato gli occhi per vedere le meraviglie di questo mondo. Ti ringrazio per avermi dato le orecchie per godere di dolci canzoni. Ti ringrazio per avermi dato i piedi per andare dovunque voglia. Fuori campo la voce di Forough: Chi e’ che ti loda nell’inferno, o Signore? Chi nell’inferno?
La bellezza che sopravvive all’ingiuria della lebbra, anche solo per qualche tratto, e che si conserva negli sguardi, nei sorrisi, nella quotidianità dei gesti piccoli come fare la maglia ai ferri, filare la lana, pettinarsi, fumare una sigaretta fra le dita deformi, convive armoniosamente con la bruttezza. Non vi è la contrapposizione fra bellezza e bruttezza di quel mediocre sopravvalutato film che pretendeva di identificare La grande bellezza nel paragone fra una muta città monumentale, sontuosa, pubblicitaria e leccata, vuota di corpi, con la volgarità e la mostruosità etica dei suoi abitanti. Non esiste nemmeno una lotta e una vendetta dei mostri sui belli e sani come in Freaks di Tod Browning.
E neppure può esistere una grande bellezza assoluta, ma c’è una tensione segreta fra bruttezza e bellezza, che lottano sui visi e sui corpi e i grani di residua armonia, che riescono a brillare nei volti deturpati, splendono ancora di più nella loro piccola traccia, nella disarmonia per il ricordo dell’armonia perduta, nella dolcezza vittoriosa di occhi e sorrisi, nella gioia del movimento nel gioco, nel diritto alla felicità della musica e della danza nella festa. Flauti e tamburi e liuti a dieci corde vincono, là, sulla mostruosità dell’escluso per antonomasia, il lebbroso che doveva avanzare incappucciato, suonando una campanella per allontanare da sé chiunque, anche se nell’ultima scena, alla richiesta del maestro di comporre una frase con la parola casa, mentre la porta pesante del lebbrosario si rinchiude sulla processione dei malati, un vecchio/bambino scriverà, senza speranza, con il gesso sulla lavagna “La casa è nera“.

 

prima  quarta
terza  seconda

Forough Farrokhzad

 
Saluterò di nuovo il sole
 
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
 
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
si, la saluterò
la saluterò di nuovo.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
 
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.
 
[da: Un’altra nascita – in italiano nell’antologia La strage dei fiori, a cura di Domenico Ingenito, 2008 OXP editore]
 
 
Conquista del giardino
 
Il corvo che volò
al di sopra della nostra testa
e scese nel torbido pensiero di una nube vagabonda
e la cui voce come una lancia
percorse la vastità dell’orizzonte
porterà in città nostre notizie
 
Tutti sanno
tutti sanno
che io e te da quella fessura fredda e cupa
vedemmo il giardino
e da quel ramo alto e giocoso
cogliemmo la mela
 
Tutti temono
tutti temono ma io e te
giunti all’acqua, allo specchio, alla luce
non tememmo
 
Non si tratta
dell’effimero legame di due nomi
e di due corpi
nelle vecchie pagine di un registro
si tratta della mia chioma felice
e gli arsi papaveri dei tuoi baci
dei piccoli furti ingenui dei nostri corpi
nel luccichio della nostra nudità
come le squame dei pesci nell’acqua
si tratta di vita argentea del canto
di una piccola fontana all’alba
 
In quella fluida selva verde
noi, una notte, chiedemmo alle lepri
e in quel mare tempestoso e incurante
alle conchiglie colem di perle
e in quel nome strano e dominante
agli aquilotti
cosa dover fare
 
Tutti sanno
tutti sanno che noi
siamo giunti al sonno freddo e quieto di Simorgh
e abbiamo trovato la verità
nel timido sguardo del fiore ignoto
in una piccola aiuola,
e l’eternità in un istante interminabile
quando si guardano incantati due soli
 
Non si trattasi pavido mormorio nell’oscurità
si tratta del giorno e di finestre aperte
d’aria fresca
di un focolare dove ardono le cose futili
di terra fecondata da un’altra semina
di nascita, pienezza, orgoglio
si tratta delle nostre mani innamorate
che hanno gettato un ponte
di profumo e luce e brezza nella notte
Vieni sui prati,
su distesi prati
e chiamami oltre gli aliti dei fiori serici
come il cervo chiama la compagna
 
Le tende sono pregne di un rancore celato
e le candide colombe
dall’alto della torre bianca
guardano la terra
 
 
Dono
 
Io parlo dall’estremità della notte
 
Dall’estremità della tenebra
dall’estremità della notte
io parlo
 
Se verrai a casa mia, oh mio caro
portami una luce
e una piccola finestra
per guardare
la stradina affollata e felice
 
[Da Un’altra nascita in italiano nell’antologia E’ solo la voce che resta a cura di Faezeh Mardani, 2009 Aliberti editore]


 
cinéDIMANCHE

 
cd Nella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.