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Miti Moderni/6: movimento fuori

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Elliott Erwitt, USA. New York. Metropolitan Museum of Art. 1988
Elliott Erwitt, USA. New York. Metropolitan Museum of Art. 1988
Elliott Erwitt, USA. New York. Metropolitan Museum of Art. 1988

di: Francesca Fiorletta

tutto intorno è movimento, tutto è suono, spari di clacson, luci intermittenti del bistrot, tutto si tollera a voce alta, il vento e il pulviscolo, e quel prurito ghiacciato sulle mani, come grattano le dita, una per una, negli spazi intolleranti dell’attesa.

“Non stancarsi mai dei doni”.* Vari tipi di Frastuono

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FRASTUONOdi Francesca Matteoni

Se fossimo dentro una fiaba penseremmo che l’adolescenza sono i fanciulli di neve prima di sciogliersi in un’acqua comune e scorrere nell’età adulta – creature silenziose, perché le loro parole perfino quando dette restano un interrogativo: suoni che crediamo di dover codificare, quando basterebbe riuscire a serbarne memoria. Penseremmo a un momento irrisolto e pieno, a una porta socchiusa nel buio o una luce incerta del divenire, che ci riguarda tutti nel nostro esistere ordinario.

Frastuono, film scritto e realizzato da Davide Maldi, Lorenzo Maffucci e Nicola Ruganti e presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival, coglie con rara sensibilità proprio il dipanarsi di due adolescenze della provincia pistoiese, accomunate dalla passione per la musica e dal muoversi quasi invisibili nella loro fetta di mondo.

Iaui  vive in una casa nel bosco, sui monti dell’Appennino dove è cresciuto in una comunità autogestita; sogna e sintetizza la musica psy-trance da suonare nei free party in giro per paesi diversi. Angelica abita invece in città: canta in un gruppo punk e chiusa nella sua stanza si traveste, cambia abbigliamento e colore di capelli, si reinventa filmando i dettagli delle sue giornate.

Entrambi frequentano le scuole superiori, hanno esistenze normali o normalmente inquiete, dove mettono in scena la loro quotidianità come in una grande prova generale, da cui forse non si esce davvero. Soprattutto non la si può narrare da un principio a una fine senza inceppi o epifanie, senza che ciò che sembrava ieri si affacci nell’oggi, che non rispunti fuori dal paesaggio un “e io chi sono qui, chi sono queste persone?”, mentre la trama del reale quasi sfugge e si fa incomprensibile. Perché l’impianto armonico del vivere è fatto di discordanze e imprevisti, di rumore, molto prima che melodie. E dunque di frastuoni.

C’è il cammino di Iaui nel buio per ritrovarsi davanti a un sé bambino che ride e si addormenta sul corpo della mamma; o lo sguardo di Angelica sopra una piccola se stessa che balla spavalda durante una festa familiare. Il frastuono è il loro sapersi uguali e distanti da quella perfetta infanzia; o quella spezzatura prodotta nello spettatore, non più davanti alla storia filmata di due ragazzi, ma allo spettro delle sue molte vite, che gli ritornano per un sentiero onirico con altri volti e luoghi. Frastuono è la montagna innevata dove corre il ragazzo e quel panorama idilliaco è anche, quando la telecamera si alza fino alle cime, un ostacolo da valicare o una cattedrale in niente dissimile da un’altra, metafisica, desolata, in cui Iaui si trova a battere sui tasti muti di un vecchio organo, mentre un amico viaggia per le navate sullo skateboard. Frastuono è il sovrapporsi a queste scene del pianto senza perché di Angelica o la sua metamorfosi in fatina urlante, con parrucca bianca e occhialoni, ma con la medesima cadenza toscana di un’esasperata bambina dai capelli turchini che deve incantarsi via dal confortevole e spaventoso territorio domestico. Frastuono è lo sdoppiarsi nei sotterranei cittadini fino a risalire per i palazzi storici affacciati sulla piazza e vedersi, come fanno Angelica e la sua amica, proiettate laggiù sui sampietrini, nel desiderio di essere da un’altra parte. O lavorare tra gli alberi alla riparazione di una barca con gli amici, così che un giorno la staticità dei monti sia l’avventura del mare. Frastuono è la provincia come l’adolescenza, terra ingrata e sempre ignota, perché prima di conoscerla ci si affretta a fuggirne anche solo per vie fantastiche, ma che tuttavia non è distante da altri immaginari urbani. Pistoia, circondata dalle montagne, segreta nel suo cuore cittadino, bella e ostile è la terza protagonista del film, destinataria di un gesto totale d’amore che non pretende affatto di essere ricambiato. Così Iaui scrive Pistoia Ovest come Berlino Est sul muro di una stazione secondaria dove i treni sembrano non passare; oppure ancora lungo il binario, il rito notturno della tavola da skateboard infranta e bruciata evoca la Portland di Paranoid Park di Gus Van Sant, da anni uno dei registi americani più genuinamente interessati a raccontare gli adolescenti senza spiegarli o ipotizzare cosa dovrebbero essere. Iaui e Angelica approderanno entrambi a Berlino quasi per dimostrare a se stessi che si può andar via e poi scoprire, paradossalmente, che per quanto in viaggio siamo noi a essere abbandonati, disertati. Dagli affetti e dagli amici o dalla semplice paura di smarrirli, scorgerli tranquilli nel prato dove siamo insieme e poi non riconoscerli più; dai volti familiari quando diventano l’espressione quieta e di fondo estranea di un qualsiasi animale esotico in un giardino zoologico. E vi è infine il frastuono della musica: il frastuono nelle cuffie mentre si attraversa la boscaglia o si pedala in bicicletta; il frastuono dei festival techno e trance per le valli popolate di un’umanità bizzarra e variopinta; delle canzoni gridate e selvaggiamente dissonanti, dei consigli e delle note che provengono da misteriosi spiriti-guida che sono sia artisti che traghettatori di ansie e meraviglie, proprio come le piccole bestie sapienti di Pinocchio. La musica non quale scopo o riscatto, ma come seconda pelle che isola, salva e pone fuori da ogni giudizio i due ragazzi, qualsiasi sia poi la strada che prenderanno. Rimarrà deluso chiunque si aspetti un film sull’adolescenza come preludio a storie di successo artistico – è molto più interessante per gli autori sprofondarci in un sogno, nella dimensione della lentezza e dell’antinarratività, come per farci affiorare davanti a uno specchio.

Attraverso un ammirevole lavoro di montaggio che mette insieme un girato di tre anni, materiali d’archivio e dialoghi minimi, nell’era frenetica del comunicare e produrre, dell’emergere con atti notevoli di genio, ambizione, spregiudicatezza, Frastuono è una commovente restituzione: ha una forza elettiva, non vuole affatto catturare il maggior numero di consensi, ma scegliersi i suoi destinatari, suggerendo di riprendere a guardare, tenere saldo il coraggio o l’incoscienza che permette a un adolescente di liberarsi dalle etichette, di lasciarsi dietro (e dentro) l’origine, aprire un ombrello di fortuna, issare una vela, camminare spedita, salpare verso quel luogo che è suo e suo soltanto ed è tutta la sua vita.

Nota personale

Conosco da tempo Nicola Ruganti e Lorenzo Maffucci e tramite loro ho incontrato Davide Maldi, il regista grazie al cui occhio Frastuono si è concretizzato. Conosco Nicola e Lorenzo perché siamo tutti e tre di Pistoia. Allora allo stupore per questa visione si accompagna la mia gratitudine di pistoiese prima che di amica, perché niente come la provincia mette addosso un senso intimo e morale di esilio, di straniamento e di rivalsa. Ma si può imparare che l’unica rivalsa possibile è immaginare questo luogo finché la sua anima sia per noi più accettabile, diventi in qualche modo la casa che comunque, nonostante le esperienze altrove, ci abita.

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*Le parole sono tratte da una poesia di Amelia Rosselli, contenuta in Documento (Garzanti 1976)

FRASTUONO, SCHEDA TECNICA

regia, fotografia: Davide Maldi
soggetto: Lorenzo Maffucci, Nicola Ruganti
montaggio: Ilaria Fraioli
suono: Stefano Grosso, Marzia Cordò, Giancarlo Rutigliano, Lorenzo Maffucci
interpreti e personaggi: Iaui Tat Romero, Angelica Gallorini, Alice Bianconi, Lorenzo Fedi, Elia Zampini, Alessandro Fiori, Father Murphy
produttori: Dario Zonta, Gabriella Manfrè
produzione: Invisibile film, Rai Cinema

Dalle memorie di un insonne/3

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di Giorgio Mascitelli

Modestamente, e non me ne vanterò mai abbastanza, sebbene mi avveda di quanto questa informazione possa apparire sorprendente in uno così sconnesso e inabissato, io conduco una vita sociale intensa nel suo genere. Soffrendo un po’ d’insonnia o sarebbe più giusto dire di metainsonnia, ossia di insonnia da paura dell’insonnia, per quanto abbia sviluppato una serie di tecniche di addormentamento aggiornate e pressoché infallibili in un’ottica statistica di lungo periodo, ho deciso utilitaristicamente di far diventare questo inconveniente un atout o per meglio dire un asset per migliorare le mie relazioni sociali e nel contempo facilitare al postutto le operazioni di inoltramento nel sonno. Così, visto che potrei non addormentarmi tanto presto, frequento serate mondane di vario tipo e genere. Naturalmente la disponibilità e l’impegno non bastano da soli per avere una vita sociale intensa, ci vuole anche il talento naturale.

Il mio talento è questo di conoscere tantissime barzellette, più dello stesso Berlusconi, e di saperle raccontare benissimo, cosicché spesso gli estimatori le vogliono riascoltare e io sono gettonatissimo.  Inoltre, rispetto a Berlusconi, ho anche il vantaggio che se per caso una non piace, uno non si sente obbligato a ridere lo stesso. Conosco quella dell’italiano, del francese e del tedesco in un campo di ortiche, quella della talpa e del carabiniere, quella delle scandinave e delle piramidi,  quella sporca della panna montata, quella delle tutele crescenti, quella del mago di Avellino, quella del fiscalista lussemburghese, quella dell’algoritmo lussemburghese,  quella del prete e della suora che giocano a golf, quella del self made man, quella del fantasma Formaggino, quella di Pierino e del protocollo di Kyoto,  quella dell’abolizione delle frontiere, quella del gene del successo, quella del quoziente d’intelligenza più alto del mondo,  quella di Zuperman, quella della fine dell’umanesimo, quella del trionfo della libera scelta, quella del maggiolino tutto matto e molte altre ancora.

Immancabilmente, c’è sempre un momento della serata in cui mi si chiede di raccontarne una  nuova oppure di ripetere questa o quella ( se questo momento non arriva spontaneamente, non esito a fomentarlo io). Allora supero di slancio la mia stanchezza e so di non essere veramente stanco, ma che è tutto un fatto di testa. La gente ride e io stesso sorrido compiaciuto come un vero re del convivio. Il mio compiacimento non può che aumentare se penso che se non avessi fatto questa scelta, a quest’ora starei a rigirarmi nelle coperte in preda alle indispensabili ma snervanti operazioni di addormentamento.

Immancabilmente, però nel corso della serata, talvolta proprio mentre sto assaporando lo spumeggiante calice del successo, una domanda angosciosa torna a trafiggermi, come se fosse un qualsiasi raggio di sole. La domanda angosciosa che mi trafigge è precisamente se ho fatto bene a fare quella scelta. Non devo essere frainteso, non alludo alla scelta se tirare tardi oppure andare a letto presto. Quella scelta è stata presa una volta per tutte e perfettamente ponderata e calcolata, alludo invece alle prospettive che quel dato tipo di serata rispetto a un’altra offre. Se ho scelto di muovermi in direzione di un’ottimizzazione dei miei disturbi, allora è perfettamente legittimo chiedersi, anche con una certa angoscia, se sia quella la migliore ottimizzazione possibile oppure possa essere implementata con un’opportuna informazione preventiva. Ci potrebbero essere altri luoghi dai quali la mia mondanità potrebbe ricevere maggiori propellenti rispetto a quello dove mi trovo.

Basta un attimo per fare la fine dell’uomo in frac che si trovò a girare a zonzo dopo mezzanotte con il suo cilindro e con il suo bastone di cristallo, non appena si rese conto di aver partecipato alla serata sbagliata. Per esempio, una volta due amici mi proposero di andare a prendere il gelato nella piazza di Vigevano, cosa che mi avrebbe rilassato e forse fatto dormire subito, ma la stessa sera avevo un invito per un salotto di quelli giusti ,che mi avrebbe spianato la strada per altri salotti ancora più illustri e di salotto in salotto, nei quali si apprezzavano o si sarebbe apprezzate le mie barzellette più taglienti, a quel punto nel ripostiglio avrei potuto finirci solo se lo avessi voluto io. Era angoscioso per me cosa scegliere perché era chiaro che la serata vigevanese sarebbe stato un toccasana, un unire l’utile al dilettevole e che solo un desiderio di ottimizzazione strumentale mi avrebbe fatto scegliere quel salotto buono. Per fortuna poi mi venne in mente che  quella gente, quella del salotto, aveva bisogno di me, attendeva con ansia quella ventata di buon umore che le mie barzellette avrebbero senz’altro portato. Non mancai di sottolineare nel corso della serata che agli ampi raduni di una socialità consumistica io preferivo un desco parco allietato dal calore di pochi amici sinceri e che avevo rinunciato a una magnifica serata a Vigevano per essere lì. Cominciai anzi a nutrire  una profonda angoscia  per questo mio sacrificio contrario ai miei voti più profondi, che alla fine della sera cedette il passo a un senso di disdoro perché le mie barzellette furono definite da un commensale già note, anzi stravecchie, come raccontate da uno completamente sconnesso dalla rete e non solo.

Talvolta mi viene il sospetto che il discorso del nemico di classe si sia insinuato in me. Qualcosa di simile a una prova l’ho avuta allorché una mia vecchia compagna di classe, che lavora come ricercatrice precaria all’Istat, mi ha detto che per loro le classi sociali non esistono più. Era chiaro come il sole che lì gatta ci covava. Ma forse sto semplicemente boicottando me stesso, proprio ora che ho avuto una giusta idea ottimizzatrice che mi consente di sfruttare le mie problematiche per avere successo. Spesso accade che invidiamo a noi stessi la nostra forza di volontà e invece di lasciarla a briglia sciolta, come sulle strade della California, la blocchiamo con mille piccole obiezioni. E’ ora che io rimuova gli ostacoli che metto da me stesso sulla mia propria strada per rimanere in una condizione di inferiorità che devo imputare soprattutto a me medesimo e agire con decisione in vista dello scopo prefissato. Oggi insomma dobbiamo tutti farci un po’ guru di noi stessi, che tra l’altro ci permette anche di risparmiare, con buona pace dell’AssoGuri.

(3,continua)

 

Alcune domande a Alberto Casadei su “Letteratura e controvalori”

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intervista di Giovanni Turi

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Letteratura e controvalori, pubblicato da Donzelli nella collana Saggine, raccoglie alcuni interventi di Alberto Casadei, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Pisa, sul paradigma critico di Auerbach (cap. I), sulla possibilità in epoca contemporanea di una narrazione realista che si confronti anche con gli altri media (cap. II), sul legame tra letteratura e contesto nazionale (cap. III), sui rapporti tra critica, web e realtà editoriale (cap. IV); in chiusura Casadei elenca poi una serie di brevi considerazioni che sintetizzano quanto esposto in precedenza e pongono nuovi spunti di riflessione. Qui di seguito si intervista l’autore a partire da alcune sue affermazioni.

«Anche la letteratura sembra ormai soggetta a leggi di mercato, ma i suoi sono spesso “valori contro”, tendenzialmente rivolti più alla lunga durata che al realizzo immediato» (p. VII): quali sono dunque i “controvalori” della letteratura?

Sono soprattutto quelli che ci costringono a porre in discussione alcune nostre certezze sulla realtà normalizzata. Una poesia di Paul Celan o della nostra Amelia Rosselli, per esempio, propongono visioni del rapporto fra io e mondo frantumati, incoerenti, fortemente oscuri: eppure noi percepiamo un senso che emerge da quell’uso in apparenza tutto personale e anticomunicativo del linguaggio. Quello è il primo “controvalore” della letteratura: la possibilità di far comprendere che ogni individuo può trasmettere qualcosa di solo suo, importante per tutti ma non riducibile ai valori comuni, che spesso sono soltanto luoghi comuni.

«Gli attuali paradigmi […] spingono a considerare il realismo innanzitutto come un codice di accostamento fra soggettività individuale-interiore e mondo esterno», che include anche alcune forme di fantastico (pp. 13-15): non si rischia così di rendere il realismo una categoria quasi onnicomprensiva?

No, perché ovviamente io escludo testi che introducono componenti fantasy puramente esornative: Barbie fairytopia, per esempio, non potrà mai ricondurci alla realtà perché è solo una sua trasposizione edulcorata. Invece, il realismo che ingloba elementi assurdi, grotteschi o puramente fantastici lo fa per rendere più completa la nostra percezione del rapporto che abbiamo con il mondo, spesso governato da elementi inconsci o comunque non razionali. Non si va dunque verso il mistico ma verso l’indagine sul rapporto biologico corpo-mondo, che ha ancora tanti aspetti da rivelare. E la letteratura, come le arti in genere, può contribuire a farlo.

«La dimensione nazionale serve adesso e servirà ancora a concretizzare l’universale, a rendere specifico e dicibile quanto altrimenti rischierebbe di rimanere comunicazione asettica» (p. 123): in una realtà globale e interconnessa la dimensione nazionale non è solo una delle tante possibili concretizzazioni?

Sì, ma non è solo un tassello in un mosaico molto più ampio. Ogni cultura, legata a una lingua ma anche alle sue realizzazioni artistiche e letterarie in particolare, in realtà condensa molte delle sue manifestazioni più specifiche nello stile e nei modi di essere che solo in quel determinato ambiente hanno un senso. In altre parole, la globalizzazione può rischiare di far condividere ciò che è neutro, e quindi alla lunga insignificante. Invece, le letterature possono far confrontare ciò che ha avuto una storia e una realizzazione stilistica in un ambiente e in un periodo, e questo può essere molto più interessante che condividere l’uguale. In parte lo diceva già Leopardi: noi dobbiamo anche appassionarci alle nostre opere, e poi confrontarle con quelle realizzate dagli altri, per comprendere meglio noi stessi.

«[…] le caratteristiche del web in rapporto alla diffusione e alla critica della letteratura sono chiare: un primo valore aggiunto è l’immediatezza delle proposte e delle reazioni; un secondo è la mancanza di una gerarchia prestabilita; un terzo è l’ampiezza dei possibili utenti» (p. 129): la capacità e l’acume critico non rischiano però di venire surclassati dall’abilità comunicativa?

Il problema di difendere anche forme minoritarie, ma di qualità, in un contesto tendenzialmente basato sulla quantità e facilità comunicative esiste. Però ho notato che spesso, se si affrontano problemi davvero importanti chiarendo quali sono le implicazioni, anche nel web si ottiene una risposta attenta. Bisogna dosare al meglio il rapporto fra componente innovativa e volontà comunque di coinvolgere un pubblico potenzialmente interessato a cogliere suggerimenti, per esempio su opere o brani davvero importanti e invece poco visibili a livello massmediatico.

«[…] soprattutto in Italia è assoluta la necessità di allargare il pubblico dei lettori capaci di un giudizio autonomo, che sostenga, come avviene per esempio negli Stati Uniti, autori validi ma che non godono di un successo commerciale» (p. 134): oltre alla scuola, a chi spetta (e come) dunque formare lettori competenti?

Una grande opportunità è data dalla rete: occorrono senz’altro blog che accolgano sempre più interventi di giovani. Personalmente, durante le mie lezioni universitarie consiglio agli studenti di andare a vedere cosa succede nei blog letterari più accreditati, e di farsi un’idea sulle opere discusse. Se poi gruppi di giovani vogliono a loro volta creare un loro spazio, benissimo: l’importante è che le discussioni diventino sempre più un patrimonio condiviso e non restino circoscritte a circoli più o meno chiusi. Con questi confronti, dovrebbe crescere la scelta consapevole delle opere migliori, e quindi anche il web può diventare un veicolo per formare lettori competenti.

«Alla domanda: “quali sono i narratori e i poeti italiani (e non solo) attualmente più rappresentativi?” è comunque necessario rispondere» (p. 172): secondo lei quali sono?

Posso citare Walter Siti e Antonio Moresco, ormai narratori largamente stimati, ma possiamo aggiungere giovani autori come Giorgio Vasta, Paolo Sortino, Nicola Lagioia e anche Alessandra Sarchi. Per la poesia, un recente sondaggio del Premio Dedalus-pordenonelegge ha segnalato, e sono d’accordo, Milo De Angelis, Mario Benedetti, Antonella Anedda, ma anche autori più giovani come Stefano Dal Bianco, e aggiungerei Massimo Gezzi e Laura Pugno. Ma sono solo alcuni dei nomi citabili!

cinéDIMANCHE#11 GILLO PONTECORVO La battaglia di Algeri [1966]

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Orsola Puecher
 

1957 Nalla Casbah di Algeri due uomini, una donna e un bambino braccati in un nascondiglio nel muro, mimetizzato da povere piastrelle sbrecciate, nei secondi – 30 – dell’ultimatum ad arrendersi.
 
Alì, mi senti?
Ascolta.
Tu sei l’ultimo.
Non c’è piu’ niente da fare.
L’organizzazione non esiste più.
Sono tutti morti o in prigione.
Uscite fuori.
Avanti, arrenditi.

 
Sguardi, respiri affannosi, silenzio consapevole – non si arrenderanno – prima di essere fatti saltare in aria dai lezards, i paracadutisti comandati del colonnello Mathieu e prima di un lungo flashback sulla nascita e morte della rivolta algerina contro i colonialisti francesi. Parte dell’antefatto il tradimento di Sadek che, dopo un cruento interrogatorio, sfinito dalle torture, disperato, condurrà i soldati al nascondiglio dei suoi compagni.

 
inizio
 
finale
 
sadek
 
 
voragine
 
addolorata
 
deposizione
 
orologio
 
bambino gelato
 
morti bar

Questo film verità ha la rara prospettiva, l’intento, di metterla sempre questa verità in una posizione equilibrata ed equidistante, impiegando volutamente i mezzi tecnici di un documentario: un bianco e nero vellutato, il contrasto elevato della fotografia, un morbido sgranato che non indulge mai nel particolare emotivo, banalmente psicologico, la luce diffusa neutra e oggettiva, la camera a spalla 16 millimetri per le riprese nella Casbah, che sembra far correre lo spettatore fra scale, viuzze, porte, scalini nell’ansia dei rastrellamenti.
 
La violenza giusta, secondo ciascuna delle due parti, quella rivoluzionaria di chi si rivolta e quella del militare che fa il suo dovere e obbedisce agli ordini, anteponendo il fine ai mezzi anche sordidi per reprimere, è sempre dolorosa e ingiustificabile.
 
La violenza è violenza, siano corpi di pelle scura o di pelle bianca, il loro scempio è sempre qualcosa di traumatico.
 
Quando il livello del conflitto si alza da una prospettiva militare e, dalle singole esecuzioni di membri delle forze di polizia ad opera dei ribelli, si evolve in attentati terroristici contro civili, siano essi opera dell’OAS, mero terrorismo di destra o del Fronte Nazionale di Liberazione, come reazione, lo sguardo è sempre di profonda pietà.

 

 

Il Kyrie della Messa in Si Minore di Bach che nasce sommessamente dal boato commenta con la stessa attonità pietosa tenerezza sia gli effetti dell’esplosione nella Casbah con la donna Madonna addolorata e la deposizione dei corpi, che quelli degli attentati nei bar dei bianchi, dove le lancette degli orologi camminano verso l’ora delle detonazioni che fermeranno per sempre la vita di un bambino che lecca il gelato o un ballo di ragazzi, il cha-cha-cha spensierato e inconsapevole di Hasta mañana, Rebecca!.
 
Gli accordi e il canto sacro e solenne sulle macerie, fra il fumo, aprono verso l’alto di una visione super partes, verso un Requiem contro ogni guerra e più di qualsiasi parola cercano al conflitto pace, alla morte tregua.

Il comandante Mathieu istruisce i suoi uomini alle regole, mai dismesse e rinnegate, di ogni teatro di guerra:
 
Dobbiamo compiere le indagini necessarie per percorrere l’intera piramide da un vertice all’altro. La base di questo lavoro è l’informazione, il metodo è l’interrogatorio. E l’interrogatorio diventa metodo, se condotto in modo da ottenere sempre una risposta. Nella situazione attuale, dimostrare una falsa umanità non porta che al ridicolo e all’impotenza. Io sono certo che tutti i reparti comprenderanno e reagiranno conseguentemente. Ma purtroppo non dipende solo da noi. Noi abbiamo bisogno di avere la Casbah a disposizione. Dovremmo setacciarla e interrogarla tutta quanta. Ed ecco che ci troviamo di fronte all’intrigo di leggi e di regolamenti che continuano ad essere operanti, come se Algeri fosse un luogo di villeggiatura e non di battaglia.
 
E così la rivolta verrà stroncata.

 

 

Ma a poco a poco i tempi diventeranno maturi per un cambiamento e pochi anni dopo niente potrà più fermare quelle grida incomprensibili ritmate, da incubo delle donne e la loro danza con la bandiera algerina fra le mani.

mathieu
 
rivolta
 
2 donna danza
 
donna danza

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Dalla parte di Sciascia

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Tra memorie e inquisizioni. La necessità di leggere Sciascia

Esce il secondo volume delle Opere. Che contiene scritti ancora attualissimi: dalla cronaca di Rosetta, giovane mondana milanese massacrata dalla polizia, all’Affaire Moro.

di Teo Lorini

 

Agli sciasciani di stretta osservanza la storia è nota: malato da tempo, Leonardo Sciascia non ebbe modo di veder stampata l’ultima sua opera, Una storia semplice, che tuttavia Adelphi riuscì a far arrivare in libreria proprio nel giorno – il 20 novembre 1989 – in cui l’autore di Racalmuto moriva.

Quasi a celebrare questo sodalizio d’impegno, il secondo volume delle Opere curate da Paolo Squillacioti esce a ridosso del 25° anniversario della scomparsa di Sciascia. Meno colossale del primo (che superava le 2000 pagine), questo volume s’articolerà in due tomi. In quello che abbiamo fra le mani sono raccolte due categorie di testi. Intanto le “Memorie”: il lessico erudito dell’uso racalmutese Occhio di Capra e il mirabile diario in pubblico Nero su nero, zibaldone di pensieri apparsi in vari quotidiani sull’arco del cruciale decennio 1969-’79. Poi, ed è il boccone più ghiotto, le “Inquisizioni”. Il termine, mutuato dalle inquisiciones dell’amato Borges, ma anche dalle inquisizioni filologiche di Salvatore Battaglia, identifica quelle opere in cui narrativa e saggistica si coniugano e il saggio storico viene temprato dallo strumento inesausto di una lingua che intaglia tenacemente parole e frasi alla ricerca di quella concisione che per Sciascia è stata, sino alla fine, obiettivo inderogabile della scrittura. Troviamo dunque in questa sezione opere fondamentali, e carissime al Racalmutese, come la Morte dell’inquisitore, Il teatro della memoria, L’Affaire Moro e il dittico La strega e il capitano e 1912 + 1, con cui Sciascia omaggiò in ragguardevole sequenza Manzoni prima e Pirandello poi.

Grandi riproposte dunque, in un’edizione suntuosa e condotta con lo scrupolo filologico di cui Squillacioti ha già dato prova nel primo volume delle Opere (ma anche in Il fuoco nel mare, riedizione adelphiana dei racconti extravaganti). Sarebbe tuttavia un errore ridurre questa al monumento con cui si mummifica un autore ormai canonico ascrivendolo alla categoria del classico. Anzi, proprio le “Inquisizioni” dimostrano l’attualità del messaggio di Sciascia, la necessità di rileggere Sciascia, a un quarto di secolo dalla sua scomparsa. Alcuni esempi, e non necessariamente tra i più famosi. Le Cronachette (apparse nel 1985 per Sellerio, come 100a uscita della collana “La memoria”, che proprio Sciascia inventò e che oggi è diventata una specie di riconoscibilissimo brand per gialli di successo) includono la storia della Povera Rosetta, «giovane mondana» milanese con velleità di cantante, massacrata da un brutale pestaggio poliziesco in piazza Vetra e morta in ospedale «dopo dieci ore di atroce agonia e senza un familiare che l’assistesse»: come non sentire risuonare in questa storia (di cui fra l’altro il siciliano Sciascia riesce a restituire in pieno la profonda milanesità) i nomi di più recenti “morti di Stato” per i quali – come per la povera Rosetta – non è stato trovato alcun colpevole.

E ancora L’affaire Moro, libro su cui nacque il nostro amore per Sciascia e che l’autore ricorda spesso tra i suoi più travagliati («Questo libro mi ha dato l’insonnia»). Sciascia entrò infatti come deputato a Montecitorio l’anno successivo al rapimento e all’omicidio di Moro; fu membro della commissione parlamentare d’inchiesta su Via Fani e redasse una relazione di minoranza (stampata in coda all’Affaire Moro), non solo per prendere le distanze dalle conclusioni di quel comitato, ma anche per rendere fruibili ai cittadini le migliaia di pagine contorte e, di fatto, illeggibili che la commissione aveva prodotto. Proprio quel gesto, assieme alla lettura che nell’Affaire egli diede dei passaggi del sequestro e delle lettere del Presidente DC dal carcere brigatista, gli valsero cospicue critiche di quello che oggi si chiamerebbe «complottismo», accuse che lo accompagnarono per il resto della vita con lunghe polemiche, talora isteriche, spesso pretestuose, ma che nella sostanza non inficiano le conclusioni a cui Sciascia era pervenuto già nel 1978, tanto che a Domenico Porzio dirà nel 1989: «Di quel libro non ho da mutare una virgola. E visto che tutto ciò che è avvenuto in seguito mi ha dato ragione, io ne sono soddisfattissimo. Naturalmente ci sono stati degli attacchi feroci. Ma hanno avuto torto loro».

La (ri)lettura di una delle più preziose tra le “Inquisizioni” sciasciane si arricchisce, nel volume di Adelphi, dell’appendice curata da Squillacioti che riepiloga con abbondanza di interessanti testimonianze e documenti la storia del libro, le difficoltà e le controversie che ne accompagnarono la stesura e l’uscita per i tipi di Sellerio.

Ciò che più inquietava Sciascia, attento lettore pirandelliano, e che più inquieta ancor oggi il pubblico dell’Affaire, è la progressiva delegittimazione di Moro e dei suoi scritti, un misconoscimento che, pirandellianamente appunto, congela Moro nella “forma” dello statista e al contempo lo condanna a morte come uomo. Ma, come si legge in Occhio di capra, «non c’è fatto pirandelliano che, prima o dopo Pirandello, non sia realmente accaduto». Così è sulla controversa identità dello “Smemorato di Collegno” che Sciascia ripercorse nel Teatro della memoria e che, mentre il fascismo definitivamente si consolidava, occupò l’Italia, divisa tra “bruneriani” e “canelliani”. Così è ancora per 1912 + 1, l’omaggio a Pirandello con cui Sciascia inaugurò la propria collaborazione con Adelphi e che riepiloga un anno che avrebbe dovuto cambiare tutto in Italia, tutta l’Italia. Il suffragio universale, il patto Gentiloni, la fine del non expedit: un salto nel buio? Il trionfo del socialismo? La nascita di un’Italia nuova? Naturalmente no. Quella rivoluzione non doveva compiersi e, puntualmente, non si compì, come altre rivoluzioni più prossime a noi. E Sciascia si lascia andare a un ricordo personale, rievocando il suo unico incontro con Giorgio La Pira che «ripeteva “Si dev’essere d’accordo”. Tutti d’accordo. Muoveva le piccole mani come a modellarlo materialmente l’accordo: docile e dolcissimo impasto».

 apparso su “Pagina99” del 3 gennaio 2015

Da “Avremo cura”

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di Gianni Montieri

(Sud) in caso di morte


I

Gli spararono in faccia
che tutti sapessero, che tutti ricordassero
la sera stessa in piazza
commenti da stupidi ventenni
stabilivamo con una birra in mano
il grado di importanza di una morte
(chi lo conosceva, quanti colpi
se c’era tanto sangue, quanta polizia)

Le Bandierine

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Michelle Sank – The Submerged
Michelle Sank – The Submerged
Michelle Sank – The Submerged

di: Federico Pevere

Sergei Chalibashvili, georgiano, è l’unico atleta deceduto durante una competizione internazionale riguardante gli sport acquatici. Greg è considerato il più grande tuffatore di tutti i tempi. Tom è semplicemente Tom, per lungo tempo il compagno di Greg; è morto una ventina di anni fa per AIDS.

Leoni o sciacalli

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di Lorenzo Forlani

In questo clima di rinnovata caccia alle streghe, trovo assai controproducente un atteggiamento che vedo essere condiviso in modo crescente da molti amici musulmani.

Interpellati, accerchiati, esaminati dalla giuria popolare italiota sulla loro presunta indifferenza (o addirittura presunta connivenza) rispetto alle stragi umane consumatesi negli ultimi tempi, molti di loro – assolutamente in buona fede e nella posizione di non sapere da che parte iniziare a “giustificarsi” o discolparsi – tendono a trincerarsi dietro lo scudo di frasi che credono innocue se non addirittura concilianti ma che non si accorgono che invece fanno il gioco degli avvoltoi islamofobi.

“L’islam è religione di pace”; “l’islam è tolleranza”; “l’islam amore, contro la guerra”; “la mia religione è splendida, Bin Laden non è un vero musulmano”; e così via.

Ragazzi, non è così che dovete difendervi, ove ce ne sia bisogno. A ben vedere, è proprio questo l’atteggiamento che i razzisti mascherati vogliono vedere da voi: una affannosa presa di distanza; una imbarazzata e incerta corsa contro il fantasma dell’islamofobia, che a volte sembra potervi risucchiare nel vortice del senso di colpa, che per osmosi vi si attacca al collo.

I condor del settarismo non aspettano altro: specie quelli che in altri campi sono considerati degli “intellettuali”, come Giuliano Ferrara, attendono giorno e notte il momento per ironizzare o alludere al doppiogiochismo presumibilmente insito in queste posizioni, che vendono al pubblico di pecorelle smarrite come delle “dissimulazioni”, come delle dimostrazioni dell’ambiguità di fondo dei musulmani, che “a parole parlano di pace ma poi mettono le bombe o tagliano gole”.

Così non va bene, e mi rendo conto che ci sia bisogno di fare attenzione ad esprimere le proprie opinioni. Chiedersi ad esempio se sia il caso – come comunità musulmane – di accettare inviti in studio a trasmissioni tv che non solo sono di pessima qualità, che non solo hanno il preciso obiettivo di isolare ulteriormente gli emarginati, che non solo sono basate sul nulla, ma che sopratutto si propongono quasi sempre di mettere a confronto – con vile scorrettezza – interlocutori consapevolmente inadeguati.

E non mi riferisco al fatto che gli ospiti non sappiano nulla di islàm ma si ostinino a discettarne: quello ci può stare – che devi fare? – è il lato problematico della libertà d’espressione.

Il problema è l’asimmetria: davvero una ragazzina musulmana – educata, sensibile, pacifica – che frequenta le scuole medie può gestire un contraddittorio con Magdi Allam, Sallusti e Ferrara, animali da palcoscenico e professionisti della diffamazione preventiva, del buttarla in caciara mantenendo l’atteggiamento di chi la sa assai lunga?

Davvero un simpatico e devoto ragazzo marocchino di 18 anni, che forse da un anno ha iniziato a dedicarsi alla difficoltosa e oscura esegesi personale dei versetti del Corano che impara a memoria sin da quando è piccolo – e che quindi forse sta iniziando a capire, contestualizzarne, storicizzarne e somatizzarne i contenuti – può “difendere” una tradizione religiosa di 1400 anni – che ha coinvolto 4 continenti e miliardi di persone di etnie diverse – dagli assalti di gente che ha il solo scopo di denigrarla, questa tradizione?

Ricordo come fosse ieri che qualche anno fa, all’indomani dell’omicidio di una ragazza pakistana nella provincia di Brescia, a “Porta a Porta” fu invitata una ragazzina egiziana di 11 anni, undici, per parlare di islàm, del dissociarsi dalla lapidazione (!), della condivisione dell’omicidio d’onore, dei diritti umani, ecc. I suoi dirimpettai erano: Khaled Fouad Allam, Bruno Vespa (mai visto così incalzante con le domande, sembrava Piero Ricca che incontra Berlusconi), Carlo Panella, un radicale a caso, Daniela Santanchè e in collegamento un imam di Segrate, anche in stato abbastanza confusionale.

La ragazzina fu aggredita in modo continuato (e accusata di dire “quello che le ordina il padre”, che presumibilmente la teneva legata giorno e notte), anche con domande apparentemente banali (“è giusto ammazzare un adultero?”), a cui per evidente timore, per chiara impreparazione personale (undici anni eh!) e disabitudine a stare in tv – tantomeno di fronte a sciacalli affamati – rispondeva sillabando, o trincerandosi dietro a “non posso dirlo io, lo stabilisce Allah”, o “io non lo so, ma credo alla Legge di Dio, solo Dio sa”; risposte che venivano raccolte al balzo dai suoi aguzzini per rinvigorire i loro anatemi.

E così via per un paio d’ore, dalle quali la ragazzina ne usciva come la angelica e furbacchiona nipotina di Bin Laden, tanto tenera in viso e nei modi quanto pronta a compiere un eventuale attentato seduta stante. Fiera di aver nascosto al pubblico impaurito dal Sig. Islàm le sue diaboliche peculiarità.

Eppure in Italia esistono accademici, sia di fede musulmana che non, o anche religiosi (anche qui: musulmani e non) assai preparati, la cui partecipazione ad alcuni dibattiti – che in ogni caso scontano il fatto che sono trasmissioni tv, con tutto ciò che comporta in termini di eliminazione delle complessità dalla discussione – sarebbe assai utile: non certo per dare risposte definitive e preconfezionate ma sicuramente per rendere il quadro meno opaco. Ma, soprattutto, per non permettere che venga stuprata l’informazione, per evitare che vi siano avvoltoi che giocano con le carcasse di chi non sa nemmeno per quale motivo debba essersi meritato la morte “televisiva”, o l’umiliazione, o l’accerchiamento.

Perché ai talk show invitano sempre i ragazzini, o magari quei musulmani che sì, sono integratissimi (a volte vengono trattati da immigrati clandestini, magari senza considerare che sono italiani di seconda generazione e che sono quindi un prodotto umano occidentale, che hanno solo scelto l’islàm come fede), ma che di islàm – proprio perché sono a tutti gli effetti occidentalizzati e poco interessati alla religione – non sanno nulla se non ciò che gli hanno raccontato i loro padri da piccoli?

Perché il clima di paura diffusosi presso le comunità musulmane in italia sta modificando, secondo me, il loro atteggiamento rispetto al mondo che li circonda: li ha ormai stretti in un angolo, costretti a gettare con una certa urgenza acqua sul fuoco ardente dell'”islàm che fa paura”, impedendo loro di chiarire cosa sia l’islàm in sè, o di parlarne serenamente e seriamente.

Troppo urgente, nel momento in cui un musulmano deve “discolparsi” per i fatti di Parigi, la necessità di dire “la mia religione è pace”, “quello non è islàm”, inducendo lo spettatore a commentare con un saccente “eh, come no, la pace” e a fare facili battutine.

Quella puntata mi rimase impressa, e da quel giorno è nella mia memoria come il paradigma della messa in scena islamofoba: un format che è stato poi ripreso da tutti i canali televisivi nazionali, come in questi giorni ho potuto ahimè constatare.

Il fatto è che – se proprio vogliono andare ospiti – i ragazzi musulmani dovrebbero studiare di più, ricordandosi che dall’altra parte c’è gente che, pur avendo studiato su Topolino, dedica buona parte del proprio tempo a costruire castelli d’infamia contro l’islam, per cui è necessario perlomeno rimpinguare il bagaglio di luoghi comuni con una qualche parvenza di veridicità.

Questi ragazzi spesso pensano di andare a discutere della propria fede ma non sanno che vengono invitati in una Gabbia (spesso di nome e di fatto), dove fuori ci sono quelli che lanciano le monetine, invece che le noccioline. In una trappola.

Studiate ragazzi, non rinnegate mai la vostra enorme, millenaria tradizione e cercate la vostra strada, che si parli di quella intima e spirituale o quella della vostra idea del rapporto tra fede e ragione, tra Stato e religione, tra morale e politica.

L’islàm “moderato” – dispiace apparire formalmente d’accordo su questo con i vari islamofobi nostrani, ma per fortuna su presupposti diversi – non esiste. E ciò non significa, come pensano questi ultimi, che quindi i musulmani siano “non moderati” (cioè violenti), nè tantomeno significa che esiste solo quello “radicale”. Non esiste perché è l’aggettivo ad essere sbagliato. Un aggettivo che non si accorda col sostantivo cui è riferito.

L’islàm è una religione, una fede, un sistema di valori, una tradizione storico-filosofica, una cultura. Non ha senso definirlo moderato o meno. Si può forse essere cattolici moderati? No, se con “moderato” non ci si limita ad intendere “che si rifiuta di prendere le armi o usare violenza per perseguire i suoi scopi” (qui dovremmo aprire una lunga pagina sull’islamismo, o sull’islam politico, che non è di per sè affatto violento… dunque può essere “moderato”…).

Non è l’islam a poter essere moderato. Sono le persone ad essere moderate o meno, pacifiche o meno, violente o meno. E le persone sono quello che sono a causa di una molteplicità di fattori, di cui quello religioso non è che una parte minima.

Se sei una persona pacifica, comprensiva e dialogante, lo saranno anche il tuo islam, il tuo cristianesimo, il tuo ateismo. Viceversa, se sei un violento, razzista, stai sicuro che questi elementi si rifletteranno anche sul modo in cui vivrai la tua religione, o in cui vivrai il tuo ateismo. Così, il tuo islam, il tuo cristianesimo, il tuo induismo, il tuo buddhismo (chi ha detto che i buddhisti sono pacifici? Avete presente cosa sta succedendo ai musulmani Rohingya in Birmania?), il tuo ateismo saranno violenti e settari. Bin Laden poteva anche essere un “vero musulmano” (nel senso che adempie ai 5 pilastri) ma era innanzitutto un essere umano con evidenti problemi, tra i quali la sociopatia. Rappresentava se stesso e i suoi sodali, non l’islàm o i musulmani.

Lo storico afghano Tamim Ansary ha usato recentemente queste parole, che trovo assai adeguate:

“L’islam è una religione, come tutte le altre, con una serie di idee e di pratiche relative alla morale, all’etica, a Dio, al cosmo e alla morte. Ma allo stesso tempo potrebbe essere inserito in una classe completamente diversa, che include il comunismo, la democrazia parlamentare, il fascismo e così via, poiché l’islam è anche un progetto sociale, un’idea di come dovrebbe essere gestita la politica e l’economia, con un sistema legale, civile e penale tutto suo.

Ma l’islam può anche essere inserito all’interno di un’altra classe ancora, che include la civiltà cinese, indiana, occidentale e così via, perché esiste un intero universo di manufatti culturali […] che può essere definito propriamente islamico.
Leoni o sciacalli?

O l’islam può essere visto come una storia mondiale parallela a tutte le altre, le quali si contaminano reciprocamente. Visto in questa luce, l’islam è una vasta narrazione che si dipana lungo i secoli, ancorata alla nascita di quella prima comunità alla Mecca e a Medina quattordici secoli fa.”

Leggendo queste righe ci si accorge quanta complessità tendiamo a sacrificare quando parliamo a cuor leggero di islàm per parlare di eventi di cronaca e affini.

Anche l’affermazione “l’islàm è religione di pace” inizio a trovarla problematica, poichè foriera di facili sarcasmi e, anche qui, penso sia sciocco e riduttivo definire una civiltà, una cultura e una religione sulla base di un facile slogan, di una parola.

Il Corano e la Sunna non parlano solo di pace, come è ovvio che sia. Parlano anche di guerra, di amore, di politica, di rapporti sociali, di commercio, di famiglia, di accordi e di mancati accordi. Mi pare assurdo mortificarne la complessità nel segno della “pace”. Conoscete forse altre religioni, ideologie, culture della “pace”? Forse persino i “pacifisti” non sono poi così tanto pacifici.

Il problema principale sta nel disintossicare il dibattito pubblico sull’islàm da categorie di giudizio fuorvianti, rigide e che Edward Said non avrebbe esitato a definire etnocentriche. Smetterla di trattare un sistema di valori, una civiltà intera come fosse un feticcio, un “palcoscenico teatrale appeso all’Occidente” (cit.), di cui di volta in volta mettere in luce un minimo aspetto e farne il banner pubblicitario, appiattendo o eliminando i risultati dell’opera di commistione dell’Islàm stesso con le etnie, le culture e gli spazi geografici che ha abbracciato o incontrato, mutuandone degli aspetti o venendo a costituire il risultato di una loro rielaborazione.

E questo discorso non può che essere rivolto anzitutto ai musulmani (con i razzisti ho perso la speranza), che si chiedono come presentare a un occhio e un orecchio profano il loro sistema di valori, al quale eventi di cronaca fanno indirettamente una pessima pubblicità.

Rifiutatevi di farvi mettere in mezzo, di farvi invogliare a dare risposte da dentro/fuori, da sì/no, di dissociarvi dalle nefandezze come musulmani anzichè come semplici esseri umani dotati di raziocinio.

E pretendete – ripeto, pretendete – dibattiti televisivi paritari, simmetrici, in cui uno sciacallo adulto non abbia come interlocutore un cucciolo di zebra. Per citare/mutuare Giuliano Ferrara (sic!): “agli sciacalli si risponde con un branco di leoni”. Che si sa: quando gli sciacalli li vedono, scappano via.

 

Identità, tragico, agnosticismo. I regni di Emmanuel Carrère

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di Ornella Tajani

Guardando a buona parte della produzione di Emmanuel Carrère sembra di individuare due fils rouges: uno, tematico, è l’indagine sull’identità, l’affermazione sofferta di sé, l’empatia appassionata per i propri simili, il desiderio di essere un altro che sempre si eclissa davanti al compiacimento infinito di essere ciò che si è, con i limiti e i difetti che definiscono un carattere. Il talento di Carrère è ammirevole nella trasparenza con cui si rappresenta in continua negoziazione identitaria con se stesso, senza timore di apparire meschino quando si tratta di descrivere pensieri e abitudini che gli appartengono e che le convenzioni sociali condannerebbero ferocemente – e in questo modo avvicinandosi al lettore grazie a uno slancio di sincerità.
Il secondo filo rosso è la modalità narrativa che innerva varie sue opere: se un certo senso del tragico è piuttosto riconoscibile in La moustache o La classe de neige, in altre opere Carrère gioca con questo registro in maniera più sfumata, tessendo una dialettica di rimandi che a volte cadono nel vuoto, altre vengono recuperati a distanza di pagine. È il caso di L’Adversaire, che si apre, apparentemente, su una catastrofe già avvenuta, oppure di D’autres vies que la mienne, quasi una costellazione di microtragedie accompagnate dalla messa in scena di paure e incubi personali e collettivi. Con Carrère, però, la tragedia viene spesso interrotta o resta incompleta: fatta eccezione per La moustache, le altre opere che prenderò in considerazione si sottraggono a un reale compimento tragico, a un acme drammatico precisamente identificabile; la tragedia è sviata, nel momento più difficile la narrazione compie un salto temporale (Hors d’atteinte ?), che lascia il lettore ignaro del modo in cui il protagonista sia uscito dall’impasse, oppure il libro finisce prima che la vera tragedia abbia inizio (La classe de neige); o, ancora, il finale tragico che ci si aspetterebbe, e per il quale tutto sembra essere pronto, non arriva (L’Adversaire, Limonov).
L’incompiutezza del tragico in Carrère ha forse motivazioni autobiografiche legate all’origine della sua scrittura, che, come si intuisce in Un roman russe, muove in parte le mosse dalla scomparsa di un uomo: il nonno materno, georgiano ed emigrato in Francia, un individuo fuori dal comune, lacerato da velleità confuse e tormentato dallo spettro del fallimento (a cui l’autore sente di somigliare), fu collaborazionista durante la guerra e sparì nel nulla dopo la liberazione. Sua figlia – madre dello scrittore, celebre russista e segretaria dell’Académie Française – ha sempre imposto alla famiglia un rigido silenzio sulla vicenda. Carrère cresce in un ambiente su cui incombe un mistero innominabile, una vergogna da nascondere, un gigantesco non detto che contiene una reale ignoranza sul come siano andate le cose: a me sembra che qui risieda uno dei principali focolai della sua attività di scrittore. Animato dal desiderio di sciogliere un mistero familiare denso di conseguenze, l’autore finisce col sentirsi attratto da tragedie “strozzate”, che si articolano intorno a un vuoto e che dunque gli ricordano la sua. Grazie alla stesura di Un roman russe, Carrère racconta di essere riuscito a liberarsi di quella volpe che per anni gli ha «divorato le viscere»; nelle opere successive, però, il registro tragico non viene abbandonato, bensì è usato per rimodulare letterariamente una tensione inesplosa. Sia in D’autres vies que la mienne, sia in Limonov, l’autore si muove dentro esistenze altrui, trovando sempre lo spazio – e, in realtà, l’urgenza – di parlare anche di sé: ogni ritratto è un confronto, ogni storia un dialogo. E, come un equilibrista sul ciglio del burrone, Carrère riesce a infondere alla narrazione delle venature di tragico, manipolandolo, procedendo per salti, senza mai precipitare, ribadendo in qualche modo che, se la catastrofe è stata superata o scansata, non tutto è stato ancora archiviato.

Una ricognizione

La moustache riecheggia da subito nasi e scarafaggi di consacrata memoria letteraria: un mattino il protagonista si sveglia e decide d’improvviso di tagliarsi i baffi che da anni gli coprono il labbro. Pochi minuti dopo, davanti al suo nuovo volto rasato, la moglie non mostra alcuno stupore, dal momento che lui non ha mai portato i baffi. La spirale della follia comincia per gioco, mentre si è seduti in una vasca da bagno e ci si sorride guardandosi allo specchio, e rapidamente conduce a schermaglie di sospetti laceranti, prima coniugali, poi introspettivi. Chissà se Carrère era memore del frammento di Henri Michaux dal titolo On veut voler mon nom (Vogliono rubarmi il nome), in cui l’io narrante si scopre tre denti d’oro in bocca, «lui che non è mai andato dal dentista»; per Michaux, in quel caso, la soluzione dell’apparente enigma era evidente, qualcuno voleva «farlo dubitare di se stesso». La moustache, come è indicato già in quarta di copertina, «finit forcément très mal»: il piacere della lettura risiede nello scoprire in quale modo, e la tragicità, come sottolinea Peter Szondi nel Saggio sul tragico, si compie nel momento in cui l’uomo soccombe percorrendo proprio la strada che ha imboccato per sottrarsi al proprio declino.
Anche in Hors d’atteinte ? e La classe de neige la questione dell’identità è indagata in terza persona. Il primo romanzo, orchestrato intorno alla seduzione del gioco d’azzardo, contiene un prodigioso ritratto di coppia parigina separata e bobo: dalle schermaglie iniziali tra i due protagonisti – che fanno a gara nel mostrarsi anticonvenzionali – fino alle gite segrete di lei verso i casinò, paradigma trasparente della fuga dalla quotidianità, la questione dell’autorappresentazione emerge ripetutamente, anche attraverso riflessioni sul linguaggio usato dai due personaggi principali, che in questo modo diventa elemento di caratterizzazione sociale. La classe de neige è invece un racconto che ha per protagonista un ragazzino troppo giovane per affrontare un’interrogazione consapevole su se stesso. Così, il conflitto identitario è mediato dalla figura paterna: in gita sulla neve con i compagni di scuola, Nicolas mente sulla professione del padre per rendersi più interessante agli occhi del capo del gruppo; l’attività lavorativa da lui inventata si fa diretto motivo di vanto personale. Che su Nicolas incomba una minaccia è chiaro sin dalle prime righe: «Plus tard, longtemps, jusqu’à maintenant, Nicolas essaya de se rappeler les dernières paroles que lui avait adressées son père». Plus tard, longtemps, jusqu’à maintenant: quello che sta per succedere segnerà Nicolas per tutta la vita. Laddove nel finale di Hors d’atteinte ? si assisteva a un salto temporale che lasciava il lettore ignaro sul come la protagonista fosse riuscita a uscire da una situazione sans issue, La classe de neige si conclude un attimo prima che si apra, letteralmente, la porta della tragedia, un attimo prima che il ragazzino si ritrovi dinnanzi alla madre in lacrime, alla verità sul padre: Carrère trova di nuovo una strategia per sottrarsi alla descrizione del picco tragico, ma intanto ha raccontato straordinariamente tutto ciò che porta Nicolas fino alle ultime pagine, davanti a una porta che mette fine e al contempo dà inizio. La tensione del racconto è indubbiamente tragica, e la narrazione converge in moto accelerato verso la fine.
Nei successivi L’Adversaire, Un roman russe e D’autres vies que la mienne la voce del Carrère autore e narratore si impone. La prima opera trae spunto da un fatto di cronaca: nel 1999, Jean-Claude Romand uccide sua moglie, i figli, i genitori e il proprio cane e tenta, in modo forse poco convinto, di suicidarsi. È la conseguenza di una bugia durata diciotto anni: Romand aveva fatto credere alla famiglia di essere un medico affermato, laddove trascorreva le giornate in giro fra boschi e piazzole di servizio, aspettando che si facesse ora di tornare a casa. Interrogandosi sui motivi che possono muovere a mentire sulla propria identità, l’autore conduce una sorta di inchiesta personale articolandola su due binari paralleli: da un lato, l’indagine sulla figura di Romand, cui Carrère non sa se attribuire lo status di eroe tragico intrappolato nella propria tragedia, o piuttosto quello di individuo che ha agito nel pieno del suo libero arbitrio; dall’altro, un’interrogazione sui motivi dell’attrazione che questa vicenda, caratterizzata nuovamente da un finale incompiuto, suscita in lui. Romand non si uccide, né lo vediamo condannato a una vita di laceranti sensi di colpa; sembra che si penta in maniera “equilibrata”. Anche stavolta nessun crescendo indica una direzione piuttosto che un’altra, l’ago della bilancia resta incerto fino all’ultima frase dell’autore: «J’ai pensé qu’écrire cette histoire ne pouvait être qu’un crime ou une prière».
Se già in L’Adversaire l’autore ha raccontato i fatti adottando una focalizzazione interna, è soprattutto nelle due opere successive che il motivo autobiografico diventa centrale all’interno della narrazione. Un roman russe, per ammissione stessa di Carrère, è un’opera-liberazione: ossessioni, incubi e fantasmi personali accompagnano l’autore in un viaggio alla ricerca delle proprie origini, verso un mistero familiare mai realmente scandagliato. La messa in discussione e ridefinizione di sé sono al centro del romanzo, anche grazie all’analisi del suo rapporto con la compagna Sophie – una compagna che pure ama, ma alla quale tutto quello che riesce a dire sembra risolversi in un contorto e telenovelistico «Je te demande de me croire, mais ne me crois pas, je te mens».
Di nuovo la lingua è un elemento identitario potente: la ricostruzione del passato s’interseca per Carrère con il recupero della conoscenza del russo, imparato da bambino e in seguito parzialmente dimenticato; la confusione linguistica è sineddoche della vaghezza in cui affondano le sue radici biografiche, la difficoltà nel recuperare il russo è analogica a quella di riavvicinarsi al proprio dramma. Qui l’autore incastona un mistero nell’altro, a mo’ di matrioske, e nel finale crea una giustapposizione drammatica di eventi: il suicidio del cugino, la madre che piange al cinema, la proposta di matrimonio a Sophie, che si trasforma in una scena mostruosa. Il proprio dramma sentimentale insegue l’autore anche nelle pagine dei ripetuti viaggi in Russia: eppure a un certo punto del romanzo veniamo a sapere che, quale che sia l’epilogo, oggi, cioè nel momento in cui scrive, l’autore è sereno con un’altra donna, il che cancella istantaneamente il dubbio tragico sulla vicenda.
Il riflettore, in ogni caso, è puntato sul mistero familiare della scomparsa del nonno, più che sulle difficoltà d’un amore. Un roman russe è un congedo dalla tragedia irrisolta ricevuta in eredità dalla madre; il romanzo non la risolve, ma l’autore riesce a voltare pagina. A mio avviso, però, la sua attrazione congenita per questo tipo di storie, caratterizzate da un’incompiutezza del tragico, non scompare dai suoi libri, ma si riplasma in forme diverse: anche quando non è lui il protagonista, il suo interesse lo porta verso personaggi che hanno storie simili alla sua, e il suo talento nel raccontarle sta proprio – lui stesso vi fa cenno più volte – nella capacità di immedesimazione, nell’affinità elettiva che ricrea con i suoi protagonisti.
È ciò che accade ad esempio in D’autres vies que la mienne, che racchiude l’indagine identitaria già nel titolo, per antifrasi: raccontando le vite degli altri, Carrère trova il modo di continuare a interrogarsi su se stesso, di proseguire la narrazione dopo la crisi personale superata con la stesura di Un roman russe e di descrivere il suo modo di riuscire a raggiungere quella che, come l’autore ricorda, Freud definisce «salute mentale»: la capacità di amare e di lavorare. In questo libro è come se Carrère si ritrovasse in una condizione splendidamente descritta in una poesia di Patrizia Cavalli: «Perché ho quest’infallibile certezza/quando voglio raggiungere il mio male,/mentre per il mio bene non ho idea/non ho nessuna idea su cosa fare?». Quello che Carrère fa è aprire il racconto parlando di come lui e la sua famiglia siano stati risparmiati dallo tsunami del 2004 in Sri Lanka, dove si trovavano in vacanza (ancora una tragedia scampata). Dopo il rientro a Parigi, la narrazione sposta l’obiettivo su Étienne e Juliette, un uomo e una donna che hanno entrambi affrontato il cancro; lui sopravvive, lei muore nel corso del libro. Eppure Étienne è un personaggio dal carisma e dalla positività fuori dal comune, e il marito di Juliette, Patrice, non soccombe alla propria tragedia personale e affronta il lutto in maniera esemplare nella sua spontaneità. Una scena lo dimostra meglio di altre: di ritorno da scuola con le figlie, passando davanti al cimitero, Patrice con un sorriso propone: «On va faire un petit coucou à maman ?» – una frase straordinaria perché, nel suo essere identica a quella che Patrice avrebbe potuto dire qualora la moglie fosse stata in vita e lui e le bambine stessero passando davanti al suo ufficio, rappresenta un ponte tra la vita e la morte; e, se la tragedia è la morte dentro la vita, allora si tratta di una frase intrinsecamente antitragica. Anche in D’autres vies que la mienne, dunque, si ha l’impressione che il posto di Carrère sia al centro del vortice tragico, così vicino da sfiorarlo, eppur finendo sempre con l’uscirne dolorosamente illeso.
Infine, Limonov: fin dalla quarta di copertina, che è un estratto del romanzo, l’autore sottolinea il polimorfismo di un personaggio sempre in bilico tra la gloria e il fallimento, tra l’eroismo e la meschinità. Per Carrère il ritratto di un personaggio porta spesso a un confronto diretto: in questo caso, l’“unicità” di Limonov gli ricorda intimamente la sua. Limonov si sente un eroe: poco importa che lo sia o meno, ciò che conta è che Carrère, con le dovute precauzioni, attinga per dipingerlo al calamaio della leggenda. Nelle ultime pagine l’autore, discutendo con suo figlio, mostra una certa esitazione sul finale da adottare per la sua biofiction – nella realtà Limonov è ancora vivo ed è ora a capo di un partito politico «de jeunes desperados», Carrère dixit. Il figlio dell’autore intuisce subito che il padre desidererebbe una fine tragica per il suo protagonista, un suicidio, o un omicidio politico; «Tu devrais dire à ta mère d’en parler à Poutine», lo provoca. È così, infatti, e l’autore parzialmente lo ammette. Per uno scrittore che si è sentito più volte sull’orlo del precipizio, e di questa esperienza ha fatto oggetto di scrittura, è difficile rinunciare all’attrazione per l’estremo, al pathos che l’immedesimazione con l’eroe tragico consente di instillare nell’opera – per quanto si tratti di un tragico interrotto o variamente manipolato.
È difficile, insomma, mantenere l’abituale e lucida tensione narrativa una volta abbandonato il regno del tragico ed essersi avventurato in terre lontane, abitate da personaggi in cui è molto più arduo identificarsi, non foss’altro che per una distanza difficile da colmare: è quello che si vede chiaramente nella sua ultima opera, che si intitola proprio Le Royaume.

Le Royaume

La miglior condizione per scrivere la storia di una religione è quella di chi, un tempo credente, non crede più: ad averlo detto sembra sia stato Ernest Renan, autore di una celebre Vita di Gesù, che in questo ritratto si rispecchiava. Carrère sposa il suo punto di vista e con Le Royaume, uscito in Francia a fine agosto e in corso di traduzione presso Adelphi, si lancia in quella che lui definisce un’inchiesta storica sulle origini del Cristianesimo: Paolo di Tarso e Luca evangelista ne sono i due principali protagonisti. Com’è possibile che milioni di persone abbiano creduto e credano a storie così difficilmente credibili come moltiplicazioni di pani, concezioni immacolate, resurrezioni? Questa è la domanda iniziale, che Carrère si sente legittimato a porsi in quanto ex credente.
La primissima parte del romanzo è l’unica a essere incentrata sull’autore e si intitola emblematicamente “une crise”: la crisi è la fase religiosa che Carrère ha vissuto e che racconta in circa un centinaio delle oltre seicento pagine complessive. Lo vediamo che va a messa tutti i giorni, commenta il vangelo sui suoi quaderni, oppure si ritrova a dover fare i conti – in una scena piuttosto memorabile, al cospetto della sua psicanalista – con il complesso rapporto tra religione e psicanalisi. Quella che lui definisce “crisi” è destinata a terminare dopo circa tre anni – “per fortuna”, sottolinea più di una volta l’autore. Qui è il primo limite del romanzo, a mio avviso: se è vero che si può parlare della fede senza essere credenti, come si fa a parlarne covando dentro di sé il desiderio di riaffermare continuamente che credenti non lo si è più – “per fortuna”? Il compiacimento dello scettico emerge già nella prima parte del libro – che pure tenta di dimostrare un’indulgenza verso il periodo cattolico della sua vita – e successivamente si impone.
Quello che ci si sarebbe aspettati da Carrère, dal suo funambolismo introspettivo, era il racconto dell’agnostico che a tratti vacilla davanti alla irraggiungibile certezza del credente; di questi vacillamenti l’autore parla invece in modo sommario, sempre con un certo distacco, forse perché proprio all’agnostico (non all’ateo) quel tipo di certezza può risultare orticante. Il seguito del libro è composto di ricostruzioni storiche dei viaggi di Paolo e Luca, del loro incontro, del racconto di come si arrivi a fondare una chiesa, dei rapporti con i vari rabbini: tutto ciò è accuratamente documentato, e diversi interessanti episodi della prima cristianità sono poco conosciuti. Carrère sostiene che questa narrazione lo affascini, perché lo intriga che la gente creda in Cristo; lui non ci crede, ma non per questo vuol sentirsi più scaltro degli altri. Così, la tensione fra lo scrittore coscienzioso e l’intellettuale narcisista – per il quale il lusso più eccentrico non può che essere l’umiltà (dell’agnostico davanti alla fede, in questo caso) – crea una spaccatura che restituisce un romanzo sfilacciato. Il racconto storico appare scollegato dalle intenzioni autoriali e prende la forma di una serie di zolle narrative galleggianti, inframezzate da commenti dallo humour opinabile e accompagnate da un linguaggio spesso banalizzante. Inoltre, la scrupolosità documentaristica provoca a tratti un effetto di ridondanza. Ciclicamente l’autore si ritrova a condividere con il lettore i propri dubbi: sto facendo bene a scrivere questo romanzo? Forse è inutile scriverlo se non ho più fede? Non sarà meglio che parli di me?
Dubbi più che legittimi. Per un virtuoso dell’introspezione, della corrente autobiografico-nombriliste, le strade del successo sono due: parlare di sé («pour parler de moi, on peut toujours me faire confiance», ribadisce anche in quest’opera), oppure parlare di personaggi ai quali sente di somigliare, cui lo lega un’empatia viscerale. In Le Royaume, invece, i tentativi dell’autore di riconoscersi in questo o quell’atteggiamento di Paolo o Luca appaiono piuttosto ingenui: forse perché la distanza spazio-temporale è tale da impedire un’efficace immedesimazione; o forse perché i suoi slanci d’empatia sono sempre radicalmente frenati dall’antipatia intellettual-estetica per il credente che è stato. L’inchiesta che Carrère si propone è quindi fallimentare in partenza: andare alla ricerca del segreto della fede, rinnegando strenuamente la fede che ha sentito in passato, significa cercare qualcosa che non si ha nessuna voglia di trovare, che quasi si teme di ritrovare.
Nelle ultime pagine l’autore manifesta nuovamente il tormentoso dubbio di non essere riuscito a dire l’essenziale e dichiara che probabilmente l’unico modo per scongiurare questo rischio sarebbe stato quello di farsi credente, cosa che com’è ovvio non voleva né poteva fare. Io non penso che sia così, anzi ritengo che avesse ragione Renan, quando scriveva che quella di ex credente è una buona posizione per parlare della religione – a patto però di trovare il giusto equilibrio tra il rispetto per quel che un tempo si è creduto e le convinzioni cui in seguito si è approdati. Carrère non ci riesce e, nell’ultimo paragrafo del libro, da giocoliere dell’ambiguità quale è, sembra anche che lo ammetta: «Je me demande […] si [ce livre] trahit le jeune homme que j’ai été, et le Seigneur auquel il a cru, ou s’il leur est resté, à sa façon, fidèle. Je ne sais pas». Nel momento in cui dichiara di aver scritto Le Royaume «in buona fede», eppure con “l’ingombro” della sua intelligenza e del suo successo, si direbbe proprio che sì, sia andato «fuori strada»; o invece sta mentendo, per autoconvincersi e convincere il lettore della sua sincerità: «Je te demande de me croire, mais ne me crois pas, je te mens». Qui forse finalmente lo riconosceremmo.

Edizioni e traduzioni

La moustache, P.O.L., 1986 – I baffi, trad. it. di Graziella Civiletti, Bompiani, 1990
Hors d’atteinte ?, P.O.L., 1988 – Fuori tiro, trad. it. di Antonella Viola, Theoria, 1989
La classe de neige, P.O.L., 1995 – La settimana bianca, Einaudi 1996 (trad. it. di Paola Gallo) e Adelphi 2014 (trad. it. di Maurizia Balmelli)
L’Adversaire, P.O.L., 2000 – L’Avversario, trad. it. di Eliana Vicari Fabris, Einaudi, 2000 e Adelphi, 2013
Un roman russe, P.O.L., 2007 – La vita come un romanzo russo, trad. it. di Margherita Botto, Einaudi, 2009
D’autres vies que la mienne, P.O.L., 2009 – Vite che non sono la mia, trad. it. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2011
Limonov, P.O.L., 2011 – Limonov, trad. it. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2012
Le Royaume, P.O.L., 2014

La piantagione

2

di Orso Tosco

L’uomo lungo, che alcuni chiamavano l’uomo lisca di pesce, aveva l’abitudine di intingere cotton fioc nello sciroppo d’acero, per poi lasciarli congelare nel freezer, durante la notte.

Al mattino, durante le sue lunghe passeggiate, era solito succhiarli con gusto, come certi bambini fanno con le dita.

Da tempo immemore cercava di dipingere quello che, lui ne era certo, ne era certo nonostante tutto, sarebbe stato il suo capolavoro.

Perdersi a Milano

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Albini in viale Argonne
viale Argonne

di Gianni Biondillo

A Linate Bruno ha affittato una macchina. Ha una giornata a disposizione e vuole assolutamente vedere il cantiere dell’Expo. Provo a spiegargli che non c’è molto da vedere, i lavori marciano a pieno ritmo e non è possibile entrarci, troppi problemi di logistica e di sicurezza. Ma lui non demorde. “Milano la conosco già” mi dice. “Visto il Duomo e il Castello cosa resta?” Sorrido, mentre costeggiamo il parco Forlanini. Superato lo spiccato ferroviario d’improvviso la città si fa densa, come fosse un’unica concrezione ossea. Devi sapere, gli dico, che Milano ha da sempre due caratteristiche. Innanzitutto è una città piccola. Intendo quella nei suoi stretti confini comunali, sia ben chiaro. Non parlo dell’area metropolitana, la vera città contemporanea, metropoli di almeno sei milioni d’abitanti, che arriva fino a Bergamo o a Como. Ma i confini comunali sono poca cosa. Spesso le distanze sono più mentali che geografiche. Niente a che vedere con le borgate romane, oltre il raccordo, così lontane dal centro da sembrare isole sperdute in un oceano.

Lo porto in viale Argonne per spiegargli il concetto. La mole della chiesa dei Santi Nereo e Achilleo fa da testata al viale alberato. Sulla destra c’è un quartiere di case popolari degli anni trenta del secolo scorso. Alcuni edifici sfoggiano timpani e modanature dal gusto storicista, oppure vezzosi colori pastello. Ci sono anche i lunghi parallelepipedi progettati da Franco Albini nel più puro stile razionalista, studiati in molte storie dell’architettura che però dal vivo, data la scarsa manutenzione, non fanno gridare al miracolo. Da qui, a piedi, il centro si trova a meno di mezz’ora. Ecco perché spesso capita di trovare zone popolari affiancate, se non addirittura intrecciate, a quartieri borghesi. Città studi, quartiere della (ex) nuova borghesia di professionisti, condivide in molti casi scuole, campi sportivi e oratori con l’adiacente quartiere ultra popolare e multietnico di via Padova. Basta evitare le arterie di massimo traffico e la città è capace di stupire per l’enorme varietà di tipologie edilizie. A pochi passi da queste case, per dire, c’è via Guido Reni, fatta tutta di villette a schiera di appena due piani, e ce n’è una simile in via Tiepolo, o analoghe più su, verso piazza Aspromonte. Spesso non si sa se siano nate per essere case di famiglie piccolo borghesi oppure sorte per rispondere alle esigenze abitative delle classi meno abbienti, come nel quartiere Mac Mahon, dall’altra parte della circonvallazione, un piccolo pezzo di Londra d’inizio Novecento in salsa meneghina.

via Andrea del Sarto
via Andrea del Sarto
Biblioteca di Porta Venezia
Biblioteca di Porta Venezia

“E oltre all’essere piccola, qual è l’altra caratteristica di Milano?” chiede Bruno. Nel mentre ci fermiamo, devo consegnare un libro alla biblioteca di Porta Venezia. Lui alza gli occhi e osserva le modanature liberty della facciata. È l’ossessione alla novità, gli rispondo. Vuole continuamente rinnovarsi e allo stesso tempo cerca di crescere sempre su se stessa. Quindi puoi trovare diversità non solo tipologiche, ma anche cronologiche nel volgere dello stesso fronte stradale. “Che c’è di nuovo in questo?” mi chiede ironizzando. Anche il liberty – e a Milano ci sono esempi bellissimi (penso al non finito di palazzo Castiglioni in Corso Venezia, o alla plasticità muliebre di casa Campanini in via Bellini) – era “il nuovo”, quando importarono lo stile da Vienna. Aggiornarsi, aggiornarsi, era l’imperativo, mai perdere il contatto con le capitali europee. Ma allo stesso tempo cercare una propria lingua, più “nostra”. Come fecero Gio Ponti, o Giovanni Muzio. Gli faccio fare qualche passo e lo porto in via Giorgio Jan. Quello che forse ha meglio interpretato queste istanze, gli spiego, è stato Piero Portaluppi. “Adelante ma con juicio”, manzonianamente. Rinnovarsi ma senza esagerare. Gli mostro un edificio. Una casa borghese di quattro piani che ha sullo spigolo, enfatico, un enorme bovindo vetrato ruotato di quarantacinque gradi. Moderna, per quegli anni, eppure non modernista. Come se fosse sempre stata lì. Edificio tutt’ora abitato che ha però al primo piano la Casa-Museo Boschi-Di Stefano. Con i Lucio Fontana esposti nel salone centrale si potrebbe appianare il debito pubblico nazionale, dico, scherzoso.

Casa-Museo Boschi-Di Stefano
via Giorgio Jan

Proseguiamo il nostro viaggio. Il vero simbolo di Milano non è il Duomo, affermo come illuminato, mentre osserviamo in macchina la Torre Breda, ancora oggi per me uno dei grattacieli più belli di Milano. “E qual è?” chiede Bruno. Inizio a credere che andare all’Expo gli interessi sempre meno. In fondo il trucco per far sembrare più grande questa città sta nel perdersi nelle sue strade, ammirando i suoi edifici come fossero i ritratti di famiglia di una pinacoteca privata: studiando le acconciature, i vestiti, i tratti del volto o le pose che cambiano di generazione in generazione, ma allo stesso tempo riconoscendone la continuità. È il cantiere del Duomo il vero simbolo cittadino! – dico enfatico – al punto d’essere diventato un modo di dire popolare. Milano non sa fare a meno di gru, pale meccaniche, scavi a cielo aperto, ponteggi.

Piazza Gae Aulenti
Piazza Gae Aulenti

A Porta Nuova l’intuizione si palesa di fronte ai nostri occhi. Questo è il più grande cantiere urbano d’Europa, gli spiego. Ci sono gru ovunque. Alcuni edifici sono già terminati, nel “bosco verticale” di Boeri c’è già chi ci abita, altri sono ancora in fieri. Quello che manca a Porta Nuova è il parco al centro dell’area, che dovrebbe fare da cerniera e da polmone all’intero quartiere. A pochi passi da qui, gli spiego, c’è il nuovo Palazzo della Regione Lombardia che, al di là delle lecite polemiche, è un progetto architettonicamente ineccepibile. Ma gli architetti mica hanno sempre ragione. È la gente che decide dove andare. E i milanesi hanno adottato di slancio la piazza soprelevata dell’Unicredit Tower, architettura globalista e un po’ tamarra subito accolta nell’immaginario collettivo, per quella nostra tipica passione per la novità. Un quartiere così a Parigi l’hanno edificato alla Defénse, non a ridosso del centro storico. Quarant’anni prima e molto più lontano. Ma ogni città ha la sua storia.

Zona Ex Fiera
Zona Ex Fiera

Faccio fare a Bruno una lieve deviazione, lo porto in via Euripide, zona ex Fiera. Ammiro con lui la misura della case d’inizio Novecento, fra queste una di Ansnago e Vender. Ma lui è attratto da altro: “Cos’è quel transatlantico laggiù”, dice, sorpreso. Ecco, forse un quartiere che i milanesi non adotteranno mai credo sia quello delle residenze di Hadid e Libeskind. Non tanto per la qualità progettuale (a dir la verità bassa, le “archistar” qui hanno fatto da foglia di fico di una clamorosa operazione speculativa), non tanto per l’estraneità del carattere degli edifici al gusto meneghino (sembrano provenire direttamente da Miami beach), è per quell’aspetto di fortilizio impenetrabile, di comunità recintata che guarda con sospetto il resto della città.

Diverso, non ostante le sue contraddizioni, è il caso del Portello. Qui almeno il parco l’hanno realizzato. Quello di Jencks e Kipar è un bel progetto, con tanto di laghetto e colline artificiali fatte con i materiali di scavo del cantiere. Gli abitanti del quartiere che una volta ospitava l’Alfa Romeo l’hanno subito popolato. Gli faccio vedere le case di Cino Zucchi ma gli evito la magniloquente e spettrale Piazza Gino Valle. Poi tiriamo dritto, dentro il QT8, quartiere laboratorio degli anni Cinquanta. Lasciamo sulla destra il monte Stella, opera poetica di Piero Bottoni, tumulo delle macerie della seconda guerra mondiale, e ci dirigiamo verso Bonola, dove è stato costruito il primo centro commerciale di Milano. La città inizia a diradarsi.

via Cilea
via Cilea

Voglio fare vedere a Bruno il complesso residenziale “Monte Amiata”, in via Cilea. Estrema periferia per alcuni milanesi che non sono mai usciti dalla cerchia dei Navigli, in realtà a venti minuti di metropolitana da piazza del Duomo. C’è in questo gigantismo edificatorio tutta l’utopia dell’urbanistica pubblica degli anni Settanta. A molti non piace, io lo trovo bellissimo. Ha quarant’anni eppure resiste come un monumento che cerca di riprodurre un lacerto della complessità urbana in una periferia anomica: strade soprelevate, appartamenti duplex, cortili, anfiteatri, percorsi labirintici. E a contrappunto di tanto vociare architettonico c’è la nivea, dechirichiana stecca di Aldo Rossi. Yin e yang. Fu l’ultima stagione dove la cosa pubblica – la casa come diritto non solo come bisogno – era prioritaria nell’agenda dell’amministrazione comunale.

Abbiamo ripreso da pochi anni a costruire. Ma non si chiamano più “case popolari”, fa poco chic. Ora si dice social housing. Come il complesso dei Mab Arquitectura in fondo a via Gallarate, ai confini della città, piccolo progetto di buona fattura. O peggio, dico a Bruno, scesi dalla macchina di fronte ad un cantiere, quello che si sta costruendo qui, a Cascina Merlata. Piedi nel fango guardiamo le gru, gli operai, le ruspe. E le torri. Multicolori e kitsch. Della “misura milanese” ormai non c’è più traccia. “Dove mi hai portato” mi chiede, stupefatto. Qui verranno ospitati i 1300 delegati dei paesi che partecipano ad Expo 2015, gli spiego. Poi diventerà un quartiere residenziale. Social housing, of course. Se ti interessa da qui si può vedere il cantiere dell’Esposizione Universale. “Lascia stare” mi dice. “Ci torno il prossimo anno, mi conviene”.

Cascina Merlata
Cascina Merlata

(pubblicato su Dossier Milano, Corriere della Sera, il 13 dicembre 2014. Le pessime foto, fatte in un giorno incredibilmente grigio, sono mie)

La guerra di Piero

8

di Lorenzo Declich*

Andrò a braccio, cari lettori, interpretando questo mio commentario, a suo tempo promessovi su FB, in ottica “defatigante”.

Sì, perché cercare di capire le cose implica fatica, impegno, concentrazione e io, dopo giorni a cercare di capire cosa è successo a Parigi, sono un po’ stanco.

Spero che la cosa mi aiuti a essere meno velenoso, a far scivolare via le cose con leggerezza, ché di leggerezza in questi casi si ha comunque bisogno.

Bene, on y va.

Piero Ostellino affronta il tema delle reazioni agli attacchi di Parigi nel suo “Il buonismo che ci acceca” dello scorso 15 gennaio 2015.

In questo pezzo vorrebbe spiegarci che “carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue” ma noi, se abbiamo capito ben cosa voglia dire Ostellino con questa frase, finiremo col constatare che purtroppo tali carenze le ha Ostellino stesso, il quale dimostra nel suo argomentare una grave mancanza di basi culturali e identitarie nonostante la sua biografia ci suggerisca l’idea che di tempo per formarsi e qualificarsi ne abbia sempre avuto.

E constateremo, anche, che l’unica retorica in campo è quella dello “scontro di civiltà”. Piero non lo sa, ma dietro di essa ci sono il Grande Nulla e qualche terribile assassino d’Oriente e d’Occidente.

***

Ma andiamo per ordine, primo paragrafo:

Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.

“Il buonismo che ci acceca” ci spiega dunque in principio che tutti NOI, visto che abbiamo un’identità ambigua e in definitiva veniamo a patti col Male dimostrando “stupidità politica”, non abbiamo altre armi che l’uso di “una retorica”.

C’è qualche eccezione, è vero. Parliamo di sparuti e lodevolissimi giuliani ferrara. Ma in generale NOI predicheremmo una “convivenza con l’Islam” la qual cosa, qui, è tutta da spiegare.

Il fatto è che noi, e con questo noi includo anche i giuliani ferrara/ostellini, non ci troviamo in un appartamento in compagnia di una religione. Noi viviamo in un mondo globalizzato nel quale vivono 7 miliardi di persone, un buon numero delle quali appartiene a un crogiolo sociale, politico e culturale che trae origine da una delle grandi civiltà (ormai quasi scomparse nei loro contenuti politico-economici) del pianeta, quella islamica.

Meno di un milionesimo di queste persone, Piero, è dedita al terrorismo.

Noi non predichiamo proprio niente. Noi notiamo che il nostro dirimpettaio si chiama Boleslaw o Devilal e prendiamo atto che questo individuo può essere un idiota o un genio, un paternalista o un libertario, un simpaticone o un rompicoglioni. E ci poniamo il problema di vivere le nostre giornate affrontando tutti i problemi o accogliendo tutte le gioie che ciò comporta. Rimboccandoci le maniche, registrando alti e bassi, ma comunque lavorandoci. E, soprattutto senza voler fondare nuovi illuminismi inclusivi – magari in salsa postmoderna – e senza neanche vagamente pensare che questi nostri simili non facciano parte della nostra “civilisation”.

Essi, come noi, sono uno dei tanti esiti di ciò che c’è ora.

Ora, in questa nostra era, la “nostra civilisation” è un racconto messo in bocca a qualche ambiguo e stupido politicante che parla in televisione durante una campagna elettorale.

O che sfila per le strade di Parigi insieme a dittatori liberticidi.

La “nostra civilisation” è anche una serie di contenuti davvero importanti che diversi conflittuali paladini del Bene tendono a dimenticare quando un terrorista ci spara addosso. In nome della Libertà, ci dicono, limiteremo la Libertà. E così via.

Contenuti che – ce lo dimostrano i fatti del 2010-2011 – conoscono bene tutte le persone che, in questo mondo, vogliono avere cittadinanza, giustizia sociale e democrazia.

Persone su cui si sono accaniti tutti i paladini del Bene fino a ieri, persone che oggi Piero contribuisce a cancellare.

Comprese le persone, di tutte le religioni e di tutte le nonreligioni, ammazzate a sangue freddo da tre terroristi.

***

Qualcuno, dice Piero, si è lamentato perché i terroristi non sono stati catturati in fretta. Ma dimentichiamo che non li abbiamo presi subito perché potevano fare affidamento su un mare di collusioni e complicità “con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato”

E io, ripassando più volte il susseguirsi degli eventi, non vedo in quale frangente abbiamo costatato che i terroristi si siano appoggiati a questo mare. Erano in fuga, avevano degli amici, si erano organizzati in qualche modo – più o meno bene non so – e sono stati infine ammazzati.

Non riesco a immaginare quanto tempo ci avrebbero messo i poliziotti francesi a stanarli se avessero potuto contare su un mare di silenziosi e collaborativi amici.

Erano una cellula, Piero, una cellula.

Uno dei terroristi è stato individuato perché un uomo che lavorava nel supermarket kasher, di religione musulmana, ha chiamato la polizia.

La guardia del corpo del direttore di Charlie Hebdo, uccisa a sangue freddo in una scena che abbiamo visto migliaia di volte, era musulmana.

***

Ma parliamo di un “islam moderato” che Piero, agitando lo spettro dell’invasione musulmana, afferma essere “profondamente radicato nel continente con l’immigrazione”.

Primo, come dicevo altrove: la moderazione è una categoria del politico, quindi se la riferiamo all’islam diamo per sottinteso che guardiamo a esso solo con la categoria del politico, e ciò a detrimento di tutto il resto (che è gigantesco). Per fare un parallelo i “cristiani moderati” sono tradizionalmente, in Italia, i democristiani, i simpatizzanti e gli attori di un partito politico. Non sono dei fedeli “miti” o “tiepidi”.

Secondo, mando a memoria un dato: in Italia l’unico “Movimento dei musulmani moderati” che sia mai esistito, e ora probabilmente estinto, è nato per fare da sponda ai deliri della destra italiana, non di una sinistra buonista.

Sapete cosa dichiarava Souad Sbai (PDL) nel 2010 in relazione alla politica di Maroni sull’islam in Italia?

Sono felice che il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, abbia convocato oggi degli esperti e degli esponenti musulmani al Viminale. Finalmente il ministro e’ riuscito a riunire intorno a se’ dei rappresentanti dell’Islam moderato e sono certa che faranno un buon lavoro.

Senonché in quel comitato vi erano noti islamofobi (Carlo Panella, Andrea Morigi ad es.) ed esponenti di organizzazioni musulmane non rappresentative del panorama italiano, fra cui anche Gamal Bouchaib “presidente della consulta degli stranieri de L’Aquila e membro dell’ associazione dei Musulmani moderati”.

Sì, Ostellino, esiste un islam politico. E’ un grande e per certi versi allarmante fenomeno con cui fare i conti. Ma l’islam politico ha storia, sviluppo, nomi e cognomi, numeri. Invece di chiamare in causa centinaia di milioni di persone, musulmani, che di islam politico non hanno alcuna voglia, faresti bene a leggere qualcosetta, prima di cimentarti sul tema, tu che di tempo ne hai un bel po’, al contrario di noi: le biblioteche sono piene di libri sull’islam politico, anche molto ben fatti, ma sembra proprio che tu voglia rimanere con le tue “carenze culturali” ed evacuare attraverso questo tuo scritto stille di luoghi comuni idioti tratti da una letteratura-spazzatura che ziliardi di scritti e critiche serie, documentate e scientifiche ridicolizzano da ormai almeno 15 anni.

***

Ostellino, insomma, ci dice che siamo ignoranti ma si scaglia contro una cosa che non chiama col suo nome, una cosa che forse neanche concepisce, usando la parola sbagliata – “islam” – una parola che vuol dire “tanta gente” che non c’entra assolutamente niente.

Butta poi nel calderone gli immigrati ignorando – da ignorante – quell’altro grande capitolo che invece andrebbe aperto, quello di un islam economico che lui finge di non accogliere a braccia aperte quando si tratta di fare il pieno di benzina o concludere affari con qualche prezzolato neo-mercante del Golfo (che parli arabo o persiano non importa).

Quell’islam del mercato che salva il benessere di Ostellino attraverso vagonate di investimenti miliardari, sbarchi di fondi sovrani e maree di obbligazioni “islamic compliant” e usa schiavi per costruire i propri grattacieli, e organizza prezzolati meeting su green economy e diritti umani in assenza di democrazia, e infine sfila con tutti i Campioni della Democrazia e della Libertà un giorno a Parigi.

Sì, è colpa degli immigrati, Ostellino.

Ma vai, dai.

***

Arrivato a questo punto nella lettura mi sono chiesto il perché di questa “postura” di Piero.

La risposta è arrivata subito, leggendo il periodo successivo. Lì ho capito il “recinto”, ho capito contro chi – fra noi – il celebre anticomunista del CorSera si scaglia:

è stupefacente che a non capirlo [capire cioè il suo delirio, n.d.a.] sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista.

Persone ree, insieme ad altre (poche e indeterminate), di non aver capito che “l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne”.

***

Ecco. Sul medioevo chiedo venia, caro lettore, puoi leggere questo (che appunto, fa parte del mondo delle cose che stancano ma sono tentativi di capire).

***

Quanto alla sostanza, cioè alla “sinistra inane”, dirò che invece Piero ha fatto un vero guaio.

Non ha calcolato un piccolo dettaglio: le persone contro cui si sono accaniti i “lombrosiani criminali” di cui parla erano, guarda un po’, proprio di sinistra.

Una sinistra libertaria, magari un po’ datata, che ha tutti i limiti che volete ma che possiede una genealogia chiara e definita e che non ha una sola idea in comune con Ostellino e/o altri giuliani ferrara, specialmente nel campo “religioso”, nel quale questi ultimi giocano la partita dell’identità cristiana, ad esclusione – lo concedo – di un generico amore per la libertà di espressione che – posso dire con certezza – appartiene a tutti noi, belli e brutti, ipocriti o non, esclusi i tiranni, laici o religiosi che siano, e i loro lacchè.

***

Ma passiamo alla Guerra. Ecco la chiamata alle armi ostelliniana, libera ormai di produrre suoni simili a peti, in una tirata che davvero a questo punto fa molto ridere – proprio perché di lacrime se ne sono versate – contro “i massmedia” (di cui è stato uno dei Padroni), contro il Papabbuono (gli islamofobi gli preferiscono il Ratzinger di Ratisbona), ma anche in favore del Grande Cinema d’autore:

Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica.

C’è anche spazio per l’autocommiserazione generica che fa molto M5S: “Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo”

***

Il finale continua male, è brutto e ridondante, non mi defatigherei se lo affrontassi nel dettaglio.

Anche qui però spunti divertenti se ne trovano.

Ad esempio questo: “Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi” dopo il quale immaginiamo la caramellosa sede del Movimento Buonista Italiano sulla cui porta campeggia lo slogan veltroniano “ma anche”. O questo: “Siamo anche migliori”: una frase invece chiaramente buonista.

In breve finisce così: Ostellino si rende conto che se continua su questa strada finirà per proporre soluzioni tipo Boia di Utoya (77 giovani del partito socialista norvegese massacrati a freddo perché visti come dei “deboli” colpevoli di accettare senza reagire l’invasione musulmana dell’Europa) e quindi tira i remi in barca.

Si dice cristiano e liberale e tollerante nonostante LORO “ci vogliano colonizzare”, in un quadro emergenziale in cui però noi non dimentichiamo. debolucci come siamo, che il vizietto delle colonie in questo mondo ce l’hanno in molti.

Chiude affermando che, non stupidamente, essendo un individuo del genere illuminista, cristiano e liberale, conviverà, purtroppo, con l’islam.

Ovvero dichiara di essere in tutto e per tutto identico ai fantasmatici buonisti addosso a cui ha vomitato senza tregua in maniera così scomposta fin dall’inizio.

Davvero un bella prova, Piero.

 

* Questo articolo è uscito su Tutto in 30 secondi, il suo stile è conforme al genere “invettiva”, da me usato in quella pubblicazione. Il suo incipit deriva da un’anticipazione pubblicata sulla mia pagina Facebook.

Appunti su roghi e coprifuochi

8

[Sono passati dieci anni e due mesi dall’ondata di tumulti che per tre settimane sconvolsero le periferie francesi tra il 27 ottobre e il 17 novembre del 2005. In quel contesto, non fu possibile neutralizzare le cause sociali della rivolta, per appellarsi allo spettro dello scontro tra civiltà. Non si era ancora sostituito, sul fronte ideologico, il “problema immigrazione” con il “problema islam”, come è avvenuto invece in anni recenti. Mi sembra interessante riprendere alcune riflessioni fatte allora su NI (il 9 e il 14 novembre di quell’anno). Mi appaiono, oggi, per certi versi limitate e riduttive. Ma la sostanza del discorso credo sia ancora valida, per misurare uno degli aspetti più critici del modello francese d’integrazione. a. i.]

 

di Andrea Inglese

Il diniego
Il Primo ministro francese, signor Villepin, bell’uomo incravattato, con un’aria calma e concentrata, ha comunicato il 7 novembre, sul primo canale della televisione nazionale, che da ieri notte, in Francia, sarebbe stato reintrodotto il coprifuoco.

Il mio bambino

7

di Francesca Genti

mi ha detto di quella volta
che era un pesciolino nel mare di Norvegia
e andava veloce nella corrente
con gli altri pesciolini suoi fratelli
di qua e di là per l’oceano Atlantico
e nel mare di Barents vedeva i fiordi
prendeva in giro le balene e se si arrabbiavano
scappava fino alla Terra della Regina di Maud

poi diventò l’Omino di Pan Pepato
“quello vero, mamma” mi ha detto
“quello che poi hanno scritto la storia,
sono proprio io, non ci credi? assaggia qua”
e mi ha teso il braccio e io ho leccato la sua manina
ed era vero sapeva di zenzero e farina bruciata
ho chiuso gli occhi e l’ho visto allegro che scappava
nell’azzurro piano di un’illustrazione di Scarry

e poi la storia del sole
che non è sempre stato nel cielo
ma è cresciuto nell’erba in mezzo ai fiori
(il campo si trova in Val d’Orcia)
ma ero un fiore diverso più leggero e bello
e allora lui con gli altri bambini
“quali altri bambini?” “tutti”
“quali tutti?” “tutti quelli del mondo”
hanno fatto una preghiera con la legna
e sono saliti l’hanno messo là
per proteggerlo e ammirarlo

“è per questo che leggi gli oroscopi,
e se guardi il cielo ti viene nostalgia,
perché anche tu quando eri una bambina,
hai pregato un legno e aiutato a metterlo là”
“non avere paura” dice
“la paura è come quando fissi troppo a lungo un colore
e non lo vedi più, non vedi più se è giallo o verde,
diventi triste e diffidente
e te ne vai in giro a spalle curve, sospettosa,
a domandare al mondo“chi me l’ha rubato?”

il mio bambino sa il segreto dei calzini
delle forcine dei fermagli e degli anelli
dove vanno a finire in quale cimitero
in quale parte del sistema solare
dice di non preoccuparsi stanno bene
c’è qualcuno che si occupa di loro
hanno letti caldi e da mangiare
piedi capelli e dita sui quali alloggiare

una volta ha preso a calci un teletubbies
gli ha frugato nella pancia per vedere cosa c’era
ha trovato una pepita d’oro e l’ha venduta alla borsa nera
e con i soldi ci ha comprato un unicorno
con lui ha cavalcato fino a un circo
dove hanno vinto un rodeo per animali speciali
battendo un dodo e un’araba fenice
ma queste cose non so se sono vere
perché il mio bambino a volte dice bugie
“non c’è niente di male ad inventare un po’”
dice se lo prendo con le mani nel sacco

mi sorride pesciolino del Baltico
Omino di Pan Pepato quello vero
guerriero del legno e del sole
mio amico di quando ero piccola
custode delle cose perdute
filosofo di tutte le bugie

mille monetine brillano nel fiume
sono l’invincibile bellezza dei suoi denti

“non avere paura” dice

Après #CharlieHebdo, per orientarsi

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Una mappa di articoli, analisi, opinioni e multimedia dalla rete. I link segnalati dai redattori di Nazione Indiana, e i loro articoli. Cerchiamo una rotta che ci tenga lontani dallo “scontro di civiltà”.

Le idiozie di Houellebecq, la violenza, il dialogo, la fraternité: una lettera agli amici francesi

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di Giacomo Sartori

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Cari amici francesi, vi scrivo perché vi conosco, perché vi amo. I vostri principi mi hanno

Chi subisce la storia

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C’est pourquoi les vrais artistes ne méprisent rien ; ils s’obligent à comprendre au lieu de juger.
A. Camus

“La missione dello scrittore è fatta di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di chi la subisce”

Qui la trascrizione integrale in francese.
Qui la traduzione inglese

camus

CH, l’attentato e la liberté de la presse – Intervista a Vincenzo Sparagna

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[Pubblichiamo qui un’intervista a Vincenzo Sparagna, direttore della rivista Frigidaire, il quale conosceva personalmente e aveva collaborato con i redattori di CH uccisi nel recente attentato ad opera di elementi integralisti islamici.]

D.Che cosa hanno rappresentato, per lei e per Frigidaire, Charlie Hebdo e la sua redazione?

R. Hanno rappresentato un riferimento fondamentale, non tanto per la sovrapponibilità di esperienze, visto che CH cronologicamente ci precedeva, quanto piuttosto per l’elemento di spontaneità, libertà, sfacciataggine, e arroganza di fronte ai potenti e all’establishment politico, mediatico e finanziario. Con la loro satira corrosiva, a volte estrema e molto politically un-correct erano in grado di far comprendere a chiare lettere che è possibile sfidare il potere costituito nelle sue varie forme soft e hard, senza doverne temere le conseguenze. Prima di questa atroce escalation di violenza, in anni meno feroci furono bersagliati da critiche e attacchi di ogni tipo, come a noi è accaduto di dover subire attacchi, critiche e tentativi di rappresaglie legali da cui spesso è stato difficile disimpegnarsi.

 D. Che cosa ha provato (domanda che suona tragicamente scontata) alla notizia della strage?

R. Ho provato una drammatica combinazione di dolore personale, di lutto, poiché conoscevo direttamente i redattori –erano amici con cui avevo più volte collaborato– e di sgomento per le potenziali conseguenze, specialmente in termini di autocensura e di abdicazione all’esercizio della libertà di espressione. Il timore è che col tempo si finisca per considerare normale che una testata giornalistica, quale che ne sia la sostanza mediale, scelga di non esprimere determinati punti di vista o di non diffondere determinate informazioni in nome della propria sicurezza, del generico quieto vivere o del presunto pericolo di abuso del diritto di critica, mentre per definizione il diritto di critica, esercitato in piena libertà di coscienza, non può e non deve contemplare a priori alcun abuso.

D. A suo modo di vedere, quale scenario si delinea a più largo raggio, all’indomani di questa e di altre vicende simili di cui si ha notizia in queste ore (pensiamo, per esempio, alle stragi di civili nelle aree rurali della Nigeria)?

R. Credo che si stia assistendo all’espansione minacciosa di una variante particolarmente aggressiva di islamismo che ha radice nel wahhabismo, e in generale in tutte le posizioni, un tempo minoritarie, dell’estremismo islamico che si fondano su una lettura diretta e letterale del Corano. Tali letture compiono un vero e proprio abuso storico, poiché bypassano in pieno la grande tradizione di elaborazione filosofica della scolastica islamica, che ha agito sin dal medioevo affinando progressivamente l’interpretazione del testo sacro, e approdando a una concezione tollerante e aperta dell’Islam –spesso in contrasto coi fanatici dell’epoca. Il wahhabismo, il salafismo e in generale i movimenti islamici radicali e le interpretazioni integralistiche che essi presuppongono, fanno compiere all’Islam un terrificante balzo indietro, verso le sue origini –e ogni religione nella sua dimensione originaria ha concreti connotati di violenza, cosa non meno vera per il cristianesimo o l’ebraismo. Questa è la matrice delle mostruosità politiche e concettuali a cui l’integralismo piega l’Islam distorcendolo. Una tendenza che peraltro ha profonde radici anche in Occidente, e nel modo in cui in genere l’Occidente interagisce con le comunità islamiche, sia nelle loro terre d’origine, sia in casa propria.

 D. Lei ha accennato alle radici che il radicalismo islamico ha in Occidente. A tal proposito, ci si potrebbe interrogare sulla connessione e su alcuni tratti di somiglianza fra l’integralismo islamico e il dominionismo protestante delle componenti di destra fondamentalista d’oltreoceano, quasi ci sia una sorta di “atlantismo” inconscio nell’islam radicale e nei suoi centri di irradiazione che hanno con l’Occidente, e con gli USA in specie, complesse relazioni di affari …

R. Il problema si pone in termini concreti a partire dalla considerazione che esistono ovunque, in Occidente grandi comunità musulmane, e che l’Occidente continua a sostenere in vari modi, o ad alimentare indirettamente, anche tramite un’opposizione generalizzata e acritica all’Islam come tale, le componenti estremistiche in cui il terrorismo alligna. Se questa tendenza, madre di una sorta di Islam in versione puritanesimo, e dunque per molti versi più occidentale che musulmana, continua a essere foraggiata, ci troveremo ben presto di fronte a un colossale scisma islamico, fra le componenti tradizionali e la loro ricca e intelligente elaborazione dottrinale, che rischia di essere rovinosamente messa in minoranza, e i gruppi integralisti. Ed è appunto in tal modo che si pongono le basi di uno scontro fra l’Islam e la civiltà occidentale, che poi, dal canto suo, a ben vedere ha ben poco di civile. Se solo si pone mente al degrado e alla disperazione di quei musulmani di terza e quarta generazione, che vivono in quell’immensa periferia globale che circonda le grandi metropoli, cinte da aree di marginalità e di depressione sociale, appare evidente quanto esplosiva sia la miscela. La banlieue parigina, anni fa teatro di rivolte, è di fatto già una metropoli-ombra islamizzata, in tutto simile a Orano o ad Algeri. Nella marginalità economica e sociale in cui i franco-algerini sono spesso lasciati, la mancanza di prospettiva fa sì che i giovani, e con essi una componente ampia della comunità islamica, si polarizzino su posizioni estreme; col tempo anche gli imam moderati finiscono per esserne influenzati, al di là delle pur sincere dichiarazioni generiche di buona volontà in tema di convivenza e integrazione. In una situazione siffatta, in cui un intero sistema di valori e una religione finiscono per diventare un marchio di subalternità sociale, si verifica così per forza di cose che anche comportamenti non accettabili, di eredità tribale (un esempio è costituito dalle mutilazioni genitali femminili nelle comunità di origine magrebina), siano sentiti come tratti identitari irrinunciabili, così che per un crudele paradosso, per limitarci all’esempio della condizione femminile, nella stessa città convivono l’infibulazione e la pornografia, due manifestazioni estreme di espropriazione fisica del corpo femminile che sono entrambe da combattere. E per tornare all’argomento che ci riguarda, è in questa marginalità sociale che si sono maturati i semi dell’odio e della violenza che hanno condotto alla strage della redazione di CH, strage nella quale sono stati uccisi a sangue freddo, per un altro, atroce paradosso, anche un correttore di bozze e un poliziotto musulmani franco-algerini.

 D. Quale teme possa essere la reazione diffusa, ora che c’è chi in ambito politico specula sull’accaduto per tirare acqua al mulino dei populismi.?

R. la reazione delle masse non è semplice da prevedere in toto: può senz’altro accadere che si determinino violenze “di branco”, di matrice razzistica, e prevalgano, specie nelle periferie delle società occidentali, sentimenti diffusi di intolleranza e rifiuto nei confronti della comunità islamica, e può certamente derivarne una radicalizzazione generale dei conflitti fra cittadini europei e comunità di migranti. Ma al di là di queste purtroppo ovvie conseguenze, ciò che suscita allarme è l’incoscienza che la politica, un po’ ovunque in Europa, mostra nell’affrontare il problema. Certo, il rischio più evidente viene dallo sfruttamento meschino e demagogico, da parte delle destre, che per ovvie ragioni elettorali cavalcano la paura dell’altro, dello straniero, che diviene il capro espiatorio di tutte le tensioni nate dalla generale perdita di sicurezza sociale e dalla crisi, in un senso di frustrazione rinfocolato dalla presunta competizione per il lavoro, nella quale, secondo vacui e ben noti slogan, il migrante si porrebbe come rivale pericoloso per il suo basso potere contrattuale, e quant’altro si può dire a proposito. In realtà, però, non meno pericolosa e rischiosa è la sottovalutazione del fenomeno dell’integralismo nella cultura politica e nella tradizione della sinistra. La sinistra è, tanto per fare un esempio tratto dai conflitti endemici dell’area mediorientale, totalmente cieca di fronte alle distinzioni presenti all’interno del movimento arabo palestinese, in cui l’islam integralista (basti pensare ad Hamas) sta mettendo radici da lunghissimo tempo. Sottovalutazione di sinistra e movimenti fascistoidi strumentalizzati dalle destre fanno in due modi opposti e complementari il gioco del cosiddetto islam radicale, esagerandone il peso rispetto alla comunità islamica nel suo complesso, che viene di fatto identificata con un elemento in partenza minoritario, o eroicizzandolo come la forza rivoluzionaria che non è, visto e considerato che se c’è una forza reazionaria per eccellenza, che assolutamente non mette in discussione lo status quo socio-economico, con le sue disparità fra povertà e ricchezza, questo è proprio l’islam radicale.

D. Quali le soluzioni efficaci al problema, ammesso che quanti hanno il potere di attuarle si prendano davvero la pena di farlo?

R. Soluzioni ovviamente non si pongono, se da parte dell’Occidente non si abbandonano certe scelte sociali e politiche tipiche del turbocapitalismo globalizzato di rapina. Di queste dinamiche la proliferazione delle cellule terroristiche è l’effetto immediato, come già cercammo di porre in evidenza, all’epoca dell’attentato dell’11 settembre al WTC, in un saggio che volutamente si intitolava Il terrorismo come malattia senile del capitalismo. La causa della crescita esponenziale di tutti gli integralismi e di tutti i fanatismi religiosi e nazionalistici va ricercata nello sviluppo ultimo del capitalismo, e come tutte le malattie senili, il terrorismo rischia di essere invalidante e tendenzialmente mortale. Del resto, quale civiltà ci proponiamo di difendere oggi? Per tornare alla vecchia trinità delle idee rivoluzionarie, di liberté ce n’è forse ancora un po’, ma di égalité pochina, e di fraternité non ce n’è per nulla. E credo sia questo il nodo essenziale su cui interrogarsi.