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Tre domande sulla scrittura (a Giulio Marzaioli e Andrea Inglese) 1

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(Nell’ambito di una tesi dal titolo “Dalla prosa lirica alla prosa in prosa”, discussa da Marco Inguscio presso la facoltà di Lettere moderne presso l’Università del Salento, Giulio Marzaioli ed io siamo stati invitati a rispondere a tre medesime domande relativamente alla nostra esperienza di autori.
Pubblico di seguito lo stralcio della tesi con l’intervista a Giulio Marzaioli, cui seguirà quella mia. a. i.)

INTERVISTA A GIULIO MARZAIOLI

1) La prosa in prosa è scrittura della crisi. Siete d’accordo con una simile affermazione?

“Prose en prose” è una definizione che Jean-Marie Gleize ha coniato relativamente alla propria scrittura e che vuole significare un’inclinazione della sua opera verso l’oggettività, la documentazione, il taglio dell’inquadratura, la riduzione (o l’azzeramento) della fascinazione metaforica (tracciando così un confine rispetto alla poesia in prosa).

Alcune frasi su Senza paragone di Gherardo Bortolotti, in buona parte non mie.

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Gherardo Bortolotti, Senza paragone

riou_1 di Andrea Raos

A cosa si riferisce il titolo di questo libro? Cosa, di preciso, è come, simile, affine, non diverso, diverso, non come, opposto, analogo, non proprio, distinto, dissimile, pari a, somigliante, differente, identico, paragonabile, non più di, impari a? Anche solo per stilare questa lista incompleta ho dovuto modificare più di una volta genere e caso, primo indizio dello slittamento / smottamento che di questo libro è l’unico, pericolante cardine.

Si immagini di porre di fronte alla coralità di Tecniche di basso livello (2009) un colossale, decostruente “[x è] quasi come se” – mancano, e non è un dettaglio, sia il soggetto che soprattutto la copula, il segno dell’esistenza. Allora si percepirebbe il respiro tragico di questa scrittura fittamente focalizzata sul non detto, l’inespresso, l’inafferrabile. Tutto il non concepito del mondo se ne ritrova potenziato e, al tempo stesso, recintato (non c’è niente di mistico/ineffabile in Bortolotti, per fortuna sua e di chi lo legge). “Recintato” nel senso di ricondotto alla realtà grammaticale dell’indicibilità al di fuori di ciò che in effetti si dice.

Uno degli “effetti di senso” più nefasti di tanta letteratura italiana, il parlare di un non meglio precisato “oltre” come se se ne stesse tacendo, si ritrova così messo fuori gioco, con una mossa tanto semplice quanto efficace.

In attesa dello “spazio esterno” (le astronavi che fugacemente appaiono in 11.01), al centro del mondo come Bortolotti ce lo espone si trova, presa in pieno da un fascio di luce nera, la realtà di un’assenza che non ha paragoni.

Gherardo Bortolotti, Senza paragone, Transeuropa, 2014, p. 64.

 

Cinque poesie

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di Domenico Cipriano

Da Il centro del mondo, Transeuropa/Nuova poetica, 2014.

Cipriano, cover

La campagna (1-5)

1.

La staccionata resta fissa nello sguardo
si attarda a misurare la luce
il passo lento del veggente scruta il verde
e torna a mescolare il suono del fiume.
Siamo fatui e sorpresi da tanta calma, la notte non tarderà
ma il suono di chi non c’è si mimetizza all’aria.
Nuvole sui passi lascivi, le impronte
ci costringono a recuperare il senso della presenza:
ogni chiaroscuro e la sua ombra ci convincono
dell’eternità nascosta nelle cose.
Gli oggetti vivono nel pensiero e la musica
riprende le forme di involucri geometrici
il suo fiato è già regolare dopo l’affanno del divenire.

2.

Oggi assaporiamo il sole
tra giri di armonica e una tettoia da ricostruire
sulla casa che ondeggia ai bordi del fiume
tra i numerosi volti degli insetti
e le specie di pesci d’acqua dolce.
È come intrufolarsi nel sogno di qualcuno
che si conosce appena, liberarlo dagli incubi più profondi
e coglierne solo immagini salutari.
Un viaggio dentro il sogno che ci resta
da compiere ogni giorno
fino a che la disperazione non si piega
lasciandoci un segno del perdono.

3.

Cosa è stato delle tenebre
se ora sciogliamo tutto nella cenere
ovunque viaggiamo in spazi già vissuti,
tra il verde disteso della campagna
e le staccionate bianche che ridisegnano i contorni.
Lungo strade semideserte e disseminate di lampioni
versiamo il nostro vino che ci ha scoperti antichi
radicati alla orme scrostate nella terra
alla polvere che imprime il sole e al fango
che nasconde i vermi. Non è più tempo di agonia,
la mente ci rinomina, ci trasmette il senso di chi manca,
le loro storie camuffate nei segni impressi alle stagioni,
nel cambio degli umori all’albeggiare.

4.

Per ogni giorno di disperazione ricambiamo
con un brindisi alla memoria
perché ognuno è la prova della vita inimitabile,
ognuno rinnega il passato prima di colarci dentro.
Questa ciclica visione degli eventi
non torna mai veramente indietro
e siamo altro a ogni legaccio dell’esistenza
in ogni stanza dove anneghiamo la disperazione
o rivalutiamo la speranza. Un nuovo mondo,
una nuova esistenza per ogni parola pronunciata,
anche se riversiamo simili le croci nei cimiteri
e parliamo simili discorsi,
non restano i morsi non consumati, i volti dimenticati.

5. finale

Sono restato seduto dietro una panchina per anni
il cielo è rosso vermiglio e ricordo la tua pelle liscia
quando mi scorre il latte sulle guance.
La notte è un piedistallo e restiamo immobili solo io e te
con gli occhi che sono camaleonti
sotto la luce dei lampioni. Il verde condiziona il giorno
schiarendo le tonalità del cielo
ora che tutto è disteso e senza confini
non si vedono più le staccionate
e il buio serve solo a consolare.
Voglio consegnarmi alle distese della terra fertile
lontano dal mare che paradossalmente
è sterile ed esplora. Qui nulla ti riconosce e inganna
c’è un profumo di uva secca e muschio
una finestra per il sole, senza un confine netto
tra vivere e sperare.

les nouveaux réalistes: Stefania Hauser

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“I don’t like Mondays”

di Stefania Hauser

 

Il lunedì non è un giorno come un altro. Non che gli altri siano migliori, semplicemente il lunedì è noioso. Non so perché, ma lo penso da sempre. Di certo, lo penso da trentacinque anni e voglio sperare che a San Diego non ci sia una fottuta anima viva che l’abbia scordato. Anzi no, sono sicura, lo ricordano eccome: hanno costruito anche un monumento per non dimenticare.

Me l’hanno fatto ripetere sino alla nausea, raccontare per filo e per segno ogni secondo di quella mattina del 29 gennaio come se ci fosse granché da dire, poi, a parte che era lunedì e che dalla finestra della mia camera, come ogni giorno, potevo vedere quel mucchio chiassoso di bambini entrare a scuola, sempre gli stessi, sempre quel mucchio chiassoso di bambini delle elementari. Cosa avessero da dirsi, ogni volta, non l’ho mai capito. Forse nemmeno loro erano elettrizzati all’idea d’entrare in classe, altrimenti perché alle otto e venti erano ancora tutti fuori? A San Diego non fa mai freddo, nemmeno d’inverno, però ricordo che l’erba del prato era ghiacciata perché c’erano delle bambine che accarezzavano il prato con la stessa eccitazione con cui avrebbero toccato un istrice, se solo ne avessero mai visto uno. Io non amo gli animali, ma nemmeno li odio. Mi fanno schifo i topi: tutte dicono che qui ce ne sono ma io non ne ho mai visto uno. Scarafaggi, quelli sì: alle volte li schiaccio, altre ci gioco, altre ancora fingo di non vederli, dipende.

Ho perso il filo del discorso. Mi succede sempre, come se non potessi stare troppo tempo con lo stesso pensiero in testa. A scuola mi addormentavo, infatti. Però mi piaceva fare fotografie e ho anche vinto un premio. Adesso non ne faccio più, però sono molto brava a guidare un carrello elevatore e cose di questo genere. Non serve che lo dica, ma lo faccio lo stesso: so anche sparare. In vita mia ho avuto una sola arma, un fucile semi-automatico calibro 22, un regalo di mio padre per Natale. Avevo chiesto una radio e non me l’aspettavo proprio, anche perché quello stesso anno i servizi sociali avevano detto ai miei genitori che mi divertivo a prendere gli uccelli a pallettoni con una pistola ad aria compressa e a scuola mi avevano accusata di atti di vandalismo e furto con scasso. Dicevano anche che avevo tentato il suicidio, che ero depressa e che dovevo essere messa in uno di quegli ospedali psichiatrici, ma mio padre non gli ha creduto. Vivevo con lui, da quando i miei avevano divorziato. Io e mio padre siamo molto amici: mi viene a trovare tutti i sabati. Fa cinque ore di macchina, ogni volta. Nel 2001, quando il mio avvocato ha presentato la prima richiesta di libertà sulla parola, hanno messo agli atti che avevamo un rapporto malato: una mia dichiarazione in cui parlavo di sodomia. Resto in carcere. Di me e dei miei fratelli, a mia madre, non è mai interessato un granché. I vicini, invece, non facevano altro che impicciarsi e dicevano che molestavo i cani e i gatti del quartiere. L’ho già detto, io non odio gli animali.

I miei colori preferiti sono il rosso e il blu. Ecco perché il primo bersaglio è stato un bambino con un giubbotto blu. È stato facilissimo, avevo il mirino.

Non mi sono fermata: il Ruger ha un caricatore da dieci cartucce, al primo sparo si è ricaricato e ha armato il cane automaticamente, per cui tanto valeva continuare. L’impressione che ho avuto è che nessuno si fosse reso conto di cosa stava succedendo, però io a scuola l’avevo detto che avrei fatto qualcosa di sensazionale e che sarei finita in televisione.

Con il secondo colpo ho preso una bambina. Era davvero facile, sembrava di sparare a delle papere in uno stagno. Il lunedì ha iniziato a movimentarsi e i bambini a gridare. È uscito il preside, gli ho sparato. È uscito il custode, gli ho sparato. È arrivata la polizia: uno di loro si è precipitato dai bambini, ho sparato anche a lui.

Venti minuti. Trentasei colpi. Undici centri. Otto bambini, tre adulti. Due morti.

Avevo sedici anni ma mi hanno processato come un’adulta. Pena: da venticinque anni all’ergastolo. Ecco perché posso chiedere la libertà sulla parola.

Sono passati trentacinque anni. Non ricordo la sparatoria, ma so che sono stata io a sparare. Delle sei ore successive, sempre nella mia camera, ho parlato al telefono con qualcuno ma non ricordo cosa ho detto. Dicono che mi hanno chiesto il perché di tutto questo e che io ho risposto perché non mi piacciono i lunedì. Non sono così convinta d’averlo detto, invece mi ricordo d’avere detto che era stato divertente sparare ai bambini. Mi domando, poi, perché ci deve sempre essere un perché? Mi annoiavo, questo sì.

In carcere mi danno pastiglie per curare la depressione e l’epilessia: le prendo, non mi costa niente farlo.

Nel 2005, quando il mio avvocato ha presentato la seconda domanda di scarcerazione, è stata messa agli atti una mia nuova dichiarazione: il 29 gennaio avevo iniziato a bere birra già dalle sette della mattina e così, hanno tirato fuori il discorso della premeditazione. Durante il primo interrogatorio, ventisei anni prima, non ricordo d’averlo detto e dagli esami del sangue non risultava traccia di alcol. Nemmeno di droga, se è per questo. Il fatto è che poco tempo prima dell’udienza ho rotto con la mia compagna e con un temperino mi sono scritta sul collo coraggio e orgoglio: per me era solo un tatuaggio, ma per loro è la dimostrazione che non so gestire lo stress. Resto in carcere.

Nel 2009, quando il mio avvocato ha presentato la terza domanda di scarcerazione, ho chiesto scusa a tutti quanti. Resto in carcere.

Nel 2019, quando il mio avvocato presenterà la quarta domanda di scarcerazione, non ho proprio idea di cosa dirò.

Gli anniversari pericolosi

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di Giorgio Mascitelli

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Il centesimo anniversario dello scoppio della prima guerra mondiale ha portato sui media la consueta scia di iniziative divulgative, memoriali e perfino turistiche, ma non ha dato luogo a nessun grande evento di marketing politico sul modello di altri anniversari come per esempio quelli relativi alla seconda guerra mondiale. Questa maggiore sobrietà mediatica, peraltro vantaggiosa per il pubblico perché ha consentito la realizzazione di prodotti più corretti storicamente e magari non privi di una prospettiva problematizzante,  è probabilmente spiegabile con la distanza temporale e anche culturale di quei fatti dal nostro ( eterno) presente. C’è anche da dire che la location quasi obbligata per una celebrazione di quel genere, ossia Sarajevo,  presenta troppi ricordi di guerre e devastazioni più recenti, se non nella sua struttura urbana almeno nella memoria collettiva, per poter subire quella sorta di disneylandizzazione simbolica che è necessaria per ospitare i grandi eventi contemporanei ( manifestazioni sportive, concerti rock benefici, firme di trattati e vertici internazionali).

Non è poi così strano che la prima guerra mondiale non dica molto alle attuali classi dirigenti europee e occidentali: la situazione rispetto a un secolo fa è mutata profondamente. L’Europa non è più il centro del mondo, la situazione internazionale è fluida e non caratterizzata dal confronto tra due coalizioni di stati più o meno paritetiche, nella stessa Europa ormai incapace di esprimere potenze mondiali c’è un’unica potenza regionale e comunque i grandi conflitti non avvengono più sul piano militare, ma su quello economico. Le guerre effettive sono ormai asimmetriche  e locali e di solito non vengono chiamate guerre, ma operazioni umanitarie o di polizia internazionale.

Certo a ben guardare qualche tratto simile c’è: per esempio in molti stati come la Russia e le altre nazioni dell’Europa centrorientale vi è una rinascita del nazionalismo  nelle sue forme storicamente più tipiche. Accanto a queste forme piuttosto classiche anche nei paesi più liberali si è sviluppato un’ideologia aggressiva di esportazione della democrazia e dei diritti umani, una variante del messianismo politico secondo Tzvetan Todorov, che svolge una funzione politicamente e culturalmente simile a quella che ha il nazionalismo più tradizionale nei paesi dell’ex blocco sovietico e che aveva in tutti i paesi europei nel 1914.

E’, tuttavia, nella pervicacia delle classi dirigenti di perseguire i propri obiettivi senza tenere in alcun conto le sofferenze della popolazione che si può trovare la somiglianza più preoccupante tra oggi e cento anni fa. Scriveva Keynes a commento dell’atteggiamento dei capi di governo dei quattro paesi vincitori della prima guerra mondiale in occasione del trattato di Versailles “E’ un fatto straordinario che il problema fondamentale di un’Europa affamata e disintegrantesi davanti ai loro stessi occhi fu la sola questione alla quale non fu possibile interessare i Quattro”. Pur senza richiamare situazioni così drammatiche, queste parole sembrano adattarsi perfettamente all’atteggiamento dei protagonisti delle varie trattative e dei vari vertici internazionali che dovrebbero rilanciare l’economia o salvare la pace.

Infondo è comprensibile che i protagonisti del nostro tempo abbiano una qualche remora a realizzare delle celebrazioni in pompa magna delle prima guerra mondiale: non sembra infatti che abbiano tratto molti insegnamenti da quella vicenda.  Così il centenario scorrerà senza commoventi cerimonie con i fiori, i vip e le polemiche dei leghisti e dei cinque stelle su quanto è costato il viaggio ufficiale del governo al contribuente, ma non tutto è perduto: se il 2014 non può essere usato, io non mi farei scappare il 2018.

Che so, potrebbe essere molto suggestivo firmare un bel trattato di liberalizzazione integrale di tutti i servizi pubblici in un vagone ferroviario dalle parti di Compiégne, magari l’11 di novembre.

“Il Sintomo” di Fiorentino e Mastelloni

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di Ornella Tajani

Naso di cane, Scugnizzi, Vito e gli altri: è l’atmosfera fumosa, violenta e soffocante di un film poliziottesco quella evocata da Il sintomo (Marsilio, 2014), il nuovo romanzo di Francesco Fiorentino e Carlo Mastelloni. Come nel precedente Il filo del male (Marsilio, 2010), anch’esso scritto a quattro mani, la narrazione prende le mosse dall’arrivo del protagonista nel luogo natio abbandonato anni prima, in una sorta di dramma dell’eterno e imprescindibile ritorno.

IUS MUSIC

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Amir-Issaa_Ph_by-Matteo_Montagna

(o del #metodoBalotelli)

di Helena Janeczek

Dopo le amenità profuse su Mario Balotelli per la sua insolente reazione su Instagram all’ennesimo commento razzista, oggi “Libero” ha dato il via a una nuova campagna di squadrismo 2.0 contro il rapper romano Amir Issaa (nel senso di: nato e cresciuto a Roma, se – porca puttana- dovesse essere necessario precisare.) Amir sarebbe reo di “incitamento all’odio e alla violenza” per il video qui sotto, in cui compare anche il deputato PD Khalid Chaouki, quello che si era barricato insieme ai profughi e migranti nel cosidetto “Centro di accoglienza” a Lampedusa.

vibranti proteste del mondo letterario underground all’annuncio del nome del vincitore del premio Strega

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https://www.youtube.com/watch?v=lxvgFlSjul8

Update Breaking news

Breaking news: dalla redazione di una nota rivista d’avanguardia letteraria con sede a Sarzana reazione del caporedattore Panda all’entusiasmo manifestato da uno dei collaboratori per l’assegnazione del Premio Strega

The Guest in the Wood

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Elisa Biagini

 traduzione dall’italiano di Diana Thow, Sarah Stickney e Eugene Ostashevsky

Best Translated Book Award 2014*

There’s another
child, one that won’t
grow,

who sits
darkly, eyes
two marbles—
a maquette—, who
drones his
story
up through my
lungs,

who
leans his
head on my
heart
and leaves
a hollow.

 

 

C’è quell’altro
bambino, che non
cresce,

che siede
scuro, gli occhi
due biglie — tutto
abbozzato — , che
ronza una sua
storia su per i miei
polmoni,

che
poggia la sua
testa contro il
cuore e mi fa
buca.

 

 

 

 

Now you want me to touch the fractures,
a braille alphabet,
you want me to touch them
after the letters, the recipes and the stitches.
Give me your glasses
so I can separate the white from the bone
and go straight to the iron,
to your thought.

 

 

Adesso vuoi che tocchi le fratture,
un alfabeto braille,
vuoi che le tocchi
dopo le lettere, le ricette e i punti.
Dammi i tuoi occhiali
perché separi il bianco da quell’osso
e vada dritta al ferro,
al tuo pensiero.

 

 

 

 

The bones will come back in a box
maybe the one you use for yarn
or cookies
or in a shoebox
size 6,
for the short bones and vertebrae:
they’ll end up under the bed with the trunks,
or I’ll make earrings out of them
for everyday use
to keep you close to my teeth.

 

 

Le ossa torneranno in una scatola
forse quella che usi per i fili
o i biscotti,
oppure in una scatola da scarpe
numero 37,
per le ossa corte e le vertebre:
finiranno sotto il letto con i tronchi,
o ci farò orecchini
da usare tutti i giorni
e averti accanto ai denti.

 

 

 

 

You wrote me through your food:
I was every voice in the receipt
followed by your finger like the Psalms,

I was material still

(and still today
each time
I see myself in pieces in the supermarket).

 

 

Mi hai scritta col tuo cibo:
ero ogni voce dentro lo scontrino
controllato col dito come i Salmi,

ero materia ancora,

(e ancora oggi
ogni volta,
mi vedo a pezzi, nel supermercato).

 

 

 

 

breathing in
your wrist, I fill
me with teeth (to
eat me, to
know me),
i red my
still grey
brainblood

(the body,
last place
i can hide).

 

 

respirandoti il
polso, mi riempio
di denti (per
mangiarmi, per
sapermi),
mi arrosso il
sangue ancora
grigio di
cervello

(il corpo,
l’ultimo posto
dove nascondermi).

 

 

 

 

da Elisa Biagini, The Guest in the Wood. A selection of poem 2004-2007. Translated by Diana Thow, Sarah Stickney and Eugene Ostashevsky (Chelsea Edition, 2013).

*Il BTBA è un premio statunitense conferito al miglior libro in traduzione edito nell’anno appena trascorso

 

La condizione palestinese

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di Tommaso Di Francesco, dal Manifesto del 2 luglio 2014

No, la pietà laica, quella verso ogni debole e vinto non può morire. L’uccisione dei tre ragazzi ebrei rapiti presso Hebron – Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel – non solo è condannabile, ma ci riempie di tristezza. Mai avremmo voluto commentare questo risultato del rapimento. Si poteva perfino ipotizzare un nuovo caso Shalit, un rapimento per uno scambio di prigionieri, quei «rapiti palestinesi» di cui nessuno parla.

Tutta colpa di Tarzan

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Villaggio in Somaliland. Non c’è elettricità, ma ci si ricarica il cellulare con il pannello fotovoltaico.

di Gianni Biondillo

Le rare notizie che giungono da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, sembrano confermare un pregiudizio inossidabile: la violenza per le strade, gli omicidi sommari, la guerra fra etnie… insomma, la pacificante certezza di un’Africa immobile, identica a se stessa, irredimibile.

È incredibile quanto un personaggio letterario possa aver influenzato la nostra visione di un continente così complesso. A noi è Tarzan che ci ha fregati. L’Africa è, ancora oggi – per un popolo colpevolmente distratto quale quello italiano, così ignorante di politica estera, con un giornalismo claustrofobico tutto chiuso nel gossip politico nazionale – è, dicevo, il continente selvaggio, quello dei leoni, le zebre, le liane. E dei selvaggi. Che magari devono essere aiutati e/o educati, grazie al nostro spirito umanitario e (post) colonialista. Ma sempre di selvaggi si tratta. Gente che vive nella preistoria, che se vede volare un aereo in cielo lo chiama “uccello di fuoco”. Quindi, in fondo, perché interessarci di loro, cosa può importarci per davvero, con tutti i problemi che abbiamo a casa nostra? Dell’Africa conosciamo, dai telegiornali, solo gli sbarchi sulle coste di Lampedusa. Qualche anima bella piange i morti, qualcun altro, nel nome della difesa del sacro suolo, erigerebbe un muro per tenerli fuori dal nostro giardino dorato. Non molto di più. Come al solito la reazione di fronte a ciò che non conosciamo fa scaturire, freudianamente, il sommerso: meno sappiamo di una realtà e più, nel nostro agire, evidenziamo i nostri pregiudizi e le nostre debolezze.

L’Africa è un continente smisurato, pieno di contraddizioni, un crogiuolo di etnie, religioni, lingue, usi, costumi, immaginarlo come uno scenario immobile racconta il nostro immobilismo, non il loro. Basterebbero i dati bruti, quelli dell’economia per capirlo. Quest’anno il PIL africano crescerà mediamente del 5,4%. Nell’Eurozona se ci va bene, dopo 5 anni di recessione, saremo all’1,2%. In Italia non ci schioderemo dallo zero virgola qualcosa. In Etiopia viaggiano attorno al 7,5%, il Sud Africa è ormai una potenza economica internazionale, la Nigeria lo sta diventando. Non ostante la crisi economica globale, il Wall Street Journal scrive che nel 2014 gli investimenti stranieri in Africa raggiungeranno la quota record di ottanta miliardi di dollari. Investimenti che giungono dalle economie sviluppate che decidono di lasciarsi alle spalle la recessione investendo in quel continente. Cina, Usa, Germania, Turchia. Inutile cercare l’Italia fra gli investitori.

Per noi l’Africa è il paese del babau. Lo spauracchio da sventolare nell’ennesima, stagionale, campagna elettorale. La politica della paura ci ha bloccati da oltre vent’anni, dimostrando d’essere un paese incapace di un pensiero agile e  innovativo. Vogliamo restare saldi nelle nostre sicurezze calcificate: loro sono selvaggi, noi, nelle migliori delle ipotesi, “brava gente” che s’è stufata d’essere ospitale. Anche se poi noi storicamente in Africa “bravi” lo siamo stati davvero poco, basti a pensare alle violenze perpetrate durante il ventennio contro le popolazioni civili della quarta sponda – donne, vecchi, bambini – e “ospitali”, oggi, meno che meno, si guardino le condizioni subumane dei profughi che diciamo d’accogliere, o della forza lavoro che usiamo come schiavi nei nostri campi.

Pubblicità di rivista femminile a Kampala.
Pubblicità di rivista femminile a Kampala.

Ci crediamo intelligenti, civili, “superiori”, e ci dimostriamo in realtà poco furbi. Già parlare d’Africa è una generalizzazione (è un continente lungo come dal Portogallo alla Cina, per capirci), ma tant’è, cerchiamo di arrivare al nocciolo: l’Africa non si trova su un altro pianeta. È qui, a pochi passi da noi. Ci bagna lo stesso mare. Anche a non voler toccare i soliti argomenti umanitari che solleticano la nostra pelosa coscienza, non capire che questa distanza geografica potrebbe essere un’occasione di sviluppo reciproco è più che miope, è folle. L’età media del nostro paese è di 46 anni, quella dell’Egitto, per fare un esempio, è di 26. Il 70% della popolazione africana ha meno di 15 anni. Non sono loro ad avere bisogno di noi. Siamo noi che non potremo avere un futuro senza di loro. Insomma, un’Africa più ricca farebbe più ricchi anche noi.

Il prossimo anno, all’Expo di Milano, per la prima volta nella storia delle Esposizioni Universali, saranno presenti più di 40 paesi africani. Mi sembra un chiaro indicatore di come e quanto il continente si stia muovendo. Saranno da noi, si metteranno in mostra, portando le loro storie, i loro scienziati, le loro invenzioni, i loro artisti. Vorranno fare affari. Saremo abbastanza furbi da capirlo, o colmi d’alterigia e senso di superiorità,  come vecchi nobili decaduti, lasceremo ad altri paesi, molto più dinamici e umili di noi, di creare quei ponti, quei collegamenti, da pari a pari, che noi non abbiamo mai saputo costruire?

(pubblicato su L’Ordine del 22 giugno 2014)

Solo i morti conoscono Brooklyn

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di Thomas Wolfe

(Questo racconto è tratto dalla raccolta “Dalla morte al mattino”, pubblicata da CartaCanta editore, 2014, 15 Є, nella traduzione di Jacopo Lenkowicz)

wolfe_dalla-morte-al-mattino_coverOra l’inverno del nostro scontento è reso glorioso da questo mese di maggio, e la desolazione delle nostre anime da tempo annegate è sepolta nel verde fuoco di una primavera radiosa.

Noi siamo i morti – ah! Annegati in un tempo lontano – spin­giamo le nostre antenne nella dolorosa melma, sui fondali oceanici di un mondo sommerso. Siamo gli annegati – strisciamo ciechi, tastiamo senz’occhi, succhiamo ignari, volteggiamo e ci contorcia­mo nelle profondità della giungla, immensi cieli umidi ripiegati su di noi, e grigia è la nostra carne.

Siamo perduti, ciechi atomi nelle profondità della giungla, ta­stiamo, strisciamo e ci contorciamo nel buio delle nostre antenne, e non possiamo fare altro.

Non c’è uomo al mondo che conosca tutta Brooklyn (solo i mor­ti conoscono tutta quanta Brooklyn), perché in questa città ci vuole una vita solo per non perdersi (solamente i morti conoscono tutta quanta Brooklyn, e persino loro discutono e polemizzano su quella ragnatela infinita, quella giungla di desolazione che è Brooklyn).

Quindi, come dicevo, sto aspettando il treno quando vedo quest’uomo, un uomo molto alto – mai visto prima. Insomma sta lì, per niente lucido e infatti si vede che ne ha un sacco in corpo ma ancora regge; parla decentemente e cammina più o meno dritto. Poi va da un bassetto e dice: «Per la Diciottesima Avenue, incrocio con la Sessantasettesima Strada?» dice.

«Oddio, capo! Sai che non lo so» dice il bassetto. «Anch’io non vivo qua da molto. Chissà?» dice. «Forse verso Flatbush?»

«Nah» dice l’uomo alto. «È a Bensonhoist. Ma non ci sono mai stato. Come ci s’arriva?»

«Oddio,» dice il bassetto, grattandosi la testa – si vedeva che non ne aveva idea – «non lo so proprio. Mai sentito. Lei lo sa, per caso?» dice.

«Certo» dico. «È a Bensonhoist. Prendi il treno per la Quarante­sima Avenue, scendi alla Cinquantanovesima Strada, lì cambi per Sea Beach, scendi sulla Diciottesima Avenue, incrocio con la Ses­santatreesima, e poi cammini un paio di isolati. Vai sicuro» dico.

«Ma che!» dice uno con la voce stridula, uno di quelli che sanno sempre tutto. «Che sta dicendo?» dice – oh, sapeva tutto sul serio. «Quello sta fuori! Glielo dico io come ci si va» dice all’uomo alto. «Deve cambiare per West End alla Trentasei» gli fa. «Poi scende tra New Utrecht e Sedicesima» dice. «Cammina per due isolati a ovest e due a nord» dice. «Ed è arrivato.» Oh, uno che sa proprio tutto, no?

«Ah sì?» dico. «E lei che ne sa?» Mi irritava perché pensava di saperla troppo lunga. «Da quanto vive qua?» dico.

«Da sempre» dice. «Sono di Williamsburg» dice. «E so cose di questa città che lei neanche si immagina» dice.

«Ah sì?» dico.

«Sì» dice.

«Come no, forse cose che non ha mai sentito nessuno a parte lei, cose che si inventa la notte» dico «prima di addormentarsi, invece di ritagliare le figurine o cose così.»

«Ah sì?» dice. «Si crede molto intelligente, eh?»

«Non saprei» dico. «Sulla statua di Lincoln c’è ancora la sua testa, non la mia» dico. «Però so riconoscere un bugiardo quando lo incontro.»

«Sì, eh?» dice. «Lei è uno sveglio, eh? Beh, prima o poi incontrerà qualcuno che le spaccherà la faccia» dice. «Ecco quanto è sveglio.»

 

Beh, proprio in quell’istante arriva il treno, sennò lo mettevo a po­sto io a quello, però mentre arriva il treno gli dico: «Ok, pezzo di idiota! Mi dispiace solo di non potermi occupare di te adesso, ma spero di rincontrarti da qualche parte, magari al cimitero». Poi dico all’uomo alto, che era rimasto lì per tutto il tempo: «Venga con me» dico. Quando saliamo sul treno gli dico: «Com’è che va a Bensonhoist?» dico. «Sa di preciso dove deve andare, il numero civico?» dico. Gliel’ho chiesto perché magari sapendo l’indirizzo potevo dargli una mano.

«No» dice «non lo so. Non conosco nessuno là.»

«E che ci va a fare?» dico.

«Mah,» dice lui «dò un’occhiata in giro» dice. «Mi piace il nome,» – Bensonhoist, no? – «volevo vedere come è fatto.»

«Ma che» dico. «Mi prende per il culo?» Ho pensato che voleva fare il furbo, non l’avreste pensato anche voi?

«No,» dice «sul serio. Mi piace andare nei posti che hanno un bel nome. Posti di ogni tipo» dice.

«E come faceva a conoscerlo» dico «se non c’è mai stato?»

«Beh,» dice «ho una mappa.»

«Una mappa

«Una mappa. Me la porto sempre dietro quando vado in giro» dice.

Non ci volevo credere! Se la tira fuori dalla tasca, oh, ce l’ha sul serio la mappa – sul serio – una grande mappa di tutta Brooklyn con i percorsi disegnati sopra, tipo – Canarsie e East New York, Flatbush, Bensonhoist, South Brooklyn, gli Heights, Bay Ridge, Greenpernt – tutto là sopra ce l’aveva lo schemetto delle strade, disegnato sopra la mappa.

«È stato mai in uno di questi posti?» dico.

«Certo che sì» dice lui. «Quasi tutti. Ero a Red Hook proprio ieri sera» dice.

«Oh, Red Hook!» dico. «Cristo! E che è andato a fare?»

«Mah,» dice «niente di che. Mi sono fatto un giro. Mi sono fer­mato a bere in un paio di locali» dice «ma soprattutto ho cammi­nato.»

«Ha camminato?» dico.

«Sì,» dice «mi guardavo intorno, così, un po’ a caso.»

«E dove è andato?» gli chiedo.

«Eh,» dice «non so i nomi, ma posso cercarli sulla mappa» dice. «A un certo punto mi sono ritrovato in mezzo ai campi, campi enormi, senza case» dice «ma in fondo c’erano delle navi illumina­te. Stavano caricando. Così ho attraversato il campo» dice «verso le navi.»

«Ma certo» dico «ho capito dov’è. Erie Basin.»

«Seh,» dice «mi sa di sì. Stavano caricando le navi con delle grosse gru, e poi c’erano altre navi illuminate, nel cantiere, allora ho attraversato i campi per avvicinarmi» dice.

«E che ha fatto?» dico.

«Niente di che» dice. «C’erano due ubriachi in un locale, hanno cominciato a fare a botte e li hanno buttati fuori» dice «poi uno dei due ha provato a rientrare ma il barista ha preso una mazza da baseball da sotto la cassa e quello è scappato.»

«Eh,» dico «Red Hook…»

«Sì» dice. «Era là, sì.»

«Lasci stare Red Hook» dico. «Ne stia fuori.»

«Perché?» dice. «Che c’è che non va?»

«Beh,» dico «niente, ma è meglio starne alla larga, si fidi.»

«Ma perché?» dice. «Che ha?»

Oddio! Cosa bisogna farci con uno così stupido? Sapevo che non aveva senso dirgli qualsiasi cosa, non avrebbe capito, così gli dico solo: «Mah, niente. Ci si potrebbe perdere, ecco».

«Perdermi?» dice. «Ma no, come faccio a perdermi. Ho la map­pa» dice.

Una mappa! Red Hook! Ma Cristo!

 

Poi inizia a farmi un sacco di domande stupide: quanto è grande Brooklyn, se mi ci riesco a orientare, in quanto tempo si può co­noscerla tutta.

«Senta!» dico. «Se lo tolga dalla testa» dico. «Lei non conoscerà mai Brooklyn» dico. «Neanche tra cent’anni. Ci vivo da sempre» dico «e neanche io so tutto quel che c’è da sapere, quindi come pensa di riuscirci lei» dico «che nemmeno ci vive?»

«È vero» dice «però io ho una mappa.»

«Mappa o no,» dico «non riuscirà mai a conoscere Brooklyn» dico.

«Sa nuotare?» dice, così all’improvviso. Dio! A questo punto, mi capite, comincio a pensare che sia fuori di testa. Aveva bevuto, è vero, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che non mi piaceva. «Sa nuotare?» dice.

«Certo» dico. «Perché, lei no?»

«No» dice. «Al massimo qualche bracciata. Ma non ho mai im­parato bene.»

«Beh, è facile» dico. «Basta un po’ di fiducia. Sa come ho impa­rato io? Un bel giorno mio fratello mi ha buttato giù da un molo con i vestiti e tutto, avevo otto anni. “Dai che nuoti” mi ha detto. “Nuoti alla grande – oppure affoghi.” E mi creda, ho nuotato! Se non hai altra scelta, lo fai. Basta solo un po’ di fiducia in sé stessi. E una volta che hai imparato» dico «non devi più preoccuparti. Te lo ricordi per sempre. È una cosa che rimane per tutta la vita.»

«Nuota bene?» dice.

«Come un pesce» gli faccio. «Un pesce in piena regola» dico. «Ho imparato ai moli come tutti i ragazzini» dico.

«Cosa fa se vede un uomo che sta affogando?» dice lui.

«Che faccio? Mi butto in acqua e lo tiro fuori» dico. «Che altro dovrei fare?»

«Ha mai visto qualcuno affogato?» dice.

«Certo» dico. «Ne ho visti due – e tutte e due le volte a Coney Island. Erano andati troppo al largo e non sapevano nuotare. Sono annegati prima che qualcuno potesse raggiungerli.»

«Che ne fanno qui della gente affogata?» dice.

«Qui dove?» dico.

«Qui a Brooklyn.»

«Non so che intende» dico. «Non ho mai sentito di qualcuno affogato a Brooklyn, tranne in piscina. Non si affoga a Brooklyn» dico. «La gente affoga da altre parti – nell’oceano, dove c’è l’ac­qua.»

«Affogare» dice lui, guardando la mappa. «Affogare.»

Dio! A quel punto mi rendo conto che è matto sul serio, con quell’espressione folle negli occhi e chissà poi che aveva in testa. Eravamo vicini a una stazione, non la mia fermata, ma decido di scendere lo stesso e prendere il treno dopo.

«Addio, capo» dico. «In bocca al lupo.»

«Affogare» dice lui, guardando la mappa. «Affogare.»

Dio! Ho ripensato a quell’uomo almeno mille volte da allora, e chissà che gli sarà capitato mentre andava a Bensonhoist sol­tanto perché gli piaceva il nome! E poi, camminare per Red Hook in piena notte con in mano una mappa! Quante persone ho visto affogare qui a Brooklyn! Quanto tempo ci si mette a conoscere Brooklyn con una mappa!

Dio! Che idiota che era! Chissà che gli è successo. Mi domando se qualcuno gli ha già spaccato la testa o se sta ancora girando in metro nel cuore della notte con la sua piccola mappa. Poveraccio! Però mi viene da ridere a pensarci. Forse lo avrà capito da solo che non vivrà mai abbastanza per conoscere tutta Brooklyn. Ci vuole una vita intera per conoscerla tutta quanta. E forse neanche basta.

Solo i morti conoscono tutta quanta Brooklyn.

 

(i dialoghi di Wolfe fanno morire; GS)

Prese su Rembrandt

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nell'occhio [Questo testo è contenuto in Nell’occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all’immagine, a cura di Clotilde Bertoni, Massimo Fusillo, Gianluigi Simonetti e con postfazione di Stefano Chiodi. Il volume, appena uscito per Donzelli, è costituito da ventisette immagini lette da: Roberto Andò, Franco Buffoni Maria Grazia Calandrone, Mauro Covacich, Elio De Capitani, Giorgio Fontana, Gabriele Frasca, Nadia Fusini, Andrea Inglese, Helena Janeczek, Valerio Magrelli, Guido Mazzoni, Enzo Moscato, Tommaso Pincio, Vincenzo Pirrotta, Laura Pugno, ricci/forte, Alessandra Sarchi, Walter Siti, Domenico Starnone, Federico Tiezzi, Emanuele Trevi.]

di Andrea Inglese

L’unica cosa certa è il color del cielo.

L’Ulisse: decimo compleanno e nuovo numero della rivista

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Il numero è scaricabile qui; questi dieci anni di monografie, qui.

Fine di una storia a Berlino

6

di Davide Orecchio

Un miliardario americano sorvola Berlino. Non la bombarda. La compra. Specula. Acquista immobili. Li restaura. Aumenta l’affitto. Mette in fuga inquilini. Mette in crisi uno scrittore inquilino. Causa fantasie, impotenze, furore creativo, incubi. È una persona buffa. È un homeless. Vive nell’alto dei cieli. Dimora su un aeroplano. Mangia solo cioccolata. Non ha un volto né un nome. È il cambiamento che cambia Berlino. Jan-Peter-Bremer-investitore-americano

Jan Peter Bremer è uno scrittore berlinese nell’humour, nello sguardo, nella chioma riccia rossissima, nella giacca di tweed demodè, negli anelli, nella borsa a tracolla; parla quanto basta, non si dà le arie, scrive quanto basta, detesta i libri troppo lunghi. Vive nella Berlino che forse adesso sparisce; la città libera all’ombra del Muro, la città che fantasticava l’avvenire sulle macerie del Muro.

Adesso è il tempo de L’investitore americano, non-personaggio che titola il suo primo romanzo tradotto in Italia (L’Orma Editore 2013, traduzione di Marco Federici Solari. Edizione originale Berlin Verlag 2011. Vincitore dell’Alfred-Döblin-Preis 2011). A Bremer è successo davvero. Nel 2009: iniziava la recessione, un’impresa comprò lo stabile dove Jan abitava con la famiglia, lo ristrutturò, aumentò l’affitto e lo scrittore se n’è dovuto andare (forse oggi ritorna, ma l’affitto è più caro). Dall’innesco reale è nato il romanzo, una costellazione di ipotesi, storie, lettere, gesti che uno scrittore berlinese (il protagonista) compie dal suo appartamento di Kreuzberg reagendo alla manipolazione che arriva per travolgerlo. Qui si narra una crisi: un padre, un marito, troppe birre, una pagina bianca, un cane depresso, un miliardario che vola lassù, il pavimento del bagno all’improvviso s’inclina e la vita domestica scivola verso il non-più-come-prima.

Bergmanstrasse, Meringdamm, la gentrificazione di Kreuzberg, il nuovo mondo modifica e mortifica lo scrittore che vive nello stabile con la moglie, una figlia, un figlio e appunto il cane. Lo speculatore acquista il palazzo. Lo scrittore va in tilt. Non scrive più. Non vive più. S’immagina nella compilazione di lettere e reclami, in conversazioni, petizioni, traslochi, piccole rivolte o nell’atto di porre argini alle forze che lo travolgono. S’immagina, appunto, ma non fa. Su questa fantasia senza voce, scrittura (in apparenza) priva di narrazione cresce L’investitore americano: 150 pagine di un libro unico e magistrale nell’offrire una mappa di storie possibili, una piccola enciclopedia di sogni proibiti. L’aspetto politico di questo testo letterario e fiabesco è che mostra il conflitto tra un individuo radicato terrenamente nella sua città, quartiere, abitazione e una forma di potere liquida, intangibile, talmente volatile da volare sul serio; un dio e artefice senza domicilio né fabbrica, senza volto né nome (e dunque, per scelta o necessità, tradotto dalla sua vittima in una lingua iconoclasta e che si nega il potere di nominare). Col personaggio investitore cosmopolita dominus della troposfera Bremer inventa la sembianza letteraria della crisi, o delle nuove divinità economiche dei nostri anni; che è tutta una storia effettuata da cause anonime, grandezze finanziarie metafisiche. Bremer ha scritto un romanzo sull’impotenza di “noi”, persino di “io” come vita manipolata immediatamente, cioè in assenza di mediazioni politiche e sociali, dall’interventismo del capitale sulla vita; l’odierna belligeranza permanente anonima senza faccia ma sfacciata del forte contro il debole; talmente forte da assurgere a signoria celeste, immateriale.

***

Estratto numero uno
Lo scrittore immagina che l’investitore gli parli

«Guardami, my friend! Temi il futuro, la caduta libera e il progresso che ti schiaccerà. Hai paura della cassetta sotto l’ala sinistra come di quella sotto l’ala destra. Ma più di tutto hai paura che là sotto un nuovo cameriere mi attenda, un uomo che ormai da settimane guarda il cielo pieno di desiderio, fremendo di energia. Oh, come vorrei stringere la sua lettera tra le mani! Ma devo avere pazienza. Devo avere pazienza con lui e devo avere pazienza con la città in cui vive, perché è grande e vuota e gli uomini ci camminano silenziosi e grigi, invecchiando per le strade deserte. Nessuno che saluti o che sorrida. Nessuno che ti regali uno sguardo di conforto. Non c’è pietà in questa città. Neanche per un’anziana signora. Ha quasi cent’anni, un’età incredibile. Da un’eternità non riceve più visite, nessun parente che passi per un saluto a portare un po’ d’allegria, nessun vicino che vada anche solo a bussare alla sua porta, nessun portiere che venga a sincerarsi che stia bene. Vive dimenticata dietro le tende ingrigite e l’unico che si vuole prendere cura di lei è l’uomo di cui ora ti racconterò. Vive a solo due passi da quell’appartamento, nell’edificio accanto. In questo momento è steso sul suo letto, fissa il soffitto e cerca di mettere ordine tra i suoi pensieri. Perché esita ancora? Perché non salta su e non corre allo scrittoio? Non ha fiducia nelle proprie parole?»

Estratto numero due
Fedele alla sua missione

«Chiuse gli occhi. Da quell’inverno sarebbe riemerso trasformato e con una forza incontenibile, si sarebbe seduto con muscoli massicci alla scrivania, uno spirito libero che contemplava in ogni momento audaci visioni ed era accolto dalla moglie con sguardi amorevoli quando usciva dal suo studio con passo molleggiato. Sarebbe stato uno scrittore a cui il figlio avrebbe guardato con rispetto per poi raccontare orgoglioso di lui alla maestra di fronte a tutta la classe. Mio padre è un uomo, signora maestra, che è fedele alla sua missione».

***

Eppure, proprio per il fatto d’essere fedele alla sua missione, Bremer mette in scena un’impotenza che – come ha spiegato egli stesso in un’intervista a Radio3 – è tema connaturato alla letteratura stessa, non semplicemente a questa storia. Dall’impotenza nasce un libro che dobbiamo intendere come contestazione (e quindi reinvenzione) della realtà. Una rivolta. Dagli anni ’90 a oggi ci siamo abituati a testimoniare i cambiamenti dell’edilizia pubblica berlinese. Le trasformazioni di Mitte. La nuova, mediocre Potsdamer Platz. Il quartiere della burocrazia e della politica sorto al lato del Bundestag. E via elencando. Bremer ci porta invece nel teatro dell’edilizia residenziale, al centro di processi di espulsione della cittadinanza dai quartieri, dove ciascuno è chiamato a confrontarsi privatamente con un avversario che non può sconfiggere.

Beuys
Joseph Beuys. Hamburger Bahnhof Museum für Gegenwart – Berlin

L’investitore americano racconta l’impossibilità che la Berlino di un tempo possa proseguire. E lo fa con l’inserirsi nel clima letterario di una tradizione (così da tenerla in vita, nonostante tutto) dalla quale eredita molte creature e figure: la pigrizia oblomoviana, l’inadeguatezza kafkiana, l’ironia, il surrealismo e le fantasticherie che ricordano Bichsel e Walser. Affiorano poi gitani, musicisti di strada, mendicanti, una condomina centenaria: personaggi ed echi della Berlino bohémienne, proletaria, espressionista di Döblin o Isherwood che persistono al prezzo di indossare abiti leggermente monodimensionali; come se Bremer ci avvertisse: «Ecco, io nella nuova Berlino tengo in vita la vecchia, ma vi accorgete che si sta dissipando, che il peso del mondo la schiaccia nello spessore di un ricordo?»

***

Questa specie di recensione l’ho scritta qualche mese fa. Ma non l’ho terminata. Sinceramente, non me ne importava nulla di terminarla. Ero semplicemente soddisfatto di aver letto il libro e conosciuto il suo autore. Non sentivo l’urgenza di dire la mia sul romanzo. Poi, leggendo Berlino alla fine della storia di Guido Mazzoni (su Le parole e le cose, LPLC, 19 maggio 2014) ho cambiato idea. Il saggio di Mazzoni (notevole, e ampiamente letto e discusso sia su LPLC sia altrove) sfrutta fino in fondo le possibilità cognitive dello sguardo da fuori (nutrito, inevitabilmente, dalla consapevolezza e dall’acume di colui che vede). Lo sguardo del turista o visitatore che osserva Berlino come teatro dove le potenze si mettono in mostra, usano lo spazio pubblico per il pubblico discorso monumentale, museale, o (parafrasando rozzamente Mazzoni) per il discorso pubblicitario (quasi totalitario, per paradosso) che porta il privato/consumatore al centro di una scena ex storica, post politica – quindi in un campo di macerie. Scrive Mazzoni:

«Ovunque, nei luoghi di Berlino che parlano della storia novecentesca, si assiste a un conflitto implicito fra due discorsi. Il primo è raccontato dai musei e dai monumenti ufficiali; esprime un ethos riflessivo e perbene. (…) Il secondo è rappreso nel paesaggio che circonda i musei e i monumenti ufficiali: nei pupazzi fosforescenti, nei manifesti che dicono Shopping is coming home, nelle agenzie immobiliari che scrivono «appartamenti con vista» davanti a ciò che resta del Muro (…). Pur essendo politicamente alleati, pur condividendo il giudizio implicito e esplicito sul XX secolo, sul nazismo e sul comunismo, questi due regimi simbolici confliggono. Il primo è tragico, responsabile e pianificato (…) Il secondo è ludico, irresponsabile e anarchico; è emesso dal capitalismo contemporaneo, dalla Western way of life così come si configura nella nostra epoca; si rivolge alle stesse persone fisiche cui si rivolge il discorso dello Stato, ma le immagina in un altro modo, non come cittadini ma come soggetti liberi da legami, come individui rilassati, come membri della middle class planetaria che consuma. Lo Stato connette: esige che la storia tragica del Novecento venga osservata responsabilmente (…) Il capitalismo disconnette: presuppone una vita psichica fatta di segmenti eterogenei che convivono o che si succedono a brevissima distanza senza che questo sia un problema; presuppone quella blanda schizofrenia di cui ogni occidentale del XXI secolo fa esperienza ogni giorno, e che costituisce l’equivalente psichico del consumo in quanto forma di vita e modo di essere nel mondo».

***

Digressione
A proposito di ludico e tragico: giocare con la storia, in quella città, ha avuto e ha la sua importanza. Dipingere graffiti sul Muro era un gesto ludico ma serissimo contro la storia che stava accadendo, un gesto che poi è divenuto storia e infine monumento (il Muro e i graffiti sono un tutt’uno). Dopo l’89 ricordo almeno un momento in cui i due discorsi (il ludico e il responsabile) si sono intrecciati: nel 2009, quando si celebrarono i 20 anni dalla caduta del Muro con un domino infantile di tessere giocose dipinte da scolaresche, che cadevano lungo il percorso un tempo della cinta (il video amatoriale sotto è mio).

***

Scrive ancora Mazzoni:

«Non più la grande politica di massa col suo inevitabile sbocco bellico, ma la vita privata e l’indifferenza alla politica; non più l’epoca della mobilitazione generale o dell’impegno, ma la microanarchia in spazi controllati».

Infine, in sede di commento e discussione coi lettori:

«Il saggio è stato scritto dalla prospettiva del turista: non ho preteso né pretendo di parlare di tutta Berlino; mi pare normale che chi vive a Berlino (…) veda e colga altre cose. Visitatore superficiale per antonomasia, il turista è anche colui per il quale i monumenti e i musei sono stati concepiti, è il destinatario ideale del discorso che le istituzioni intendono svolgere attraverso i musei e i monumenti. In questo caso specifico, la superficialità del turista è un punto di osservazione legittimo e privilegiato».

«Du», numero monografico su Berlino, "Terra di nessuno", 1991.
«Du», numero monografico su Berlino,  1991.

Ho pensato che il libro di Bremer, questa lettera da Berlino col suo punto di vista residenziale che “vede e coglie altre cose”, fosse un buon interlocutore per dialogare dalle quinte – e attraversando la scena (anzi abbattendola) – col pubblico in platea. Sarebbe banale sostenere che, al di qua della rappresentazione urbanistica e pubblicitaria eretta per la persuasione di noi, e lasciata la sponda della “fine della storia”, le identità restano vive e battagliere, e che questo fa attrito, e che dove c’è attrito c’è una storia che seguita. Sarebbe banale; anche se è vero (e, del resto, lo scrive anche Mazzoni).

Occupy Biennale, Berlino 2012
Occupy Biennale, Berlino 2012
Tenda Occupy. Berlino 2012
Tenda Occupy. Berlino 2012

È più interessante, però, il punto di contatto tra quanto argomenta Mazzoni riguardo alla microanarchia della vita privata, indifferente alla politica e cui la politica è indifferente, e quanto accade al protagonista de L’investitore americano, il quale con armi del tutto private, individuali e nevrotiche s’ingaggia in una “battaglia imbelle” che, in altri tempi o in questi tempi ma con strumenti diversi, sarebbe invece stata collettiva. Egli (grazie a uno stile e a una lingua) è il portavoce di quella tradizione storica, culturale, urbana che non esiste più o si va estinguendo. Ma è anche il testimone presente di un urto agli «spazi controllati» dove «la forma di vita vincitrice pianta le proprie insegne» (per citare ancora Mazzoni); nel senso che quegli spazi non sembrano più sotto controllo, il contratto sociale postmoderno è saltato, la pauperizzazione e spoliazione risvegliano bisogni politici primari e di cittadinanza. Direi di più: dal secondo dopoguerra a oggi Berlino (prima nella sua parte occidentale, poi nel suo complesso) è stato il luogo (e per noi spettatori il teatro) di una coabitazione tra autogestione e controllo, tra forme di vita autonoma e governo/economia liberale che ha consentito l’ossigenazione di un patto democratico mondiale. L’autodeterminazione degli individui e delle comunità, la possibilità di una vita povera ma bella all’ombra del KaDeWe erano un messaggio riguardo alla superiorità dell’Occidente. Quella era la lettera che Berlino mandava al mondo. Ora, con l’autolesionismo insito in ogni eccesso, la forma di vita vincitrice occupa il campo tentando di obliterare non solo la coabitazione ma persino la sua memoria (come ci mostra l’investitore di Bremer). Così saltano le regole del gioco, e il divenire si apre a quegli smottamenti che sono l’ingrediente principale di una storia che qualcuno farà e che qualcun altro, come Bremer, sarà chiamato a raccontare.

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Exit

***

Potsdamer Platz da «Du», 1991.
Immagini di Potsdamer Platz da «Du», 1991.

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Finale di partita

6

di

Francesco Forlani

Simon Lane, bambino, in macchina con suo padre. Opera pubblicata in Paso Doble special Sport
Simon Lane, bambino, in macchina con suo padre. Opera pubblicata in Paso Doble special Sport

 

I sogni non vengono mai soli.

Nessuno fa mai un solo sogno,

ma diversi sogni. Accettiamo i sogni come

accettiamo la nostra mortalità. Se ne ricaviamo

o meno un senso è irrilevante. Così come

il fatto che siamo esistiti ed esisteremo ancora.

Simon Lane, Rio de Janeiro, 14 March 2012

Una delle più belle performance di Simon Lane, scrittore meravigliosamente british, parigino nell’anima, la fece durante i giochi della XXVII Olimpiade che come molti ricorderanno si svolsero a Sydney dal 15 settembre al 1º ottobre 2000. Non posso dire con precisione in quale giorno delle due settimane avvenne ciò, ma di tre cose sono più che sicuro. Primo: la lettura fu in quelle due settimane; secondo: accadde in uno dei due week-end; terzo: se fosse stato possibile incarnare la letteratura di Simon in un giocatore, nessuno di noi avrebbe immaginato una maglia diversa dalla numero sette, una maglia di colore rosso per il più dandy di tutti i campioni: George Best.
A Simon Lane, però, il calcio non interessava affatto. Durante i mondiali, gli europei, partite di coppa e affini, non si assiepava con noi tra i divani anni settanta del Café sporting e a proposito dell’esercizio fisico amava ripetere la celebre replica offerta da un onorevole ultraottantenne Sir Winston Churchill a un giornalista che gli chiedeva quale fosse il segreto della sua longevità: « Cigars, whisky, no sport ». Simon Lane realizzò dunque di venerdì il suo intervento, Le monde d’aujourd’hui. Come molti sanno, il quotidiano le Monde esce il venerdì e durante tutto il week end per chiunque si rechi all’edicola, alla richiesta del Le Monde del giorno, l’edicolante porgerà che si tratti di venerdì, di sabato o domenica quella stessa identica edizione; Le monde d’aujourd’hui in realtà è Le monde del venerdì, ma che può essere del sabato e per i ritardatari quello della domenica.
La rivolta di Simon non era contro le monde ma contro il tempo. Come la volta che eravamo stati fermati dalla polizia stradale e al poliziotto che gli rimproverava di avere “solo” un permesso di soggiorno temporaire, lui aveva ribattuto che ad ogni modo anche le nostre vite, lo erano, temporaires. La ragione per cui in un racconto che dovrebbe a 14 giorni 20 ore 2 minuti 3 secondi dalla finale e in quattromila battute rivelare il contenuto della scatola nera recuperata dal fondo della classifica di un girone disputato, ammettiamo, dalla nazionale italiana, io stia parlando di uno scrittore pubblicato in inglese, portoghese, francese e questo autunno finalmente in italiano, è semplice. Potrei semplicemente dirvi che chiamandomi Forlani non potevo che dedicare allo scrittore e all’amico qualcosa di questo tipo, scrivere un racconto For Lane, e farlo in quest’occasione, per il fatto che pur essendo nato a Londra, vissuto a lungo a Parigi, un anno dopo la sua performance avesse deciso di trasferirsi proprio a Rio de Janeiro.
1960-s-george-best
No, il fatto è che come spesso succede nelle grandi esperienze della vita, che siano esse di dolore o di gioia, la questione non sta tanto nel “quanto durerà” ma con chi ci sarebbe piaciuto, o avremmo semplicemente voluto condividerla quella esperienza. E questi mondiali li avrei voluti guardare con Simon. Mi chiedo, per esempio, per quali nazionali in campo giovedì 26 Simon Lane farebbe il tifo, immaginando magari per un solo momento che ad affrontarsi vi siano le rose degli scrittori che attraverso stili inimitabili hanno disegnato le città, cartografato i quartieri, dato vita ai personaggi, descritto gli usi, e i costumi, cultura e civilizzazione, il modo di amare o di uccidere, di entrare in campo, di quelle “nazioni”.
Tra Stati Uniti e Germania sono sicuro che avrebbe affidato al modulo Edgar Lee Masters – Edgar Allan Poe le sorti della partita come un allenatore che possa disporre di due gemelli del gol, alla maniera di Ernst Happel con i fratelli René e Willi van de Kerkhof, per intenderci; perché Simon aveva un gemello nella vita e due ai polsini. L’amore sfegatato per Pessoa lo avrebbe schierato certamente in area lusitana e del resto non fu a Lisbona che Simon prese quartiere per lunghi periodi? Tra Corea e Belgio avrebbe indubbiamente optato per i primi essendo i secondi troppo ordinari mentre tra i russi e gli algerini credo che la grande tradizione romanesque di madre Russia avrebbe deciso sul da farsi. E comunque la somiglianza di Simon Lane con Vladimir Majakovskij, sia dal punto di vista della versatilità nelle arti che nell’eccentricità del vestire –e perfino in certi tratti fisici-era a dir poco stupefacente. Mancano 14 giorni 19 ore 9 minuti 30 secondi al giorno in cui si giocherà la finale. Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire.
Se Simon fosse ancora qui è con lui che vorrei vederla. Lo costringerei a farmi compagnia. Sarebbero delle gran bevute ma solo per mitigare il caldo degli spalti, immaginari, e mescolare alcol e sudore; soltanto per rendere memorabile il tutto. Il mio amico filosofo Jean Claude Michèa ci direbbe che l’unico modo per far sopravvivere lo spirito sportivo è vivere la partita di calcio senza la dittatura del business is business; il capitale che fa simulare, fingere, spegnere il cuore e giocarla con lo spirito giusto, lo spirito del dono. Bill Schankly – il leggendario allenatore del Liverpool non aveva forse detto che “il vero socialismo era quando ciascuno lavorava per tutti gli altri e che la ricompensa finale sarebbe stata equamente divisa fra tutti”?
Racconto pubblicato nella rubrica “Penne mondiali” (Tiscali) a cura della Nazionale Scrittori Osvaldo Soriano Football Club

 

Roma 27, 28, 29 giugno – No Border Fest. Tre giorni di dibattiti, cultura, musica.

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[Pubblichiamo il programma di oggi e domani, dal sito www.meltingpot.org]

Per la libertà di movimento oltre ogni confine.

Il no border fest, giunto alla sesta edizione e organizzato quest’anno da La città dell’Utopia, SCI-Italia, InsensINverso, Amisnet e Laboratorio 53, nasce come momento d’incontro e di conoscenza per riflettere insieme su tematiche sempre più rilevanti come i diritti di cittadinanza, le migrazioni e la libertà di movimento.

Mentre a Bruxelles si discuterà di come “rafforzare Frontex” e aumentare i controlli alle frontiere, durante i tre giorni a Roma vogliamo raccontare le frontiere esterne e interne dell’Europa, grazie alle testimonianze di chi quelle frontiere le ha attraversate, ai contributi di chi ne ha raccontato e filmato le vicende e di chi quotidianamente a quelle frontiere si oppone.

Un’occasione per trovare nuovi stimoli per agire collettivamente e in maniera concreta sulla realtà in cui viviamo.

les nouveaux réalistes: Olga Campofreda

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Lezioni di italiano

di

Olga Campofreda

 

A South Kensington c’è una strada che si chiama come un giardino, c’è poi il numero quarantanove, interno due, citofono laccato in oro. Mi ci specchio ogni volta in superficie mentre qualcuno, dall’altra parte, percorre il tragitto che da una poltrona costosa arriva ad aprirmi il portone, che fa un rumore sordo, un clank secco, come di una cassaforte dopo la combinazione esatta.

La mia combinazione è stata esatta, immagino. Sarà anche per questo, il rumore, un fatto di coerenza.

Lungo la strada che si chiama come un giardino ci sono parcheggiate solo Mercedes, Maserati, Carrera e io non ne so proprio nulla di automobili, ma lo capisco quando si tratta di un convegno dov’è gradito l’abito scuro e una tassa di iscrizione al club particolarmente alta.

La mia combinazione è stata sfacciata, soprattutto.

Prima di salire al primo piano passo in rassegna il mio volto ancora una volta, raduno tutte le rughe che posso, le divido tra quelle che significano stanchezza (le congedo) e quelle che significano esperienza, maturità (mi concentro su quelle, le tengo strette, le scavo). Non sono un’insegnante di italiano, ma sono italiana. Questo forse dovrebbe bastare. Sono italiana e sono sfacciata e tutto quello che devo ripetermi per convincermi a salire le scale del palazzo (scale rivestite in moquette rossa, uno scorrimano in legno bianco e dorato) è che sono una professionista della mia lingua madre, la parlo quasi da quando sono nata e questo è tutto, niente può scalfirmi. Conosco la pronuncia delle parole, il significato, i sinonimi, l’ordine in cui prediligono essere disposte. Conosco il senso proprio, il doppio senso, l’assenza di senso. Conosco il modo di dire e mentire da vent’anni, dal primo non-sono-stata-io che ho pronunciato.

Ci sarebbe questa signora di una certa età, mi avevano detto all’Istituto, questa signora vorrebbe fare delle lezioni di italiano, impararlo in fretta, parlarlo subito. E’ sembrata molto insistente. La signora si chiama Lila, me la sono immaginata vestita di un grembiule a fiori rosa e violetti, con un cappello di paglia, china su una porzione di serra. Ho pensato a Lila come una di quelle artiste di decoupage con l’attitudine spiccata alla preparazione delle torte di mele. Una signora di una certa età. A cosa dovrebbe servirle l’italiano? A leggere Dante, ho pensato. Ho pensato a lungo. Le uniche volte in cui sono in anticipo sono i primi appuntamenti, così pensando impiego quel lembo di tempo. Non ha fatto eccezione la prima volta da Lila, quando ho iniziato a camminare lungo la strada di casa sua, la mia immagine che saltava da una lamiera cromata a un’altra.

Sono salita alle sei e cinquantanove minuti e alle sette spaccate ho suonato il campanello dell’appartamento.

Allora, inaspettatamente, ho imparato subito qualcosa di nuovo, e cioè come una vocale non scritta possa contenere un mondo e separarne due.

Non mi era mai passato per la testa che Lila potesse pronunciarsi [Laila]. Laila è una canzone maliziosa, sensuale, appena la sussurro spazza via la serra, il vestitino a fiori e il profumo di torte di mele come una violenta folata di vento. Al suo posto si impone un bacio alla francese, un movimento sensuale della lingua, un’assonanza con lascivo, lascivia, lascio, permetto.

Entra pure. Che puntualità.

Laila è una modella newyorkese. Si è trasferita a marzo a Londra, vive in questo appartamento con il suo compagno, un inamidato pezzo della finanza che lavora nella City. Lei fa shopping, lo aspetta a casa, si concede il lusso di dedicarsi alla bellezza in mezzo alla bellezza, circondata da un cumulo infinito di cuscini bianchi, una cucina con tre frigoriferi e  un lavandino con tre uscite per l’acqua: fredda, calda, bollente.

Mi offre del tè ed è pronto in un secondo. Un getto diretto nella tazza di porcellana.

In cucina ci sono dei fiori riposti in un vaso, la sola cosa che posso collegare a quanto pensavo di trovare e non è stato, la serra, la vecchia di cui sopra. Fiori del Waitrose, fiori di supermercato.

Non avevano il resto, dice lei. Ho preso questi, ma stanno già morendo.

Li tira fuori dall’acqua e li riversa a testa in giù nel secchio della spazzatura.

Questo nel giorno del nostro primo incontro.

In quelli successivi ci siamo sistemate nel salotto,  sul tavolo davanti al camino, illuminate da una foto di Marilyn in bianco e nero che legge un giornale.

Vado a casa di Lila due volte alla settimana. Quando tardo di cinque minuti, per il primo quarto d’ora di lezione lei se ne resta con le labbra serrate e un po’ imbronciate, poi le passa. Non vedo l’ora che le passi ma non faccio mai nulla per arrivare in orario. Mi piacciono le sue giustificazioni, immagino servano a coprire l’assenza delle mie, che invece non arrivano mai. A Roma la buttavo sui trasporti, qui non posso, non a Londra.

In genere finiamo per le otto spaccate perché lei deve andare a una cena o aspetta il futuro marito per una partenza, per un rientro.

So tutto di lei perché la faccio parlare. Le ho insegnato a dirmi di dov’è (New York), cosa ha studiato (economia, poi ha mollato), com’è composta la sua famiglia, com’è la sua casa.

Ci sono tanti tipi di case, -le dico- tanti modi di dire casa, anche in italiano.

C’è l’appartamento, c’è il monolocale, la villa, l’attico.

Attico?

Una specie di penthouse.

Lila sorride. Come si dice I want?

Voglio, si dice voglio.

Io voglio un penthouse. Io voglio un attico?

Non lo so, lo vuoi?

Annuisce. -Si dice così? Io voglio un attico.

Corretto. Brava. Anche io, – aggiungo.

Cosa?

Un attico.

Ho una mia amica che ne vende uno- annuncia Lila, strappando il velo di impaccio dal suo volto che cerca di mimare la mia lingua. Magari ti interessa.

Magari, Lila, magari. Poi vediamo. Adesso però guarda.

Nota: l’ironia che va insegnata, poco prima o poco dopo il periodo ipotetico dell’irrealtà.

Passo a indicarle le parti della casa, i mobili. Pieces of forniture. I comodini, gli armadi, il tavolo, lo stereo.

Voglio due comodini. È corretto?

È corretto. Ma magari puoi anche dire che ‘ho bisogno’.

Bisogno è need?

Esatto. Tipo per vivere. Una cosa importante. Le cose che vuoi e che non hai non ti impediscono di vivere serenamente, non ti crea problemi se per un po’ le resti a desiderare senza averle. Quando hai bisogno di una cosa invece ne hai bisogno, ti serve proprio.

Voglio un televisore. Nuovo.

Esatto, le dico. Mi volto a guardare quello vecchio e noto con piacere che è più grande dello schermo del vecchio cineclub di Casagiove, in provincia di Caserta, ai tempi della prima del Titanic.

Lo vuoi?

Sì, mi dice Lila, lo voglio.

Ti serve proprio?

Allora magari lo vuoi veramente. E mentre soddisfatta ricavo quanto l’allieva abbia capito la differenza tra volere e avere bisogno mi passano davanti agli occhi tutti i cuscini della casa, e i quadri e il terzo frigorifero e il terzo rubinetto, quello con l’acqua bollente. E i fiori freschi a testa in giù nel bidone scintillante della cucina.

Mi congeda con un rotolo di pound nel palmo della mano, mi dice ciao a domani, scappo a fare i capelli, ed è bellissima e gentile,e non ha più la smorfia sulle labbra serrate, ma sorride e perfino mi dice che poi se davvero mi interessa può mettermi in contatto con la sua amica, quella della penthouse, una vista clamorosa a ridosso di Southbank.

Ok, ci penso, magari, ci penso, ti dico. A giovedì.

*

Ci sono i verbi della prima coniugazione. Ho pensato che un mucchio di fotocopie mi avrebbero facilmente aiutato a vestire i panni dell’insegnante di lingua. Tutte le insegnanti di lingua portano agli allievi fotocopie provenienti da libri misteriosi. È tutto lì il segreto, immagino. E i tacchi. Il rumore dei tacchi quando si entra in casa o in classe. Io e Lila torniamo a posizionarci in salotto e lei mi dice che non fa nulla che oggi non esce, possiamo stare qualche minuto di più. Noto con sorpresa che ha i capelli sporchi. Resterà a casa, non si sente bene e Gabriele è fuori per lavoro.

Le dico che sarà facile, che sono cose facili, anche se so bene quanto lei detesti la grammatica. Le spingo avanti la fotocopia che porta stampate le colonne di coniugazioni, presente indicativo. Poi cominciamo una lettura.

Sandra e Federico sono fidanzati. Sandra è di Milano, fa la maestra e lavora in una scuola elementare. Federico è di Roma e  lavora in banca. Abitano nella stessa casa ma non passano molto tempo insieme, pranzano fuori e cenano ogni sera. Sono innamorati anche se qualche volta litigano.

 Le chiedo allora di sottolineare i verbi che non conosce ancora:

Sandra e Federico sono fidanzati. Sandra è di Milano, fa la maestra e lavora in una scuola elementare. Federico è di Roma e  lavora in banca. Abitano nella stessa casa ma non passano molto tempo insieme, pranzano fuori e cenano ogni sera. Sono innamorati anche se qualche volta litigano.

Le spiego che hanno in comune il modo in cui si coniugano, eccetera eccetera. Una volta che ha imparato può usare qualsiasi verbo della stessa categoria.

Non a caso nella prima coniugazione ci sono queste cose fondamentali, la grammatica pare fatta apposta, chissà quanto è stato fatto apposta.

Cosa?

Ma guarda, non vedi? Pranzare, cenare. Come fai a vivere senza? Lavorare.

Litigare, dice lei.

Brava- le dico, ma poi mi accorgo che ha pronunciato solo la parola, senza il suo significato, incluso. Ha gli occhi vuoti e chiedono.

Litigare, come discutere, dico in inglese.

Ed è necessario?-domanda lei.

Certe volte sì. Certe volte è necessario, credo. Ne abbiamo bisogno.

Io-ho-bisogno-di- litigare, scandisce. Lentamente, come qualcuno che per la prima volta dopo anni emette un suono. Un risveglio dopo il coma.

A volte sì, Lila, certe volte ne abbiamo bisogno.

Lei sorride e passiamo avanti.

Sono- innamorati. Legge. Che significa?

Significa che they love each other. Come amare.

Si passa le mani tra i capelli, poi sul viso. Pensa.

Coniuga il verbo lavorare, un po’ claudicante. Le dico brava, vai bene, quando torna Gabriele potrai intrattenerlo per un paio di minuti almeno. Non servirà parlare oltre, immagino.

Lila mi guarda ancora con quell’espressione vuota e penso di nuovo che non siamo arrivate così avanti, per adesso siamo ferme in equilibrio sopra un senso solo, quando riusciamo a trovarlo.

Voglio o bisogno. Voglio lavorare, dice Lila, appena finito di coniugare il verbo per intero. Un po’ mi annoio. Voglio lavorare, pure se non ne ho bisogno. E a volte sono triste.

E’ la prima volta che mi dice qualcosa di veramente privato. Cala un silenzio imbarazzato che non so gestire.

E amare? Le chiedo, ancora un altro verbo e poi chiudiamo.

Ma lei fraintende.

Voglio o bisogno?

Le dico non fa niente, lo faremo la prossima volta, che sono ormai le otto e già mi vedo alla Piccadilly line ostruita dal rientro.

In realtà non lo so, non è davvero per questo. E’ solo che improvvisamente ho troppa voglia di tornare a casa.

Una lettura de “Il cane di Pavlov” di Frungillo

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di Francesco Filia

Il cane di Pavlov (resoconto di una perizia), Edizioni D’If , 2013 – ultima opera di Vincenzo Frungillo – è un’altra magnifica esplorazione nel rapporto tra bios e storia, questa volta visto nell’ottica del rapporto tra eros e scienza, o, meglio, apparato tecnico-scientifico. La scienza che si trasforma in apparato tecnologico è parallela all’eros che si trasforma in pornografia, nelle prime c’è una dimensione dell’uomo nella sua totalità, sia nell’eros che nella scienza classica l’uomo è il fine, nella pornografia e nell’apparato tecnico è una funzione, dal tutto alla parte (non più l’uomo nella sua interezza, ma la mano che muove la macchina, l’occhio che osserva la cavia, il sesso che si eccita o è eccitato). Ma questa condizione sembra dirci Frungillo è in aggirabile, non può essere rimossa, deve essere attraversata, perché è la nostra condizione epocale, il nostro destino, anzi va radicalizzata, colta alla sua radice, estremizzata, lì dove c’è un ipocrita dire e non dire deve emergere la cruda realtà.

da L’ambasciatrice (inediti)

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di Viola Amarelli

 

difficile

 

-Troppo difficile da dire

-E tu non dire.

Un riccio rosso, rosari di sabbia
Le vene, l’arterie
L’avviene.

 

 

la candida, l’intatta

 

Cuore bambino dove
la briciola diventa meraviglia
e l’orco resta ucciso grasso
e sciocco
la candida, l’intatta
noncuranza.

 

 

la quieta cammella

 

La quieta cammella

due gobbe, due emme

le zampe due lance,

due occhi di incanto al suo cammelliere

la notte alle dune, due tette, s’illuna.

 

 

terragna

 

Movendo, metamorfosi di muta,

serpe terragna fra pietre e polvere

la cerca di

gradienti verde.

Tutto dovrebbe essere

alberi ed erbe.

 

 

baia

 

acqua, di sale e pelle
tutta bagnata

tutta
carne pulsante
senza tempo

 

 

self portrait

 

La puledra ferma al fieno
Scarta al vento, si ombra di niente
Imbizzarisce, tenera e lontana.

 

 

risuona

 

risuona con l’aria, e l’acqua, terraventosa, non con gli umani. va bene uguale.

 

 

relapsa

 

vaneggiamenti ventriloqui variando, verba volant. virando vesti, versi. bestiari. le vergini vocali.

 

 

relapsa II

 

schegge, ictus, frammenti, pezzi di puzzle. – battiti. in levare. aggiungi, la caduta.

ci fosse differenza, che non c’è. metti gli occhiali.

talpèa la plata.

 

 

tre cose

 

tre cose mai capite:
me, la matematica e gli umani.

 

 

selfie

 

Kiev brucia, qui un amico
agonizza, in rete selfie di nutrizione parentale
dopo quattro operazioni che posso dire
m’auguro che mai vi capiti
l’ironia non salva.

 

 

affetti

 

dolce, affettuoso. e spaventato.
il nome-forma che era mio padre.

 

 

buccia

 

l’argine dei corpi,
la buccia, il margine che disfa
lo scarto dall’umano. umano.

 

 

mala

 

la signora vecchia, magra, sportiva,
in autobus sgrana mala.
non sono sola.

 

 

età

 

età. tutto. ogni cosa, cade a pezzi. si fa finta di niente. a niente serve.

 

 

medusa

 

ci sono cose che
molte, tantissime
poi c’e’ la sola,
la medusa muta.

 

 

non c’è

 

non c’è nulla c’è

tocco, non dire-
miraffondo

 

un gigantesco, sereno, non importa

 

 

 

in ro

 

rosi dal potere

rosi dai vermi,

eroso il ghiaccio

occhio terramonte,

ah, sia altra forma, testarda e quieta –

castoro roditore

 

 

*

 

(da L’ambasciatrice, lavoro in corso)