Home Blog Pagina 246

Si vis bellum, para bellum

6

di Giorgio Mascitelli

Il 4 marzo scorso il Corriere della sera ha pubblicato il discorso tenuto dall’illustre nuovo filosofo Bernard-Henry Lévy in piazza Maidan a Kiev. L’iniziativa del quotidiano di via Solferino non è rimasta isolata: a me è capitato di vedere la versione tedesca sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung e suppongo che versioni in altre lingue europee siano apparse in sedi altrettanto prestigiose.

In questo discorso Lévy afferma che il popolo della Maidan è costituito da veri europei, da veri figli di Voltaire che  hanno versato il sangue per combattere la tirannide; che le accuse di nazismo o antisemitismo non solo sono false, ma da rivolgere ai russi che occupando la Crimea si sono comportati come Hitler con la Cecoslovacchia ( che invase l’intero paese nel 1938 con il pretesto di portare soccorso alla minoranza tedesca che viveva nel sud-ovest); che Klitschko, il capo del partito di centrodestra Udar, è il nuovo Danton; che bisogna intervenire in soccorso dei fratelli dell’est dell’Ucraina. Il testo non è privo di qualche passaggio involontariamente comico come quando il celebre filosofo invita l’Europa a comportarsi con Putin come si è comportata con Yanukovich: ecco che in un solo colpo vengono confermati due capisaldi della propaganda del Cremlino, negati con forza dalle cancellerie occidentali,  ossia il fatto che Yanukovich sia stato rovesciato dall’azione di forze esterne al paese e che ciò è stato fatto per minacciare la Russia.

Da circa vent’anni ormai capita di leggere/sentire in occasione di crisi internazionali discorsi analoghi a cura dello stesso Lévy o di qualche suo collega. Si tratta con evidenza di discorsi propagandistici caratterizzati da un impianto retorico non troppo dissimile da quello dei discorsi che andavano in voga intorno al 1914. L’aspetto più particolare è che tali testi vengono pubblicati in sedi che di solito si contraddistinguono per ospitare analisi e ragionamenti pacati e argomentati, dunque conferendo implicitamente a essi un valore di rappresentatività dell’ethos occidentale.

Lo schema è  grosso modo sempre  il medesimo: evocazione di principi universali in modo abbastanza astratto, loro opinabile applicazione alla situazione concreta rifiutando qualsiasi analisi della sua formazione storica e degli interessi politici ed economici presenti, richiamo alla necessità di agire rapidamente e unilateralmente per non diventare conniventi di un crimine contro l’umanità, assimilazione del nemico di turno a Hitler, implicita o esplicita classificazione di tutti gli scettici o avversari come potenziali collaborazionisti o utili idioti del nemico.  Naturalmente qualche variante c’è sempre: per esempio lo stesso Lévy in occasione della guerra in Libia sosteneva il diritto per le nazioni straniere a intervenire nel territorio di un altro paese.

Il cattivo gusto letterario di questi discorsi è l’indice della loro grossolanità e miopia politiche. In fondo la base di autolegittimazione politica che Putin ha usato per quell’occupazione della Crimea, che fa incazzare così tanto Lévy, gli è stata fornita da lui stesso in anni di teorizzazioni del diritto all’ingerenza umanitaria. Poi naturalmente non si può assolutamente paragonare questo intervento con quelli occidentali: in Crimea finora non è stato sparato un colpo, né è stata distrutta una casa o un’infrastruttura.

Questo discorso ha fatto progressivamente breccia in tutti settori delle società occidentali, grazie anche alla loro crescente depoliticizzazione,  e influenza il modo di osservare le cose anche in chi avrebbe strumenti culturali per osservare in maniera più articolata la situazione. Prova ne sia che l’uso dei diritti civili, per esempio delle donne, degli omosessuali o delle minoranze etniche, come grimaldello politico per attaccare certi paesi per tutt’altri motivi, benché sia dannosissimo per quelle cause, non solleva ormai obiezioni di sorta; o ancora il totale disinteresse per la sorte dei paesi che hanno beneficiato di un intervento bellico umanitario, una volta che questo si sia concluso con le elezioni: il fatto che in questi paesi non esista più uno straccio di vita civile e  che per molti dei loro cittadini la democrazia sia sinonimo semplicemente della pallottola vagante che ti può ammazzare mentre stai andando al mercato non ha suscitato nessun serio dibattito.

Non basta però la forza mediatica della propaganda per spiegare questa accettazione quasi unanime di un discorso così impregnato di una logica di guerra. Esso nasce da una sincera convinzione, da un’idea dominante nella società  che si sviluppa a partire dagli anni novanta: è l’idea che la vittoria sul comunismo fa dell’occidente non solo la guida del mondo, ma in qualche modo la sua verità e la sua razionalità in termini assoluti. Ciò che è buono per l’occidente è buono per il mondo.

Questa idea è presente implicitamente in varie formulazioni famose da quelle trionfalistiche di Fukuyama sulla fine della storia a quelle sulla missione statunitense di pacificare il mondo.  Si inscrive a pieno titolo in questo modo di pensare anche Obama quando ha detto, due o tre giorni fa,  che la Russia si trova dalla parte sbagliata della storia. Se però ci chiediamo quale senso abbia questa affermazione non possiamo certo pensare che si riferisca al fatto che la Russia abbia invaso un’altra nazione, visto che questa è un’attività che hanno fatto più spesso gli USA negli ultimi anni;   né che Mosca sostenga un sistema economico ormai superato, visto che l’impopolarità di Yanukovich è cominciata proprio con il suo tentativo di fare quelle riforme di mercato che la Timoshenko o chi per essa sarà chiamata a fare; né che la Russia non rispetti i governi democraticamente eletti, viste le giravolte di Obama in Egitto. L’unico significato plausibile di questa affermazione è che Mosca va contro la storia perché va contro ciò che gli Stati Uniti ritengono essere giusto. E’ inutile sottolineare che questa logica è perfettamente speculare a quella putiniana del rinascente nazionalismo russo.

In questa storia la ragione non sta da nessuna parte: la ragione è uscita un attimo a prendere le sigarette e poi non è più tornata.

Teletubbies forever

2

di Helena Janeczek
225e552a8ab54e0d0adc9bd9410d5632
I tatuaggi li ami o li odi. Quando una cosa divide in fazioni opposte, diventa difficile guardarla senza troppi preconcetti. A meno di non voler tentare una postura elevata, una postura tipo filosofo francese che si avventura sovrano nella selva dei simboli e dei segni. Potrebbe dirci che l’umanità odierna è così incerta di se stessa da volersi procurare il senso della propria unicità marchiando indelebilmente la propria pelle, la superficie di contatto del corpo con l’esterno.

Nomi cognomi e infami

0

logo_bianco

Teatro della Cooperativa

dall’11 al 16 marzo 2014
produzione Bottega Dei Mestieri Teatrali
con il contributo di Next Regione Lombardia e Fondazione Cariplo-Etre
NOMI COGNOMI E INFAMI
di e con Giulio Cavalli

Nomi, cognomi e infami è nato come viaggio tra storie di persone “normali” diventate eroiche per per la pavidità tutta intorno, da Peppino Impastato a Paolo Borsellino, da Libero Grassi a Bruno Caccia fino ai riti e conviti mafiosi che brillano in tutta la loro povertà culturale ed etica. Il canovaccio di Nomi, cognomi e infami è quello che ci succede intorno: le città che cambiano forma per dare forma ai soldi che vanno riciclati, gli episodi di mafia che non vengono riconosciuti come tali e che basterebbe mettere in fila e soprattutto i nomi e i cognomi e questa abitudine persa di indicare i colpevoli per esporli ad un giudizio pubblico. Dice Mark Twain che “non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma di ciò che crediamo vero e invece non lo è”: noi in scena proviamo a ridere e disarticolare la nostra paura.

cavalli 2“Caro picciotto, o se preferisci, visto che hai imparato a pettinarti e vestirti pulito, caro estorsore, o, se preferisci, caro esattore. E poi caro al tuo capo ufficio, quello che sta seduto a contare i soldi quando alla sera raccoglie le mesate del mandamento, quei soldi che vi auguro che vi marciscano in mano. E poi cari a tutti i falliti, perché è da falliti mangiare sulla metastasi della paura degli altri, oppure, per capirsi meglio, cari a tutti gli uomini d’onore, così ci capiamo meglio, così vi prendiamo dentro tutti e entriamo subito in tema. Sono un commerciante di parole, a volte me le pagano bene, e arrotondo sempre il peso prima di chiudere la vaschetta. […] Questa sera apro la saracinesca fuori orario e vi vengo a cercare io, ma mica per i cinquecento euro così sto messo a posto, ma perché avrei, dico almeno, un paio di domande, una cosa da niente, mica per capire dove non c’è niente da capire, ma per togliermi il peso. Il peso di una curiosità che alla fine cercate sempre di farci pagare nel mercato della vigliaccheria di cui siete i detentori.”…

Giulio Cavalli

ORARIO SPETTACOLI:
mar | sab: 20.45
dom: 16.00
lun: riposo

L’alba delle macchine?

5

di Matteo Telara
how US adults use a smartphone
Ovunque voi siate in questo momento è molto probabile che il vostro smartphone (in caso ne abbiate uno, come la maggior parte della popolazione del mondo occidentale) sappia dove vi trovate.
Per essere più specifici, è praticamente certo che sappia dove siete stati ieri, i messaggi che vi siete scambiati e con chi, e che programmi avete fatto per la serata.

Il tuo smartphone sa dove vivi, chi conosci, se sei in internet e cosa fai quando navighi. Conosce la tua famiglia, le foto dei tuoi amici e delle tue vacanze, i tuoi amori, i tuoi desideri, gli appuntamenti della settimana entrante e a che ora devi svegliarti domattina per andare al lavoro.

Toporlandia

1

topor-volanddi Romano A. Fiocchi

 

Roland Topor, Memorie di un vecchio cialtrone, a cura di Carlo Mazza Galanti, Voland, 2013.

 

Erik Satie, musicista francese poco noto in Italia, è stato innovatore stravagante e ricercatore di suoni. Il vecchio cialtrone lo segue sino alla sua abitazione e svela il suo segreto improbabile: “In ogni angolo della casa c’era carta da musica coperta di scarabocchi. Non capii subito che si trattava di spartiti inediti. Decifrai non senza difficoltà qualche frase musicale… La loro crudezza mi colpì! Era questo l’incredibile segreto di Satie: scriveva di nascosto musica pornografica!”

Poi incontra Orwell, proprio lui: George Orwell, che l’aiuta ad accompagnare una donna un po’ alticcia nella stanza d’albergo numero 1984. Sembra una data, gli fa notare il vecchio cialtrone. Orwell si spaventa: non oso immaginare come sarà il mondo nel 1984, dice. Fate male, replica il vecchio cialtrone, senza dubbio sarà interessante. Orwell sospira: sarà il caso che mi rimetta a scrivere.

Arriva anche Hemingway, con il suo vizio di distribuire grosse manate sulle spalle degli amici. Per fargli perdere l’incresciosa abitudine, il vecchio cialtrone lo accompagna a visitare il campanile del villaggio, mette in moto la campana e la fa sbattere “senza clemenza” contro la testa del romanziere. Dopo aver ripreso i sensi, le prime parole di Hemingway sono: per chi suona la campana? Per te, vecchio mio, gli risponde il vecchio cialtrone, bisogna battere forte per risvegliare la ragione di un uomo. Conclusione del vecchio cialtrone: Hemingway comprese la lezione e non mi serbò rancore.

Ecco insomma in cosa consiste la cialtroneria del protagonista. Le aberrazioni del suo mondo reale-irreale continuano all’infinito. Il vecchio cialtrone, guarda caso chiamato ora Roland, ora con ironica inversione sillabica Laurent, non solo è il più grande artista del Novecento (“Un uomo può incarnare la Storia. Io sono stato quell’uomo per quanto riguarda la storia dell’arte”), ma rivive tutta la storia artistica musicale letteraria cinematografica politica e di costume del secolo, incontra i principali protagonisti e a tutti – artisti e non – sa dare un consiglio determinante per il loro successo. A Picasso, che gli copia Les demoiselle d’Orange ribattezzandole d’Avignon, suggerisce l’idea del cubismo. A Proust lo spunto evocativo delle madelaine per la sua monumentale Recherche. A Ghandi, in rotta con la suocera, il suo atteggiamento filosofico della non violenza. “Li ho conosciuti tutti, tutti! – proclama il vecchio cialtrone quando ricorda i colleghi artisti – E quelli che non ho incontrato dal vivo, li ho visti in televisione. Sono io che gli ho dato le idee migliori, io che ho mostrato la strada dell’arte moderna. Loro si sono limitati a seguire la via tracciata dalla mia opera”.

topor-catalogo1986

Topor è un artista dalla creatività vulcanica. Ho avuto il mio primo incontro con lui – intendo con la sua opera – nel 1986, a Milano, in occasione di una mostra antologica allestita presso Palazzo Reale. Fu un’esperienza destabilizzante. Ero poco più che un ragazzo. Abituato alle mostre d’arte di autori canonizzati, tutta quella grafica da illustratore cinico e provocatorio al limite della brutalità si impresse nella mia memoria in modo indelebile. Il Pinocchio che bacia la Fatina (non dai capelli turchini ma bionda) e le trafigge il viso con il naso di legno, immagine poi utilizzata nella copertina del catalogo, per anni mi sembrò il simbolo della sua visione parodistica e distorta del mondo. Topor per me era un Pinocchio surreale, crudo e dissacratore.

Ora, grazie a Voland, scopro che Topor è stato anche altro (come dire che non è stato un Pinocchio surreale senza essere anche Pescatore verde, terribile Pescecane, Grillo parlante, Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe, eccetera). Topor ha scritto sceneggiature, disegnato lungometraggi di animazione

Il pianeta selvaggio 

recitato nel cinema Nosferatu  (NosferatuRatataplan), ma soprattutto scritto anche libri. È stato uno scrittore cialtrone e travolgente, fedele al suo motto “Il mondo è banale, l’artista eccezionale”. Così eccezionale da ricostruire il mondo a modo suo. Un mondo paradossale e visionario che ripercorrere la Storia proiettandola in una galleria di specchi deformanti. Topor è parodia di tutto e di se stesso. Dalla letteratura alla musica, dalla pittura al cinema, a cominciare dal titolo del libro, Memorie di un vecchio cialtrone, che ricalca il Taccuino di un vecchio porco di Bukowski. In tutto il testo non c’è un solo nome inventato ma neppure una storia che non sia stravolta. Sfilano artisti come Duchamp (con cui gioca spesso a scacchi) e Toulouse-Lautrec, poeti come Apollinaire e Majakovskij, scrittori come Camus e Céline, scultori come Brancusi e Giacometti, sino al presidente americano Wilson, all’inventore Edison, al regista Vertov, a criminali come Al Capone e Landrou, a disegnatori come Walt Disney. Sono trecentosettantotto i “nomi citati” in ordine alfabetico alla fine del testo, da Albers a Ziegfeld.

Inventato è dunque tutto il resto: la storia dell’incontro di ognuno di questi personaggi con il protagonista, gli assurdi stravolgimenti caricaturali della loro vita, le citazioni sommesse travestite da aneddoti (De Chirico che commissiona parte dei suoi dipinti a Morandi e lo paga in bottiglie vuote, il sogno dove il vecchio cialtrone accoltella la moglie ispirandosi ai “tagli” di Fontana, le stringhe che si mangia Cendrars e che tornano nella La febbre dell’oro di Chaplin). La follia affabulatoria del vecchio cialtrone raggiunge l’apice negli incontri con “l’esule russo” Lenin, poi con Stalin, ma anche con l’artista mancato Adolf Hitler e con l’adoratore di ravioli Benito Mussolini. Il protagonista ha una buona parola e un suggerimento disinteressato per tutti.

La cosa straordinaria di queste Memorie è che paradossalmente la coerenza è garantita dall’eccesso. Il lettore non rischia di prendere per vero ciò che non lo è, proprio perché l’esagerazione è spropositata. Ad esempio nella morte di Trotsky in Messico, ucciso accidentalmente dal protagonista mentre lo aiuta nei lavori di giardinaggio. Un colpo di zappa alla testa, come nella Storia. Peccato che lì, nella Storia, a vibrare il colpo non fu un maldestro cialtrone ma un sicario inviato da Stalin. E sapete come Trotsky esala l’ultimo respiro? Ovviamente mormorando: “Voi siete il più grande artista che io abbia mai conosciuto… Promettetemi di continuare la vostra opera…”

Ma il vecchio cialtrone è capace anche di formidabili e surreali slanci poetici (“Il mare è il luogo antibaudelairiano per eccellenza”), di illuminanti battute sarcastiche (“Le croci uncinate che fiorivano ovunque costituivano l’ennesima prova del genio grafico dello spirito tedesco”) e di proclamarsi ideatore di movimenti artistici e periodi di fertilità creativa verosimili ma mai esistiti. Il Glissismo, con cui evoca la velocità, lo spazio, la sensualità del nudo e la brutalità della società iniqua. Il periodo Kleinkust, collocato tra la monocromia di Yves Klein e quella di Manzoni. Il periodo T, dedicato al ritratto, che prede spunto dal modello di una Ford T a seguito di un curioso aneddoto in cui è coinvolto il costruttore di automobili Henry Ford in persona. Il Puntualismo, estetica derivata dal concetto di trasmissione dell’esperienza e del prolungamento delle vite una nell’altra (“Siamo solo dei segmenti di retta, la nostra sola possibilità di comunicazione è puntuale”). O addirittura l’inevitabile “periodo rosa” di Parigi, definito dal vecchio cialtrone come il migliore che abbia mai vissuto, ed ennesimo richiamo a Picasso.

Nella storia del Novecento, secolo caratterizzato dai due conflitti mondiali, il vecchio cialtrone non poteva non prendere posizione nei confronti della guerra. È una posizione di condanna, per quanto alla Topor: “Saliva dall’Europa un odore dolciastro di cadaveri in putrefazione. Quanti Mozart sono stati assassinati dall’inizio del XX secolo? Se soltanto il massacro si fosse limitato ai compositori, il danno sarebbe stato più sopportabile. Ma come valutare con precisione i tesori scomparsi insieme ai loro potenziali creatori?”

L’amore per l’arte suggella con un folle grido anche l’ultimo capitolo, appena prima dell’epilogo: “L’arte è godimento, come la gioia. Come lei è immorale. Viva il denaro! Viva l’Avanguardia! Via il comunismo!”

“Rebibbia 1977”

2

di Patrizia Vicinelli

E torno là    torno sempre là

e ho sposato uno che non era il mio

che mi sarebbe rimasto fedele per sempre

e torno sempre a te – ferito a morte –

ho avuto

tanti amanti amori tutti infedeli

per compensazione

ma   torno   sempre   a    te

non lo sapevo non lo sapevo lo giuro non lo sapevo

quel giovedì quel venerdì

di maggio non lo sapevo

e mi hai condannato per l’eternità

e sono a te finché il sacrificio sia grato

a tutti quelli che sanno

agli avi

alla mia misericordia al tempo che sul mio viso

ha scritto la nostra storia

uccelli marini che non abitano qui

parlano ancora della mia vita

furono colpiti da quelle frecce di metallo

acciaio fuso che puntasti contro

e scoccasti-sì-per difenderti

amore che mai sono riuscita ad amare

tremenda ferita che confinava con l’abisso

delle mie radici ancora inesplorate

tremendo abitacolo

che non ha più voluto abbandonarmi

vent’anni quasi e l’assassinio

il rito di quella notte di luna di fine agosto

si ri-compie

come un miracolo

come una dannazione

un back ground che resta unico

un flash back senza ritorno

Uccidimi una volta per tutte

o    lasciami        andare via

via     da     te

 

*

Da Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance. A cura di Cecilia Bello Minciacchi. Firenze: Le Lettere, 2009.

Carte da slegare 2014 – a Patrizia Vicinelli e le altre

2

pv

9 MARZO

Sasso Marconi (BO),
Sala Giorgi
ore 17,15

FRAGILI GUERRIERE

con Rosaria Lo Russo (poetrice)

presentazione del progetto poetico-politico Fragili Guerriere di Daniela Rossi e Rosaria Lo Russo e letture da Patrizia Vicinelli, Amelia Rosselli, Rosaria Lo Russo

*

Carte da slegare 2014, a Patrizia Vicinelli e le altre, a cura di Loredana Magazzeni, Martina Campi, Marinella Polidori, Maria Luisa Vezzali, Giancarlo Sissa

 

Ingresso libero

 

Ucraina, Crimea, Russia

7

di Giovanni Catelli
porto di Sebastopoli

Dopo il cambio di potere avvenuto a Kiev, in seguito alla fuga del Presidente Viktor F. Janukovyč e al collasso del regime, la Russia ha immediatamente avviato le proprie contromisure per tenere stretta l’Ucraina nella propria sfera d’influenza. Il sostegno dato da Europa e Stati Uniti alla rivolta ucraina, e la connotazione nazionalista-ucrainofona dei rivoltosi, è stato particolarmente indigesto a Mosca, ed anche ai russofoni delle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina stessa. A tutto ciò si è unita una propaganda spinta ai massimi livelli, in cui le tv russe e le tv ucraine di proprietà degli oligarchi fedeli al Presidente, mostravano come predominanti nella rivolta le fazioni di estrema destra, come Pravi Sektor, Svoboda e Spilna Sprava, quasi che la rivolta contro un regime di leggendaria corruzione, che soffocava ormai l’intera economia ucraina, fosse prerogativa di pochi facinorosi nazi-fascisti, odiatori dei russi e di chiunque parlasse la lingua russa.

Le lettere di Emil

7

[Ha avuto una vita breve (1956-2003) ma un ruolo molto importante in quella generazione di poeti, che si è confrontata in modo nuovo e radicale con la realtà romena durante gli ultimi anni del regime comunista. Con un brano scritto dal poeta Claudiu Komartin.]

di Mariana Marin

traduzione di Clara Mitola

I

Penso a te
disperso tra quelle città d’Europa
dove io non arriverò mai.
La Rivoluzione non è iniziata nemmeno quest’anno
ma noi continuiamo ad aspettarla,

Le Sorelle della San Francisco perpetua

3

di Silvia Pareschi

sisters
Immagine tratta da sistersofperpetualindulgence.tumblr.com/

A chi fosse in cerca di un modo insolito per trascorrere la Pasqua a San Francisco, suggerirei di fare un giro a Dolores Park, oltrepassare gli hipster e le famigliole e dirigersi verso la zona dove si celebra la 35ma edizione dell’Easter Sunday in the Park, il festival che comprende il famigerato “Hunky Jesus Contest”, il concorso per l’elezione del Gesù più fico. Nell’edizione del 2011, al grido di “Perché Gesù aveva senso dell’umorismo”, lanciato dai due presentatori truccati come maschere kabuki in boa di piume rosa e minigonna, si sono susseguiti sul palco, fra gli altri, un Gesù masochista frustato da una suora (anche lei in minigonna), uno Stimulus-Package-Jesus con lo slip imbottito di dollari, uno Yoga-Jesus che si vantava di saper assumere svariate posizioni, un Fat-Drunk-Redneck-Jesus somigliante a John Belushi, un Jesus attraente e muscoloso che si è denudato ed è stato ripetutamente palpeggiato dalla maschera kabuki che fingeva di nasconderlo al pubblico ululante. Quest’ultimo Jesus è arrivato in finale, ma è stato battuto a suon di ululati dal più blasfemo di tutti, che portava legato sul davanti un pupazzo vestito come lui con il quale mimava mosse oscene: Jesus-F…-Christ.

La bambina pugile

6

sam harris

Chandra Livia Candiani

È passato un anno.
Ora è prima o dopo?
In cappella si pregava
un Dio a tempo.
Venivo convocata,
non eri ben caricato,
non morivi secondo l’orologeria.

Il treno fantasma di Charles de Meaux

0

Train fantôme   di Ornella Tajani

Si intitola Le train fantôme la nuova installazione del videoartista Charles de Meaux, in mostra al Centre Pompidou di Parigi ancora per pochi giorni. Dall’esterno somiglia a uno dei tubi simbolo dell’architettura del museo: rivestito di tessuto bianco, il tunnel presenta all’interno una serie di schermi paralleli che lo percorrono interamente, come i finestrini di un treno, proiettando immagini di città e paesaggi, colti in tutte le fasi del giorno, alternate a brevi flash di film cult. Sailor e Lula in auto, l’esplosione della villa nel finale di Zabriskie Point, Burt Lancaster su un trampolino in Un uomo a nudo, tratto dal bellissimo racconto Il nuotatore di John Cheever; e ancora Stromboli, Taxi driver, Il terzo uomo, Il bandito delle ore undici. Memore della prima installazione mai esposta al Beaubourg – Crocodrome di Tinguely, de Saint-Phalle e Luginbühl -, de Meaux ha voluto ricreare un percorso in cui l’immediatezza dell’immagine si impone sulla complessità del mondo e diventa medium di una memoria collettiva e condivisa. Ciò che lo spettatore guarda gli è già noto, ma nella sequenza delle scene proiettate e nella successione di schermi che catturano l’occhio uno dopo l’altro, senza mai permettergli di soffermarsi davvero, sta il potere di suscitare il ricordo, uno dei temi cui è dedicata questa edizione del Nouveau Festival nell’ambito del quale l’opera è esposta.

«Siamo rimasti con questo gioco di significanti puro e aleatorio che chiamiamo postmodernismo, il quale non produce più opere monumentali sul genere di quelle del modernismo, ma rimescola ininterrottamente i frammenti di testi preesistenti, i mattoncini della vecchia produzione socioculturale, nel quadro di un nuovo e intensificato bricolage. Metalibri che cannibalizzano altri libri, metatesti che raccolgono pezzi di altri testi: questa è la logica del postmodernismo in generale, che trova una delle sue forme più vigorose, originali e autentiche nella nuova arte del video sperimentale», scriveva Fredric Jameson nel volume ormai di riferimento del 1991, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo. L’esempio da lui citato era l’artista Nam June Paik, con le sue opere composte di molteplici schermi, il cui obiettivo era proprio quello di evitare che lo spettatore si concentrasse su uno soltanto, in modo da trascinarlo nella “varietà discontinua” che è la realtà frammentata e schizofrenica del postmoderno.

Le train fantôme rientra perfettamente in questa linea. Sul sottofondo di una serie di rumori meccanici – in realtà cigolii di vecchi robot che seguono la partitura delle Variazioni Goldberg di Bach e che, nella loro ripetitività, restituiscono il senso di un movimento ininterrotto -, le immagini si susseguono in modo tale che la proiezione sullo schermo più vicino allo spettatore sia sempre in ritardo di qualche secondo rispetto alla successiva: proprio come a bordo di un treno, se lanciamo lo sguardo qualche metro più avanti vediamo quello che scorrerà nel finestrino accanto a noi solo pochi attimi dopo. Ma possiamo anche permetterci di guardare il prima e il dopo contemporaneamente, o quasi – o magari percorrere il corridoio del treno al contrario; se a ciò aggiungiamo che la proiezione riprende ciclicamente e senza interruzione, abbiamo un’idea della sincronicità e della rottura della temporalità di cui parlava Jameson, di quell’eterno presente che è unità di tempo di un’epoca in cui il rapporto dell’individuo con la storia si indebolisce e relativizza.

L’opera di de Meaux è un pastiche video che fa appello a un immaginario collettivo, nei luoghi anche anonimi che chiunque può “riconoscere” e collegare a un proprio frammento di esperienza, così come nei flash cinematografici che, in maniera quasi subliminale e fantasmatica, affiorano e saldano tra loro reminiscenze individuali, in un richiamo alla memoria riprodotto senza soluzione di continuità. Proprio la riproduzione e i suoi strumenti erano per Jameson il soggetto più profondo di tutta la videoarte; più poeticamente, però, è Robert Filliou, esponente del movimento Fluxus, che de Meaux preferisce citare in conclusione alle sue interviste: «l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte».

dieci poesie

1

di michele zaffarano

da paragrafi sull’armonia, ikonaLíber, collana Syn, 2014

Zaffarano_Armonia

o entri nello scambio di segnali
oppure
guardi come tutto funziona
come tutto funziona in maniera diversa
il rapporto tra una parola e le altre
ammette incongruenze
la parola che ottiene un’espressione generale
è questo il valore
eccetera
quello che l’assunto di base rappresenta
rispetto alla dimensione
alla relazione tra i due termini

i pensieri di quelli che parlano a volte riflettono
calcolano i significati delle parole
grazie alla loro struttura
come figure del discorso
che ascoltano parole di conversione
il materiale pensato e passato
pensato perché
passato perché
come una parola semplice senza testo
la grandezza dello stesso nome
senza resto
oppure
quello stato umano astratto
il valore di scambio

i prodotti pensano le parole
le parole pensate sono la forma finale dell’universo materiale
rivelano la forma semplice
di isola
le leggi pensano di non essere soltanto parole

la parola è sempre dalla parte dell’ascoltatore
e viceversa

alla libertà di espressione
alla revisione dei conti
imprime il carattere
di equivalente universale

con queste parole
oppure
con questa forma
è stata sviluppata
una relativa forma di valore

dov’è il valore di parole in fasi di sviluppo minore
si trasformano in valore di scambio
la grandezza e la profondità di una parola
un modello per il movimento viene subito offerto
le parole condividono
le parole sono simili
ogni parola è un segno
ogni forma è un corpo
la precisione del linguaggio
la precisione è un linguaggio
quello che è materiale
nel mondo delle parole
le parole

questo dipenderà
da come torna di nascosto
ai valori
in altre parole
la parola è così
nel frattempo
la parola infetta gli altri rapporti
diventa immediatamente
una forma sociale
di pensiero

in breve
il corpo delle parole
può misurare il valore in comune
il valore dentro il corpo di parole
in comune
la mente umana come oggetto
come oggetto generale
corpo in comune

le parole
un altro genere
una parola specifica
il contenuto del discorso

Quarto paesaggio

0

memo7marzo

Vieni a scoprire il Quarto Paesaggio

Venerdì 7 marzo 2014, dalle ore 18 alle ore 20 – Cascina Cuccagna, via Cuccagna 2/4 Milano

 

Presentazione dell’Associazione Non Profit Quarto Paesaggio e del progetto Parco delle Lettere. Parleremo di verde, di libri, di creatività e di come coltivare insieme una cultura naturale nella nostra città. L’incontro è aperto a tutti.

L’Associazione Non Profit Quarto Paesaggio è una libera comunità di cittadine e cittadini, indipendente e autonoma da partiti, sindacati, istituzioni ed enti, che intende promuovere la conoscenza, la valorizzazione e il rispetto del verde in natura, sul piano culturale, scientifico, artistico, creativo, sociale, economico e professionale.

L’Associazione nasce dall’interesse per il verde di un gruppo di milanesi con esperienze professionali nell’editoria specializzata (Nemeton Magazine, Edizioni Ambiente), nell’arte, nel giornalismo e nella comunicazione. Ispirato al Terzo Paesaggio di Gilles Clement, il Quarto Paesaggio è quello espresso artisticamente dall’incontro armonico tra esperienza umana e ambiente verde. L’Associazione intende esprimere questa visione con interventi socio-culturali ed editoriali sul/nel verde rivolti a tutti e in particolare alle comunità creative e alle reti sociali e professionali attente al territorio e alla qualità della vita.

L’obiettivo dell’incontro è di raccogliere idee e adesioni al progetto Parco delle Lettere – Spazi e interventi dedicati alla cultura nel verde metropolitano. Vogliamo attrezzare e qualificare porzioni di parchi pubblici come fonte di ispirazione e sede di aggregazione per chi vuole esprimere, condividere e accogliere messaggi culturali. La proposta è aperta a tutti e si rivolge a coloro che amano il verde e la letteratura, in particolare a giovani scrittori, architetti, designer, creativi e a tutte le associazioni che operano nel territorio metropolitano milanese.

Saranno illustrati gli elementi distintivi del Parco delle Lettere:

Alberi d’Autore: piantumazione di alberi “adottati” da scrittori con appositi racconti ambientati nel verde;

Design Verde: progettazione e realizzazione di arredi e istallazioni funzionali alla lettura e scrittura nel parco;

Centro Verde: mediateca dedicata al verde, spazio per attività di studio e ricerca, taverna letteraria;

Mappe Digitali: sistema di informazione telematica in realtà aumentata sui luoghi letterari e verdi di Milano;

Comunità Culturale: rete di soggetti e attività socio-culturali da svolgersi nel verde.

L’incontro prevede la proiezione di una presentazione e libera discussione sui temi proposti. Saranno in vendita a scopo promozionale libri editi da Quarto Paesaggio e da Edizioni Ambiente. Sarà offerto un stuzzichino leggero a base di pinzimonio. Chi vorrà associarsi a Quarto Paesaggio (quota minima 10 euro adulti, 5 euro giovani under 30) riceverà in omaggio un sacchettino di semi offerti da Bici&Radici.

Contatti:

Giorgio Tacconi

Presidente Quarto Paesaggio

Cel.: 338 9980871

Email: giorgiotacconi@gmail.com

Pagina Facebook: Quarto Paesaggio Milano

Vagiti d’Europa

1

di Antonio Sparzani
Gianfranco Contini

I primi vagiti di un’idea di Europa si perdono certamente nella notte dei tempi, ma quello di cui vorrei raccontare qui si riferisce al periodo immediatamente postbellico, anno 1946. In questo anno un gruppo di personalità ginevrine prese coscienza della necessità di una ripresa del dialogo tra nazioni e culture profondamente lacerate dalla guerra e organizzarono le Rencontres Internationales de Genève, (RIG). Gli incontri si tennero in una prima fase con cadenza annuale, dagli anni settanta in poi solo negli anni dispari, mentre negli ultimi anni è ripresa la cadenza annuale; fino al 1995 gli atti sono stati pubblicati, dalle Éditions de la Baconnière, e in seguito dalle Éditions de l’Age d’Homme.
Qui il sito delle Rencontres.
Nel 1946 reporter d’eccezione inviato dall’Italia alle Rencontres fu quello che poi divenne uno dei massimi filologi e critici letterari italiani, Gianfranco Contini e Quodlibet ha pubblicato nel 2012 ― riprendendolo dalla «Fiera letteraria», I, 30, 31 ottobre 1946 ― il suo molto interessante reportage (G. C., Dove va la cultura europea?, con l’ottima cura di Luca Baranelli e un saggio di Daniele Giglioli, pp. 63, € 9.00).

Reader’s Digest

14

blog+-+shining

 

Senza atipie

 

di

Matteo Cavezzali

 

E poi c’è questo posto che si sono inventati per venirci a nascere e a morire. Tanti corridoi lunghi e identici. Quasi deserti.

Qui ho incontrato una donna grassa con le stampelle, un bambino che piangeva di stanchezza e una anziana seminuda. Uno vestito di bianco che parlava al cellulare mi guarda e mi fa: ti sei perso. Io gli ho detto di sì. E lui fa spallucce: capita a tutti.

Faccio altri corridoi, scale e corridoi. Poi una mi dice di aspettare, allora mi siedo su una sedia a forma di sedia ricoperta di finta pelle blu a forma di sedia e aspetto. Accanto a me un vecchio tossisce. Aspetto. Tossisce. Aspetto. Tossisce.

Si spogli. Mi fanno mettere nudo brillo su un tavolo mentre una, vestitissima, mi osserva attraverso una lente con sguardo disinteressato. Parla con l’altra. Che le melanzane alla parmigiana vanno fritte per bene, che non capisce come certuni, questi salutisti, pretendano di farle senza friggere, le melanzane. Anche l’altra non capisce, come fanno. Si rivesta.

Non mi dice niente, ma capisco che non ho niente. Mi da solo un foglio con scritta un sacco di roba. E in fondo si legge “senza atipie cliniche”. Insomma bene, non ho niente. Vuol dire così? Sì. Bene. Così me ne vado subito da qui.

Lo chiamano “ospitale” ma io preferisco tornare a casa per pranzo, quelle due dottoresse e la loro parmigiana mi han messo appetito. Qui, dove si nasce e si muore, sono nato anche io, ma preferirei morire da un’altra parte. Magari a casa, ucciso dalla frittura di melanzane. Caduto a faccia in giù sulla parmigiana, col pomodoro che cola sulle guance. Che su quello le dottoresse han proprio ragione. Se non le friggi non ha senso nemmeno venire al mondo in questo palazzo anonimo fatto di corridoi  tutti uguali. Tanto vale rimanere di lá. (Là dove? É lo stesso posto dove si torna poi?). Lá, dove si sta prima di arrivare in questo mondo bastardo invaso di salutisti che mangiano leggero e sono sempre dietro a farsi visitare, senza mai avere niente.

 

 

 

 

Ando caz sta Zazà?

0

La domenica pomeriggio su Radio Tre, c’è un programma che mi piace assai e si chiama Zazà . A loro, in particolare all’indiano Piero Sorrrentino dedico questo divertissement. effeffe

Boum Boum Za zà
di
Francesco Forlani

(campanella da schola)

Ke lu effeffe mica se capacitava de sta cosa, une chose simplex à l’orecio, à l’ocio, li sensi tuti. Parce que la campanela sonne sonne, sona Carmagnola quelques chose pouvait significar et dicere, pefforza. Mais alors, si l’era la campanela daa fine da a lesson cum l’è ca dintro nun ce steve nisciunn persone in da l’aùla, sapite cuma l’è, no, que manco se sente la prima nota que tuti e masculi et e fimine cole borze atracolla se precipitano à la porta cum tanta foga que te parono barbari afamati a colazione a sacco de roma? Eh eh eh

et si pure, ammettenn que la campana n’etait pas kela daa fine mais do cominciamento, cuma l’è, ke afora nun ce steve nisciunn persone de l’aùla, que manco se sente la prima nota que tuti e masculi et i fimine cole borze atracolla se resten sur la porta cum tanta rigdità de suonane et de scontento, immobili que te parono uardie svizzere cum le alabarde speziali? Eh eh eh

Mo lo fato grave que se tratava du terzo juorne de schola, et que mica à tuti li nomi ce stava na facia, mo, nun digo de Carlo Albatrosi che pure na facia intelligente ce teneva o primo banco, et que copia copiassa l’examen nun se passe, teniva à derecha lo Sergio Garufo, de Monza come la monaca e à gauche l’anema servagia de Georgia Amada. Accussì lu Cicio Panico, lu Marco Pelliccia et ttut et trinta sette tappetà perous, fino a la lettra zeta.

Egggià,perché sapite no? (pausa) e certe que lo sapite che lo dito indice do prufessò l’est pisaaaaant, l‘est puuuttteenttt, come lo dito de dieu ne lo giudizio universale de Micalangiulo et score sur lo registro da acopp a asotte, de l’alto, lo basso lu fragile et cum tanta lentezza che killi, i piskelli studend et studendess te sgamano subte tout de suite si staie pe l’interrugare la letra A, la G, L, M, o accusì ce pare, pecché quannne quanne ce pare que staie sotte sotte de l’elenco da a lista da spisa, que l’albatrosi suspira de salvezza e se sente afora do rischio et daa paura, que les jeux sont faits et rien ne va plus, kille, ò prufissure, a la surprisa generali nun te ciama proprio l’Albatrosi , ca poco ce manca che chille s’insurge et te menacia d’aller, d’ire, a purtare prutesta ò taaar et à tribunal? Eh eh eh

Ma o fato grave l’est que da l’inicio de l’anno, le seul ca teniva la lettra zeta nun ce stava, et manco na facia teniva, et manco lu sexo, car inspiegabilmente,- indifferentemente daa segreteria nun l’avevano mica soperta la ragioni- kella persone, studente? Studentesa? Vecio, magari ripetente, ou giovine dutata, teneve seulemen nu nome, ou lo cognome, qui sas qui sas qui sas, de deux sillabi, l’istess, Za et Zà.
Mo però le problema nun era de sapire dovestazzazzàomaronne mie, le prubleme ere de savoir dove stivetuta a classe, nasculi et fimine, et pensanne et rirenne, lo effeffe se girette vers a lavagna et con lo geseto blanco, de droite à gauche, à caracter cubitale cume l’è, cume nun l’è, ce steve scritte: SCIOPERO! Firmate ZAZà

Ah però
Et ke se vulive sapere e sto mistere, lo effeffe a Zazà, là lu putive trovare

Election day

0

pappalardo 2

Votate votate ! APOLITICS NOW! (effeffe)

Tragicommedia d’una campagna elettorale

Fino al 9 marzo puoi vedere e votare on line

il film in concorso al Festival dell’Italian Cinema di London

http://www.italiancinemalondon.com/ido14/

Apolitics now

(istruzioni per l’uso)

di

Giuseppe Schillaci

Cos’è la politica oggi?  La campagna elettorale ci mostra le diverse facce del Paese: se crediamo nella democrazia, infatti, i candidati alle elezioni sono lo specchio nel quale ci riflettiamo. E osservando le campagne elettorali del 2012, la prima dopo la caduta di Berlusconi, vediamo che l’Italia è scossa dal caos politico e dalla necessità di un cambiamento radicale. I risultati delle elezioni nazionali del febbraio 2013 e la situazione attuale Letta – Renzi erano già prevedibili nel 2012 (amministrative di maggio e regionali siciliane di ottobre): crisi dei partiti della Seconda Repubblica; astensione e sfiducia nella politica tout court; grande numero di candidati e di nuove formazioni politiche (spesso improvvisate); divisione della sinistra e debolezza della sua classe dirigente; importanza decisiva del carisma personale (e della capacità comunicativa-spettacolare) dei candidati; emersione netta del fenomeno Grillo.

 

Apolitics Now! tragi-commedia d’una campagna elettorale è il racconto della fine di un’ epoca, la deriva di un Paese che soffre ma continua a sghignazzare, che urla e spera nel miracolo, danzando sull’orlo del precipizio. Il documentario racconta la campagna elettorale per il sindaco di Palermo, nell’aprile-maggio 2012, le prime elezioni dopo la caduta del governo Berlusconi: nella quinta città italiana, una delle più povere d’Europa, va in scena una versione grottesca della politica-spettacolo.

ballaroA Palermo, nel maggio 2012, si confrontano ben 12 candidati per l’elezione a sindaco: 7 dei vecchi partiti, seppure molti mascherano la propria appartenenza al sistema, e 5 candidati dei movimenti civici, tra cui quello di Beppe Grillo, ma anche il Movimento dei Forconi, e poi ancora: comunisti e fascisti, giovani post-berlusconiani e vecchi democristiani, generali dei carabinieri in pensione e imprenditori dell’autonoleggio: molti di loro proclamano orgogliosamente di non essere né di destra, né di sinistra, e nemmeno di centro. E anche a Palermo va in scena la tragedia della sinistra eternamente divisa, laddove il sindaco storico di Palermo, Leoluca Orlando, s’oppone al suo giovane delfino, Fabrizio Ferrandelli, vincitore ufficiale delle primarie: padre contro figlio.

Alle elezioni amministrative del 2012, in tutta Italia i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica crollano: il movimento 5 stelle diventa il secondo partito italiano, e si parla già di Terza Repubblica. Apolitics Now! mostra i candidati che girano la città alla ricerca di visibilità e consenso: comizi tradizionali e post-moderni, spettacoli e cabaret, raduni di piazza e salotti, mercati storici e periferie abbandonate.

Il film è una co-produzione Stella Productions con France Televisions ed è stato diffuso in Francia nel settembre 2013. In Italia ha vinto il premio del pubblico al Salina Doc Fest.

 

 

 

MAIN CREDITS: Scritto, diretto e prodotto da Giuseppe Schillaci, DOP Carlo Sisalli, SUONO Danilo Romancino, MUSICA Gianluca Cangemi e Luca Rinaudo per Almendra Music, MONTAGGIO Laurence Miller.

 

 

 

I poeti appartati: Nunzio e Giuseppe Festa

3

gli alberel

Gli alberelli del dopolavoro

di

Nunzio Festa

Nella loro innata semplicità, sono creazioni che riempiono due momenti vitali.

I loro compiti: coprire il momento del riposo prossimo al lavoro e posizionato quotidianamente tra lavoro e lavoro, dopo una giornata di cantiere e prima d’un’altra giornata di cantiere; riempire l’immagine del regalo a chi si vuol bene o a chi, in maniera più semplice, si vuol ringraziare. Gesti d’affetto; il primo per se stesso, il secondo per gli altri – a cominciare dalla più prossima delle persone che si hanno a disposizione.

Il rame s’intreccia ai pensieri. Ed, evidente che sia, spinge i suo colori (dello zincato come del rossiccio) verso l’unico rinfrancarsi possibile. Quando la famiglia dista circa un migliaio di chilometri dal posto di fatica e mentre lo spazio del lavorare abita, quindi, migliaia di metri dalla propria casa.

Giuseppe Festa, mio padre, ha iniziato a rapportarsi con i mestieri in genere all’età di dodici anni. In un caseificio gli han innanzitutto insegnato a “fare le mozzarelle”. Ma è stato l’incontro con un anziano del suo paese d’origine, Ginosa, provincia di Taranto e provincia d’alluvioni che fanno danni su danni, a regalarsi un altro segreto, che questa volta è da custodire nella cesta, poco spaziosa sicuramente, del tempo libero.

Anche se l’opera delle mani è incontra la dimestichezza che ci vuole per preparare la pasta di latte, epperò cresciuta nella lucidità e nella fermezza della carpenteria.

Da sempre lui si sposta dal suo paese d’adozione, Pomarico, provincia di Matera e provincia di frane e smottamenti che fanno paura legata col nastro della rassegnazione ad altra paura, per “non restare fermo”.

Giuseppe Fest

Però l’operaio, se messo in condizione di ‘procurarsi il pane’, ha pure la necessità di togliersi dalla testa cattivi pensieri e solitudine. Dove non conosci persone, per esempio. Oppure mentre sei in zone difficili da scoprire. Almeno che tu non voglia o sia costretto dalle condizioni imposte a stare nelle lamiere di quelle baracche montate tipo sul correre delle autostrade – panorama di molti spostamenti e viaggi. Ché i cantieri, specie nell’ex Belpaese, son sempre aperti. E da secoli i padroni dunque han studiato una formula sicura: issare nelle zone d’intervento dell’appalto di turno, quando tipo il lavoro durerà molti mesi, casette in lastre di lamiera che dovrebbero garantire agli operai il riposo del ‘trasfertista’. Che poi possono trasformarsi, alla bisogna certo, in veri e propri alloggi temporanei. Si legga, come a prendere una fotografia recente e famosa, la letteratura di settore sui cantieri aperti dalle parti del Mugello. (Perché là, inoltre, gli interventi finanziati han messo le maestranze e gli operai generici, vedi i lucani di Lauria, partiti per salire senza valigia di cartone ma con certezze di stabilità di cartone sui monti della Toscana, in un’ulteriore situazione imbarazzante: ché son essi stessi, insomma lo è il loro ‘normale’ lavoro, nel contempo contro popolazioni in opposizione ai progetti e immediatamente coinvolti nelle operazioni a danno delle fonti acquifere dell’area ospitante).

Con finto distacco, mio padre posiziona le sue opere sul tavolo che accoglierà la cena. Pronti per la foto.

Questa volta è quasi testimone d’un successo. Soddisfatto che finalmente qualcuno torni a interessarsi delle sue cose.

Ogni volta che ho regalato a qualcuno le sue creazioni, lui era “fuori” almeno dalla Basilicata.

Adesso gli alberelli che ha intrecciato nel recente passato sono soltanto un ricordo. Che però potrà ritornare in forma di futuro. Scostando, su tutti, relax più di sicuro più dispendiosi.

Non è andato e non andrà a giocare a carte nelle osterie di Massa e Carrara ripresi da Rovelli, Giuseppe Festa. Comunque i suoi alberelli sono un brindisi del lavoratore.