Home Blog Pagina 279

La lucidità è il risultato di uno sfregamento continuo – Un’intervista a Christian Raimo su Il peso della grazia

4

di Giuseppe Zucco

Giuseppe del Moro è il protagonista di questo romanzo. Dottorando, assegnista, ricercatore, alla fine un perfetto esemplare di precarietà sociale e esistenziale – soprattutto una persona distratta, ma distratta a livelli epici. Com’è nato e si è sviluppato durante la scrittura del romanzo questo personaggio?

Giuseppe prima di essere un personaggio è la voce narrante del libro. Ho capito che volevo un personaggio che fosse al tempo stesso una voce narrante molto presente, al limite dell’invadente, che cercasse da subito un rapporto di complicità con il lettore, dicendogli: ma non lo vedi anche tu il mondo così? La caratteristica fondamentale di Giuseppe è un pensiero ansioso, vibratile, mai fermo, che Giuseppe definisce “perennemente distratto”. Credo che l’ansia, questa distrazione perenne sia un modo nuovo e centrale di conoscenza della realtà oggi. Non è né una cosa bella né una cosa brutta. Alle volte sembra avvicinarci, coinvolgerci, alle volte sembra allontanarci, proteggerci rispetto al mondo.

 

Alla formidabile capacità di distrarsi, Giuseppe affianca anche una memoria prodigiosa, se non maniacale, una memoria concentrata su i dettagli, i più minuti, i più trascurabili. A un certo punto, come un Funes redivivo, Giuseppe dice di se stesso: Ero sempre io a fare il filologo: a riportare a uno a uno tutti i dettagli. Ma questo tipo di memoria, oltre a ovviare e entrare in cortocircuito con la distrazione, in un personaggio così aderente alla fede religiosa, finisce per avvicinare qualcosa di sacro: Dovrei farci più caso, alle facce delle persone, quelle sulla banchina, quelle che incontro sul treno, me le devo ricordare quando prego, dice Giuseppe. Se Giuseppe ricordasse ogni cosa sarebbe Dio, un santo o un semplice hard disk, distraendosi continuamente conferma i suoi limiti umani. È così?

Ho detto che volevo raccontare di una psiche secondo me un po’ inedita nella narrativa. Ossia: una psiche in multitasking cognitivo. Quel tipo di attenzione, intelligenza e memoria crea un continuo overload di informazioni. Che cosa ne facciamo di questa massa enorme di informazioni quando ci sono dei sentimenti come l’amore o una relazione con Dio che ci chiedono una forma, se non di semplificazione, di intensità? Se penso agli scrittori con cui sono cresciuto durante l’adolescenza e la gioventù – da De Carlo a Ellis a Coupland a Wallace a De Lillo – riconosco una serie di personaggi che reagivano alla crescita della capacità comunicativa, dei mezzi di comunicazione con una specie di malinconia, di chiusura in sé, di anedonia, o a un’evocazione di una civiltà o di un tempo in cui tutto questa iperfetazione di comunicazione non c’era e i rapporti erano più semplici e coinvolgenti. Il mondo in cui è Giuseppe non ha questa nostalgia: lui ha accettato che i sentimenti, la percezione del mondo, la multipolarità sono la norma e che in questo mondo mutato ci può comunque essere amore, relazione, gioia.

 

Quando scrivi La lucidità, la lucidità è soltanto il risultato di uno sfregamento continuo sembri ricapitolare la distrazione, la memoria, la vita quotidiana, il dolore sottile di questa condizione, quindi un certo modo – un modo molto contemporaneo – di stare al mondo. Quanto c’entra tutto questo con quello che noi oggi potremmo definire “realismo”?

Sono realista in senso kantiano e gadameriano e wittgensteiniano e foucaultiano forse. Ossia, la realtà è il risultato dei modi in cui vediamo la realtà. E i nostri sguardi sono la storia dei nostri sguardi. E le nostre parole sono il risultato del linguaggio che ci parla. E le nostre scelte sono date dalla forza dei nostri corpi. Dire realismo per me vuol dire cercare di capire cos’è l’anima dei personaggi, non come è fatto il mondo – per come lo potrebbe raccontare la sociologia.

 

Lubomir Zamalek – per tutto il romanzo, Lubo – è l’unico amico di Giuseppe. Lubo è polacco, fa mille lavori, è paranoico, se la cava sempre, si arrangia come può, ha degli attacchi di delirio, spasmi incontrollati in tutto il corpo, gli viene la bava alla bocca e si caca addosso. Sembra la descrizione di uno scarto umano – eppure, se non ci fosse, Giuseppe avrebbe un’esperienza del mondo più ridotta, soprattutto non avrebbe o avrebbe molto più in ritardo accesso all’amore (è proprio Lubo a permettere l’incontro tra Giuseppe e Fiora). Com’è nato invece questo personaggio, e quanto conta per te il fatto che incarni uno straniero, e dei più emarginati e/o emarginabili?

Lubomir era il nome di un uomo polacco che conobbi vent’anni fa. Era venuto in Italia in bicicletta dopo la dissoluzione della cortina di ferro. Dopo un po’ che era in Italia, lavoro zero, si ritrovò a bere e chiedere la carità davanti alla chiesa. Con il prete della parrocchia, riuscimmo a trovare i soldi per pagargli un biglietto per la Polonia, dove aveva moglie e figli. Stette qualche mese in Polonia a lavorare per pochissimi soldi per un lavoro massacrante, e poi tornò in Italia. La moglie, credo, l’avesse lasciato. Di nuovo davanti alla chiesa e a bere. Dopo qualche mese morì, seduto su una panchina davanti alla chiesa, per una febbre petecchiale. Andai insieme a questo prete a riconoscere il cadavere all’obitorio. Il personaggio di Lubo è un omaggio allo sconfitto e al povero che c’è in ognuno di noi. Ma è anche un modo per parlare dell’immigrazione provando a inventarmi un personaggio che andasse al di là degli stereotipi che si trovano nelle narrazioni italiani. Questa complessità di Lubo, la sua ambiguità, la sua innocenza che forse è ipocrisia, questa generosità che forse è autolesionismo, ho cercato di renderla innanzitutto con la lingua. Mi sono dovuto inventare una lingua che fosse un pidgin di polacco, italiano storpiato e romanaccio: questo tipo di lingua sghemba poteva dare corpo a un personaggio da commedia. Uno Zanni del 2012.

 

Lubo permette che accadano le cose (un deus ex machina), sparisce quando Giuseppe sembra autonomo e inserito nel mondo, ritorna provvidenzialmente quando intorno a Giuseppe il mondo collassa (un angelo). Ma stranamente Lubo sembra una seconda personalità, o una parte della personalità di Giuseppe: se in alcuni momenti le due figure si sovrappongono (In questi non-giorni confondo me stesso con Lubo), in altri, ricordando qualcosa di molto freudiano, l’una sembra prevalere razionalmente sull’altra (Mi tocca convincere Lubo, lui si ricorda a malapena chi è la vecchia. Però è un uomo disposto ad accettare che qualcuno gli faccia da super-io). Quanto sono complementari questi due personaggi?

Lubo è anche l’angelo custode di Giuseppe, il tramite attraverso il quale si manifesta la volontà di Dio in maniera più diretta, quindi comica alle volte. Ma Lubo è anche il tentativo di descrivere un essere umano per cui un declino non corrisponde a una forma di “precarietà”, di disagio sociologico. Quello che volevo mostrare con l’amicizia, la fusione alle volte di Lubo e Giuseppe è un cammino di empatia con l’altro che ci accade quando le cose vanno male, molto male. Se Il peso della grazia è un romanzo che parla di precarietà, lo è nel solo senso in cui la precarietà può diventare una condizione non solo provvisoria, ma permanente, o meglio una condizione di irreversibile declino. Cosa accade quando diventi veramente povero? Senza soldi per mangiare? Senza amici? Senza una direzione nel mondo?

 

Fiora Olivetti, un’oculista, è l’amore della vita di Giuseppe. Accanto a lei, Giuseppe sembra meno portato a distrarsi, e i dettagli, da isolati che sono nel suo campo visivo e quindi nella sua memoria, diventano parte di un tutto, di una visione d’insieme. È questa la tua idea dell’amore? L’amore come possibilità di redimere il senso evanescente della vita nella forma sensata di un racconto o di un discorso?

Fiora serve a Peppe per concentrarsi, e alla narrazione per trovare un centro. Quando lei compare, tutto il mondo si calma. Per questo Giuseppe ha così bisogno di lei da subito. Questa non è la mia idea dell’amore ma l’idea di un innamoramento, ossia di uno di quei momenti in cui ci sembra di trovare una persona che quasi magicamente riesce a disinnescare con pochissimo tutto quello che sembra metterci in pericolo: l’insicurezza, la solitudine, o cos’altro.

 

Giuseppe è un ricercatore, in un passo del romanzo spiega molto bene cosa faccia tutto il tempo: L’oggetto su cui la mia ricerca si va a incentrare è una fiamma premiscelata turbolenta, o meglio, il suo fronte di fiamma, che in una fiamma premiscelata turbolenta si comporta come un’onda: prendi un’onda che esplode, che si sposta attraverso la miscela… Io, da anni, sto cercando di ingabbiare quest’onda. Quello che faccio è questo. D’altro canto però: l’idea opposta alla mia, quella che buona parte (possiamo dire la totalità) dei fisici che si occupano di questa materia sostiene da sempre, è che cercare di stabilizzare fiamme turbolente sia un controsenso, un obiettivo impossibile, o meglio, addirittura, un problema posto male. Ecco, quest’idea della stabilizzazione di una fiamma turbolenta mi è parsa subito una metafora non dichiarata tanto delle azioni del protagonista davanti a una storia d’amore che poco per volta si sgretola, quanto del tuo lavoro di scrittore che deve governare un romanzo onnivoro e dall’andamento centrifugo e dispersivo. Ti ci ritrovi?

Il piano metaforico di “trovare una forma al fuoco” era il cuore del romanzo fin da quando l’ho concepito. Del resto, che cos’è la nostra esistenza in fondo se non cercare un ordine nella molteplicità, un cosmos nel caos? All’inizio il personaggio era un matematico fossato con l’equazione di Riemann, che in fondo pone una questione simile: come trovare una regolarità nell’irregolarità. Poi questa metafora del fuoco mi ha convinto di più. E il personaggio è diventato un fisico. Cosa questo abbia a che fare con la letteratura? Per me molto. Nel senso che non soltanto un romanzo uno lo scrive, ma ne viene scritto. Scopre attraverso la scrittura qualcosa della propria identità e qualcosa del mondo che non sapeva all’inizio. Pubblicare un romanzo è condividere in un certo senso questo processo di conoscenza.

 

Un altro personaggio fondamentale di questo libro è la città di Roma. Forse è una delle prime volte in cui trovo delle descrizioni di questa città così puntuali, dove non esiste più una divisione così netta tra centro e periferia, tra quartieri bene e quartieri popolari. In fondo, tutto sembra votato al collasso, come se il tempo fosse riazzerato, e il territorio su cui Roma è stata fondata riemergesse nella sua forma originaria: una palude, una palude in cui si sopravvive sempre ma da cui è difficile se non impossibile tirarsi fuori. Tra l’altro, parli della città come di una specie di oggetto esterno che però fa parte del tuo corpo. Dato che sei romano, vivi a Roma da sempre, quanto fa parte questo della tua esperienza personale?

Avevo quattro nemici all’inizio, quando mi sono messo a scrivere questo romanzo. Quattro stereotipi da volere eliminare: le storie d’amore poco credibili irrazionali stupide semplicistiche, un’immagine dell’immigrazione buonista o sociologica (e di questo abbiamo detto), e poi il rapporto con la fede, e l’immagine di Roma. Mi faceva schifo come veniva rappresentata Roma in tante narrazioni contemporanee: in un modo che esiste solo nelle cartoline dei telegiornali, nel pasolinismo d’accatto, nelle sceneggiature dei Cesaroni… Roma è una città bellissima e feroce: è difficile viverci, ma è facile sopravviverci.

 

Ma il romanzo, già dal titolo, già dal nome del suo protagonista, è caratterizzato dalla continua sfida e confronto con il sentimento religioso, con il sacro, il trascendente. Per tutto il romanzo però sfila soprattutto questa idea: Dobbiamo smetterla di pensare la vita del prete, ma anche dei cristiani in generale, di tutti, come un luogo pacificato. A chi o cosa ti riferivi quando scrivevi queste parole? E in particolare, è questa non pacificazione il peso della grazia che ogni fedele deve reggere sulle proprie spalle?

Anche qui la sfida era quella di trattare la dimensione della fede, del rapporto con il trascendente e con il cattolicesimo in un modo non stereotipato. Con i miei amici scrittori cattolici, come Carola Susani, Francesco Longo o Francesco Pacifico, spesso ci chiediamo perché nel mondo anglosassone si sia potuta affermare una tradizione di narrativa ebraica, con Roth, Jakobson, Singer, Safran Foer, e in Italia l’immaginario simbolico cattolico non abbia prodotto la stessa proliferazione di storie. In più mi ponevo il problema che si pone Flannery O’ Connor quando scrive i suoi saggi sulla narrativa e il rapporto con la fede. In sostanza: che farne di una dimensione trascendente in un racconto? Per rispondere alla questione per me è stato fondamentale un saggio che ho tradotto una decina di anni fa: Lo stile trascendentale nel cinema, la tesi di dottorato di Paul Schrader diventato poi un libro. Paul Schrader, il regista di American gigolo Autofocus, lo sceneggiatore di Taxi driver, analizzava l’opera di tre registi: uno cattolico, Bresson, l’altro protestante, Dreyer, il terzo shintoista, Ozu, cercando di mostrare come attraverso la costruzione narrativa si potesse pensare di evocare la dimensione trascendente, lo spirituale, l’invisibile, senza far ricorso agli effetti speciali, a un’espressione miracolosa, prodigiosa: era quello che mi interessava fare parlando della fenomenologia del cattolicesimo oggi. Una pratica minoritaria, ma centrale per raccontare non solo l’Italia, ma l’intera condizione umana.

 

Sei cristiano in un modo consumista, lo sai? E questo è uno dei motivi per cui io non riesco a esserlo più, – dice lei. Essere cristiani diventa una roba d’identità, tipo avere il Mac o il pc. Se ti appassioni, sei cristiano. Se ti annoi, smetti di esserlo. Da questo dialogo emerge una critica severissima ai cristiani. Eppure avere un’identità, possederla, non farsela sfuggire, è uno dei maggiori problemi, oggi. Secondo te come potrebbero andare insieme le due cose, fede e identità, senza per questo dare forma a fenomeni di integralismo religioso?

È un problema questo per me cruciale. Il pontificato di Benedetto XVI da subito ha messo l’accento maggiormente sulle pratiche identitarie piuttosto che sull’ecumenismo. Non so se tutto questo sia una volontà dello Spirito Santo che guida la chiesa o una visione culturale conservatrice da cui Ratzinger non riesce a emanciparsi. Fatto sta che ci sono stati nella recente storia dei rapporti tra Chiesa e politica tre momenti critici tra 2008 e 2009 che hanno segnato per me una frattura: il Family Day, la vicenda di Piergiorgio Welby e quella di Eluana Englaro. Perché non possiamo essere cattolici e non ripartire da questo tipo di questioni, ponendoci diversamente le domande? Ossia: che senso ha il male? Dov’è Dio in un mondo che stenta a riconoscere il peccato?

 

Nell’ultima parte del romanzo, Giuseppe, lasciato da Fiora, oltre a allontanarsi da tutto e tutti, si rifugia nel porno, soprattutto nei filmati porno amatoriali. Due descrizioni mi hanno dato da pensare, questa (Inseguo una traccia di autenticità dove forse non c’è. Non riesco a fissarmi a lungo sui corpi, cerco la rabbia dei movimenti, la vertigine delle ragazze che hanno orgasmi allo sfinimento su un Sybian) e questa (In certi momenti mi trovo a ringraziare, a lodare Dio perché su internet si può trovare una quantità di video potenzialemente infinita). Riattualizzando Guy Debord, è come se tu avessi scritto tra le righe non solo che oggi il vero è un momento del falso, ma che anche il sacro è un momento del falso. Cosa ne pensi?

Non lo so, credo che ribalterei Debord, in modo ottimistico si può dire. Scherzando anni fa un mio amico definì la mia scrittura e quella di Francesco Pacifico “porno-cattolica”. Ci sono molte scene di sesso nel mio libro, descritte in modo molto esplicito. Ma il porno, credo, mi serva a questo: a mostrare come non possa esistere un’oggettivazione totale, come anche nelle forme di riduzione del corpo a oggetto, resta sempre un qualcosa che sfugge a questo processo e chiede relazione. Faccio un esempio stupido: mettiamo che guardo un porno. C’è una ragazza di cui non conosco il nome di cui vedo solo la fica penetrata da un cazzo che non so a chi appartenga. Per me per quanto tutto questo mostri una spersonalizzazione, io cerco di cogliere tutto quello che invece resta personale: chi è questa ragazza che si vede nel video, perché ha accettato di girare questo filmato, si sta divertendo, che tipo di desiderio provava chi ha visto questo filmato… Immaginiamo che un giorno io incontrassi questa ragazza in un bar, cosa accadrebbe? Per quanto la rete tenda a spersonalizzare i rapporti, continuiamo a essere umani, e fin quando siamo umani, c’è un evidente bisogno di sacro che ci riguarda.

 

In un romanzo così aperto al trascendete, il cui correlativo oggettivo è il cielo, il cielo che ritorna sempre, anche nella versione 2.0 di pop-up tra le nuvole, il cielo che in una bellissima pagina crolla in forma di nuvole sulla terra estinguendo ogni essere vivente, un peso della grazia insostenibile, se vogliamo, il corpo umano è descritto moltissimo, in maniera letterale, in ogni suo dettaglio, i denti soprattutto, per non parlare della materia di cui sono composti gli oggetti di uso comune. A un certo punto scrivi: Non lo so, ero convinto che se avessi voluto cambiare delle cose veramente, in politica anche, nel mondo, avrei dovuto sapere com’era fatta la materia. In che modo stanno insieme le due cose?

Credo che anche questo faccia parte di una visione cattolica del mondo, che associa i processi immaginativi a dei processi creativi veri e propri. È una lezione che ho imparato da scrittori cristiani come Flannery O’ Connor o John Cheever, il loro amore per il creato, e quando ho cominciato a scrivere il libro cercavo una metafora che mi facesse associare una forma di desiderio un po’ schizoide di proiezione con un’idea di palingenesi vera e propria, di nuova realtà. Mi ha aiutato in questo senso il film di Audiard, Il profeta, in cui il protagonista vive una sorta di continua doppia realtà: una specie di sogno laterale. Ho capito che volevo che anche per Peppe fosse così. Che esprimesse il suo stato d’animo sempre con una crescita enorme dell’immaginazione, della visione. Queste visioni per me rappresentano la forza della nostra anima, l’incredibile capacità di creazione che abbiamo, quello che in fondo ci rende fatti a immagine e somiglianza di Dio da una parte, e dall’altra degli esseri sempre un po’ alienati.

 

Oltre al tuo libro, ho notato che per esempio anche Francesco Pacifico in Storia della mia purezza (Mondadori, 2010) ha riportato questioni religiose all’interno di un romanzo, e guardando oltreoceano, Jeffrey Eugenides, con La trama del matrimonio (Mondadori, 2011), ha fatto la stessa cosa. Come mai un tema del genere, finora così desueto, un tema per molti versi ritenuto anche imbarazzante da affrontare, sta ritornando a essere battuto con così piena consapevolezza?

Con Francesco Pacifico discutiamo da anni su cosa voglia dire scrivere di persone che credono, quali simbologie usare, che tipo di sguardo avere. Credo che Francesco sia lo scrittore con cui – al di là di tutto – mi devo confrontare di più come narratore, perché parte da una ricerca molto simile alla mia. Quando l’inverno scorso ho letto l’ultimo libro di Eugenides ho detto: cazzo, ha scritto il mio stesso libro, ed è uscito prima di me. Non era così ovviamente, ma c’erano molti elementi comuni. Sia come erano poste alcune questioni, sia come erano risolte. La religione cattolica dal mio punto di vista era tanto per me quanto per Eugenides centrale per parlare di personaggi che cercano una forma di assoluto. E poi tutti e tre ci rifacciamo e in modo esplicito direi a una modellizzazione narrativa, quella di René Girard, del suo mimetismo triangolare, della sua Verità romanzesca e menzogna romantica.

 

Smart, ciechi famosi, raccolta differenziata, aspartame, aids, Unabomber, uranio impoverito, You Tube, Obama, Banksy, bambini sequestrati degli anni ’80, chat, iphone, navigatore satellitare, google, free press: questa è una piccola sezione dei miti d’oggi che brillano dentro le frasi del romanzo. Quando hai iniziato a scrivere questo libro avevi anche intenzione di fare un catalogo ragionato degli oggetti su cui segretamente si deposita lo spirito del tempo?

No, nessun amore per i cataloghi ragionati. Ma volevo scrivere un libro contemporaneo, e non potevo farlo se non capendo come gli esseri umani reagiscono al mondo culturale in cui sono immersi. Il nostro cervello oggi vive una strana forma di enciclopedismo, in cui le informazioni importanti sono mescolate a quelle inutili: questo produce dei cortocircuiti niente male. Mi ricordo come Andrea De Carlo negli anni ’80 fu il primo scrittore italiano a far penetrare questo rumore bianco nell’emotività personale. Ma quando leggemmo il Douglas Coupland di Generation X o il Bret Easton Ellis di American Psycho capimmo che l’imene era rotto per sempre: le amenità da trivial pursuit avevano lo stesso peso di un sentimento eterno.

 

Tutto il romanzo è continuamente punteggiato dalle domande che Giuseppe pone da una parte a se stesso e dall’altra al lettore, come se volessi mimare un discorso interiore. Come mai?

Qui i modelli sono Shakespeare, inconsciamente, o insomma il teatro, quei personaggi che si appartano e fanno dei monologhi amletici. E poi, consapevolmente, Coetzee. Amo i personaggi che riflettono su quello che fanno, e amo quando lo fanno in modo interrogativo, anche se questo corre il rischio di diventare stucchevole, perché al contrario di quello che sembra non sono personaggi immobili. Ma sono personaggi che si trasformano sotto i nostri occhi, i pensieri riescono a mettere in scena una sorta di teatro dell’io, e a me questa drammaturgia piace da morire.

 

Rispetto alle tue due precedenti raccolte di racconti, Latte (minimum fax, 2001) e Dov’eri tu quando le stelle del mattino giovano in coro? (minimum fax, 2004), lo stile che adotti qui è meno pirotecnico, meno volutamente sorprendente. Nonostante ogni pagina sia ricca di invenzioni e soluzioni formali, è come se tu avessi preferito che la sperimentazione cedesse il passo a una scrittura più compatta, una scrittura che garantisse una propria intensità emotiva senza ricorrere troppo ai trucchi del mestiere, all’effetto che David Foster Wallace aveva tradotto con “guarda, mamma, senza mani”. Com’è venuto fuori questo stile? C’è qualche altra opera e/o esperienza che ti ha spinto in questa direzione?

Volevo che fosse un romanzo leggibile e con un’intensità emotiva a ogni pagina, come tu dici. Non avendo dalla mia una trama piena di colpi di scena, volevo che il lettore si appassionasse ai sentimenti dei protagonisti. Quello che ho cercato di fare è allora, utilizzare tutti i modelli letterari che mi venivano in mente che riuscissero a aiutarmi a costruire questo stile caldo. Il Foster Wallace più emotivo, più trasparente, meno virtuosistico, quello di racconti come È tutto verde, per capirci, ma il Rick Moody di Demonology, il Bellow di Herzog, il Roth della Macchia umana, l’Eugenides che hai citato, Walter Siti di Scuola di nudo (essenziale per i dialoghi), Veronica Tommasini di Sangue di cane (che mi è stata utile per capire come modellare la voce di Lubo), Richard Ford dello Stato delle cose per il tono delle descrizioni, Richard Powers del Dilemma del prigioniero o del Fabbricante di eco per la capacità di descrivere le questioni scientifiche all’interno di relazioni sentimentali credibili, l’Aldo Busi dei due primi suoi romanzi per la modulazione sonora delle frasi, l’Arbasino di Fratelli d’Italia per il ritmo della paginee Tondelli per la costruzione ipotattica, Charles Bukowski che mi ha dato da adulto un enorme aiuto nel riconoscere la narratibilità di ogni frammento quotidiano… tutte cose forse scontate. Ci sono degli scrittori che però vorrei citare perché sono meno scontati: Helen Dewitt e Giovanni Guareschi. La prima scrisse qualche anno fa un romanzo che mi folgorò per la capacità di mescolare insieme una visione cerebrotica e una visione sentimentale: L’ultimo samurai, il secondo è uno scrittore che ho divorato da adolescente, e che ha avuto per me la capacità di affinare il mio sguardo in un senso preciso: quel tono famigliare dello scrivere che riesce a creare intorno ai personaggi una specie di affettuosità concreta, di vicinanza, di complicità, attraverso la descrizioni dei loro piccoli tic. Credo che molta della mia formazione letteraria e sentimentale debba qualcosa ai Jefferson e al Corrierino delle famiglie di Guareschi.

video arte #16 – zbynek baladran

0

Zbynek Baladran, A Model of the Universe, 2009.

Luigi Protopapa: Una storia del Novecento

0

 

Genesi di un artista

di

Lidia Riviello

La realtà è una superficie molto tenue che va toccata con cura, lavorata più volte affinché  la materia possa risultare tessitura forte e resistente nel tempo. Una scelta straniante e miracolosa, che è quello che fa dell’artista un fuggitivo dal proprio tempo, ma pronto a misurarsi con la precarietà della materia
Il collage, le opere o come distaccarsi dalla ripetizione e dal timore della morte senza abbandonare il luogo di partenza, lavoro continuo sui frammenti, segni di un’unità e un’età perduta, avventura del dettaglio, possibilità di riconfigurare la realtà e l’immagine fino a prova contraria, per poi ricominciare.
Qui, nelle resine, nel cuoio, nell’olio, nel collage, nella stratificazione, nella sfumatura , nella lacerazione  abitò e si esiliò Luigi Protopapa, artista pugliese, commerciante e imprenditore di scarpe, figlio di artigiani e di una Martano cuore della Grecia Salentina, in provincia di Lecce sulla punta della civiltà magno greca, protagonista e testimone di una “civiltà delle macchine” dove l’artista sta nel limite e deflagra nella ricerca totale delle identità.
Affatto “esotico” a proposito di identità è  l’origine storico simbolica del luogo di nascita,  Martano, che fa comprendere come Protopapa così legato alla sua terra abbia custodito una presenza originaria senza per questo naufragare nel mito di una civiltà perduta.
Lo studio delle origini del luogo ( il mito di Pegaso, l’uomo di pietra, il dio Marte) non è affatto ozioso né motivo di semplici suggestioni ma trame archetipiche, elaborate e riprodotte con straordinaria naturalezza e precisione quelle dell’ arte di Protopapa: la maschera, il rito, la terra con i suoi oggetti, l’identità e le sue stratificazioni e a volte l’utopia di un mondo parallelo al nostro di cui la pelle, il cuoio come vedremo, sono la grande metafora.

L’olio rende duttile e morbido il paesaggio, mentre il ritratto, lavorato a cuoio definisce la materia rendendola concreta.
L’artista non dimentica le stanze del proprio risveglio, quindi della propria origine e questo è ben evidenziato dal risultato ottenuto con la tempera, mentre l’olio e la pelle impediscono la perdita del senso del futuro: grafiche sonore, perturbanti, decise a incidere con gli oggetti del mito e della quotidianità  la parabola di noi viventi.
L’arte per l’autore  è una disciplina, contro la corrosione del tempo, una lotta con l’oscurità, con l’assenza, con la dissociazione, con la figurazione facile, con l’idillio, con la paura del soggetto e la crisi dell’oggetto. L’inquietudine è dentro ognuno di noi e l’artista dunque ne sperimenta ogni fase con le armi del segno, del  colore,  e della  luce,  scudi posti oltre i confini di una “trama” lineare, giungendo dunque fino alla somma di tutte le trame.
Nella introduzione  al libro “Protopapa” di Pietro Mandrillo, prefato da Carlo Belli, che l’editore Schena pubblicò negli anni ottanta, e che giunge a un bilancio della figura dell’artista,  fornendo uno strumento prezioso anche se parziale di analisi critica, Carlo Belli parla, di travisamento e trasfigurazione,  e questa ci pare  una chiave in grado di entrare nella dinamica delle scelte e delle direzioni intraprese da Protopapa fin dal suo nascere.
Travisamento dunque procedere per errore, condurre il punto di vista sulla ricostruzione di una storia sbagliata dell’opera di Luigi sul confine fra vero e falso, e qui l’utilizzo di un materiale così corposo e singolare come la pelle, sembra avvalorare un’ ipotesi di arte travisata.

Nessun infingimento, né falsificazione d’opera, semmai una  fiducia nella materia tale da condurla a  diventare più vera del vero.
Il travisamento nell’arte  è stato affrontato molto bene ad esempio da Giacomo Di Marco nel libro  “Identità e travisamento” che va a fondo al problema artistico del ritratto e dell’autoritratto ( modalità che nell’opera di Luigi  sono sempre presenti) anche se sembra pertinente, ed è ancora una intuizione di Belli, parlare, nel caso di Protopapa, di trasfigurazione. che significa  mutare, prendere il corpo di,  in questo caso  la materia di.
E’ a quel punto che l’arte di Protopapa si fa trasfigurazione perpetua  che non resta tale,  oggetto attraversato dal mutamento bensì si muta in una sovrapposizione continua, accettando di diventare modello e archetipo delle identità in divenire.
Un esempio di opera che rende evidente la difficoltà e la rarità della pelle di diventare composizione integrata, totale, è “Terra di Puglia” del 1963, un collage manifesto dove il paesaggio occupa l’intero spazio della tela definendosi per gradi, strati e livelli e dove la pelle viene sfumata al millimetro con una perizia che commuove, ancora una volta.
Come rendere la ruvidezza, l’ostacolo, l’attrito superficie accogliente e narrativa se non attraverso una lavorazione meticolosa e paziente così da ottenere dei rosa di carne e terra, degli azzurri che increspano le dimensioni ottenendo questo costante effetto pluridimensionale che caratterizza tutte le opere di Protopapa.
L’addensarsi del cielo sovrastante, la stratificazione dei piani del paesaggio, la teatralità delle forme, la faticosa e miracolosa scalata dello sguardo lungo i piani e i rilievi del dipinto.
La critica ufficiale, quella molto spesso conservatrice e dalle facili interpretazioni abbia letto trattenuta il disturbante procedimento artistico di Protopapa ci fa riflettere su come i contemporanei non sempre siano all’altezza della propria contemporaneità  e di quanto la ricerca personale e la condizione di battitore libero attraversi tutto l’arco della vita di un artista, a maggior ragione in periodi di cambiamenti, quando l’aspirazione è  quella di raggiungere un pubblico più vasto, una critica che pretende certi risultati, ed un mercato, che per l’arte è sempre stato il grande spauracchio.
Spesso, artisti non ritenuti attuali per la moda del momento vengono rimossi e sottovalutati e dopo la morte, spesso se ne scopre la portata.
Forse solo Pitigrilli nelle sue brevi e fulminanti dichiarazioni ha rilasciato quella  considerazione  che riassume in un colpo solo l’essenza dell’espressione di Protopapa:
“Indipendentemente dai mezzi d’espressione, è un’artista geniale, perché il sortilegio della sua arte non lo realizza né col cuoio, né con i colori, né con i mezzi tecnici, ma con i prodigi della sua anima”.
Interessante è riportare un paio  di valutazioni che vennero date in quel periodo e successivamente, diverse fra  loro e che sono indicative di un modo di  scrivere critica in quegli anni e di uno stile spesso sobrio e formale, raramente fuori dagli schemi, tranne che in alcuni casi.
Chiaramente questo per riaprire oggi  “il caso Protopapa” e per domandare alla critica d’arte attuale e agli storici una attenzione, per riavviare lo studio organico delle opere dell’autore.
Ad esempio Piero Zanotto, fornisce indicazioni sui tentativi della critica ufficiale di inquadrare l’opera di Protopapa, ammettendo infine quanto la critica allora fosse sprovvista o poco abituata a maneggiare un artista difficilmente collocabile in una scuola precisa.
Sostiene infatti che “si è tentato di trovare per i leccese Protopapa…una collocazione storica. La critica più avanzata, meno impressionabile dai fattori commerciali che compongono l’opera d’arte ( In questo caso le pelli) ha tirato fuori in ballo per Protopapa il post impressionismo e l’ha inserito nella più pura tradizione macchiaiola. Ma finendo per dichiarare poi senza mezzi termini che nei suoi quadri si respira il profumo di sentimenti genuini odierni. In essa si trova sostanziato il ricordo di un’infanzia, un’adolescenza vissuta con penetrante candore…”
Invece è un critico tedesco, J. Trupke, ad adoperare il termine “miracoloso” e ad entrare nel merito della lavorazione, liberando così la genialità di Protopapa e riconducendo il suo “doppio” registro di pittore ed inventore in un quadro esaustivo.
“Un pittore senza pennelli che incolla sul compensato le sue opere ricavate da pezzi di cuoio colorati strappati a mano. La tecnica è talmente abile che soltanto dalla vicinanza si riesce a scoprire gli artifici di questo artista che lavora in modo assolutamente pittorico ed in questo sta il miracolo…”

Luigi Protopapa ( Martano 1908- Taranto 1969)  è  un pittore, artista e imprenditore di pelli  e cuoio fra i più significativi e innovatori del novecento .Le sue opere nel tempo sono state ammirate, esposte, acquistate e si trovano presso molti Istituti come l’Istituto di Ricerche Chimiche  di Monaco di Baviera, il  Centro Studi e Scambi Internazionali  di Roma, il Circolo Cittadino di Martano (Lecce), le collezioni C.I.R (Torino) e del museo di Offenbach  in Baviera,  presso la redazione di “Ecomond Press”  di Roma e le collezioni private di Giovanni Agnelli a Torino,  di Pittigrilli  a Parigi, e inoltre nella Pinacoteca comunale Luigi Protopapa Martano (Lecce), Protopapa (Taranto), Occhinegro (Taranto), Lamanna (Taranto), Protopapa(Roma), Pantaleo (Fasano) e trovano sede in numerose collezioni private

 

Inaugurazione della mostra di Luigi Protopapa

LA PELLE L’ARTE IL GESTO

Palazzo Valentini, Sala Egon von Fürstenberg

Venerdì 25 gennaio 2013 ore 18.00

Via IV Novembre 119/A – Roma
www.provincia.roma.it

Quello che vampiri, lupi mannari e mutanti non dicono – Prima di scomparire, di Xabi Molia

3

di Carlo Mazza Galanti

Xabi Molia fotografato da Nolwenn Brod

Distopie, utopie, ucronie, qualunque sia il taglio, tonale e formale, che si voglia dare alle diverse interpretazioni immaginarie della storia umana, quello della fantapolitica è forse il genere più “perturbante” oggi a disposizione degli scrittori, quello meglio capace di riprodurre la fertile e angosciosa convivenza di famigliarità e straniamento che Freud riconosceva nella grande letteratura fantastica dell’ottocento. Come se soltanto la trasposizione del presente sul binario di una cronologia parallela potesse liberarci dal peso soffocante di un realtà riprodotta e moltiplicata in maniera esponenziale, dal sovraccarico d”informazione, dall’esposizione continua al resoconto dell’attualità. Non riusciamo più a volare in mondi arcani, perderci in labirinti metafisici, dialogare con creature oltremondane: ma manipolare leggermente il calendario è uno stratagemma sufficiente a mescolare le carte di questa bruta fattualità per farne emergere ideologie, contraddizioni, punti ciechi.

Certo, ci vuole molto talento per immaginarsi una Roma senza papa o un mondo completamente in mano ai nazisti. Molti autori di fantascienza e fantapolitica oggi in voga scivolano facilmente nel didascalico (o nel moralistico: in Italia, dove pure il genere non manca, pare un difetto abbastanza diffuso), in una complessità tendenzialmente cervellotica e involuta (è il caso del polacco Jacek Duckaj, di cui non ho però letto il libro più apprezzato, La cattedrale, prossimamente in uscita per Voland; o anche, in modo diverso, di Volodine, la cui trilogia post-apocalittica uscita in Francia nel 2011 è in corso di pubblicazione presso Clichy, erede di Barbès edizioni), infine nella parodia un po’ frivola e superficiale, come succede al belga Quiriny de Le assetate, pubblicato quest’anno da Transeuropa.

Nulla di tutto ciò in Prima di scomparire (L’Orma, trad. di Stefano Lazzarin, pp. 300, E. 14,50) del francese Xabi Molia, libro che inaugura la collana franco-tedesca “kreutzville” della neonata casa editrice L’Orma. Che si presenta bene con questo giovane autore (classe ’77) capace di manipolare un immaginario tra i più inflazionati e però (perciò) potenti (vampiri, zombie, mutanti) in un contesto appunto fantapolitico, senza indulgere minimamente a schemi narrativi prevedibili o semplicistici e senza rinunciare, allo stesso tempo, a una scrittura estremamente avvincente, buona per tutti i palati.

La storia si svolge nella Parigi di un futuro prossimo, la Francia è appena uscita da una violenta guerra civile succeduta alla crisi economica che ha visto il riemergere di numerosi gruppi politici, di diversa matrice, pronti alla lotta armata. Ristabilito l’ordine, eletto un presidente capace di accontentare se non tutti molti, attivato un programma di riconciliazione nazionale, esplode una misteriosa epidemia: un male sessualmente (ma non solo) trasmissibile che trasforma le persone in ominidi dotati di grande forza fisica a metà strada tra i mostri di I’am legend (quelli dell’ultima trasposizione filmica, del 2007) e i mutanti di Black Hole (il fumetto di Charles Burns) o i vampiri esistenzialisti di Abel Ferrara, a seconda dello stato di avanzamento dell’alterazione. Parigi diventa una cittadella dove gli umani arroccati lottano contro questi nuovi barbari decisi a prendere il sopravvento, capaci di utilizzare mezzi militari e già padroni di diverse città francesi. Non tutti i sani, però, riconoscono la causa del governo: circola un testo clandestino, un trattato filosofico dal sapore millenaristico intitolato “Il progetto umano” che proclama la fine necessaria dell’umanità. Nuovi schieramenti si formano e attraversano i due campi in maniera caotica, tra la superficie di una città semidistrutta e i labirintici cunicoli della Parigi sotterranea. In tutto questo, un funzionario addetto all’identificazione degli infettati viene improvvisamente catapultato sul campo di battaglia, alla ricerca della moglie scomparsa, una sceneggiatrice di fumetti presa di mira dalla censura durante il periodo della crisi per il contenuto controverso delle sue storie.

Il risultato è un romanzo complesso, stratificato, ma godibilissimo, capace di mischiare contenuti pop e filosofici, spaccati visionari e interni di domestica quotidianità senza alcuna ambizione “postmoderna” e senza che la struttura del racconto ne risenta mai, né sul piano della tensione narrativa né su quella della riflessione, estremamente meditata, attivata dall’assemblaggio degli eventi e dei personaggi. La barbarie, la fine dell’umano, il ritorno violento del rimosso animale (tra i gruppi che difendono gli infettati ce n’è uno che si definisce “animalista”), sono le questioni affrontate da Molia. I finale è aperto: non c’è risposta ma solo la formulazione radicale e accurata di un dubbio, anzi di un complesso sistema di dubbi che attraversa il nostro tempo e il nostro immaginario con un’insistenza ossessiva, a cui la maggior parte delle fantasmagorie di vampiri, lupi mannari e mutanti oggi in circolazione non offrono che un confuso, inerme, tentativo di espressione.

[Questo articolo è stato pubblicato su Alias]

Impegno

15

di Antonio Sparzani

Ebbene sì, non ve lo aspettavate, ma alla mia veneranda età ho deciso di impegnarmi in politica, non si può più — lo sento — esimersi da un così pressante dovere. E per chi non volesse crederci ecco qua il mio programma, chiaro e dettagliato, vedete un po’.

Dove ho lasciato l’anima

1

di Gianni Biondillo

Jérôme Ferrari, Dove ho lasciato l’anima, Fazi Editore, 170 pag., traduzione di Maurizio Ferrara

Cinquant’anni ci separano dalla fine della guerra di indipendenza dell’Algeria, ferita ancora aperta nella coscienza del popolo francese, che si scoprì, nella sua cieca visione colonialista, feroce tanto quanto i “terroristi” – “patrioti”, visti dall’altra parte – che credeva di combattere.  Jérôme Ferrari la ferita non la sutura in Dove ho lasciato l’anima, semmai la incide nuovamente, la lascia sanguinare, affinché nessuno dimentichi.

Il romanzo si può leggere su due livelli: uno è quello degli avvenimenti della storia francese riletti a ciglio asciutto. André Degorce è un capitano dell’esercito che cerca, senza ormai cederci più, di arginare una rivoluzione inevitabile, utilizzando tecniche che non rispettano alcuna convenzione internazionale. I suoi metodi sono condivisi dal tenente Andreani, discepolo accecato dalla figura epica del capitano. Ma l’arresto di Tahar, inflessibile capo della resistenza algerina, rimette in gioco le certezze di tutti: Degorce ha conosciuto in gioventù la follia dei campi nazisti e la prigionia in Indocina. Un eroe, che da vittima non ha mai perso la sua dignità d’uomo. Ma la condizione vittimale – ecco il secondo livello di lettura, più esistenziale e profondo – può per assurdo essere migliore di quella di carnefice, quello che Degorce è diventato in Algeria.  Di fronte alla dignità di Tahar di attendere la sua fine, tutta la retorica militare del capitano si sfa, lasciandolo solo con l’orrore che ha saputo procurare per raggiungere i suoi scopi.

Questi due livelli del discorso si ritrovano nelle due forme di scrittura di Ferrari: quello dei nudi fatti, con un linguaggio spoglio che lascia spazio ai dialoghi e alle descrizioni, e quello del tormento psicologico, identificabile dagli ininterrotti monologhi interiori di Andreani, che dichiarano di continuo l’odio verso chi ha ammirato per anni, come di fronte ad uno specchio che non esclude alcuna mostruosità dell’anima. Quella perduta per sempre da chi ha accettato la disumanità della violenza per la violenza.

 

(pubblicato su Cooperazione, n.42 del 16 ottobre 2012) 

Donne sull’orlo di un’invisibile urgenza

31

di Helena Janeczek

Nell’avventura de Gli Incredibili, la “normale famiglia di supereroi” creata dal genio inventivo della Pixar, il dono dell’invisibilità è attribuito alla più giovane componente femminile. Violetta Parr ha un occhio coperto da una chioma nera, veste sempre di nero-emo, è una tipica adolescente che sconta l’infelicità di non sentirsi abbastanza uguale agli altri. Solo che quando vorrebbe scomparire, ci riesce. Anche sua madre detiene un superpotere che rispecchia il desiderio di molte donne adulte. Helen, in missione Elastigirl, non nutre più alcuna velleità supereroica, però la facoltà di allungare gli arti a dismisura le resta utile come madre di famiglia.

Otto poesie

5

di Stefano Raimondi


Da “Per restare fedeli” (Transeuropa-Nuova poetica, 2013)

[4 marzo 2003]

Hai ragione tu:
bisogna onorare la gioia.

E allora stammi vicino, così
fino alla penombra, al buco rosso
del passaggio colato via, per terra
vicino al mare. Tra poco saranno
le sirene a darci corde, tappi di cera
paura. Da una città all’altra si inizierà
a morire per caso. L’acqua la prenderemo
finché ci basta, finché la sete la riconosceremo
ancora, dagli occhi e dalle labbra, nei baci.

[19 marzo 2003]

La guerra e l’abbandono stanno facendo opere.
Quali riconoscere?
Si tengono lontani i bambini dai confini:
fanno paura ai sogni, alle trincee bruciate
ai sì. Ci sono vicende umane che partono
da qui, storie che sanno cosa prevedere.
Fanno trincee i bambini: le fanno con gli stracci
e le tengono, le lavano come ci fossero
solo madri da coprire.

[26 marzo 2003]

Ci sono giorni dove correre è
l’unico modo per salvarsi
altri dove è l’immobilità
e l’aria spessa del rifugio
a farci stare fermi con gli occhi
dentro a un cuore puntato
dalle sirene, per la notte.
Poche cose vicino dicono
l’angolo dove ci si siede ad aspettare
lo stesso che potrebbe non farci
vedere più da nessuno.
Si tengono a galla i topi:
uno sull’altro passano da qui.
Vedessi, amore, come sono fieri.
Hanno la tragedia negli occhi: quella
delle fogne perlustrate durante i matrimoni
che saziano le macchine e i futuri.

«Siediti qui» mi dice un bambino
«i miei giochi li ho tolti ieri dal cesto.
La mamma mi dice che presto
finirà tutto.»

Non ho saputo nulla dopo lo scoppio
dopo che mi ha lasciato con la sua trottola
che gli girava ancora tra le mani.

Lo spettacolo più raccapricciante lo riservano le corsie
dei piani superiori.

Si dissanguano le luci tolte
dalle lampade, dalle cucine,
dai vetri tramortiti per ricordare
la calma, il conto, gli anniversari
le date livellate dai compleanni.
Sono queste le trasparenti discariche
che frantumano carezze e angeli: facce
sbalordite e insonni, scalmanate e piante.

Le bacinelle d’acqua vibrano
come placente piene, come
un baccano d’ossa che pregano
che vogliono cordoglio.

Un vecchio con un braccio fasciato tossisce insistentemente […].

Stiamo vicino come in un mattatoio.
L’amore lo facciamo da qui dove
i sessi sono esposti sugli uncini.
Ogni massacro ha la sua pulizia.

I continui bombardamenti tengono la maggior parte della gente
chiusa in casa. Uscire è sempre un rischio anche se nemmeno il
tetto di casa è più sicuro.

[4 aprile 2003]

È il mattino che fa incoscienti e sani.

C’è una dolcezza sotto questo tetto
che non sa dell’abbandono, neppure
tra la spellatura, i disastri.
Si sentono i rumori, fuori
che circondano, che continuano a cadere
e il nostro buio vicino continua a costruire.
Chi abiterà per primo la stanza, tu o io?
È la paura e la grazia di una tenda
– spostata vicino alle macerie, vicino
a chi cerca qualcosa, qualcuno con le mani
tagliate, bendate – a scavare.

Non si riesce a seppellirli tutti, i morti stivati dentro camion
frigo. I saccheggiatori non risparmiano gli ospedali, le case e
i musei. Rapine, linciaggi.

Pensavamo di essere unici, indivisibili
e per sempre. Invece siamo qui trascinati
portati a braccia, schiaffeggiati.
Non ti riconosco più amore.
Non ho paragoni da farti vedere, né ricordi
uncinati di bene da sollevare a bandiera.
Siamo preziosi per poco respiro, per poco
fiato risparmiato piano.
Mi hai lasciato nell’antro del buio
per non accompagnarmi più. Fino a qui
sapevamo il nostro nome intero.

Tutto verrà riconosciuto per amore
o per quello strano respiro sporto
fino alla fine del nulla impigliato
nelle trincee, tenuto in serbo
per non morire

 

Do you remember Osvaldo Lamborghini?

9

di
Massimo Rizzante

In questi giorni sta per andare in libreria Osvaldo Lamborghini, Il dottor Hartz e altre poesie (Scheiwiller Libri). Oltre al mio saggio introduttivo sarà possibile leggere la Postilla di Alan Pauls. È la prima volta che in Italia viene pubblicata un’opera di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino. I lettori italiani non si devono sentire in colpa. Lamborghini è un maestro, anzi un classico segreto, anche in patria. Dopo Borges, è difficile trovare negli ultimi decenni un’opera poetica così originale e inclassificabile. Fatali e generose, violente e allo stesso tempo sentite come «disgrazie passeggere», disobbedienti a qualsiasi metrica e a qualsiasi genere letterario, le sue poesie incorporano mitologie personali, la psicoanalisi, la storia politica argentina degli anni ’60 e ’70, il surrealismo, l’epica gauchesca, il parlato con tutte le sue eresie popolari e tutti i suoi tic intellettuali. Siamo lontani dai simboli e dalla metafisica di Borges. Il mondo di Lamborghini è materiale, violento e crudele come un coltello domestico che una volta preso in mano si trasforma in uno strumento di tortura. Parlando della letteratura argentina contemporanea come di una casa, Roberto Bolaño ha detto una volta che Lamborghini è una scatola dimenticata sulla credenza della cantina: una scatola piccola e piena di polvere. Ma se uno la apre ci trova l’inferno.
Ecco alcune poesie precedute da un frammento della mia introduzione, intitolata Come un coltello domestico che si trasforma in uno strumento di tortura…

§

Ci sono molte leggende sulla vita di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino nato nel 1940 e morto a Barcellona nel 1985.
Una di queste afferma che fin da ragazzo avesse avuto nostalgia di un lignaggio aristocratico il cui blasone in realtà non riuscì mai a ricostruire. Soprattutto dopo che il padre, ritiratosi prematuramente dall’esercito, fallì in tutte le sue imprese, portando alla rovina l’intera famiglia.
Un’altra è che lesse sempre e solo nella sua lingua: Rimbaud, Kafka, Dostoevskij, Hegel, L’ideologia tedesca di Marx e Engels, L’estrememismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, Broch, Musil, Gombrowicz, Freud, Lacan… Sembra che già a vent’anni, dopo alcuni tentativi, avesse rinunciato a imparare qualsiasi idioma. L’epica gauchesca del Martín Fierro, Arlt, Leopoldo Marechal, Girondo, Borges, il lunfardo gli bastavano per crearsi una lingua originale? Probabilmente.
Tuttavia, un’altra leggenda, diffusa da molti amici, riporta che Lamborghini fosse incapace di apprendere.
Non si trattava solo del fatto che l’impazienza e l’incostanza gli facevano abbandonare rapidamente ogni proposito di studio. Lamborghini, come ha detto qualcuno, amava soprattutto una cosa: non far nulla.

Ma c’era dell’altro: un’inadeguatezza a svolgere una qualunque attività pratica. Lamborghini era ontologicamente incapace di assicurarsi le più elementari condizioni di sopravvivenza. Per questo non riuscì mai a trovare un impiego per più di qualche mese – nel sindacato, in una redazione di giornale, in un’agenzia pubblicitaria. Per questo tutta la sua vita fu un errare di casa in casa – genitori, sorella, amanti, amici – e di hotel in hotel, tra Buenos Aires, Mar de Plata, Pringles e, infine, Barcellona. E odiava star solo. In ragione forse del suo antico e disperso lignaggio, non si capacitava del perché qualcuno non dovesse prendersi cura della sua persona, visto che egli era completamente assorbito dal suo destino di scrittore. In fondo non chiedeva molto: un tetto, un letto, un po’ di cibo, una teiera di mate. Ma la modestia di tali richieste era immancabilmente accompagnata da un uso pantagruelico di alcol, sigarette, psicofarmaci («Per me non c’è che una maniera di bere: continuamente, o non mi interessa»). In questo regno Lamborghini era un monarca assoluto. E, per quanto consapevole dei guasti e dei disastri che provocava a se stesso e agli altri, non riuscì mai a smettere.
In realtà, non poteva smettere né di bere né di leggere né di scrivere perché non aveva mai appreso. In altre parole, non aveva mai scelto.

Chi è che non può scegliere? Chi è che non conosce la libertà in quanto responsabilità di una scelta? Il bambino, questo essere polimorfo il cui corpo non è ancora separato dalla mente; che perciò è al di qua di ogni differenza sessuale, di ogni esibizionismo, di ogni perversione; che ama giocare, provare godimento; che lascia il piacere agli adulti, questi esseri retrospettivi che per tutta la vita cercano inutilmente di ritornare bambini, di godere come bambini: «la cultura occidental consiste en matar un niño, todos pensando todo el tiempo cómo matar al niño».

O, al massimo, colui a cui le porte dell’età adulta sono state ostruite, l’eterno adolescente, «el bebé muy viejo» (Hector Libertella): per il quale la sola autorità è la propria esperienza; l’unica umiltà il «delirio de grandeza»; che riproduce come un sismografo tutte i registri dell’espressione linguistica: la psicoanalisi, il gergo filosofico, il parlato con le sue eresie plebee e i suoi tic intellettuali; che li ripete, li nega, li spezza non tanto per accentuarne il realismo o il colore locale quanto per farne cogliere meglio l’artificio, la rappresentazione; i cui confini sessuali sono incerti; che mostra irriverenza nei confronti del mondo degli adulti: «tutta la letteratura può essere definita come irriverente. Lo scrittore non dice mai banalità»; che è sempre pronto a lanciarsi nelle braccia scheletriche della Storia, nei suoi senza nome (operai, sindacalisti), nelle cadenze del popolo; che come il popolo, a differenza dei suoi ideologhi, non guarda indietro: «L’estetica del populismo è la malinconia»; che ama le rivoluzioni, le discussioni nei caffé…
Allorché Lamborghini, a causa di qualche disavventura notturna o per una lite con un’amante, che non ne poteva più delle sue esagerazioni alcoliche, era costretto a trovare rifugio in un hotel o in una stanza d’ospedale, oltre ai suoi quaderni a righe non mancava mai di portare con sé l’essenziale: il Martín Fierro, Kafka e Rimbaud, le sue letture di sempre. In una di queste occasioni, nel 1981, scrive a un amico, qualcosa che assomiglia a una perfetta dichiarazione di poetica:

La mia opera è un brutto scherzo dell’insufficienza, non l’esibizione di non so quale superiorità o audacia nei confronti delle forme “tradizionali”. Il suo scenario è l’identificazione profonda in un segno: el pibe Rimbaud, il ragazzo Rimbaud, liceale premiato in versificazione latina che a Charleville (Pergamino) riceve la notizia della Comune di Parigi e parte in quella direzione, non verso la follia, ma piuttosto verso “l’inadeguatezza”.

Solo un anno prima, in una delle sue rare interviste, il quadro era già in piena luce:

Rimbaud dice me ne vado, bisogna intendere che viene; dalla prospettiva francese uno pensa che Rimbaud se ne vada e immedesimandosi se ne va con lui. No, tu non te ne vai con lui, te ne stai qui ad aspettarlo. Il fatto che se ne vada vuol dire che se ne viene da queste parti; in Africa, nelle pampa argentina, per Rimbaud è la stessa cosa.

Come el pibe Rimbaud, così el pibe Lamborghini, l’ultimo dei moderni… La sorte gli gioca un «brutto scherzo»: quello di appartenere a una generazione in cui, come scrive in una delle sue poesie più esemplari, Prosa cortada, regna «il Manierismo/Protervo, l’occultamento dalle gambe/Corte della mancanza di talento». E da questa «insufficienza» che è l’Argentina storica e immaginaria della sua opera («Proprio perché l’Argentina non è né una razza né una nazionalità, ma uno stile e una lingua, non si deve rinunciarvi»), l’ultimo dei moderni attende il suo capostipite in fuga da Charleville, in fuga dalla poesia. Da qui «l’inadeguatezza», non «la follia» che non è altro che «una segunda juventud», di Lamborghini. Come, infatti, far coincidere la poesia con la Comune di Parigi, con il traffico d’armi a Harrar, senza cadere nella trappola del compromesso politico («La historia no tiene autor») o nel silenzio? Che cosa significa scrivere poesia tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, aspettando Rimbaud in una stanza d’hotel di Buenos Aires?

§

POESIE
di
Osvaldo Lamborghini

La perdizione, un pullover chiaro…

La perdizione, un pullover chiaro
con lo stemma dell’Università:
ma,
la perdizione non è universale.
È un sapere esclusivo per esseri
delicatamente e abiettamente particolari.
Io sono quello che ieri parlava e basta.
Ma ora è il silenzio:
il silenzio, disse lui come un prigioniero.
Di fronte a una solitudine troppo popolata
le sirene si trasformano in pietre
e gli uomini
gli uomini in sabbia iniqua.

Così il canto vibra in un abisso di promesse.

Le navi ancora una volta
e ancora una volta le lettere.
Chiglie nell’acqua che pulsa
come la corda più certa di una cetra.

Scaltra.

Ti amo Elena
consapevole della mia ignoranza.
Mi resta la cetra
mi resta l’acqua
l’asfissia di chi non ha nulla e canta
per far arrossire gli dei.

Nell’ebbrezza tutti i leopardi
si alimentano e nutrono, con latte di donna.
E le donne stralunano gli occhi
(tutto è detto).
Menzogna: io volevo dirle.

2

Ma mi sono interrotto perché
(questo perché!) siamo entrati in un fiume d’acqua
d’acqua scura
che invitava alla miserabile loquacità dei mercanti ubriachi
e alla gravidanza delle nobildonne
specialiste in patrimoni e dipinti, e
e niente. Una era mia madre
felice di incontrarmi di nuovo e io felice
di poterle dire: «Là nel mare ho sempre
sentito la moneta della tua mano sulla mia testa, il tuo peso leggero,
e invece ora che mi guardi, qui nel fiume,
mi spoglio del sale, dell’Eden del sale,
ed è il tuo corpo
il tuo corpo che m’inonda».

Pausa.
Respiro.

Parentesi.

Perché mento?
Se quel che desidero è che il tuo corpo mi avvolga
come un mozzo che contemplando le sartie
crolli sulla coperta della nave
per un innocente tremito di paura.
E tu, perfetta, te la ridi
e cammini
cammini per Buenos Aires
senza eresia sulle labbra
senza mai
dico mai
pronunciare la frase
«L’imbecille di tuo padre»

3

Ritorno dal mare e desidero
desidero
con i polpastrelli delle mie dita abituate alle corde
accarezzare il volto imbecille di mio padre.
Raggiante si volta verso di me,
per un istante abbandona lo splendore delle sue armi
e decide
pronunciamento
di non pronunciarsi
di procrastinare l’ultima eterna guerra
(solo per un istante)
per dirmi solo per un istante
«come stai, come stai e perché
da codardo hai interrotto il tuo viaggio?»
«Il fatto è, papà, padre, che sono omosessuale»

«Bah, figlio mio, questo
fra uomini non ha importanza».

4

Quanti fiori in un cuore avvizzito!

***

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky…

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky
Giocando come sapeva giocare lei
con l’intatta possibilità di non berlo:
Vergine lo svuotava in un sorso.
Poi sorrideva e poi ancora
Faceva tintinnare il ghiaccio nel cristallo.
Sono cose fondamentali:
Perciò prendemmo la decisione di parlarci –
Come una fiala di droga
Con cui lei sapeva giocare
A lasciar intatta, si osservi la nuance,
fino a domani o mai:
C’era a quei tempi
la certezza di nessun dopo,
Di sorridere a ciò che eravamo,
Tombe contigue e baci, baci illesi,
Palpabili fino all’estinzione.

Ora lo spazio volteggia lento,
È venuto il tempo e quel che rimane
di un perfetto dopo sentimentale.

Ce n’è ancora, ce n’è ancora molto
Ora non è né domani né mai.
Semplice,
è il passatempo, la poesia e la verità.
L’imene che canticchia una canzone
come se stesse davvero cantando.

***

Ancora palline di mercurio

1

Nella posizione di cantare, nella posizione di morire, perché vantarsi della morte, nella posizione di sottoscrivere il mio testamento mentre la pioggia scrosciante di imprudenza inonda il patio, mentre non riesco a comporre ma neppure dispero
vediamo un po’ questo coraggio
no: capisco, ma mi dispiace; la prossima volta sarò, come ho detto in passato, allorché posavo da espressionista nella metropoli peccati
malgrado questo andiamo, mondialmente e ancora
questa paura
perché? – mi piacerebbe che me lo dicessero, sebbene mi neghino un bacio, con le labbra – perché non sottomettersi a questa paura, a questo panico vero?
la pioggia continua
sono malato
sto aspettando il mio pasto (stratagemmi), il ritorno del carissimo, dell’affettuoso Sebas, che ho offeso per alcune miserabili pagine di quaderno, che ho trascinato nelle mie avventure cliniche, sottoposto a prove di suggestione e ipnosi, affidato alle cure dello Psichiatra Korps, e: vulcanizzato con una cascata di farmaci anali e: anche ai traduttori
pervertendo la sua essenza

Piove molto

Mi si chiedeva di scrivere, semplicemente questo: che scrivessi
e non ho potuto farlo
perché oltre
oltre
oltre
Bene, è così – già – quasi la slealtà di un’indecenza
affamato di teorie
come tutti i casi limite
l’orrore di aver tradito il patto (non ho scritto) e la logica violenta
del castigo che mi attende
essere letto
sarò ugualmente letto…
sebbene non abbia scritto!

2

Continua il dogma delle mie apparizioni

Su tutti i pulpiti di cedro
oggi sono cresciute le rose
suonano le campane
e si stampano annunci di nozze avventate.
Per quanto il semicerchio si trasformi in cerchio e il poeta in teologo
siamo una sola corruzione
ho detto a mia moglie
e ora verrà la pace dell’odio calmo
in camere a priori separate
Padre Carlo mi aveva confidato
che infliggendoci questo matrimonio
ci saremmo nutriti di una carogna
ma gli ho risposto che l’odio
l’odio è un sacramento
e che non posso permettermi il lusso di non scrivere versi
limando l’opera con l’innocenza di un monaco
stanco dei fallimenti pagani
Padre Carlo fuma
Anch’io fumo
Entrambi abbiamo le dita gialle di nicotina
L’arte doveva finire così
Come una gallina a cui un prete e uno psicologo hanno tirato il collo
E con l’aiuto del sesso
poi
la gente se ne va confusa
come…
bah! le epoche che precedono le guerre offrono questo genere di problemi
e se l’arte è sempre un happy end
il sacrestano alleluia! ha già preso le sue precauzioni
A Treblinka tutto filava alla perfezione: secondo giustizia
come Cristo indica dalla croce

Cristo fuma
Getta il mozzicone e un centurione
lo raccoglie per un’ultima tirata
Tra il calcagno e il miracolo

3

A causa della mia angelica incapacità di pregare
sono finito per diventare il trickster della poesia argentina (Argentina!)
sono finito anche se non mi annoio
vivo in famiglia e ho sperperato
tutto fino all’ultimo soldo
per quel cazzo di funerale di mio padre.
Sto pensando anche di sposarmi e di scrivere
(«O preferisco ritornare all’ospedale?»)
avanguardie di romanzi come ordina il mio medico e amante.
Chi si annoia è la Divinità
proprio lei
che mi ha costretto a scrivere auto da fé.

Certo, riderò bene e per ultimo
ma quando prenderò i voti
poterò l’albero
questo è un frammento
anche se i puntini di sospensione
– li detesto

Sarò lo
Lo Sposo Esemplare
Generosamente mi dissocio
Lascio il sesso ai retori

 §

 

Osvaldo Lamborghini nasce a Buenos Aires nel 1940. Nel 1969 pubblica il suo primo libro, El fiord, un racconto in prosa che circola di mano in mano, sebbene si venda solo in una libreria della capitale. César Aira, amico, scrittore e curatore dell’opus di Lamborghini ha scritto che «anche se non fu mai ripubblicato, fece un lungo cammino ed ebbe il destino dei grandi libri: fondare un mito». Nel 1973 esce un secondo libro: Sebregondi retrocede, che ha la stessa sorte del primo. Sempre nel 1973 Lamborghini si lancia con alcuni amici scrittori in un’altra avventura: Revista Literal (1973-1977) che, come tutte le riviste che segnano un’epoca, dura pochissimo, due o tre numeri. In Literal pubblica alcuni saggi e diverse poesie. Nel corso degli anni settanta, di Lamborghini, se si esclude qualche edizione artigianale e stravagante, si perdono editorialmente le tracce. Le sue poesie e i suoi racconti calamitano tuttavia molti aficionados, diventando oggetto di culto. Nel 1980 esce il suo terzo e ultimo libro pubblicato in vita, Poemas. Dopo una breve stagione tra Mar de Plata (dove fonda una Scuola freudiana di Psicoanalisi) e Pringles, decide di andare a vivere a Barcellona. Malato, torna in Argentina nel 1982. Nel 1983 è di nuovo a Barcellona, dove morirà due anni dopo, nel 1985. Gli anni catalani, trascorsi in volontario isolamento, saranno per Lamborghini estremamente fertili e culmineranno nella creazione di un’ampia opera prosastica, il ciclo Tadeys, e nell’elaborazione del Teatro proletario de cámara, un’opera allo stesso tempo poetica, prosastica e grafica.

Da “Previsioni e lapsus”

6

di Luciano Mazziotta

maturità berlinese I. errori per una riconciliazione

.

*questo si chiama l’errore, che ruota attorno a una cosa e quando la centra, la cosa o invischia o risucchia. si tratta di una dispersione, attenuata, un pezzo per volta, ma che prima o poi viene fuori, quando non è più possibile mimarne l’integrità. e c’è di più o così si direbbe. c’era un di più che non appaga tuttora, nella berlino che ovunque l’occhio si giri le vede, la siegessäule e la turm. ma lì, da quella vasistdas, a neukölln, non c’era che un albero due turchi e un io che fumava e che quasi cadeva, senza orientarsi tra l’ovest e l’est.  e allora provava a rientrare, per poco, almeno

Una cosa che torna ciclicamente sui ragazzi fin dai tempi di Flaubert

1

di Gustave Flaubert

Jesús Madriñán, fotografia tratta dalla serie “La escena”.

Una mattina di dicembre, nel recarsi alle lezioni di procedura, gli parve che in rue Saint-Jacques ci fosse più animazione del solito. Gli studenti uscivano a precipizio dai caffè, o, si chiamavano, di casa in casa, dalle finestre aperte. I bottegai sul marciapiede si guardavano intorno con aria preoccupata; le imposte si chiudevano, e, quando arrivò in rue Soufflot, notò un grande assembramento intorno al Panthéon.
Alcuni giovani, in drappelli diseguali dai cinque ai dodici, procedevano tenendosi a braccetto e s’avvicinavano ai gruppi più considerevoli che stazionavano qua e là. In fondo alla piazza, contro i cancelli, uomini in blusa arringavano, mentre le guardie municipali, tricorno sulle orecchie e mani dietro la schiena, vagavano lungo i muri, facendo risuonare il lastricato sotto i loro pesanti stivali. Avevano tutti un’espressione misteriosa, stupita, come se trattenessero un’interrogazione a fior di labbra; evidentemente si stava aspettando qualcosa.
Frédéric si trovava vicino a un giovanotto biondo, dal volto distinto, con baffi e pizzetto come un gentiluomo dell’epoca di Luigi XIII. Domandò a lui la causa del subbuglio.
«Non ne so nulla» ribatté l’altro «e neppure loro! Oggi si usa così! Che razza di commedia!»
E scoppiò a ridere.
Le petizioni per la riforma elettorale, che si facevano firmare presso la guardia nazionale, assieme alla proposta di legge Humann sulla revisione delle liste di leva, e anche altri avvenimenti, provocavano da sei mesi inspiegabili adunanze di folla; e anzi, si rinnovavano così sovente che i giornali non ne parlavano più.
«Manca di linea e di colore» continuò il vicino di Frédéric. «Opino, messere, che abbiamo degenerato! Ai bei tempi di Luigi decimo primo, e addirittura di Benjamin Constant, serpeggiava più ribellione tra gli studenti. Io li trovo pacifici come agnellini, sciocchi come rape, e idonei a fare il droghiere, santo Dio ! E questa la chiamano Gioventù studentesca»

[da L’educazione sentimentale, di Gustave Flaubert, Oscar Mondadori, pp. 71-72, traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli]

Otto poesie

12

 

di Stefano Salvi

Da “Il seguito degli affetti”

Eppure chi vede, altro non vede
che questo: certe visitazioni. E favoriscono
nella remissione atmosferica.
Tempo di luce forte, ad aria
chiara, ripetendo le pose del fuoco ed il solo
punto di voce – gli agi di commozione
vengono a due a due:
i segni del raccolto sono di epoca
di un approdare visibile, come
il raggio del risveglio, scomparso
dalle abitazioni,
soccorreva la cognizione degli astri
scanditi attorno all’avvento.

Neanche più una minima notte
da nessuna parte. Dall’interno dell’acqua si scende
nel bosco, come da uno stelo calmo
a quello successivo. Perciò
verso l’albore
una mano premuta sul fiume.

Presto prima della pietraia
sempre due respiri. Anzi neanche.

A lungo tieni
il gelare in molte parti,
fino a che si offusca. Altrimenti
saresti continuamente
in una primavera eseguita fino dalla
spaziatura minerale.

Nei rami l’assoluta persona per la notte, nella
parte più fresca delle mani,
per quante nubi configurano, a volte,
e forme di volto in volto
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
in tutto un anno trovi
nel fondo buio,
le cui estensioni ed aspetti mantengono il vento.

Ogni stagione valuta vene proprie
i visi fissati alla spina.

Ed è bene distinguere dalle attenzioni
dell’acqua i vivi in intimo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E in queste vene dure quello che toglie
all’erroneo è il cavo
nelle foglie – solo così guardi con cura: dopo spinta
un’acqua accesa a sciamare, nelle ore di notte.
Non esiste la neve, con
evidenza, ovunque, e non si possono
scoprire lumi neanche su un sonno.
L’equilibrio in una traversata diurna
è più forte, perché si trova solo ciò
che mette eco; sarà sempre possibile
questa durata, nel valico delle figure, dove gli oggetti nel mare
sono più visibili. E non c’è tenue confine
per generare il fuoco: soltanto, in apparenza,
è concesso di giungere. Anche il seme, quando porta
chiarore, come
i nomi in cielo, apre un incaglio, compie. Proprio
il molto numero delle soglie dice
l’elevazione trovata.

Il segno per le materie eruttive
scompare, come sempre fa ogni rovo: aperto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E non può trovarsi nelle mani
niente altro che ciò che fai in parti.

Le mani irrigidite dopo essere stata
vicino all’acqua, e

aperta a tutti i rigori del Sole.

Si legge il firmamento, con i momenti si termina per
decifrare i rilievi del mare
e si vuole essere i visi penultimi,
la rosa incessante di tutti.

Osservi il percorrere gli alberi, come è descritta
la latitudine necessaria,
le circostanze delle immagini.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dove la pietra è calma
si trova la parte dell’innesto.

Da “L’avvenimento del terreno”

Nondimeno nel tuono si compie
il nome del grano, in queste cose fra la bocca dei morti:
qui, preme con lo squarcio lo strato delle api
che distende la spiga,
e non un rumore, e non un fondo di foglie
a vedere il cielo che sostenta
di quel sale vasto dell’insetto, della figura vagamente inoppugnabile
che danno sul terreno gli scopi estranei alla vita degli alberi,
e dove arderai il cuore.
Scheggia il tocco ripetuto
dell’erbaio: qualcuno, più d’uno, ha,
dall’incandescenza del palmo,
l’invenzione delle radici, che feconda; poco è
avvolto in sogno nella
specie delle ossa.
La condizione di amato non ha nome.
Chiusa nella tua bocca, temi
che la forma del bacio possa fare cadere, e farti infrangere
la terra e trascinarti infine.

Importa conservare l’imbattersi nel suolo dal
ramo che cade, non perdere sangue: a pochi istanti,
le foglie rafforzano il sentiero. Talora,
riposano dal volto di vivo
le sorti la cui bontà
è il piano guardare, andando a fondo dell’erba.
Sempre, il fulgore, se dai morti,
è per il suolo parte delle membra:
al termine del percorrerlo
essi non servono due volte, non riescono delle piaghe,
nelle mani dove è di maggiore rumore, una caduta, lenta di gocce.
Il fine cui tendiamo non è
essere in lacrime, invecchiare
l’interno della terra.

Da “Il modo dell’albero”

III

E stai / con le occasioni minute delle nubi,
coinvolta di sottili mani

– e dai segni, dell’intridere dalla
trasparenza, il cielo mostra i tepori
di minuto in minuto: nel giardino dove viene incontro
il tuo lasciarti tagliare per la bocca.

 

[Foto: Rinko Kawauchi.]

I maledetti toscani

28

Cosa succede in Toscana
di
Vanni Santoni

Cosa succede in Toscana? Parecchio, succede. Mi spiego. Ho cominciato a scrivere non troppi anni fa, su Mostro, una rivista letteraria fiorentina. Aveva contenuti buoni per una rivista autoprodotta, e tuttora considero cruciale per la mia formazione la prova del confronto immediato con autori con più esperienza di me; tuttavia erano – eravamo – ragazzi, e pativamo una mancanza di connessioni, di “scena”, in città; di gente con cui confrontarci, con cui stipulare alleanze o da tenere come pietra di paragone. La scena, a nostro vedere, eravamo noi stessi, più qualche unità, qualche scrittore più famoso che andava per la sua strada e con cui non avevamo contatti. Non si trattava di una nostra mispercezione: ricordo che, qualche tempo fa, intervistando per il Corriere Fiorentino Sergio Nelli, scrittore della generazione precedente alla nostra, egli lamentasse che negli anni ’80, all’epoca del suo trasferimento in città, non ci fosse scena letteraria, tanto che i primi sodali andò a trovarseli a Milano.

Oggi, invece, quella scena, a Firenze, c’è. In embrione, per certi versi; scollata, senza dubbio; ma esiste. Si è pian piano coagulata attorno a luoghi come la libreria La Cité, eventi come la prima e unica edizione del festival Ultra, riviste che hanno raccolto l’eredità di Mostro come Collettivomensa, serate “aperte” come Torino una sega, e si è riconosciuta e “contata” quando, l’anno scorso, c’è stato da lottare contro un “festival” assai discutibile che, in modo del tutto avulso proprio da tale embrionale comunità (o da qualunque altra istituzione culturale cittadina), veniva a speculare sopra le aspirazioni degli esordienti. Va da sé che dopo la battaglia il gruppo si è nuovamente sfilacciato – c’è stato, e c’è, un seguito, che si tradurrà magari in eventi e iniziative, ma di fatto ognuno ha ripreso la propria strada –, ma niente è più come prima, perché questa comunità di scrittori adesso esiste, e si collega anzi a una più ampia nuova scena regionale: di recente il critico Raoul Bruni, sempre attento alla contemporaneità e a quanto avviene nel nostro territorio, mi ha invitato a partecipare a un’antologia che documenterà questa nouvelle vague di autori toscani sotto i quaranta; va da sé che ho accettato, e il roster dei nomi è assai interessante: Simona Baldanzi, Diego Bertelli, Filippo Bologna, Silvia Dai Prà, Francesco D’Isa, Fabio Genovesi, Simone Ghelli, Ilaria Giannini, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Gregorio Magini, Paolo Mascheri, Francesca Matteoni, Ilaria Mavilla, Valerio Nardoni, Sacha Naspini, Federico Parlato, Flavia Piccinni, Alessandro Raveggi, Luca Ricci, (Vanni Santoni), Marco Simonelli. La nuova scena esiste, scrive e, da buon embrione, cresce rapidamente: a livello numerico, ma anche qualitativo. Sono infatti usciti di recente in libreria due romanzi, a firma di due scrittori inclusi nel gruppo succitato, che marcano una crescita decisa per loro e, più in generale, per la scena.

Il primo è I provinciali di Ilaria Giannini, uscito per Gaffi lo scorso novembre. Rispetto al suo esordio Facciamo finta che sia per sempre (Intermezzi 2009), ne I provinciali Giannini segna un cospicuo progresso stilistico, trovando nella lingua parlata il punto di forza del proprio registro. Lo dico con cognizione di causa: ho passato tante estati d’infanzia e di adolescenza in Versilia, e quando ho letto passaggi come

«Eh no, eh! Non rigira’ la frittata come sempre! Non m’hai nemmeno chiesto come sto e poi sono io lo stronzo! Mi fanno male le costole, devo farmi una radiografia, magari c’ho qualcosa di rotto e come al solito te ne freghi».
«Ma smettila, tante storie per du’ colpi! Sempre il solito esagerato, il solito piagnone, avevi a ridargliele, è la metà di te!».
«Ma se m’ha preso di spalle, quel codardo! Mi vuole ammazza’, te sei sposata con un pazzo!».
«Lo sapevi che ero sposata, ma finché c’era da scopare andava bene, eh? Dai, Emma, rilassati, non lo saprà nessuno, è il nostro segreto, ci penso io a te! Lo vedo come ci pensi a me, per fare i tuoi comodi e basta!».
«Ma falla finita, i miei comodi un cazzo, i tuoi comodi! Qui no, a quell’ora no, c’ho da badare alla bimba, mi’ ma’ sta male, il mi’ marito m’aspetta e io lì, come un bischero, è un mese che cambio tutti i turni per te! Ma basta eh, mi basta e mi avanza, scemo io a infilarmi in ‘sto casino per una come te!».
«Mi fai pena, te una come me a vent’anni te la potevi giusto sogna’ da lontano, ma guarda con chi mi so’ confusa io! Lasciamo perde’…».

..ho avuto un immediato déjà-vu dei genitori di un mio amico, i quali, ogni volta che andavo a giocare da lui, sentivo litigare nell’altra stanza. Quelli del passo riportato sono amanti, non coniugi, ma la parlata, il taglio, il modo di inserire la risposta sulla frase precedente, sono quelli. Non so quanto, viste da fuori, le diverse declinazioni del toscano si assomiglino; viste da dentro sono molto diverse tra loro, e il “basso versiliese” di Giannini è di un’esattezza indiscutibile. Il romanzo è infatti ambientato a Bozzano, frazione di Massarosa, piccolo centro della Versilia “profonda”, quella senza Twiga, “Forte”, Bussola né Principe di Piemonte, e la virtù principale dell’autrice è quella di cogliere la lingua della propria terra (e riprodurla, perché quando si va a trasferire un parlato innervato di dialetto sulla pagina scritta, non basta la fedeltà: va ritrovato un equilibrio nella rappresentazione, che è differente da quello “reale”) e usarla per raccontare, attraverso un continuo dialogare, che avviene sovente attorno al fulcro della cucina di casa, un micromondo magari odiato dai suoi personaggi, ma irrinunciabile, perché lì fuori davvero non c’è più niente, e questa famiglia, sfibrata, disfatta, disprezzabile, fonte più di pensieri e dolore che altro, resta comunque l’unica cosa che possiedono.

Il secondo romanzo è Nel vento di Emiliano Gucci, in libreria da pochi giorni. Gucci, veterano delle lettere locali – è il suo quinto romanzo, dopo pubblicazioni con Fazi, Guanda, Elliot – esce per Feltrinelli con un romanzo esistenzialista di grande pregio: sotto la patina apparente del concept book – vi si racconta infatti la vita di un centometrista, presumibilmente di rango internazionale, attraverso i pensieri che si manifestano nella sua mente lungo i soli dieci secondi della gara –, Nel vento si rivela subito come un libro potente, e lo fa innanzitutto attraverso lo stile. Gucci raggiunge infatti un’economia e una precisione notevolissime, e scaraventa il lettore all’interno delle stanze mentali del protagonista – perché più che dedali sono stanze, ricolme di immagini, traumi, frustrazioni, istanti di chiarezza percettiva (brillanti quelli sul “puzzo di atletica” e sul rumore dei polmoni dei piccioni), tutti sempre visibili sul palcoscenico del ricordo, come installazioni permanenti e terribili – delineandolo come se si trovasse, lui, frutto di quelle esperienze, frutto di quei ricordi, a essere parte di un gioco cosmico nel quale non esistono ormai che dieci elementi: la pista, la folla sugli spalti e gli otto centometristi – lui stesso e gli altri sette, definiti nella sua mente solo da numeri, e pronti a buttare, come lui, tutta una vita in quei dieci secondi. E tuttavia non siamo di fronte a un romanzo sull’atletica: si parla di atletica, si corre in una pista di atletica, c’è il pubblico dell’atletica, si parla anche di sponsor, allenamenti, doping, ma Gucci riesce a far essere Nel vento un libro su qualunque sport. Di più: su tutti quegli sforzi umani nei quali una lunga e dolorosa preparazione viene spesa in un attimo brevissimo.

Questa assolutezza di visione è il punto di forza del romanzo, tanto che tramite di essa Gucci riesce a centrare un secondo obiettivo, quello di “uscire dal giardino di casa” senza cadere nel vizio opposto, ovvero l’esterofilia forzata: se alcuni nomi che si incontrano lungo la narrazione suggeriscono che il protagonista sia italiano, non lo sono ovviamente i suoi avversari, ma soprattutto tutto il libro si svolge in uno scenario sospeso dove non c’è traccia di specificità locali; anche il vissuto del protagonista è costituito dai soli snodi traumatici, omettendo quell’esistenza di provincia che con ogni probabilità ha fatto da contorno alla crescita di un uomo che oggi è arrivato a giocarsela in una finale importante, forse addirittura olimpica – forse, di nuovo, perché molti sono i non detti nel testo, che contribuiscono a trascinare il lettore in un mondo fatto esclusivamente di elaborazione mentale – il cui racconto però non ci parla di lui, dello sport o dell’agonismo, ma del dramma di essere vivi, e in scena, nostro malgrado.

Da “Wasurenamu”

8

di Valeria Ferraro

.

bisogna considerare
chi ti ha manovrato
assemblato ispezionato
curato levigato
con assoluta pietà
tutta la gente che vedi
ha stigmate
profonde come le tue
– è sopravvissuta –

Rue Franklin

1

 

di Davide Vargas

È un bacio leggero che un ragazzo poggia sulle labbra di un altro giovane orlato da un pizzetto rossiccio. Poi si toglie il berretto e brillano due occhi. Allungati, truccati e verdi. Bellissimi. Ha la testa rapata. Il cielo ha il colore dei fumi di scarico delle macchine che passano su rue Beaubourg. I due ragazzi si avviano verso l’ingresso alla biblioteca del Centro Pompidou. Nella piazza c’è già la fila che parte dalla fontana Stravinsky, si allunga fino al cesso chimico tra i grandi aeratori bianchi e poi rigira. Tutto per la mostra di Salvator Dalì. Forse per la pubblicità, dice con i suoi denti bianchissimi. Perché è facile, risponde il ragazzo con gli occhi imbruniti e gli accarezza lievemente il culo  rivestito dalla tela di un jeans largo e cadente. Si sorridono. È una libertà tenera. Quasi languida. Come la luce che si impasta con i toni bruciati dei platani arrampicati nel cielo che si scurisce ancora. Una cosa diversa dalla furia di Dean Moriarty. Altri tempi e altri luoghi. Davanti al centro Pompidou c’è una grande scultura: la testata di Zidane a un Materazzi che ha sul viso la smorfia della colpevolezza. Una visione di parte. Come tutto ciò che riguarda le colpe. La gente si fa fotografare. Arriva ai polpacci dei due giganti. E nella fontana di Tinguely non c’è acqua e sul pelo del fondo umidiccio i pacchetti di sigarette restano incagliati tra i meccanismi gli ingranaggi i cavi. Le figure di alluminio scoloriscono. I due ragazzi stanno entrando.

Una voce che dice: Baudelaire. Una donna con i capelli crespi raccolti in uno chignon e due occhialini da topo come in una striscia di Art Spiegelman. Alle tempie i capelli sono ancora più crespi come le basette di un uomo. Un’altra segue il suo dito puntato all’edificio sulla Senna. Altri occhialini e un caschetto di capelli bianchi. Una targa recita: Baudelaire y vecut en 1842 et 1843. La lunga sequenza di finestre con gli scuri chiusi e spellati si perde in fondo. Un fronte compatto. Sull’altra sponda, l’Istitut du Monde Arabe. Da qui si legge tutta la forza urbana dell’intervento. È il terminale del fronte dirimpettaio. Si aggancia all’esistente e ricurva verso il corpo di fabbrica più alto. La facciata con i famosi merletti di metallo, meccanismi di tanti obiettivi fotografici. Praticamente ricurva verso se stesso. Dentro c’è una mostra di architetti arabi. Giovani. Marocco. Libano. Disegni e fotografie di opere. Roba interessante. C’è una specie di ingenuità. Senza malizia. Mi spiego: riferimenti a immagini mille volte viste. Ma glieli concedi. Sono quasi necessari. Cosa che non sei disposto a tollerare altrove.  Sarà la solidarietà tra chi vive contesti difficili. Eppure non c’è paragone tra i dolori. L’altezza della sala non supera i due metri e venti. Una bella sensazione. Lo spazio che occorre. Da noi non sarebbe possibile. La facciata appare congelata. Riflette i colori della città. Brandelli di cielo. Che si è schiarito. Oh, non molto. Un grigio-azzurro polveroso calato sulla città. I graffi degli alberi spogli. I platani solenni.  Magnificamente infelici. Le luci puntuali della città. I rossi dei semafori. Le luci arancioni. Bluastre. I gialli. Vapori di mercurio. I viola. Di sodio. Dal parapetto superiore si affacciano piccole persone come birilli. Giù sul lungosenna passeggiano un paio di persone fin dove possono. L’acqua è salita e ricopre dei pezzi di percorso. Una scala finisce nell’acqua torbida ed una bella madre bionda controlla i movimenti di un bambino con un cappello da aviatore che gioca sui gradini. Sarà per il vuoto del fiume. Sarà per il profilo interrotto. Sarà perché ai lati del ponte un clown si sta preparando con le sue cianfrusaglie. E i bambini trepidano. Sarà per tutto questo o no, ma tutta la massa di urbanità che ci incombe ogni giorno sulla testa sembra aprirsi. Sfilacciarsi. E alleggerirsi.

Una vecchia valigia da emigrante aperta nell’androne. Uno spazio stretto buio e allungato nella palazzina incastrata tra una boulangerie dove si fa la più buona baguette della città [ certificato, sì ] e un banco che negli ultimi giorni dell’anno è colmo di vassoi di ostriche impacchettate e infiocchettate. Poggiata al muro con un cartello: servez vous. Vecchi libri che a fine settimana verranno buttati. Ingialliti. Improbabili. Ma la tentazione è forte. Le persone si fermano. Si abbassano. Malgrado le schiene doloranti per l’umidità feroce che punge le ossa. Sfogliano le pagine secche come le foglie. Alcuni riposano il libro. Altri lo infilano nelle borse o nelle tasche. Una boucherie ha un vano nell’androne. Un olezzo di carni e spezie si diffonde. Roba forte. Le copertine colorate stanno lì. Andranno a rifiuto. Mentre scrivo a duemila chilometri lontano un libro è qui. Come un souvenir. Non lo leggerò mai ma la storia c’è ed è salva.

Parigi è rue Franklin in una giornata di pioggerellina fine. Sali e ti ritrovi a tu per tu con la pelle a fiorami dell’edificio di August Perret. Un rivestimento di ceramica, fiori carnosi aperti e incastrati. Come un vestito di donna. La Tour Eiffel è mozzata dalla nebbia. Ed  un bene. Non siamo alla ricerca di icone. Alla Cité de l’Architecture & du Patrimoine lì vicino c’è una mostra sull’opera di Henri Labrouste. Bellissima. Una grande modernità. La sala di lettura della Bibliothèque Nazional de France è uno spazio di grande innovazione. Pilastri di metallo esili. Spazio fluente. Decorazioni significative. Un pensiero limpido dietro le forme. La casa di rue Franklin è del 1903. La struttura è in cemento. La prima opera in cui la struttura scandisce il disegno. I pilastri e le travi hanno rivestimenti in ceramica liscia. Quindi ne segui lo spartito distinto dai pannelli di tamponamento. La facciata si ritrae nella parte centrale e l’articolazione interrompe la continuità monotona della cortina. E poi tutti gli ambienti interni hanno la luce. Ci sono di fronte come una montagna di anni fa. Studente di architettura nel primo pellegrinaggio tra le opere studiate sui libri. E nella città dei sogni. L’America sembrava troppo lontana per le timidezze di un ragazzo cresciuto a chiedere permesso. Sono viaggi che ti restano nelle fibre. Quello che capisci e quello che no. Non che avessi capito molto di questa casa. Ma l’avevo vista. Da vicino e questo contava. Fino ad oggi. Con una diversa sorpresa. Il portoncino laterale si apre. Faccio in tempo a intravedere l’atrio rivestito di legno, un lampadario liberty e una seconda porta  a vetri che probabilmente porta alla scala. Nella mia memoria la scala è sul retro chiusa da una vetrata. Un vecchio ricurvo esce in strada. Ha gli occhi liquidi e malinconici e un paio di incredibili scarpe. Appuntite. Di vernice nera e lunghissime. Una cosa sproporzionata. Il vecchio fa pochi passi. Traballanti malgrado le grandi scarpe. E poi si siede sugli scalini davanti alla lunga vetrina. Lentamente come fanno i vecchi doloranti. Il cappotto si apre e la cravatta è allentata. Come il labbro che pende. Dalla vetrina si affaccia un giovane col cellulare che lo guarda negligente. Non mostra alcuna sorpresa. Poi rientra. È un negozio Bulthaup. Credo che la scaletta, il piccolo ammezzato circolare, i tubi verniciati di nero, gli infissi, tutto sia originale. Il vecchio resta lì con un’espressione un po’ caustica e sembra guardare il mondo con rimpianto. La pioggia infittisce. Molti anni fa c’era una ragazza. Era seduta sul marciapiedi e disegnava l’edificio di fronte che era come un accenno di abbraccio, niente di esagerato ma un sussurro moderno. Il s’agit d’un immeuble du 1903 – disse la giovane e gli mostrò il disegno con le dita nere di carboncino. Era vestita parigina e aveva una bocca fatta per dire cose dolci…Si, ricordo quella bocca così calma. Ricordo l’intonazione e le parole che pronunciò… e poi andarono insieme in un caffè e poi in giro per la città…Si, ricordo i nomi delle fermate. Stalingrad e la metropolitana fuori terra in mezzo alla città. La metropolitana affollatissima e le pensiline di Guimard. Parigi è i nomi… e la sera dormirono insieme. Tutto così lineare nel flusso della vita non l’aveva mai provato. Era la sua esperienza, non c’è che dire… E ricordo quella notte. Dalla finestra gli alberi si spegnevano insieme ai lampioni. La stanza con le minuscole riggiole scardate e le travi di legno al soffitto. E le tende …col volto sul corpo della donna ascoltò il cuore della città perlacea e pensò che ne valeva la pena. Naturalmente  tornò a casa e disse agli amici : Io andrò a morire a Parigi – e ci credeva veramente, sulla panchina difronte alla stazione che assorbiva i colori della sera. Leggo da una specie di diario trovato tra le vecchie cose. In terza persona. I ricordi affiorano e si precisano nel presente. Da oggi a ieri. Ma contro ogni logica il passato non resta immutabile dov’è. La seconda volta davanti alla palazzina di rue Franklin è ora di smascherarlo. Perché io so che non era vero. Non è mai esistita la ragazza e neanche la notte. Un’ invenzione e una libertà concessa alla costruzione della propria mitologia personale.

Ma Parigi è [stato] anche questo.

 

a Parigi, gennaio 2013

Il residence dei mariti di Roma nord

14

di Davide Orecchio

Nella mia città di nascita e vita c’è un residence dove capitano o hanno l’incubo di finire i mariti di Roma nord. Col petrolio di grandi e piccoli errori, debolezze, cattiverie, forse violenze, mediocrità, rabbia, mogli che non ascoltano, porte blindate da mogli che non ascoltano, spazzolini in assenza, dentifrici in assenza, non mutande pulite né camicie di ricambio i mariti di Roma nord sbarcano o hanno l’incubo di sbarcare al residence su via Candia, per un loro passaggio in purgatorio o inferno.

Venerdì 18 Gennaio: doppio appuntamento poetico a Milano

0

1) Dalle 15.00 alle 17.00:

Seminario di Giulio Marzaioli sulla ricerca compiuta nella realizzazione dell’opera Quattro fasi (Edizioni La Camera Verde, 2012), nell’ambito del corso di Tecniche e tecnologia della pittura tenuto dalla professoressa Teresa Iaria presso l’aula 3 dell’Accademia delle Belle Arti di Brera (via Brera 28).

2) Dalle 21.00 alle 23.00:

Presentazione del volume di poesia di Vincenzo Ostuni Faldone zero-venti (Ponte Sisto, 2012) presso la Libreria Popolare (via Tadino, 18), con interventi critici di Gherardo Bortolotti, Paolo Giovannetti e Paolo Zublena, coordinamento di Alessandro Broggi e presenza dell’Autore.

“In realtà, la poesia”: nascita di un nuovo sito

7

Luigi Bosco, Davide Castiglione e Lorenzo Mari sono i giovani  coordinatori di un nuovo sito di critica di poesia che mi sembra particolarmente degno d’interesse, stando alle premesse che si possono leggere nel post di apertura. Non che la critica di poesia sia assente dalla rete, ma permane tutt’ora l’esigenza di esplicitare criteri e nodi teorici del lavoro critico. Insomma, è importante (ri)definire in modo consapevole quale visuale vogliamo adottare nel nostro approccio ai testi cosidetti poetici.

IN REALTÀ, LA POESIA vuole interrogare il binomio “poesia e realtà” nel suo intrecciarsi fitto a partire dai testi e dalle opere, rilanciando la pratica del close reading e dell’analisi testuale. Lungi dall’essere un ritorno a paradigmi formalizzanti, l’approccio qui proposto considera i testi e le opere al tempo stesso tanto come prodotti – diretti o indiretti – di una data situazione storica, sociale e individuale, quanto come strumenti per interpretare o cercare di comprendere la realtà in cui si collocano e/o a cui fanno riferimento. Continua qui

I pericoli del racconto

3

di Enrico Palandri

Chi racconta delle storie non dice la verità. Liquidare però la realtà presentata da un autore come una storia, è più complicato di quanto appare a prima vista. Don Chisciotte, Madame Bovary ci sono presentati dagli autori come personaggi per cui la lettura è stata nociva, ha fatto smarrire il loro buon senso in un’eccitazione della fantasia. Sono però anche gli eroi dei loro autori che ci presentano dunque il loro modo di vedere il mondo attraverso un doppio specchio: chi leggendo si innamora di Emma e dell’hidalgo si ammala della stessa malattia e si associa alla loro condizione, ma attraverso la perdita di senso della realtà legata alla lettura ribalta con loro la situazione e mostra il mondo che li giudica quale esso è, inadeguato a comprendere e sentire, e non viceversa.

Ci sono dunque diversi piani in cui si percepisce il reale anche nel mondo bugiardo delle narrazioni. Chi racconta delle storie non dice la verità. Ma supponiamo di trovarci nella Lubjanka, o a Via Tasso, o a Guantanamo, e il poliziotto che interroga lo scrittore sospettato di tradire il comunismo o la patria, sottoponendolo a tortura, dica: non mi racconti delle storie… E che magari quello stesso funzionario, guardi un film al cinema, o racconti ai figli o ai nipoti qualche storia familiare come faceva mia nonna. Quanti diversi significati, e quanto contraddittori, assume l’espressione raccontare delle storie a questo punto?

Ai bambini viene raccontata una fiaba, ma gli si insegna anche che si deve imparare a rinunciare alla fiaba per crescere. Si racconta ad esempio di Babbo Natale, ma i bambini imparano presto che la frontiera segnata da quel racconto nel loro sviluppo è un rito iniziatico. Niente renne volanti, niente casa al Polo Nord, scoprono con delusione che i regali sono stati comprati dai genitori. La vera soglia sono loro, e raccontano una storia, cioè hanno mentito. E perché? Questa è la domanda dolorosa che si pone ogni bambino scoprendo che i genitori possono mentire. Impara a tollerare la paura attraverso narrazioni terribili come Hansel e Gretel, Pollicino, il figliol prodigo, ma impara anche a trattare questi racconti come storie appunto, che i genitori non hanno fatto altro che raccontare delle storie, e così la loro generazione, gli insegnanti e i politici, i preti e i poliziotti. Tutto il mondo, così come ci è stato trasmesso, appare a un certo punto come un insieme di storie, e storie false, superate. Non la descrizione di quanto è accaduto ma un uso della narrazione che consentiva ai padri di prendere una distanza dalle loro responsabilità ed elaborare ciò che raccontavano. Quelle colpe ci raggiungono intatte e il primo moto di ribellione è contro il modo inefficace con cui hanno tentato di fare i conti con il loro passato. Vittorie tradite, resistenze che non hanno resistito, gli anni di piombo. Bisogna ripensarci, riprendere in mano quel materiale e cercare questa volta di dire la verità. Uscire dalla loro narrazione e dire le cose come stanno.

Uscire da una narrazione dà per questo un senso di realtà: fuori dal racconto, fuori dalle storie c’è il reale. Finisce un’epoca politica, cade un regime, e tutto quel che quel regime ha detto ci appare una storia. Il più delle volte ci basta riconoscere il carattere romanzesco, la narrazione di quello che abbiamo appena lasciato. Sotto il fascismo ci dicevano che… Nel ‘68 gridavamo viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung…

Si impara così a far passare per l’immaginazione una catena di eventi sapendo che sono una rappresentazione delle cose, cercando di lasciare andare quello che non è più avvincente, ha esaurito la sua funzione, è appunto diventato semplicemente una storia. E così via, per tutta la vita ci avviciniamo a narrazioni che ci attraggono, ci aiutano a crescere e presto ce le lasciamo alle spalle, portandone le tracce in un tempo parallelo al presente, sotterraneo, che costituisce il tessuto di nuove narrazioni attraverso cui interpretiamo il mondo.

Queste storie sono antiche come il mondo. Ripetute in mille variazioni ci permettono di tenere vivo un senso di quel che viene narrato che è più profondo degli eventi che accadono. Lo condividiamo con gli altri animali: un cane che aspetta il ritorno del padrone, scodinzola e ripete un rituale di festeggiamenti, è già una narrazione. Un racconto si rivela falso, non funziona più, lei non mi amava o la mamma è morta, il comunismo era un incubo o la beat generation un gruppo di sbandati; lo si dice, lo si ripete e la cosa perde forza, restano solo parole e al di là di questa storia spezzata, dai suoi frammenti, rinasce una nuova narrazione.

Siamo fuori da quella storia e siamo già in un’altra storia. La narrazione della fine di quello che era e non è più. Sappiamo che le storie passano e far passare quanto è accaduto in una storia ci è necessario per liberarcene. Narrare, fare una narrazione, non essere prigionieri di una sola rappresentazione del reale ma usare ogni storia come superficie, forma, specchio, per rimettere in movimento la nostra comprensione, per far scorrere l’acqua.

Presto, scoperto il meccanismo di mascheramento della realtà attraverso il racconto, iniziamo a chiedere: ma è una storia vera? Nell’adolescenza ci si può così votare, contro la poesia e i miti, alla scienza e alla verosimiglianza, opponendo all’immaginazione degli autori l’indagine documentaria, i fatti, gli esperimenti e le prove, ma alla fine anche questa strategia si rivela composta essenzialmente di un carattere induttivo e narrativo, un romanzo che ha altre regole. Persino la scienza, come scrive Galileo in Contro il portar la toga è parente prossima dell’Ariosto, della fantasia. Insomma, la verità, a cui l’accusa di raccontare delle storie si contrappone, è essa stessa una storia, un libro, una narrazione. Che sia la Bibbia, i Vangeli o il Corano, o ciò di cui i libri sacri parlano, ammettendo di poter distinguere la trascendenza del contenuto sacro e spirituale dai testi dalle parole di cui sono fatti, persino il dubbio nichilistico e la sfiducia in qualunque verità ha forma di narrazione. Narrata è la giustizia e gli ordinamenti giuridici dei vari paesi, narrate sono fin dall’infanzia le vicende biografiche della famiglia, del paese, della nazione, del mondo. Narrato è il passato e il futuro e in queste storie noi viviamo ora insieme, ora in gruppi più piccoli, ora soli. O così ci sembra, perché come abbiamo postulato fin dall’inizio, le storie sono prima di tutto bugiarde: condannano tutto quel che accade ad apparirci.

Di fronte agli eventi quotidiani i giornali, le radio e le televisioni offrono narrazioni del mondo che gruppi diversi nella società consumano e nutrono confortando i propri assunti ideologici, religiosi, sessuali, tutto ciò che in noi già attende quella narrazione e l’ha preparata nelle puntate precedenti, vedendo confermati in ogni momento i giudizi che ha già dato sul mondo. Siamo tutti come Don Ferrante nei Promessi Sposi, bravissimi a convincerci di quello che già pensavamo.

Pensare è sia un tentativo di conformismo, di adattamento all’ambiente in cui siamo, alle sue regole attraverso le sue storie, sia l’avvertire il cambiamento e dunque ribellarsi per cercare di liberare il flusso, il punto in cui il contrasto tra forme che si svuotano e altri contenuti spezza la superficie, facendo sì che alcune storie diventino false e ci costringano a criticare il mondo da cui veniamo, mentre altre sembrano poter prendere forma e le aspettiamo.

Il potere politico è anche lui essenzialmente narrazione, ma una narrazione che cerca di non sapere cosa è, che vuole confondersi con la Storia. Affinché le sue narrazioni abbiano peso usa eserciti e prigioni, guida oppure piega a una visione del mondo il destino dei popoli. I partiti e le riunioni politiche sono caratterizzati da un interminabile narrarsi gli uni con gli altri la propria versione delle cose, quando c’è la fortuna di avere un parlamento, o l’imposizione di un’unica narrazione nelle dittature: la storia romana e la storia fascista ben saldate, oppure l’apologia di una qualche altra visione del mondo. Questa storia va creduta e nelle dittature diventa un crimine il credere qualcosa di diverso. Avere per la città individui che dubitano, che diffondono il dubbio, non è possibile. Individui che come bambini che vogliono crescere cercano di dire agli altri: questa è una storia, cresciamo insieme. Verso dove? Verso una nuova narrazione, certo, ma che si presenta sempre come la storia di Hansel e Gretel la prima volta che la si ascolta, una storia spaventosa e creduta reale.

Del resto, purtroppo, ciclicamente affiora una certa stanchezza per il moltiplicarsi delle storie e nostalgia per una unica storia che offra identità, il senso di essere quello e non altro e di poter credere che non di una storia in quel caso si tratta, ma della verità.

Cosa possiamo fare allora noi che temiamo il rinserrarsi di questo conformismo fatale, il bloccarsi del flusso narrativo in forme inadeguate? Un conformismo che precipita inesorabile verso la morte e la guerra, perché su quello si fonda? Probabilmente nulla, e così confermiamo l’accusa di essere ininfluenti, inutili, marginali. Come tutti gli intellettuali, i poeti, gli scrittori, i filosofi. Rientriamo così nel disprezzo nutrito verso Don Chisciotte e Madame Bovary, il disprezzo di chi taccia altri di intellettualismo e non considera il proprio mondo come narrazione, e vede in noi solo gente che racconta delle storie.

(questo bellissimo testo è l’omonimo capitolo di “Flow” , Barbera Editore, 2011, del quale NI ha pubblicato in passato il capitolo precedente, “Una nonna narratrice”)