
[ Bergen Belsen – Aprile 1945 – liberazione del campo ]
BENJAMIN BRITTEN
Requiem Aeternam and Requiescant in Pace
WAR REQUIEM [1962]
di Orsola Puecher
Ogni anno il ⇨ 27 Gennaio Giorno della Memoria, volenti o nolenti, si presenta una motivazione forte e contingente per scrivere, documentare e ricordare agli smemorati e ai negazionisti di turno la ⇨ Memoria dei Campi, titolo del documentario incompiuto sulla liberazione dei campi di concentramento nazisti, in cui ho vissuto fotogramma per fotogramma quest’ultima settimana, traducendone i sottotitoli:
Nell’Aprile del 1945 alcune troupe televisive con gli eserciti inglese e americano entrarono nei campi di sterminio nazisti e filmarono l’orrore che vi trovarono. Per decenni questo film e’ stato conservato negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra. Il documentario e’ rimasto incompiuto, con le tracce audio mancanti. Ma i registi, tra cui Alfred Hitchcock, avevano elaborato un testo per accompagnare le immagini…
Forse non è facile da comprendere, ma per chi ha nella sua famiglia le vittime di questa memoria, ripercorrerla è sempre un’esperienza da cui è difficile uscire indenni. Il passare degli anni, con le sue lontananze, le sue nuove perdite, acuisce questa sofferenza così particolare. Essa non è mai solo un lutto individuale, che ha sempre un suo termine di elaborazione, in cui al dolore vivo si sostituisce piano la dolcezza dei ricordi, ma si estende, si espande in spazi e tempi vasti e sempre più risonanti delle singole voci, delle storie personali che diventano epica e storia. Il corpo di chi non è tornato è tutti quei corpi ammucchiati, anonimi, irriconoscibili nella comune consunzione e diventa un grande corpo comune. Il dolore per uno si moltiplica milioni di volte nel dolore per tutti.
La pietà facile e l’edulcorazione dei fatti, l’approssimazione dei dati storici ad usum letterario, poetico o cinematografico, una certa estetica del dolore e la retorica a cui questo porta, inevitabilmente e forse involontariamente, non devono essere confuse con un’operazione di ricordo oggettivo dei fatti.
Memory of the Camps, montato a caldo a pochissima distanza da avvenimenti di cui ancora si sapeva poco o nulla, non fu portato a termine di sicuro perché avrebbe avuto un impatto molto forte a livello emotivo per la crudezza dei filmati, che perdura ancora anche oggi, che con certe immagini abbiamo un vissuto di già visto, che ne potrebbe stemperare l’atrocità, ma sopratutto a livello politico avrebbe scompigliato un certo clima di ripresa a tutti i costi, di euforia del dopoguerra che indusse per molti anni non voler riprendere in mano le fila di un momento storico tanto cruciale
Le lunghe sequenze silenziose della liberazione del campo di Bergen Belsen, che mostrano le SS costrette per contrappasso al pietoso lavoro di sepoltura, a mani nude, i Borgomastri dei paesi limitrofi e i loro abitanti costretti a capo chino ai bordi delle fosse comuni, le floride SS donne, ben pettinate, nelle divise impeccabili dagli stivali lustri, che ascoltano con visi impenetrabili il discorso in tedesco diffuso dall’altoparlante di un furgone, che le inchioda alle loro responsabilità, non hanno nulla a che vedere con la partecipazione generica al dolore delle vittime, con la pietà indistinta delle commemorazioni.
La convinzione forte che i Tedeschi non potessero non sapere quello che accadeva a pochi chilometri dai frutteti in fiore nella primavera e dalle linde fattorie, e che ne fossero complici, insieme alla definizione del sistema economico di sfruttamento legato ai campi di concentramento, erano sicuramente ai tempi un taglio molte forte, che sconsigliò, anche per motivi di opportunismo diplomatico, la diffusione e l’ultimazione del documentario.
Un dato sorprendente è la scelta, forse consapevole o forse dettata dalla mancanza in quel momento di informazioni precise sulle cifre delle vittime, di non focalizzare lo sterminio sulla Shoah ebraica, ma su tutti i deportati, quasi che universalizzando il male e non attribuendogli precise motivazioni razziali o ideologiche, esso fosse ancora più evidente e riprovevole. Oggi si tende facilmente a dimenticare il sacrificio di oppositori politici, omosessuali, zingari, persone con handicap fisici o mentali.
Questa sensazione di tragedia corale di uomini di tutte la nazionalità, idee politiche e religioni guancia a guancia in una tomba comune, dalla fredda elencazione di numeri ci riporta a una folla di visi, di sguardi, di maschere congelate nel momento del trapasso, di corpi morti per cui finalmente avere pietà e cura nei sette terribili giorni di funerali, ma anche vivi, esausti, barcollanti, nei sorrisi, nella rabbia, nella dignità ritrovata nell’indossare di nuovo vestiti umani. Di corpi che si sciolgono in gioia sotto il miracolo dell’acqua calda.
L’occhio della cinepresa sceglie di non nascondere nulla dei vivi e dei morti, dei sommersi e dei salvati.
Mio nonno Giorgio Puecher era uno di questi “politici”. Fu ⇨ deportato a Mauthausen dopo la fucilazione del figlio ⇨ Giancarlo, per estensione di colpa, per pura ritorsione e fu tra quelli che non riuscirono a tornare, annientato del tifo, pochi giorni prima della liberazione del campo.
La sua morte è descritta nelle pagine di un piccolo libro, uscito nel 1967, scritto da un suo compagno di prigionia, il militante socialista Mino Micheli, uno dei pochi sopravvissuti. Mi era sempre stato risparmiato di leggerlo. Ma ho vivo il ricordo delle lacrime di mio padre, del suo mutismo per giorni dopo averlo avuto fra le mani. Le lacrime di un adulto per un bambino sono sempre qualcosa di inaspettato e di indelebile. Riordinando le biblioteca l’ho trovato per caso, qualche tempo fa, nascosto dietro ad altri libri. Si è aperto da solo al punto esatto. Le pagine del breve capitolo XIII, da 122 a 128, sono staccate e spiegazzate, sfrangiate ai bordi e segnano una frattura nella rilegatura fragile del libro. Cosi ingiallite da sembrare quelle di un incunabolo. L’odore di fumo delle mille sigarette, misto a smog, cera del parquet di legno dello studio di mio padre, ancora lo impregnano così intensamente che, se chiudo gli occhi, rivedo la stanza nei minimi particolari, con lui seduto alla scrivania, concentrato e inavvicinabile, e ricordo persino la disposizione dei libri sugli scaffali a gruppi tematici.
Micheli scrive per ricordare i compagni, mantenendo una promessa fatta a loro, con una prosa viva e semplice, in certi punti anche molto profonda e apre sui campi una prospettiva inedita di umanità e di solidarietà.
L’educazione politica ha un grande peso nel comportamento dei singoli. Il politico vero, puro, qualunque sia la sua fede, anche nel fango di questa grande miseria, ti stende la sua mano pulita. [pag.28]
Per cercare di sopravvivere e di aiutare i compagni non ha nessuna difficoltà ad affermare di
passare le sue giornate rubando.
Arraffa con rischi enormi tutto quello che può, quando può, approfitta della miopia di chi distribuisce le zuppe per ripassare molte volte con la scodella per i più deboli, come una specie di folletto buono del campo, reagisce e lotta in tutti i modi, con le luminose figure dei medici deportati, che cercano di alleviare come possono, con pochissimi mezzi, le sofferenze dei compagni.
Le sue parole su Giorgio Puecher restituiscono una piccola ma importantissima parte di ciò che è stato tolto per sempre.
Pensai che Puecher fosse più ammalato di quanto sembrava e ne parlai con il professor Vallardi che lo visitò. Fisicamente era come la maggior parte dei deportati, sui quali oscillava la spada di Damocle; ma vi era in lui una sconcertante passività. Nella maggior parte di noi era evidente il desiderio di aggrapparsi tenacemente ad una speranza fatta, magari, di nuvole. Tanto per poter vivere ancora, o almeno per poter sopravvivere il più a lungo possibile. In Puecher invece colpiva soprattutto la sua natura impenetrabile. Vi era qualcosa in quest’uomo che non traspariva, ma che si sentiva, direi quasi si vedeva, tanto era palese il suo sforzo di non volersi esprimere. Tutto ormai gli appariva falso ora, i rapporti umani, le leggi, la morale. Si sentiva spogliato dai valori umani più elementari e più sacri.
Una volta sola si sfogò, d’improvviso, con poche frasi violente. Credo di aver tenuto a mente con una certa fedeltà le parole:
“Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita, nessuno l’avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla. In questo momento i “saggi di dopo” dove sono? Cosa fanno? Sentono oggi l’eco della scarica di piombo che ha fulminato il mio ragazzo? Capiranno cosa v’è qui, qui…”
E battendosi il petto con foga, ci voltò le spalle curve e andò a sfogare, da solo , la sua disperazione.
Questo era il male di Puecher, un’angoscia che non gli dava pace.
[…]
Eccolo là. Lo guardo, ha il viso nascosto nelle mani, la schiena sussulta per il singhiozzo. Ma come si potrà dimenticare?
Puecher non vuole che ci si curi di lui, ha il pudore dei suoi sentimenti: non vuole essere confortato; anche il dolore ha diritto alla libertà e lui il suo lo vuole per sé.
E fu passivo in tutto, indifferente a tutto. Senza un lamento. Senza una imprecazione. Più i giorni passavano, più si affievoliva, assieme al suo spirito, anche la resistenza fisica.
Un giorno mi disse: “Qui hanno inventato la morte in serie, non c’e scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste infamie, queste negazioni, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare, trovo più ragionevole cedere che resistere.”
Avere letto queste ultime parole, raccolte con fedeltà e affetto, chiude per me un cerchio ideale, aggiunge un’ultima tessera ai lunghi racconti dell’infanzia sulla storia di queste figure della mia famiglia, che non ho mai potuto conoscere. Ascoltati per lunghe ore in braccio a mio padre, che solo in quei momenti ci apriva completmente la sua anima sensibile e tormentata. Il nonno Giorgio ritorna a me nella sua moralità estrema di uomo di legge e di giustizia che non accettò di fuggire dopo la morte del figlio, così dignitoso in quel suo abbandonarsi, nel cedere al rovesciarsi di tutte le sue convinzioni più profonde, allo svanire di quel mondo pulito è morale in cui educò i suoi figli al rigore, di quel mondo tenero della villa di campagna in cui allevava conigli d’angora per farne maglioni ai suoi tre bambini, e del curatissimo frutteto i cui frutti si seccavano al sole per l’inverno, mele, pere albicocche prugne… di quel mondo che tengo nel mio cuore per sempre.
Quando Micheli parla della passività e dell’apatia come cause dell’accelerazione verso il decadimento:
Quando il fisico cede, la coscienza ha un certo oscuramento.
riassume in poche parole il succo di un piccolo ma importante libro di ⇨ Viktor E. Frankl Uno psicologo nei lager ARES [2012], la cui rilettura può ancora dare delle indicazioni preziose sulla capacità dell’uomo di resistere a qualsiasi privazione, sulla forza spirituale e sulla dignità per affrontare qualsiasi dolore, per trovare il senso della vita proprio dove viene negato. Da psicologo, da uomo di scienza, Frankl analizza dall’interno i delicati meccanismi spezzati dalla detenzione. C’è un punto in cui paragona la sensazione di annientamento provocata dalla mancanza di una scadenza precisa alla prigionia, a quella provocata dalla disoccupazione:
Quando i nuovi prigionieri arrivavano in un Lager, di regola non sapevano esattamente quali fossero le condizioni vigenti nel campo di concentramneto. I reduci dovevano tacere e da certi Lager non era ancora tornato nessuno… Tuttavia non appena i neofiti entravano nel Lager, lo scenario interiore mutava: con la fine dell’incertezza giungeva presto anche l’incertezza della fine. Non era possibile prevedere se questa forma di vita sarebbe mai finita e quando ciò sarebbe avvenuto.
Com’è noto la parola latina “finis” ha due significati: fine e scopo. Quando un uomo non è in grado di prevedere la fine di un’esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l’uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita. In una situazione psicologica assai simile, ad esempio, si trova il disoccupato. Anche la sua esistenza è diventata provvisoria; in un certo senso neppure lui può vivere volgendosi al futuro, verso uno scopo situato nel futuro.
[pag. 121]
Un monito agli attuali metodi di annientamento sempre in agguato nelle nostre civili democrazie, che stanno evolvendo verso una dittatura economica tanto più strisciante, tanto più pericolosa.
Nelle parole di dolore e di speranza di questa ⇨ canzone della Resistenza tedesca nata nel Campo di concentramento statale prussiano di Börgermoor-Papenburg nel 1934, che si diffuse poi con misterioso passaparola negli altri campi, un ultimo pensiero agli uomini e donne, ai bambini e al loro sacrificio.
DIE MOORSOLDATEN
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DIE MOORSOLDATEN |
I SOLDATI DELLA PALUDE |




Inaugurazione della mostra di Luigi Protopapa







Cosa succede in Toscana? Parecchio, succede. Mi spiego. Ho cominciato a scrivere non troppi anni fa, su
Il primo è
Il secondo romanzo è 

