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Nota Post
Avevo programmato questo post ieri mattina e in serata, grazie alla mobilitazione che c’è stata in rete e fuori, il guasto “tecnico” è stato superato. Qui Effeemme dice la sua, la nostra forse, sicuramente anche la mia. effeffe
No Transmission No Poetry
Strappare la pagina (al libro di Satana)

di Enrico Camporesi
Paolo Cherchi Usai, La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano, 2012)
La restriction est inventive au moins autant de fois que la surabondance des libertés peut l’être. Je n’irai pas jusqu’à dire avec Joseph de Maistre que tout ce qui gêne l’homme le fortifie. De Maistre ne songeait peut-être pas qu’il est des chaussures trop étroites. Mais, s’agissant des arts, il me répondrait assez bien, sans doute, que des chaussures trop étroites nous feraient inventer des danses toutes nouvelles.
Paul Valéry, Discours prononcé au deuxième congrès international d’esthétique et de science de l’art, 1937.
È un libriccino agile e snello questo nuovo volume di Paolo Cherchi Usai. Vedendolo adagiato fra i ripiani delle librerie si potrebbe pensare che non si tratti che di una strenna natalizia, un pensiero da offrire all’amico cinefilo o allo studente novizio di storia del cinema, come una sorta di incoraggiamento divertito o malizioso. Eppure La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano 2012) già dal titolo mette in evidenza qualcosa di estremamente avvincente, la sfida occasionata da una costrizione.
L’arco di tempo è ampio, scandito per decenni – e a ritroso (dal 2020 al 1891). La scatola degli attrezzi per comporre questa storia è al contrario estremamente minuta: mille parole e un’ immagine per anno, ma a partire dal 2010 giacché l’avvenire è cieco. Così se Cherchi Usai inforca in principio gli occhiali dello spettatore di Avatar (J. Cameron, 2009) è per ripercorrere un tempo trascorso. La constatazione che chiude il paragrafo sul decennio 2010-2001, senza essere sofferta, è nondimeno straziante: «muore la pellicola, lo spettacolo continua. Il pubblico non bada alla differenza». L’autore, che nel cinema andato vede il proprio oggetto di elezione (attualmente direttore della collezione film alla George Eastman House di Rochester), guarda al passato senza alcuna velleità nostalgica. Piuttosto si ha l’impressione che egli sia mosso da una pulsione “apocalittica”, nell’accezione etimologica originaria: si tratta infatti di un disvelamento. Sfogliando le pagine del libro è la storia dell’immagine in movimento a mostrarsi, rischiarata dalla luce della catastrofe digitale, che si fa qui non abbacinante, ma condizione di visibilità.
Cherchi Usai aveva già abituato i suoi lettori a qualcosa del genere nell’imprescindibile volume di aforismi che in Italia venne pubblicato con il titolo L’ultimo spettatore (Il Castoro, Milano 1999), per poi circolare in un’edizione rivista e aggiornata in inglese (The Death of Cinema, BFI, London 2005). All’epoca della prima pubblicazione in rivista – la bolognese Cinegrafie, diretta da Michele Canosa – c’era già chi gridava allo scandalo. A essere preso di mira nello scritto era il tono, considerato saccente, oracolare. Come accettare inoltre che qualcuno dell’ambiente cinetecario si spingesse a dire che «il cinema è l’arte di distruggere le immagini»?
Questa Storia del cinema in 1000 parole, sebbene più trattenuta, ci pare coerente con l’impostazione del suo libro più provocatorio, e per due motivi almeno. Da un lato vi è infatti la tensione “apocalittica”, sulla quale ci siamo già intrattenuti brevemente; dall’altro vi è la concisione della scrittura. Laddove L’ultimo spettatore procedeva per aforismi, a volte vere e proprie schegge di pensiero non più lunghe di una riga, qui è la concezione intera del libro a trovarsi costretta entro il numero di parole da impiegare. Rinunciando alla tentazione di Sheherazade, l’autore sceglie una cifra piena: 1000, non una di più – cioè non 1000 e una, parole. Nonostante i limiti imposti, l’ultimo aggettivo che si vorrebbe impiegare per descrivere il libro è “secco”. Al massimo ci si potrebbe concedere di presentarlo come “asciutto”, quasi una pellicola in nitrato che abbia perso la sua tinta di imbibizione. Non perché al volume faccia difetto il “colore”, beninteso, ma perché la storia del cinema ci è presentata come un resto: come una pagina, facendo appello a Dreyer, strappata al libro di Satana.
In queste pagine svolazzanti cosa troviamo? Più che il taccuino di uno spettatore, una sintesi che abbraccia un decennio intero. Sebbene più volte ricorra alla strategia della lista, per ovviare alla legge di una composizione serrata, Cherchi Usai non manca di inserirvi annotazioni brillanti e divertite. Citiamo qui almeno l’ultima riga dal decennio post-maggio ’68 (1980-1971): «l’immaginazione al potere genera Spielberg e Guerre Stellari, poi contempla se stessa in Effetto notte». O ancora l’incipit che riguarda gli anni Sessanta: «da allora i registi si proclamano “autori”; forse lo sono sempre stati. Niente compromessi: Antonioni, Bresson, 8½, Bergman e Il mucchio selvaggio rivendicano la libertà di creare. Jacques Tati approva, pur standosene zitto». Si tratta di accostamenti folgoranti, suscitati dalla costrizione imposta, impensabili altrimenti. Intellegibili dal lettore meno avvertito, che comunque può trattenere il canone di riferimento, le rapide asserzioni dell’autore non mancano di sedurre anche il connoisseur.
È a costui che forse si rivolgono più specificamente le ultime pagine (diciamo dal 1920 fino al 1891), nelle quali il corpus filmico permane tuttora meno conosciuto. Ed è qui che si ravvisa la maggior libertà anche nella selezione dell’iconografia, che altrove è purtroppo solo in parte punteggiata da casi più eccentrici e che privilegia altrimenti opere più istituzionali (citiamo però almeno l’inclusione dello straordinario What’s Opera, Doc? di Chuck Jones per l’anno 1957). Quanto più il volume volge al passato, tanto più esso ci attrae irresistibilmente. È qui che troviamo immagini da Malombra (C. Gallone, 1917), Émile Cohl, La leggenda di San Nicola (Itala Film, 1907), The Big Swallow (J. Williamson, 1901) scendendo fino a The Kiss di Edison, Robert William Paul, Émile Reynaud e Georges Demenÿ. Un piccolo disappunto ci coglie: vedere il 63mm di The Corbett-Fitzimmons Fight (1897) così tristemente mutilato. Ma forse, riflettiamo, non è altro che l’ennesima costrizione – questa volta dettata da esigenze di impaginazione.
Leggendo e rileggendo il libriccino non può non ritornare alla mente la celebre osservazione di Paul Valéry riguardo alla possibilità di creare nuove danze indossando scarpe troppo strette. Così procede Paolo Cherchi Usai, costringendo la penna in mille parole, concedendosi in più una manciata di immagini. Di certo fuoriesce un oggetto singolare e affascinante, un minuto appiglio per ripensare una disciplina (la storiografia del cinema) necessariamente dinamica, mutevole: una storia che non si può fare a meno di riscrivere, non fosse che per il piacere del racconto. Guizza anche in chiusura, fulminante, una splendida riga capace di sintetizzare da sola l’epopea che il libro si propone di ricapitolare. Qui la riportiamo: «fotografie intermittenti, la seduzione meccanica di un battito di palpebre, il cinema».
Nuovi Autismi 30 – I vecchi
di Giacomo Sartori

I vecchi sono ingombranti, e spesso anche molto costosi. Bisogna farli accudire da una badante, e le badanti costano. La paga oraria non è certo alta, anzi spesso è da fame, ma considerando che un vecchio bavoso lo è ventiquattro ore al giorno sette giorni in settimana, viene fuori un patrimonio. A far bene bisognerebbe poterli rottamare. Ma sarebbe un repulisti un po’ di cattivo gusto: siamo diventati molto egoisti, e per soddisfare le nostre voglie e ubbie siamo pronti a qualsiasi cosa, ma non siamo cruenti, non siamo sanguinari. Senza contare che a qualcuno ricorderebbe forse certi eccessi del passato, e verrebbero fuori mille polemiche. Siamo squali buonisti e inclini ai sentimentalismi, amiamo avere buona coscienza. E poi a trucidare i vecchi fuori uso si abbasserebbe l’età media, mentre noi teniamo molto all’età media. Se per esempio abbiamo cinquantaquattro anni e siamo italiani e di sesso maschile, faccio un esempio a caso, ci fa piacere pensare che statisticamente vivremo fino a settantanove anni. Magari rincoglioniti, e con una badante straniera, ammesso e non concesso che qualcuno ce la pagherà (chi?), però insomma abbiamo qualche probabilità di vivere fino a settantanove anni. Ci scoccerebbe pensare che a causa dello sterminio di tutti i vecchi rincoglioniti vivremo solo fino a settantatre anni, o addirittura fino a settantuno, tanto per dire. E allora bisogna sopportarli, e mettere mano al portafoglio.
Una volta si pensava che i vecchi a dispetto dell’apparenza avessero molto da insegnare: invece di guardarli con sconcerto gli si chiedevano delle cose, nelle famiglie e nei villaggi li si ingaggiava come consulenti nei campi più disparati. Venivano riveriti e rispettati come preziosi reperti archeologici, coccolati peggio di cagnolini. Si pensava che detenessero la verità, o insomma che detenessero un grado superiore di verità rispetto alle persone più giovani. Era una credenza illogica e delirante, ma in fondo sul piano personale anche consolante: uno si diceva che con l’età la salute e le facoltà sensoriali e intellettive scemavano, e spesso anche l’umore si degradava, ma aumentava la saggezza, lievitavano la stima e l’apprezzamento. C’era insomma una sorta di compensazione. Adesso non ci sono attenuanti, si va verso una degradazione a tutto campo. La demenza senile, così diffusa, è la metafora di inettitudini e inutilità non più occultabili.
Quando uno comincia a non essere più tanto giovane si imbruttisce e le sue prestazioni si fanno meno efficienti, si pensa ora: come un aggeggio elettronico più che superato, come un telefonino di una generazione ormai obsoleta. Poi il processo di obsolescenza va avanti, fino a diventare imbarazzante, grottesco. Nessuno si sognerebbe di mostrarsi con un computer di venti anni fa, mentre certi vecchi impresentabili vanno ancora in giro come se niente fosse, ci si dice. È un nuovo sistema di pensare, e la storia ci ha insegnato che le nuove visioni hanno sempre ragione, o comunque finiscono per fare piazza pulita delle vecchie. Va quindi considerato un progresso, una nuova tappa nella parabola gloriosa dell’umanità. I primi a capirlo sono i vecchi stessi: nel tentativo di mimetizzarsi indossano scarpe da ginnastica e felpe con il cappuccio, fanno in tutti i modi i giovani. Il che agli occhi dei veri giovani è ancora più sconveniente.
Il mondo evolve, è normale. Le difficoltà sono per quelli che sono un po’ rimasti attaccati al passato e un po’ no, quelle vie di mezzo che per nostalgia o altro fanno fatica a incenerire le vecchie credenze, pur avendole sempre osteggiate. Come per esempio il sottoscritto. Diciamo la verità, io di fronte a molti giovani che frequento (tutta la mia cosiddetta giovinezza l’ho passata con persone più anziane di me, ora attorno a me ci sono solo individui più giovani: forse proprio per questo faccio fatica a attribuirmi una precisa età sociologica), penso di avere una marcia in più. Riconosco nel loro agire una maggiore coerenza coi tempi, e rinvengo in loro plaghe di mistero, sintomo indubbio del mio progressivo anacronismo, però mi sembra pur sempre di sapere come finiranno le frasi, come si gratteranno, come si tumefaranno col tempo le loro facce. Nei loro occhi vedo che mi considerano un relitto ormai fuori competizione, ma a me paiono quegli orologi nei quali si può ammirare il meccanismo interno, prevedibili nel loro atemporale ticchettare. È un’illusione ottica, un’allucinazione, però non riesco a liberarmene. Mi dico anzi che loro stessi dovrebbero manifestarmi che trovano in me tesori di cui difettano: dovrebbero farmi domande, chiedermi consigli. Sono fantasmagorie surreali, ma dure a morire come idre con sette teste che ricacciano appena mozzate. Dentro di me chiamo questo mio ipotetico surplus più geologico – sedimentario – che gnoseologico “esperienza della vita”, una locuzione che non ha più corso, e che probabilmente tra non molto verrà bandita dai dizionari.
I vecchi si vendicano del resto della detronizzazione che hanno subito, è normale. La contropartita del rispetto immeritato che li ammantava era la benevolenza: sorridevano, e il loro ghigno sdentato era un’accettazione indulgente (solo nelle periferie degli occhi baluginavano a tratti guizzi di ironia), un incoraggiamento a perseverare. Come tutti i despoti detentori di un potere prevaricante vedevano di buon occhio i loro sudditi, vale a dire i giovani: li scusavano se sbagliavano, li riprendevano con liquidi gorgheggiamenti di gola. Ora invece gli anziani, come dicevo travestiti ormai da adolescenti, si sogguardano alle spalle con occhi incattiviti. Sentono fiati ostili sul collo, e quindi sputano saliva, si aggrappano al potere politico o finanziario, diventano dure e sorde cozze. Se potessero sterminerebbero tutti i giovani, si infilerebbero come ostinati sommozzatori nelle loro pelli elastiche. Terrorizzati di perdere il cosiddetto senno.
(l’immagine: Mary Tillman Smith, “Intitled”)
Amianto
(Pubblico qui di seguito una nota critica di Marco Rovelli su un’opera importante, Amianto, e di seguito un estratto dal libro di Alberto Prunetti. Libro, che, ovviamente, consiglio anch’io di leggere. G.B.)
Marco Rovelli su l’Unità del 5/1/2013:
“Amianto. Una storia operaia”. Titolo e sottotitolo secchi, asciutti, precisi. E’ l’ultimo libro (“terribile e bellissimo”, come ha scritto Valerio Evangelisti nella prefazione) di Alberto Prunetti, edito da Agenzia X. La storia di Renato Prunetti, padre di Alberto, operaio dall’età di quattordici anni, che ha respirato amianto fino a morirne. Renato lo vediamo nei capannoni di Piombino e in quelli dell’Ilva di Taranto, o a Casale Monferrato, ovunque c’era da respirare quella vita che si faceva morte. E vediamo anche l’autore stesso, che rammemora la propria infanzia, “operaia” anch’essa. Nella storia di Renato Prunetti c’è la storia di un materiale che ha fatto schiere di morti, nel silenzio più assoluto (ne scrissi in passato, e approfondirne le vicende lascia davvero sgomenti: per iniziare, vedete il sito amiantomaipiù). Era dagli anni Trenta che si conoscevano gli effetti letali dell’amianto, ma fino agli anni Ottanta nulla cambiò: una vicenda paradigmatica di come gli interessi delle grande industrie prevalgano su tutto il resto. Ma il libro di Prunetti – oltre a essere una vera e propria inchiesta sul campo, che ci fa vedere la materialità delle fabbriche, che ci mostra il lavoro vivo negli stabilimenti – è anche una vera e propria opera letteraria. La scrittura di questo libro, nella suo dato scabro, secco, nel suo andare dritta al cuore materico del reale, ci fa sentire, e sentire veramente, i suoni profondi di quella storia operaia. Si sente che quella storia è cresciuta tra le mani dell’autore suo malgrado, che lo ha preso e coinvolto fino al cuore: in questo sta la letterarietà del libro, non nell’artificiosità, ma nella necessità, nell’urgenza, nella sua verità (termine così equivoco, ma a sua volta così necessario, se declinato al singolare).
Da Alberto Prunetti, Amianto, una storia operaia, Agenzia X, 2012, pp. 160
Questa è la storia operaia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti all’inizio del nuovo secolo, ammalati dopo avere smesso di lavorare. Uccisi da un serial killer micidiale che agiva a Casale Monferrato, a Taranto, a Piombino e in decine d’altri posti. Un uomo che ha iniziato a guadagnarsi il pane a quattordici anni, che è entrato in fabbrica senza mai uscirne davvero, perché il cantiere industriale aveva nidificato nelle sue cellule il proprio carico di negatività. Uno che è stato costretto per ragioni professionali a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti. Un lavoratore che ha visto le condizioni di sicurezza nei cantieri precipitare ogni giorno di più. Un padre che ha fatto studiare i propri figli con la convinzione ingannevole che mandarli all’università fosse un modo per farli uscire dalla subordinazione di classe. Uno che si infilava guanti d’amianto, e tute d’amianto, e si metteva lui stesso sotto un telone d’amianto, perché scioglieva elettrodi che rilasciavano scintille di fuoco a pochi passi da gigantesche cisterne piene di petrolio e che sotto quel telone respirava zinco e piombo, fino a tatuarsi un bel pezzo della tavola degli elementi di Mendeleev nei polmoni. Fino a quando una fibra d’amianto, che lo circondava come una gabbia, ha trovato la strada verso il suo torace ed è rimasta lì per anni. E poi, chiuso il suo libretto di lavoro, quella fibra ha cominciato a colorare di nero le sue cellule, corrodendo materia neurale dalla spina dorsale fino al cervello. Una ruggine che non poteva smerigliare. Lesioni cerebrali che non poteva saldare. Guarnizioni che hanno iniziato a perdere, nel tono dell’umore, nella memoria, nella deambulazione, nell’orientamento. Tante volte mi sono chiesto se avesse sofferto. Se avessimo dovuto dargli più morfina. Quella droga – a lui che parlava male dei “drogati”, tra un bicchiere e l’altro di Tavernello – deve avergli regalato gli ultimi momenti felici. Qualcosa di più dell’anestesia. Finalmente era libero di dimenticare quella scimmia che gli era salita sulla schiena. Sognava felice: cavalcava nelle celesti praterie, come gli eroi dei nostri fumetti western. Le sue ultime ore per noi furono pesanti, ma lui neanche se ne accorse: era con Capitan Miki e Blek Macigno, con il comandante Mark, con Gufo Triste e Mister Bluff, con Chico e Tiger Jack e con Kit Carson, galoppavano assieme nelle celesti praterie e nelle foreste di Darkwood, senza più la zavorra dell’acciaio e della ruggine a bloccarlo a terra.
L’Unione Europea e la sovranità popolare perduta
di Giampiero Marano
“Voi non potete immaginare quale angoscia e quale rabbia invada l’animo vostro, quando degli inetti si impadroniscono di una grande idea, che voi da gran tempo venerate, e la danno in pasto ad altri imbecilli uguali a loro, in mezzo a una strada, e voi la ritrovate al mercato della roba vecchia, irriconoscibile, infangata, messa a gambe all’aria, assurdamente, senza proporzione, senza armonia, ridotta a giocattolo per bambini stupidi!”. Queste parole piene di amarezza che Stepan, nei Demoni di Dostoevskij, pronuncia tra i sospiri (non sappiamo quanto sinceri) sono, proprio perché così amare, sempre veritiere e attuali. Oggi, per esempio, offrono una descrizione perfetta dell’Unione Europea. L’antica e alta aspirazione a unire i popoli d’Europa superando rivalità secolari ha avuto sostenitori come Dante, Novalis, Mazzini, Hugo; poi però la “grande idea” è finita nelle mani di uomini spiritualmente “inetti” che l’hanno uccisa e sfigurata: i burocrati e i tecnocrati dell’UE, vuoti e arroganti come il premier non eletto Mario Monti.
“L’altissimo merito di quest’ultimo”, chiariva Piergiorgio Odifreddi
Satura contra quosdam
di Daniele Ventre
credimi certo è facile segnare il passo quando ti ricordi che
qualcuno ha sempre qualcosa da dire da scrivere da ben fantasticare
da commentare o demenziare -o da mal masticare malmostoso
per suo carattere ingiurioso -orlando curioso
i trini e i merletti del senso che per verba non dispenso
-e inhumanar significar per verba non mi verria
perciò càntatela da solo la tua epica moritura e (ri)nascitura
Poesie edite da “L’alcova del sé”
Poesie edite 2
di Daniele Ventre
1.
Ritornano involute le tue forme trasparenti da un velo di memorie covando sotto cenere le storie sommate lungo il caso ormai difforme. Vuoto l’abbaccio si richiude, dorme l’onda del tempo nel caos delle scorie: la paglia lungo le orbite aleatorie fluida per note di abbandono informe. Non sa il gioco redimerci dall’urna né salvarci l’incontro dalle spire del vortice dischiuso oltre le porte: così riguardo alla metà notturna dove già i sogni sembrano arrossire su retrograde vie di stelle morte.Le convergenze parallele #2
di Giuseppe Zucco

“Trasferirsi col pensiero e col sentimento in un altro essere era un’azione spirituale estranea a Aleksjéi Aleksandrovič. Egli stimava questa azione spirituale una fantasticheria dannosa e pericolosa.”
Anna Karenina, di Lev Tolstoj (fonte: l’Eugenio tascabile)
“Quale che fosse il suo segreto, ho appreso un segreto anch’io, e cioè: che l’anima è solo un modo di essere – non uno stato costante -, che ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni. L’aldilà può essere la piena facoltà di vivere consciamente entro qualsiasi anima si scelga, e in quante anime si voglia, tutte inconsapevoli del loro fardello intercambiabile.”
La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov, pp. 221-222, Adelphi
Altre poesie inedite
di Daniele Ventre
1.
Non so se il giorno si compia nel tramonto che posa
sopra le case stanche un rosso manto d’ore,
o se la luce trovi qualche senso più nuovo
nella memoria dell’iride che animava la pioggia,
o nella memoria del vento che fugava le nuvole
rapide all’orizzonte.
L’utopia del possibile
[brani tratti da: Adele Pesce, Fare cose con le parole, e mie riflessioni]
“[…] quando mi sveglio un po’ più tardi, sembra che i bambini lo facciano apposta, capricci a non finire: non vogliono vestirsi, non vogliono lavarsi, il latte è troppo caldo o troppo freddo. Io penso già alla multa che prenderò in fabbrica e gli dico delle brutte cose e finisce sempre che uno dei due si mette a piangere… Li scarico davanti alla scuola e loro mi guardano male e non vogliono nemmeno il bacio… Durante il tragitto non ho tempo di pensarci, ma appena sono in fabbrica, appena mi trovo davanti alla catena e comincio a fare il lavoro, non riesco a pensare ad altro che all’ultima occhiata triste che mi hanno lanciato. Continuo a pensarci, e quel piccolo fatto quotidiano si ingrandisce sempre più, diventa enorme e drammatico… Rivedo tutti i momenti della mattina e mi sembrano tremendi, arrivo a pensare lì alla catena di essere una madre cattiva che odia i suoi figli […]. E questo perché il mio pensare lì alla catena è del tutto separato dall’agire […]. Io sono impotente, non posso assolutamente modificare la realtà e questa si ingrandisce e mi schiaccia. Mi viene un’angoscia terribile, vorrei andare via, non ce la faccio a stare chiusa lì dentro. Certe volte mi dico: adesso vado dal capo e gli dico che mi sento male e se non mi crede mi butto per terra. Poi l’angoscia mi passa e comincio a pensare a quello che farò la sera quando uscirò e li andrò a prendere a scuola. Li porto ai giardini e faremo tanti giochi. No, li porto al Luna Park, M. ci ha fatto una passione… e poi magari a mangiare una pizza… Stasera niente televisione, gli racconterò quella favola che gli piace tanto. Progetti su progetti durante tutta la mattina fino all’ora della mensa. Quando riprendo, ora che l’uscita dal lavoro è veramente vicina, il mio stato d’animo non è più quello. È come se cambiasse dentro di me la dimensione del tempo: più si accorcia il tempo in cui sarò costretta a stare chiusa in fabbrica, più il tempo che avrò a disposizione quando sarò fuori mi sembra poco. E comincio a pensare che non farò niente: niente giardini, niente Luna park. Immagino che, sempre di corsa, stanca morta, farò la spesa, preparerò la cena, un po’ di televisione e poi a letto. Queste immagini mi tormentano, anche perché sono più vere delle precedenti, perché è come è successo ieri e come probabilmente farò domani. Mi viene di nuovo un’angoscia terribile… Mi sembra di impazzire. Non ho più quasi voglia di uscire, vorrei avere ancora tante ore da passare chiusa lì dentro per poter tornare di nuovo ad immaginarmi cose belle… Sai che ti dico? Non è il lavoro che è alienato, è il tempo. La fabbrica ti dà un tempo immaginario che è un imbroglio. Quando stai dentro immagini sempre moltissimo e non si tratta di fantasie ma di cose possibili. La cosa strana è che più ore hai davanti, più sei impotente a fare, più le immagini che ti vengono [in mente] sono belle; più le ore diventano poche, stai per uscire, si avvicina il tempo in cui potrai tornare a fare, più le immagini diventano brutte… Forse perché ti accorgi che non è soltanto il tempo che passi dentro, ma soprattutto il tempo fuori che ti rubano”.
(C., anni 25, operaia, Forlì)
È un’intervista del 1982, condotta nell’ambito di una ricerca del sindacato metalmeccanico in Emilia Romagna. L’ho ripresa da un recente volume che riunisce scritti di Adele Pesce, sociologa, sindacalista e femminista, perché mi hanno colpito l’intensità e la scansione della narrazione che ne fanno un testo letterario, e soprattutto perché mi ha colpito il concetto di “possibile” in relazione a realtà e immaginario. Adele Pesce, citando L’uomo senza qualità di Musil e Le sens pratique di Bourdieu, così commenta questa e altre interviste da lei svolte: “[…] con il risultato che le storie raccontate non erano mai soltanto esperienze reali, verità reali, ma esperienze e verità possibili. Nella preparazione della ricerca avevamo cercato di porci questo problema, decidendo di tenere presente l’immaginario come categoria importante. Dicevamo: dobbiamo intrecciare come una persona è e come vorrebbe essere, la vita che concretamente fa e quella che immagina di fare […] Nei loro racconti, le donne si comportano come se non ci fosse questa scissione e introducono invece un’altra dimensione, quella del possibile. La loro vita appare a chi l’ascolta molto più simile a un’esperienza immaginaria che a un’esperienza reale: perché è solo nelle esperienze immaginarie, nella letteratura ad esempio, che il mondo sociale riveste la forma di ‘un universo di possibili, ugualmente possibili, per ogni soggetto possibile’”. Pesce aggiunge che il possibile appare come una dimensione cui si fa ricorso non per evadere dal reale ma per dotare il reale di senso.
L’utopia del possibile non è la sola idea stimolante che emerge da questo volume i cui saggi ripercorrono essenzialmente gli anni ’80, ma che si chiude con un articolo apparso nel 2009 su “Inchiesta”, Fare cose con le parole (da qui il titolo al volume), in cui appoggiandosi alla teoria di Austin sugli enunciati performativi, Pesce esamina il linguaggio che legittima il razzismo nell’era del berlusconismo. Restando agli anni ’80: le questioni nodali su cui Pesce rifletteva erano la tensione tra aspirazione all’uguaglianza e senso della diversità, tra soggettività e collettività, tra dimensione teorica e azione. Leggendo problemi e interrogativi di quegli anni ho provato un vago malessere. Perché? Forse perché mi sembrano ora come allora ancora così fondamentali, ma allora ci riflettevo e poi non più? O perché le cose, in particolare per le donne, non sono cambiate molto, o comunque non nel senso voluto? In un lungo dialogo-intervista con Vittorio Foa intitolato “La politica, la persona” (1986), Adele Pesce risponde a Foa che le chiede cosa significasse per lei essere di sinistra negli anni ’50: “la possibilità di cambiare […] essere di sinistra era per me avere certezze sulla possibilità che il mondo potesse essere cambiato, i rapporti tra le persone potevano essere cambiati, il modo di governare poteva essere cambiato, le forme di vita sociale potevano essere cambiate”.
Sogni d’oro
di
Simon Lane

I sogni non significano niente. Altrimenti potremmo imparare qualcosa. Il valore dei sogni, se esiste, sta nella loro mancanza di significato. I sogni si sottraggono all’interpretazione. Probabilmente questo è il loro unico lato interessante. I sogni ci danno l’opportunità di rilassarci, di non lavorare. Permettono alla nostra mente di vagare alla periferia del nostro subconscio, all’ombra di premurose fronde che ci riparano dal caldo o dal freddo dei pensieri delle ore di veglia. Possono diventare come onde tropicali che ci massaggiano, facendoci sollevare i piedi dal fondo marino per poi riportarli giù con una dolce oscillazione, come se un remoto gigante cullasse il mondo avanti e indietro come i nostri genitori facevano con noi quando eravamo piccoli. O possono offrirci interludi romantici, come fa la vita, in modi fortuiti e imprevisti. I sogni non contengono sintassi, né sillabe. Né simboli. Un letto è un letto. Un libro è un libro. Una galleria è una galleria. Un pene è un pene. Una spada, però, può ricordarci di farci la barba al mattino. I sogni non rappresentano niente. I sogni non hanno logica. La logica viene loro imposta. I sogni invitano alla comprensione quando la comprensione è impossibile. Così esercitano il loro fascino. I sogni ridanno spazio all’intuito. I sogni non sono confusi; possiedono una grande chiarezza, nitidezza. Quando si cerca di riprodurre visivamente un sogno, l’errore più grande è sfuocare l’immagine o farla ballonzolare per lo schermo. Nei sogni non si ballonzola se non accidentalmente. I sogni riescono a essere eccitanti proprio perché sono realistici. Se fossero vaghi, non ci spaventerebbero, non ci stuzzicherebbero. I sogni non sono cinema. Ma il cinema può essere sogno. I sogni non vengono mai soli. Nessuno fa mai un solo sogno, ma diversi sogni. I sogni non hanno numero. Innumerevoli, scombinano l’ordine. Forse è questo il loro scopo. O forse no. Noi ci facciamo il letto ma non ci facciamo i sogni. Possiamo solo attendere il mistero notturno e accettarlo come tale. Accettiamo i sogni come accettiamo la nostra mortalità. Se ne ricaviamo o meno un senso è irrilevante. Così come il fatto che siamo esistiti ed esisteremo ancora.
Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 marzo 2012
Dreams
di Simon Lane
DREAMS do not mean anything. If they did, we might learn something. The value of a dream, if it has a value, lies in its meaninglessness. Dreams defy interpretation. This is probably the only interesting thing about them. Dreams give us a chance to relax, not work. They allow our minds to meander along the periphery of our subconscious within the kindly arboreal shade that protects us from the heat or cold of wakeful thought. They may become the kind of waves from tropical places that massage us, making our feet rise from the seabed and return in sweet undulations as if a distant giant were rocking the world back and forth as our parents did in infancy. Or offer us romantic interludes, just as life does, serendipitously. Dreams contain no syntax, no syllables. No symbols. A bed is a bed. A book is a book. A tunnel is a tunnel. A penis is a penis. A sword, however, may remind one to shave in the morning. Dreams do not represent anything. Dreams have no logic. Logic is something imposed upon them. Dreams invite understanding when understanding is impossible. As such, they are seductive. Dreams restore intuition. Dreams are not blurred; they possess great clarity, sharpness. The greatest error made when portraying a dream visually is to allow the image to lose focus or dance about the screen. No one dances in a dream unless by accident. The reason a dream can be exciting is because it is realistic. If it were blurry, it wouldn’t frighten us, titillate us at all. Dreams are not cinema. But cinema can be dreams. Dreams never come singly. No one ever has one dream but several dreams. Dreams have no number. Numberless, they upset the order. That may be their purpose. Or not. We make our beds but we do not make our dreams. All we can do is await nocturnal mystery and accept it as such. We accept dreams as we accept our own mortality. Whether we make sense of themor not is immaterial. Just as we were and will be once again.
Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 March 2012
Nota
Pubblico questo testo di Simon addolorato da un lutto, non del tutto inaspettato ma comunque devastante.
Il mio fraterno amico Simon Lane è morto. Collaboratore prima di Paso Doble e poi di Sud, se l’è portato via un cancro che per ventanni lo ha attaccato, recedendo e ritornando ogni volta più feroce. Qui i suoi romanzi. L’ho visto l’ultima volta a Parigi lo scorso giugno, alla libreria di Fortunato, la Tour de Babel, dove abbiamo presentato il mio Chiunque cerca chiunque. Lui è arrivato in bicicletta, l’unico dandy che abbia mai incontrato. Viveva ormai da anni in Brasile e con mia grande fortuna era nella capitale in quei giorni. Sempre in prima linea, sempre in coppia con Patrick Chevaleyre, con la rara eleganza degli uomini del novecento.
Bye Simon.
effeffe
Elegie ritmiche inedite
di Daniele Ventre
1.
L’erba sussurra nell’ombra ai giardini delle delizie,
brezze di quieti ronzii lente la pettinano:
piano fra sponde di sassi parlottano liquide voci,
echi di futilità favole modulano:
musiche dietro pareti traslucide, grida di giochi,
ritmano riti e magie fragili d’intimità:
poi la parola ritorna con il chiacchierio degli incontri
callido di bisbiglii, dentro le sale da tè.
La ierodula sottile discrimina scaltra i momenti,
trame, le piccole dita, anime temperano
d’urti e schermaglie e le ninfe indulgenti, al cupo dei boschi,
giocano nelle sorgive, esili diafanità,
mani a dispetto, a spruzzare d’oblio, a rapire nel buio,
dove il sorriso notturno orli di vie cancellò:
l’alto sfiorarsi furtivo dei petali, l’ultimo abbraccio,
l’ansia sottesa, l’invidia avida che incenerì.
Qui per i chiusi canneti traspare il silenzio dell’alba,
l’onda si frange nei golfi iridescente e si sfa
nelle carezze di spume su torpide code di sabbia,
nelle parole che al vento ora rimemorano
l’umile monotonia degli amanti mai corrisposti,
l’intima grazia punita a compiacersi di sé.
2.
Lungo colline invernali le nuvole vanno remote
sull’orizzonte di rocce e sedimentano qui
schegge di freddo. Ora il tempo assetato assorbe le vite
in stillicidi d’attese e d’esistenze a metà,
pallide monotonie di veglie e visioni d’inquieta
tenebra, larve di nebbia, avide permeano
gli esseri nudi. In un giorno agitato di fantasie
sterili passo la via, che s’alimenta di me
e mi consuma e divora se stessa: in un bianco di nubi
liquide, in un’afasia d’anime, canti ed età,
rigo di neri silenzi le pagine scarne del vuoto,
che la ragione del vento ostica disseminò.
3.
Era nascosta la via, fra remoti intrichi di selve,
lungo i sentieri che il buio orlo del sogno tracciò,
orma notturna, a segnare il cammino in rughe di rupe,
fino a una grotta di scogli, alle rimosse realtà
sotto le coltri di spuma. E s’aprì fra cenge la riva,
madida di sinfonie, echi che l’onda intessé
con i racconti di ninfe e d’esilii e persi ritorni,
d’uno che s’innamorò di lontananze e svanì,
sposo a Colei-che-nasconde. Non restano che le memorie
a ritornare con l’onda, a riportarne, quaggiù,
pallide forme che il mare dell’essere sfuma nei gorghi,
ombre che in alghe e sciacquii diafane scivolano.
Piccole Barbare
di Daniele Ventre
1.
Non vedi? La traccia dei segni è ancora inquinata
di tracce falsate. Qualcuno è passato a ritroso:
ha invertito il senso di marcia. Allora dovresti
davvero conoscerla, questa verde vita di ninfe,
offesa tra queste cortecce di rami spezzati
e tronchi abbattuti: le maschere t’hanno distolto.
Quattro frammenti
di Franz Krauspenhaar
se mi togliete il maalox,
la sua innocenza, la
carezza discreta di sodii
vari come oli curanti,
se mi togliete quel senso
illusorio d’assenza,
come se lo stomaco
fosse libero dai fuochi
dei nostri inferni a succhi,
mi avrete deposto
un mito, avrete cacciato
il mio allenatore buono
e incompetente
dalla squadra sconfitta.
Aprire un nuovo capitolo
(A cavallo tra il vecchio anno e il nuovo, ho cominciato un nuovo capitolo di una cosa lunga che vado scrivendo da tempo. Questa è la sua versione beta, ovviamente – ma anche un augurio: che di capitoli da aprire ce ne siano moltissimi, per tutti voi.)
di Giuseppe Zucco

Spalle alla basilica di San Lorenzo, seduti sull’erba rada del parco, Mario e Cristina si baciano – ma non come fosse il gioco di un riconoscimento, baciandosi e slegando le labbra ad intervalli regolari, rimanendo poi occhi negli occhi a millimetri di distanza, cercando di capire, alla fine dell’apnea con le palpebre abbassate, se sia sempre la stessa persona a spingere le mani in luoghi irriferibili, oppure dandosi la lingua in maniera del tutto introversa e consapevolmente impacciata, come se quello non fosse altro che il primo vero contatto fisico dopo giorni e giorni di un corteggiamento sfiancante, un momento che riporta indietro le lancette di qualsiasi comunanza e complicità, l’ora x convenzionale ma per sempre marcata sul diario o sul retro di una fotografia o in fondo al messaggio di un cellulare in cui si ritorna momentaneamente estranei per iniziare a conoscersi davvero, sul serio, senza filtri.
“Una cosa che ti piace di me?”, dice Cristina.
“Gli occhi”, dice Mario.
“No, troppo poetico”.
“Allora le labbra”.
“Paraculo”.
“Le mani?”.
“Ottocentesco”.
“Il modo in cui s’incurva il naso?”.
“Ma se è il mio complesso peggiore”.
“Deciderò io, no?”.
“Dimmi una cosa unica”.
“Questi cosi”.
“I leggings?”.
“Eh, in controluce sono meglio di una radiografia”.
Mario e Cristina, un bacio dopo l’altro, baci sbocciati nei baci, si baciano in fretta e furia, sfregando le labbra, a piccoli morsi, incrociando le eliche rotanti della lingua, senza respiro, cambiando continuamente lato, gli occhi aperti e chiusi, scontrando i denti, le mani infilate nei capelli, precipitando uno nella bocca dell’altra come se non ci fosse tempo, come se il tempo non bastasse, come se tra il primo e l’ultimo bacio appena consegnato con allarmata frenesia il tempo avesse accelerato senza altra spiegazione, proprio come se dal più alto dei cieli filasse perpendicolare sulla furia di quei baci sbocciati nei baci una delle innumerevoli bombe atomiche appena sganciate dal ventre metallico di un cacciabombardiere che, da lì a pochi istanti, crollando senza un sibilo sul pianeta terra per mondare le colpe dei suoi residenti stipati chi nelle cantine chi nei rifugi antiatomici con il respiro rotto e lo sguardo rivolto al soffitto di cemento, avrebbe spazzato via la materia vivente delle cose e scagliato a distanze irraggiungibili, ancora più in alto della voluta estrema del fungo radioattivo, tutte le particelle luminose della parola amore.
“Sai di buono”, dice Mario.
“Sembro la pubblicità di un detersivo, così”, dice Cristina.
“No, di frutta”.
“Tipo il sapore alla frutta del dentifricio?”
“Frutta non molto specificata, ma frutta”.
“Mario”.
“Tipo l-a-m-p-o-n-e”.
“Perché che gusto c’ha il lampone?
“Appunto”.
“E io avrei questo gusto anonimo?”.
“Di frutta”.
“Io sarei anonima?”
“Sì, cioè, no, solo frutta”.
“Anonima, allora?”
“Che frutta vuoi essere?”.
“Kiwi”.
“Kiwi è perfetto”.
Mario e Cristina si baciano, si staccano, non resistono, si avvicinano, riappaiano una a una le screpolature e le pellicine trasparenti, e tutto questo delicato violentissimo elicoidale filare di labbra, un movimento che non ne ammette altri, una foga cieca e irresponsabile che espelle fuori dalla carne e dalle ossa tutta Milano e la Calabria intera, un desiderio famelico e autosufficiente che allunga un decisivo colpo di spugna sul tremolare pallido dei ricordi d’infanzia e sul lucore persistente dei rispettivi traumi, per lunghi lunghissimi minuti li eleva in uno spazio vuoto, bianco, illuminato, dove non risiede altro che quel movimento, quella foga, quel desiderio, dove tutto sfuma e indietreggia, uno spazio interamente vuoto e paradossalmente pieno da scoppiare, la versione amorosa della nuvoletta bianca così in voga nei fumetti anni ottanta che ricopre di solito le risse e restituisce, di tanto in tanto, a beneficio dei passati – per esempio, questo è il caso, due signore con il passeggino la cui capote è aperta alle infiammazioni solari, o un giro di studenti con un pallone in mano – un piede attaccato al polpaccio nudo, una mano aperta, l’icona gialla e seghettata di un fulmine.
“Tu mi sogni mai?”, dice Cristina.
“L’altra notte, sì”, dice Mario.
“E che facevo?”.
“Eravamo seduti in un bar e mi passavi delle foto”.
“Delle foto?”.
“Delle foto sigillate in busta chiusa”.
“E io com’ero?”
“Eri vestita da uomo, avevi la faccia in ombra”.
“Ma come facevi a sapere che fossi io?”.
“Ne avevo certezza assoluta”.
“E che c’era nelle foto?”.
“Solo i dettagli del corpo di una ragazza”.
“Le mie foto?”.
“Forse, ma erano in bianco e nero”.
“E io che ti dicevo?”.
“Di trovare quella ragazza, mi avrebbe cambiato la vita”.
“Cioè, per dire, avevi la foto di un orecchio?”
“Di un lobo di un orecchio, e da lì dovevo risalire alla ragazza”.
“E poi la trovavi?”
“Le foto prendevano automaticamente fuoco”.
Mario e Cristina si baciano, in tutto e per tutto compresi nel bacio, compressi nel bacio, nello spazio vuoto bianco illuminato dove non ci sono pensieri, né identità, né corpi, ma solo quel bacio, l’orbita liquida della lingua e la pressione morbida e serrata delle labbra, un bacio che non alimenta altri che se stesso prolungandosi nel tempo, all’infinito, senza soluzione, perlomeno fino a quando, Mario, aprendo gli occhi, non fuori, cioè nel mondo reale, il parco attraversato da un uomo di colore con un fascio di calzini colorati in vendita per un euro, ma proprio dentro quello spazio, in quella nuvoletta, inizia a diradare la confusione bianca e ovattata del bacio pensando Io, facendo riverberare la vibrazione di quella sillaba fino al centro del più infinitesimale nucleo della più impercettibile cellula, Io sono, ricordando tutta la strada fatta per essere presente nel parco in quel preciso istante, Io sono qui, mordendo con decisione le labbra di Cristina per lasciare un segno materiale di quel passaggio, Io sono qui per te, cosa di cui Cristina, aprendo gli occhi, non dentro, cioè nello stato-nazione denso e evanescente del bacio, ma fuori, la massa isterica e fluttuante dei fedelissimi dell’aperitivo in sbattimento per l’assegnazione di un tavolino appena oltre l’inferriata verde del parco, se ne rende conto tanto da staccarsi dalla presa di Mario, guardandolo fisso, portando un dito alle labbra, assicurandosi che, proprio nel punto in cui il suo indice indugia, la sillaba tagliente e autodeterminante e esclusiva dell’Io non abbia procurato una lacerazione, né, ancora peggio, intaccato la possibilità di rientrare nella nuvoletta, nello spazio vuoto e bianco e confusionale del bacio.
“Ci stai o no con la testa?”, dice Cristina.
“Scusami”, dice Mario.
“A cosa stavi pensando?”.
“Scusa”.
Il cane di Dio
di Gianni Biondillo
Diego Marani, Il cane di Dio, Bompiani, 176 pagine
Domingo Salazar è un agente segreto di una Italia diventata, in un futuro davvero prossimo, uno stato direttamente governato dai vertici vaticani. La chiesa ha, ovviamente, nemici interni, sacche di resistenza laiche, atee, scientiste. È per questo che Salazar viene richiamato a Roma dall’Olanda: la sua missione è ricercare di un gruppo di “eutanasisti” che si camuffano da parenti dei malati terminali per procurarne in realtà la morte assistita. Pura blasfemia, con tanto di confisca dei beni del suicida. Intanto qualcosa di più grosso bolle in pentola: la cerimonia di beatificazione di Benedetto XVI potrebbe essere funestata da un attentato alla vita dell’attuale santo padre, Benedetto XVIII.
Diego Marani, con Il cane di Dio, mischia i generi popolari: spy story, thriller, action, fantascienza. Ma il suo è essenzialmente un romanzo ucronico. I protagonisti della storia spediscono email, guidano automobili, prendono treni in un futuro così simile al nostro presente che quasi lo si può sovrapporre. È, in pratica, un chiaro esempio di what if?, espediente narrativo traducibile con: “Cosa sarebbe successo se…”
A modo suo è un libro a tema che parte da un assunto solo all’apparenza paradossale: cosa sarebbe l’Italia se fosse una nazione dichiaratamente teocratica e antidarwinista? La fortuna del romanzo sta nel fatto che l’intreccio vince sulle possibili derive moralistiche. In pratica a Marani soddisfa di più divertire che pontificare (mai come in questo caso!). Ma che l’autore parteggi per “i cattivi” è abbastanza evidente.
Il cane di Dio, insomma, non ha particolari pretese, se non quelle di incollare il lettore alla pagina attraverso un gioco dialettico che cerca di mettere in luce le contraddizioni della nostra società contemporanea, troppo invischiata da teismi retrogradi. Più che la scrittura raffinata e letteraria a Marani interessa il piacere dell’intrattenimento. Parola alla quale forse dovremmo iniziare a restituire dignità.
(pubblicato su Cooperazione, n° 35 del 28 agosto 2012)
La casa in fiamme
di Giovanni Giovannetti
“Ladri” nuovamente in casa mia, anzi piromani. E se la notte tra il 30 e il 31 dicembre le fiamme non hanno avvolto l’intera abitazione lo si deve al tempestivo allarme dato da un vicino: fuoco nel seminterrato, la porta che dà sul cortile spalancata (in modo che non restassero dubbi sulla natura dolosa dell’incendio) così da rendere visibili le fiamme. Se l’allarme fosse scattato con qualche ritardo, se le fiamme si fossero via via propagate all’intero seminterrato, ora non saremmo qui a lamentare danni in fin dei conti contenuti (qualche centinaio di libri andati in fumo e poco più).
Un “ladro” mi aveva già fatto visita un paio di settimane prima (di nuovo tra domenica e lunedì). Forzando la finestra della cucina, nottetempo qualcuno era entrato, aveva aperto i cassetti e gli armadi in tutte le stanze per poi andarsene senza rubare niente. Un avvertimento: quasi a dire “non sentirti al sicuro nemmeno in casa tua; qui noi entriamo quando ci pare”.
A meno di non credere ala visita della befana, sembra scontato il nesso con le recenti battaglie sulla criminalità urbanistica (le lottizzazioni abusive di Punta Est al Vallone e di Green Campus al Cravino, oltre alla illecita cementificazione delle Ortaglie di via Langosco, per citare le più recenti) condivise con Franco Maurici, Walter Veltri, Paolo Ferloni e gli altri esponenti della lista civica Insieme per Pavia.
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Sono tutte storie. Intervista a Gosia Turzeniecka
a cura di Ivan Fassio
“Sono tutte storie”, risponde alla mia prima domanda, su quanto i racconti giochino un ruolo importante all’interno della sua arte. È l’ammissione di un’inevitabile dipendenza dalle esperienze vissute, e, al tempo stesso, un rifiuto dell’insistenza del linguaggio verbale. Sottrarsi al potere della concatenazione narrativa di cause ed effetti rappresenta il fulcro del nostro progetto. L’occasione per quest’intervista è, infatti, la prossima personale di Gosia a Torino, alla Galleria Glance. Di questa mostra io sono il curatore. So, siccome l’esposizione è già allestita, che ha a che fare con il concetto di aderenza. Coincidenza della linea con i lineamenti del soggetto, rapporti di sinestesia, corrispondenza di nomi e cose, convergenze di descrizioni e segni. Non a caso, Con il Titolo è il modo in cui abbiamo battezzato l’esibizione, quasi a voler indicare l’irriducibilità di un’arte che si pone come linguaggio indipendente nei confronti della parola definitiva e chiarificatrice.

Gosia dipinge seguendo energie primordiali, china o seduta sul foglio da disegno. Proprio in questo modo, secondo me, dovrebbero essere comparse le prime scritture e nate le lingue: nello sforzo del ventre che, dal segno tracciato con volontà di comunicazione, avrebbe poi generato una particolare emissione fonetica a cui adeguare sinteticamente il disegno.
I.F.: La tua linea ha qualcosa di musicale. Talvolta è un violino, talaltra un tonfo. Sempre ci dice qualcosa in modo aurorale, come se fosse visto e riferito per la prima volta, in un’armonia originaria. Quale rapporto ha la tua pittura con la categoria estetica del suono?
G.T.: Da un grado inferiore dell’evoluzione, fino alle sottili emozioni umane, la sonorità è fondamento della mia pittura. Rimango ferma nella stalla di Nonno Celestino a Robella ad aspettare che le mucche caghino o piscino. Mi sposto da una all’altra, nel momento in cui sento il rumore degli escrementi, e immortalo il momento. Corro dietro a galline e anatre. Sono stata ferma immobile di fronte a milletrecento oche schiamazzanti, in Polonia, nel capannone di un contadino, mio vicino di casa. Le faraone sono le più stronze, fanno rumore e si muovono in fibrillazione continua, per questo devo fare continui sforzi di concentrazione. Una volta, un maiale, nonostante gli stessi parlando perché rimanesse fermo, ha addentato il foglio sul quale lo stavo ritraendo. Poco male, l’ho esposto così, con un angolo mancante: il porco mi ha regalato un ready made!
Quando dipingo le persone dormienti ascolto il fiato, mi muovo in una sinergia creativa tra torpore e suono. Ho dipinto cantanti lirici giapponesi e Lucio Dalla in concerto, a Novello, e ho sempre tentato di gettare un alone di ipnotico movimento sulla rappresentazione.
I.F.: Il dentro e il fuori sono aspetti del tuo approccio alla creazione. Un continuo avvicinarsi e scavalcare la linea che ci porta alla sorpresa della scoperta, alla presa di coscienza di un mondo chiuso oppure sterminatamente libero.
G.T.: Sono cresciuta a Piotrko’w Trybunalski, in Polonia, davanti alla facciata di un condominio che spesso dipingo. Questi assemblamenti di alloggi si chiamano Blok. Sono dei blocchi in cui tutte le figure possono rientrare, come nella mia pittura. Hanno qualcosa di malvagio, nella loro essenza di cemento, ma, allo stesso tempo, danno calore. Nella povertà che possono esprimere rimangono comunque delle fonti di familiarità e di protezione. Queste pareti mi affascinano, le finestre accese, le vite chiuse, silenziose nell’intimità notturna. Da piccola, andavo sul tetto di questi casamenti a giocare, da lì percepivo le pulsazioni delle esistenze, fino al piano terra. Oppure, le ombre della case contadine, che si vedono in lontananza, nell’infinita pianura Polacca, mi danno la stessa sensazione: percezione di vite che continuano. Se, oggi, non rappresento le finestre sempre dall’esterno, è perché, paradossalmente, ho trovato una via d’uscita. Allora, un giorno, da una stanza che dà sul porto di Mentone, ho dipinto le finestre, illuminate da una candela, che sono la strada per il mare, l’accesso al viaggio, l’ipotesi della libertà.
I.F.: Conoscere è rendere familiare un aspetto della realtà, per riuscire a darne una definizione nuova, lontana dalle consuetudini linguistiche. Certi tuoi quadri, creati nel movimento di un’unica linea, mi paiono frammenti di un nuovo alfabeto. Per fare questo, penso che occorra molto esercizio, ma anche l’assimilazione tra i propri affetti di un intero spaccato del mondo.
G.T.: Ricerco la familiarità come in un’indagine singolare, che mi permette di prendere confidenza, di amare le cose. Allora, ultimamente, ho ritratto mia madre sessantenne, mentre si trucca e si toglie qualche peletto dal viso, tutte le mattine. È il suo momento di dedizione a se stessa, nell’accappatoio rosso, con lo specchietto giallo in mano. Penso che quest’opera sia il modello esemplare di questa mia ricerca. In questo periodo, ritraggo spesso mio figlio Moreno. Tutte cose che si riferiscono ad una quotidianità degli affetti. Un modo per provare compassione e amore verso il mondo è anche avere delle luci accese da contare e da rappresentare sul foglio, a cui appassionarsi per renderle familiari: siano esse candele nel silenzio di un bosco Polacco, stelle sul golfo di Noli, lanterne in un viale, fari di navi al largo o riflessi della luna sul mare notturno.

Gosia Turzeniecka
Con il Titolo
Inaugurazione: 15 Gennaio 2013,
ore 18:30
Galleria Glance
via San Massimo n.45 (interno cortile)
10123 Torino
opening hours: martedì – sabato 15:30 – 19:30
o su appuntamento
tel.:+39 345.336.4193
http://www.galleriaglance.com/




