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video arte #6 – sam taylor-wood

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Sam Taylor-Wood, Still life, 2001.

Altre forme di Aventino – Silvia Avallone rinuncia alla scuola

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di Giuseppe Zucco

La scuola, il mondo scolastico, per me, è aria di famiglia. In un recentissimo passato, così come ho appreso la disposizione delle botole segrete di Prince of Persia, o lo struggimento pomeridiano di certe divisioni decimali, ho anche collezionato inconsciamente vizi e virtù della pubblica istruzione. Parole come graduatoria, punteggio, assegnazioni, supplenze, ruolo, corpo docenti, collegio insegnanti, sortiscono su di me lo stesso incantesimo della madeleine su Marcel Proust.

Proprio da piccolo, sei anni al massimo, capelli castano chiari, un’innata inclinazione al sarcasmo, quando la mia sola presenza innescava tutta una serie di smancerie da parte della dirigente di turno, piccoli buffetti e l’intramontabile domanda ti piace la scuola?, ho infilato al seguito di mia madre alcuni uffici del provveditorato di Reggio Calabria, un labirinto di stanze sature di fascicoli e faldoni posizionato un paio di piani più su di una gelateria buonissima.

Mio padre lavora nella segreteria di un liceo. Mia madre è stata prima insegnante elementare, quindi direttrice didattica. Due tra le mie zie, ora in pensione, hanno insegnato a scuola. A suo tempo, una cugina su otto ha rinverdito questa tradizione familiare.

Il mondo della scuola mi appartiene non solo come luogo del sapere che ho pazientemente scalato dalla valle primitiva dell’asilo fino alla vetta molto sofisticata della tesi di laurea, ma anche come una singolare provincia dell’esperienza umana le cui regole plasmano e irreggimentano in un modo del tutto particolare la vita, la malattia, l’ascesa sociale, le abitudini, la stasi, la rassegnazione, il furore, la delicatezza delle relazioni. Non finirò mai di pensare che per esempio direttrici, professoresse, insegnanti, siano accumunate senza volerlo dallo stesso vaporoso taglio di capelli, una rivisitazione meno barocca e più contemporanea delle parrucche di Luigi XIV. Così come non finirò di ricordare quanta dedizione ci voglia per fare questo mestiere (cosa a cui non tutti sono predisposti, evidentemente), e l’altissima soglia di sopportazione del dolore che il corpo docente ha sviluppato nel corso degli anni mentre la scuola veniva infestata dalla malaria della burocrazia, dalla sciagura dei tagli lineari, dal cataclisma della precarietà che paralizza e continua a paralizzare la forza vitale delle nuove generazioni di insegnanti. Una certa estetica è da sempre affiancata a un determinato saper fare: ed è solo in virtù di questa forza inerziale – l’inerzia della volontà, verrebbe da dire, se la formula non risultasse drammatica – che l’agonia e la gioia dell’insegnamento continuano nonostante la successione ciclica e burrascosa dei ministri.

È più o meno con questi fantasmi davanti agli occhi che ieri mattina, sul treno, sfogliando il Corriere della Sera, mi imbatto nell’articolo di Silvia Avallone. Trattando di scuola, lo leggo da cima a fondo. Il focus dell’articolo è il modo in cui viene selezionata la nuova classe di insegnati. Il tono e le constatazioni, più che a Kafka, un nome ricorrente nell’articolo, rimandano a Goya e alle sue pitture nere. Non c’è verso di raggiungere quello che oggi, nel nostro Paese, è diventato uno dei mestieri più ardui. Non basta la laurea. Non bastava neppure la famigerata Sis, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, che hanno allestito e dismesso nel giro di un decennio. Ostaggi del tempo e dei punti, dei master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su precarietà. In sostanza, dice Silvia Avallone, non solo è più probabile fare un incontro del terzo tipo con una qualche entità aliena che entrare di ruolo in maniera stabile e vantaggiosa sia per gli insegnati che per gli studenti, ma la disgrazia capitale sarebbe farcela, centrare l’obiettivo di una vita, cioè diventare insegnanti, una delle categorie più depresse, malridotte e sminuite su tutte le terre emerse.

La neanche così piccola apocalisse che Silvia Avallone disegna – la completa dismissione di uno tra i più raffinati e variabili e umani processi di condivisione del sapere – ha fondamenta più che solide. L’invenzione del Tfa, ovvero di un tirocinio formativo attivo che richiede al tirocinante 2500 euro nel caso di esito positivo alla prova di ammissione, tirocinio lungo un anno che alla fine abilita all’insegnamento, ma non assicura l’assunzione, la dice lunga.

Silvia Avallone, però, fa un passo in più. In chiusura, annuncia il suo ritiro dall’ambizione di diventare insegnante. Il passo è legittimo, ovviamente. Niente da obiettare di fronte a una scelta di vita venata dal colore dell’incredulità e della sofferenza. Resta tuttavia l’evidenza che il tutto sia confezionato in forma di articolo su uno dei quotidiani nazionali a maggiore tiratura, irradiando quindi un certo valore simbolico – valore che si dispiega sul capo inclinato dei suoi lettori proprio nel giorno in cui alla prova di ammissione del Tfa per ventimila posti disponibili si presentano centosettantaseimila possibili candidati.

Confrontando i due eventi, allora, la pubblicazione di un articolo di denuncia e abbandono e la pressione mattutina di una rilevante preparatissima massa umana sui fatidici banchi di un esame ministeriale – esame, tra l’altro, iniziato male e finito peggio: I test impossibili per aspiranti prof, titola sempre il Corriere  –  si spalanca un abisso. Perché, diciamolo fuori dai denti, Silvia Avallone sembra parlare dall’alto di una posizione, di una rendita di posizione, sciogliendo in forma di articolo il privilegio di una scelta – del resto, ha scritto un romanzo di successo, Rizzoli pubblicherà il secondo, il Corriere della Sera ospita i suoi articoli, al Festival di Venezia sarà presentato il film tratto dal suo primo libro – mentre la maggioranza deve, per vocazione o costanza, fatalità o assenza di alternative, proseguire ostinatamente sulla stessa strada, una strada lunghissima lastricata di esami, corsi di preparazione, corsi di aggiornamento, studio matto e disperato, sveglia la mattina presto per correre, sempre correre, ai ripari.

Ma, aldilà di questo, c’è un ulteriore passaggio nell’articolo che continua ad inquietarmi: Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo cieco. Perché se il salto logico di Silvia Avallone è stato “la scuola è un disastro, io ci rinuncio”, non vorrei passasse nel grande ventre dell’opinione pubblica l’idea che appena su qualsiasi cosa indispensabile per la pluralità dei cittadini si distenda il colorito cianotico della mancanza di ossigeno, questa venisse accantonata e lasciata agonizzare senza neanche il tentativo di infondergli nei polmoni il soffio provvidenziale di una respirazione bocca a bocca.

Il verbo che non possiamo più permetterci oggi è abdicare. Altrimenti, a furia di rinunciare, spegnendo poco per volta quanto riteniamo prezioso e duraturo, un giorno neanche tanto lontano finiremo per abdicare a noi stessi, quando già da un po’ eravamo cianotici e nella solitudine dei nostri appartamenti non ci sentivamo neanche troppo bene.

[qui si può leggere l’articolo di Silvia Avallone pubblicato sul Corriere della Sera il 25/7/2012]

Le lezioni americane di Borges (audio)

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di Davide Orecchio
Nel 1967-68 Jorge Louis Borges tenne un ciclo di sei lezioni sulla letteratura all’Università di Harvard. Siamo nell’ambito delle Norton Lectures, che hanno ospitato dal 1925 a oggi letture prestigiose (le Lezioni americane di Italo Calvino nascono lì). Quanto espose lo scrittore argentino (quasi del tutto cieco, senza ricorrere a note scritte) è diventato anche un libro, pubblicato in Italia da Mondadori (L’invenzione della poesia).

Aurora

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Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et uere ferreus ille fuit!

[“Chi fu il primo ad inventare le terribili spade? quanto davvero ferino e ferreo egli fu!”, Tibullo, Elegie 1.10, intorno al 25 a.C.], a.s.

Il Processo: Oscurare e Riproporre

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di Mattia Paganelli

 

Alcune domande a proposito dal lavoro di Rossella Biscotti “Il Processo” (2010-2012), installazione sonora che presenta le registrazioni originali dei verbali del processo del 7 Aprile, esibita a Documenta 13 quest’estate. http://d13.documenta.de/#participants/participants/rossella-biscotti/

http://www.rossellabiscotti.com/ctr/site/news.php

Perché gli artisti italiani hanno bisogno di ricordare gli anni 70? E soprattutto perché hanno bisogno di farlo adesso? Tocca all’arte riconsiderare la storia d’Italia che il paese e la cultura ufficiale (o il discorso dell’informazione) hanno dimenticato o messo a tacere per un certo periodo? Tocca all’arte farsi carico di discutere quello che il discorso ufficiale della storia/politica non affronta? La responsabilità della cultura è anche questa, ma quello che mi incuriosisce è lo squilibrio tra l’assenza di questo dibattito in ambiti non culturali, diciamo quotidiani (informazione/media), e la sua migrazione nell’arte.

Dove sono le cose selvagge

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 di Francesca Matteoni

 

C’è un paese dove i libri si aprono e fanno magie. Gli adulti si svestono della loro adultità, i bambini si conoscono tutti per nome. Max, Mickey, Ida, Maurice Sendak, il loro creatore. Le magie non sono buone né cattive. Devi crederci. Indossare il tuo costume di lupo, nuotare nel bricco del latte, suonare nel corno incantato. La tua stanza è ovunque e la Via Lattea un’enorme bottiglia di vetro, colma fino all’orlo. Ci sono viaggi sul vento e per mare. I genitori sono perduti, distratti, addormentati. I bambini si svegliano, non si perdono in pianti e paure. Vanno alla scoperta, alla ricerca.

La smorfia di Gwynplaine

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Antonio Gramsci

Ogni volta che la politica manda a effetto una operazione contro la classe operaia, i primi a gioirne o, “meglio”, i primi a dare manifestazioni esteriori della loro contentezza non sono i “pezzi grossi”, commissari di polizia od ufficiali delle regie guardie o dei carabinieri, ma sono i più umili agenti, i più modesti carabinieri, l’ultima delle guardie regie. Sono cioè gli agenti del governo usciti dalle file del proletariato più arretrato, costretti a questo passo dalla miseria o dalla speranza di trovare, abbandonando il campo o l’officina, una vita migliore, dalla persuasione di divenire qualche cosa di più di un povero contadino relegato in un paesetto sperduto fra i monti, di un manovale abbruttito dal quotidiano lavoro d’officina.

Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate – Una lezione di Peter Brook

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di Giuseppe Zucco

[un reportage teatrale scritto qualche anno fa, ma che ancora conserva istruzioni del tutto attuali]

Di Peter Brook, fino a un paio di settimane fa, non ne sapevo molto. Conoscevo il nome, che era un regista teatrale di fama mondiale, che l’ammirazione e gli applausi non finivano di fioccare dalle sue parti – insomma, è prevedibile che se non vai a vedere con i tuoi occhi, quello che ti arriva addosso è puro marketing e personaggi costruiti ad arte e l’incenso dei comunicati stampa. Così, sono andato a sentire una sua lezione al Piccolo Teatro Studio di Milano.

Arrivo che è già pieno. I posti migliori sono tutti occupati. Gli estimatori tubano, e sussurrano, e ondeggiano, e si dispongono senza creare disordine. Il caldo in sala ha una strana connessione con la loro temperatura emotiva. Non puoi evitare di leggere la parola Maestro sulle loro labbra. Poi, arriva Peter Brook. Se non l’hai mai visto, ti sorprendi a osservare il vecchietto che cammina in mezzo agli applausi, very british nella fisionomia e nel portamento, ma a ottantanni suonati con jeans, sneakers e il giubbotto di pelle nera. Sembra Fonzie, da grande: quando ha perso capelli ciuffo brillantina, e la vita gli ha già regalato tutto, ed è un portatore sano di esperienza. Si siede su una sedia da regista. E sta esattamente al centro della nostra attenzione.

Alla sua sinistra: un uomo con il maglioncino dolcevita da intellettuale anni sessanta più scarpe di vernice nera che brillano mentre fa domande lunghissime a Brook, alcune davvero imbarazzanti, tipo quella sull’apporto dato dagli attori neri al suo teatro. Alla sua destra: la traduttrice, capelli lunghi e stivali, che di tanto in tanto, invece di tradurre quello che sente, sorride e annuisce – come se Peter Brook si rivolgesse direttamente a lei, ignorando la platea – e mentre annuisce e sorride, interpreta, ma delle volte interpreta male e si scusa, torna sui propri passi, e riporta le parole per quello che sono, con il loro significato preciso e nulla più. Comunque, niente di meglio che avere una traduttrice dalla nostra.

Peter Brook, divertito e completamente a suo agio in mezzo agli estimatori ipnotizzati, avverte che la sua lezione subirà la seguente variazione linguistica: l’italiano per i saluti e l’introduzione, l’inglese per gli argomenti terra terra, il francese per le discussioni intellettuali. Il pubblico ride. Gli stereotipi linguistico-culturali sono sani e salvi perfino qui – ma il modo in cui sono presentati è chiaramente ironico, ed è una cosa del tutto fatata godere degli stereotipi nel momento in cui vengono smagnetizzi dall’ironia iniziale.

Non faccio in tempo a ordinare questo pensiero, che Peter Brook, il suo inglese lento e pacifico, riempiono lo spazio vuoto del teatro. L’attenzione è alle stelle. E neanche le domande lunghissime e para-intellettuali dell’uomo con il maglioncino sembrano rompere l’attenzione. Solo Peter Brook a esporre le sue avventure: per esempio quella africana, dove ogni giorno, lui e la sua troupe, entrano in un villaggio diverso, e senza conoscere la lingua, senza afferrare la cultura, con forme teatrali che giocano principalmente sulla gestualità e sul corpo, tentano di comunicare e condividere esperienza e umanità e altri modi di codificare la vita.

E l’idea di Peter Brook è che per arrivare al cuore delle cose, devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude – come il teatro, che non ha bisogno di scenografie grandiose, e abiti di scena griffati, e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio, fino in fondo, con tutto il loro corpo – l’energia del corpo, l’esattezza mimetica del corpo. Ovviamente, è in francese che dice queste cose. Le dice prima di spedirmi in testa una frase che non dimenticherò mai più, Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate.

Incasso il colpo. E rimango in bilico su questo pensiero mentre qualcuno chiede qualcosa sul teatro cinese e su come diventare registi – domanda che non ha altra risposta se non: più ci date dentro con la regia, più imparate. Le mode, i maestri, roba con la data di scadenza. Il pubblico in trance. Silenzio e concentrazione che dura fino a quando Peter Brook non si alza, e corre a dirigere le prove prima dello spettacolo, e gli estimatori con la parola Maestro tra i denti e le mani rosse di applausi riaccendono i telefonini.

 *** 

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. I sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare su i non-francofoni.

Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena a incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di fare fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles.

Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, quel nero non ha nulla di casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo la parola vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia – e tu sei lì a ridere, il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive e unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e – anche se ridi con Styles e non di Styles – hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina.

Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford – con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio da fotografo. E i clienti vanno e vengono, Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni nelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da recepire. Il dramma è racchiuso nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perché se lo catturano lo rispediscono in Sudafrica, la sua terra, ritrovandosi per strada a elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia.

Sizwe Banzi è grande, grosso, la disperazione lo incupisce – e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare nel primo angolo, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra, (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo). Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova i documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti e dilemmi interiori e dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi decide di diventare Robert, un uomo di colore con i documenti.

La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne e ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente dà l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante.

È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione.

Di sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia – ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, ne fa esperienza come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere steso in mezzo alla strada.

Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook, gli attori), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.

Robe da pazzi

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FERMIAMO LA CONTRORIFORMA PSICHIATRICA

NO al disegno di legge Ciccioli
NO alla riapertura dei manicomi

Il disegno di legge presentato alle Camere dal relatore On. Carlo Ciccioli (PdL) va contro uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione democratica: la garanzia per tutti i cittadini di non poter essere privati della libertà personale senza aver commesso reati.

La riduzione delle garanzie per i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) e l’introduzione di trattamenti sanitari di un anno senza consenso del paziente – misure entrambe previste dalla proposta di legge – costituiscono un abuso anticostituzionale che sostituisce alla cura la custodia, umilia gli operatori che scelgono con passione il lavoro in psichiatria, trasformandoli in soggetti che esercitano il potere della custodia e della coercizione. Ripropone l’universo concentrazionario manicomiale.

Il problema della salute mentale, a detta di una fonte autorevole come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, va affrontato come un processo che punta a produrre guarigione, non patologia. La legge 180, che si vorrebbe abolire per tornare alla mentalità coercitiva della legge 36 del 1904, stabilisce comunque l’eventualità del Trattamento Sanitario Obbligatorio limitandone però la durata a sette giorni, rinnovabili a quattordici. Questo provvedimento viene applicato in maniera diversa nelle diverse regioni e nei diversi servizi. Ci sono Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) affollati, con i pazienti nei corridoi, legati ai lettini, altri quasi spopolati. Questi ultimi indicano buone pratiche psichiatriche, così come l’assenza di coercizioni fisiche e di porte chiuse.

Come mai si ripropone oggi il ricovero coatto a oltranza senza avere nominato una commissione d’inchiesta che visitasse gli SPDC per verificare quanto accade? Perché non si vuole dare ascolto agli operatori di settore, agli esperti, ai terapeuti, ai pazienti, chiamati a confrontarsi ogni giorno con la realtà della malattia mentale? Perché non si parla della mancata applicazione della legge 180 in molte parti d’Italia?

Questo appello è rivolto a tutti i cittadini che credono ancora in una società giusta e solidale, una società che non penalizza le minoranze, in particolare una delle minoranze più fragili: i folli. Sosteniamo l’opposizione alla controriforma Ciccioli in nome della civiltà democratica, di una clinica umana e solidale, di un maggiore coinvolgimento e responsabilità della società tutta nel trattamento dei disordini mentali.

I primi firmatari dell’appello:

Pietro Barbetta
Marco Belpoliti
Stefano Chiodi
Roberto Gilodi
Gabriella Caramore
Luciano Genta
Paola Lenarduzzi
Gianni Biondillo
Valeria Paola Babini
Cristina Donà
Antonio Scurati
Alberto Ghidini
Franco Brevini
Paola Giovanna Garbarini
Barbara Grespi
Federico Ferrari
Gabriele Pedullà
Valle Adriana
Riccardo Panattoni
Michele Capararo
Gianluca Bocchi
Chiara Brambilla
Valeria Gennero
Maria Luisa Agostinelli
Ferdinando Camon
Matteo Magrini
Emanuele Zinato
Luigi De Angelis
Franco Arminio
Maria Bagnis
Beatrice Catini
Maurizio Salvetti
Michele Dantini
Clelia Epis
Marisa Fiumanò
Marcelo Pakman
Claudia Adria Gandolfi
Eduardo Villar
Giulia Zoppi
Luigi Benevelli
Iva Ursini
Eva Banchelli
Enzo Catini
Maria Antonietta Schepisi
Eleonora Canali
Adone Brandalise
Alberto Zicchiero
Roberta Naclerio
Manuela Bertocchi
Pierino Muraro
Paolo Catini
Caterina Azzola
Mariadolores Verrascina
Mario Salvetti
Serena Birolini
Ada Piselli
Anna Barracco
Giulio De Nicola
Giacomo Conserva
Ugo Morelli
Michela Benaglia
Peppe Dell’Acqua
Alessandro Carrera
Giulio Iacoli
Roberto Koch
Dalia Oggero
Giovanni Anceschi
Daniele Giglioli
Manlio Brusatin
Gian Carlo Brioschi
Maria Nadotti
Luca Scarlini
Aldo Nove
Roberto Marone
Frediano Sessi
Annalisa Angelini
Giacomo Giossi
Gianni Canova
Matteo Di Gesù
Marco Martinelli
Ermanna Montanari
Beppe Sebaste
Maurizio Sentieri
Francesca Borrelli
Giancarlo M. G. Scoditti
Wlodek Goldkorn
Luca Sossella
Andrea Mosconi
Vincenzo Ostuni
Enrico Manera
Davide S. Sapienza
Francesca Rigotti
Davide Ferrario
Arturo Mazzarella
Francesco Matarrese
Rä di Martino
Stefania Zuliani
Maurizio Ciampa

Per adesioni all’appello lasciate un commento qui o qui.

Le bianche braccia della signora Sorgedhal

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di Gianni Biondillo

Lars Gustafsson, Le bianche braccia della signora Sorgedhal, 231 pag., Iperborea, trad. Carmen Giorgetti Cima

La signora Sorgedahl “veniva da quella parte della Svizzera dove si parla italiano”, aveva la pelle chiara e i capelli rossi. E il doppio degli anni del gruppo di adolescenti che, nei pomeriggi dopo la scuola, andava a trovarla a casa, per ascoltare musica classica e discutere di filosofia. Moglie di un noioso ingegnere svedese, riempiva l’aria di un profumo misterioso.

Era il 1954 e sarebbe sparita per sempre dalla memoria del mondo se il suo ricordo acuto e doloroso non fosse riapparso come una epifania nella memoria di un ormai vecchio professore di Oxford ad un passo dalla pensione. Di uno, cioè, dei ragazzi di oltre cinquant’anni fa, che oggi, incredulo, viene investito dalla potenza dei ricordi. Di lei, il narratore, s’era completamente dimenticato. Ora, sempre più consapevole della sua vita in discesa, verso un baratro incomprensibile, impossibile da decrittare, il ricordo di quella donna, di quella estate dove un giovane studente oltrepassa la sua linea d’ombra, diventa l’occasione per perdersi fra la reviviscenza della memoria (alcuni passaggi del romanzo sono “maledettamente” proustiani) e la digressione dotta e fantastica di ascendenza borgesiana.

Il Narratore, per quanto personaggio di fantasia, assomiglia, per biografia, al suo autore, Lars Gustafsson, filosofo, matematico, poeta e narratore svedese fra i più tradotti al mondo. Le bianche braccia della signora Sorgedhal è un romanzo anomalo, colmo di tensioni erotiche giovanili e di dolenti riflessioni senili, che cerca di ricostruire il mondo di un uomo raggrumando in un preciso punto del tempo e dello spazio – in un paese della Svezia, in un anno particolare – il significato stesso della sua esistenza. Il tempo non ha senso, tutto accade “contemporaneamente”, filosoficamente ognuno di noi, dice Gustafsson, vive dentro una bolla che non ha esterno. Vive un eterno presente, eternamente, impossibilitato a comprendere mai cosa c’è “dopo”, oltre le rapide del fiume, oltre l’orizzonte.

(pubblicato su Cooperazione n. 17 del 24 aprile 2012)

marcello

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di Alessandra Carnaroli

 

marcello hai fatto

un macello incinta

al nono mese

tua moglie

rotta la testa

bruciata i vestiti

solo resti brandelli

i budelli accovacciati al colon

Sonorità flux

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di Giorgia Romagnoli

Ripara il rubinetto. Per quello che vedo, per quello che sento. La perdita continua. Anche di notte. Che sento, che vedo. Chi può sentire, chi può vedere. Sentirai probabilmente lieve fruscio. Continua a perdere, come quando è iniziato. Stesso ritmo. Scandisce piano, scorre lento. Entra ed esce a intervalli regolari. Chi ascolta può sentire. Finché non sarà riparato.

*

Senti di nuovo. Un altro, si sovrappone. Fruscio più intenso. Foglie, vento, lieve brezza. Intanto continua. Si perde ma perde. Anche di notte. Lieve brezza. Si fa più intenso. Rigira se stesso. Turbine, quasi tempesta. Entra e non esce. Continua e si perde.

*

La lingua sconosciuta. Non compresa. Entra e non esce. Continua, non si perde. S’interrompe. Di notte. Dialogo e somma. Non riesci a capire. Irrompono voci. Tutte insieme. Ti convinci, è una lingua incomprensibile. Non la puoi capire. Non la puoi parlare.

*

O’clock. 24 ore. Costante. Anch’esso scandisce. Di due in due. Il tempo. Mentre perde. E soffia e perde. Lentamente, scorre. Per ora non si ferma. Continua. Ticchettio, lancette. Ritmo binario. Che scorre, che passa, che perde e soffia e scandisce ormai da tempo.

*

Martella, materia. Ora il ritmo cambia. Intervalli. Irregolari stavolta. Lavora, materia, pesante. Si è perso. Non perde ma continua a soffiare. Non lo senti più ora. E’ stato riparato. Ancora qualche alito, poi tutto torna quieto.

*

Traccia audio:

http://espoetries.blogspot.it/2012/04/fluxus-sounds.html

Giorgia Romagnoli nasce a Jesi nel 1995 e vive a Monte San Vito (AN).

Sul web cura il blog:

http://espoetries.blogspot.it/

Il Primus Pilus della guerra eterna

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di Mauro Baldrati


Nell’esercito dell’antica Roma il Primus Pilus – o Primipili – era il centurione Prior, il comandante della prima linea e capo di tutti i centurioni. Era un ufficiale molto rispettato, aveva accesso alle riunioni strategiche coi legati, i tribuni, e la sua parola era tenuta in alta considerazione. Salvo qualche eccezione la sua nomina non era calata dall’alto, o dovuta all’appartenenza alla classe equestre, come regolarmente avveniva nella corrotta Roma, ma conquistata sul campo di battaglia. Il Primus Pilus combatteva coi suoi uomini, e se sopravviveva diventava una sorta di super guerriero che nessuno osava contraddire.

ebook: se i critici si fanno da parte

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La mia impressione è che i critici militanti abbiano paura.
Si rendono conto che la scrittura sta uscendo dal libro, sta agguantando altri media, altre griglie di relazione interna ed esterna all’oggetto libro e – sostanzialmente – loro, i critici, queste nuove modalità del raccontare non le sanno gestire. Non le conoscono, le confondono. E allora si tengono a debita distanza.

Nel momento in cui la critica ufficiale si disinteressa dei libri digitali, o peggio ancora li stigmatizza, chi parla dei miei ebook? Chi prende il posto della critica dei contenuti?

Due figure parlano degli ebook oggi in rete: i lettori (Dio li benedica) e coloro che sono più interessati al contenitore che al contenuto: alla forma dell’ebook, alla sua distribuzione, al suo ruolo di prodotto di mercato.

Fabrizio Venerandi, Quintadicopertina editore.

Del disinteresse della critica per le pubblicazioni digitali ho parlato a lungo con Fabrizio a Mesagne: credo nasca in parte dal disagio informatico (xhtml e programmazione, alfabetizzazione di base) e soprattutto dall’assenza di esperienza letteraria non tradizionale: giochi, sceneggiatura, narrativa non lineare, per fare alcuni esempi.

Leggi l’articolo originale, dove Fabrizio Venerandi non risparmia le stoccate ai nuovi editori digitali.

Gli orsi trentini

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di Giacomo Sartori

La più incazzata è la tipa delle asine

l’orso le ha fatto secche due asine

era molto affezionata

(la capisco

alla mia veneranda età

mi sono invaghito di una tigre

di peluche)

milita per il genocidio degli orsi

Surf-publishing: Marcello Capozzi

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Sciopero a parole
di
Marcello Capozzi

Tempo fa avevo l’incubo ricorrente di finire sotto terra con l’ultimo respiro ancora in gola. Paura che qualcosa nel morire si inceppasse, conservandosi intatto. Qualcosa di risparmiato, di non speso, che restasse lì come una specie di rimasuglio di gas tra i fornelli o il getto d’acqua avanzato dai rubinetti chiusi, prima di abbandonare casa. Temevo di attardarmi in una misteriosa forma cocciuta di permanenza incarnata, inconstatabile dall’esterno. Il sogno mi inscenava all’aperto. Attorno a me c’era gente, di cui percepivo chiaramente la presenza malgrado le palpebre serrate. La mente s’allungava, ma nulla del mio stato di coscienza era comunicabile. Qualcuno ricopriva la bara e la chiudeva con un sigillo. Io venivo cautamente calato giù nel pozzetto rettangolare profondo tre metri. Poi, con ritmica graduale, il solco nel terreno si faceva colmo sopra di me. E per gli altri ridiventava suolo.

Un giorno però mi rimisi a suonare. Riaggiustai i miei strumenti musicali e cominciai a mettere del materiale da parte registrando tracce un po’ alla buona. Nel frattempo, portavo a termine il mio percorso universitario in Filosofia alla Federico II di Napoli e sperimentavo qua e là un po’ di quelle forme contrattuali ricorrenti e bislacche, che anche se dette con un lapsus son sempre vere: tirocini o stage con rimorso spese, contratti a rigetto e a.che.pro., o giù di lì. Generalmente tutte occasioni da perdere.

Ma ciò che ti aliena ed offende può anche ricondurti a te stesso. Come tanti altri ho vissuto e vivo situazioni strane, apparentemente senza ordine. E in fin dei conti, non so neanche bene in che modo giudicare questo nostro tempo. Riesco solo a pensare che ora come ora vale la pena suonare. Una congiuntura economica drammatica come quella attuale lascia osservare nitidamente che se si ha la sensazione, anche solo l’impressione sbagliata, di possedere un talento, non vale la pena lasciarlo inutilizzato in nome di una visione realistica delle opportunità sociali. Nutriamo un sogno concepito in un universo povero? Ma qual è la ricchezza contrapposta? Esiste un mo-do più efficace di tirare a campare, la possibilità concreta di costruire condizioni diverse, un lavoro stabile, una sicurezza di rango superiore? Gli operai sulle gru, gli insegnanti sui tetti, le decine di migliaia di persone che si immolano per forme sempre più pericolose, spettacolari e solitarie, di protesta, rivendicando ciò che hanno già perso, dimostrano che la povertà non sta da una parte soltanto. E non si può più temere di rispondere, utilizzare i propri strumenti espressivi, quelli vecchi, quelli che si erano appunto abbandonati. Una persona che di mestiere fa il cantante mi ha detto che a fare questa vita si rischia di finire male. Io spero in qualche modo di riuscirci. Perché, in fondo, mi viene da dire: come altro è che si finisce?

Per questo motivo mi sono chiuso tre giorni in studio di registrazione per incidere un Ep, intitolato SCIOPERO. Sono stati tre giorni estremamente frenetici e pieni di grandine, a cui ho attribuito una profonda carica simbolica. Tempo e budget erano risicati e sui risultati mi sono dovuto in parte accontentare, facendo anche a meno di ave-re una band. Ma va bene lo stesso: a quanto raccontano, c’è chi in tre giorni si è dedicato ad imprese ben più complesse, come la resurrezione. Ed anche per me è un po’ così. A questo SCIOPERO potete attribuire il colore che preferite, in piena libertà… giallo, rosso, arancione, verde, blu… magari bianco e nero assieme. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho 28 anni e che da questo evento, con questo gesto, la mia biografia oggi riparte.

Il Peso del Ciao

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Così vai

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera, vedi senti
la voce che s’arazza si sbandiera al corpo che l’aria
semina in correnti con un colpo di pioggia un alito di vento
che assottiglia il muro che da noi separa i baci immaginari

da una terra che la vite ha colto nei filari tra le rocce
ai piedi dei monti che già in strada si vedono le cime
al mare che la tua sovrasta vedi senti Chimera questa voce
che ti sussurra vita mia, cuor mio, come da un tempo prima
di te

video arte #5 – erwin olaf

2

Erwin Olaf, Dusk, 2009.