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Il periodo blu di Anita Riolo

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di Marco Mantello

Cara Anita,

Ho provato più volte a scrivere qualcosa di universale e compiutamente privo di emotività a proposito della tua nascita. Magari lo troverai stupido, natalizio, retorico… Te lo ricordi che ti dicevamo tua madre e io da ragazzina? «Hai fatto sempre come volevi tu». E impara a difenderti, in primo luogo da noi, l’autonomia il senso critico non lo so scusa, non volevo iniziare così…
La sera prima, con tua madre, eravamo stati a un concerto all’Akademie der Künste. Verso mezzanotte, quando sono cominciate le contrazioni e ci siamo messi con l’orologio a vedere ogni quanto le venivano, era tutto pronto in due valigie apposite, le lenzuola pulite, i vestiti di ricambio, la cioccolata per me…
Ecco, adesso sicuramente mi dirai: come al solito descrivi le situazioni senza esporti mai in prima persona. Che cosa provavi, tu? Avevi paura? Eri felice? Un senso di attesa, agitazione, cosa?
Non lo so forse all’inizio una totale assenza. Che poi è la sensazione tipica che provo, quando mi capita di vivere. Voglio dire la rottura dei ritmi, le giornate più o meno scandite, la verità è che il tempo presente a me mi stordisce proprio, ti sembra come di non esserci, come assistere a uno show da fuori, appunto, fiction.

Siamo arrivati alla “Casa del sole” alle due di notte. C’era questa stanza dalle pareti gialle, con un letto a due piazze e il soffitto a spioventi dove entravi scalzo, una vasca rosso fosforescente, una spalliera ginnica e una possente corda che pendeva giù dal soffitto, gialla anche lei. Pareva di stare dentro a uno di quei quadri metafisici, tipo ‘Mobili nella Valle’ di De Chirico. Solo che poi, guardandoti intorno, ti accorgevi delle quattro mura dove stavi chiuso, e della presenza di persone.

Nei primi mesi avevamo fatto pure il corso preparativo al parto. Si ragionava un minimo sulle alterazioni degli equilibri, sui rapporti con il tuo partner, su quanto poco si possa scopare durante l’allattamento e come fare per non lasciarsi, sì insomma era un fatto di testa che comanda il corpo ed era ok così, almeno per me, un fallico masochista, come diceva il libro di Lowen che ci avevano dato da leggere a casa. Solo che rappresentarsi un qualche cosa resta una cosa molto diversa dalla sua esperienza diretta. E noi adesso stavamo lì, in quella specie di gabbia per canarini e tua madre gridava, adesso era il suo corpo a comandare la mia mente e gli equilibri che pensavo stabiliti una volta per tutte stavano per rompersi irreparabilmente, assieme alle acque di tua madre. E c’era Karin. Karin, quella cicciona, pareva uscita da quella serie televisiva sugli angeli che vanno in giro per l’America bianca a lenire il dolore dei poveracci, dei ricchi sfondati, dell’intramontabile ceto medio.
Alle lezioni sprofondava su una grossa palla, a gambe larghe, davanti alle coppie di puerpere e partner, e da lì ci leggeva i resoconti di quelle che avevano fatto già, alla “Casa del sole”. Lavorava con questo bambolotto glabro, pelatissimo, con due grandi occhioni blu e le palpebre che si aprivano e si chiudevano.
«E adesso proviamo a girarlo… le mani sempre sotto la testa, ecco state facendo il bagnetto… ».
Dopo le prove pratiche guardavamo vecchi video degli anni ’70, queste trentenni di allora oramai decrepite, rugose, forse morte, con le onde di mare aperto e i cappellini a fiori. Si discuteva appunto di “controllo del dolore”, lasciarsi andare alle contrazioni che vanno e vengono come onde, non lasciarsi mai travolgere e lei, su quella palla, col telecomando in mano e il suo instancabile: «Allora! Ci sono dubbi, domande?», scrutava le silenziose facce delle puerpere. Rispondeva a tutto, anche alle cose più cretine, quelle fatte dai partner giovani per far ridere l’uditorio («Ma il bambino può diventare sordo prima di nascere? Voglio dire, lui ci sente da là dentro, giusto?»).

Entrò nella camera gialla e disse: «Cara… » a Elisa, e per due volte le carezzò le guance. Io vedendola sentii la sensazione solita. Familiare il golf di kashmir e quei larghi pantaloni neri. Familiari quelle dita grosse e tonde, prive di tremori e senza anelli. Familiari le labbra sottili e il respiro greve, bisognoso di pause quando faceva le scale. Non ci avevo fatto proprio caso, a quel leggero cedimento psicologico quando era venuta a casa, la settimana prima, con tutti quei fogli da firmare, e che adesso rivedevo nitido in quel tenue, balbettante: «Ciao, junger Mann. Prendi posto», con il quale mi aveva accolto nel suo piccolo regno delle nascite naturali. Forse era stato il modo in cui mi ero posto io, le prime volte. O il fatto che di solito operasse con caratteri più semplici e penetrabili, o il prolungato silenzio con il quale osservavo muoversi la sua ciccia nella nostra cucina, a renderla goffa, insicura, così poco tedesca, se capisci cosa intendo dire.
Quando seppe che ero giurista le cadde la penna di mano ed era come se quella distrazione insulsa, non lo so, era come se l’avesse sentita accadere con i miei occhi, gli occhi del controllore. Ma io non volevo controllare nulla, le avevo solo chiesto se quella che firmava Elisa fosse o meno una dichiarazione di consenso informato.
Così, adesso che eravamo dentro a quella stanza gialla, e tu dovevi nascere, feci molta attenzione a non fissarla mai dritta negli occhi.
«Secondo te quanto ci metteremo? », le chiesi
«Ah, può durare oltre dieci ore, junger Mann… ».
Faceva su e giù dalla camera gialla a ‘di là’, con un mucchio di scartoffie in mano, e cantava con Elisa e l’altra ostetrica più giovane, tutte di pancia, come nel video delle onde. Elisa stava in ginocchio, pallidissima, su un tappetino ai piedi del letto. Io invece ero seduto ai bordi, e le tenevo la testa in grembo. Certe volte, in quel lucore, la vista sfocava nel dormiveglia e il canto delle vestali si faceva sempre più lontano. Poi sentivo la sua voce greve: «Elisa, ho bisogno che ti stendi un attimo. Devo scrutare dentro». E subito mi risvegliavo, aprivo gli occhi su tutto.

Non uscirono molte acque, quando le mise il pollice e le ruppe lei, o almeno io non me ne resi conto. Le avevano dato le palline omeopatiche e di tanto in tanto la riportavano in bagno per defecare.
«Brava e adesso e adesso espiriamola tutta… schuuuuuuh… schuuuuuuuh…’, disse Karin. Eravamo lì da cinque ore. E lei scrutava, scrutava dentro coi polpastrelli e poi, con discrezione, muoveva gli occhi verso la collega, come in quella vecchia puntata di ‘Touched by an angel’, dove Tess dice a Monica che il Padre Eterno l’ha adibita a una nuova missione ed è tempo di levar le tende…
«Dove senti spingere Elisa? Sul sedere?», le chiese con tono serissimo.
«La pancia», mugugnò Elisa. Era sudata fradicia e cantava, cantava sempre più forte.
«Come prego?»
«Davanti, sente spingere davanti… » disse l’altra. Le avevano dato il Buscopan, e poi di nuovo in bagno.
Fuori dalla finestra, la barra del parcheggio aveva preso ad azionarsi e il buio, dentro i rettangolini accesi dei palazzi in direzione Lichtenberg, era svanito di colpo. Lungo il cielo lattifero e nùvolo, si sentiva la scia delle prime auto, e un trionfale cinguettìo di uccelli.
«Elisa ti devo parlare» disse Karin. Erano le sei del mattino.
«Non riesco a vedere la testa e ho deciso di portarti in clinica. Adesso ti farò un’iniezione. Non interromperà le doglie, stai tranquilla. Junger Mann prende le vostre cose e ci segue in auto, sono solo cinque minuti, allora che ne dici? Sei d’accordo, andiamo?»
L’avevano fatta rivestire, giù al parcheggio, piegata in due dalle fitte e pallida, ripeteva sempre questa cosa di farlo smettere: «Per favore fatelo smettere!». Anche in clinica, quando l’hanno stesa per l’ecografia: «È uno Sternengucker!» ci spiegò la dottoressa, cioè uno che guarda le stelle, con la testa verso l’alto e non come avviene di solito, chino e curvo verso la terra.
«Ehm in questi casi si fa il cesareo… » disse Karin con un tono da missionaria. La dottoressa prese a fissarla con la classica circospezione della ‘laureata’.
«Sì ma il bambino sta bene?» le chiesi io

Karin è andata via dopo mezz’ora, baciandoci tutti in fronte. Quanto a me e a tua madre, ci avevano messo in una sala tutta per noi, a strillare con questa Cordula, l’ostetrica nuova. È arrivato un ragazzino dai grandi occhiali, in càmice verde. Elisa stava a pecora sul letto e lui dietro, stringeva la siringa in mano e con un grosso pennarello aveva disegnato una x, tra le vertebre settima e ottava per l’epidurale.
«E perché ha deciso di partorire in una “Casa del sole”? Perché è più bello?» le chiese ficcando l’ago in vertebra.
«Adesso non mi va di parlarne, se vuole glielo spiego dopo!» sbuffò Elisa gelida.
Il dottorino fissava tutti e nessuno. «È venuta perfetta!» disse, come per dare conferma a se stesso del suo livello di preparazione post-dottoraria. «Adesso deve solo spingere nel verso giusto, e se lo ricordi, la prossima volta in ospedale è meglio!» ripeté prima di uscire. Il male si era fatto innaturale, e dunque tollerabile, biblicamente e laicamente in regola.
«Cinque centimetri… » disse Cordula. E poi, verso di me, stavo di fianco al lettino, a massaggiare il culo aperto di tua madre… «Vuoi vedere? Vieni! Vieni a vedere, avvicinati non essere timido… ».
Era tutto di fuori, una grossa palla violacea, e quel misto di urine emorroidi e feci, adagiato su una tonda bacinella argentea che tutto accoglieva, tra le mani Cordula aveva pure questa lucina e l’agitava e mi diceva: «Ecco, la vedi la testa?». Tesi gli occhi verso il cattivo odore e poi, quando Elisa ha spinto ancora, e ancora, e ancora, gridava proprio… «Elisa ci sei! Manca davvero pochissimo!» ho strillato anch’io. Avevo una voce, letteralmente, ‘rotta’, in quel mare di grumi neri e merda, era la prima volta in vita mia che sentivo sulla pelle di qualcun altro, tutto il peso della parola vita. Sei uscita fuori come una molla. E Cordula a sua volta ha mollato, anche la bacinella. La prima cosa che ho visto è stata la tua fica.
«Elisa, è femmina guarda è femmina!». E lei si è mossa tutta, per vedere dov’eri, con quei due occhi lucidi, stava ancora a pecora, fra il cordone e il suo pulsare vivo, le avevano messo questo coso di plastica, come una specie di mezza coda che pendeva giù dal culo. Poi hanno portato le forbici. Erano d’oro, minute e arrotondate sulle punte. Cordula ha stretto per bene, pareva l’inaugurazione di un transatlantico.
«Qui junger Mann, devi tagliare qui!» mi ha detto.
E io ho tagliato, il suo pulsare vivo.
Non so dire per quanto tempo, dopo che ho tagliato, eri tutta blu. I piedini il naso le gote tutta blu e ti guardavi intorno, come se qualcosa volesse venire fuori. E spingesse forte. E non riuscisse a uscire dalla tua bocca il respiro o il grido, una cosa solo tua il distacco definitivo dal corpo di tua madre…
Elisa ti aveva tirata al petto, aveva un’aria da fine della storia: «Anita tesoro… respira… Ma che c’hai!». Ti sorrideva. Ti sorrideva sempre e tu eri blu.
Cordula invece era bianca. Non solo il camice, e i guanti di lattice, e la targhetta col nome… Ti ha preso senza dire nulla e ti ha portato via di corsa.

Non sapevo dove andare, in quei momenti, non capivo nemmeno che era successo, o meglio sì, lo capivo, ma sembrava non vero, irreale, fiction, come ti dicevo prima.
Sono uscito a cercarti nel corridoio. Sentivo il rumore dei passi, questi camici senza faccia, che entravano a passi rapidi da una porta a vetri, come sospinti dal lampeggiare di una lucetta. Elisa era rimasta sola, nella stanza vuota. Girava la testa di continuo, agitando come una gatta isterica quella specie di coda mozzata: «Perché me la portate via? Non dovete!» strillava e la porta era aperta e non poteva uscire.
La prima cosa che mi ha riportato alla realtà, è stata vederti in mezzo al circolo di alieni verdi. Ti avevano messo su una lastra di acciaio, con dei tubicini trasparenti ficcati su per il naso e ti osservavano dalle loro maschere. Forse avevi inghiottito del liquido amniotico, c’era il dubbio che potessi averlo respirato, tutto giù nei polmoni, i tuoi occhi erano vispi, curiosi e muovevi le gambe e le braccia come una tarantola… C’era il medico magro e le sue parole Adesso è stabile… Massaggio cardiaco… Non possiamo ancora stabilire se ha subito danni cerebrali… A sua moglie è meglio dire che va tutto bene… mi passavano in testa come grandi e veloci astronavi.
Ecco appunto, mia moglie (che poi non è mia moglie, è Elisa), quando tornai in stanza la stavano trasportando nell’altra sala, quella delle operazioni in anestesia totale, continuava a sanguinare erano rimasti i pezzi di placenta nell’utero, tutta roba da raschiare e da farlo subito, aveva detto la dottoressa, altrimenti c’era il rischio emorragia. Il corridoio era lo stesso tuo. Stessi vetri stesse ombre verdoline in trasparenza, che agitavano negli echi di parole il mio fervente senso della tragedia e quell’incerto, feroce oscillare, fra te e lei…

Forse l’avevano già addormentata. Il fatto è che dopo dieci ore di travaglio, voglio dire sì insomma saranno stati anche una “quindicina di minuti scarsi”, e poteva pure non esserci “nessuna plausibile connessione” con l’epidurale, come dicevano quelli, però, dopo dieci ore di travaglio, voglio dire…. E comunque la connessione la sentivo io, nitida, sul suo viso oscenamente sfigurato dalla tua assenza, quell’insano bisogno di tenerti, Anita, di allattarti, avevano preso le forme di un rossore acquoso e tutto, anche la sua stanchezza, anche il vuoto nulla da cui ti aveva fatto uscire, e quell’intenso, inverosimile colore blu come dicevano loro… “Signor Riolo mi ascolti bene. Oggi è stata una giornata bellissima, ma anche difficile…”.

Così me ne rimasi zitto su una seggiolina, quasi mortificato per come mi sentivo adesso, a fissare lo ‘scorrere’ delle rotelline, a ticchettare con le adidas su quell’odore greve di pavimenti disinfettati, su quell’asettica pulizia che ti entrava in bocca, quasi a disagio per l’insana voglia di prendere un camice a caso e picchiarlo a sangue, fino a che non mi avesse garantito, “signor Riolo”, che era tutto chiaro, ineccepibile certo, e che “stasera tornerete a casa insieme”. Quel luogo così confortevole che corrispondeva agli interni della mia testa, lo vedevo adesso come un’immonda sala di attesa, come un bosco disincantato dove la Morte, assumendo sembianze rigorosamente femminili, mi avrebbe spiegato ogni cosa per ciò che era. Avevo i sensi sviluppatissimi e tutto al tatto, alla vista, si ingigantiva di particolari, che fossero le sedie di ferro occupate cinque minuti prima da esseri più in ossa che in carne, o le lancette dell’orologio a muro, o quel senso di veglia forzata che ristagna nelle sale operatorie, assieme all’alito dei visitatori, al fumo del brodino e ad un olfatto potenziato, quasi animale nella sua esattezza.

Ho aspettato, Anita, ho contato i passi e anche loro passavano. Càmici bianchi, invece che verdolini. Alieni nuovi, affrettati, e col sorriso stampigliato sulle maschere… A tutti chiedevo sempre la stessa cosa, non sapendo nemmeno da dove venissero, o a chi diavolo stessi parlando: «Respira adesso, non è vero?».

Tutto il resto lo sai. Anche la storia di quel video di te a otto ore, quel groviglio di fili e filetti che ti pendevano dal collo, la flebo di zuccheri e la scatolina di plastica, con una piccola escoriazione sul naso e gli occhi blu, l’unica forma di blu che ti era rimasta addosso. Ripresi tutto. Anche l’aria il gonfiarsi leggero del petto, sotto la lana della coperta… Ogni volta che tiravi su col naso, fissavo le linee rosse sullo schermo, regolari, serenamente spezzate… Non l’ho fatto mai vedere a nessuno. Forse l’ho pure cancellato non mi ricordo sono passati un sacco di anni e tu sei diversa, adesso lo siamo tutti… Anche tua madre, quando ne riparliamo e mi fa leggere questi articoli sul clampaggio precoce del cordone. Lei sostiene che «se avessi avuto la prontezza per dire di no, di non tagliare subito, pulsava ancora… Per favore, parlale di questa cosa nella lettera, per favore è importante per me… ».

Non dire assolutamente nulla di questa cosa ai nonni. A loro dicemmo solo di Elisa, non di te, anche dopo quando ti abbiamo portata a casa ed era tutto finito concluso, anche la paura che avevamo i primi tempi che ti andasse qualcosa di traverso in gola, o che uno sguardo severo ti soffocasse, neanche il mio senso di gelosia e frustrazione, quando Elisa stava solo con te, pensava solo a te e io volevo andarmene via da voi, dalla forza annientatrice del vostro amore… e tutte le volte che ti ho addormentata, davanti a quella finestra chiusa e siamo andati insieme al Tierpark a vedere l’elefante e poi hai cominciato a strisciare hai messo i denti hai distrutto i miei dischi hai imparato ad aprire e chiudere cassetti e battevi le mani mi facevi ciao dalle fotografie…
Tua madre mi ha odiato quando le ho fatto leggere la storia della tua nascita. Lei dice di no ma è così, si è sentita come se le avessi tolto qualche cosa dal suo corpo e c’ha ragione, non c’ero mica io là dentro. Chiedo venia se non potrò mai gonfiarmi tutto come una mongolfiera, ospitare niente di simile a un figlio dentro di me! Averlo solo fuori, davanti agli occhi: lo capite che voglio dire? Lo capisce il vostro corpo che significa: diverso?
Quando ho detto a tua madre che volevo mettere il racconto in rete, spedirlo a ilmiolibro.it, beh è stato come se qualcosa si fosse riaperto, mi fissava come un’erinni con quegli occhi tutti di fuori, continuava a ripetermi a strillarmi addosso: «Era il mio parto, così mi fai sentire nuda!». E poi: «No. Non è andata così… Devi scrivere anche… ». «E ora a che pensi? Stai pensando di farci l’editing?».
Ho pensato che era tutto un grandissimo equivoco, che in realtà non era successo proprio, che mi ero inventato tutto e che nemmeno tu esistevi, ho pensato che almeno cambiare i nomi, trovarci un titolo, una cosa snella, veloce, agile, che hai il diritto di interromperla a metà, o finirla una volta per tutte… E comunque non era nemmeno di quella specie di 11 novembre del 1989, ore 11.30 città di Berlino, che ti volevo parlare con la mia lettera. O meglio sì, era quel giorno, ma per come lo vivo adesso, nel tempo presente, sento che se ne sta lì piantato dentro come un muro e che non crolla mai, e che mi giudica, e che è molto severo… Sento che non riesco a metterci il punto, la parola fine e ripetermelo ancora, all’infinito: fine. Come se tutto fosse già successo e non restassero che i colori, le sfumature, quell’attimo in più, bastava davvero un nulla ecco, lo capisci che volevo dirti, Anita?

Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino

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di Domenico Pinto

«Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare.»

La canottiera di Bossi

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di Massimiliano Panarari

Con il fortunato Il corpo del Capo, Marco Belpoliti ha inventato e inaugurato un genere. L’analisi fisiognomica e in stile cultural studies di una gallery fotografica delle metamorfosi (fisiche, ma soprattutto, sociopolitiche) di Silvio Berlusconi si è così imposta nel dibattito, diventando un punto di riferimento per chi, a vario titolo di studio, si è occupato del fenomeno rubricato come «berlusconism».
Oggi, il critico letterario e saggista che insegna all’Università di Bergamo ci offre la fenomenologia di colui che dell’ex premier è stato il sodale di ferro, e de facto l’interprete all’italiana (anzi, à la lumbard) di una certa nuova (o forse vecchissima) destra diffusasi in tutta Europa. Si deve, allora, partire proprio da La canottiera di Bossi per decodificare una delle traiettorie di leaderismo politico più impressionanti (e, per lungo tempo, impreviste) dell’Italia contemporanea. In questo libro – naturalmente corredato da un apparato di foto che restituiscono i cambiamenti dell’iconografia bossiana lungo il tempo – Belpoliti disseziona semiologicamente e linguisticamente il creatore di quel partito anfibio, miscela di cesarismo e «carisma padano» e (a dire dei suoi dirigenti) oltre la sinistra e la destra, che in questi anni ha raggiunto percentuali assai elevate nel Nord del Paese.
Non sembri incredibile, quindi – tutt’altro – il fatto che per comprendere a fondo il capo della Lega Nord si debbano prendere le mosse dall’idealtipo (diciamo così) del vitellone. E precisamente nel senso felliniano (seppur in una versione «rivista e aggiornata» agli Anni Settanta e Ottanta), allorquando «il Bossi» irrompe sulla scena politica, inizialmente alla chetichella e senza molti riconoscimenti, e poi, via via, sempre più fragorosamente e con successo. La carriera politica, del resto, rappresenta quasi un ripiego e lo stadio successivo al flop come cantante simil-Celentano e simil-Buscaglione (in arte «Donato»), attività nella quale si era cimentato peregrinando per balere e incidendo pure un 45 giri, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. Ecco, quindi, perché il futuro detrattore di Roma ladrona, e aedo della virilità della Lega, si configura, per molti versi, come un performer, per il quale il «colore» (stile, abito, gesti, oltre, e ancor più, che le parole), come sottolinea Belpoliti, è tutto. Lo si vede (decisamente) anche nelle variopinte tribù leghiste dei tanti raduni – una costante della storia della formazione nordista – così differenti dalle adunanze democristiane o comuniste, socialiste o missine, e, successivamente, anche dei partiti che rappresentano una continuazione di quelle storie politiche. Laddove il capo leghista, lontanissimo dalle figure dei protagonisti dei comizi della Repubblica dei partiti, si avvicina al microfono, mutatis mutandis, come un cantante, afferrandolo a due mani e intonando la sua omelia politica con una vocalità rauca, ma molto variabile che parte «sottovoce», proprio come avrebbe fatto in gioventù all’interno di qualche dancing. È il Bossi che, nei primi appuntamenti della kermesse nazionalpopolare (o forse, meglio, padanopopulista) di Pontida, scendeva in mezzo al suo «pubblico», e si metteva a firmare autografi; roba da far inorridire schiere di professionisti della politica della Prima Repubblica. Un oratore focoso e aggressivo, per i cui gesti «incitatori» mentre arringa le folle sui pratoni della Lombardia profonda si attaglia perfettamente, come nota Belpoliti, la classe tassonomica dell’etologo inglese Desmond Morris del «colpo d’ascia»: la mano destra che colpisce di taglio, quella di sinistra aperta e indirizzata verso l’alto, per non parlare del pugno chiuso in aria e dell’indice alzato o teso. Un oratore «fisico», che, rivolto agli avversari, sfodererà a ripetizione anche il tristo dito medio.
Questo è il Bossi d’antan, della fase eroica. Ma a Belpoliti, attento anatomopatologo del corpo del Re padano e dell’evoluzione gestual-semiotica della carriera politica del conducator celodurista, non sfugge nulla, fino alla carezza sulla testa fattagli da Berlusconi, nel settembre dell’anno passato, quando la Camera nega l’autorizzazione all’arresto di Marco Milanese: un gesto di ringraziamento politico, ma anche un’autentica manifestazione di intimità.
E così, in qualche modo, il cerchio si chiude, e un ciclo politico finisce sotto il segno dello stesso simbolo con il quale era iniziato, tra squilli di trombe celtiche. Ovvero, dalla famigerata canotta, che dà il titolo al libro: al debutto espressione di un abbigliamento intimo provocatorio e piuttosto «prolet» (do you remember Marlon Brando?) che voleva comunicare vigoria, e, sul viale del declino fisico, quasi candida veste che prefigura una beatificazione dell’icona e della guida carismatica del «popolo padano».

[Pubblicato su La Stampa, il 17-02-2012]

NoTAV e lo spazio comunicativo delle istituzioni

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Valsusa: dove e perché rompere la costruzione della mitologia negativa dei duri e delle frange estreme

da senzasoste.it

La resistenza è sempre possibile. Ma dobbiamo impegnarci nella resistenza sviluppando prima di tutto l’idea di una cultura tecnologica. Nonostante tutto, ai nostri giorni, quest’idea è enormemente sottosviluppata. Per esempio abbiamo sviluppato una cultura artistica e letteraria. Ma gli ideali di una cultura tecnologica rimangono sottosviluppati e, per questo motivo, al di fuori della cultura popolare e degli ideali pratici di democrazia. Ecco perché la società come insieme non ha controllo sugli sviluppi tecnologici. E questo rappresenta una delle più gravi minacce alla democrazia nel prossimo futuro”. Paul Virilio (Intervistato da John Armitage in “The Kosovo War Took Place in Orbital Space” in C Theory, 18, 2000)

Scritture Giovani Cantiere

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Un corso di formazione per giovani aspiranti autori edizione 2012

Festivaletteratura, con il sostegno di Fondazione Cariplo e illycaffè, promuove un corso di formazione rivolto a dieci giovani aspiranti scrittori nell’ambito del progetto Scritture Giovani. Scritture Giovani, che dal 2002 ad oggi è impegnato nella valorizzazione di autori europei under 32 non ancora pubblicati nel proprio paese attraverso la partecipazione ai principali festival letterari europei, si arricchisce di una sezione “cantiere”, rivolta a giovani che ancora non hanno pubblicato propri lavori.

1. Finalità del corso

La finalità di Scritture Giovani – cantiere è di offrire, attraverso un corso di formazione, un primo orientamento al mondo editoriale e alle professioni della scrittura, in modo da aiutare giovani di talento a capire quali sono le strade percorribili per far arrivare al pubblico le proprie creazioni e a far crescere progetti letterari di valore.

2. Struttura del corso

Il corso formativo prevede una serie di testimonianze tenute da professionisti dell’editoria e del libro (editori, agenti letterari, editor, traduttori, critici letterari) nonché da scrittori, alcuni dei quali partecipanti alle scorse edizioni del progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura.

Il corso si articola in due sessioni di lezioni, ciascuna di 16 ore complessive che si terranno dal 23 al 25 marzo e dal 30 marzo al 1° aprile.

3. Modalità di partecipazione

La partecipazione al corso è gratuita. Il corso avrà carattere residenziale, e le spese di viaggio e soggiorno sono a carico dell’organizzazione. La sede delle lezioni sarà comunicata congiuntamente all’esito della selezione delle domande.

4. Requisiti richiesti

I requisiti richiesti per la partecipazione sono:

– avere un’età compresa tra i 18 e i 27 anni entro la data di scadenza del presente bando;
– non avere ancora pubblicato in volume (monografico o collettivo) propri lavori di narrativa.

5. Presentazione delle domande

Per partecipare al corso è necessario inviare:

– la scheda di partecipazione compilata (scaricabile dal sito internet www.festivaletteratura.it a partire dal 30 gennaio 2012);
– un curriculum vitae aggiornato;
– una copia del documento di identità;
– un racconto di massimo 10 cartelle (18.000 caratteri in totale, spazi compresi) sul tema “perché” (tema del racconto richiesto agli autori che parteciperanno a Scritture Giovani incontri 2012);

Le domande e i materiali richiesti andranno inviati per posta elettronica all’indirizzo sgcantiere@festivaletteratura.it entro e non oltre sabato 3 marzo 2012. Non verranno prese in considerazione domande incomplete, pervenute oltre la data indicata o ad altri indirizzi di Festivaletteratura.

6. Criteri di selezione

La selezione delle domande verrà effettuata sulla valutazione dei racconti pervenuti effettuata da una commissione interna a Festivaletteratura. Il giudizio della commissione è insindacabile. L’esito della selezione sarà reso noto sui siti www.festivaletteratura.it e www.scritturegiovani.it da lunedì 12 marzo 2012.

7. Diffusione del bando

Il presente bando verrà diffuso tramite la pubblicazione sui siti internet www.festivaletteratura.it e www.scritturegiovani.it e attraverso altri mezzi ritenuti idonei.

Per ogni ulteriore informazione o chiarimento è possibile contattare la segreteria di

Festivaletteratura (tel. 0376.223989; fax 0376.367047; e-mail sgcantiere@festivaletteratura.it).

Per Wada Tadahiko

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di Massimo Rizzante

Il 7 novembre scorso è stato assegnato dal Ministero dei Beni Culturali il Premio Nazionale per la Traduzione a Tadahiko Wada (premio condiviso con Anna Maria Carpi e che sarà consegnato il 26 marzo a Roma) per la sua attività complessiva di traduttore delle nostre lettere, soprattutto di quelle contemporanee. E’ un riconoscimento giusto a uno dei maggiori conoscitori giapponesi della nostra poesia e del nostro romanzo del XX secolo. Fin da ragazzo, Wada, nato a Nagano e laureatosi all’università di Kyoto, ha coltivato la sua passione per il nostro paese con talento e determinazione. Il suo destino fu probabilmente segnato quando nel 1976 fu chiamato a far da guida e interprete a Italo Calvino che si trovava in Giappone per un giro di conferenze. All’epoca gli studi nipponici di italianistica erano agli albori e il giovane Wada era già uno dei più brillanti allievi della “scuola di Kyoto”, con alle spalle diverse traduzioni. Calvino fu evidentemente colpito dal giovane Wada, tanto che alcuni anni dopo, nel 1984, quando pubblicò Collezioni di sabbia, gli dedicò un cammeo in una delle sue prose. Wada, diventato nel frattempo professore a Tokyo, ricambiò il suo illustre ospite, traducendone nel corso degli anni molte opere importanti, da La speculazione edilizia a Palomar, da La strada di San Giovanni a Lezioni americane. Negli anni ottanta Wada, durante i suoi continui viaggi in Italia, ha frequentato e conosciuto i più importanti poeti e scrittori italiani. Ed è credo questo dialogo personale con gli autori, nutrito di sottigliezze e suggerimenti, che rende la sua opera di traduzione così sicura e profonda. Sia che traduca Sereni, Giudici, Roversi o Zanzotto, Wada riesce nell’impresa più ardua per un traduttore di poesia: dare un volto al poeta, disegnare una fisionomia del suo stile. In questo senso la sua traduzione di Variazioni belliche di Amelia Rosselli è esemplare, viste anche le implicazioni culturali e le difficoltà linguistiche che i versi della poetessa impongono non soltanto a un lettore straniero. Wada ha tradotto anche Montale, a cui è particolarmente legato e di cui sta preparando una vasta antologia, la prima in giapponese. Infatti, per quanto il suo lavoro pionieristico sia stato intenso, il lettore colto giapponese non dispone ancora di un’ampia traduzione della poesia italiana del Novecento. Gli unici poeti di cui può farsi un’idea non frammentaria sono Ungaretti e Saba. Per gli altri deve affidarsi alle riviste letterarie che, nella terra del Sol Levante, non sono così obsolete come in Occidente. Negli anni novanta e nell’ultimo decennio Wada si è dedicato soprattutto alla traduzione delle opere di Umberto Eco, di cui già nel 1985 pubblicò Opera aperta, libro che anche in Giappone suscitò un vasto dibattito critico, e in particolare di Antonio Tabucchi, di cui è appena uscita la versione giapponese di Autobiografie altrui ed è in corso di stampa Il tempo invecchia in fretta. Infine mi piace ricordare che si deve a Wada anche la traduzione di uno dei capisaldi della nostra infanzia (parlo di quando l’infanzia era un’età dell’uomo e non un target librario), Cuore di Edmondo de Amicis che, con Pinocchio di Collodi, è senz’altro il libro più amato dai giovani giapponesi che vogliono apprendere la lingua italiana.

Un articolo di Lussu

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Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari…

Tra i veri Capitani Emilio Lussu è stato il più grande” (Mario Rigoni Stern).

Da martedì 6 a domenica 11 marzo 2012

Milano – Teatro della Cooperativa

STORIE DI UOMINI
Ispirato al libro “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu
drammaturgia Andrea Brunello
regia Michele Ciardulli
con Andrea Brunello
composizione e adattamento musiche Andrea Lucchi
luci di Simone Brussa

“Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari… Tra i veri Capitani Emilio Lussu è stato il più grande” (Mario Rigoni Stern).

Non neghiamo l’orrore della guerra ma allo stesso tempo vogliamo ricordare che è proprio nei momenti di crisi che si materializzano gli istinti peggiori e migliori degli uomini. Questo spettacolo nasce con la speranza che la storia ci possa insegnare qualche cosa.

Uno spettacolo, durissimo e delicatissimo allo stesso tempo, a tratti ironico e lucidamente divertente, una riflessione collettiva: siamo ancora capaci di emozionarci per un ideale?

Per ulteriori informazioni:
Compagnia Arditodesìo | Teatro Portland Tel 0461.924470
Web www.arditodesio.org | Mail info@arditodesio.org

Da martedì 6 a domenica 11 marzo 2012

Nuovi autismi 16 – Essere di sinistra, essere di destra

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di Giacomo Sartori

Qualche volta mi domando se sono di sinistra o di destra. Come dire, giù nel fondo del fondo,

RadiAzioni

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Passioni di Lidia Riviello

(con Massimiliano Manganelli, Francesco Forlani, Giacomo Trinci…) su RADIOTRE “La vita in versi” va in onda sabato 3 e domenica 4 e sabato 10 e domenica 11 marzo alle 10.50
Metti la vita in versi. Così inizia una poesia di Giovanni Giudici che resta memorabile per chi intenda per poesia una traduzione della vita stessa. Ma come si inizia a scrivere? E perché la poesia diventa il linguaggio scelto, quasi predestinato per dire di sé nel mondo? E come vivono i poeti? Con quali e quanti altri linguaggi ed esperienze entrano in contatto? Quali sono i mestieri di vivere che portano avanti senza mai allentare l’esercizio della scrittura poetica e della sua resa in pubblico? Chi sono gli altri “attori” della scena poetica? Gli editori e i critici, ad esempio. E’ vero che si scrive poesia più di quanto in realtà non si legga? In Italia sembra che la stima delle vendite di un libro di poesie si aggiri quando va bene sulle 1.500/2.000 copie. Ma a scrivere non si smette mai, anzi aumentano i poeti che pubblicano o si autoproducono pubblicazioni oppure trovano piccole case editrici che scommettono su di loro. Numerosi sono i blog letterari che ospitano contributi poetici senza parlare dell’apporto fondamentale della rete per la diffusione della poesia. Il critico Alfonso Berardinelli, alla fine degli anni settanta, dichiarò che il pubblico della poesia era formato dai poeti stessi. E’ ancora così oppure sono in atto dei cambiamenti per cui questo pubblico è più complesso e stratificato e la poesia comincia a trovare spazi e contesti analoghi a quelli destinati ai narratori? Editori coraggiosi o incoscienti, critici appassionati e militanti, lettori che sostengono partecipando a letture pubbliche e convegni i loro poeti elettivi, aspiranti poeti e artisti che hanno scelto di dedicare una grande parte della loro ricerca alla collaborazione attiva con autori di versi. Questo e molto altro è “La vita in versi”.

Fenoglio che visse (almeno) due volte

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di Giacomo Verri

[A Beppe Fenoglio. Che oggi avrebbe compiuto 90 anni. Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano (ndr)]

Intervistatore: Permette una domanda?

Fenoglio: La prego… Mi perdoni. Debbo mettere un po’ d’ordine in questo foglio. È così difficile, è tanto complicato… Sa, io non scrivo per divertimento. Ci faccio una fatica nera! La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Quindi abbia pazienza… ancora un secondo.

I.: Certo, ci mancherebbe…

Piet Mondrian vs Città di Roma

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di Giuseppe Zucco

Accade tutto con abbagliante ironia, e da inizio settembre duemilaundici non c’è strada stradina viale circonvallazione tangenziale della città di Roma che non sia bucherellata da enormi gigantografie o da più modeste locandine, miriadi di oblò disseminati ovunque, oblò che già rivelano in piccolissima ma significativa percentuale il contenuto del transatlantico appena attraccato in città, la mostra su Piet Mondrian in programma al Vittoriano.

Messico e nuvole

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di Gianni Biondillo

A Città del Messico vivono gli angeli. È quello che penso quando guardo Ana Maria, che è venuta a prendermi all’aeroporto. Ana Maria è una scrittrice messicana, l’ho conosciuta a Gijon, durante la Semana Negra, ed è subito nata fra noi quella curiosa solidarietà fra scrittori errabondi. Lei ora mi fa salire su un taxi e mi racconta della sua città, che ama appassionatamente, dello stesso amore che ritrovo nelle parole che spendo per la mia città, così tanto bistrattata dall’immaginario collettivo, Milano.
Non che Città del Messico sia da meno. A chiunque dicessi qual era la meta del mio viaggio vedevo gli occhi sbarrarsi: non prendere i taxi per strada, mi dicevano, non bere nulla col ghiaccio, vai in giro con una mascherina, non prendere la metropolitana, non mangiare nulla dalle bancarelle improvvisate per strada, muoviti circospetto, attento alle rapine. La cosa più inverosimile che mi è stata detta sembra persino divertente tanto è assurda: Città del Messico è così inquinata che gli uccelli di passo cadono a terra tramortiti! Racconto alla spicciolata queste cose a Ana Maria che sorride, anche se vedo un velo di amarezza nei suoi occhi. Ovviamente io non credo a nulla di tutto ciò. È semplicemente una questione di buon senso: chi di noi prenderebbe un taxi abusivo a Milano? Chi salirebbe su un mezzo pubblico con un fascio di cartamoneta che gli spunta dalla tasca della camicia? Chi si aggirerebbe di notte nei vicoli bui della città?
Sono un animale metropolitano, le città non mi spaventano, basta entrare in risonanza col battito del cuore urbano e il resto viene a solo. In fondo viaggiare è anche questo: fare a pezzi i luoghi comuni che ci portiamo dentro, smantellare i pregiudizi. Dunque nei pochi giorni che ho vissuto a Città del Messico (perché sì, io vivo le città, non le visito e basta) ho cercato di fare tutto quello che mi era stato sconsigliato. Grazia anche ad Ana Maria, che, depositati i bagagli in albergo, mi porta subito verso lo Zocalo, l’enorme piazza prospiciente la Cattedrale cittadina. Enorme anch’essa. Tutto è enorme a Città del Messico. Tutto ha una dimensione quasi favolistica: Avenida des Insurgentes, per capirci, la strada che taglia da sottinsù la città, è lunga 42 chilometri. È come partire da Milano e arrivare a Como e restare sempre nella stessa città. Neppure sanno quanti abitanti faccia, Città del Messico. C’è chi dice venti milioni, chi trenta. Metà della popolazione italiana concentrata in un unico agglomerato urbano. Sono le persone, il numero sterminato di persone, ovunque, che mi colpisce di più: per strada, nei bar, in metropolitana, nei parchi. Sembrano scaturire dalla terra, piovere dal cielo. Sono dappertutto. Nel frattempo saltiamo sopra un pesero, uno dei trabiccoli che portano verso il centro (“non prendere i mezzi pubblici!”). Sono sul Paseo de la Reforma, attraversiamo la Zona Rosa – un quartiere inizio Novecento, dal gusto europeo – fermandoci ogni tanto al richiamo di chi vuole salire. Non ci sono fermate stabilite, il mezzo non ha neppure un numero di riconoscimento. Si sale e si scende quando si vuole, o quando si può. Io butto gli occhi fuori dal finestrino e mi faccio puro sguardo. I palazzi crescono di altezza, diventano grattacieli. La città pulsa di vita, sembra un misto fra Berlino e Napoli. Ma è una semplificazione del mio cervello. Sto cercando, con i modelli urbani che conosco, quelli europei, un senso a questa città, ma comprendo che Città del Messico è qualcos’altro. È un po’ come il figlio di due genitori, che per quanto ci si ossessioni a ritrovare il sorriso del padre europeo o il taglio d’occhi della madre india, lui, di suo, il bambino cresciuto, la città enorme, è qualcos’altro di autonomo e indipendente.
Ci fermiamo all’Alameda Central – lo storico parco del centro città, quello dipinto dal meraviglioso murales di Diego Rivera – a comprare un po’ di chicharones da una bancarella abusiva (“non comprare nulla per strada!”), li mangio goloso, come un bimbo ad una fiera. Poi, più avanti è la volta di un tacos alla carne. Ana Maria ci aggiunge un po’ di guacamole, una salsa piccante all’avocado. In prossimità della cattedrale è la volta del dolce: polpa di platano glassata. Bene, se la maledizione di Montezuma non mi colpisce ora, penso, non mi colpirà mai più.

La voce del povero Montezuma, invece, la sento soffrire nelle pietre degli scavi archeologici a due passi dalla cattedrale. L’ultimo regnante atzeco accolse con tutti gli onori Cortés, mostrando la sua città con orgoglio, pochi anni dopo non ne rimase più nulla. O quasi. Ché la storia non si può cancellare mai per davvero. Soprattutto quando ha saputo dare luce a civiltà così complesse. È quello che penso andando con Jorge, il mio nuovo angelo custode, il giorno appresso, verso Teotihuacàn. Mi mostra una foto, Jorge: è gualcita, in bianco e nero, mostra una valle con dei curiosi montarozzi erbosi, alcuni bassi, altri più prominenti, alle loro spalle le vette dei vulcani innevati. Ecco com’era Teotihuacàn un secolo fa. Nessuno sapeva che là sotto, ricoperta dalla polvere della storia, dormivano la Piràmide de la Luna, la Piràmide del Sol, la Calle de los Muertos. Ci arriviamo in macchina e ad ogni rilievo vagamente conico penso che là sotto potrebbe assopirsi chissà quale altro gioiello millenario. Ma prima beviamo un tequila (“un”, non “una”. Il tequila è maschile in Messico) da Jesus. Niente sale nell’incavo fra pollice e indice, mi dicono, è roba da gringos. Poi Jesus mi mostra tutta la procedura: dopo aver riempito alcuni bicchierini, taglia in spicchi alcuni frutti di lime, e li spolvera di sale. Infine addenta lo spicchio salato e risparmiandone la buccia, a bocca piena, ingolla il tequila, d’un fiato. Io, di mio, avevo già assaggiato il liquore e mi sembrava abbastanza forte, ma non oso contraddirlo. Ripeto l’intera operazione, da buon scolaretto che vuole la lode dal suo maestro. Strappo la polpa dell’agrume salato e la faccio seguire dal bicchierino di tequila, che in bocca cambia radicalmente sapore. Il mio palato assiste a una reazione chimica misteriosa, mi sento come una ampolla di un alchimista che mescola gli ingredienti alla ricerca di una pozione magica. Al terzo tequila Jorge mi rammenta le ragioni del mio viaggio. Lascio dispiaciuto Jesus per inerpicarmi verso la cima della Piràmide del Sol. E finalmente in cima, mentre attendo che il battito del cuore rallenti dopo la fatica della salita, sotto un sole caldo e asciutto, una brezza lieve che raffresca le membra, lì, mentre osservo la valle come sul precipizio di un burrone, nella mia perfetta solitudine, mi rendo conto di essere davvero felice.
Nei giorni a seguire girerò spesso da solo la città, e spesso incontrerò persone che portano con sé una storia, un mondo da raccontare: come Rafael, artigiano dell’argento, che sotto i miei occhi ha inciso il volto di un guerriero atzeco con una precisione degna dei monili che ho ammirato al meraviglioso museo Antropologico, come la piccola india che mi ha venduto i due ponchos che ho acquistato per le mie bambine in uno degli infiniti mercati abusivi della città, come Clara della Libreria Morgana, che vende solo libri in italiano (che cosa curiosa ritrovarsi dall’altra parte dell’oceano), come Leonardo, che nel parco di Chapultepec – enorme e bellissimo – mi ha raccontato del suo amore per l’Italia, cercando però poi di vendermi un trattamento per lucidare le scarpe (e inutile è stato mostrargli le scarpe da ginnastica ai piedi. “Possibile che un uomo non abbia delle scarpe di cuoio a casa?” sembrava pensare…). Ho girato per le 11 linee metropolitane (“non prendere la metro!”), mangiando quello che capitava (“non entrare in locali sconosciuti”) e soprattutto ho camminato continuamente, per chilometri e chilometri – San Angel, Coyacàn, Tacubaya, Polanco – come un folle, quasi cercassi di misurarla tutta, conscio che era come cercare di contenere in un bicchiere l’oceano. Ci vorrebbe un’intera esistenza per raccontarla tutta questa città. Ché ovunque fossi c’erano persone, facce, corpi, vita che brulicava. Ovunque fossi ciò che vedevo, ciò che non vedo più da anni in Italia, era il popolo. Da noi, ormai, c’è solo “la gente”, qui, il popolo gremisce ancora le piazze, riempie i parchi, scambia, lavora, corre, sosta, ride, canta, soffre; si distende nelle strade della città, se ne impossessa, la ammanta come fosse un unico drappo multicolore cucito con pazienza dalle sapienti mani artigiane delle donne di questo paese. Questo penso mentre sotto di me scorre la città che si perde a vista d’occhio. Ho visto il popolo, penso, mentre l’aereo mi riporta verso casa. Anche se mi sembra, con una punta di tristezza, che in realtà la stia lasciando, casa mia.

[pubblicato sul n. 2, febbraio 2012, della rivista on line Pretesti, che trovate qui. Le insulse fotografie sono del sottoscritto.]

Quel che penso di Groupon

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Visto che negli ultimi tempi sembra che tutti i miei amici comprino buoni Groupon o li usino per la loro attività, segnalo un ottimo articolo di Gianluca Diegoli:

In pratica, Groupon sfrutta l’enorme inefficienza che esiste nel mercato da entrambi i lati: sia dal lato dell’aggregazione della domanda in modo più etico per l’esercente e interessante per l’utente, sia (ora soprattutto) dal lato della presenza digitale degli esercenti. Groupon non è scienza missilistica, come si dice, ha fatto solo quello che serviva: portare sul marketing digitale quelli che non riescono ad andarci da soli, e a caro prezzo.

In 10 punti, quel che penso di Groupon (e del ristorante intelligente)

Alle otto e trentacinque circa

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Da giovedì primo marzo l’associazione culturale Ufficio Soggetti Smarriti inaugura la rassegna teatrale Alle otto e trentacinque circa. I quattro spettacoli si terranno al Teatro Comunale di Mesagne (BR). Per leggere il programma ingrandisci l’immagine.

Tour del commiato

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di Valerio Cuccaroni

In occasione dell’uscita del numero monografico intitolato VIXI e dedicato al tema della Morte, la rivista Argo (ed. Nie Wiem/Cattedrale, con il Patrocinio dell’Università di Bologna – FLF), in collaborazione con Uaar, intende promuovere la conoscenza delle Sale del Commiato per i funerali laici.

Il papa e la storia italiana

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di Elio Rindone

Chi detiene il potere ha la possibilità di riscrivere la storia secondo i propri interessi, e a tal fine non è necessario mentire: basta evidenziare una parte della verità e nascondere accuratamente l’altra. Potrebbe sembrare questa la via scelta da Benedetto XVI nel Messaggio indirizzato il 17 marzo 2011 al Presidente Napolitano in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: ben pochi studiosi, infatti, si riconoscerebbero nella ricostruzione della storia italiana operata dal pontefice.


Persefone (poesie inedite 2010-2012)

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di Federico Italiano

PULENDO LE SARDINE CON MATHILDA

Le avevamo adagiate
nell’acqua della tazza

per farle scongelare, per scioglierle
dalla gelata corazza

della loro ultima acrobazia acquatica.
Scivola sulle vertebre

il pollice, spalando
con l’unghia le interiora.

Love Out

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di Pierfrancesco Pacoda

C’è una doppia, possibile interpretazione del titolo della raccolta che Mauro Baldrati ha curato per Transeuropa, Love out. Potrebbe essere, la frase, un riferimento alla ‘banalità’ del bene, alla sua assordante normalità, quasi che potessimo ragionare di sentimenti adattando a essi la forza ‘fredda’ delle emoticons. Potrebbe però essere, Love out, un invito a fare outing, a rompere l’isolamento della passione, a riappropriarsi, togliendone il predominio alle boutique del centro, della sconcertante carica in movimento del cuore.
Mi viene in mente, leggendo i bei racconti che sfilano nelle pagine eleganti di Love Out il più retorico e sofisticato ‘esercizio di stile’ che la cultura pop ha espresso sull’amore negli ultimi decenni, la canzone dei Frankie Goes to Hollywood, The Power of Love, una struggente ballata dai toni epici talmente incisiva ed evocativa da mettere insieme l’amore di Betlemme, quello sacro, e quello ‘maledetto’ dei bassifondi così amati dalla gay oriented band della new wave inglese.
Così fa Baldrati nelle pagine di Love Out, mette insieme racconti e poesie, rime e storie perché
scalfito dall’idea che lo slogan (come proprio la ‘popular music’ ci ha insegnato) passa indenne attraverso i tempi instabili che viviamo e ci racconta molto di più di un corposo saggio di filosofia.
Soprattutto, ci racconta chi siamo quando viviamo. E quando amiamo. Proponendoci un bel catalogo di ambientazioni che noi lettori possiamo, nella grande diversità delle nostre esperienze, trovare utili per ricostruire la nostra personale trama amorosa.
Voglio dire che Love Out è utile. Aiuta. Risponde a una funzione didattica della letteratura. Troveremo sicuramente la pagina (o la rima) che sembra scritta su misura per noi. Come se l’autore sapesse perfettamente chi siamo. E ha scritto il suo racconto osservandoci, analizzandoci, per offrirci tante possibili soluzioni ai nostri dilemmi amorosi. Che è un po’ la funzione che avevano i fotoromanzi. O le più riuscite canzoni pop. Le ballate come The Power fo Love. Il Potere dell’Amore.
Difficile (e forse nemmeno giusto) raccontare in poco spazio tutti i temi affrontati dal gruppo variegato e nobile di scrittori e poeti che Mauro Baldrati, uomo che ama le trame nervose ai confini della fiction di crime stories, quelle che incredibilmente quando tutto sembra perduto indicano invece una via d’uscita, ha messo insieme e ha diretto.
Hanno risposto all’appello celebrità come Tiziano Scarpa, Raul Montanari, Alan Altieri, Gianluca Morozzi e giovani promesse che, stimolate dal fascino ammaliatore di un argomento così terribilmente ‘fuori moda’, hanno giocato le loro carte più ambiziose, consapevoli di essere ai confini di quel baratro chiamato luogo comune. E, ognuno con il proprio fluire linguistico, ha riportato l’amore a casa.
Perché, come dice Nanni Moretti, ‘Le parole sono importanti’, ed è di questo che deve parlare la letteratura oggi, di un senso che va esaltato e divulgato, di una semplicità gioiosa, che è propria di una parola come ‘amore’. Una parola che ripetuta all’infinito, descritta e resa protagonista della vita, come fanno gli autori di Love Out, impareremo a pronunciare, dopo aver letto questo libro, con frequenza maggiore di quanto facevamo prima.
Il merito è di tutti quelli che hanno accettato di essere parte di Love Out (molto efficace la copertina con il cuore in rilievo) anche un po’ del curatore al quale gli ‘happy end’ piacciono molto.
I fondi ricavati dalla vendita di questo libro vengono devoluti all’Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti.

Informazione e censura sul web cinese

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Internet in Cina è una grande forza di cambiamento dell’intera società fin dalla sua nascita nel 1994. Nonostante sia nota all’estero soprattutto per la censura operata dallo stato (il Great Firewall of China), la rete cinese rispecchia la frammentazione e la ricchezza della società cinese e non è interpretabile fruttuosamente con categorie rigide come democrazia/dittatura o libertà/oppressione.

China Files, agenzia italiana operante da anni in Cina, ha raccolto e tradotto le voci di intellettuali, scrittori, artirsi e semplici cittadini blogger su grandi e piccoli temi sociali, politici e culturali cinesi.

L’analisi del web è il capitolo di inquadramento del web cinese, dove viene descritta la strategia tecnologica e sociale della censura e come l’attivismo online sia non solo nato e cresciuto potentemente, ma addirittura incoraggiato in alcune circostanze. Dalle campagne anticorruzione alla selezione oculata dell’informazione, si delinea una situazione informativa estremamente sofisticata, vivace e partecipata.

Le voci del web traduce direttamente numerosi brani di alcuni dei blogger più rappresentativi dell’attivismo cinese e cerca di inquadrare le spinte di rinnovamento sociale all’interno del più ampio movimento internazionale di rivolta nel 2011.

Identità e conflitti affronta infine il tema centrale di cosa costituisca l’identità cinese, negli aspetti nazionali e culturali (essere cinese è qualcosa di definibile?), etnici (Han e minoranze nazionali, tibetani in primis) e sessuali (sessualità, genere e orientamento in una società con forti tensioni demografiche).

Una lettura veloce, stimolante e ricca di riferimenti e collegamenti in rete.Il sito degli autori è continuamente aggiornato e traduce regolarmente le voci di artisti, intellettuali e scrittori cinesi.

www.china-files.com

carattericinesi.china-files.com/

La danza del drago digitale. Informazione e censura: voci del web cinese
China Files, 2011 quintadicopertina – Fabrizio Venerandi Editore
28.208 parole,  183.842 battute
ISBN: 9788896922545 Collana Ping The World
ebook con licenza CC BY-NC-SA 3.0
http://www.pingtheworld.it/?page_id=192

Acquistabile su Quintadicopertina o scaricabile direttamente qui su Nazione Indiana in formato epub. Se dopo averlo letto vi è piaciuto, sostenete il progetto Ping The World ed acquistate l’intera collana di ebook a soli 10 euro.

 

pop muzik (everybody talk about) #14

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plyPhon / Autechre. 2008

i vecchi invisibili

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[Oggi sono venti anni dalla morte di Valentino Bompiani (Ascoli Piceno, 27 settembre 1898 – Milano, 23 febbraio 1992), editore, drammaturgo e scrittore italiano che nel 1929 ha fondato la casa editrice che porta il suo nome. Le righe che seguono sono state pubblicate sul quotidiano La stampa il 5 Marzo 1982]

di Valentino Bompiani

Oh, se tu sapessi, se tu sapessi, la terra eccessiva- mente vecchia e cosí giovane,
il gusto amaro e dolce, il gusto delizioso che ha la vita cosí breve dell’uomo.

A. Gide, I nutrimenti terrestri

Passati gli ottant’anni, ti dicono: “Come li porti bene, sembri un giovanotto”. Parole dolci per chi le dice ma a chi le ascolta aprono la voragine del tempo in cui si affonda come nelle sabbie mobili. La vecchiaia avanza al buio col passo felpato dei sintomi, squadre di guastatori addestrati che aprono l’inattesa, inaccettabile e crescente somiglianza con gli estranei. Su una fitta ai reni o per l’udito ridotto, anche il nemico diventa parente. Lo spazio e le cose si riducono: la vecchiaia è zingaresca, vive di elemosine.