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Nuovi autismi 16 – Essere di sinistra, essere di destra

di Giacomo Sartori

Qualche volta mi domando se sono di sinistra o di destra. Come dire, giù nel fondo del fondo, non nei discorsi svolazzanti di tutti i giorni e durante le ben annaffiate cene con gli amici. O meglio, do per scontato di essere di sinistra, e mi vergognerei come un ladro di non esserlo, ma sento che dentro di me allignano sacche di destra, e mi domando se non stanno per caso aumentando e fortificandosi, se non avranno magari un giorno il sopravvento. Sto forse diventando un vecchio schifosissimo reazionario?, mi domando. Come ci si può immaginare mi rispondo di no, ma il dubbio resta, e mi fa ripercorrere le tappe principali della mia esistenza. Perché come tutti sanno si è di destra o di sinistra per afflati squisitamente psicanalitici, ben prima che per altri motivi: c’è chi si allinea fin dall’inizio con il potere, e chi invece vi si oppone. C’è chi opta per la via solipsistica, chi invece sceglie l’empatia. Tutto si gioca nelle prime settimane di vita, nei primi mesi. E io fin dai primi vagiti ero saldamente di sinistra, su questo non ci piove. La mia febbre di neonato era una febbre di dissenso, di sorda e feroce resistenza. Non potevo maneggiare parole, e men che meno armi, però potevo pur sempre essere malato, e anzi è proprio con la mia malattia che fortificavo la mia identità personale e politica. A parlare avrei imparato, c’era tempo. Mio fratello con i suoi quattro scaltri anni veniva a patti e coltivava connivenze con il potere costituito, come avrebbe fatto poi per tutta la vita, mia sorella non parliamone, si preparava a prendere lei il potere, cosa che non ha tardato a fare, io mi ribellavo. Ma anche dopo, alle elementari, ho continuato a essere fieramente di sinistra. La scuola di per sé non era male, ma la mia era la classica sezione che convogliava tutta la feccia di una cittadina di provincia in un’era geologica senza sentore di immigrati stranieri, quando il male non era ancora addossabile su individui di altre religioni o colori. La maggior parte dei miei amichetti, a cominciare dal mio compagno di banco e dalla mia ombra inseparabile, sono poi morti di eroina, e qualcuno dei sopravvissuti è ancora in carcere. Io stesso sono riuscito a convincere il maestro che mia madre era una prostituta, e quindi non aveva molto tempo da dedicarmi. Per qualche ragione quei ragazzini mi attiravano e li amavo, e per qualche ragione altrettanto misteriosa anche loro mi accettavano e mi apprezzavano. Con tutti gli altri avevo grossi problemi, con loro tutto funzionava a meraviglia. Mia sorella frequentava i rampolli automuniti dell’alta borghesia, caparbiamente clericale e reazionaria, e anche mio fratello, pur essendo un asociale, e quindi non frequentando nessuno, nei momenti liberi dall’apprendimento forsennato a cui si sottoponeva si allenava con dei filonazisti patiti della cultura fisica, e insomma si incistava sempre di più nel suo bozzolo conservatore. Io invece la mattina imparavo parolacce, e il pomeriggio frequentavo le stalle e i figli dei contadini del posto dove mia madre per atteggiarsi a possidente terriera si era messa in testa di farci abitare. Il mio migliore amici pomeridiano, una delle persone che ha più contato nella mia formazione personale e intellettuale, era il Berto, lo scemo del villaggio. Un servo della gleba con una voce da donna che veniva ricompensato con un pacchetto di sigarette al giorno. Sigarette senza filtro, di marca Alfa. Io passavo a trovarlo mentre mungeva, e qualche volta la domenica andavamo a cercare i funghi, o insomma nel bosco. Mia nonna, che era di estrema destra, e odiava con scatti inconsulti della testa i contadini, ne tirava le sue conclusioni: a mio fratello dava lezioni di pianoforte e di inglese e di francese, a me nessuna lezione: mi considerava un caso disperato. Io tornavo nelle stalle, dove sperimentavo sulla mia pelle l’uguaglianza degli esseri umani e il vantaggio dei legami di fraternità, ma anche la loro intrinseca complicazione. Più di sinistra di così si muore. Ma anche alle medie ho continuato a coltivare la mia propensione per i diseredati e gli outsider. Mi attirava in particolare un compagno di classe considerato deficiente e evitato da tutti, il tipico pluribocciato due teste più alto degli altri e già peloso. Non parlava, perché per parlare non parlava, ma stavo bene con lui. Mi portava in certi radi boschetti costellati di relitti rugginosi, in luridi terrapieni ai limiti della città. Mi sentivo accettato e anche gratificato. Ma ero in ottimi rapporti anche con ragazzetti di altre sezioni che già rubavano biciclette e motorini, e poi di un rivoluzionarietto prodigio che in terza media faceva lunghissimi e carismatici discorsi nelle assemblee degli studenti delle superiori e universitari, e era per questo molto noto. Ora non ricordo se sia stato tramite lui che mi procurai il libretto di Mao. Fatto sta che ogni giorno mi mandavano dal preside per via delle parolacce o per altre faccende. Il preside aveva un pancione di donna incinta e un accento barese, e appena mi vedeva spuntare mi accoglieva con una gragnuola di imprecazioni. Mi spedivano da lui perché dicevo parolacce e insultavo i professori, e non potevano immaginare che nel suo ufficio lui ce la metteva tutta per umiliarmi proprio sul piano del turpiloquio e delle volgarità. Ognuno ha i suoi metodi. Lui era un preside di destra, presumo fascista, e pensava che quella strategia d’urto potesse funzionare. E invece quando tornavo in classe io seguitavo la mia resistenza, certo per molti versi ingenua, contro la sudditanza al potere cattoreazionario e contro il sequestro del sapere da parte della borghesia bottegaia. Del resto anche in casa mia vigeva un regime fascista, e la conduzione della faccende domestiche era corporativa: ognuno doveva contribuire non in base al suo stato fisico e emozionale e alle sue possibilità del momento (come sarebbe stato normale in una famiglia di sinistra), ma applicando il regolamento della corporazione alla quale apparteneva, nel mio caso quella degli ultimi nati con fama di lavativi. In particolare io la mattina dovevo farmi il letto, dovevo lavarmi la tazza della colazione, prima dei pasti dovevo aiutare a apparecchiare, e dopo i pasti dovevo aiutare a sparecchiare. Niente di tragico, intendiamoci, ma pure sempre una gabbia di inflessibili norme militaresche. Prescrizioni alle quali mi sottraevo senza temere le possibili conseguenze, eroicamente: potevano dirmi quello che volevano, non mi piegavo. Svicolavo. Andavo in bagno, e ci restavo finché tutto era finito. I miei fratelli, che erano appunto di destra e integrati nel sistema, facevano a gara per mostrare il loro zelo, io che ero di sinistra, psicanaliticamente di sinistra, prendevo la strada del gabinetto, come un quarto di secolo prima i partigiani avevano preso quella delle montagne. I miei genitori proferivano minacce mussoliniane, e i miei fratelli non si risparmiavano grevi battute, faziose battute di destra, ma io mi mostravo superiore. Non temevo le retate e le rappresaglie: sentivo che proprio lì stava la mia via e la mia salvezza. Con il senno di poi la mia era una normale battaglia per la riesumazione dell’umanesimo: una delle tante, in quel secolo infestato dai fascismi. Poi alla superiori è venuta la politica vera, quella che insomma veniva allora chiamata politica. Si facevano lunghe riunioni per decidere di distruggere il capitalismo e di far fuori tutti i borghesi, queste cose qui. Finalmente del pane per i miei denti. Finalmente un quadro teorico per la mia lotta di sempre, finalmente degli alleati con cui battermi. Scoprivo nuovi territori, tagliavo per sempre i ponti con il ciarpame ideologico familiare. Sentivo che le mie vele prendevano per la prima volta il vento. Eppure, e è qui che volevo arrivare, proprio allora che ho cominciato a avere le prime defaillance di destra. Mi ripugnava per esempio chiamare gli altri “compagni”, proprio non riuscivo a usare quel vocabolo così manicheo, così settario. E mi stavano simpatici gli Stati Uniti, che tutti consideravano il diavolo. E mi piacevano certi scrittori innominabili, o anche solo che precipitavano dentro se stessi, razzolando nel magma dell’individualismo. Ma erano solo dettagli: per il resto ero un buon comunistino. È verso i vent’anni che ho avuto il vero smottamento a destra. Proprio mentre mio fratello migrava a sinistra, avendo conosciuta una tostissima indiana militante di questo e di quello. Dopo aver coronato la sua giovinezza reazionaria in un rinomato tempio internazionale della conservazione, lui ha avuto una inaspettata virata a sinistra, io invece derivavo a destra. Continuavo a leggere giornali di sinistra, e a dire frasi di sinistra, e a fare cose di sinistra, ma per certi aspetti ragionavo come uno di destra. Volevo imparare, solo imparare, volevo far vedere a me stesso e agli altri quello che valevo. Imparare faccende tecniche, agli antipodi di un qualsivoglia impegno o militanza. Mi sembrava che la risposta ai miei problemi fossero le conoscenze tecniche e la disciplina su me stesso applicata alle faccende tecniche. I discorsi dei militanti di sinistra mi suonavano velleitari e immaturi, mi pareva che nascondessero verità interiori che non sapevano venire alla luce. Trattavo me stesso con rigore e marzialità: senza rendermene conto regredivo all’assolutismo familiare. Poi però anche la parentesi tecnocratica si è estenuata, e per un percorso periferico, attraverso la letteratura, moltissima letteratura, mi sono riavvicinato alla melma della vita, e poi anche agli equilibrismi delle geometrie sociali. Mentre mio fratello si impantanava di nuovo a destra, perché dopo una giovinezza ultraconservatrice come la sua non si può cambiare davvero pelle. Si atteggiava a imprenditore, vaneggiava di tassi di interesse e di mercati esteri. Io invece mi sono riposizionato a tutti gli effetti a sinistra, per molti anni, con costanza, e tuttora mi sembra di essere di sinistra. Non sopporto i ricchi, non sopporto quel loro puntellare la propria autostima sui possedimenti materiali, quel loro infantile bisogno di mostrarsi, quel loro disprezzare o anche solo non poter provare empatia per i meno fortunati. Mi disturbano le loro voci di testa o nasali, rifratte da una saracinesca che taglia fuori le trippe e il cuore, non sopporto le loro nuche rigide, quelle loro donne longilinee con un manico di scopa infilato nel buco del culo, le inspirazioni condiscendenti e la pelle tirata verso il basso sui lati del naso e della bocca. Detesto la loro destrezza a travestire le ingiustizie in algide teorie fatte di vento, la capacità di imporle ai quattro cantoni della terra, il lavaggio di cervello che riescono a infliggere alla gente più semplice, quel loro misconoscimento dell’essenza sociale e egualitaria della specie umana. Ma naturalmente mi ripugna ancora di più la versione volgare e caciarona, ghignante e bolsa, fiera della propria ignoranza e inconsistenza: è solo un’altra faccia della stessa medaglia. Oltre alla psicanalisi c’entrano però certo altri fattori, a cominciare dal segno zodiacale cinese. Io per l’oroscopo cinese sono un cane, e una delle caratteristiche principali di noi cani è quella di non sopportare le ingiustizie, di indignarcene, di agire per contrastarle. Proprio per questa nostra insofferenza per le ingiustizie noi cani siamo spesso di sinistra. Insomma, lasciamo stare i motivi: mi sento di sinistra, non ho dubbi di esserlo. Se però qualcuno fa un discorso ben fatto di destra, io per qualche istante vacillo. Sono suggestionabile, lo sono sempre stato. Può durare qualche minuto, o appena qualche secondo, ma mi sento di destra, o per meglio dire nello stesso tempo di sinistra e di destra. È una strana sensazione. Nel marasma che mi avviluppa mi vedo incapace di avere un’opinione precisa su quel dato argomento sul quale tutti sembrano avere le idee molto chiare. Se fossi al cento per cento di sinistra non succederebbe, fin lì ci arrivo anch’io. E comunque il mio egotismo col tempo si è perfezionato, corre ormai come un treno ad alta velocità verso una destinazione tutta sua. Ormai i miei conoscenti lo rispettano, come si lasciano tranquille le bestie strane e potenzialmente pericolose. In realtà vivo io e la mia scrittura viviamo in una torre d’avorio, o forse solo di merda secca. Ho sempre velleità di militanza e di abnegazione sociale, ma nei fatti rimando sempre: non milito, non mi impegno, non mi dedico, non combino mai niente. Penso a riempirmi la pancia, come uno schifoso profittatore di un quadro di Grosz. Con una scusa o con l’altra cerco di guadagnare più soldi possibile, perché la povertà mi ricorda la morte, e guadagnando più soldi mi sento più solido nei confronti della morte. Certo il mio lavoro non alimenta gli ingranaggi più sordidi del capitalismo finanziario, e anzi forse insinua qualche granello di sabbia, ma alla fine ci sono pur sempre dei quattrini su un conto privato in banca, c’è la macchina distruttiva del capitalismo. Questo per me non può essere chiamato essere di sinistra. E allora non so più cosa pensare.

(l’immagine: L. Soutter, “Souplesse”, 1939)

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20 Commenti

  1. Caro Giacomo, non so se tu abbia scritto un racconto di fantasia o una sorta di seduta psico-biografica, ma in ogni caso ho sorriso leggendola e mi sono ricordata di alcune mie vicende passate.
    Non voglio annoiarti ma brevemente ti racconterò che io, grande paladina contro le ingiustizie – stavo per scrivere “delle ingiustizie”….- mi sono ritrovata ad esprimere una ideologia neo-liberal al liceo solo perché li erano tutti di sinistra e mi sembrava sia un ingiustizia verso la bilancia della democrazia che uno spreco a discapito del dibattito: se tutti concordavano nell’addossare ogni tipo di responsabilità e colpa agli “altri” e evitavano accuratamente ogni confronto non ci sarebbe stato progresso (più tardi mi sono resa conto che il progresso interessava poco a tutti quanti).
    Poi sono cresciuta, ho cambiato città (dalla rossa Reggio Emilia alla operosa Milano) e ho conosciuto alcuni intellettuali di sinistra, anche perché in Italia si può essere intellettuali solo se si è di sinistra. A causa di una sorta di timidezza da provincialismo ho cercato di astenermi da dibattiti politici senza però evitare di notare alcune note comuni e ,a mio parere, piuttosto stonate: snobismo verso chi non “capisce” e perciò non può essere come noi, malcelata volontà di primeggiare e comandare (e una volta nel posto giusto tiranneggiare a più non posso), predilezione per gli arredi di design, non per la moda che è sottocultura, ma per l’oggetto che vuole essere arte per il popolo – con buona pace della Bauhaus-.
    Intendiamoci, tutti peccati a mio parere veniali e molto umani ma che mal si accompagnano con un savonarolesco ardore nel pontificare e giudicare.
    Forse ho frequentato le persone sbagliate e devo ammettere che il tuo pezzo, intriso di sano umorismo e autoironia, mi aiuta nel processo lento ma inesorabile verso il mio ritorno all’origine dei primi vagiti che, ora lo posso riconoscere, erano assolutamente di sinistra, ma di una sinistra disillusa e dubbiosa e, come allora, mi sento sempre più piccola impotente .

  2. Perchè scelgo dei neri per amanti (La Loca)

    “Al giorno d’oggi l’acido è un passatempo modaiolo

    ma nel 1967 mangiarlo era eucaristico

    e ci rendeva veri visionari.

    La mia amichetta e io salivamo di giri

    e atterravamo In Haight

    e oh yeah

    Chi Noi Fossimo I Neri Lo Sapevano

    Mentre i ragazzi bianchi

    erano fessi.

    Ho iniziato a San Fernando

    Mia madre nubile non mi ha abortito

    perchè Tijuana era insostenibile

    Mi hanno ficcato in una culla di invisibilità

    Nutrita al biberon di aspirina e antisettici

    Per baby sitter avevo tubi catodici

    Sono arrivata lo stesso all’adolescenza

    Grazie a Bandini e ai nebulizzatori

    Nel 1967 ho sfondato la vetrata

    diventando reale

    ho visto Madre Terra e il Grande Fratello

    e ho troncato le radici che mi soffocavano nel cemento

    di Sunset Boulevard

    pe fare l’autostop con la mia amica

    da Berkeley a San Francisco

    e abbiamo scoperto

    che i Bongobongo erano da sballo

    e invece

    i Bianchi erano fatti in batteria

    innaffiavano i loro prati inglesi

    artificialmente con lunghi tubi verdi e West Los Angeles

    Eccomi qua nella Balera Avalon

    in raso rosa d’annata, scamosciato e

    patchouli,

    pioniera della rivoluzione sessuale

    Ero la puttana del satiro, mezza-donna

    e il raso rosa mi fasciava

    ampio e floscio come un intento

    Mangiavo lisergico a colazione, pranzo e cena

    ero un vicolo cieco tra i paria dell’Establishment

    e la moralità era interpretabile

    Nel mio quartiere, se scopicchiavi in giro, eri puttana

    Ma adesso, diventavi un’èmigrèe

    guardavo gli aerei carichi di ragazzi bianchi

    decollare dalla Hamilton High

    Erano l’avanguardia della Rivoluzione

    Scendevano dall’aereo in camicie da lavoro sdrucite

    con le maniche arrotolate

    e una Shell Oil, una Bankamericard,

    una Mastercharge nella tasca dei jeans

    a nome di loro padre

    Aerei carichi di rivoluzionari

    Per mattutino, citavano Marcuse e Huey Newton

    Per il vespro, ammaestravano ragazzine di San Fernando

    a Scopare Tutti ma

    Non starci coi fascisti

    guardavo gli aerei carichi di bianchi decollare dalla Hamilton High

    Tutti i ragazzi del mio liceo li spedivano in Vietnam

    E io ero a Berkeley a fottere i giovanotti bianchi

    che manifestavano per la pace

    A letto, le mani pusillanimi degli antimilitaristi

    mi insegnavano la filosofia marxista:

    I nostri quartieri sono una condanna a morte

    Questo per dare il la alla scopata e loro facevano politica

    Io ero un’apparizione dotata di orifizi

    sapevo che in cuor loro

    erano già venditori di polizze

    E che sarebbero morti tutti di crisi cardiaca

    Ma glielo prendevo in bocca lo stesso perchè avevo

    la consapevolezza

    Avvalorata dall’ingestione di acido

    Non ero una contadina!

    Lo prendevo in bocca ai giovanotti bianchi

    che mi infarcivano la testa di Comunismo

    Informandomi che i poveri non avevano soldi

    ed erano oppressi

    Certi erano Neri e Chicanos

    Certe donne perfino avevano figli illegittimi

    Intanto le mie cosce erano cucciole assetate di sangue

    e non ne avevano mai abbastanza di niente

    e quei comunistelli erano poco forniti

    io avevo diciassette anni

    e volevo vedere il mondo

    La mia fioritura era chimica

    tagliai i denti sulla promiscuità e sui farmaci

    attraversai delle altre vetrate e tutto diventò sibillino

    Nel 1968

    una notte Lo sciamano mi asperse di merdasanta e uau

    seppi che nel 1985

    Il mondo sarebbe ancora stato bianco, antisetticamente

    bianco

    Che l’ethos della ricchezza

    era un’indelebile fattezza da giovanotto bianco

    come gli occhi azzurri

    Che ai Volksvagoni sarebbero seguite delle Ferrari

    che sarebbero state guidate con la stessa

    spericolata arroganza la puzza sotto il naso

    alle porte di Fillmore, superganzi

    Li conoscevo i tipi, li conoscevo quando tenevano i poster

    di Che Guevara sul letto

    Tutti avevano un poster di Che Guevara sul letto

    E guardavo gli occhi neri del Che tutta notte

    sdraiata sui loro letti

    ignorata

    Adesso i tipi hanno i nomi sulla porta al 18° piano

    delle torri di Encino

    Hanno ex-mogli e storie di cocaina.

    Anche la mia amica ha sposato un proprietario immobiliare di Van Buys

    Nella nomenclatuta teoretica dei marxisti bianchi, io ero una troia.

    Le ragazze ricche le chiamavano “liberate”

    Ero una femmina di San Fernando e i Neri di

    San Francisco e io avevamo molto in comune

    Gli occhi per esempio

    dilatati nell’opacità del “vaffanculo”

    io li vedevo e loro mi vedevano

    Non avevamo bisogno di un oculista per capire

    Ci ponevamo a vicenda su una base di visibilità

    e le nostre scopate non erano ipotetiche

    Adesso che ero mondana volevo correggere

    i nevosi occhi azzurri che si alzavano in volo da

    Brentwood per vedere Hendrix ma

    quando li fissavo

    subito si sfuocavano

    e diventavano sempre più chiari

    e

    niente di strano che Malcolm li chiamasse Diavoli”

  3. Io ho corso il rischio di diventare di destra per amore, ma quando tutto è finito, sono rientrata nei ranghi ;-)

    Molto simpatico il tuo scritto, anche se la mancata suddivisione in paragrafi rende un po’ faticosa la lettura (ma forse non è dispeso da te).

    Ho anche apprezzato il commento di Anna. Gli intelletuali di sinistra sono dei grandi snob. Una volta lessi l’elenco delle scuole private a cui molti dei suddetti mandano la propria “prole”, che è prole, ma non proletaria.

    • la mancata suddivisioni in paragrafi è voluta, nel senso che nei testi di questa serie non volevo che ci fossero pause, nè una “organizzazione”; però questo è più lungo degli altri, e forse hai ragione, la lettura tutta d’un fiato, quella a cui miravo, è più difficoltosa (me lo ero domandato anch’io); c’è da dire che la nostra formattazione ha delle linee lunghissime, che secondo me non aiutano per niente per niente il lettore;

  4. Bello! Ed è naturale che – soprattutto dopo gli anni di piombo – ci siano state le ‘evoluzioni della specie’, ovvero le evoluzioni delle ideologie che, uscite dal vitro nel quale forzatamente le abbiamo tenute, si sono poi applicate al genere umano. Come tutte le evoluzioni sono un po’ imprevedibili: dopo il banchiere anarchico (che però era già del 1922) potremmo dire che questo è il comunista col capitale (non quello di Marx). Mi viene in mente un racconto leggero ma interessante da questo punto di vista, quello di Colaprico, Arrivano i NAM, uscito quest’estate negli Inediti d’autore del «Corriere della sera»,dove vecchi militanti dei NAP e dei NAR, perdute le loro coordinate ideologiche, si trovano a ‘combattere’ a braccetto, diventando NAM…

  5. Io penso che non sia più questione di destra e di sinistra, ma di questioni specifiche, da affrontare di volta in volta, senza automatismi di pensiero. I cani di Pavlov hanno fatto il loro tempo…

    • io penso invece che oggi più che mai sia questione di destra e sinistra, nei principi generali – l’aspirazione all’eguaglianza e alla libertà – comme nelle questioni specifiche; e non mi sento per questo un cane di Pavlov, anzi

      • Beh, credo anch’io che non sia una questione di problemi specifici, il che implicherebbe che non ci sia possibilità alcuna di uscire dall’orizzonte ideologico che avvolge questa società.
        Tuttavia, anch’io devo sollevare obiezioni sull’uso di termini ormai divenuti così vaghi e consunti ceh sarebbe saggio interrogarsi sulla loro utilità effettiva oggi.
        Essere di sinistra, ad esempio, come lei dice nel senso di difendere gli ideali di eguaglianza e libertà, non mi pare adeguato. C’è ormai una tale retorica sul concetto di libertà che poi tutti i politici, nessuno escluso, si contendono, che sarebbe necessario fare una rivisitazione spietata del concetto di libertà.
        Ammetto che sull’eguaglianza non si hanno simili unanimismi, ma anche qui il dibattito si è isterilito, tutto centrato sull’eguaglianza economica, a partire quindi da un condivisione della centralità dell’aspetto economico, un’ovvietà anche questa che andrebbe sottoposta a una severa analisi.
        Per non citare l’uso che del termine sinistra si fa nella politica praticata, che certo ha contribuito a svalutare.
        Così, preferisco evitare i cartelli, gli emblemi così generici da prestarsi all’uso più disinvolto e tortuoso, ed entrare più nel merito delle teorie.

        In ogni caso, prosa di grande pregio, a me piace davvero tanto leggerla.

    • sabato mattina mi trovavo in una ottima pasticceria milanese a far colazione con i mie 2 cani quando ad una signora sono cadute da un piattino 2 brioches intere che lei ha raccolto e buttato nel cestino. Premetto che le brioches di quella pasticceria sono mitiche e che io odio gli sprechi. Magari l’igiene alimentare delle mie due creature ne avrebbe risentito ma moralmente non me la sono sentita di non suggerire loro di dare un’annusata al cestino e… miracolo, prima una – la più intraprendente- e a ruota la più timida, hanno estratto felici le rispettive brioches dal cestino e se le sono aspirate in un sol boccone. Adesso il problema e tenerle lontano dai cestini di qualsiasi tipo cercando di spiegare loro che solo in alcuni casi tali cestini si possono rivelare miracolosi.
      Cani a parte io sono convinta che una società senza ideologie abbia ben poco da offrire ai suoi cittadini. Probabilmente è tempo che i concetti di destra e sinistra vengano ridefiniti (ma come si può fare se i partiti sanno solo ridefinire i propri “marchi” e rispettivi inni mentre hanno perso da anni la capacità di condividere un programma ideologico prima e pragmatico poi?) a fronte di realtà politiche e storiche (prima ancora che economiche) così prepotentemente in mutamento – non mi riferisco solo al crolli/evoluzioni dei regimi comunisti, ma anche alla crisi delle principali democrazie minate da corruzione e lobbismo sfrenato, al crollo rovinoso e violento di dittature dispotiche-pleonastico-, fino al moltiplicarsi di stati religiosi di ispirazione islamica. Quasi tutto sta cambiando e a me sembra che le ideologie non riescano assolutamente a tenere il passo.
      Libertà ed eguaglianza sono ormai parole usurate e svuotate di qualsiasi umanità ma io credo che dare la colpa solo all’economia sia semplicistico. Certo è noto che chi detiene il potere economico influisce pesantemente su quello politico ma forse un grosso errore è stato quello di sottovalutare la diabolica combinazione di potere mediatico e democrazia -di massa-.
      E poi magari sperare che queste nuove ideologie siano accomunate da una capacità di dialogo per affrontare le singole problematiche anche in maniera sinergica e complementare per un concetto di bene comune (come pare riescano “comicamente” a fare solo con governi tecnici).
      Che pippone….scusate ma a volte mi lascio prendere..

      • secondo me il tuo cane che per primo ha messo il muso nel cestino è quello di sinistra (o comunque più a sinistra dell’altro, che anche in questo ha mostrato il suo conservatorismo); ma non mi stupisce che poi anche lui snasi adesso tutti i cestini(in realtà la destra ha sempre imparato dalla sinistra;
        cani a parte credo che hai ragione, è tutto da ripensare; ma qui io volevo scandagliare il lato del quale si parla forse meno: l’origine nell’individuo, perchè poi tutto parte da lì, delle “pulsioni” che poi diventano aspirazione all’eguaglianza e alla libertà (che appunto in questo momento non si sa più tanto bene cosa vogliano dire, però insomma sempre sono esistite e sempre esisteranno)

        • analisi perfetta, infatti la prima, quella più intraprendente, riesce a gestire una personalità schizoide in cui atteggiamenti sofisticati e snobistici non temono conflitti con una fame atavica e poco metaforica, un istinto da cacciatrice che la porta a ficcarsi sempre nei guai per poi seguire percorsi ritualizzati nell’attraversare l’androne di casa sempre troppo lucidato e scivoloso (in sostanza non si fida), mentre la “gregaria” ha un indole semplice, sempre allegra, da scugnizza napoletana che riesce a farsi benvolere da tutti per poi, appena ti giri un attimo, fregarti le pantofole… ma a fin di bene, voleva solo avere un tuo souvenir. E’ quella di destra che incita alla “passeggiata esplorativa” -quando andiamo in campagna- quella si sinistra senza la quale non si allontana, ma è quella di sinistra che ritorna zoppicante e tutta graffiata!
          Tornando alle “pulsioni dell’individuo” posso solo dire che non ne so molto e ne capisco ancora meno ma (c’è sempre un ma) credo che seppure esiste una innata e ancestrale tendenza verso la libertà e l’eguaglianza, nel momento in cui ci si sta avvicinando, nel momento in cui si è un poco più liberi o un poco più eguali, ci si vorrebbe sentire un poco più liberi e un poco più eguali di qualcun altro, anche solo per essere più protagonisti.
          Due altre piccole e sconclusionate considerazioni:
          1-mi sono ricordata che ci siamo ritrovati anche a discutere sul tuo “Nuovi autismi 14” e, pur rischiando di ripetermi, vorrei provare a banalizzare riportando in ballo il narcisismo. Mai come ora “esisto perché appaio” e il mio stagno potrebbe essere la pupilla del presunto amato, lo schermo televisivo -dove anele ad apparire o più banalmente in cui mi rifletto-, o semplicemente lo specchio del bagno dove controllo che il recente trattamento all’acido glicolico abbia fatto il suo sporco dovere, ma deve assolutamente essere il riconoscimento sociale del fatto che sono “di successo” ed essere di successo vuole dire essere di destra, ma a fronte di questa dilagante pandemia del narcisismo vuole anche dire che voglio semplicisticamente (e non semplicemente) esistere.
          (Beato te che riesci a sconfiggere la paura della morte solo accumulando più soldi, c’è che è messo molto peggio.)
          2-credo che un grosso limite della sinistra, perlomeno quello che a me ha impedito di militarci, sia stato il cercare di soggiogare l’individuo -o l’individualità (?)- e presupporre che siamo o dobbiamo essere tutti uguali perché una cosa è l’eguaglianza e un’altra, a mio avviso, l’uguaglianza.
          Il tuo disagio nel chiamare gli altri “compagni”, nel subodorare un che di settario e perciò di ancor più regolamentato, normalizzato rispetto all’organizzazione militaresca della famiglia – che mi aspetto da una ideologia di destra -che si limitava all’agito mentre qui si andava sul pensato, sul sentito io la considero un enorme limite di una ideologia che si fa paladina della libertà e dell’eguaglianza. Poi rischio di peccare di paternalismo pensando che, non essendo tutti uguali ma avendo tutti gli stessi diritti (eguali) , alcuni dovranno “occuparsi pragmaticamente” anche di altri – e questo forse è un pensiero di destra-.
          E’ proprio un bel casino secondo me, ma almeno si potrebbe, come hai fatto tu, iniziare a dubitare un pochino di più.
          P.S. come ha reagito tua madre quando ha saputo che “faceva la prostituta”? se non ti ha spennato vivo bisogna ammettere che pur essendo di destra sapeva essere sportiva…

  6. Ha ragione, Sartori, come non si può prendere le distanze da quella loro “destrezza”…

    Leggo sempre con piacere e divertimento questa serie di racconti.

  7. Questo Sartori mi piace, mi sono detto, per come scrive e per come pensa (nell’ordine che si vuole). La sinistra e la destra sono storia, che cambia e si svi-avvi-luppa, ma pur sempre storia. E ciascuno/a di noi (in questo arco di anni che poi non sono neanche moltissimi, diciamo gli ultimi 50, così, tanto per fare incontrare un po’ di generazioni differenziate) si è svi- o avvi- luppato/a in uno di questi grandi condomini. Poi, si sa, ci sono quelli/e che non mettono il naso fuori dalla propria porta e marciano sicuri/e, cascasse il mondo, come Totò terzo uomo; quelli/e che, invece, ascoltano e non possono non cogliere parziali verità – o, meglio, argomenti convincenti – anche nell’altro condominio. Poi però ricordano – la famosa storia – e non se la sentono proprio di cambiare condominio. E stanno continuamente a interrogarsi e a ‘qualificarsi’ in singole azioni e prese di posizione, che magari non saranno sempre ideologicamente coerenti, però forse avranno un buon senso e un’onestà intellettuale (sia detto positivamente, intellettuale tout court) che sarà bene difendere e valorizzare. Allora – de me fabula narratur, ovviamente, soprattutto quando ci si conosce solo come nazione indiana, che pure è un bel condominio – continuo a pensare che dirsi o sentirsi di sinistra significa in fondo riconoscere con onestà la differenza fra il proprio voler essere e il proprio essere e il proprio volere il mondo (la ‘società’) e il mondo che si conosce, e questo è già qualcosa. La differenza implica curiosità , essere vigili e attenti ai cambiamenti e a cambiare. E quando sento due che, nello stesso condominio, si accusano di essere di destra o di troppa sinistra mi verrebbe voglia di legarli come Alex il Drugo ad ascoltare, 24 ore su 24, Giorgio Gaber, che di questi dubbi ne capiva molto, ma davvero molto. Un saluto GS

    • sì, credo che abbia ragione, all’origine sembra proprio esserci quello scarto di cui parla tra il volere e l’essere; scarto che però contraddistingue l’uomo dalle altre specie, no? come dire, poi in certi individui è più spiccato (= quelli che in questo breve scorcio cominciato duecento anni fa pendono a sinistra), in altri meno (i conservatori, e immagino ci siano sempre stati);
      che poi si può chiamare anche “inquietudine”, perché naturalmente sul piano termodinamico e neurologico lo scarto genera entropia, movimento;
      in questa prospettiva le persone di sinistra non sono certo “meglio” (ci sono bravissime persone anche a destra, lo sappiamo tutti), ma appunto portano sulle spalle, incarnano, questo fardello dell’aspirazione al movimento
      (ma quando si è in due o più di due ci si divede i ruoli, anche questo è molto umano)
      e a proposito di liti di condominio: quello che mi ha stupito, leggendo il recente numero di Micromega sulla sinistra (nella mia ignoranza lo ho trovato molto interessante), è il bassissimo tasso di “settarismo”: ciascuno diceva la sua, ma senza dare per scontato di avere ragione, con anzi la ritenutezza di chi non sa tanto bene; mi è sembrato in fondo molto incoraggiante

  8. caro giacomo questo è uno degli autismi che mi è piaciuto di più, ci ho ritrovato quel ritmo straordinario di “Anatomia della battaglia”, come una sorta di fiume al tempo vorticoso e trattenuto, che non risparmia nulla e si trascina dietro tutto.
    Poi ovviamente è importante dirlo, ma senza la vaghezza da psicologi: “ognuno ha una parte fascista”. In effetti, la verità del tuo scritto è che essere di destra o di sinistra comincia con una certa fatalità, ma poi diviene una scelta, e come ogni scelta è assai difficile.
    Insomma, anche questo racconto, come già altri tuoi, è uno specchio impietoso.

  9. Ah si? Beh, ancora più confuso allora, perchè io mi schierai con il potere, credendolo giusto, e poi mi ci scontro duramente da decenni ed è uno scontro all’ultimo sangue, fatto anche di ricorsi a strasburgo,per violazioni di diritti dell’uomo …Se lo stato italiano è di sinistra io sono di destra e viceversa. Ma da che parte è lo stato italiano?
    Perchè nel corso della mia vita ho visto difendere le istituzioni corrotte che ho conosciuto a coloro, singoli e partiti che si proclamavano di sinistra!
    Mi ci ritrovo appieno nella descrizione sopra, anche io trovavo e trovo simpatici gli stati uniti, ma non Bush!
    Però, perchè taccia come di destra i ricchi? Quelli che sentiamo di continuo accusati di sparizioni multimilionarie di denaro pubblico sono sopratutto di sinistra e però è vero che i ricchi sono paraculi, stanno col potere e se è un potere di sinistra …son tutti di sinistra pure loro. Oppure di centro.
    Così, leggendo questo testo, ho capito …Fanculo a tutti! …;0)

  10. prima di cominciare qualsiasi tipo di mancata discussione in ogni caso vorrei sapere,e sono disposto a pagare “un pacco di miliardi” se lo stile di comunicazione imperante nelle alte caselle è da ascrivere all’autismo tipico del bocconiano(con Ser Soru in Sardegna abbiamo avuto un lampante esempio)o a quello da me impropriamente ribattezzato gonzo governance

    http://www.ghostwhisperer.us/Music/Various/Strawberry%20Alarm%20Clock%20-%20Incense%20and%20Peppermints.mp3

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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