di Franco Buffoni
Particolare il destino critico di E. E. Cummings. Sino all’inizio degli anni settanta per un critico letterario anglosassone era d’obbligo pronunciarsi su di lui. Con simpatia per i suoi funambolismi verbali e grafici, o con profondo disprezzo per la loro “futilità” o “inutilità”. Ma se ne parlava. La critica avversa cercava di dimostrare come nella sua opera non vi fosse evoluzione alcuna, o maturazione, progresso. Come, in sostanza, non vi fosse apporto degno di nota sul piano semantico alla lingua inglese, tale da giustificare l’oscurità delle trasgressioni sintattiche e grafiche.
I critici amici invece parlavano di effetto-jazz, di polilinguismo, di ricchezze vernacolari e di idioletto, configurandoli come l’espressione più coerente della sua ideologia anarchica.
Dalla seconda metà degli anni settanta in poi, su E. E. Cummings pare – in proporzione – essere calato il silenzio critico. Anche gli imitatori, i proseliti, i giovani che alla fine degli anni sessanta ancora istoriavano i loro quadernetti – e persino le pagine di qualche rivista – di poesie alla maniera di Cummings, sono completamente spariti. Può essere allora opportuno chiedersi: quando parliamo di sperimentalismo o di avanguardia in Europa – e, specificamente, in Italia – intendiamo la stessa cosa che intendono negli Stati Uniti?















