di Marco Mantello
C’è qualcosa di grottesco nelle ultime rivelazioni giornalistiche targate Bunga Bunga ed è il “come”. Se cadrà qualcuno, sarà l’Icona, non certo il sistema di potere che c’è dietro all’Icona, il Vaticano, la Brianza e il Nord Est interiori, le mafie e i reality show. Mi disturbano, non poco, le modalità della caduta, l’idea che l’importante è farlo cadere, perché penso al ‘dopo’.
Certo poi l’icona si logora più facilmente per il Bunga Bunga, e non per le politiche di precarizzazione del lavoro (il libro bianco di Biagi, tanto comodo alle redazioni dei giornali generalisti), non per la partecipazione italiana a una guerra collegata ai soliti interessi economici che ruotano intorno al petrolio e alle nostre ‘macchine’ (del resto su Repubblica, nei primi anni ’90, si leggeva: che c’è di sbagliato?), non certo le politiche sull’immigrazione a punti. Lo scandalo del Bunga Bunga, cioè la pratica collettiva e al contempo concorrenziale del ficcarlo nel culo, regge sul presunto trattamento di favore riservato a una minorenne africana dalle forze dell’ordine e su modelli di famiglia del tutto cristiani. Perfino le proteste di piazza sulle ultime sparate dell’Icona vengono fotografate, oggi, su Repubblica online, da cartelli del tipo: ‘meglio omosessuale che pedofilo’, con firma sotto: ‘padre di famiglia’. Come se l’uomo comune di turno, la parte migliore del paese, appendendosi l’indignazione al collo per il mancato rispetto della gerarchia delle ‘colpe’, dovesse chiarire a se stessa e al mondo che indignati sì ma froci no.













